Nell’economia, nella ricerca, nella scienza precipitiamo all’indietro. Qualcuno ricorda gli anni d’oro del dopoguerra? Gli anni del miracolo economico italiano. Tanto per dire: l’Oscar del «Financial Times» alla lira ai tempi di Donato Menichella; il calcolatore di Olivetti, prima degli americani; la plastica di Giulio Natta; il Cnen di Felice Ippolito; l’Eni di Enrico Mattei; il sincrotrone di Edoardo Amaldi; le innovazioni dell’Iri (senza dire del cinema e delle arti). Poi le cose sono andate come sappiamo e ci troviamo oggi agli ultimi posti in Europa. Allora? Non ci resta che piangere? Che altro ci resta?
Ci resta la Storia. Non nel senso che dobbiamo ritirarci nella memoria rinunciando al domani ma, al contrario, adoperando la storia come motore per il futuro. Specialmente per il futuro delle nostre città.
Pensavo queste cose partecipando nei giorni scorsi all’affollata presentazione di un magnifico libro, «Il teatro di Neapolis», curato dalla soprintendenza archeologica, dal comune e dall’università Orientale di Napoli. Un libro che racconta e documenta accuratamente il lungo lavoro, avviato dopo il terremoto del 1980 da un gruppo di benemeriti studiosi – Bruno D’Agostino, Ida Baldassarre, Roberto Einaudi integrato negli anni successivi da Stefano De Caro, Daniela Giampaola, Giancarlo Ferulano, Fabiana Zeli e altri – che stanno realizzando il recupero dell’antico teatro romano nel cuore della Napoli greco-romana. Una straordinaria impresa di archeologia urbana, alla quale collaborano da tempo, con sorprendente concordia, la soprintendenza, il comune e l’Orientale. Non si tratta di isolare l’antico monumento (come pure, molto recentemente, è stato proposto da uno storico dell’architettura autorevole come Renato De Fusco) ma di promuoverne la riscoperta, rispettando la storia della città e documentandola. Il teatro romano si trova infatti sotto la complessa stratificazione edilizia che si è formata nei secoli a partire dal tardo antico e i suoi resti sono adesso visibili al di sotto dell’isolato moderno. Parte della cavea è stata messa in luce nel giardino di via S. Paolo ed è già stata utilizzata per una prima rappresentazione teatrale.
Il recupero della città storica è uno degli obiettivi prioritari del piano regolatore di Napoli che all’uopo prevede appositi piani attuativi, mentre per le ordinarie operazioni di conservazione edilizia sono previsti interventi diretti, regolati da norme fondate sull’analisi e la classificazione tipologica. L’archeologia urbana non è limitata al teatro romano, altre aree interessate sono l’acropoli, sopra piazza Cavour, ancora occupata dal vecchio policlinico, il complesso di Carminiello ai Mannesi, nei pressi di via Forcella, una parte delle mura aragonesi. Napoli è una città delle italiane in cui si pratica in modo rigoroso la procedura dell’archeologia urbana. A Roma il progetto Fori – che prevedeva di smantellare la via dei Fori, quella voluta da Mussolini per offrire uno sfondo imperiale alla sfilata delle truppe, e per vedere il Colosseo da piazza Venezia – è stato anch’esso seppellito.
È ora diffusa ovunque l’”archeologia derivata”, quella dipendente dalle opere pubbliche: parcheggi, metropolitane, strade, ferrovie, e via scavando. E quindi l’archeologia come sorpresa, come occasione eterodiretta, decisa altrove, “non conseguente a una domanda di ordine storico” (Piero Guzzo). Il “rischio archeologico” come il rischio geologico, la ricerca archeologica come lo sminamento, come la bonifica, spesso solo un costoso intralcio alle opere pubbliche. Con l’inevitabile corredo di vetrine, finestre, piccoli recinti specializzati, dall’esito estetico insignificante, dove sono esposti i resti recuperati e spesso incomprensibili,
Anche se, intendiamoci, l’archeologia derivata contribuisce lo stesso alla conoscenza e importanti risultati sono stati raggiunti proprio a Napoli grazie ai lavori della metropolitana seguiti da Daniela Giampaola: l’antico porto di piazza Municipio, la fortificazione bizantina di piazza Bovio. Ma l’archeologia che serve alle nostre città e al paesaggio è l’archeologia urbana, componente vitale dell’urbanistica moderna. Secondo me all’archeologia urbana si deve riconoscere addirittura un valore integrativo e sostitutivo – se volete di supplenza – nei confronti dell’urbanistica propriamente detta. È un argomento secondo me attuale e importante, da riprendere e sviluppare più estesamente in altra occasione. Qui mi limito a schematizzare che purtroppo, come sappiamo, l’urbanistica è una disciplina in via di rimozione, negletta, talvolta vilipesa, e con essa sono in discredito obiettivi una volta indiscutibili, lo spazio pubblico, il bene comune, il diritto alla città. Perciò è un’ottima cosa se questi stessi obiettivi sono parte di un progetto di archeologia urbana (si pensi ai parchi archeologici suburbani). L’archeologia, a differenza dell’urbanistica, è una disciplina che tutti gradiscono.
Sempre, nei momenti di crisi e di incertezza, quando non si capisce il futuro, ci si interroga sul passato.
Alloggi e negozi di proprietà comunale affittati nel cuore di Milano, Piazza Duomo e Galleria. Il municipio ha pubblicato due elenchi riguardanti l’uno gli appartamenti, senza il nome del locatario, l’altro gli spazi commerciali, con la denominazione ufficiale, quella che appare nelle insegne. Precisazione quest’ultima dovuta, giacché chi e quali capitali stiano dietro di esse non è dato sapere (ma sono stati segnalati e denunciati più volte dalla stampa gli investimenti della mafia e della n’drangheta). Gli elenchi che i quotidiani milanesi hanno commentato illustrandoli con tabelle e grafici sono molto interessanti soprattutto perché mostrano come il Comune non sia stato capace di riordinare a dovere una materia, quella dell’impiego delle proprie risorse patrimoniali, del quale dovrebbe render conto all’opinione pubblica oltre che agli organi istituzionali di controllo, mostrando correttezza economica ed equità sociale.
Un analogo elenco di tre anni fa relativo agli esercizi commerciali nella Galleria e in un prossimo tratto di portico sulla piazza rivelava numerosi casi di incredibile privilegio, durato per molti anni. Nessun contratto d’affitto appariva allineato ai valori di mercato, stimati fra i più alti del mondo per questo luogo. Ma ben 17 casi su 38 (quasi il 45%) presentavano importi non solo di molte volte inferiori ma palesemente causati, nonché da colpevole noncuranza degli amministratori, da favori e diritti esclusivi dispensati a certe aziende. La dimostrazione ce la danno gli stessi prezzi convenuti nella revisione del 2010 con la moltiplicazione, in questi 17 casi, maggiore che in tutti gli altri. Tuttavia per i contratti del 2010 (41 di cui 3 nuovi) l’amministrazione comunale non ha per niente ottenuto un generale equilibrio. Mentre i valori massimi non toccano ancora il livello adeguato allo straordinario pregio “mondiale” del sito, sono evidenti gravi disparità nel calcolo dei prezzi unitari, scontate le variazioni attribuibili al diverso peso delle superfici totali. Ad ogni modo i numeri ballano dal basso al medio all’alto per posizioni di assoluta omogeneità. I pochi prezzi unitari più elevati superano i 1.000 euro al metro quadrato e potremmo accontentarci, ma quelli più bassi suscitano sorpresa e scandalo. Il Bar Zucca ubicato in uno degli angoli del voltone d’accesso alla Galleria dalla piazza, forse il bar più famoso della città, paga solo 184 euro al metro, 104.000 euro l’anno per 563 metri quadri, 8.640 euro il mese. Se la motivazione fosse il valore storico dell’ambiente (non sappiamo quale altra se ne possa trovare), non per questo sarebbe accettabile un tale regalo all’attuale proprietà, il cui ricavo giornaliero di sicuro rifiuteremmo di credere vero se ce lo rivelassero. Alcune situazioni sono incomprensibili. Di due dei tre negozi nuovi rispetto al 2007, Abbigliamento Dutti e Abbigliamento Oxus, collocati sullo stesso lato della Galleria e divisi solo dalla storica Libreria Bocca, il primo ha avuto come un regalo, l’irrisoria cifra di 130 euro/mq (31.500 euro/anno per 242 mq), il secondo ha dovuto accettarne 1.193 (129.350 euro/anno per 104 mq). Viene il dubbio che ci sia un errore nella tabella pubblicata. Il negozio di camicie Nara e il Bar Sì che vanta un’incessante frequentazione, sul lato dirimpetto poco distanti l’uno dall’altro, con superfici quasi uguali (80 e 87 mq), pagano il primo 957/mq, il secondo 351. Si vede che i bar, oggigiorno sempre anche ristoranti specie per turisti, numerosissimi in ogni stagione, godono di particolari simpatie presso la giunta comunale, se anche il lussuoso Il Salotto nell’ala verso Piazza Scala esibisce un misero contrattino da 302 euro al metro quadro.
