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Il nuovo Moloch denominato Saoc – Sviluppo a ogni costo (vedi Energia, città, paesaggio, 22 giugno) – non demorde, anche in condizioni di recessione economica, riguardo a iniziative che richiedono immediatamente di depositare cose sul territorio senza ascoltare il suo parere, inoltre perforandolo, scavandolo, incidendolo, solcandolo, livellandolo, povero sordomuto disprezzato, odiato e vilipeso se nudo (arborato o no che sia) come la storia materna l’ha lasciato. Il caso dei cavallettoni con palettoni conformi, per catturare energia eolica procede sostenuto dai risoluti privi di dubbi, tanto più dopo la firma di quella specie di protocollo parolaio firmato dagli industriali del settore e da una parte degli ambientalisti. Parolaio: sicuro, parole, le solite che ormai ci fanno innervosire tanto sono insignificanti, …nel rispetto del paesaggio… valutazione di impatto… (la peggiore di tutte)… attenuazione… mitigazione… (dei danni, o bella). Nessuno parla di risparmio energetico, priorità assoluta, per noi, di un impegno da portare subito ad attuazione con provvedimenti mirati e poco costosi, antecedenti a qualsiasi decisione circa le fonti energetiche alternative al petrolio e al carbone: nessuno, intendo, di quelli seduti comodamente ai gradi alti della politica e dell’economia che detengano l’effettivo potere di orientamento e decisione.

La questione dello spreco energetico, sollevata qui dalla Carla Ravaioli come connaturato al modello di sviluppo capitalistico, e da me secondariamente raccontato a partire da esempi locali, pare non interessare minimamente i cultori delle discipline relative al territorio: è da questo punto di vista che oggi propongo la questione. Il territorio è lì, crinali di colline e montagne, pianura ventose (più o meno), coste, dove è, appunto, nudo all’aperto o nudo dentro il bosco, e aspetta. Lo preoccupano, certamente, i profondissimi fori e scassi, lo preoccupano lo schieramento bellico dei giganti a gambe aperte con la chioma turbinante, l’uomo un Grildrig come Gulliver a Lobrulgrud. Teme l’andirivieni dei mezzi, le strade per farli muovere, i condotti dei fili, il rumore, insomma lo sconvolgimento di sé. Ma, cari potenti nazionali e locali, volete ascoltarci? Possiamo andare avanti senza un piano energetico nazionale che la dica tutta sulle fonti, sul calcolo del fabbisogno, a partire dal progetto e attuazione accelerata del risparmio? Oppure è vero che, nonostante spreco significhi consumo inutile, la prospettiva di ridurre un qualsiasi consumo fosse anche il più cretino vi terrorizza, infatti perorate più consumi più consumi più consumi per risolvere (illusi) la crisi produttiva? Non accettiamo la tessera di contrari all’eolico tout court, vogliamo solo che si esprimano ragionamenti, si indichino strategie, attitudine perduta dai tempi della miglior politica dei progetti e dei confronti: oppure si dica chiaro che dobbiamo lasciar tutto in mano al caso, anzi, poiché il caso corrisponde al dominio dei padroni della rendita fondiaria ed edilizia, del profitto legittimo e no, del lucro esoso commerciale, proprio a questi lasciamo tutto in mano.

Analogo al tema dell’energia il tema dei rifiuti e scarti urbani, anzi collegabile direttamente giacché sappiamo che da certo trattamento dei secondi può ricavarsi la prima. Ma il punto, per ora, non è questo. Ancora una volta è in causa il territorio, l’urbanistica, il piano e il progetto dei luoghi. Lascio da canto il problema dello smaltimento in determinate regioni del Mezzogiorno, uno scandalo conosciuto. Anche in quest’ambito, come nella priorità da assegnare al risparmio energetico di contro a pesanti interventi lesivi del territorio e della società, non si deve procederesecondo decisioni non discusse e confrontate, attraverso imposizioni politiche sia della tecnica sia della localizzazione: come giustificati dal colpevole ritardo nel trattamento del problema complessivo a partire dalla diminuzione del consumo giornaliero.

Ho letto cosa sta succedendo in Toscana (pagine regionali dell’Unità). Sorprendente (fino a un certo punto) scontro dentro la sinistra. Firenze e circondario, lì “siamo avanti”, si direbbe. Infatti si tratta di termovalorizzatori invece che di inceneritori dei rifiuti, quasi che il roboante termine composto potesse nascondere che bruciare si deve in ogni modo. Ecco, se il calore non lo si butta via è una buona cosa. Ma nella famosa Piana pratese-fiorentina un nuovo impianto è un altro colpo al nostro personaggio-territorio che già ne ha subiti non pochi. Impianti di questo tipo costituiscono veri e propri insediamenti industriali complessi e massivi, imponenti, senz’altro inquinanti un diversi sensi. Il povero territorio deve tacere. Ma non ha taciuto il sindaco di Campi Bisenzio, mentre una pesante diatriba all’interno del partito dei Ds toscano non poteva essere completamente coperta dall’autorevolezza delle voci del presidente Martini e del potente sindaco di Firenze Domenici. Sarebbe pronto un “protocollo” di intesa fra i Comuni di Firenze, Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio per la costruzione del termoecc. localizzato fra Campi e Sesto, già sacrificati in passato per discariche e primo impianto moderno. Ma il sindaco di Campi, Fiorella Alunni, una donna dei Ds battagliera e ragionante col proprio cervello, sostenuta da quasi tutti i consiglieri della maggioranza di sinistra, ha negato finora la propria firma sul punitivo accordo. Non è convinta di una scelta fatta senza alcun riguardo all’enorme peso territoriale dell’impianto in sé e di tutte le violente infrastrutture che con sé trascinerà, senza la definizione democratica di una strategia almeno a scala regionale, tanto più necessaria quando si voglia essere moderni nella scelta di tecnologie d’incidenza territoriale e sociale assai pesante. Gli altri due sindaci contraenti – Gianni Gianessi il sestese – minacciosi, vogliono firmare da soli e isolare così la troppo cocciuta signora; un po’ di femminilità nel partito va bene, ma deve essere dolce, elegante, un sindaco donna può ben accontentarsi di una tale carica, cos’altro vuol pretendere? Che il termoecc. costituisca uno sconvolgimento territoriale è dimostrato dal mucchio di regalie e di promesse di risarcimento ai comuni di Campi e Sesto. Una pioggia di soldi, titolava un articolo nei giorni scorsi. E il punto nodale della riduzione dei consumi, dello spreco consumistico? Il partito zitto, qualche trafiletto di esterni, come Manconi. Eppure questo dello spreco nei consumi parrebbe un argomento più che mai attuale. Non c’è contraddizione con la pretesa, enunciata da ogni parte, di sostenere e rilanciare la spesa delle famiglie in una fase difficile dell’economia. Infatti non è con il consumismo, vale a dire coi consumi inutili, che l’economia e la società potranno ritrovare l’equilibro fra durevole vitalità dell’industria e benessere ragionevole delle popolazioni. I peggiori prodotti insensati, i peggiori fra i beni di scambio – così le parole ai vecchi tempi – non possono rappresentare la base produttiva sicura e indiscutibile di un paese i cui cittadini aspirino ai più alti livelli di civiltà e modernità. Modernità significa ricupero e rafforzamento dei valori storici sui quali la popolazione ha costruito i propri caratteri migliori, e negazione dei retaggi ignobili (esempio il servilismo, l’opportunismo, il trasformismo). De Lucia scrive che nell’urbanistica serve un’analisi di classe, in senso marxiano (14 luglio). Ugualmente la questione di una produzione e un consumo dai quali possa derivare un’effettiva riduzione dell’usa e getta, alla fine una forte riduzione dei rifiuti e degli avanzi che risparmierà anche al territorio un po’ delle sue pene. Ritorniamo saggiamente a privilegiare i necessari beni d’uso, di per sé quantitativamente limitati soprattutto se di buona qualità; esercitiamo giorno dopo giorno la cultura del disprezzo dei puri beni di scambio, e di coloro che ce li vogliono imporre: a cominciare dagli oggetti materiali e immateriali smaccatamente offensivi delle persone dotate di buonsenso.

Milano, 18 luglio 2005

[Questa "opinione" è stata pubblicata sul manifesto, giovedì 14 luglio 2005]

Il nome di Keynes è referente costante della letteratura economica di sinistra. La cosa non stupisce, se la sua attenzione al sociale ha indotto l'ala più conservatrice della disciplina a guardarlo con sospetto o addirittura a ritenerlo un pericoloso sovversivo. Ciò che invece lascia perplessi è la, non rara, assunzione in toto del suo discorso sia nell'analisi del presente che nel tentativo di programmare il futuro. Keynes è una delle più grandi intelligenze del pensiero economico e non solo, ma ha vissuto e scritto nella prima metà del Novecento, cioè di un secolo segnato da un'accelerazione della storia forse senza precendenti nella vicenda umana. Se rimane validissimo l'impianto filosofico e politico del suo lavoro, difficilmente sembrano accettabili certe fedeltà letterali alle sue parole e la volontà di riprodurne il dettato in normative da porre in essere oggi. Per cominciare, quando Keynes pensava e scriveva, più produzione di regola significava più occupazione. Più produzione e produttività erano infatti allora conseguibili senza scaricare sul lavoro tutti i costi che il mercato non tollera; senza imporre precarietà, insicurezza, ricatto, come regola del rapporto tra capitale e lavoro; senza «snellire» al massimo il corpo aziendale (cioè licenziare massicciamente e liberamente); senza delocalizzare la produzione, in toto o in parte, verso paesi di salari stracciati e lavoro senza diritti e tutela alcuna. Tutte cose oggi invece divenute normali pratiche di politica aziendale. Tutte cose che di fatto hanno cancellato la vecchia equazione «più produzione = più occupazione». Accanto alle quali va poi considerato il fenomeno migratorio, di misura e qualità ben diverse dall'emigrazione del secolo scorso, che fatalmente incide su impiego e salari del paese «di accoglienza»; e, più ancora, l'evoluzione tecnologica, che da gran tempo faceva problema agli effetti dell'occupazione, ma che negli anni `30-40 era ancora ben lontana dalle conquiste attuali.

In questa situazione è ancora lecito richiamarsi a Keynes, ostinatamente auspicando aumento del prodotto a fini occupazionali? Ma soprattutto il nome di Keynes, esplicito o sottinteso, costituisce il più autorevole avallo alla fede pressoché universalmente indiscussa nella bontà dell'accumulazione capitalistica. Ciò che peraltro non appare improprio: è fuor di dubbio infatti che la convinzione della necessità di produrre e accumulare sovrappiù gli appartenesse. Ma stranamente pochi sembrano ricordare i precisi limiti da lui previsti per questo processo, limpidamente indicati in particolare nel prezioso gruppo dei suoi saggi cosiddetti «minori». «L'umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico» - scriveva nel `30 - e una volta «fuori dal tunnel della necessità economica», potrà concedersi di lavorare non più di tre ore al giorno e spendere a piacere il resto del proprio tempo; e darsi così una vita in cui non avranno più motivo di esistere usura, avarizia, amore del danaro fine a se stesso, «passioni morbose e un po' ripugnanti», anche se «utilissime nel produrre e accumulare capitale». E' in questi passaggi che Keynes manifesta senza riserve la sua totale mancanza di simpatia per il capitalismo, che pure è stato oggetto centrale di riflessione e lavoro della sua vita; e più volte esprime nei suoi confronti una sorta di aristocratica insofferenza, definendolo «né intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso», trattandolo come qualcosa che si era costretti a sopportare, e anche a darsi da fare per aggiustarlo in qualche modo, dato che al momento, e almeno per qualche tempo ancora, non si vedeva come sostituirlo: sempre però fermamente rifiutando di credere alla ineluttabilità e eternità delle sue «leggi».

Trovo scorretto e vano pretendere dai classici risposte a ogni sorta di problemi, anche quelli all'epoca loro inesistenti. Forse però nel caso di Keynes non è del tutto illecito provare a domandarci che cosa penserebbe oggi, di fronte a una realtà in cui il processo di accumulazione, anche se non sempre al ritmo trionfale mantenuto per lunghi periodi, ha continuato il suo cammino ininterrottamente, e tuttavia moltissimi sono le persone e i popoli che nemmeno intravvedono l'uscita dal tunnel della povertà più disperata, e i senza-lavoro nel mondo si calcolano sul miliardo e mezzo, e la fetta più grossa del reddito prodotto va ad accrescere la ricchezza dei già ricchi, mentre i poveri diventano più numerosi e più poveri. Possiamo giurare che, in presenza di tutto ciò, sosterrebbe ancora la necessità di continuare a produrre e accumulare indefinitamente capitale, come con pertinace perseveranza sembrano ritenere i suoi seguaci ed epigoni? Magari aggrappandosi alla considerazione che quel centinaio d'anni da lui nel 1930 previsto come necessario per cancellare i guai peggiori del mondo, non sono ancora del tutto trascorsi? E quale posizione avrebbe assunto Keynes se avesse assistito all'esplodere del fenomeno consumistico - masse sempre più numerose di individui che non sembrano più trovare senso e identità se non nel desiderare, comprare, possedere, usare, gettare merci - lui che invitava a ridurre allo stretto necessario gli impegni di ordine pratico per «coltivare l'arte della vita»? E che avrebbe pensato di una società in cui l'economia, incontenibilmente debordando dagli spazi dovuti alla sua indispensabile funzione, ha invaso il pubblico dibattito e l'intera esistenza della collettività, dovunque imponendosi come dimensione prioritaria, fino a creare una sorta di identificazione tra sintesi sociale e sintesi economica, lui che esortava: «Guardiamoci dal sopravalutare l'importanza del problema economico, o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza», invitando a trattare l'economia come una semplice questione tecnica, qualcosa di simile all'odontoiatria?

C'è poi un altro fenomeno, non di poco momento, di cui Keynes non ha avuto vita abbastanza per cogliere se non i primi allarmi, e che però non si può ignorare in questo contesto. Calotte polari che si sciolgono, deserti che si dilatano, acqua che scarseggia, cicloni alluvioni tifoni che si moltiplicano e più distruggono, clima sconvolto, foreste dimezzate, tossicità diffusa... Il tutto (perfino Bush sembra ormai accettare l'idea) causato dalle attività umane in incontenibile espansione... Che ne direbbe Keynes, lui che già allora si preoccupava per la salvaguardia dei monumenti e delle belle campagne inglesi? Nessuno può rispondere a queste domande, ovviamente. Ma non è proibito sognare. Io sogno che la classe politica mondiale un giorno o l'altro riesca a esprimere qualcuno come lui.

Il 19 maggio 1984 “la Repubblica” pubblicava una mia intervista, il cui titolo si adatterebbe perfettamente alla situazione d’oggi: Processo al traffico, la parola agli esperti. “Parcheggi in centro un errore”. Un mese prima avevo scritto un articolo per “Polinewsia”, il mensile del Politecnico, Milano uno spazio in sfacelo, nel quale denunciavo fra l’altro l’assurdità di un programma di parcheggi basato sulla costruzione di silo sotterranei nel cuore della città. A quel momento, amministrazione comunale di sinistra, assessore al traffico e trasporti l’ingegner Vittorio Korach, un primo elenco di autorimesse sotterranee in suolo pubblico comportanti la concessione ai privati di un diritto di superficie che denominai “diritto di strato terrestre” parve incredibile, tanto disinteresse rivelava per luoghi milanesi dotati di specifici caratteri urbani: Piazza degli affari, Piazza della Vetra, Via Unione, Piazza Meda, Piazza Liberty, via Croce Rossa, Via Cusani. Intanto erano in costruzione avanzata gli autosilo di Via San Barnaba e di Via Vittor Pisani (quest’ultimo famoso in seguito per essere rimasto semi-deserto). E il programma procedeva oltre: Via Marina (lo spazio alberato che ogni amico di Milano vorrebbe vedere integrato ai giardini di Villa reale e di Via Palestro), Corso Europa, addirittura Piazza Fontana: di nuovo, difficile crederlo. Eppure era ancora fresca la memoria del primo massacro di piazza storica nel centro a causa di una gigantesca autorimessa sotterranea, quella di Piazza Borromeo. Il modello sbagliato già si affermava qua e là. Piazza Diaz, Largo Corsia dei Servi, Via San Pietro all’Orto…

Quanto alle ragioni degli interventi, l’amministrazione svariava da “per i residenti” – quando nella maggioranza dei posti deputati non abitava quasi nessuno – a “per le esigenze del traffico operativo” (ossia gli spostamenti degli addetti al commercio e alla finanza) secondo una curiosa contraddizione: alla domanda fatta all’assessore, perché favorire iniziative tese a realizzare nuovi parcheggi sotterranei privati? Diamine, fu la risposta, per liberare parti delle reti stradali da attrezzare per la sosta operativa…

Comune di sinistra, Comune di destra: non sembrano trascorsi due decenni. Il livello politico culturale è il medesimo: basso, dal punto di vista dei principi urbanistici, perfino sorprendente. Mi spiego. La logica delle autorimesse sotterranee ha comportato una forte accelerazione, giacché, come allora, è il convinto assessore (ora il professor Giorgio Goggi) a spingere senza ascoltare perplessità e critiche, senza mitigare precedenti velleitarismi. Si sono costruiti “per residenti” (presunti) silo sotterranei dotati di un primo piano destinato a parcheggio a rotazione. Le norme definite dal Comune richiedevano una stretta pertinenza fra localizzazione dei box interrati e la residenza dei possessori, sicché si doveva circoscrivere un’area urbana precisa che sancisse i diritti. La prima realizzazione di grandi dimensioni, probabilmente decisa prima dell’insediamento della nuova giunta, fu quella di Via Mascagni, circa 700 box lungo le vere e proprie strade sotterranee che corrono dall’ingresso all’angolo con la cerchia del Naviglio, Via Visconti di Modrone, all’ingresso vicino alla circonvallazione, Viale Bianca Maria. Il rispetto dell’area urbana di pertinenza ebbe un effetto prevedibile: la domanda non era sufficiente. Così si cominciò ad allargare l’area, fino a giungere allo spazio dell’intero comune! Molti acquisti furono man mano solo investimenti per affittare a pendolari. Già nel caso di questa autorimessa, sempre troppo centrale ma in ogni modo al margine del piccolo cuore spopolato, il proposito di servire i residenti di zona (prezzi a parte) appariva in parte pretestuoso. Ora l’inganno sembra provocazione: autosilo interrato in Piazza Meda, già avviato (ma non ci sarà quello nuovo del dismesso garage di Via Bagutta trasformato in grande magazzino?), in Piazza Fontana davanti al Palazzo del Capitano del Popolo… e quali altri luoghi meno abitati e più monumentali dello spazio segnato dalla fontana del Piermarini o dalla scultura di Pomodoro avranno in mente i nostri per fornire all’inesistente residente il suo inacquistabile box? e per abbattere definitivamente qualsiasi speranza di fermare le automobili prima che possano entrare nella navata centrale del Duomo? Che i parcheggi nel centro, monumentale e no delle città, dedicati al “traffico operativo” di korachiana memoria o, peggio, ai turisti costituiscano un richiamo, come una lampada per le farfalle notturne svolazzanti nei dintorni, lo capiscono anche i primini; realizzarli dove dovrebbe vincere la pedonalità o perlomeno il calming traffic diventa una colpa grave nei confronti di tutti, anche di coloro che non si sentono legati a questa povera Milano. Nel frattempo l’assessore, invece di impegnarsi per realizzare i grandi parcheggi esterni d’interscambio col mezzo pubblico, cerca, ancora, di realizzare silo sotterranei per residenti che non li vogliono guarda caso in aree ricche di alberi e prati, o in luoghi come la Darsena che a nessun autentico milanese sarebbe venuto in mente di rinnovare mediante strati di automobili al di sotto delle mai più viste barche.

Sulla facciata del Palazzo di giustizia di Milano, in corso di restauro, cono stati montati due giganteschi pannelli pubblicitari (per la Lancia). Ventiquattro riflettori li illuminano in maniera accecante dalle 20-21 (quando è ancora chiaro) alle tre-quattro, quando da ore non transita più nessuno che possa goderseli. Semmai li subiscono i pochi abitanti resistenti (termine che propongo di usare al posto di residenti nei centri urbani spopolati) quasi dirimpettai, se non calano le serrande delle finestre senza lasciare il minimo distacco fra le stecche. Ogni fonte assorbe non meno di 5.000 watt, in tutto si tratta di 120.000 watt impiegati per circa otto ore allo scopo di farci sapere anche di notte, se abbiano il coraggio di alzare lo sguardo, che “loro” (chi, la fallimentare Fiat?) “sono contro il brutto” (questo lo slogan ripetuto sul margine inferiore dei pannelli). Impianti simili, tutti egualmente impressionanti per dimensione e/o per quantità di fari e loro potenza, ce ne sono dappertutto in città, dal centro alla periferia. A Milano l’odierna attività edilizia dominante e diffusa consiste nei restauri-ristrutturazioni, nella pulizia e ridipintura delle facciate, negli orribili sopralzi e trasformazione dei sottotetti in bei palazzi: tutte opere che, quand’anche non implichino lavori particolarmente gravosi, richiedono incastellature a tutta facciata che, appunto, diventano struttura del colossale cartellonismo. Inoltre c’è la piena disponibilità, per pannelli iperilluminati, di migliaia di metri quadri di cesate di cantieri in avvio o sospesi o di aree “in attesa”. Anni fa si cominciò a discutere della terza forma di inquinamento dopo quella atmosferica e quella da rumore: l’inquinamento luminoso, appunto, da considerare sia entro la questione del risparmio energetico, sia riguardo ai danni visivi. E non imperversava ancora in pieno questo tipo di pubblicità. Semmai si lamentavano tre fenomeni: l’eccesso di illuminazione pubblica in certe zone, e di quella privata nelle vetrine; la presenza, al di là di ogni effettiva utilità, degli apparati luminosi potentissimi su pali da venti metri per rendere sicuri – pretendeva l’amministrazione pubblica – determinati incroci, rotonde, cavalcavia, spazi più o meno verdi frequentati da homeless e immigrati (si voleva ostacolare l’uso delle panchine per la notte); la trasformazione dei monumenti più rilevanti in architetture fantasmatiche a causa di assurde luci dirette o riflesse. Tutto è andato in mona. Dell’aria si sa, sono mesi che i livelli dei diversi gas non sono misurati per evitare gl’interventi obbligatori; quanto al rumore (problema peraltro connesso all’uso di energia), non solo non si è adottato alcuna regola, ma si è assistito e si assiste ogni giorno a un incredibile peggioramento dovuto specialmente all’aumento dei motorini fuori legge e di ogni tipo di motociclette. Intanto, in questa città dotata di migliaia di magazzini d’abbigliamento, di altrettanti bar deputati a sfamare gl’impiegati nella sosta del mezzodì, di migliaia di palazzi destinati esclusivamente ad uffici, di grandi cinema, multisala e no, sono partiti gli impianti di condizionamento dell’aria. I quali, se non raggiungono il primato del differenziale fuori/dentro di una Phenix (Arizona), fino a venti gradi!, si battono bene all’italiana con un 10, 15 se la temperatura esterna raggiunge i 35 gradi.

Tutto questo ho pensato dopo aver letto certi articoli e la nuova discussione in eddyburg intorno al problema energetico e al caso particolare dell’ energia eolica. In primo luogo, la deprimente ennesima divisione, se non lo scontro, fra i movimenti ambientalisti. In secondo, il solito gioco delle accuse immotivate di conservatorismo a chi perora cautela nelle scelte, a chi non è disposto ad accettare danni irreversibili al territorio e al paesaggio in nome del dio Saoc (il nuovo Moloch Sviluppo ad ogni costo – economico ma più che altro cementizio). In terzo, contrapposte, la stranezza della posizione di un Edo Ronchi (il responsabile delle politiche della sostenibilità per i Democratici di sinistra), e l’irritazione di un Vittorio Emiliani, il presidente del Comitato per la bellezza. Il primo ha minimizzato la violenza d’impatto dei mulini a vento sul paesaggio italiano a causa della… mancanza di quest’ultimo: vale a dire, non facciamone un dramma, giacché poco resta del Bel Paese. Il secondo ha rimbeccato il primo ricordandogli che qui siamo in “quello che era ritenuto il Giardino d’Europa” e che fortunatamente vi governano regionalmente tipi come i Soru e i Vendola fautori di politiche energetiche non avulse dall’obbligo di tutelare il paesaggio. Da che parte stai? Qualcuno potrebbe domandare. La risposa è fin troppo scontata, stante l’ingenua idiozia della posizione di Ronchi. Tuttavia, se vogliamo utilizzare il pretesto energetico per discutere della bellezza sì/no del nostro paese, dovremmo aprire un’inutile discussione, giacché ampiamente superata da un mucchio di articoli, lettere, interventi, eccetera; per parte mia, poi, metto a disposizione l’intera raccolta degli scritti in eddyburg da quando vi intervengo. Il termine Malpaese, coniato da Giovanni Valentini ormai da un paio d’anni, è entrato nell’uso corrente. Emiliani, poi, rappresenta, insieme a Francesco Erbani, il meglio della cultura dedita a denunciare, come fossero novelli Cederna, le incredibili malefatte che il territorio e le città italiane hanno dovuto sopportare, anzi, che a un certo punto non hanno più potuto sopportare. Ultimo tocco, sul quale meditare, la relazione di questi giorni proprio del presidente Emilani riguardo all’incessante fenomeno di spopolamento e depauperamento di valori umani dei centri storici, contraltato dallo sprawl periferico di raggio sempre maggiore e dalla distruzione pura e semplice del paesaggio agrario. Allora? Dato per acquisito il giudizio su un’Italia disgraziato paese che ha mangiato in gran parte se stesso, è doveroso cercare di trasmetterne i residui nobili alle nuove generazioni (anche se potrebbero non sapere che la bellezza esiste...) e dunque preservarli da qualsiasi insolenza sviluppista, alias sovraimpiego di energia spacciato come irrinunciabile. Non sta a me, qui, non competente in fisica energetica, dare contributi alla soluzione del problema in senso tecnico, ma tengo a dichiararmi completamente in sintonia con la Carla Ravaioli (rileggi Energie rinnovabili e capitalismo, 12 giugno). Come compito generale “individuare la radice dell’insostenibilità sociale non meno che ecologica del nostro paese, e su questa base impegnarci”. Come scelta particolare prioritaria, semplice, pratica, facile da attuare perché non solo diminuisce i danni ma aumenta la qualità della vita, “risparmio energetico”, ma “non solo quello della sola ‘cosiddetta’ efficienza”, bensì “quello di un forte e progressivo contenimento della crescita, razionalmente pianificato e gradualmente attuato: insomma un modello economico e sociale diverso da quello oggi ovunque vincente”. Tuttavia si parta da quella “follia del nostro tempo” di cui fanno parte gli avvenimenti milanesi da me descritti, rispecchianti accadimenti analoghi in tutte le città: purché gl’indirizzi che le autorità deputate dovranno individuare, e i nuovi responsabili comportamenti dei cittadini che dovranno affermarsi non approdino a mere illusioni, dichiarazioni prive di atti davvero incisivi per bloccare e poi alleggerire l’insostenibile pesantezza dello spreco e dell’abuso. Una specie di lotta all’evasione fiscale, la lotta per ricuperare l’energia buttata via senza costrutto; poi per trasformarla in effettivo bene d’uso, coerente al bisogno sociale reale, misurato anche in rapporto alla povertà in buona parte dei paesi del mondo e allo scambio ineguale cui sono costretti dal dominio del capitalismo occidentale. Sperando che i risultati saranno all’opposto di quelli ottenuti nella lotta all’evasione fiscale, condotta senz’armi e soprattutto senza volontà di farla sul serio. Forse temevano, le autorità, che un forte ricupero di risorse monetarie (l’evasione totale ammonta a circa 130 miliardi di euro, cioè oltre 250.000 miliardi di vecchie lire) avrebbe gettato il paese in una condizione deflazionistica, con gran terrore dei produttori, ancor oggi rimpiangenti l’alta inflazione garanzia di esportazione per prodotti mediocri, e degli speculatori d’ogni risma (finanziaria, fondiaria, edilizia, commerciale…). Così, il ricupero energetico di una forte quota di MW troverà molti nemici, dal momento che il modello economico-energetico-sociale d’oggigiorno soddisfa troppi appetiti, è troppo redditizio (la pelle dei cittadini non conta) perché i poteri che contano decidano di limarne gli assetti inaccettabili, tanto appaiono assurdi, stupidi a un cittadino ancora dotato di un barlume di sentimento critico.

Nuove voci e nuovi contributi dimostrano l’importanza del dibattito avviato da Eddy Salzano a partire dalla Lettera indirizzata da Mario Agostinelli e Massimo Serafini a Niki Vendola (il manifesto 8 giugno) con l’invito a ripensare la moratoria sull’eolico prevista per la Regione Puglia. In realtà l’entusiasmo con cui gli ambientalisti, e non loro soltanto, contano sulle energie rinnovabili per la difesa dell’ambiente rischia di sottovalutare, o addirittura ignorare, le conseguenze negative che anch’esse, praticamente senza eccezione, comportano. Soprattutto quando il complesso apparato tecnico necessario all’utilizzo della nuova produzione energetica che - come Eddy lucidamente e dettagliatamente illustra - poco o tanto sempre modifica e compromette il territorio, viene interamente affidato all’industria, in totale assenza di un intervento regolatore di parte pubblica.

E il rischio è tanto più grave in quanto l’industria, che ovviamente risponde solo a interessi di profitto e di mercato, e le politiche economiche che anch’esse - ormai concordemente e senza distinzione di parte - guardano il mercato come loro referente prioritario, insistono in una forte pubblicizzazione di ogni novità relativa alle energie alternative, creando in tal modo euforiche aspettative di un futuro libero da inquinamento e da scarsità energetica, e pertanto privo di ogni remora nello spingere la produzione e incentivare la crescita, secondo il dogma imperante. E’ quanto con grande chiarezza dice Luigi Longo con un intervento che mi trova pienamente d’accordo, in cui pone la domanda cruciale: più energia rinnovabile sì, ma per quale obiettivo? E’ un problema di cui anch’io mi sono ampiamente occupata in un altro articolo (“Innovare non basta più”, il manifesto 1 – 4, ripreso anche da Eddyburg) e su cui non mi soffermo oltre. Desidero invece sollevare un altro punto.

Agostinelli e Serafini sono due miei vecchi amici. Due persone che stimo e che certo vogliono le stesse cose che voglio io: cioè non solo la salvezza dell’ambiente, e della specie umana che ne è parte, ma anche, anzi prima ancora, un mondo meno orrendamente iniquo. Non sono certa però che ciò sia possibile solo mediante la definizione e la messa in opera di “un modello energetico nuovo e pulito”. Perché non credo che, come affermano in apertura della lerra a Vendola, “guerra, mutamenti climatici e inquinamento crescente sono i frutti avvelenati del modello energetico fossile e nucleare”.

O meglio: certo il modello energetico che oggi domina l’universo produttivo è la causa immediata del mutamento climatico, oltre che una delle principali cause dell’ inquinamento crescente e di non poche guerre. Ma a monte del modello energetico, come di tutte le altre cause dell’inquinamento e degli innumerevoli conflitti armati, sta il modello economico e sociale capitalistico: il quale si regge sull’accumulazione, cioè a dire sulla crescita produttiva esponenziale, che significa da un lato consumo e degrado di risorse segnate da limiti precisi e non oltrepassabili, e dall’altro bisogno di quantità crescenti di energia. Per questo, se è vero (cosa su cui sono d’accordissimo, sia ben chiaro) che un modello energetico diverso è fondamentale per un futuro “più giusto e sostenibile”, sono altrettanto convinta che occorra andare oltre, individuare la radice dell’insostenibilità sociale non meno che ecologica del nostro esistere, e su questa base impegnarci.

Una volta abbattere il capitalismo era l’obiettivo dichiarato delle sinistre. Oggi nemmeno le sinistre radicali ne parlano più. Ciò che tutti mettono sotto accusa è il neoliberismo, o la globalizzazione neoliberistica. Come se fossero poi altra cosa dal capitale. Amici miei, non credete che se ne debba discutere, magari recuperando la vecchia ma sempre valida idea che il capitalismo dopotutto è un fenomeno storico, e così come è nato, una volta o l’altra dovrà anche finire? E che magari darsi da fare a questo scopo non sarebbe male?

Un’ultima cosa, più a portata di mano. Oltre alla promozione di fonti rinnovabili, dicono Agostinelli e Serafini, la strada da imboccare è quella del risparmio energetico. Ancora d’accordo. Soprattutto se risparmio energetico non sarà solo quello della cosiddetta “efficienza” (che certo riduce in qualche misura il consumo di energia e di materie prime per unità di prodotto ma, in presenza di una forte e continua crescita produttiva, serve soltanto a ridurre l’aumento di consumo e di inquinamento causato dalla moltiplicazione delle unità prodotte), e sarà invece quello di un forte e progressivo contenimento della crescita, razionalmente pianificato e gradualmente attuato: cioè a dire insomma un modello economico e sociale diverso da quello oggi dovunque vincente.

Ma non è di massimi sistemi che volevo occuparmi (il guaio è che, non a caso, i problemi di fondo rispuntano sempre, da qualsiasi parte si incominci a ragionare). Quello che voglio fare a proposito di risparmio energetico, è segnalare quella follia del nostro tempo secondo cui la possibilità tecnica di riscaldare le nostre case d’inverno e refrigerarle d’estate, la usiamo non per alleviare il disagio termico che le stagioni comportano, ma per capovolgerlo: regolando la temperatura degli interni sui 17-18° quando fuori ce ne sono 36-40 o più, e sui 24-25° quando fuori siamo vicini allo 0 o magari parecchio sotto. Riuscendo insomma a soffrire il freddo d’estate e il caldo d’inverno, oltre a procurarci malanni bronchiali, reumatici, artrosici, ecc. Correggere questi comportamenti comuni a tutto il mondo (compreso il Sud, dove anzi supercaldo e superfreddo spesso raggiungono livelli impensabili), mantenere gli interni a non sopra 21° d’inverno e non sotto 27° d’estate, non significherebbe un buon risparmio energetico? E un buon risparmio anche per i bilanci dei dicasteri della sanità? Perché non incominciare subito?

La lettera di Agostinelli e Serafini

L'eddytoriale n. 74

I materiali del dibattito tutti nella cartella Il nostro pianeta

Nell’ampio dibattito dedicato da Eddyburg allo scontro apertosi tra Italia Nostra e Legambiente sul progetto della metropolitana C di Roma, ha trovato particolare attenzione l’articolo apparso su La Repubblica il 24 maggio, a firma di Giovanni Valentini, giornalista noto e apprezzato per il suo impegno in difesa dell’ambiente. Il quale ora sembra però cadere nella trappola dello sviluppismo, come nella sua bella e appassionata “urgente invettiva” gli rimprovera Lodo Meneghetti. E si avventura nell’auspicio di un “ambientalismo sostenibile”, che con tagliente eleganza Eddy Salzano gli dimostra contraddittorio e illogico, fino a definirlo senza mezzi termini “una bestialità”.

Difficile non essere d’accordo. In effetti di fronte al distinguo lucidamente messo a fuoco da Giuseppe Chiarante e Vittorio Emiliani tra l’inestimabile valore “in sé e per sé” rappresentato dai beni culturali e ambientali, e la loro “messa a reddito”, Valentini con esplicita chiarezza opta per la seconda linea. Dichiarando possibile “un modello economico-sociale imperniato sulla tutela e sulla valorizzazione dell’ambiente come regolatore dello sviluppo, come valvola di sicurezza per la salute dei cittadini, come relais di un capitalismo moderno…”. E spiegando: “L’obiettivo è quello di coniugare la salvaguardia dell’ambiente con il rilancio dello sviluppo, tanto più importante in questa fase per un Paese come il nostro povero di materie prime e ricco invece di un patrimonio inestimabile fatto di verde, mare e coste, monumenti e chiese, quadri e sculture.” Insomma alleandosi con i sempre più numerosi alfieri di uno sfruttamento intensivo delle qualità storiche, culturali, artistiche, climatiche d’Italia al fine di aiutare la “ripresa”, mediante adeguata produttività e competitività in campo turistico. Con le conseguenze non proprio entusiasmanti per l’ambiente, e nemmeno per il turismo, di cui ho già parlato in questo sito, ma che non sembrano preoccupare in alcun modo Valentini, convinto - immagino - che si tratti solo di ubbie da ambientalismo “vecchio e nostalgico”, chiuso nel “castello incantato”, incapace di mettersi in gioco “per conservare da un lato e valorizzare dall’altro”: quello, per intenderci, “delle contesse”, come un tempo lo chiamava certa sinistra. Ma altre cose dice Valentini.

“L ’ambiente per l’uomo, l’intero genere umano, non contro l’uomo. L’ambiente al servizio dell’uomo, e naturalmente della donna, non l’uomo e la donna sottomessi all’assolutismo dell’ambiente.” Così suona lo stupefacente auspicio finale. E vien fatto di domandarsi: ma dove vive Valentini? Perché, in realtà, nel mondo che noi tutti abitiamo, il problema ambiente è solo una variabile marginale per i “grandi della terra” e per la larga maggioranza dei nostri governanti. E’ qualcosa in cui di tanto in tanto casualmente qualcuno di loro si imbatte, e su cui magari si trova in dovere di pronunciare due parole, opportunamente approntate da previdenti ghostwriters. Qualcosa che comunque nulla ha da spartire con i massimi temi della Politica, e che in nessun modo si ritiene possa influire sulle linee di strategia economica dei singoli paesi e del mondo. Ogni governo d’altronde delega all’apposito ministero l’ordinaria amministrazione della materia, per lo più limitata a blandi provvedimenti di carattere legislativo e tecnico. Altrettanto fanno i partiti, ognuno affidandone il compito ai propri “esperti”.

A parte ciò, l’ambiente non esiste. Invano, seguendo conferenze e convegni anche di grande interesse e onorati dalla partecipazione di politici di massimo rilievo, e leggendo jnterviste a tutto campo di leader di prima grandezza, e scorrendo le prime pagine di giornali e giornali, si spera di imbattersi nella parola “ambiente”: se accade (accade raramente) di solito non è che una citazione in omaggio al politically correct, di nessuna incidenza sul discorso complessivo. Le catastrofi che si moltiplicano, i poli che si sciolgono, i numeri dei morti e malati per via di vario inquinamento (milioni) pubblicati dall’Oms, il miliardo e mezzo di persone senz’acqua, le previsioni che - ormai condivise da tutta la comunità scientifica internazionale - parlano di un Pianeta prossimo al collasso, sono tutte notizie che trovano spazio solo nelle pagine interne dei giornali, quelle su cui i politici non hanno tempo nemmeno di buttare uno sguardo. E Valentini parla di “assolutismo dell’ambiente” come di un rischio reale.