Il panorama disegnato dai contratti attuali inerenti agli alloggi nella Galleria, nelle due strade adiacenti (via Foscolo e via Pellico), nel palazzo sul lato meridionale della piazza (accesso dalla retrostante via Dogana) è contrassegnato da prezzi stracciati. Non si conoscono i nomi dei locatari e questo, come ha osservato il candidato del centrosinistra alle elezioni comunali avvocato Pisapia, “non serve”. Qualche inquilino cinquantennale molto anziano, amici degli assessori, pensionati, enti sconosciuti e affittuari in locali lasciati senza manutenzione: è un coacervo di assurde situazioni incancrenite alle quali non sarà facile metter mano per sbrogliare il pasticcio e render equo il rendimento patrimoniale. I prezzi sono davvero quasi tutti talmente bassi da far apparire bizzarri quei pochi che se ne discostano. Che sono solo quattro (due in Galleria, uno in via Foscolo, uno in via Pellico) in cui il valore annuo al metro quadro varia attorno ai 200 euro e l’affitto mensile per superfici fra 75 e 100 metri va da 1200 a 1800 euro circa. Tutti gli altri alloggi evidenziano prezzi unitari minimi in relazione sia alla superficie sia all’affitto mensile. Un appartamento di 163 mq in via Foscolo paga 32 euro annui al metro e 430 il mese. Nel palazzo sulla piazza cinque appartamenti presentano contratti senza squilibri perché tutti a livello molto basso fra 40 e 50 euro/mq e 300-450 euro d’affitto mensile. Che cosa deve fare il Comune? Non moltiplicare brutalmente e indiscriminatamente l’onere del contratto a tutti ma valutare attentamente ogni caso per evitare di punire qualche vecchio inquilino povero, o di sopravalutare locali degradati che invece devono essere restaurati, o di sottovalutare il contributo di chi abbia fatto eseguire rilevanti ammodernamenti. Comunque, presupponendo appartamenti in buono stato da affittare secondo procedure di massima trasparenza, il canone mensile lordo comprensivo di tutte le spese, salvata la necessità di conservare in qualche caso, per ragioni umanitarie, un canone da casa popolare, potrebbe essere calcolato diciamo al 4% del valore capitale di almeno 10.000 euro al metro (questo è il prezzo minimo per alloggi in ottime condizioni in zone del centro storico anche non prossime a Piazza Duomo): dunque affitto di 400 euro/mq; per un alloggio di 75 mq 2.500.000 euro il mese; vuol dire aumentare l’importo di certi attuali contratti persino di dieci volte.
Milano, 22 gennaio 2011
Che Sandro Bondi non concorresse al titolo di “Miglior Ministro dei Beni Culturali”, ci era noto da tempo. Per molti mesi dal suo insediamento gli osservatori e gli operatori del mondo dei beni culturali e quanti semplicemente hanno a cuore le sorti del nostro patrimonio hanno stigmatizzato la sua assenza: Bondi troppo impegnato sul versante partitico ha per lungo tempo dedicato al proprio Ministero un’attenzione distratta, casuale e spesso puramente ideologica tanto da abbandonare il nostro patrimonio, in più di un oscuro passaggio, nelle mani della “cricca”. Clamoroso il caso del commissariamento per i Grandi Uffizi a Firenze, mentre le procure sono ora al lavoro sul Petruzzelli di Bari, sulla ricostruzione all’Aquila e su quella gestione commissariale di Pompei che ogni giorno di più, consegna alle cronache nuovi esempi di finanza allegra.
In questa latitanza, spiccano, per caratterizzazione “ideologica” appunto, i provvedimenti di reale tutela, poche medaglie al valore ma ripetutamente sbandierate: ma se il Pincio, non appena transitato sotto l’amministrazione Alemanno è stato doverosamente salvato dallo sventramento, non altrettanto è successo a Milano, dove il ministro non ha minimamente contrastato lo scempio inaudito del parcheggio di Sant’Ambrogio fortemente voluto dall’amministrazione Moratti.
Nella mancanza complessiva di una visione culturale, se non proprio di una politica, unico esempio di direttiva è stato rappresentato dall’accentuazione esasperata delle pratiche di valorizzazione, culminate con la nomina di apposito manager e codazzo annesso di pubblicitari che in nome del marketing in un anno e mezzo di attività hanno saputo produrre, fra continue fanfare mediatiche, solo qualche bislacca campagna promozionale per rendere ancor più appetibili i monumenti icona del nostro patrimonio già oppressi da una pressione antropica che non ha mancato di provocare i primi segnali di cedimento (v. per tutti il Colosseo e i suoi problemi di degrado).
Alla stessa visione pubblicistica (essendo il marketing vero e proprio comunque collocato su un altro livello di complessità), è ben presto risultata ispirata anche la pratica dei commissariamenti dei principali siti e monumenti nazionali, attraverso la quale si è tentato uno smembramento del patrimonio fra beni di serie A, economicamente fruttuosi e beni di serie B (il 90% dell’immenso patrimonio culturale italiano) non monetizzabili e quindi abbandonati, dopo i ripetuti tagli di bilancio, ad un incerto destino. Il caso degli Uffizi e gli eventi recentissimi di Pompei rappresentano gli esiti, dolorosi e internazionalmente conosciuti di questa “sperimentazione”.
I commissariamenti hanno costituito peraltro l’iniziativa più fragorosa, ma non l’unica di un disegno di dismissione complessiva del sistema delle tutele, che si è incarnato in una serie di provvedimenti, meno clamorosi ma ancor più devastanti, tesi a ridurre e imbrigliare il ruolo delle Soprintendenze in materia di tutela del paesaggio. Proprio in questo settore cruciale a salvaguardia non solo del nostro patrimonio culturale, ma del tessuto delicatissimo del nostro territorio, Sandro Bondi ha di fatto accettato di confinare il proprio Ministero in un ruolo di totale irrilevanza politica e di sudditanza acritica nei confronti dei Ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture. Dal piano casa al federalismo demaniale, dalle “semplificazioni” amministrative – autorizzazione paesaggistica e Scia – alle così dette linee guida sugli impianti di energie rinnovabili, con accelerazione crescente negli ultimi mesi, i già fragili organismi della tutela sono stati investiti da una serie di provvedimenti ambigui, spesso tra loro contraddittori e tutti però ispirati alla politica del laissez faire e della facilitazione dell’iniziativa privata a qualsiasi progetto applicata.
Già in passato avevamo denunciato, a partire dal Primo rapporto nazionale sulla pianificazione paesaggistica, questa deriva anticostituzionale che, complice il Ministro, tendeva a sovvertire la primazia dell’art. 9, rispetto ad altri interessi che non fossero quello pubblico, il principio guida che da Benedetto Croce a Concetto Marchesi, ha ispirato i legislatori e i padri costituenti.
Ripetute e ormai rituali affermazioni di “disponibilità” alle esigenze del progresso comunque inteso da parte della dirigenza Mibac, documenti ufficiali di imbarazzante livello culturale in cui alla tutela vengono sostituite le “buone maniere” fino a giungere a quest’ultima esplicita dichiarazione dello stesso Bondi. Coi toni ormai consueti di acrimonia e arrogante furore con i quali si rivolge a chiunque si permetta critiche al suo operato (l’episodio delle dimissioni di Salvatore Settis segnò, da questo punto di vista, una svolta verso una deriva da minculpop sempre più pesantemente applicata da allora in poi) il Ministro, in uno sbracamento culturale totalmente esplicito, identifica la propria mission nella facilitazione coute que coute della funzione infrastrutturale ed edilizia del territorio che non deve essere ostacolata da “ritardi” derivanti da fastidiosi reperti.
E’ la versione riveduta e corretta come neppure i più tendenziosi fautori della libera impresa avrebbero potuto sperare, di un art. 41 cui è stato assoggettato l’art.9, ridotto al ruolo di accessorio esornativo.
L’uomo sbagliato, dunque, al posto sbagliato: dopo queste ultime dichiarazioni non c’è altra possibilità di salvezza per il nostro patrimonio che le dimissioni di Sandro Bondi.
Per questo eddyburg si unisce all’appello a Napolitano promosso da Assotecnici e invita tutti i suoi lettori a firmarlo.
Per firmare l'appello Per Pompei e la cultura
La riforma Gelmini, definita “epocale” dalla ministra – che evidentemente ha idee confuse su ciò che sono le epoche – divenuta legge, investirà la vita delle Università italiane nei prossimi mesi. Un diluvio di norme e regolamenti da applicare pioverà sugli atenei, proseguendo ed esacerbando le tendenze dell'ultimo decennio, durante il quale “l'innovazione continua” delle cosiddette riforme ha tormentato docenti e studenti, perennemente alle prese con problemi organizzativi e novità procedurali da interpretare. Una pratica che ha assorbito non poco tempo ed energia alle loro ricerche e ai loro studi. Nulla di nuovo, dunque, se non il peggio che prosegue nella sua china, perché la riforma aggiunge un'ulteriore limitazione di risorse e di personale ai vecchi problemi.