Da qualche tempo, è vero, un certo mondo politico, non tutto, sembra avvedersi del problema ambiente. E però, se si considerano le ragioni per cui la cosa accade e i risultati che ne discendono, non se ne ha davvero motivo di sperare in un diverso approccio alla questione. A muovere le apprensioni dei rappresentanti dei massimi potentati economici e dei più celebri economisti del mondo convenuti a Davos, a indurre il G8 a organizzare una conferenza specificamente dedicata alla materia (svoltasi a Londra l’aprile scorsa), a suscitare generale giubilo per la firma di Kioto (notoriamente ben lungi dall’essere risolutiva), è solo il timore che lo squilibrio ecologico possa influire negativamente, soprattutto per via dell’effetto serra e del mutamento climatico, sull’andamento dell’economia. E, come ovvio, le politiche messe in campo di conseguenza sono finalizzate solo al superamento della crisi e al rilancio della crescita produttiva: non esattamente la cura giusta per l’ambiente malato. Qualcuno ci vede dei segni di “assolutismo ambientale”?

Curiosamente l’articolo di Valentini porta due titoli. Uno è “La diaspora ambientalista”, e figura in prima pagina dove appare l’incipit del pezzo, l’altro, in testa al seguito collocato a pagina 18, è appunto “Assolutismo ambientale”. Chissà mai per quale svista si è prodotta questa doppia titolazione. Nei tempi sempre risicati della fattura di un quotidiano può accadere di tutto. E però i due titoli qualcuno (l’autore o un redattore qualsiasi, non sappiamo) li ha scritti e “passati”, come si dice in gergo. E qualcuno (non sappiamo chi) ha avuto un pentimento.

Un motivo di qualche speranza?

Tutto giusto l’intervento di Dusana Valecich (For the benefit of the future generations) dopo la mia “invettiva”. Meglio precisare. Il finto dialogo col ragazzo e la ragazza riguarda l’ambiente, il paesaggio, la città, la bellezza. Poveretti… è vero, come scrive Dusana, a non poter godere dei benefici per mancanza delle cose che a noi ne hanno dispensati quando il diluvio non aveva ancora infangato completamente il paese. Loro non ne hanno colpe, diciamo? Ripeto: loro sono nati e vivono nel contesto così come è, non sanno da quale cataclismatico mutamento provenga, non sanno che avrebbe potuto essere diverso, migliore. Hanno ereditato, ma anche ereditano senza accorgersene giorno per giorno gli effetti delle malefatte del giorno per giorno. Non recepiscono perché non hanno i sensi esercitati? Una completa assoluzione non convince. I crimini commessi nell’urbanistica, nell’architettura, nell’ambiente “naturale” appartengono ad almeno due/tre generazioni precedenti, ma bisognerà pur calcolare i confini, anzi le sovrapposizioni, le sfumature generazionali per evitare un esame per blocchi separati che nella realtà non esistono. Insomma, ci sono tante età di essere giovani. Quelli che vivono secondo totale inconsapevolezza di sguazzare nel fango sono i più giovani, proprio quelli dei telefonini squillanti in classe (leggi le proteste di Mario Pirani in difesa degli insegnanti), delle pance nude esibite in inverno, in breve quelli di cui ci racconta la Dusana, i Peter Pan: evidentemente non ha funzionato la catarsi di qualche manifestazione di massa contro… Ma gli altri, i venti-venticinquenni, i trentenni e oltre, anch’essi poveri sciocchi privi di strumenti, di retroterra informativo, eccetera? Ma. Non appartengono (ma anche i piccoli…) alla consapevole cultura vincente del cinismo e dell’apparire, del denaro facile guadagnato facilmente o, soprattutto, non guadagnato e ricevuto dalla famiglia? Attenzione, però. Dobbiamo distinguere. Di là stanno, in contesti per lo più meridionali, i disperati (pensiamo noi, non sappiamo quale coscienza abbiano loro di sé) tipo borgatari poveri (ma non “belli”), tipo periferici ignoranti intelligentissimi destreggiatori: nuovi sottoproletari figli di sottoproletari o “senza famiglia” anche se ce l’hanno. Di qua stanno i giovani e belli e magri e spesso semi-obesi piccoli medi borghesi e borghesi, sono questi, mi sembra, di cui scrive la Dusana, di cui Pirani ci ha raccontato le sceme gesta scolastiche, per i quali insomma stiamo facendo le prediche circa l’incosciente loro sguazzare nell’ambiente alluvionato essendo questo la loro realtà esistenziale. Ragazzi e ragazze, uomini e donne giovani, pochi statisticamente come classi di età secondo la piramide della popolazione, ma enormi masse se viste o calcolate nella concentrata presenza consumistica urbana metropolitana o turistico balneare o turistico montana o disco-festaiola. Pensiamo alle città che conosciamo bene. Ricchi e pazzi per l’abbigliamento e per lo svago spensierato conformi ci paiono questi giovani. Come reggerebbero in una città quale Milano le centinaia e centinaia di negozi a misura di medio-magazzino dallo specifico look, che si susseguono lungo le strade, non solo del centro canonico e della periferia storica, e continuano a nascere ogni nuovo giorno sloggiando attività precedenti niente affatto fuori tempo ma solo prive dell’ultimissimo grido omologato e omologante? Qui non c’entra la città della moda di Via della Spiga o del quadrilatero teresiano giuseppino, cui si rivolge la borghesia non dico alta, dico straricca, le “signore” lombarde. Di un’altra città si tratta. Ecco, è questo l’ambiente che questi tali giovani, dai 13 ai 35, vedono, frequentano, comprano, ne parlano continuamente (avete mai provato a orecchiare i discorsi delle ragazze transitanti? Vestiti, vestiti, vestiti…). Ambiente urbano. Cosa sanno della città, della metropoli rovinosamente caduta nel puro gioco del vendere comprare dall’altezza delle sue tante capacità del fare, dell’indicare; delle sue dotazioni di coerenza spaziale e bellezza, dei suoi monumenti? Come reggerebbero in una città quale Milano i trecento locali sui Navigli appositamente creati man mano per quei giovani (sempre ulteriori da qualche decennio), e quegli altri locali fratelli ormai pervadenti a decine, e moltiplicatisi mensilmente, spazi noti e anfratti di periferie interne ed esterne, se appunto quei giovani non avessero introiettato il relativo modello comportamentale insieme alla fantastica disponibilità monetaria? Come sarebbero potute proliferare le multisale da 18 schermi nell’hinterland a un tiro di schioppo l’una dall’altra, progettate e realizzate per il nuovo mercato, vale a dire destinate proprio a quei giovani, dotati di soldi, di automobili, del tempo della sera e dei W. E alternativi a mare monti eccetera? A questa stregua, come potrebbe interessargli la natura (perduta), lo spazio aperto (contraffatto), i monumenti (sopportati), l’architettura fine non arrogante? (Ci sono i bravi Boy-Scout, dite, che accendono focherelli sfregando legnetti come gl’indiani…). Senza esserne responsabili, secondo Dusana. Varrebbe il ritornello è colpa della società ampiamente contestato dai sociologi (e psicologi e antropologi)? Nessuno di noi lo crede a questo grado di genericità e generalizzazione. Colpe possiamo distribuirne secondo una casistica da chi più ne ha più ne metta, e non giungeremmo a niente di conclusivo laddove, probabilmente, ci siamo trovati dentro a una inavvertita mutazione antropologica, parallela al complessivo mutamento antropologico del popolo italiano: come, se no, avrebbe potuto instaurarsi un tale mondo nuovo della politica, che, appunto, se ne frega di tutto quanto qui, in questo sito, cerchiamo di richiamare, denunciare, difendere, rilanciare, proporre all’incontrario? Ma c’è un punto secondo cui non è giusto tacere. Anche tutti noi (intendo gli anziani e i vecchi) siamo stati giovani. Altri tempi, altri luoghi, altra società eccetera si dirà. Ma non erano tutti giardini fioriti! Anzi. Cose di tutti i colori ci circondavano. Due condizioni di salvataggio si sono date, le stesse che ritroveremmo oggi in casi minoritari. Una curiosità, un’autodeterminazione, un sentimento che chissà come sorgeva interiore e s’attaccava all’albero della tua vita. Detenevamo certamente modelli buoni acquisiti anche noi inconsapevoli eppur sorpresi, poi, consapevoli. Da dove? Se dovessi individuarne la reductio ad unum, direi dai Maestri, lungo tutto il corso della vita giovanile e oltre. Non ne faccio l’elenco, ve ne lascio il compito, Maestri vivi, Maestri morti ugualmente conosciuti (un vero padre, per esempio). Ciò che mi preme di affermare è che da un certo momento in poi la specie dei Maestri si è rarefatta entro il generale mutamento, soprattutto riguardo alla provenienza familiare e parzialmente scolastica. Ora noi, vecchi insegnanti d’università, rammentiamo la condizione più bella, rara ma non unica, riguardo ai giovani: sappiamo e diciamo, senza spocchia, di essere stati per qualcuno di loro Maestri, di averli visti poi andare per conto proprio, quei pochi, senza tradire, senza dimenticare e conservare l’amicizia vecchio/giovane, raccogliere le vecchie bandiere a nostra volta raccolte sbrindellate dai grandi riformatori dell’urbanistica e dell’architettura d’antan (per esempio un Bruno Taut, per intenderci), raccoglierle, i trentenni-quarantenni, ricucite e rinnovate, e sventolarle davanti alle insorgenti attonite giovani generazioni.

“Per dire la verità, dopo aver immaginato quelle bandiere, so che in questo nostro tempo contraddistinto da consumi inutili e volgari mancano gli ideali. C’è poca cultura vera, e poca urbanistica e architettura sincere, non travolte dal mercato. Si sghignazza sulla questione morale. Si accusa di moralismo (ma è un reato? un peccato?) chi rivendica valori personali e sociali negletti. È per questo che non si riesce a edificare la città reale, dopo averla intrasognata in utopia, umana, bella, vitale, e si accetta, chiudendo gli occhi e uccidendo i sentimenti davanti alle cause del disastro ambientale, l’antiurbanistica e l’antiarchitettura convenienti soltanto ai potenti, ai loro alleati, ai loro vassalli, valvassori, valvassini” (L. M., aprile 1988).

P.s. Sentite tuttavia uno dei Grandi Vecchi inarrendevoli: “Da Sondrio a Milano i lombardi hanno deciso di esporre il brutto e di nascondere il bello, il Lago di Como è scomparso… C’è l’esposizione dell’andante, del finto ricco della classe unica televisiva. E un presentimento di rovina: possibile che un mondo che ha cancellato la bellezza abbia un futuro accettabile? Ai giovani questo mondo brutto può anche andar bene: si spostano di continuo non fanno neanche tempo a vederlo, il loro mondo è fatto di cartelli che sfilano veloci. Siamo noi vecchi a vederne la irreparabile rovina… La gioventù è forte e avida di vita, digerisce tutto, mangia panini osceni e butta giù gazzose. Siano noi vecchi i fregati, ci consolava da Sondrio a Milano la bellezza che ora non c’è più”, Giorgio Bocca in ‘Il Venerdì di Repubblica’, 3 giugno 2005, p.15

Urgente invettiva, sì, perché non se ne può più. Mi scuso se non vi lascio respirare, anzi non lascio raffreddare il pezzo del 22 maggio (Illusioni delusioni).

Se anche il bravo Giovanni Valentini, punto di riferimento giornalistico di tante denunce per le violenze al paesaggio, alle città eccetera, e inventore del termine Malpaese da usare regolarmente al posto del menzognero Bel Paese, predica senza scegliere davanti alla diatriba fra i diversi movimenti ambientalisti (Repubblica di ieri), se cade in una delle trappole sparse, come mine belliche, per cinquant’anni dai falsi profeti in tutto il territorio nazionale (sviluppare sviluppare sviluppare, sostenibilmente sostenibilmente sostenibilmente), se soprattutto accetta il furbo gioco dei falsi medesimi, quello del no e del sì (non si può sempre negare negare negare opere opere opere, bisogna proporre proporre proporre alternative alternative alternative – chissà perché, la vedremo): beh, allora mi rifugio nel mio eremo bello (uno a picco sul mare inquinato), me ne frego di sapere, di capire, cerco di dimenticare il paese paradisiaco ben conosciuto confrontato con l’estraneo infernale attuale, smetto di combattere tutte le battaglie – verbali, si dirà (grazie tante, vorrei vedere te, caro giovanotto o te, cara ragazza che cresciuti nella merda ambientale credete che questa sia la normalità da viverci e viverla, anzi che questa è appropriatezza moderna dunque bellezza, quando non avrete altro che il bastone per sostenervi e non potrete nemmeno coltivare ricordi perché ve ne tormenterà il terribile tanfo e vi rifugerete nel cesso che vi parrà campo di rose al confronto), e leggo rileggo disegno suono stravaganze scrivo neodada, giro sfiancato fra gli ulivi e i pini sopravvissuti.

Valentini non è di quelli che “ma non vorrete mica che non si faccia proprio nulla!” quando qualcuno si oppone alla costruzione di un grattacielo al centro del colonnato berniniano. Certo no. Ma se accede, con apparente entusiasmo, all’ultimo giochetto di parole promosso da Legambiente, il gruppo che annuso sospettosamente dopo aver saputo che si becca bei soldini dal ministro Matteoli per iniziative da me altrettanto sospettate nella misura in cui (ah, caro Enrico…) piacciono all’An-neonato alle passioni ambientaliste, scende di qualche punto nell’ammirazione e stima che gli dobbiamo. Dunque la locuzione degli intelligentoni: se da una parte abbiamo lo sviluppo sostenibile, dall’altra dobbiamo avere l’ambientalismo sostenibile!! Bello, eh! Chiaro, no? Cercano di spiegare, tuttavia. Da una parte è l’ambiente, la natura che devono poter sostenere lo sviluppo prodotto dall’uomo, dall’altra è l’uomo che deve poter sostenere l’ambiente e la natura troppo tali, troppo intatti, troppo cattivi o invasivi, privi, guarda un po’, di umanizzazione (che poi, cari miei, non c’è al mondo un metro quadro di paesaggio non umanizzato, come si suol dire).

Oggi, in Repubblica, Francesco Erbani (anche lui un intollerante radicale ostile al ragionevole far qualcosa?) ci informa del centomilionesimo attacco a un luogo di valore storico, aritistico, paesaggistico. Devastato il paesaggio del poeta [Petrarca]. Lo scempio di Arquà. Siamo nel parco regionale del Colli Euganei. Qua, al Sassonegro, fervono i lavori, scrive Erbani, per 12.000 metri cubi di “villette”, là, nelle Valli Selvatiche, 90.000 metri cubi. Facendo un breve calcolo: qua una trentina di ville, là un albergo che, se di altezza contenuta, tre piani, consisterebbe in un parallelepipedo pieno di 95x95x10 metri oppure in due volumi di uguale impatto ma a corte interna, oppure in uno spezzatino di numerosi parallelepipedi non meno invasivi. E poi annessi e connessi, altre strutture ricettive, campeggio. Erbani ci ricorda l’enorme pregio delle Valli (i canali cinquecenteschi, Villa Selvatico, Villa Emo), e conclude con l’abitudinaria coltellata (nel senso che rischiamo di farci l’abitudine, io no – giacché la rabbia salvatrice non mi abbandona): “Raggiungerlo è difficile [il campeggio]. Poco male: una strada spazzerà via un pezzo del parco di Villa Selvatico, un giardino di ispirazione letteraria, realizzato nel 1816 da Giuseppe Jappelli, ripercorrendo luoghi e immagini del libro VI dell’Eneide”. Amen, come sempre.

Milano 25 maggio 2005

Niente di nuovo sotto il sole. Sono tornati i futuristi. Quelli che amano la giovinezza, la velocità, i trafori e le autostrade. Nel manifesto futurista del 1909, tra le cose da distruggere c’erano “le città venerate, i musei, le biblioteche, le accademie e il femminismo”. In verità, Legambiente non dice proprio così, ma la direzione di marcia è la stessa. Fa capolino anche una specie di razzismo anagrafico, i vecchi, almeno quelli di Italia nostra, è meglio metterli da parte. Antonio Cederna, che continua a essere l’ispiratore e la guida ideale di Italia nostra, chiamava questo l’atteggiamento degli spiriti forti. Contro i quali intervenne più volte, scrivendo cose memorabili. Eccone una: “Non è un caso che ancor oggi gli spiriti forti (cioè gli stupidi) quando vogliono sbarazzarsi di qualche scomoda contestazione, parlano delle ‘signore di Italia nostra’ (una volta dicevano ‘dame di S. Vincenzo’, poi ‘contesse’, eccetera)”. Ce ne fossero di più di contesse come Desideria Pasolini dall’Onda. Anche Mussolini, per giustificare la distruzione dei monumenti sui quali doveva intervenire il piccone risanatore, se la prendeva con “le vecchie miss inglesi” che amavano le antichità, le chiese e i palazzi.

Contro Italia nostra, Legambiente sbandiera le critiche alla linea C della metropolitana di Roma, all’energia eolica, al progetto dell’Ara Pacis, e l’opposizione all’auditorium di Ravello. Si fa cenno genericamente anche a Urbino. Italia nostra non è contraria all’eolico: è contraria, soltanto al proliferare di pale eoliche in paesaggi di pregio e in territori tutelati. E si chiede: dove è finita la ricerca sul solare? Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la bellezza, con un severo comunicato (“inaudita iniziativa di Legambiente”) ha difeso il vincolo posto dal soprintendente Francesco Scoppola sul centro storico di Urbino e ha confermato la netta condanna al manufatto in costruzione sotto i Torricini, alla Data di Urbino. Aggiungo qualche considerazione sul progettato auditorium di Ravello, insensatamente amato da Legambiente. Nei giorni scorsi è stata pubblicata la decisione del Consiglio di Stato che ha dichiarato inammissibile il ricorso di Italia nostra contro l’auditorium. La ragione dell’inammissibilità è strettamente procedurale (mancata notifica del ricorso al ministero per i Beni e le attività culturali) e non riguarda la legittimità dell’intervento che due sentenze del Tar di Salerno hanno dichiarato fuori legge, senza essere sconfessate dal Consiglio di Stato. Stampa e televisione, soprattutto i giornali napoletani, che si erano scatenati a favore del progetto, con terribili accuse contro chi non era d’accordo, tacciono sulle motivazioni del Consiglio di Stato. Tace Legambiente, che esprime solo una smodata soddisfazione perché si può finalmente costruire l’auditorium. Che aumenterà la congestione e l’inquinamento in un angolo della costiera amalfitana già oggi afflitto da flussi turistici insostenibili. La regione Campania spende milioni di euro per l’auditorium di Ravello, mentre il S. Carlo sta morendo ed è costretto ad affittare il foyer per i matrimoni.

Legambiente presenta Ravello come un esempio da imitare. Si tratta di un comune che, a 63 anni dalla legge urbanistica nazionale e a 18 anni dal piano urbanistico territoriale, è tuttora sfornito di piano regolatore, ed è devastato dall’abusivismo. Eppure dista solo pochi chilometri dal comune di Eboli, che ha demolito 400 case abusive quando era sindaco Gerardo Rosania, di Rifondazione, che Italia nostra propone per il premio Zanotti Bianco.