Ciò che tuttavia iscrive la nuova legge nel quadro delle ristrutturazioni universitarie della UE è un dato di cui pochi, in verità, si sono occupati. Tutte le riforme dell' ultimo decennio non si sono neppure interrogate sulla qualità degli insegnamenti che si impartiscono nell'Università. L'unica preoccupazione che ha tenuto desta l'attenzione dei riformatori è stata quella di far corrispondere discipline e insegnamenti alle tendenze del mercato del lavoro. I solerti pedagogisti del capitale non hanno rovelli che per questo. E perciò anche un grande scrupolo nell'emarginare le discipline umanistiche, poco utili a produrre saperi strumentali, immediatamente spendibili nel mercato. Per il resto, nessuno sguardo sugli scenari attuali delle scienze, nessuna messa in discussione dell'esistente, nessun accenno a una possibile “riforma dei saperi” che allarghi gli orizzonti della ricerca e della formazione universitaria.
Qui si può osservare nitidamente la miopia sistemica della cultura capitalistica dell'ultimo trentennio. E' infatti il caso di ricordare che, mentre le nostre Università si reggono sugli insegnamenti delle vecchie discipline, sulle loro nette separazioni istituzionali – aggiornate nei contenuti da qualche solitario ed eterodosso docente - all'esterno il mondo dei saperi scientifici è stato investito da trasformazioni profonde, in questo caso davvero “epocali”. Si pensi alladiffusione, negli ultimi decenni, dell'ecologia, “la scienza delle relazioni – come scriveva il suo fondatore, Ernst Haeckel - fra le cose viventi e il loro ambiente” Questo nuovo ramo del sapere non è una qualche disciplina specialistica che si viene ad aggiungere a quelle già esistenti. Esso ha letteralmente capovolto uno dei principi costituitivi su cui si e' fondata e sviluppata l'intera scienza moderna: vale a dire la separazione e l'isolamento dell'oggetto dal suo ambiente, per essere studiato nella sua separata e solitaria struttura. L'ecologia ha mostrato, al contrario, che i fenomeni si indagano dentro il loro contesto ed ambiente, perché le connessioni, non sono accidenti, ma costituiscono la realtà intima e indisgiungibile degli stessi fenomeni. Possiamo studiare il seme del grano o l'ape in laboratorio, ma la loro vita reale si comprende nell'universo complesso del suolo, oppure tra le piante, i fiori e le altre famiglie degli insetti. La “prima scienza nuova” come Edgar Morin ha definito l'ecologia - con esplicito riferimento al nostro Giambattista Vico - per la prima volta mostra il mondo vivente in cui tutti siamo immersi come una complessa rete di connessioni i cui multiformi equilibri e relazioni costituiscono ciò che noi definiamo natura. Essa disvela, dunque, l'unità e l'interdipendenza di tutti i fenomeni che la scienza moderna aveva frantumato in una moltitudine di specialismi.
Il successo dirompente dell'ecologia che – salvo rari casi –stenta ancora a trovare spazi adeguati nelle aule delle Università, non è solo dovuto alla sua straordinaria fertilità metodologica. Basti pensare alla sua propagazione tra tante discipline tradizionali, dalla biologia alla chimica, dalla fisica alla botanica, o alla “esplosione” di un campo prima ignoto della biologia, come quello della biodiversità. Il suo vero e proprio trionfo è stato decretato da due clamorosi e drammatici fallimenti che la tecnoscienza ha subito nella seconda metà del '900. Il primo di questi, come tutti sanno, è il « buco dell'ozono”. L'intera vicenda ha mostrato che nessuno dei chimici che avevano creato i gas clorofluorocarburi aveva idea degli equilibri gassosi degli strati alti dell'atmosfera. E di come questi potessero essere gravemente alterati dai gas costruiti in laboratorio. Come apprendisti stregoni che avevano destato potenze infernali, essi hanno dovuto prendere drammaticamente atto dell'esistenza di relazioni invisibili che regolano l'atmosfera in cui dimorano i viventi sul pianeta Terra.
L'altro caso, ben noto, è il riscaldamento globale. Uno degli studiosi più impegnati sul campo, Nicholas Stern, l' ha definito “il più grave ed esteso caso di fallimento del mercato che si sia mai verificato.” Giudizio certo calzante, ma tutto interno all'economicismo imperante. In realtà, la tardiva scoperta che le attività umane condizionano il clima della Terra costituisce il più grave scacco subito dalla scienza contemporanea. L'incapacità delle discipline dominanti di pensare la Terra come una biosfera, vale a dire come un universo di relazioni il cui equilibrio rende possibile la vita, mostra nitidamente come queste discipline hanno smembrato la natura per dominarla nelle sue singole parti, dimenticando che essa è un tutto. Scoprire, come oggi facciamo, che ciò che immaginavamo come infinitamente lontano e indipendente dalle attività umane, il clima, risente invece dell'azione dei nostri scarichi e dei nostri fumi, disvela l'urgente necessità di una “scienza nuova”, di un sapere olistico di cui l'ecologia è portatrice. Dobbiamo, infatti, prendere atto, che il cielo, immaginato come infinitamente lontano e distante da noi, è invece il tetto della nostra casa, e corriamo il rischio di renderlo rovente.
Ora, questi nuovi saperi si stanno facendo strada. Com'è noto, è proprio per lo studio dei mutamenti climatici che si è formato l' IPCC, voluto dall'ONU: il più grande consesso di studiosi mai messo insieme per studiare, con diverse conoscenze disciplinari, quella speciale totalità che è il clima terrestre. Anche all'interno di qualche Università di avanguardia l'ecologia va producendo un rimescolamento dei vecchi assetti disciplinari, e comunque un nuovo dialogo tra le scienze e tra queste e i saperi umanistici. E' il caso, ad es. , dell' Environmental Science, Policy and Management dell'Università di California, a Berkeley, dove filosofi e chimici, storici e botanici cooperano o dialogano su ricerche comuni. Ma si tratta di qualche stella in un firmamento spento.
Riflessione analoga meritano i saperi umanistici, oggi letteralmente perseguitati come veicoli di parassitismi antieconomici, di contagiosi virus del pensiero libero e disinteressato. Eppure il rimescolamento senza precedenti di razze e culture che investe oggi il globo, reclama come non mai il concorso dei saperi umanistici per comprenderlo e interpretarlo. La necessità di una cultura cosmpolita, che faccia i conti con un eurocentrismo ormai angusto, capace di abbracciare le storie e le antropologie, le fedi e le lingue di moltitudini di genti ormai presenti nella nostra vita e nel nostro immaginario, reclama più conoscenze dagli storici, dagli antropologi, dai sociologi, dai geografi, dagli economisti, dai letterati.
E come rispondono i riformatori a questa sfida, anche questa, realmente« epocale »? Con quali saperi si affronta la complessità del mondo che diventa globale? Conosco un solo sforzo serio in questa direzione, avviato in Francia dalle Maisons des Sciences de l'Homme : fortilizi dei saperi umanistici di cui avremmo così bisogno in Italia. Qui, al pedagogismo straccione del centro destra italiano, che rivendicava (ricordate?) la politica delle “tre i” - internet, inglese, impresa - le Maison hanno fatto corrispondere ben diversi significati alle stesse vocali: i nternazionalità, interdisciplinarietà e interistituzionalità. Ma anche in questo caso si tratta di una piccola cometa nei cieli spenti d'Europa.
In realtà, mentre si costruisce l'UE, mentre siamo inondati di retorica sull'avanzare del mondo globale, nelle Università non si fa nulla per costruire la nuova cultura cosmopolita del cittadino europeo e globale. Anzi, in tutti questi anni abbiamo assistito a un fenomeno culturale rilevantissimo di cui le Università portano una responsabilità primaria. Alludiamo al fatto che l'economia, uno dei più antichi saperi del mondo occidentale, diventata una scienza sociale dominante in età contemporanea, si è ormai ridotta, tanto nel suo operare sociale che nelle aule dell'Università, a una tecnologia della crescita economica. Oggi dominano nei curricula delle Facoltà di economia discipline come marketing, matematica finanziaria, economia aziendale, banche e mercati finanziari, ecc, tutto ciò che serve a fare di un giovane un dirigente o un dipendente di impresa. La sua formazione culturale strettamente al servizio delle necessità presenti del capitale. E nessuno – a quanto mi risulta – mena scandalo del fatto che in queste Facoltà non sia presente una materia come storia del lavoro, o come sociologia del lavoro. Non ha nulla a che fare il lavoro con l'economia, con la formazione della ricchezza? Da dove viene, chi ha costruito la società industriale del nostro tempo, in cui i neolaureati sono chiamati a operare ?E' evidente, in questo caso, che già nelle Università si cancella il lavoro – e le persone viventi che lo realizzano - dall'orizzonte formativo dei giovani economisti. Ma questa disciplina mostra oggi altre, ormai insostenibili, inadeguatezze. Com' è possibile che chi studia economia non possa accedere a un corso fondamentale di s toria del colonialismo? Quale può essere la formazione di un giovane economista che ignora un tratto fondativo della storia economica europea: vale a dire il fatto che essa si fonda su cinque secoli di saccheggio delle risorse del Sud del mondo? Ma oggi il capitalismo, con la sua immane macchina divoratrice di energia e risorse, reclamerebbe una ben altra consapevolezza scientifica da parte delle discipline che lo promuovono e l'indirizzano. Non è l'attività economica una gigantesca e insonne manipolazione di risorse naturali destinate alla vita di esseri naturali? Non è l'economia una ecologia inconsapevole? Eppure, a tutt'oggi, i saperi ecologici dentro queste facoltà non hanno diritto di cittadinanza.
Ecco dunque che di fronte all'ampiezza di questi problemi e di queste contraddizioni – il mondo dei saperi che sopravanza in ampiezza e profondità quello strumentale con cui il capitale vuol restringere gli orizzonti formativi delle nuove generazioni – mostra quale portata strategica assuma l'Università nel nostro tempo. Quale luogo di affermazione di un sapere non piegato ai comandi del profitto, che guardi alla natura come a un bene comune da tutelare e non da saccheggiare e che operi al tempo stesso per un progetto di società solidale e multiculturale su scala planetaria. Si comprende bene, quindi, che la lotta dei ricercatori, degli studenti e dei docenti italiani è destinata a trovare motivi di continuità non solo nelle soffocanti imposizioni della legge Gelmini, ma anche in un più vasto orizzonte di ragioni e di prospettive.
www.amigi.org
Questo articolo è stato inviato contemporaneamete al manifesto
L'articolo di Asor Rosa sul manifesto del 17 novembre merita non solo di essere ripreso, ma dovrebbe dare avvio a una discussione generale che ponga al centro i caratteri del nuovo ambientalismo e i problemi generali del territorio italiano. Quello che Asor Rosa definisce nuovo ambientalismo è l'arcipelago frastagliato dei comitati e movimenti che in tutti questi anni sono nati a livello locale per contrastare iniziative, centralistiche per lo più ( ma non solo) mirate, ad esempio, alla privatizzazione dell'acqua, o destinate a sconvolgere gli assetti ambientali di vaste aree, o a minacciare la salute degli abitanti. Di queste centinaia di esperienze – che qui non si possono enumerare – credo che il nuovo evocato da Asor Rosa consista essenzialmente in due fenomeni tra loro intrecciati. Il primo attiene alla modalità delle lotte e alla loro organizzazione. In quasi tutti i comitati di cui parliamo – da quello contro la centrale a carbone di Civitavecchia alla “comunità” No-Tav della Val di Susa, per intenderci – il movimento, nato dal basso, da gruppi di cittadini e associazioni, si è organizzato in forme di democrazia deliberativa che hanno inaugurato un modo originale di fare politica.Presidi territoriali in cui i cittadini sono diventati attori autonomi di una prolungata resistenza. Su questo punto, io credo, qualcuno dei protagonisti dovrebbe intervenire e dar conto di successi e problemi. La seconda novità consiste nel ruolo che competenze scientifiche, spesso di alto livello, hanno svolto nell'individuare le minacce ambientali ed anche , spesso, nell'indicare soluzioni alternative possibili. Queste competenze, che si sono messe al servizio dei cittadini organizzati, rappresentano una forma nuova di rapporto tra sapere e politica, tra professioni e democrazia, che meriterebbero una focalizzazione meno occasionale di quanto non si sia fatto. Ma il nuovo ambientalismo, dovrebbe anche caratterizzarsi per qualcos'altro. A mio avviso, dovrebbe oggi fornire una dimensione nazionale alle esperienze e modalità locali e al tempo stesso farsi promotore di un progetto generale di un nuovo modo di utilizzare e vivere nel territorio italiano.
Partiamo dalla configurazione fisica della nostra Penisola. Se noi escludiamo le Alpi, possiamo osservare che la gran parte del territorio abitato è costituito da aree altamente instabili. La Pianura padana è l'enorme catino in cui confluisce la moltitudine dei fiumi alpini, formando il più complesso e intricato sistema idrografico d'Europa. L'ordine di questa pianura è il risultato di opere secolari di bonifiche e regimazioni delle acque da parte delle popolazioni. «Un immenso deposito di fatiche», la definiva Cattaneo, ora densamente abitata e gremita di costruzioni. Quest'area, dove è insediata tanta parte della nostra economia, non è assolutamente al sicuro dai fenomeni atmosferici estremi che ci attendono nei prossimi anni. Com' è noto, stagioni di grande caldo e siccità ed altre fredde o intensamente piovose sono destinate a scandire l'ordine metereologico del nostro incerto avvenire. In Pianura padana ci sono vaste aree sotto il livello del mare, che vengono tenute artificialmente asciutte grazie all'opera di gigantesche macchine idrovore. Il Po, nonostante il saccheggio delle sue acque, ha mostrato negli ultimi anni le esondazioni di cui è capace sotto l'azione di piogge intense. E abbiamo appena visto di che cosa sono capaci anche fiumi minori, come il Bacchiglione.
Ma se noi osserviamo l'intero stivale cogliamo un' altra caratteristica saliente del nostro paesaggio fisico. Una ininterrotta dorsale montuosa, l'Appennino, attraversa l'Italia e continua anche in Sicilia. Come ben sapevano già ingegneri idraulici dell'800, l'Appennino è la chiave di volta dell'equilibrio dell'Italia peninsulare. Le acque e i potenti fenomeni che modellano continuamente i due versanti, tendono a trascinare materiali a valle e ad interrare le aree sottostanti. In una parola, l'Appennino e le alture pedemontane tendono a franare per necessità naturale. Non a caso almeno il 45% dei comuni italiani risulta interessato da fenomeni franosi di varia gravità. Orbene, tale discesa verso valle è stata per secoli controllata e filtrata dall'opera delle popolazioni contadine. Queste oggi sono scomparse. Ma nel frattempo ben oltre il 66% della popolazione italiana si è insediata lungo la fascia costiera dello stivale. E qui si concentrano non solo gli abitati, ma le attività produttive, le infrastrutture, i servizi.
Ebbene, è evidente che all'interno di un territorio di così singolare e complessa fragilità, negli ultimi decenni gli italiani hanno operato - con le loro scelte localizzative, con le loro costruzioni, con gli abbandoni delle aree interne – per creare una condizione futura di altissimo rischio e di certissimo danno. Tutto è stato fatto in modo che in condizione di prolungata piovosità, nel catino della Valle padana o ai margini collinari e pianeggianti dell'Appennino, l'acqua possa produrre alluvioni e frane di eccezionale gravità. Si è operato cioé perché la ricchezza accumulata in decenni di fatica e di investimenti possa essere distrutta in pochi giorni per effetto di eventi eccezionali che si prevedono sempre più frequenti. Così, anche nell'impronta antropica sul nostro territorio, è possibile vedere gli esiti che la libertà sbandierata da un ceto politico famelico e privo di qualunque cultura hanno predisposto per il presente e per l'avvenire dei nostri figli.
Ora, solo avendo bene in mente questo quadro, si può comprendere come, in Italia, la cementificazione di un solo metro quadrato costituisca oggi la sottrazione di un bene comune raro e rappresenti la predisposizione di un danno certo. Il territorio verde, capace di assorbire l'acqua meteorica, dovrebbe costituire agli occhi di tutti gli italiani una risorsa preziosa, da difendere con ogni mezzo, per conservare la ricchezza nazionale storicamente insediata nel territorio. Ma sappiamo che tali perorazioni, sempre necessarie, sortiscono, tuttavia, flebili effetti.
Ciò che oggi il nuovo ambientalismo dovrebbe mostrare è che i territori interni oggi abbandonati, costituiscono aree per la diffusione di nuove economie. Non sono una diseconomia nell'età trionfante dello sviluppo. Nelle colline interne possono risorgere le agricolture tradizionali, le policolture di un tempo, che vantavano una biodiversità agricola (soprattutto di frutta) senza pari in Europa e forse nel mondo. Oggi potrebbero dar vita a produzioni di altissima qualità. Qui è possibile riprendere o sviluppare la selvicultura, producendo legname di pregio, utilizzare in modi ecologicamente compatibili, quantità immense di biomassa. Chi si ricorda, poi, che queste aree sono ricche di acqua, che possono dar luogo a svariate forme d'uso? E quanti allevamenti, ad esempio avicoli, si possono realizzare, bandendo le forme intensive convenzionali? Non dimentichiamo che il paesaggio ereditato dal passato, e che vogliamo difendere, è stato creato esattamente da forme consimili di attività produttive e uso del territorio.I bassi valori fondiari di queste aree consentono inoltre la possibilità di rimettere in sesto grandi dimore padronali, spesso in abbandono, e farne sedi di ricerca scientifica, ostelli per la nostra gioventù. Ed ovviamente un diverso e meno consumistico turismo potrebbe fare scoprire i mille «tesori sconosciuti» del nostro Appennino.