Questa nota sarà pubblicata domani 20 maggio da Liberazione

In nome del popolo italiano, la quarta sezione del Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile il ricorso di Italia nostra contro l’auditorium di Ravello. La decisione è del 15 febbraio scorso, ma è stata resa pubblica soltanto in questi giorni, nell’assoluto silenzio della stampa e della televisione. Stampa e televisione, soprattutto i giornali napoletani, che si erano scatenati a favore del progetto, con terribili accuse contro chi non era d’accordo, stavolta tacciono. Tacciono Mario Pirani e Giovanni Valentini. Tacciono il Wwf, Legambiente, la regione Campania, il comune di Ravello, e le decine di accesi sostenitori dell’opera. La ragione del silenzio sta nel fatto che la sentenza del Consiglio Stato non ha stabilito che la costruzione dell’auditorium è legittima, dando così ragione ai promotori dell’iniziativa, ma si è fermata su una questione procedurale, e cioè sul fatto che il ricorso di Italia nostra non era stato a suo tempo notificato al ministero per i Beni e le attività culturali. Il supremo organo della giustizia amministrativa non ha insomma smentito il Tar di Salerno che un anno fa aveva dato ragione a Italia nostra, sancendo l’illegittimità del progettato auditorium, ma ha scovato un difetto processuale, e ha perciò dichiarato inammissibile il ricorso. È bene ricordare che anche nel 2000 un precedente pronunciamento del Tar di Salerno aveva dichiarato illegittimo l’auditorium.

Non ci resta che arrenderci. Almeno per quanto riguarda i procedimenti amministrativi. Intanto ricordo che Eddyburg si è occupato diffusamente della vicenda, con ripetuti interventi e due eddytoriali. E’ utile rileggerli nella cartella SOS-SOS-SOS/Ravello. Il progetto è di Oscar Niemayer, celeberrimo, quasi centenario architetto brasiliano, anche se negli atti ufficiali risulta redatto dall’ufficio tecnico comunale. Italia nostra e Wwf (ma il Wwf dopo un po’ ha cambiato idea) si sono opposti alla realizzazione dell’opera, che è vistosamente in contrasto con il vigente piano territoriale urbanistico della costiera amalfitana e della penisola sorrentina (Put), piano approvato con legge regionale della Campania (n. 35/1987) e con efficacia anche di piano paesistico. Contro Italia nostra si sono schierati 165 intellettuali, fra i quali Renato Brunetta, Massimo Cacciari, Mario Manieri Elia, Cesare de Seta, Ermete Realacci, Oliviero Beha, secondo i quali “l’auditorium ha un’importanza strategica per lo sviluppo culturale ed economico della regione”, ignorando che Ravello è già oggi afflitta da flussi turistici insostenibili. Da ricordare infine che il comune di Ravello, a 63 anni dalla legge urbanistica nazionale e a 18 anni dal piano urbanistico territoriale, è tuttora sfornito di piano regolatore. Lo stesso comune è devastato dall’abusivismo, ma non è mai intervenuto con la determinazione con la quale ha operato, per esempio, sempre in provincia di Salerno, il comune di Eboli, che ha demolito 400 case fuori legge.

Raffaella Di Leo, presidente di Italia nostra Salerno ha dichiarato che la benemerita associazione, “forte dell’autorevole valutazione del Tar di Salerno, che ha affermato il contrasto dell’auditorium con il Put senza essere sconfessato, vigilerà e si adopererà perché la vigente disciplina urbanistica regionale venga fino in fondo rispettata”.

Nella sua plasticità di organismo vivo, il linguaggio via via recepisce il mutamento culturale e sociale, e più o meno rapidamente e felicemente vi si adegua. Ma quando il mutamento si verifica con dirompente celerità, con una magnitudo da investire mezza umanità e indirettamente l’altra mezza, e con una forza d’urto da rimettere in causa la storia intera, come è stato ed è il caso della rivoluzione femminile, spesso nascono dei mostri.

Penso a “vigilessa”, “soldatessa”, “presidentessa”, “deputatessa” (e così via all’infinito, essendo la desinenza “essa” una delle modalità più diffuse nella nostra lingua per la femminilizzazione di un sostantivo maschile). Parole che non sono soltanto degli orrendi neologismi, ma rispondono poco e male a quella valorizzazione del femminile che vorrebbero significare. E in più sono anche dei veri e propri errori di grammatica.

I linguaggi – lo sappiamo benissimo – sono materia che i femminismi di tutto il mondo hanno fatto oggetto di ampie e approfondite analisi, sovente assai pregevoli. Sottolineandone forme modi snodi per cui tutti si pongono come infallibili evidenziatori dello storico prevalere del maschile sul femminile. Non dico nulla di nuovo dunque se noto che: 1) le quattro parole prese ad esempio riguardano tutte una funzione di qualche autorità e potere tradizionalmente esercitata solo da uomini; 2) che la stessa modifica verbale non si applica ad attività fin dall’antico praticate anche da donne: e infatti si dice “sarta” e non “sartessa”, “maestra” e non “maestressa”, mentre si dice “professoressa” e non “professora”, appena si va oltre l’insegnamento elementare; 3) che dunque mediante la desinenza “essa” la funzione in versione femminile viene sottolineata nel suo derivare dal maschile, in un venir dopo che è anche una diminuzione.

Ma, dicevo, tutte le parole in questione sono degli errori. Dunque, “vigilessa” è una donna che svolge attività di soveglianza urbana, quale è appunto affidata al corpo dei vigili. Ma “vigile”, nel senso di incaricato di “vigilare” sulla vita cittadina, è un aggettivo sostantivato, che pertanto come un aggettivo si declina, e come tutti gli aggettivi terminanti in “e” è uguale al maschile e al femminile. Nessuno direbbe infatti “la vigilessa madre”, “la vigilessa infermiera”, o che altro. Perché dunque non dire “la vigile”, “una vigile”, anche quando la parola non si riferisce a una qualità ma a una funzione, applicandosi a una donna che indossa una divisa e dirige il traffico? Perché accettare una forma che recepisce il fatto nuovo (ci sono donne-vigili che in passato non ‘erano) ma, nel senso implicito e nello stesso suono, ne suggerisce una valutazione per lo meno ambigua? Oltre tutto commettendo un errore di grammatica?

E perché inventarsi una “presidentessa”, quando “presidente” non è (con le piccole varianti che quasi sempre la parola subisce nell’uso di secoli) che un participio presente del verbo “presiedere”, e come ogni participio presente è uguale al maschile e al femminile, per cui l’articolo “il” o “la” basta a precisare il genere? Analoga considerazione vale per “soldatessa”, “soldato” essendo participio passato del verbo “assoldare”, che in quanto tale si declina come un aggettivo e perciò, secondo grammatica, al femminile diventa “soldata”. Così come “deputato”, participio passato di “deputare”, non può che femminilizzarsi in “deputata”: forma che per la verità si va facendo strada, ancora però tra una gran folla di “deputatesse”, spesso così nominate anche dalle bocche più colte e dai migliori giornali.

Ma c’è un altro aspetto della materia che forse merita qualche riflessione. Tutti i femminismi si sono impegnati con rabbia e determinazione a denunciare nei linguaggi le forme più vistosamente offensive e discriminanti per le donne, e possibilmente a cancellarle. Ma non sempre uguale coerenza ha sostenuto la politica di “sessualizzazione” della lingua, che a volte nel desiderio di sottolineare la “differenza” ha indotto, o accettato, l’uso di morfologie con tutta evidenza indicative del femminile come sesso “secondo”.

Mi dicono che in un recente convegno alla Casa delle donne si sono sollevate domande sull’utilità di sessualizzare la lingua. La questione non è gratuita. Perché indubbiamente la denuncia del sessimo dei linguaggi ha avuto senso e funzione nella battaglia femminista, per la più perspicua messa a fuoco di una cultura tutta e da sempre segnata dalla disparità del rapporto tra i sessi. Non so però quanto serva l’impegno a incidere programmaticamente sulle forme verbali, e quanto positiva ne sia la ricaduta sul loro uso quotidiano, dove in realtà la confusione è massima. Basta dare uno sguardo ai giornali, sui quali da un lato abbondano vigilesse soldatesse ecc, dall’altro puntualmente si legge “dal nostro inviato Maria Qualchecosa”, “il deputato Maria Qualchecosa”, “il sottosegretario Maria Qualchecosa”, ecc., senza del resto che le interessate ci trovino nulla da ridire. E d’altronde sulle loro tessere, esattamente come su quelle dei loro colleghi, sta scritto “Deputato al Parlamento”, “Senatore della Repubblica”, “Sottosegretario di Stato”, ecc.

Il linguaggio ha inerzie e vischiosità che resistono al mutamento più tenacemente della società stessa. Come accennavo sopra, in presenza di mutamenti di sconvolgente radicalità, spesso la lingua rifiuta di nominarli e perciò stesso di legittimarli; e in tal modo di fatto impedisce che il mutamento stesso venga pensato, e dunque esista. Oppure lo nomina, ma nei modi di una tradizione culturale riluttante a recepirlo e riconoscerlo, cioè (vedi gli esempi citati) secondo una implicita valutazione ironica o decisamente negativa: una Presidentessa non potrà mai valere quanto un Presidente, perbacco! Verba sunt consequentia rerum, dicevano i nostri antenati. Non esistono parole per dire cose che non esistono, o che (ed è praticamente lo stesso) l’ordine sociale-culturale-simbolico di cui il linguaggio è espressione tende a ignorare.

Insomma come rispondere alla domanda: vale la pena di sessualizzare la lingua? Non è facile. Perché ogni iniziativa del genere ha sempre un suo valore di disvelamento e accusa, costituisce sempre un piccolo apporto alla grande battaglia. Più difficile che approdi a risultati concreti di qualche rilievo e utilità immediata. Tutti ormai si sentono tenuti a dire “uomini e donne” invece che solo “uomini”, e forse si riuscirà a ottenere che tutti dicano “sindaca” o “ministra”. Ma quando si potrà dire (se mai si potrà) “i bambini e le bambine sono belle”, e non “sono belli”, come a tutti/e insegna la vita prima che la scuola?

Domanda non facile, dicevo. Infatti non ho risposto. Scusatemi.

“Niente di nuovo sotto il sole” (che poi c’è, qualcosa di nuovo), scrive Vezio De Lucia (Gli spiriti forti, 19 maggio). Non sorprendenti le differenze fra i tanti gruppi ambientalisti, ma un conto è possedere un’identità, ognuno la sua entro una sperata e condivisa incedibile volontà di difendere il pezzetto d’Italia, disperso qua e là, sopravvissuto alla guerra contro l’oikos nazionale scatenata e vinta dalla politica rozza o corrotta, dall’imprenditoria brigantesca, dall’urbanistica incolta e succube. Vero e proprio tradimento di una patria. Un altro è l’astio, lo scontro: fanno festa a champagne, quei padroni. Ognuno di noi frequentatori di Eddyburg presenta le sue esperienze, i suoi ricordi, considera casi concreti. Da un bilancio traggo una conclusione: i movimenti più affidabili, fra i nominati in questi giorni, sono il Wwf e Italia Nostra, riguardo alla duplice battaglia: difesa secca di luoghi tramandati dai nostri antenati intatti, o solo degradati; proposta di cure certosine per consegnarli vivi alle giovani generazioni. Basta consultare il sito per esibire esempi chiari del loro impegno incondizionato, come quello per impedire la costruzione nella già sanguinante Ravello dell’auditorium niemeyeriano, con annessi e connessi in opere di ogni genere. De Lucia ci ricorda gli ultimi fatti, ci deprime con la notizia della probabile fattibilità dell’intervento, gloriosamente condivisa anzi acclamata da Legambiente, guarda caso alleata di un folto gruppo di entusiasti alleati del sindaco e di Bassolino (!), tutti sprezzanti verso la questione primaria della illegalità della costruzione (e poi, non ci facciano penose lezioni sull’architettura, che ci arrangiamo da soli). La posizione di Legambiente oscilla secondo la convenienza politica. Accusa gli altri di essere capaci solo di negare e non di proporre, per esempio di essere contrari agli impianti per l’energia eolica (giganteschi apparati, del resto) quando, al contrario, chiedono di realizzarli con le dovute cautele paesaggistiche; e addirittura si costituisce in giudizio contro Italia Nostra per la sua opposizione alla linea C della metropolitana di Roma, spazzando via senza discutere la proposta alternativa della metropolitana leggera (vedi notizie in Repubblica del 20). Legambiente: è questa su cui ho potuto ironizzare a proposito della distribuzione delle Vele a spiagge italiane (intervento del 16 maggio 2003, ora in Parole in rete, presentato nel sito): non solo in merito all’esiguo numero di spiagge in causa rispetto agli oltre 6000 chilometri di costa, ma al modo di fotografare le condizioni reali, col paraocchi – ho scritto –, disinteressati al contesto, perfino al vicinato: vale a dire un modo estraneo all’analisi urbanistica e paesaggistica. E quale ambientalista è parso disponibile a farsi ingannare di fronte al progetto dei proprietari per una cosiddetta naturalizzazione delle rovine del Fuenti, comportante pesanti destinazioni d’uso dentro e fuori terra? Non del Wwf, non di Italia Nostra; né del Fai, né della Lipu… Ritorniamo ai meriti indiscutibili. Nessun altro gruppo o movimento o partito si è speso come Wwf e Italia Nostra nella battaglia, ricorsa più volta nelle rassegne di Eddyburg, per Baia di Sistiana, uno dei pochi luoghi bellissimi persistiti lungo le coste nazionali, come fossero, tali luoghi, vecchi e forti personaggi particolarmente ostinati, insensibili a ogni tipo di lusinga. Non ci fosse stato il loro impegno decisivo, noi di Eddyburg che abbiamo cercato di dar loro una mano saremmo qui ad assistere alla costruzione della inconcepibile “nuova Portofino”, voluta con eguale determinazione sia dalla proprietà dei terreni – meglio dire del territorio, sia dal centrosinistra della Regione Friuli Venezia Giulia capeggiato da Illy, sia dall’amministrazione comunale di Duino-Aurisina, centrodestra (taccio del progetto precedente di Renzo Piano). C.v.d. Non hanno mai mollato la presa, i nostri amici triestini. Ancora tre settimane fa, per parare eventuali, anzi sicuri colpi di sciabola dei nemici della Baia di Rilke, hanno presentato un documento straordinariamente preciso al Commissario dell’ambiente della Commissione europea, chiedendo, di questa, l’intervento decisivo per salvare l’integrità di un Sito qualificato come di importanza comunitaria. Intanto, a conferma delle differenze dannose fra gli ambientalisti italiani, in buona parte riconducibili ai vincoli della politica, guardate come i Verdi friulani abbiano privilegiato l’appartenenza al governo regionale, coi relativi ristorni, rispetto all’imperativo di opporsi alle scelte sbagliate e imbarazzanti dell’indiscusso apprezzato caffèttière. Ugualmente, a muoversi decisamente contro il Piano territoriale comprensoriale del Napoletano, fautore dell’edificazione per quasi metà dello spazio agrario, furono il Wwf e Italia Nostra, insieme a Gaia, Coldiretti e all’agronomo Antonio Di Gennaro. Non conosco la fine della storia, ma allora gli oppositori alleati (non inerti anche i Comuni di Napoli e di Castellamare) ottennero il rifacimento del piano. Per il famoso salvataggio dei cento grandi pini a ombrello di Marina di Campo all’Isola d’Elba, a fronte di un’amministrazione comunale di centrosinistra che tentò più volte (mi pare tre…) di abbatterli per ragioni incomprensibili, fu il Wwf a interpretare la parte difficile del crapone che non cede, in una situazione difficilissima in cui perfino la vice-soprintendente ammetteva il taglio, purché le piante fossero sostituite da altre, udite udite, di aranci amari.

Ma non tutto, anzi poco, nella società e nella politica, si svolge linearmente. Se da una parte Movimenti come Italia Nostra e Wwf , liberi da stretti condizionamenti politici, riescono a svolgere il compito per cui sono nati, dall’altra chi è dentro in pieno alla politica deve viverne le contraddizioni. Ciò, naturalmente, non è giustificabile quando diserta il ruolo atteso. Questo riguarda soprattutto i Verdi che sono un partito e forse spiega il mancato loro decollo nel nostro paese. Hanno il pieno titolo di appartenenza al centrosinistra. Ma nella Regione Friuli Fvg stanno con un centrosinistra al potere autore di politiche contrarie alla loro presunta natura e vocazione; a Venezia stanno ora all’opposizione di un governo non diverso, cambiano solo certi caratteri dei “podestà”, Illy e Cacciari; a Milano e in Lombardia sono l’unica formazione nei rispettivi Consigli a contrastare giorno per giorno scelte del centrodestra da manuale del medesimo basate non su un generico anti-ambientalismo, ma su specifici programmi e attuazioni urbanistiche ed edilizie che potrebbero far giudicare inezie, al confronto, i piani e gli atti del fascismo anni Trenta nel territorio e nelle città, Milano in particolare. Il centrosinistra valtellinese in occasione dei mondiali di sci di gennaio-febbraio ha favorito la gioiosa decisione di abbattere gli alberi sopravvissuti allo sterminio di vent’anni prima – stessi campionati – condiviso addirittura dalla “pura” sinistra. Dunque le contraddizioni si inseguono: la Valtellina non è Lombardia? In Toscana la Giunta di centrosinistra Martini vuole l’autostrada tirrenica secondo un tracciato che stravolge il paesaggio “un po’ meno” di quello previsto da Lunardi; i Verdi mugugnano, per forza; gli ambientalisti, del resto, propongono l’adeguamento dell’Aurelia, buona soluzione giacché la statale è già una semi-autostrada. Grazia Francescato visita a novembre i cantieri dell’Alta Capacità Milano-Torino e rilascia pesanti dichiarazioni in merito alla distruzione del paesaggio storico delle risaie, ma i Verdi triestini, sappiamo perché, stanno zitti riguardo alla sconvolgimento del territorio carsico che la realizzazione del Corridoio 5 provocherebbe. Si muovono i soliti “diversi”… Certo, la Francescato non conta più nulla nelle relazioni politiche!

In occasione della crisi e ribaltone all’Istituto nazionale di urbanistica abbiamo discusso di persone. C’entrano, non c’entrano? Dissi, contrariamente ad altri pareri, che è anche, forse soprattutto, questione di persone. Non è una persona il presidente Paolo Avarello, specifica perfetta espressione dei tempi? Non sono persone i colleghi che hanno chinato il testone e non hanno emesso nemmeno un flebile sospiro di perplessità? Non erano persone, in carne e ossa, cervello e sentimenti, Adriano Olivetti e Giovanni Astengo? Quante approvazioni o critiche a determinate scelte politiche, culturali, eccetera rimandano alla evidente responsabilità di singoli protagonisti che con la loro posizione favoriscono o nuocciono una prospettiva condivisa e sperata da tanti? Non vorrei tediare con esempi di oggi, ma potrei farlo con facilità, troppa e avvilente. Al contrario, anche la non amata Legambiente presenta singoli componenti dediti alla causa senza patteggiare con gli avversari. A Milano è cominciato un attacco di imprese immobiliari al QT8, il più importante esempio nazionale del dopoguerra di urbanistica sperimentale, il quartiere dell’ottava Triennale costruito a partire dal 1947 per opera di Piero Bottoni. Approfittando dell’irragionevole processo di privatizzazione del patrimonio edilizio pubblico, case originarie testimonianza di esemplari contributi alla soluzione del problema abitativo da parte dell’architettura moderna corrono il pericolo di demolizione per essere ricostruite con una cubatura molto superiore, altre di essere sopralzate in maniera mostruosa. Gli abitanti storici del quartiere cercano di organizzarsi nella resistenza; chi li orienta è una persona, formatasi in Legambiente ma lontana dalle sospettabili trame della dirigenza. La quale, al contrario del contrario, si fa viva oggi sull’Unità per rispondere acidamente a Giuseppe Chiarante e Vittorio Emiliani, presunti autori (ieri sul quotidiano) di offese per aver definito l’associazione, scrive il presidente Roberto Della Seta, “associazione ricca e compiacente verso i ‘poteri’”. Il quale Della Seta, altro saputello in materia di architettura, rivendica “una tutela del paesaggio e dei centri storici che distingua (come Italia Nostra non fa sempre) tra seconde case abusive e manufatti progettati da grandi architetti”. Ancora c.v.d.; il rovello di Ravello. E allora le seconde case non abusive, prime responsabili del disastro nei territori di maggior valore paesaggistico del paese, vanno bene: ringraziamenti da parte del più redditizio mercato edilizio d’oggigiorno. Leggo in questo momento la lettera di Chiarante ed Emiliani su Repubblica di oggi, chiara nel mostrare Legambiente in conflitto con Italia Nostra e altri. Del resto, ci informano, quella riceve ingenti finanziamenti dal ministro Matteoli.