Io credo che occorrerebbe lavorare con i sindaci, le comunità montane, il sindacato, i nostri giovani, le associazioni di extracomunitari per ricreare queste nuove economie. Gli extracomunitari che oggi vengono cacciati e perseguitati potrebbero fornire un contributo prezioso alla rinascita di queste terre. E il movimento dei comitati potrebbe più operosamente cooperare con altre forze oggi in campo, da Slow Food alla Coldiretti. A tale scopo, ovviamente, è necessario intervenire tanto a livello locale quanto nazionale ed europeo. E' ora di finirla, e per sempre, con la teoria neoliberista, finita nell'ignominia di una crisi senza sbocchi, secondo cui lo stato deve limitarsi ad arbitrare le regole del gioco. Lo stato, parte del gioco, deve piegare le regole a vantaggio del bene comune. Il libero mercato porta a rendere convenientissimo trasformare i terreni agricoli in abitazioni o centri commerciali. Ma per la generalità dei cittadini italiani tale convenienza costituisce una perdita netta e drammatica, opera per il danno certo della presente e delle prossime generazioni. Qui si vede come il mercato è vantaggio immediato e provvisorio per pochi e danno futuro e durevole per tutti. Se lo lasciamo alla sua «libertà» nel giro di un ventennio non avremo più suoli agricoli. E qui si dovrà combattere una battaglia di valore universale, di cui l'Italia, il Bel Paese, può costituire l'avanguardia. Occorrono nuove leggi, imposte dai cittadini, all'Italia e all'Europa, che rappresentino finalmente di nuovo l'interesse generale, che seppelliscano per sempre l'infausta stagione di un diritto pensato per la libertà delle merci e per gli appetiti disordinati e devastatori dei poteri dominanti.
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L'articolo di Piero Bevilacqua uscirà anche sul manifesto
In un clima teso - c’era perfino la polizia - è stato presentato il progetto che prevede una pioggia di ville, residences e club house a Malfatano. Tutti intorno a un plastico montato nell’Aula del Consiglio provinciale, come davanti a un presepe edilizio. Nella mangiatoia, appunto, il progetto Malfatano. Una presentazione postuma, per bocche buone, visto che a Tuerredda sono già molto avanti con i metri cubi. Ma quella è solo una piccola parte e tutti i crinali più belli aspettano il cemento come il condannato aspetta il boia.
Moderatore dell’incontro un giornalista, mai stato a Malfatano, che si è definito “parte terza” benché scriva per il Sole 24ore, giornale di Confindustria. Però il gruppo Marcegaglia avrà in gestione il resort di Malfatano e così la terzietà ha fatto capitombolo.
L’incontro potrebbe essere riassunto da un’espressione fulminante del Presidente della società costruttrice, la Sitas, che, magnificando il progetto, ha parlato di “sviluppo del paesaggio”. E noi ci siamo atterriti. Sì, perché questo povero paesaggio, anziché essere lasciato in pace e rispettato, viene “progettato, ridisegnato, recuperato, riqualificato” e infine “valorizzato” con il solito arricchimento di pochi. Così lo “sviluppano”. E a Teulada restano più poveri di prima perché perdono il loro unico tesoro. Poveri, ma “valorizzati”. Una tragedia.
Però, come sempre, i problemi, quelli più profondi, non derivano dall’impresa. Il brutto clima dell’incontro proveniva dalle viscere delle nostre comunità.
Il sindaco di Teulada, ambientalista abusivo, presente all’incontro, non si muove da solo. Lo scorta una falange di lavoratori del cantiere. Lui li usa a sostegno dei suoi argomenti, evita di dire loro che in sessant’anni nessuno ha mai pensato per i teuladini un modo di vivere che garantisse dignità e un lavoro durevole. Li ha convinti che l’unica possibilità di stare al mondo consiste nell’impastare calce e mettere un mattone sull’altro. Ha dimenticato la ricchezza che deriverebbe dal risparmio e dall’uso saggio del territorio che li ha tenuti in vita per secoli. Utilizza le difficoltà di quelle cento persone per muoverle contro chi gli propone un altro uso della terra e una vita diversa. Il Sindaco trasforma le preoccupazioni di cento lavoratori in rabbia contro gli altri. Divide e allontana l’intera comunità teuladina dalle altre comunità.
Eppure il dubbio che quel progetto sia una disgrazia inizia a serpeggiare tra i teuladini e perfino tra quei cento lavoratori. Serpeggia addirittura tra gli architetti del paesaggio, compreso quello che, sorprendendo tutti, ci ha rivelato come nella nostra campagna si trovino cisti, lentischi, fichi d’india e corbezzoli. C’è sempre da imparare, perfino dagli architetti.
Nessuna titubanza, invece, nel mondo della scienza. Un botanico della nostra Università ha spiegato, preciso come un laser, che la flora di Malfatano è in sofferenza. Sarà, a noi sembra una macchia in buona salute e l’ultimo incendio è di vent’anni fa. Ma la scienza progredisce ogni giorno e il botanico, che nulla obietta al progetto, forse immagina che 150.000 metri cubi fertilizzeranno su murdegu. Sitas farà investimenti su erbe officinali e corbezzoli. Forse è lì per questo e per ingannare il tempo costruisce case.
A garanzia della bontà natalizia del progetto si useranno, oltre che sindaci e botanici sardi biodegradabili, pietre sarde che vengono da Orosei, estranee a Malfatano, ghiaia sarda nei sentieri, cibi sardi (ma solo per gli ospiti del resort ché a Teulada non coltivano per tutti). E’ previsto esclusivamente l’uso di sardi ecocompatibili, camerieri, giardinieri e cuochi. Lo chiamano indotto e cosa induca lo si vede ogni giorno.
Unica consolazione dopo l’incontro, un architetto che non ce la faceva più e si è augurato che gli alberi crescano in fretta e coprano le costruzioni. Finalmente un architetto che considera un progetto invisibile come il migliore dei progetti. Il motto è “costruire e poi occultare”. Evidentemente ha compreso di avere qualcosa da nascondere: il progetto Malfatano.
L'articolo di Giorgio Todde uscirà anche su La Nuova Sardegna
Ci sono almeno due buone ragioni per sostenere la proposta avanzata da Carlo Petrini su Repubblica del 18 gennaio ( in consonanza con quanto scriveva Paolo Berdini sul manifesto) nella quale il presidente di Slow Food invoca una moratoria generale nel consumo di suolo in Italia. La prima di questa riguarda la natura del fenomeno. La distruzione del territorio, la cementificazione del suolo agricolo è un fenomeno pressoché irreversibile. Una volta ricoperto di alsfalto o di manufatti quel territorio sarà perduto all'agricoltura e all'ambiente chissà per quante generazioni. Non è la stessa cosa per altri fenomeni. I colpi inferti all'Università pubblica in questo ultimo decennio, ad esempio, e lo stesso ddl della Gelmini, possono essere sanati, anche in tempi relativamente brevi, se uno schieramento politico democratico cancellerà, con una iniziativa legislativa, questa pagina infausta della nostra storia recente. La partita che si gioca sul territorio ha un'ampiezza temporale che trascende la nostra vita. Petrini spiega bene le ragioni profonde di questa difesa. Il manifesto del 28.11.2010 ha dedicato ampio spazio al tema, sotto la sigla del “nuovo ambientalismo” introdotto da Asor Rosa e Viale. Ma occorre ritornare sull'argomento.
E' noto che gli economisti di tutte le fedi e tendenze, vedono nell'industria delle costruzioni il cosiddetto “ volano” “per fa ripartire la crescita”, come se la presente crisi fosse una “congiuntura” qualsiasi. Quindi, oggi incombe sul nostro territorio una minaccia supplementare. Ebbene, io credo che occorre battere questa argomentazione sul suo stesso terreno. Essa è infatti figlia dell'attuale capitalismo del breve termine, che guarda all'immediato, a quello che potrà incassare domani o dopodomani, senza nessuna considerazione non dico dell'avvenire, ma di quello che accadrà fra 5-10 anni. Anche se i suoi menestrelli non fanno che inneggiare al grande futuro della modernità che ci attende. Agli economisti e ai costruttori si può ricordare che il restauro delle nostre città, il rifacimento di tante nostre desolate periferie, potrebbero costituire opportunità di investimento senza consumare altro suolo. Non minori occasioni potrebbero offrire oggi le piccole opere, destinate a bonificare e riparare gli innumerevoli habitat devastati della Penisola.
Ebbene, ciò che occorre dire con chiarezza, sul piano strettamente economico, è che una tendenza inarrestabile dall'industria manifatturiera è quella di produrre merci con sempre meno valore. L'aumento crescente della produttività, l'entrata in scena sul mercato mondiale dell'industria cinese e asiatiche, del Brasile, fra poco dell' India, stanno già producendo un effetto ben noto: la riduzione del fenomeno della scarsità che dà valore alle merci. I capi di abbigliamento che ormai si possono comprare sulle bancarelle anche a pochi euro testimoniano di questa realtà già in atto. Certo, l'industria innoverà continuamente i suoi prodotti, per creare una scarsità artificiale, ma un oceano di merci invendute dilagherà intorno a noi a prezzi popolari. E' questo il destino della produzione manifatturiera nei prossimi anni: inseguire una novità, una unicità di prodotto nel mare delle merci standardizzate con sempre meno valore.
Esattamente per questa ragione, in Italia, dovremmo guardare al nostro territorio come a un patrimonio destinato a vedere crescere esponenzialmente il suo valore: valore che nella nostra epoca tenderà sempre più a rifugiarsi nei servizi e nei beni industrialmente non riproducibili. Il pregio del territorio da noi è già elevato per ragioni demografiche e per le devastazioni accumulate, in certi casi è unico per ragioni naturali, storiche ed estetiche, ma diventerà ben presto inestimabile per via della domanda mondiale che ne farà richiesta. Milioni di nuovi ricchi, russi, cinesi, brasiliani, ecc vorranno ben presto possedere una villa sulle Langhe, in Val d'Orcia, nelle Cinque terre, sul Lago di Como, vicino ai templi di Paestum o di Agrigento, per passarvi una settimana l'anno o per godersi una dorata vecchiaia. Ma verranno in Italia anche per poter godere dei nostri formaggi, del sapore della nostra frutta, per l'eccellenza dei nostri vini, per la straordinaria varietà delle nostre cucine locali. Vale a dire, ci chiederanno tutto ciò che è frutto del nostro suolo agricolo, quello che noi continuiamo a distruggere per alimentare lo sviluppo.
E' evidente, dunque, che abbiamo di fronte una grave minaccia, ma anche una grande opportunità. Il nostro suolo diventa sempre più prezioso e occorre pensare a forme collettive di accoglienza per chi ne fa domanda. Ma dobbiamo trovare forme concertate di decisione democratica del suo uso – non solo a livello locale - per rispondere a una così vasta ed elevata pressione. Altrimenti, nel giro di qualche decennio, tutto sarà compromesso e forse perduto.
La seconda ragione per sostenere la proposta di Petrini riguarda la modalità del fare oggi politica. Su questo punto occorrerà ritornare con altra lena. Ma intanto chiediamoci: che cosa possono fare in positivo le tante organizzazioni attive oggi nei territori del nostro Paese, spesso protagoniste di esperienze di vera democrazia partecipata a livello comunale? Come superare la drammatica separatezza che domina la scena italiana: tra la straordinaria, benché frantumata e dispersa, conflittualità sociale e la sua rappresentazione e voce nel cuore dello Stato? Oggi non possiamo contare su un partito d'opposizione, che non solo non riesce a svolgere la sua funzione istituzionale, ma non possiede nè la cultura, né l'orizzonte progettuale per questo genere di problemi. Occorre allora pensare a strumenti sempre più mirati di pratica politica, in cui dalla società si entra direttamente nelle istituzioni, mirando a trasformare i bisogni popolari e le ragioni delle lotte in leggi generali cogenti per tutti. Quel che oggi infatti occorre aggiungere alla vasta e dispersa sinistra sociale disseminata nei territori, o divisa in varie istituzioni, è la capacità di percorrere il tratto finale del conflitto politico: vale a dire la capacità di imporre scelte di governo. La mobilitazione per l'acqua pubblica, ad esempio, va esattamente in tale direzione. Certo, non sempre si presentano situazioni e possibilità così limpide per far valere lo strumento referendario. Ma occorre rammentare che la nostra Costituzione prevede la legge di iniziativa popolare: uno strumento che gli esperti dovrebbero aiutarci a utilizzare anche per la salvezza del nostro territorio: bene comune per eccellenza. E' vero che a valle si troverà poi la strozzatura di un Parlamento indifferente o apertamente ostile. Ma non bisogna dimenticare che le lotte così finalizzate hanno il merito di unificare le forze, di radunare conflitti e speranze sotto un orizzonte comune. E al tempo stesso schiudono tra le masse popolari e il ceto politico di governo divaricazioni sempre più nette e alla lunga insostenibili.
WWW.AMIGI.IT. Questo articolo è stato inviato contemporaneamete al manifesto
Per quasi due mesi prima di Natale è aumentato, con altri mezzi, il maltrattamento cui è normalmente sottoposto il centro della città mediante opere permanenti come i sopralzi insensati, i tetti massacrati, le demolizioni con violente ricostruzioni, i parcheggi sotterranei devastatori di piazze e giardini, e, ultima ma non meno importante, l’invasione di superfici pubblicitarie che non rispettano nessun ambiente o monumento, nemmeno il Duomo. Basta la scusa di un nuovo duraturo cantiere di restauro per trasformare la facciata di un palazzo o di una chiesa in un pacchiano cartellonismo con figurazione fissa o, peggio, in movimento, per di più esaltato da riflettori per decine di migliaia di watt ingiurioso omaggio al problema del risparmio energetico.
Ma, a cosa è dovuto questo surplus di maltrattamento? Alla decisione dell’amministrazione comunale e dei commercianti associati di «abbellire» le strade e le piazze maggiormente frequentate con luminarie destinate a influire (credono) sulla psiche di milioni di «viandanti girovaghi» per renderli più propensi all’acquisto di cose inutili. Intanto si concede a Tiffany gioiellerie e oreficerie di impiantare in Piazza Duomo, proprio davanti e vicino alla cattedrale (sprezzate le proteste del parroco), un gigantesco cubico spazio di vendita contrassegnato nel mezzo dal «più alto abete d’Italia come albero di Natale», sradicato chissà dove, ricoperto da centinaia di metri di festoncini luminosi. L’albero morente di Tiffany è come il perno delle disparate installazioni pendule sulle strade o dell’illuminazione su monumenti a fasci di luci colorate e variabili.
Nell’insieme, nella città con la miglior tradizione di design ad alto livello, copiato in tutto il mondo, una sorprendente mancanza di buon gusto, una dimostrazione di basso provincialismo, una schifezza dopo l’altra, un colpevole saggio di disprezzo verso spazi storici e opere d’arte. Fra le luminarie basti vedere le due più belle strade di Milano, Via Dante e Corso Venezia. La prima, quasi ricoperta da centinaia di grosse patate appese, di color marroncino (proprio come le patate vere), la cui visione a luce interna accesa o spenta annienta il piacere di osservare la doppia cortina ottocentesca di palazzi convergenti nella prospettiva incentrata sul Castello. La seconda, poveramente e tristemente festonata da esili filamenti forse alludenti maldestramente a forme di rose; anche qui un pessimo servizio reso alla fuga prospettica dei palazzi e dei Giardini verso i grandi caselli neoclassici di Porta Venezia, a loro volta subissati da lenzuolate di lucine a maglie fitte, fantasiosa cancellazione di un’armoniosa, severa architettura. I giochi di luce su monumenti raggiungono effetti persino peggiori per volgarità, violenza figurativa, disprezzo dell’opera d’arte.
Bastino anche per quest’aspetto due trattamenti esemplari in luoghi-simbolo della storia milanese, Piazza della Scala e Piazza Fontana. Nella prima gli sciagurati ideatori del divertimento natalizio si sono sfogati sul monumento a Leonardo da Vinci, opera di Pietro Magni del 1872. Il maestro e i quattro allievi che lo circondano, Filippo Lippi, Marco d’Oggiono, Cesare da Sesto e Andrea Salaino, sono sottoposti al tormento di colpi di luce a diversi colori (viola, rosso, verde, giallo…), alternati fra Leonardo e scolari come fossero dei fantocci in fiera da mirare e abbattere con le palle, ognuno dopo l’altro quando messi in risalto dall’illuminazione. Un orrore che nemmeno nella provincia più famosa per disamore dell’estetica urbana sarebbe tollerato. Nella seconda è la fontana progettata da Giuseppe Piermarini ed eseguita da Giuseppe Franchi nel 1782, elegante e raffinata composizione di vasche sovrapposte, sirene e delfini, a essere rovinata dall’insana voglia di strafare. Oggetti e figure sono impigliati in una scomposta rete di lucette irrispettose delle forme e poi tramortiti da un botto finale costituito da un’aggiunta sopra la vasca minore di un incomprensibile cesto come di filigrana veneziana. Così si completa per il passante l’abolizione del godimento estetico che l’osservazione della scultura intatta posta al centro del bel cerchio di alberi da sempre assicura.
Postilla. Dopo aver subito la solita cura mortale, si è infine salvata la grande scultura «L’ago e il filo» di Claes Oldenburg e di sua moglie Coosje van Bruggen in Piazza Cadorna (inaugurazione 2000). Già imbrigliata inopinatamente in tutt’altri fili luminosi, se ne è infine liberata grazie alle dure proteste dell’architetto, Gae Aulenti, che l’aveva prevista nel riassetto della piazza alla fine degli anni Novanta.