Cosa illuminerà di nuovo il sole?

Rutelli aureolato d’oro, per grazia di B., come un santo del Trecento.

Milano 22 maggio 2005

Qualche settimana fa, con alcuni colleghi berlinesi, ho visitato la mostra FORMA collocata nell’ambulacro del secondo ordine del Colosseo. Erano gli ultimi giorni di apertura di questa iniziativa che ha riportato l’attenzione sull’assetto dell’area centrale fra il Campidoglio e il Colosseo: ‘il’ problema dei problemi dell’archeologia (e non solo) romana.

Sulle infinite, anche se troppo spesso di ambito solo locale, discussioni moderne sull’area archeologica centrale e via dei Fori Imperiali è possibile recuperare documenti e riferimenti bibliografici anche in eddyburg (da ultimo, quasi definitivo nella sua incisività, De Lucia link a Meridiana), queste poche righe al di là delle considerazioni non proprio positive sul progetto e sull’allestimento al Colosseo, vogliono soprattutto sottolineare, ottimisticamente, l’importanza del riaccendersi – comunque - dei riflettori e dell’interesse non solo specialistico sui fori romani (quasi contemporaneamente all’inaugurazione di FORMA, Carlo Aymonino aveva presentato a Veltroni un altro progetto sulla stessa area, di ben altra incisività e che ha trovato echi sulla stampa soprattutto - e un po’ sbrigativamente - quasi solo per la proposta di ‘ricostruzione’ del Colosseo, per v. Giornale dell’Arte, maggio 2004).

Il perno dell’allestimento di FORMA (opera di Oriana Mandrelli) era costituito da un nastro di materiale plastico trasparente srotolato attorno ai pilastri dell’ambulacro e sul quale erano proiettati documenti di vario tipo (e di difficile lettura, vista l’inclinazione del supporto…) incisioni, dipinti, sculture, a sommaria introduzione storica sulla riscoperta dei Fori in epoca moderna. Facevano parte del percorso anche una serie di opere statuarie dagli scavi che hanno interessato l’area, e, in ordine sparso, una dozzina di schermi: sui quali scorrevano, a ciclo continuo, le immagini dei cittadini romani con le loro estemporanee dichiarazioni sulla città e i fori (una finestra sul quotidiano contemporaneo?), mentre al centro del percorso stesso, le interviste televisive ad Adriano La Regina, Italo Insolera, Walter Veltroni, Massimiliano Fuksas riportavano il discorso sul sistema dei fori romani e la sua sistemazione. Mentre nelle dichiarazioni dei primi due si leggeva soprattutto il tentativo appassionato (con toni quasi esasperati, per quanto riguarda La Regina) di ribadire l’ovvietà dell’importanza di quest’area, nel sindaco prevaleva largamente la prudenza del politico, soddisfatto, tutto sommato, di una soluzione largamente interlocutoria, dal carattere assolutamente ‘reversibile’, così come sottolineato dallo stesso Fuksas nella presentazione del suo progetto.

Quest’ultimo viene anzi definito, piuttosto, un ‘concetto’, ‘senza estremismi ideologici’ ed era illustrato da un plastico in chiusura dell’esposizione. Gli ideatori (assieme a Fuksas, la Mandrelli) si limitano, in sintesi, a proporre un sistema di passerelle che ricalcherebbe alcuni dei percorsi delle strade medievali perdute, consentendo un accesso più libero alla sequenza dei Fori imperiali e dotati di servizi accessori oltre che di postazioni idonee a visioni panoramiche dell’intera area. L’asse di via dei Fori Imperiali, considerato ‘ormai storicizzato’e quindi inamovibile sarebbe attraversato da passaggi sotterranei nei punti in cui ‘è certamente sgombro’ (dall’’ingombro’ archeologico’, se ne deduce...).

L’esposizione del Colosseo, ci è apparsa, nel complesso, di scarsa efficacia comunicativa: il percorso è confuso e, come detto, di scarsa leggibilità; i diversi elementi, fra di loro scarsamente congruenti, non riescono a richiamarsi in un sistema di relazioni compiuto: più spesso, invece di rafforzare il tema principale (il progetto di risistemazione), lo sfilacciano. La varietà dei media utilizzati, insomma, lungi dall’esaltare le connessioni, confonde senza nulla spiegare e che dire, poi, di quelle povere statue utilizzate come elementi d’arredo secondo una concezione espositiva preottocentesca.

Un luogo come questo, d’altro canto, al contrario di una evidenza superficiale, non mi è mai parso adatto ad esposizioni archeologiche e non: troppo poco neutrale e inadeguato per carenze strutturali e logistiche. La suggestione del contesto, lungi dall’agevolarne la lettura, schiaccia inesorabilmente i contenuti.

Certo è difficile rinunciare ad un potenziale di pubblico di tale livello quantitativo: la mostra risulta visitata, nei dieci mesi di apertura, da oltre 2 milioni di visitatori (ma il biglietto è cumulativo con quello dell’entrata al Colosseo). Se a questo obiettivo si puntava, però, occorreva approfittarne meglio: di fronte ad una platea di provenienza quanto mai internazionale, si potevano almeno prevedere i sottotitoli alle interviste sopra richiamate ed inesorabilmente solo in italiano…a meno di considerare questa vicenda, come un ‘affaire’ esclusivamente romano.

In merito al progetto, poi, personalmente trovo la giusticazione della inamovibilità di via Fori Imperiali, tanto spesso riascoltata e qui ripetuta (quasi un mantra), sulla base dell’impossibilità di un ritorno allo status quo antea, null’altro che un’aporia logica: se si afferma che “non si può ritornare indietro”, per l’appunto si dovrà andare avanti e come via dei Fori Imperiali (peraltro definita dallo stesso Fuksas, ‘senza senso’ La Repubblica, 30.06.04), ha cancellato una situazione precedente, costituendone un’evoluzione, così, a meno di non volerla considerare, a mo’ di Fukuyama dell’urbanistica, come il crollo del muro per la fine della storia, la sua rimozione è perfettamente concepibile quale ulteriore, ragiopnato livello della stratigrafia urbana ed anzi si impone, dal punto di vista culturale come evoluzione ‘prescritta’, la cui evidente ‘necessità’, dal punto di vista archeologico, urbanistico, sociale ed economico è stata tanto reiteratamente dimostrata con metodologia incontrastata, quanto disattesa con argomentazioni di assoluto provincialismo.

E poi, proprio in questo stesso luogo, la rimozione di via del Foro Romano, risalente a qualche decennio addietro, pur se in dimensioni spazialmente più ridotte, costituisce testimonianza esemplare dell’opportunità di operazioni come queste: oggi, a chiunque, risulta persino impossibile pensare che un nastro di asfalto attraversasse il Foro alle pendici del Campidoglio.

Ulteriore definitivo incentivo ad una soluzione ‘forte’ appare, infine, l’attuale schizofrenia fra le due aree separate dall’arteria: da un lato un perenne formicaio (peraltro difficilmente gestibile, in termini di quantità di flusso, dal sistema delle passerelle di Fuksas), che in molti giorni appare ormai al limite della congestione e dall’altro una sequenza desolata di recinti maldestramente ritagliati e inesorabilmente respingenti.

Certo occorre anche la piena consapevolezza che, per noi archeologi, un’operazione come questa, lo scavo integrale dell’area, seppur scientificamente imperdibile, appare comunque ad altissimo rischio ‘sociale’. Scavare è sempre un rischio, soprattutto in ambito urbano, dove quasi sempre queste operazioni sono vissute come un impedimento al normale svolgimento delle attività quotidiane e le strutture archeologiche riportate in luce molto spesso rimangono irrimediabilmente estranee al tessuto della città viva. Anche per questo l’acquisizione del consenso sociale diviene la prima arma per una tutela duratura, efficace, in quanto non imposta, ma condivisa: laddove c’è uno scontro l’archeologia ha sempre perso e anche se poi dal punto di vista meramente legislativo ottiene dei risultati, questi sono destinati a vanificarsi nel tempo.

Eppure anche in tale direzione quest’area appare come un’occasione unica per dimostrare la nostra capacità di far assumere al patrimonio culturale una funzione sociale di rilevanza primaria. E proprio su questa necessità di trasformazione - evoluzione dei ‘beni’ in ‘servizi’ culturali, mi concedo una critica ad Adriano La Regina che in sede di presentazione della mostra FORMA avrebbe affermato come ‘scritte, mappe, cartelloni e tabelloni in queste aree non servono’ e distoglierebbero ‘dalla sostanza di ciò che si ha davanti agli occhi’: d’accordo se l’affermazione va letta come una preoccupazione per il carattere a volte troppo invasivo di taluni meccanismi comunicativi, ma questi spazi sono ormai ‘globalizzati’ quanto pochi altri al mondo; senza tener conto dei milioni di visitatori asiatici o americani che li percorrono, temo che anche per una cospicua percentuale di europei o ‘nostrani’ le poche lapidi a intitolazione di qualche monumento ora presenti e pressochè loro coeve debbano essere considerate insufficienti. Certo, come suggerisce il Soprintendente (che tale per qualsiasi archeologo rimarrà per sempre), ci si può informare ‘prima’ e sicuramente qualche cartello in più non risolve il problema, ma che un luogo come questo costituisca anche un’irrinunciabile sfida comunicativa, credo sia da mettere in conto.

E’ vero, questi monumenti rappresentano un insieme tanto ‘forte’, per importanza e notorietà, quasi un concentrato forse unico di Nachlebens (per dirla con Warburg) e pertanto a rischio perenne di banalizzazione: a maggior ragione dovremmo impegnarci a proporre, comunque, degli strumenti per superarne una visione meramente estetica, à la Grand Tour ( ma che meravigliosa opportunità, intanto, le splendide vedute sei-settecentesche di Roma antica, ospitate in questi giorni a pochi metri di distanza, in Palazzo Caffarelli): solo così sapranno essere patrimonio davvero universale e non rimandare, come ingombranti ed inutili testimoni, a quella che Moses Finley chiamava ‘cultura disperatamente straniera’.

In ogni caso e in conclusione, la discussione che si riaccende su questi luoghi credo vada sostenuta a tutti i livelli, in ambito nazionale per reinserirla a pieno titolo nel dibattito politico immediatamente futuro (il laboratorio del programma dell’Unione, la famosa Fabbrica prodiana, tanto per fare un esempio a caso, non contempla, per il momento, un’area dedicata a cultura e beni culturali…) e, in più, se possibile, per ‘esportarla’ in un orizzonte almeno europeo.

Nonostante tutto la partita, per fortuna, potrebbe ancora non essere chiusa; nonostante tutto sembra che questi luoghi emanino una loro forza intrinseca che impedisce alla nostra stanchezza di prevalere.

In fondo essi rappresentano l’onfalos per eccellenza, in senso non solo fisico – topografico, non solo urbanistico, ma culturale in senso ampio e (vabbè, buttiamoci) ideologico in quanto sfraghìs di un’ideologia del governo della città.

Per tutto questo e per altro ancora, occorre, allora, essere ‘estremisti’.

Come ha affermato lo stesso Soprintendente ‘la sistemazione dei Fori Imperiali non può essere meschina’ (Giornale dell’Arte, giugno 2004) o, come diceva Estée Lauder, ‘le cose devono essere perfette, per essere accettabili’.

Bernardo Bellotto, dal catalogo della Electa

Purtroppo il turismo, abbiamo notato, è una delle voci primarie che i nostri amici intendono discutere nella Fabbrica del programma prodiana. Dico purtroppo perché questo fatto, da solo, indica che il centrosinistra considera il turismo soprattutto per le sue possibilità di contribuire fortemente alla "crescita" economica. Mi adeguo ancora, Carla, alle tue denunce e riparto dal mio commento. Temo che i nostri amici pensino (penseranno), copiando a livello governativo nazionale comportamenti già risaputi a scala regionale e comunale: ""impieghiamo le enormi risorse di beni culurali e ambientali, ovunque esse si manifestino, del Bel Paese – credono che esista ancora – per creare posti di lavoro, per aumentare la ricchezza, per distribuirla. Dunque, aumentiamo gl'investimenti in infrastrutture, specialmente strade e autostrade, porti turistici, impianti sciistici, alberghi, attrezzature di spiaggia, espansione di servizi commerciali nei musei, nei teatri, nelle grandi stazioni, e via via secondo un elenco infinito di iniziative private (e di privatizzazioni), mai contestate alla destra e da sostenere in quanto di "necessità" pubblica, o da premiare attraverso concessioni a buon mercato; dunque, inoltre, non ostacoliamo, anzi favoriamo la costruzione ulteriore e ancora ulteriore delle case per vacanze e fine settimana, approfittiamo della scappatoia concessa dalla definizione di residence house. Se non altro, il settore edilizio troverà ragione di sviluppo e domanderà forza di lavoro immigrata, non vedete come si offrono a basso prezzo albanesi, rumeni, marocchini, ottimi sostituti degli spariti bergamaschi? E attenti, voi sinistra radicale, non esageriamo con l’opposizione al ponte sullo Stretto e, sul piano legislativo, alla nuova legge urbanistica nazionale, liberista, sì, ma in fondo moderna affrancatrice dalle troppe regole"". Ma 'sto centrosinistra sa che tutto questo significherà "soluzione finale" per l'Italia già oggi Malpaese? Sa che spetterebbe all’opposizione-futuribile maggioranza spostare il problema del turismo dall'economia alla cultura, dalla speculazione privata alla riforma sociale, dal decantato stonato sviluppo alla stabilizzazione, dall'illimitato al limitato?

È la globalizzazione che impedisce il cambiamento?

Rileggo Il giocattolo rotto che hai scritto appena dopo Il turismo inquinante e cerco di collegare. Non possiedo come te un’alta preparazione socio-economica (tra tanto d’altro); ma qualche lettura indispensabile l’ho fatta. Negli anni ruggenti, al Politecnico, il gruppo cui appartenevo è stato il primo responsabile, per così dire, dell’introduzione nell’urbanistica e nell’architettura delle questioni strutturali (economia e società, per intenderci rapidamente); poi non ho mai rinunciato a perseguire la progettazione con gli studenti mettendo in relazione assetti spaziali e assetti sociali, naturalmente mai traendo conclusioni in maniera deduttiva elementare ma, ammesso di poterlo fare, seguendo linee complicate, anche tortuose. Del resto secondo Fernand Braudel “ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio. Ma gli spazi si incastrano gli uni dentro gli altri, si saldano fra loro, sono legati da rapporti di dipendenza”. Se questi rapporti valgono per la scala a grande denominatore, non valgono meno per i micro-ambienti socio-spaziali, sicchè non è velleitario affrontare l’analisi e il progetto nel senso detto sopra. Quella frase Braudel l’ha scritta nell’introduzione all’edizione italiana de Il sistema mondiale dell’economia moderna, del citato, da te, Immanuel Wallerstein: un testo di trent’anni fa che a me parla ancora. Ecco, mi impone di domandare: è davvero in fase di panne il meccanismo capitalistico? Non è più vero che il whirl del duro capitalismo strangola il mondo? La globalizzazione sta fallendo? Secondo Wallerstein (vedi lo stesso sottotitolo del librone) le origini del sistema mondiale dell’economia (sistema mondiale!) risalgono al Seicento. Nel corso storico, fatte salve le contraddizioni storico-geografiche, lo sappiamo, il globale non ha fatto altro che inglobare. Direi che per ragioni quasi fisico-meccaniche di pura accumulazione di forza e per assenza nella realtà (nel pensiero è diverso) di un modello rivale e vero nemico, il capitalismo mondiale non sta correndo molti rischi di perdere posizioni. E nella politica reale, maggiore e minore, negli stati pesanti, chi è il diverso? Chi l’antagonista? La Russia col suo esangue Putin neonata al liberismo e impotente potenza militare sbeffeggiata? La Cina campione mondiale di produttività operaia del tipo ottocentesco manchesteriano? L’Europa signora seduta sulla propria storia ma dimentica dei retaggi rivoluzionari?

Mi si allargano i polmoni a respirare l’aria smossa dai fiduciosi caparbi esperti cui ti riferisci riguardo al wallersteiniano “bisogno di esplorare possibilità alternative” al mondo attuale, ma poi l’aria mi manca.Certo, non ci si deve accontentare di aggiustare il giocattolo rotto; ma allora non possiamo nasconderci che la “nuova economia mondiale” deglobalizzata (citi Walter Bello), o qualsiasi “punto di partenza” verso una trasformazione del mondo, sarebbe pura e semplice rivoluzione. Magnifico, sarebbe. D’altronde basterebbe rileggere un passo dell’increscioso, se nominato, Engels di Dialettica della natura per immaginare: nel modo di produzione capitalistico, una determinata altezza della produzione di beni genera le crisi di consumo, ossia le crisi economiche cicliche risolte mediante non solo la distruzione dei beni prodotti ma anche di una parte delle forze produttive. La lotta per la vita consisterà nella difesa dei prodotti e delle forze produttive che la società capitalistica borghese ha creato, e nell’attacco contro l’azione distruggitrice dello stesso capitalismo. Cosa significa? Che la massa dei produttori deve appropriarsi della direzione della produzione e della distribuzione sociale togliendole dalle mani della classe dominante. In ciò consisterebbe la rivoluzione socialista. Devi togliere dalle mani per impadronirti. Non è difficile rapportare questa analisi vecchia di centotrenta anni all’oggi, con tutte le cautele del caso è inutile dire. Non vengono distrutti beni? Non vengono distrutte forze produttive? Altro che. Ma come potrebbe la massa dei produttori (nella quale è pur giusto comprendere tutto il lavoro non propriamente operaio-manuale) togliere dalle mani…? Engels pensava che la rivoluzione si fa. La rivoluzione russa si fece. La rivoluzione francese avvenne. Sappiamo come è corsa la storia, per sfortuna di molti cittadini del mondo.

Vedi nel sito i precedenti: Il turismo inquinante e Il giocattolo rotto, di Carla Ravaioli, e il mio Coraggiosa Carla Ravaioli, tutti nella sezione "Le opinioni di..."

Molti anni fa - forse venticinque, forse più - quando incominciavo a occuparmi di ambiente, di fronte alla totale sordità delle sinistre per il problema, mi domandavo come non si accorgessero che proprio la rottura degli equilibri naturali, e il rischio che ne discende per la collettività, avrebbero potuto essere branditi di fronte al mondo quale estrema evidenza della essenziale negatività del capitalismo: essendo la stessa macchina dell’accumulazione su cui il capitalismo si regge, e la crescita esponenziale del prodotto che ne è l’indispensabile motore, a contraddire quel “senso del limite” che è la regola di un ambiente sano. Erano anni in cui le sinistre ancora gridavano “morte al capitale!”, e usare questo argomento contro il “sistema” sarebbe stato del tutto omogeneo e funzionale alla loro politica, oltre che alla ragione stessa del loro esistere, che era appunto la fine del capitalismo.