I rom, privi di un’abitazione che non sia una baracca accomodata alla meglio, sono cacciati di campo in campo. A Milano si sono susseguiti gli sgomberi mentre è bloccata la consegna di quindici appartamenti di edilizia pubblica già assegnati mediante contratti regolari. Ai rom è negata la casa popolare, che intanto è impedita a un ben maggior numero di famiglie che aspirano a un’abitazione decorosa a prezzo proporzionale al reddito.
In questo novembre 2010 ripenso al novembre di cinque anni fa quando una grande manifestazione di popolo a Roma fece improvvisamente riscoprire l’esistenza di un problema che il diffuso e menzognero ottimismo berlusconiano faceva credere risolto. La questione delle abitazioni giaceva sepolta sotto la massa delle case in proprietà (il 71 % al censimento del 2001). Le famiglie non proprietarie sembravano una minoranza troppo debole, perciò, sosteneva anche la sinistra, il tema non sfondava nella politica. Sorprese allora il successo del grande corteo di inquilini che occupò le strade di Roma rilanciando slogan di trentasei anni prima sul diritto all’abitazione gridati durante lo sciopero generale per la casa.
Era, quel novembre 2005, un momento difficile per chi non poteva contare sulla protezione di un buon alloggio in proprietà o in affitto equo e duraturo: sfratti facili, non più ostacolati dalla legislazione sociale, mercato banditesco comandato dalla speculazione edilizia, prezzi in aumento, precarietà anche degli affittuari di alloggi pubblici in via di privatizzazione (cartolarizzazione). Ma il fuoco della protesta si spense, né si è ravvivato negli anni successivi per la scarsa condivisione se non l’insofferenza della politica e dell’opinione pubblica; anche perché il problema della casa, oggi, può essere percepito come collegato a quello dell’immigrazione (4,5 milioni i residenti stranieri) e, si sa, quando si tratta di extracomunitari o di romeni il sentimento nazionale non è esente da disinteresse intriso di razzismo.
Proviamo a ricominciare da qualche dato statistico. Come si distribuiscono oggi la proprietà e l’affitto? Ha ragione Berlusconi che ha assegnato più volte alla prima l’80%? Ben nove punti in più rispetto alla percentuale del 2001. Aumento improbabile poiché la popolazione totale, in minimo aumento per due decenni (56.557.000 unità nel 1981, 56.885 nel 1991, 56.995 nel 2001), ha avuto un balzo dal 2001 al 2009 (+ 3.350.000) dovuto esclusivamente al saldo migratorio positivo. Non è plausibile un nesso fra questi due aumenti (proprietà e immigrazione); invece lo è una relazione fra immigrati e case in locazione. Tuttavia, nel gioco delle stime, prendiamo in parte per buono il ritornello di B., riconosciamo che la tendenza all’acquisto sia un segno permanente, ma inevitabilmente rallentata dalla stessa altezza della proprietà, e valutiamo che l’attuale percentuale di abitazioni possedute dagli occupanti sia del 75%.
Affitto (o altri titoli simili) al 25% vuol dire in valori assoluti circa 6.250.000 abitazioni. Una minoranza le famiglie locatarie, ma tanto ampia da rendere il mercato delle affittanze, oggi, in regime di prezzi liberi, molto appetibile per investimenti. Chi possiede alloggi ha meno convenienza a vendere che affittare. Le famiglie di lavoratori sono vittime dei costi sproporzionati e delle condizioni abitative forzatamente ristrette. Non hanno possibilità di scelta essendo il tipo di abitazione strettamente dipendente dai redditi familiari, ora stagnanti o addirittura in diminuzione.
Intanto perdura, né avrà mai fine, il fenomeno dell’enorme quantità di abitazioni non occupate. Se applichiamo lo stesso aumento percentuale delle abitazioni occupate, 15%, rispetto al dato del 2001 di 5.640.000 unità (e saremmo cauti giacché numerosi indizi mostrano che quella delle seconde case è la porzione del mercato che si è espansa di più), risultano quasi 6.500.000 alloggi, 21% del totale come nel 2001. Non tutti sono alloggi secondari, una parte minoritaria corrisponde al «vuoto» specialmente per l’affitto che le mie precedenti stime indicano in 5-6 punti (seconde case 15-16%). Nelle grandi città questo indice non corrisponde alla reale utilizzabilità perché le case inabitate comprendono quelle tenute apposta fuori mercato dalle immobiliari per produrvi maggior tensione così da tenere alti o far aumentare i prezzi delle case affittabili. Analogamente a come avviene nel mercato del lavoro, quando gli imprenditori restringono l’occupazione generando disoccupazione in modo da far crescere la pressione dell’offerta abbondante di mano d’opera sulla scarsità di domanda da parte dell’impresa, così da tener bassi i salari.
A Milano, la città che ha inventato i sistemi urbanistici e edilizi più «moderni» per liberare più speculazione e più rendita, gli appartamenti vuoti al momento del censimento 2001 erano 50.000. Ora la stima corrente è di almeno 60.000 (p. es. Luca Beltrami Gadola, arcipelagomilano.org), entità che comprende una larga fetta di «vuoto artificioso», se così si può dire. Nonostante la crisi i prezzi non diminuiscono e il mercato è chiuso a chi non abbia un guadagno sicuro e molto superiore alla media dei redditi da lavoro, quando poi è sempre più difficile usufruire del cumolo fra almeno due redditi. Il prezzo di 1.000 euro/mese per due buone stanze è quello usuale fuori dal centro e da altre zone pregiate. E non è di 1000 euro/mese il salario medio del lavoratore precario (a progetto, a termine, a chiamata, eccetera). Intanto è pressoché sparito il compito svolto dagli istituti per l’edilizia pubblica.
L’Iacp, diventato da anni Aler (Azienda regionale per l’edilizia residenziale – eloquente l’abolizione dell’aggettivo popolare e l’introduzione di azienda) è impegnato soprattutto a privatizzare il patrimonio e a lasciar marcire situazioni di degrado, di abbandono, persino di gestione criminosa. Il Comune di destra, altrettanto, non esprime alcun interesse a intervenire nel mercato, coerentemente ai principi ultraliberisti fautori della massima deregolamentazione dei rapporti in ogni campo, lavoro e casa soprattutto.
In una diversa condizione politica e culturale, come potrebbe darsi, dopo la disastrosa vicenda della giunta Moratti, con una nuova amministrazione milanese guidata dal vincitore delle primarie del centrosinistra, Giuliano Pisapia, si potrebbe «tornare indietro» e ricostituire i ruoli originari di un istituto per l’edilizia residenziale pubblica, in meno e vecchie parole: per le case popolari.Da destinare all’affitto e non alla vendita né all’assegnazione a riscatto. Scrive Vezio De Lucia «Con Pisapia superiamo il “rito ambrosiano”» (in eddyburg, 16 novembre 2010). Vuol dire cancellare l’attuale Piano di governo del territorio (ammesso che sia approvato prima delle elezioni) nel quale il problema della casa è del tutto trascurato e adottarne uno diverso incentrato sulla domanda sociale, in primo luogo quella dell’abitazione commisurata ai bisogni di chi lavora. Come fossimo nell’immediato dopoguerra (è una guerra quella combattuta dal municipio reazionario contro i ceti privi di alti redditi), quando Piero Bottoni pubblica il mirabile progetto La casa a chi lavora, «l’assicurazione sociale per la casa» (Görlich, Milano 1945).
E perché non ritenere possibile che dopo Berlusconi un governo di centrosinistra possa varare una legge di disciplina degli affitti richiamandosi al limite delle forme d’uso della proprietà (articolo 42 della Costituzione)? «Il fatto che il costo dell’abitazione rimanga […] elemento di profonda e generale discriminazione sociale rende attuale il richiamo al limite generale del diritto di proprietà qualora si accerti che una delle forme di proprietà oggi diffuse [, quella dell’abitazione,] è l’ostacolo a un miglior godimento individuale del bene casa» (Renzo Stefanelli, La questione delle abitazioni in Italia, Sansoni, Firenze 1976, p. 29).
Roberto Giannì se ne va. Lascia il dipartimento di urbanistica del comune di Napoli e si trasferisce a Bari dove assumerà la direzione dell’urbanistica regionale pugliese. Per un verso è un ritorno a casa, Roberto è nato in provincia di Lecce e non ha mai interrotto il rapporto con la sua terra. Venne a Napoli a studiare e subito dopo la laurea cominciò a collaborare con il comune insieme agli altri “ragazzi del piano” negli anni dell’amministrazione di Maurizio Valenzi (quando erano davvero ragazzi). Si deve a essi il cosiddetto piano delle periferie, approvato dal consiglio comunale prima del terremoto del novembre 1980 e poi in larga misura realizzato con gli interventi per la ricostruzione, di cui si occuparono gli stessi ragazzi del piano.
Ma non è solo un ritorno. Mi pare evidente che, per un temperamento come quello di Roberto – un commis d’état che non ama la routine –, dev’essere irresistibile l’idea di ricominciare e di contribuire all’esperienza di una regione per tanti versi all’avanguardia, grazie anche all’altissimo profilo dell’assessore al territorio Angela Barbanente e al fascino del presidente Nichi Vendola.