Anni lontani. Oggi “morte al capitale!” nessuno lo grida più, nemmeno tra le fila delle sinistre radicali, antagoniste, o come altro si definiscono, non si dice tra i riformisti di varia aggregazione. Intanto la crisi ecologica planetaria si è drammaticamente aggravata, le Cassandre ambientaliste non sono più sole a prevedere un peggio che ormai è già qui (ma non significa che non peggiorerà ancora), con loro c’è l’intera comunità scientifica internazionale e una parte non trascurabile dell’opinione pubblica. E anche politici di prima grandezza, da Blair a Chirac a Schroeder, e perfino Bush, sembrano prendere atto del problema, benché a preoccuparli soprattutto siano le sue ricadute negative sull’economia. Tutti comunque continuano imperterriti a invocare sviluppo e crescita, come se con la crisi ecologica nulla avessero a che vedere. Le sinistre anche.

Lo hanno detto molto nettamente Eddy Salzano nel suo Eddytoriale 70 e Lodo Meneghetti con “Sinistra immemore”. In realtà Eddyburg, che solo di recente ho avuto la fortuna di incontrare, lo dice sovente e con voci diverse, ma soprattutto lo dice implicitamente, con il suo stesso impianto, e con uno sguardo che dalla specifica materia affrontata (si tratti di urbanistica o di ucina) si allarga e rimanda all’intero del senso politico che tutto condiziona e determina.

Il più grosso guaio del nostro tempo credo stia appunto qui. Nella totale mancanza di idee delle sinistre, non solo italiane, aggrappate a politiche praticamente indistinguibili da quelle delle destre. Stessa cecità di fronte a quella che è la contraddizione più grave del nostro tempo, tra la popolazione umana che continua ad aumentare di numero e a moltiplicare i consumi e un pianeta che crescere non può. Stessa fedeltà a un paradigma ormai disastroso anche sul piano sociale, che si vorrebbe correggere con operazioni di moderato riformismo, contro ogni logica sperando di conciliare solidarietà e competitività, e di imporre equità all’interno di un’economia di rapina. Stessa incapacità (o rifiuto?) di vedere la fine di quel processo di crescita che, nella forma dell’accumulazione capitalistica, fino a qualche decennio fa ha indotto nei paesi industrializzati - sia pure tra contraddizioni e iniquità feroci - condizioni di crescente benessere, e che oggi ormai si regge solo al prezzo di più esoso sfruttamento del lavoro, cancellazione di ogni sicurezza, svuotamento dello stato sociale, crescente distanza tra ricchi e poveri.

E’ vero, certo, come dice Eddy, che solo tentare di immaginare un modello socioeconomico diverso è impresa da far tremare vene e polsi, data soprattutto la pervasività del sistema oggi vincente nel mondo, che raggiunge ogni fibra del corpo sociale, colonizzando cervelli, corrompendo coscienze e comportamenti, deformando desideri e sogni. Ma è anche vero che molti sono i segnali di una crisi diversa e assai più grave delle crisi cicliche del passato. E forse si dovrebbero ascoltare le voci che, soprattutto dal Sud del mondo (vedi ad esempio Waldem Bello), suggeriscono di “usare” proprio la crisi per intravedere un paradigma alternativo. Resta comunque drammaticamente vero che finché la politica di ogni parte deliberatamente ignora le tremende domande che il mondo oggi pone, risposte non se ne troveranno.

Forse tocca alla cultura - alla sinistra della cultura - affrontare quelle tremende domande. E andare alla loro radice. Come suggerisce Lodo quando ricorda le “due storie”, quella naturale e quella sociale, cui appartiene la specie umana. O come fa Piero Bevilacqua col suo appena apparso “Prometeo e l’Aquila – Dialogo sul dono del fuoco e i suoi dilemmi” (Donzelli 2005), che con l’aria di giocare si interroga sulle miracolose imprese della tecnologia, sul progresso con essa identificato, cioè a dire sulla nostra Storia.

Forse proprio da lì si dovrebbe partire, dal paradosso di una specie che ha costruito se stessa in costante opposizione alla natura (cui peraltro continua ad appartenere) impegnandosi a dominarla, sfruttarla, vincerne e stravolgerne leggi e senso, contrapponendole la cultura e di questa affermando l’indiscutibile superiorità. E però sempre avvertendo l’azzardo e forse anche la colpa del limite ostinatamente violato, come i miti sembrano suggerire, che puntualmente puniscono chi osa sfidare i vincoli del proprio essere umano, e scalare il cielo, farsi dio: Prometeo appunto, e Icaro, Orfeo, i giganti… Fino al mito dei miti, quello dell’albero della conoscenza, di cui Adamo ed Eva gustarono il frutto attirandosi la vendetta divina e la cacciata dal Paradiso: il mito che fonda la civiltà giudeo-cristiana, o più ancora la vicenda umana tutta intera. Forse non è così improprio leggere il nostro autodistruttivo presente come l’ultimo approdo di quella lontana maledizione divina…

Chiedo scusa. Mi sono infilata in un discorso più grosso di me. Magari qualcun altro, di me meglio attrezzato, vorrà raccoglierlo?

L’esito delle recenti elezioni regionali ha dimostrato (immagino, fra molte altre) almeno un paio di cose sulle quali, relativamente trascurate dai teatrini televisivi, può essere il caso di soffermarsi.

La prima: la generale e acquisita maturità dell’elettorato cattolico italiano, chè si è mostrato definitivamente emancipato e ‘adulto’ nei confronti di eventuali (auspicati?) imperativi a serrare i ranghi di una ‘confessionalità’ politicamente monodirezionale. La prepotente ondata emotiva (non banale, né marginale od effimera) che ha accompagnato la morte di Giovanni Paolo II non ha, in altre parole, dato luogo alle conseguenze che sessant’anni di avventura politica dei cattolici italiani ci avevano in qualche modo abituato, con una sorta di preventiva e rassegnata preoccupazione, ad aspettarci. E tale e tanta dev’essere stata la sorpresa, che qualcuno, tra le file della CdL, non è proprio riuscito a trettenersi, se è da attribuirsi all’esimio La Loggia l’affermazione secondo la quale le elezioni sono andate come sono andate in quanto ‘l’elettorato era distratto dalla morte del papa” – affermazione che ha subito sollevato l‘infuriata protesta dell’Osservatore Romano, scandalizzato dal fatto che qualcuno non solo si azzardi a pensare cose simili, ma abbia anche la spudoratezza di esternarle.

Se quell’ondata emotiva ha avuto conseguenze politiche, deve evidentemente trattarsi di altre conseguenze, inedite e non previste – che tocca ora ai supposti depositari dell’eredità di quello che fu voluto da De Gasperi e dalle coeve gerarchie vaticane come il ‘partito dei cattolici italiani’:

questo, al di là della misera cucina degli avanzi che discetta di voti di fiducia e/o rimpasti, è il filo del rasoio su cui il partito di Follini (ma anche di Buttiglione) è volente o nolente chiamato ad avventurarsi.

La seconda implicazione, decisamente rassicurante, è che queste elezioni hanno premiato il gioco di squadra e penalizzato i personalismi: linea da tempo attesa, in questo paese, da chiunque, ed alla quale anche un narcisista di lungo corso come Massimo d’Alema, che è al tempo stesso vero uomo politico, si è immmediatamente conformato, archiviando i bisticci preelettorali sulle primarie, e utilizzando al meglio la propria vis polemica per stringere all’angolo esattamente il narcisismo dell’avversario – il quale, umilmente (nozione aliena alla cultura narcisistica come al diavolo l’acqua santa), si è prestato ad un confronto televisivo pubblico e stranamente non si è nascosto, come è accaduto invece in altri frangenti.

Perché con la CdL è stato sconfitto – meglio (non siamo troppo ottimisti): si è cominciato a scalfire - anche uno dei pilastri della sua ideologia: il narcisismo cesaristico incarnato dal premier e la sua relativa efficacia carismatica, e, per converso, l’illusione mimetica che aveva sedotto milioni di italiani poveri e diseredati secondo l’improbabile imperativo del “diventa anche tu ciò che io sono, se è andata bene a me, che non sono altri che un italiano, non si vede perché non dovrebbe andar bene a tutti…”.

La smentita secca delle urne è oggi all’origine della ennesima verifica o resa dei conti all’interno del Polo – ma credo che abbia qualcosa da insegnare anche a sinistra. Se il narcisismo non paga più, se la sua cultura mostra la corda, ciò vale a maggior ragione per chi rispetto a quella cultura rivendica la propria alterità e differenza.

E in questo contesto rinnovato, in questo quadro grigio che lentamente riprende colore, stride con ancora maggior violenza la disputa che si consuma sul teatro politico veneziano: una disputa le cui ragioni mal si comprendono lontano dalla Laguna – e, probabilmente, anche a Murano o a Torcello, ma che mostra inequivocabili i segni residui, i ‘colpi di coda’, di un narcisismo che evidentemente stenta a farsi da parte, fatica ad essere razionalizzato, e inevitabilmente deborda in derive non controllate, certo destinate ad arenarsi miseramente, mostrando l’intera miseria del proprio fondo fangoso, ma non per questo persuase a rinunciare a ciò di cui il narcisismo sopra ogni altra cosa si nutre: dare spettacolo, fosse anche il peggiore spettacolo che si possa mostrare.

“E quando l’Agnello ebbe aperto il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per lo spazio di circa mezz’ora”. (Apocalisse, 8, 1).

E’ destino di questa misera umanità conoscere in frangenti sempre più rari, privati e preziosi, la liberazione del silenzio. Una parola inarrestabile e ininterrotta, una parola sempre più volatile e priva di peso, svalutata e abbrutita dal suo incoercibile continuare a parlare, voce rauca dall’obbedienza all’implacabile imperio che vuole che lo spettacolo comunque continui, uno spettacolo che parla mostrando la propria stessa nudità, il proprio stesso abissale non avere più niente da dire – questa parola che nel proprio eccesso non riesce più a farsi ascoltare – occupa d’autorità l’intera scena dell’attuale frangente della ‘commedia umana’.

Da questa parola – che parla senza ormai più dire – apparentemente non c’è, nella quotidianità del nostro occidente, via di fuga o strategia di salvezza.

Così, accade che l’agonia di Giovanni Paolo II – meglio, la parola che dice attorno a quell’agonia – invada di sé l’intero tempo di questi ultimi giorni, di queste ultime ore: una parola che pretende dire dell’agonia di chi, paradossalmente, si appresta a perdere la vita terrena quasi subito dopo aver perso la voce – dell’agonia di un uomo la cui parola, in qualunque contesto accepita, non poteva per definizione essere considerata se non pesante, densa di valore, destinata (in modo affatto inattuale) a lasciare segni.

Ironia della sorte – figura retorica laica; ma ironia forse del volere divino, agli occhi (alle orecchie?) del credente. E soprattutto quando si sa, dall’eccellente pierre Navarro Valls, ma non solo, che il combattitmento delle ultime ore del papa, la sua letterale agonia, usa le proprie ultime energie nel tentativo di accedere ancora alla parola, di comunicare: brandelli di frasi, dice Navarro Valls, che abbiamo ricostruito; biglietti dal letto di morte, secondo alcuni giornali.

Ma inesorabilmente – si senta o meno Karol Woitiła, come i patriarchi, non solo ‘vecchio’, ma anche “sazio di anni” -, inesorabilmente la sua voce pesante è destinata a tacere.

I giorni di nostra vita – ammonisce il salmo 90 – fanno in sé settanta anni, e se siamo robusti ottanta. E la tradizione vuole che il salmo 90 sia attribuito a Mosè – patriarca che senza dubbio morì vecchio, ma che al tempo stesso, non potendo godere i frutti dell’immensa impresa dell’esodo che aveva condotto per conto e con la stretta collaborazione di Dio, molto probabilmente non potè dirsi “sazio di anni”: qualcosa, e anzi la cosa principale, la conclusione della sua intera impresa, restava per volontà divina precluso ai suoi passi, raggiunta la terra di Canaan, Mosè non potè entrarvi. Per quanto vecchio fosse, la sua sazietà non avrebbe comunque potuto esser piena, la sua misura sarebbe rimasta non colma.

Ora, può essere che il papa avverta a sua volta una propria specifica mancanza di sazietà, e che questa riguardi proprio quella che potrebbe leggersi come estrema condanna al silenzio.

Per contro, la parola leggera e inesorabile che costituisce ormai il nostro ambiente di vita – un ambiente le cui peculiari condizioni di inquinamento e sostenibilità andrebbero infine silenziosamente esplorate – dilaga traboccando con dovizia alluvionale: feconda forse sottili strisce di terra, come si diceva del Nilo – ma per la più parte, come è proprio delle alluvioni, devasta, cancella, fa tabula rasa di tutto quanto sommerge.

E, in tutto questo, non tutto il male nuoce. Il diluvio di parole sul papa ha, almeno per una breve parentesi, costretto al silenzio altre chiassose e fin troppo consuete ‘corali’: il vociare sempre più stanco della politica, il reiterare onanistico di una campagna lettorale perenne – ma, per esempio, anche il vociare della domenica calcistica, con i suoi annessi sguaiati e urlati modello Simona Ventura. Anche su questa terra, anche prima dell’Apocalisse, non si può dire davvero che il silenzio sia necessariamente un male.

E il suggerimento che viene dal ‘cielo’ che contempla l’apertura dei sigilli - il suggerimento che viene dal silenzio del sabato della recente liturgia pasquale – è che perfino la parola più definitiva e pesante, perfino la parola ultima, perfino la parola di Dio, ha bisogno, proprio per lasciare segni, del contraltare altrettanto pesante del silenzio: un silenzio che sia capace di uscire dal ‘minuto’ canonico post mortem (li vediamo già, i nostri parlamentari, in piedi, mutamente commemoranti), per entrare nel tempo del prima – poiché non si dà musica senza pausa, e, credenti o meno che si sia, credo che un uomo come è stato questo papa non meriti di morire sommerso e imbrattato da tale e tanto rumore.

Urbanistica e tutela sono le due colonne sulle quali si dovrebbe reggere il governo del territorio nel nostro paese. Ne ho già trattato in una precedente opinione, però penso che sia necessario approfondire l’argomento per tentare di comprendere almeno una delle ragioni che hanno determinato la crisi in cui versa l’urbanistica italiana. Al fine di semplificare l’esposizione, nella seguente tabella sinottica (riportata in calce) ho ordinato, cronologicamente e separatamente, i fondamentali provvedimenti legislativi statali riguardanti le trasformazioni urbanistiche e quelli riguardanti il sistema delle tutele. La distinzione fra i due regimi è fuori discussione ed è stata convalidata da numerose sentenze costituzionali che si sono susseguite, con assoluta coerenza, dal 1968 al 2000, e proprio per questo ho composto l’allegata tabella sinottica. Ma è bene ripetere subito che il sistema delle tutele è anche uno dei contenuti essenziali dell’urbanistica propriamente detta. Mi limito a ricordare:

- la cosiddetta legge ponte del 1967, che incluse fra i contenuti sostanziali del piano regolatore generale “la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici” (art.3, comma 2, lettera c);

- dieci anni dopo, il decreto presidenziale 616/1977, che regola il trasferimento delle funzioni dallo stato alle regioni, attribuisce alla materia urbanistica “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”.

Gli esempi di tutela realizzata grazie alla pianificazione urbanistica ordinaria sono tanti e quelli più noti li ho già ricordati anche su eddyburg: le colline di Firenze, l’Appia Antica, il parco delle mura di Ferrara, le coste della Maremma livornese, e altri.

Torniamo alla tabella sinottica. La legge del 1942 e la 1497 del 1939 sono le due matrici, i due capostipiti dai quali hanno origine tutti i successivi provvedimenti riguardanti il governo del territorio. È evidente che, dopo la legge Bucalossi del 1977, si è bloccata, per così dire, la produzione di norme statali riguardanti organicamente la materia urbanistica. Anzi, come sa chi si occupa di queste cose, dopo la sentenza della Corte costituzionale del 1980, è stata in larga misura azzerata la stessa legge Bucalossi. Da allora, l’impegno legislativo ha riguardato il silenzio assenso, il condono (tre leggi in diciotto anni) e un’infinità di provvedimenti che autorizzano, o addirittura obbligano, a operare in deroga alla disciplina urbanistica, all’uopo inventando nuovi strumenti d’intervento: programma di recupero, programma di riqualificazione, contratto d’area, patto territoriale, prusst, eccetera. Manca solo la cosiddetta legge Lupi che, se fosse approvata, sarebbe la pietra tombale per l’urbanistica come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni.

Dalla tabella in calce si vede bene che proprio quando è manifesta la crisi dell’urbanistica tradizionale, si moltiplicano invece i provvedimenti relativi alla tutela specialistica. Una cosa non è automatica conseguenza dell’altra. La legge per la difesa del suolo del 1989 era attesa da ventitrè anni, dalle drammatiche alluvioni del 1966, e da tempo si aspettavano norme adeguate per i parchi e le aree protette e per rafforzare la tutela del paesaggio. È tuttavia evidente che la coincidenza non può essere casuale. Tende infatti a consolidarsi in quegli anni il convincimento che gli strumenti propri della tutela – quelli riportati in tabella e altri più minuti e settoriali, per esempio quelli appartenenti al mondo delle valutazioni – possano e debbano in larga misura sostituire strumenti e metodi della pianificazione ordinaria. La tutela, insomma, si sottrae all’urbanistica. Le ragioni di questa involuzione, ché, secondo me, di involuzione si tratta, sono molteplici e non possono essere indagate in questa breve nota. Mi limito qui a ricordare solo le responsabilità delle associazioni ambientaliste che, con l’eccezione di Italia nostra, non si sono mai veramente misurate con le questioni urbanistiche, cioè con i meccanismi che regolano le trasformazioni urbane, con la rendita e con la complessità degli strumenti di pianificazione e scelgono di occuparsi più degli effetti (il traffico, l’inquinamento) che delle cause (l’uso dissennato del territorio).

Un esempio illustre di ricorso a vincoli e dispositivi propri delle tutele che surrogano gli strumenti ordinari della pianificazione è quello di Tormarancia. Tormarancia è una tenuta di 220 ettari, fra l’Appia Antica e l’Ardeatina, un angolo di paradiso miracolosamente sopravvissuto, per il quale il piano regolatore di Roma del 1962, quello enormemente sovradimensionato, prevedeva un quartiere residenziale di circa due milioni di metri cubi. Il nuovo Prg, in formazione da una dozzina di anni, non ha il coraggio di andare oltre una riduzione della previsione originaria. Interviene per nostra fortuna il benemerito soprintendente archeologico Adriano La Regina che salva quel pregiatissimo territorio con un vincolo archeologico di inedificabilità, confermato dalla regione Lazio. Ma Tormarancia, una volta scampata al cemento, non è stata restituita, come sarebbe stato logico, all’agricoltura, ma è stata demagogicamente destinata a verde pubblico e il carico insediativo previsto dal piano regolatore è stato spostato in altra parte del territorio comunale. È fuori discussione il ruolo assai positivo svolto dalla soprintendenza archeologica, ma è altrettanto evidente la mancata soluzione del problema dal punto di vista urbanistico (dimensionamento del piano, dislocazione delle nuove cubature, accessibilità, eccetera).

Esistono altri esempi, a Roma e altrove, di utilizzo dei vincoli, in particolare dei vincoli archeologici, al fine di scongiurare operazioni dissennate. Altre volte, soprattutto con il ricorso ai piani di assetto delle aree protette, si sono invece peggiorate precedenti regolamentazioni urbanistiche (è il caso del comprensorio dell’Appia Antica, sempre a Roma). Ma ciò che qui interessa mettere in evidenza è che la tendenza a scorporare la tutela dall’urbanistica induce a trasformare gli strumenti della pianificazione ordinaria in atti volti a disciplinare esclusivamente l’edificazione e l’infrastrutturazione del territorio. L’obiettivo che insomma si persegue, più o meno consapevolmente, è che il piano regolatore o il piano territoriale di coordinamento debbano occuparsi solo di cemento e di asfalto, mentre i grandi spazi aperti e le cinture verdi dovrebbero essere di competenza, esclusiva o quasi, dei piani di assetto dei parchi, dei piani paesistici, dei piani di bacino.

Cito al riguardo due recenti e importanti esempi di pianificazione ordinaria, che sostanzialmente rinunciano a farsi carico della tutela e, oggettivamente, spianano la strada al disegno di legge Lupi (che proibisce addirittura agli strumenti della pianificazione ordinaria di occuparsi della tutela del territorio, come ben sanno i lettori di eddyburg). Il primo esempio è il nuovo piano regolatore generale di Roma; adottato circa due anni fa, mai controdedotto, che prevede per il 2011 un incremento del suolo urbanizzato di 15.000 ettari, mentre la parte dell’agro romano non sottoposta a trasformazione è sottoposta al regime dei parchi regionali[1]. Il secondo esempio è il piano territoriale di coordinamento della provincia di Napoli, più volte illustrato su eddyburg da Antonio di Gennaro e da Edoardo Salzano, che prevede la distruzione di ben 25.000 ettari della Campania Felix e di parti della penisola sorrentina, del Vesuvio, dei Campi Flegrei, delle isole del golfo, infischiandosene di ogni esigenza di tutela.

[1] Quello che penso del nuovo Prg di Roma l’ho scritto sull’ultimo fascicolo di Meridiana (n.47-48)

“Sinistra radicale”… Discutiamo. Riproponendo il caso delle elezioni comunali a Venezia Edoardo Salzano (Eddytoriale 70 del 24 aprile) ritiene che “nella baruffa quella sinistra si è spaccata nelle due entità antagoniste, tra le quali la destra ha avuto buon gioco a scegliere quella a sé più vicina”. Non c’è, qui, una contraddizione, un’aporia? La parte della sinistra che si è riconosciuta in Cacciari certo non era essa a poter provenire da un fronte “radicale”, giacché solitamente attribuiamo tale qualifica a chi rappresenterebbe un’alternativa vera, nel pensiero e nell’azione, non solo alla destra “sporca” o “pulita” che sia, ma anche al moderatismo centrista suo fratello. Non una complessiva sinistra radicale si è divisa a Venezia, a meno di identificarla (insiemea Rifondazione e altri) con l’intero Partito dei democratici di sinistra: è infatti quest’ultimo che si è spezzato secondo le proprie differenze che vanno dal moderatismo ultra (di un Morando, per esempio) al radicalismo (di un Folena, p.es., che guarda caso è emigrato nel Prc). La preoccupante questione centrale di oggi e di domani è: cosa rappresenta, come si muoverà il Pds? Non possiamo ignorare che sarà il suo peso nell’Ulivo e poi nell’Unione (la quale il suo pezzetto di radicalismo costituito dal Prc e dai Verdi dovrebbe in ogni modo conservarlo, a meno di sorprese trasformistiche) a decidere nel confronto con la Margherita e con qualsivoglia modello centrista – o peggiore – esista nell’alleanza degli oppositori alla Cdl. I democratici di sinistra, dal momento che si sono identificati in fortissima maggioranza con la linea di Fassino (non dimenticabile detrattore di Enrico Berlinguer), hanno ripudiato definitivamente quei connotati storici che, preservati, avrebbero potuto garantire alla società la tutela e il rilancio di quegli “interessi generali” che, una volta, solo la classe operaia, appunto quale classe generale, e il suo mentore Partito comunista speravamo sapessero individuare pur fra mille difficoltà e volgere a nuovi obiettivi concreti, non ideologici: vale a dire alla fine più avanzati nell’andirivieni della storia. Questo fu per così dire necessario a causa della mancanza di una borghesia produttrice erede dell’illuminismo (mai esistito veramente in Italia), capace lei di costituirsi come classe generale.

Parliamo di cultura: quale cultura di riferimento possiede oggi e indica agli altri il Pds? Come potrà misurarsi con la cultura, presente nell’Ulivo-Unione, della corsa al centro, priva di basi storiche se non, per una parte, un vago cattolicesimo sociale? Quale sarà l’influenza di una sinistra effettiva (Pdc) non più riconoscibile in un grande e grosso partito, una sinistra partitica abbastanza debole che deve usurarsi nel difendere posizioni anziché muovere all’assalto? Quale la capacità e volontà dei Movimenti di configurarsi loro come una sinistra nuova – pressoché priva della classe operaia – essendo mescolanza di ceti non propriamente dotati di cultura storica e tenuti insieme dal un sentimento di contrasto a un governo mai visto nell’Italia democratica tanto è indecente? Queste le domande che mi pongo davanti al tema forte dell’Eddytoriale 70, ambiente, crescita, patrimonio di beni italiani… Quanto più allarghiamo l’orizzonte e ragioniamo secondo una visione planetaria, tanto più verifichiamo l’inadeguatezza culturale delle forze politiche menzionate. Il marxismo è innominabile per la stragrande maggioranza degli attori del centrosinistra. Eppure certo studio marx-engelsiano e di conseguenza certa forma mentis avrebbero aiutato a capire, avrebbero forse impedito l’impressionante disimpegno di fronte al problema del rapporto fra l’uomo e la natura (solo lo Tsunami, ho già commentato, ne ha provocato una superficiale, giornalistica riesumazione). Il mondo va in rovina, e i nostri amici politici supposti alternativi non sono riusciti a liberarsi e a liberare gli sprovveduti dai vincoli nominalistici rappresentati dai nauseanti “sviluppo”, “crescita”, “sviluppo sostenibile”, ormai privi di senso umano e, al contrario, pregni degli effetti e dei programmi dell’incontentabile e incontenibile whirl-capitalism. Noi, specie umana, apparteniamo non solo a una nostra speciale storia ma a due storie, la storia naturale e la storia sociale. La piena coscienza “politica” di tale appartenenza, libera dal radicalismo separatore cattolico, avrebbe potuto produrre una diversa acculturazione di massa capace di comprendere l’enorme inganno costituito dallo squilibrio mondiale e locale (fra uomo e natura e nell’umanità) progettato dalle classi e dagli stati dominanti, e dall’enorme loro vantaggio prodotto da un sottosviluppo preservato in quanto funzionale anzi necessario alla veloce accumulazione del capitale. Non diversamente è capitato, se non per riguardo alla scala, nel nostro paese circa la distruzione della natura, del paesaggio, insomma del famoso patrimonio di beni. Come non hanno capito, i nostri, che la costruzione, la trasformazione e la manutenzione del paesaggio (del territorio) è intimamente collegata ai rapporti sociali? Le analisi notissime del marxista e comunista Emilio Sereni: le conoscono? Sì? E allora perché non ne hanno fatto tesoro? Sono analisi vecchie? Ma quali, allora, le nuove loro culture? Che, abbiamo imparato dolorosamente a verificarle nei fatti, mai impiegano parole e concetti quali natura, paesaggio, territorio, urbanistica… nella contesa con la destra principale distruttrice dell’ambiente nazionale.

Se, come scrive Edoardo, la sinistra deve trovare oggi il suo ruolo storico disvelando la contraddizione della ‘civiltà’ attuale (mio il virgolettato) “che ha la sua radice in una concezione oggi rivelatasi errata e mortifera dello sviluppo”, ebbene: vuol dire che il ritardo è spaventoso e che le “battaglie per la difesa di quanto resta [assai poco] del patrimonio accumulato da secoli” saranno ancor più difficili delle precedenti perché estreme. In ogni modo siamo qui per combatterle, coi nostri poveri mezzi.

Milano, 2 maggio 2005

In Eddyburg non è molto frequente il commento diretto di qualcuno a un articolo, una lettera di qualcun altro. Ebbene, sento di doverlo fare, benché in ritardo a causa di una lettura ritardata, in merito al pezzo di Carla Ravaioli Il turismo inquinante. Coraggiosa davvero ad affrontare un tabù, a rompere un idolo, a rischiare pesanti critiche da sinistra: quella sinistra che per parte sua non ha mosso un dito almeno per definire una propria visione del problema e separarla da quella dominante, dei governi succedutisi in mezzo secolo e delle stesse popolazioni. Ugualmente alla mancata costruzione di una politica a scala nazionale in materia di città e territorio, urbanistica e pianificazione. Si dirà che in questo secondo caso la differenza dai poteri vincenti si è affermata a livello locale; è vero in una certa misura e fino a un certo momento, non per l’oggi, quando tutto e dappertutto tende a omologarsi, a tenersi insieme, mentre una legge urbanistica nazionale ultra-liberista sta per essere varata consenziente o dissenziente ma disattenta e silenziosa l’opposizione. Nel campo del turismo le amministrazioni locali coi loro amministrati non sono le meno responsabili del disastro denunciato. Ma città e territorio sono la ragione stessa del turismo come descritto da Carla Ravaioli. Comuni e Regioni hanno permesso e/o provocato il dissesto del territorio nel sanguinoso sacrificio verso il dio che ridistribuisce il dono. Basta consultare Eddyburg per conoscere una mucchio di casi, raccontati da alcuni di noi e da giornalisti esterni, che confermano tale verità. Nel sito ho ripetuto ad arte: del Bel Paese d’antan, oggi Malpaese (Giovanni Valentini), resta non più del 15 % t.c. (tout compris, Messieurs et Mesdames!). Quanto è “colpa” diretta del turismo, oltre che della speculazione immobiliare destinata anche ad altro, e delle infrastrutture? In verità la domanda non ammetterebbe risposta giacché tutta la materia “inquinante” proveniente da diverse fonti si è aggregata in un unico magma lavico che ha invaso lo spazio nazionale e lo ha pervaso nei minimi anfratti. Si pensi, per esempio, all’edilizia: il settore delle seconde e terze e quarte case è diventato da almeno due decenni il più redditizio, prezzi che nelle grandi città possono essere raggiunti solo nelle ridotte aree centrali di massimo pregio (prima dagli uffici, ora dalle residenze di lusso).

Il vecchio slogan che poteva essere considerato di sinistra, turismo sociale, si è dovuto ben presto ritrarre, o si è ripiegato in una mistificazione. Ricordo, a quest’ultimo proposito, gli anni del mito bolognese ed emiliano-romagnolo: si voleva dipingere la costa romagnola come luogo di turismo sociale, ingannati dai prezzi relativamente bassi e da certe capacità organizzative di un’imprenditoria piccola e media. Si doveva dimenticare che, se questo era vero, lo era anche l’enorme quantità di costruzioni susseguentisi per chilometri e chilometri lungo il litorale a designare una “compromissione urbanistico-edilizia” (secondo il linguaggio di allora) che avremmo dovuto considerare all’incontrario, ossia remora alla riforma territoriale che rendesse possibile la riforma sociale del turismo. E non si doveva nominare un mercato del lavoro solo apparentemente separato dalle politiche urbanistiche: 30-40.000 lavoratori stagionali del settore turistico-alberghiero, per lo più immigrati da Puglie, Abruzzo…, sottoposti a rapporti di lavoro e condizioni di vita miserevoli e talvolta degradanti.

Coraggiosa Ravaioli…

Le città violate… Se penso a Venezia mi sento male. Ma i veneziani della città storica o abitanti altrove ma tenutari di commerci o di case lì, sono felici di poter saccheggiare i 12 milioni di visitatori annui o gli ospiti acquirenti. Infatti hanno votato “bene”. Veniamo tacitati e giudicati elitari se dichiariamo disappunto e pena per la visione di quei gruppi che percorrono affastellati gli itinerari commerciali stranoti e bruttati. È proprio impossibile, da nessuna parte del mondo, praticare un po’ di educazione culturale e artistica? La Grand Galerie del Louvre, il potente corridoio dedicato tra l’altro all’aurea pittura italiana, il lunghissimo spazio che precipita nella sala dominata dalla Gioconda, guarda attonito il corteo dei visitatori, moltissimi sempre gli italiani, andare e andare e andare senza sosta, senza accorgersi di emozionanti capolavori, per incocciare laggiù la muraglia umana davanti alla Gioconda. Chi se ne frega della Vergine delle rocce o di Sant’Anna con la Vergine, ilBambino e l’agnello, è Monna Lisa che debbo riuscire a fotografare sollevando la macchinetta al di sopra di trecento teste!

La mobilità turistica… È l’intero sistema di trasporto a volgersi contro, ai turisti e a tutti, invece che favorire la libertà di moto; a “inquinare” non solo letteralmente ma socialmente, poiché favorendo l’interesse individuale contribuisce a svendere il patrimonio di valori comuni. La penalizzazione del trasporto pubblico, nelle città e nell’intero sistema nazionale delle infrastrutture e dei mezzi, è giunta a tal punto da essere irreversibile. Non saranno un’“alta velocità” (peraltro solo “alta capacità”) pagata con l’indecente trascuratezza della rete normale, né poche linee di tardive e costosissime metropolitane in tre o quattro città già ricoperte di automobili e gas e polveri mortali, a introdurre un qualche buon germe di socialità in un turismo spezzato consumistico e, se è per questo, nelle vite dei cittadini.

Viaggi di gruppo organizzati… Molti per mete lontanissime, accettate come si accetta un pasticcino a un tè. È incredibile eppur vero: sappiamo di coppie giovani, del tutto disinteressate a godersi risorse ravvicinate ancora pronte a offrire piacere e insegnamento: eccole in viaggio di nozze, balzano per aereo nei luoghi una volta più strani ora designati da un sistema globale che inserisce il nuovo tipo di turismo nel commercio delle persone come merci, visitano non visitano, si divertono non si divertono, fotografano. Abitano nell’hinterland milanese e non hanno mai visto Sant’Ambrogio, abitano nei dintorni di Roma e non conoscono il Pantheon.

Che fare? domanda Carla Ravaioli. Per oggi le sue risposte, no imporre la categoria della quantità, no puntare sull’aumento del turismo per la ripresa economica, no affermare che il turismo non inquina, sono le negazioni necessarie poiché rappresentano la base di una politica generale completamente diversa da quella vincente finora. Chi l’attuerà? Prodi Fassino Rutelli Bertinotti? Facciamo tanti auguri a noi stessi.

Milano, 22 aprile 2005

Sostenere la domanda? O non piuttosto potenziare l'offerta? Ma come dimenticare i Grundrisse e il nesso inscindibile che connette l'una all'altra? Solo per ragioni di spazio mi permetto di sunteggiare così brutalmente il dibattito partito da «Un povero paese» di Galapagos, e da Roberta Carlini rilanciato come «Punto di domanda». D'altronde non intendo intervenire sull'oggetto della disputa, ma credo utile soffermarmi un attimo sul panorama che la contiene. Un panorama che da anni, a detta di un buon numero di esperti del calibro di Gorz, Chomsky, Severino, Wallerstein, Bello, Passet, Gallino, Stiglitz, Deaglio (solo per nominarli alcuni), è soggetto a traumi e mutamenti che ne rendono impossibile la lettura mediante i criteri e le grammatiche consueti, e insieme autorizzano a parlare di meccanismi di accumulazione inceppati, di dinamiche capitalistiche in panne, insomma di crisi strutturale dell'economia-mondo. E da qui si affaccia un bel po' di «punti di domanda». Tutti gli autori citati sopra si interrogano sul futuro. Ma le loro ipotesi non si concentrano sul come riparare il «giocattolo rotto» (Deaglio) e rimettere in moto la macchina. Tutti puntano invece su come muovere dalla situazione attuale per (tentare di) cambiare le cose, convinti come sono che esiste «un disperato bisogno di esplorare possibilità alternative» (Wallerstein), che un mondo diverso «può definirsi solo in opposizione al capitalismo» (Gorz), e che proprio la crisi va colta come «opportunità per la trasformazione del regime economico attuale» (Bello). Nessuno di loro ha una ricetta pronta, anche se Walden Bello, nel suo Deglobalizzazione (Baldini Castolidi Dalai 2004) traccia un abbozzo non generico di «una nuova economia mondiale». Ma ciò che più interessa è il comune punto di partenza, così diverso dall'impianto del dibattito più diffuso, anche a sinistra, che nel riparare «Il giocattolo rotto» sembra invece trovare il suo principale obiettivo.

Quando si dice che l'Italia, o qualsiasi altro paese, è «indietro» in questo o quel settore, quale «avanti» si auspica? E qual è il termine di paragone della lamentata scarsa competitività, insufficiente crescita, debole domanda, ecc.? Non è al modello neoliberistico che si guarda, non è ai suoi parametri e alle sue regole che si sprona il mondo produttivo ad adeguarsi al meglio? E non è questo un modo più o meno esplicito di legittimare il sistema neoliberistico (capitalistico cioè) e direttamente o indirettamente rafforzarlo? Quel sistema che le sinistre - o quanto meno una parte non piccola di esse - sacrosantamente accusano di perseguire disuguaglianza e esclusione come normali mezzi di politica economica; e di avere ridotto il lavoro a una variabile su cui scaricare tutti i costi che il mercato non sopporta; e di usare la guerra come strumento organico alla propria strategia di potere e alla stessa produzione di ricchezza; e (ma di questo non sempre, anzi raramente, ci si ricorda) di rapinare e sconvolgere a fini produttivistici l'ambiente naturale.

Ed è qui soprattutto che si affollano i punti di domanda. Certo, quando si discute di come superare il declino industriale italiano, è di disoccupazione che ci si preoccupa, di aumento dei poveri, di impoverimento dei ceti medi, cose da sempre iscritte nell'agenda delle sinistre. Ma la risposta a questi problemi può oggi essere quella di sempre? Di quando cioè il benessere dei lavoratori era funzionale all'accumulazione capitalistica, e questo dava spazio a battaglie spesso vincenti? Si può pensare alla ripresa come garanzia di più occupazione salari servizi, ecc. all'interno di un modello economico che, nella crescente scarsità di spazi utili alla valorizzazione dei capitali (Wallerstein, Gorz, Bello), solo puntando al massimo proprio su precarietà, attacco al salario, taglio dei servizi, riesce ad assicurarsi qualche aumento del Pil? In quanto appena detto non c'è ombra di idea propositiva, si obietterà. Vero. Ma sono convinta che per avanzare proposte utili occorra porsi tutte le domande oggi presenti nella nostra realtà, e guardare in faccia i problemi che esprimono. Tutti. Distinguere tra problemi urgenti e problemi di lungo termine, occupandosi nell'immediato dei primi e rinviando i secondi, è vecchia regola «di concretezza» osservata dalle sinistre. Ma serve ancora questa distinzione? O meglio, esiste ancora?

Che cosa succede nell’insegnamento universitario. Al Politecnico di Milano, particolare Facoltà di architettura civile di Milano Bovisa.

Ormai acquisito il discutibile schema 3 + 2, laurea breve e laurea specialistica, il problema più grave di oggi è la consistenza e la qualità del corpo insegnante. Voglio dire che mentre stiamo contestando il disegno Moratti teso a spezzare definitivamente il legame fra docenti e scuola, ad abolire l’incompatibilità fra professione privata o vs privati e impegno istituzionale, inoltre a ricattare gl’insegnanti circa la stabilità del posto di ruolo, sta funzionando da qualche anno ed è in corso di definitiva stabilizzazione un sistema locale dequalificato, perfino oltranzista in confronto all’ipotesi morattiana: la quale non doveva sorprendere giacché privatizzazione e liberismo nell’università rappresentano lo stesso ribaltone applicato o applicabile nei musei, nei maggiori teatri, nelle grandi stazioni ferroviarie, nelle infrastrutture di ogni tipo, e ancora, nel territorio, nella casa, nel mercato del lavoro. Si vuole svellere l’università, e il resto, dai cardini così come si vuole scardinare la Costituzione.

Il modello locale del Politecnico milanese ha anticipato e giustificato la riforma. È difficile dire come e quando, esattamente, abbia cominciato a prender forma e si sia poi irrigidito in una struttura che sarà impossibile demolire e ricostruire. È certo che il penultimo rettore del Politecnico e l’entourage dei professori più potenti fossero fautori della soluzione più facile di fronte alla scarsità di professori e ricercatori causata, per un lato, dall’”opportuno” sostanziale blocco dei concorsi, per un altro dalle norme europee relative al rapporto studenti/docenti, specificamente nelle facoltà di architettura e, qui, nei laboratori di progettazione. Pensarono: se mancano professori (veri e propri, aggiungo) prendiamo persone dall’esterno, dal mondo professionale e incarichiamole di insegnamento mediante contratti annuali di diritto privato; inoltre utilizziamo allo stesso modo quei disperati collaboratori volontari interni che stanno invecchiando senza speranza in un futuro migliore; comunque è bene che il personale di ruolo non superi la metà dell’intero organico (proprio in questo senso si esprimerà poi la Moratti); il vuoto sarà riempito da quegl’altri.

Non c’è nessun ostacolo legale a che i contratti di diritto privato per incarichi su discipline come quelle presenti al Politecnico a Ingegneria e ad Architettura – la dizione legale esatta: “settore scientifico disciplinare dell’insegnamento” – possano proliferare senza limiti. Sostenevano, i riformatori/demolitori: imitiamo gli Stati Uniti, dove le università migliori si contendono i cervelli acquistandoli, appunto, attraverso contratti. Sapevano benissimo che il paragone e l’ipotesi erano ridicoli. Là, negli istituti maggiori (privati), la contesa avviene attorno a remunerazioni da capogiro, per noi. Qua le cifre sono da miseria, di che cavolo di contesa potevano parlare?

Osservo meravigliato la facoltà che ho contribuito a fondare, leggo un elenco relativo all’anno accademico 2004/05:

professori ordinari 23

professori straordinari 6

professori associati 25

totale insegnanti veri e propri 54

professori fuori ruolo 4

ricercatori 33

totale insegnanti istituzionali (ammesso che i fuori ruolo e tutti i ricercatori siano titolari) 91.

Proseguo:

professori incaricati con il contratto di diritto privato168

insegnanti istituzionali 91

totale insegnanti 259

Così i contrattisti rappresentano il 65 % del corpo docente: un successo come privatizzazione edequalificazione della scuola; un successo come insignificanza del ruolo effettivo di professore.

Quanto vengono pagati? Approssimativamente secondo le ore assegnate, da un minimo di 900 a un massimo di circa 5.400 euro netti per i responsabili/direttori dei laboratori di progettazione, il cui peso didattico è ben conosciuto. Tale rimunerazione del lavoro va interpretata insieme al senso a al valore che assume il titolo di “professore a contratto”.

Per i giovani e meno giovani che non posseggono uno studio professionale o che, in ogni caso, non possono essere considerati dei professionisti, e che da un certo tempo svolgono compiti didattici in maniera per lo più, ma non sempre, subalterna, il titolo pare quasi un inganno verbale. Resta quel po’ di gratificazione che la parola professore concede, oltre alla modesta ricompensa da aggiungere agli occasionali pagamenti derivati da altre mansioni nei progetti di ricerca (benché sempre più rari e meno ricchi) assegnati a docenti di ruolo. Ma per i migliori, quelli che nella pratica e nello studio hanno imparato a insegnare in modo superiore al semplice compito di tutor, quel compenso può far aumentare la rabbia o la latente depressione per la duale condizione: insicurezza del lavoro e aspettativa delusa.

Per i numerosissimi professionisti esterni (specialmente architetti, poi ingegneri e qualche raro specialista in discipline necessarie ai piani di studio) la rimunerazione rispetto al reddito professionale conta poco o nulla; al contrario vale molto il titolo di “professore”. Premetto che per gli studenti, del tutto ignari riguardo al meccanismo sottostante al quadro da loro percepibile, qualsiasi persona insegnante si trovino di fronte nel corso o laboratorio sempre professore è, come d’altronde appare nominativamente, salvo le irricevibili sottigliezze istituzionali, nella corposa guida dello studente (fanno eccezione i pochi professori “famosi” per i quali è sempre risuonato nelle aule e nei corridoi al principio dell’anno accademico il tam tam informativo). Naturalmente non manca qualche professionista in grado di insegnare al di là del puro trasferimento della propria esperienza pratica, specialmente se ha goduto del rinnovo contrattuale per parecchi anni consecutivi e ha cercato di integrarla col sapere teorico e pedagogico. Ma in ogni modo a quel titolo tutti o la maggior parte ambiscono, eccome, giacché possono esibirlo, senza abuso legale se corredato da “a contratto”. Lo indicano sulla carta da lettera. Altri possono presentarli ad altri quali “professor …”. Soprattutto, la bella qualifica serve in particolare per le commesse da parte degli enti pubblici, in ulteriore particolare per gli incarichi urbanistici nei piccoli comuni: un pianetto regolatore, un piano particolareggiato a scala di disegno urbano, un progetto per la sistemazione di una piazza.

Così l’università funziona da cassa di ridistribuzione delle committenze e in definitiva del reddito.

P.s.- “…una delle leggi-omnibus approvate in questi giorni ha sottratto risorse al già esiguo fondo destinato alle università statali per aumentare del 7% lo stanziamento per le università private, recentemente aumentate di numero… Alla vigilia delle scadenze previste una circolare del 18 marzo (Prot. 91/Segr/Dgu) esenta le università non statali dal rispetto dei requisiti minimi…”, Giunio Luzzatto, in ‘l’Unità’, 27 marzo 2005, p. 27.

Condivido le tue valutazioni. Ero favorevole al progetto di Luigi Berlinguer e all’articolazione dell’apprendimento in più cicli, ma subito alcuni di noi rilevarono che la riforma degli ordinamenti didattici, per dar luogo a quella vera rivoluzione che era il passaggio dalla formazione tradizionale all’apprendimento continuo, richiedeva investimenti molto consistenti di risorse e modifica dello stato giuridico dei docenti, con una scelta decisa per il tempo pieno dei docenti. Ciò non avvenne. La privatizzazione dell’università, tenacemente perseguita da questo governo, ha trovato perciò un terreno fertile su cui applicarsi. Le conseguenze sullo stato generale dell’economia del paese e sul suo futuro sono ormai evidenti a tutti, ed altrettanto evidente è la condizione di marginalità cui sono condannati gli aspiranti docenti e ricercatori: risorse gettate a imputridire da una concezione distorta dello sviluppo.(es)

Come sconfiggere l’effetto serra e salvare l’economia è stato motivo dominante nella recente riunione londinese dei ministri dell’ambiente dei G8 e di alcuni “emergenti”. Ma, fatta salva la rilevanza dei soggetti impegnati, non si può parlare di evento d’eccezione. Ogni giorno un po’ dovunque, negli ambiti e ai livelli più diversi, si svolgono convegni dibattiti seminari dedicati al medesimo problema, cioè a dire alla necessità di fonti energetiche pulite e rinnovabili, capaci di sostituire i fossili superinquinanti oltre che in via di esaurimento. Perfino Bush, dell’ambiente finora totalmente e sprezzantemente ignaro, nel suo ultimo giro europeo ha accennato al mutamento climatico come a una “grande sfida”, da affrontare “ricercando, sviluppando, promuovendo nuove tecnologie… così che tutte le nazioni potranno progredire economicamente rallentando le emissioni di gas serra…”

In effetti da qualche tempo il mutamento climatico è oggetto privilegiato dell’attenzione generale. Non a caso l’entrata in vigore del trattato di Kyoto - di cui pure sono noti e ampiamente denunciati i gravi limiti - è stata salutata fra brindisi e pubblica euforia come un “evento storico”. Mentre l’informazione di ogni tipo si incaricava di darle massima risonanza, amplificata poi dalla dettagliata descrizione dei rischi che graverebbero sul nostro futuro se non si corresse ai ripari contro l’effetto serra; come appunto Kyoto dispone. E’ d’altronde la stessa magnitudine del fenomeno a imporsi con ineludibile evidenza all’opinione pubblica, sia per gli sconvolgenti effetti delle sue manifestazioni estreme, sia per l’emergenza smog e la crescente sregolatezza meteorologica di cui tutti direttamente soffriamo. Ma è soprattutto nella sovraesposizione mediatica ad esso dedicata, che lo sconvolgimento climatico finisce per essere identificato con il problema ambiente tout court, quasi fosse non la più allarmante ma l’unica manifestazione dello squilibrio ecologico; e quindi la sola “sfida” da affrontare e vincere, come Bush incita. Una consolatoria semplificazione, alimentata e sostenuta dal fatto che il clamore dell’informazione sull’effetto serra si accompagna al gran dibattito sulle energie rinnovabili, sulla ricerca sempre più ricca e variata di fonti diverse, sulle continue invenzioni in materia, sugli esperimenti già positivamente avviati, sui miracolosi ritrovati ormai a portata di mano. E, come noto, qualsiasi cosa indefinitamente ripetuta diventa verità.

Vaste maggioranze vengono così convinte che, se quanto prima - come ottimisticamente si promette - si troverà modo di sostituire i carburanti fossili con fonti energetiche non inquinanti, il mondo sarà salvo. L’economia anche. Con un brillante esercizio di “pensare positivo”, viene insomma drasticamente ridimensionato il quadro reale del guasto ecologico, che certamente nello sconvolgimento del clima trova la sua espressione più devastante, ma che si articola in una miriade di altri fenomeni, e proprio nel grande numero di manifestazioni diverse ma di analogo significato segnala la sua estrema gravità. Ne deriva un forte abbassamento della cognizione pubblica del rischio, e la tendenza a rimuovere o a considerare di volta in volta, solo quando si impongano con immediata urgenza, i singoli problemi che tutti insieme costituiscono il gigantesco problema del nostro futuro sul pianeta Terra.

Così solo quando la gente esasperta blocca autostrade e ferrovie, torna alla ribalta mediatica l’irresolubile (e infatti da nessuno risolta, anche se qua e là tenuta sotto controllo) questione dei rifiuti. Solo quando anche da noi i rubinetti sono a secco si sparano titoloni sull’acqua che finisce e già oggi manca a un miliardo e mezzo di persone. Solo quando una petroliera va a sbattere contro uno scoglio, si riparla del crescente inquinamento dei mari. Pochissimi sembrano poi far caso ai dati pubblicati dall’ Organizzazione mondiale della sanità, secondo i quali, oltre ai 170mila morti (circa uno tsunami all’anno) variamente imputabili al mutamento climatico, ogni anno da 2 a 5 milioni di persone soffrono di intossicazione da pesticidi e 22mila ne muoiono; mentre paurosamente si alzano le statistiche di incidenza tumorale anche tra giovani e giovanissimi, e tumori e malformazioni si moltiplicano nei territori prossimi a industrie a rischio (vedi, in Italia, Priolo, Augusta, Melillo). E praticamente del tutto ignorata è la tossicità che appartiene alla “normalità” del nostro vivere, che ci insidia sotto l’innocua faccia di oggetti quotidiani. La gran parte dei materiali sintetici in commercio e in uso, come vernici, coloranti, colle, additivi, pesticidi, fitofarmaci, numerosi tipi di plastica, batterie, metalli pesanti quali piombo, uranio, cadmio, plutonio, mercurio, absesto, ecc. sono tutte sostanze che poco o tanto ci avvelenano. Qualche settimana fa un gruppo di parlamentari giornalisti attori, volontariamente sottopostisi a un‘indagine promossa da WWF e Università di Siena, hanno saputo di presentare ciascuno mediamente tracce di 47 contaminanti (alcuni dei quali cancerogeni). Ma di che stupirci? Da oltre un decennio è stata rilevata la presenza di diossina nelle calotte polari e pesticidi nel latte materno.

A dire queste cose a uno dei tanti entusiasti delle “rinnovabili” ci si sente rispondere che sì, certo, ma il mutamento climatico è il fatto più pericoloso, prima pensiamo a quello. Se poi si chiede a che punto siamo con quello, le risposte sui tempi restano sul vago. In compenso ampia e calorosa è la descrizione di un futuro non più condizionato dalla scarsità del petrolio e dall’inquinamento, in cui si possa continuare a produrre come ora sette milioni e rotti di automobili all’anno, anzi di più, molte di più, perché anche cinesi indiani africani polinesiani tutti hanno diritto ad averne una e a circolare liberamente (che diamine, non sei per l’uguaglianza, tu?); e le nazioni, come dice Bush, possano “progredire economicamente”, usando cioè le nuove fonti energetiche per continuare a crescere e a competere tra loro per l’aumento del Pil.

A questo punto, a scanso di equivoci, mi sento tenuta ad affermare con la massima chiarezza che ritengo non solo utile ma indispensabile ogni impegno per la messa a punto di energie alternative ai fossili. Ma con altrettanta chiarezza e fermezza credo si debba dire che tutto questo non può essere guardato come la soluzione del problema ambiente, finché l’obiettivo è la salvezza dell’economia e non quella dell’ambiente naturale e di noi tutti in esso. Finché non si considera che non esiste energia in assoluto non inquinante: vi pare un inquinamento da poco una teoria di torri eoliche in una valle umbra, o una selva di pannelli solari sui tetti di un paesino medievale? Finché non si ricorda che la produzione di qualsiasi manufatto non consuma solo energia, ma una quantità di altri materiali, e di conseguenza crea rifiuti: ad esempio, ci dice John R. McNeil, “la costruzione di un’auto produce un inquinamento equivalente a quello generato dalla stessa in dieci anni di circolazione.” Finché si ragiona in termini di investimenti, di accordi economici, di crediti di emissioni, e si progetta la costruzione di migliaia di grandi centrali, e si parla di nucleare ultima generazione, per garantire una crescita sostenuta. Finché “promuovere lo sviluppo sinergico di strategie avanzate nella strutturazione di competenze di sistema”, “favorire progetti per un rapido salto di qualità tecnologica onde garantire un futuro produttivo”, e simili, non sono stralci del rapporto di una commissione tecnica al consiglio di amministrazione di una multinazionale, ma brani scelti di documenti elaborati da partiti di sinistra, istituti di ricerca e soggetti vari interessati all’ambiente, contenenti le proposte ritenute più efficaci per la riduzione dei gas serra.

Finché insomma si ritiene di poter guarire il tremendo guasto dell’ambiente con la stessa impostazione mentale che governa oggi l’economia, con le stesse certezze tecnologiche, e gli stessi criteri, lo stesso rispetto per le “leggi del mercato”, gli stessi vizi, lo stesso gergo, la stessa fede nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, che hanno conquistato anche le sinistre e una parte non piccola del mondo ambientalista. Mentre è sempre più raro imbattersi nel dubbio che davvero si possa salvare il mondo con la stessa logica e gli stessi strumenti che lo stanno distruggendo. Il dubbio cioè che fondava il vecchio ambientalismo. Ma sono lontani i tempi in cui l’economista Georgescu-Roegen segnalava ai colleghi l’assurdità e la pericolosità di una scienza economica sempre più astratta, separata dalla materialità dei processi produttivi e ignara dei limiti delle risorse; e Kenneth Boulding diceva: “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista.” Forse bisognerebbe aggiungere: “Oppure un politico”.

Questo articolo era stato scritto per il manifesto del 1 aprile 2005, è uscito solo sulle prime edizioni, poi è stato soppresso (con l’intera pagina) per esigenze connesse ad avvenimenti dell’ultim’ora.

Il grande mutamento dell’agricoltura contemporanea si verifica quando i concimi chimici si diffondono nelle campagne. Da allora si avviano una serie di processi a catena che trasformeranno profondamente il rapporto fra l’uomo e la terra, l’ambiente agricolo, la salute delle piante e la qualità dei loro prodotti.

Una prima importante conseguenza consiste nel fatto che i concimi chimici non fertilizzano la terra, ma nutrono direttamente le piante. Questa apparentemente insignificante osservazione coglie in realtà una novità di vasta portata. Infatti, poiché si possono far crescere i raccolti gettando nella terra una determinata quantità di concimi minerali, i coltivatori hanno progressivamente abbandonato i terreni a se stessi, senza più curarsi di rinnovarne la fertilità. Oggi i suoli coltivati con concimazione chimica sono gravemente mineralizzati, privi di humus, duri, facilmente erodibili, e sono in grado di produrre solo a condizione di elevate dosi di concime. Proprio la mancanza di cura nei confronti del suolo in quanto organismo vivente ha portato gli agricoltori, nel corso del XX secolo, a trascurare le rotazioni agricole che si praticavano da millenni. In questo modo le erbe infestanti sono diventate un problema crescente: un problema che è stato affrontato con il diserbo chimico, cioè attraverso sostanze erbicide che inquinano l’aria, l’acqua e la terra. Inoltre, la possibilità di vedere comunque dei risultati produttivi, ha condotto gli agricoltori ad accettare la crescente divisione - e poi la separazione definitiva - tra allevamento e agricoltura. Senza letame animale la terra si è sempre più impoverita di humus. L’agricoltura industriale ha così creato da una parte terreni sempre più poveri e inquinati e allevamenti sempre più giganteschi in cui gli animali vivono in condizioni spesso di atroce sofferenza, e grazie all’uso costante degli antibiotici e di medicinali.

D’altro canto, il fatto che i concimi minerali fertilizzano direttamente la pianta non è, a sua volta, senza conseguenze. Poiché le piante «non si nutrono» in maniera equilibrata attraverso l’humus esse sono forzate innaturalmente ad assorbire i sali dei concimi minerali. Tale forzatura altera la loro fisiologia ponendole spesso in condizione patologica. E ‘ questa una delle ragioni prevalenti per cui le piante, ammalandosi, vengono infestate dai parassiti. Un evenienza che, com’è noto, viene affrontata con i pesticidi, cioè attraverso altri veleni chimici. Il circolo vizioso della chimica che chiama altra chimica continua all’infinito.

Così dopo almeno un secolo di agricoltura industriale - un’agricoltura che certamente ha conseguito importanti successi sul piano dei livelli produttivi e della produttività del lavoro - noi possiamo osservare tutti i risvolti negativi che stanno dietro i record dell’abbondanza: le campagne sono più inquinate delle fabbriche, i prodotti agricoli presentano rischi per la salute, le caratteristiche organolettiche di frutta e ortaggi sono gravemente scadute, la biodiversità agricola si è ridotta, limitando così l’antica ricchezza delle cucine tradizionali.

Oggi, tuttavia, l’agricoltura biologica e l’agricoltura biodinamica rappresentano tanto in Europa che in USA una prospettiva di grande interesse, perché esse puntano a rigenerare la fertilità della terra, a combattere i parassiti senza mezzi chimici, a produrre prodotti in cui la salubrità e la qualità sono messi al primo posto. Da queste nuove agricolture nascono i prodotti con cui è possibile continuare ed esaltare la nostra secolare tradizione gastronomica.

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