La partenza di Giannì non è una notizia privata, né di poca importanza. Sono coinvolto – e me ne scuso, non mi succede quasi mai su queste pagine – ma non credo di cedere a sentimenti personali se scrivo che a Napoli finisce una stagione, nonostante tutto una bella stagione. Di cui Roberto Giannì è stato indiscusso protagonista. Mi riferisco agli anni dal 1993 a oggi, dalla prima amministrazione di Antonio Bassolino all’ultima di Rosa Russo Iervolino (in carica fino alla prossima primavera). Anni in cui è successo di tutto, dall’estate sfolgorante del G7, quando lo splendore della città conquistava le prime pagine dei giornali del mondo, all’orrore dei rifiuti e alle prime pagine di segno opposto. Una stagione lunga e contraddittoria durante la quale però un segmento dell’attività comunale, quello dell’urbanistica, ha tenuto il passo con coerenza, conservando uno standard eccellente. Dall’impostazione alla stesura del nuovo piano regolatore tutto all’interno degli uffici, dal progetto per Bagnoli alla tutela delle residue aree verdi, dallo studio delle tipologie dell’edilizia storica alla gestione dell’edilizia privata: sono queste le tappe di un percorso diverso da quello di Milano, Firenze, Roma, e della stragrande maggioranza delle città italiane grandi e piccole. A Napoli non comanda l’urbanistica contrattata, non sono praticate la deroga e altre scorciatoie, non esistono “atti negoziali” che prevalgono sulle norme di piano. Non ci sono scandali.
Se l’urbanistica è politica, il merito è indubbiamente dei sindaci e degli amministratori ma, si sa, i buoni risultati, e soprattutto quelli di lunga durata, si realizzano solo se procede perfettamente l’abbinamento fra il potere politico e quello specialistico. A Napoli ha funzionato mirabilmente. La riprova è che l’attività edilizia privata – che negli anni passati nella capitale del Mezzogiorno era quasi scomparsa, soverchiata dall’edilizia pubblica e da quella abusiva – si è moltiplicata in ogni settore urbano, dal centro storico alle periferie. E non si contano gli articoli e le dichiarazioni di costruttori e di esponenti del mondo imprenditoriale che apprezzano l’azione del comune.
Ho scritto che quella stagione adesso finisce. Farei un torto a Roberto se pensassi che dopo di lui il diluvio. Auguro a lui e a tutti noi, agli amministratori e ai ragazzi del piano ormai stagionati (qualcuno è andato in pensione) che a Napoli cominci subito un’altra bella storia. Però un’altra storia, quella di prima è finita.
Vedi anche l'intervista a Roberto Giannì e i materiali nella cartella " Una città un piano: Napoli
Per comprendere meglio ciò che accade a Mirafiori e a Pomigliano è necessario affondare lo sguardo nelle tendenze storiche che muovono il capitalismo del nostro tempo. E bisogna scomodare Marx. Egli aveva colto come “legge fondamentale dell'accumulazione capitalistica” una tendenza già evidente ai suoi tempi e oggi conclamata : «Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa messo in movimento (cioé ai mezzi di produzione...) anche la parte di questo lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva nel plusvalore, dovrà essere in proporzione costantemente decrescente rispetto al valore del capitale complessivo impiegato”. Nel corso del suo sviluppo, dunque, il capitalismo riduce costantemente la quota di lavoro per unità di prodotto, cercando di sfuggire alla caduta tendenziale del saggio di profitto e di sostenere la competizione. Quella competizione che oggi esso stesso si fa delocalizzando parte delle sue imprese nei paesi a bassi salari.
Ma il capitale che espelle lavoro cerca di sfruttare più intensivamente quello che impiega, perché più ridotta diventa nel frattempo la quota da cui può estrarre plusvalore. André Gorz ha riassunto lapidariamente questa attuale contraddizione del capitale in cui i lavoratori vengono stritolati: «più la quantità di lavoro per una produzione data diminuisce, più il valore prodotto per lavoratore – la sua produttività – deve aumentare affinché la massa del profitto realizzabile non diminuisca. Si ha dunque questo apparente paradosso per cui più la produttività aumenta, più è necessario che aumenti ancora per evitare che il volume del profitto diminuisca. La corsa alla produttività tende così ad accelerarsi, gli impiegati effettivi a essere ridotti, la pressione sul personale a inasprirsi, il livello e la massa dei salariati a diminuire». E in questa morsa oggi, letteralmente, si soffoca. Chi ha la pazienza di leggersi la grande inchiesta della Fiom del 2008, condotta su un questionario cui hanno risposto 100 mila lavoratrici e lavoratori, può farsene un'idea.
Siamo dunque giunti a una fase storica nella quale o noi costringiamo il capitalismo a cambiare il suo modello di accumulazione, o esso trascinerà l'intera società industriale nella barbarie. Non è un'espressione di maniera. Non è uno slogan. Chi oggi, anche in buona fede, difende il nuovo contratto imposto da Marchionne, crede che tale cedimento sia accettabile come un compromesso temporaneo, dovuto alla drammatica crisi in atto e ai vincoli della competizione mondiale. E' un gravissimo errore. Questa idea fa parte di una campagna pubblicitaria che punta a far arretrare ulteriormente i rapporti di classe con un argomento puramente propagandistico: oggi occorre tirare la cinghia per poter ritornare allo splendore di prima. Ma prima il cielo era davvero così splendido? Che questa sia una menzogna è possibile illustrarlo , non per congettura, ma con una semplice analisi storica, quindi con fatti scientificamente verificabili.
Prima della crisi, vale a dire nel 2000, nei Paesi dell'OCSE si contavano 35 milioni di lavoratori disoccupati. Come ha ripetutamente illustrato Luciano Gallino i nuovi posti di lavoro che si sono creati in Europa sono stati in gran parte a tempo determinato e precari. Negli USA, non solo i nuovi posti di lavoro – per lo più nei servizi e con ampio utilizzo part- time di donne – sono stati ufficialmente gonfiati dal sistema di rilevazione statistica: anche una settimana di lavoro poteva fare un impiego annuale nelle stime generali sull'occupazione. Ma in quegli anni sparivano dalle statistiche oltre 2 milioni di persone “occupate” nelle carceri di Stato ( e in quelle private). E qualche hanno fa abbiamo scoperto che tra il 1973 e il 2005 il reddito dei lavoratori «è lievemente diminuito». Ma sul Paese più ricco del mondo, epicentro della crisi mondiale, voglio aggiungere due dati che persuaderanno il lettore di ciò che voglio dire. Nel 1995 il numero dei bambini che risultavano al di sotto della linea ufficiale di povertà assommavano al 26, 3% , quasi alla pari con la Russia di Yeltsin (26,6%), allora in vendita ai predoni di tutto il mondo e in mano alle mafie locali. In tale statistica – elaborata da un'inchiesta comparativa su 25 paesi - figuravano al 3° e 4° posto il Regno Unito (21,3%) e l'Italia (21,2), vale a dire i paesi che con maggior zelo hanno applicato il verbo e i dettami del pensiero neoliberistico.E sempre per restare negli USA , ricordo che già nel 1990 , la National Association of State Board of Education aveva dichiarato senza mezzi termini: «Mai prima una generazione di teenagers americani è stata meno sana, meno curata, meno preparata per la vita di quanto lo fossero i loro genitori alla stessa età».
Potremmo continuare con altri dati e analisi. Ma ciò che qui è sufficiente ricordare è che gia prima della crisi il capitale aveva saccheggiato il lavoro salariato e i redditi dei ceti medi senza risolvere il drammatico problema della disoccupazione e diffondendo la precarietà. In Italia, dopo decenni di asservimento del ceto politico, di centro-sinistra e di centro-destra alle ragioni dell'impresa, è andata anche peggio. Nell' utilizzare il termine asservimento, non mi riferisco solo alle vendite del patrimonio pubblico, alla liberalizzazione di tanti servizi municipali. In questo caso penso , specificamente, alla deliberata volontà di scaricare sul lavoro i rischi dell'impresa, rendendo il lavoratore flessibilmente subordinato alle sue necessità. Dalla Legge Treu del 1997, alla Legge 30 del 2003 , il capitalismo italiano ha potuto godere di condizioni di generosa disponibilità nell'uso della forza lavoro. Con quale esito? Mi è sufficiente sintetizzare i risultati di tale geniale strategia con un bilancio recente (2008) del Governatore della Banca d'Italia: «Negli ultimi vent'anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte». Ma aggiungo: alte tasse relativamente più gravose per gli operai che – secondo un'indagine IRES – tra il 2002 e il 2008 hanno lasciato al fisco, mediamente, 1.182 euro delle loro misere paghe. E per finire, sempre dati Banca d'Italia 2008, la metà più povera della popolazione possedeva il 10% della ricchezza nazionale, mentre il 10 di quella più ricca deteneva il 44%.
E allora torniamo alla Fiat, agli operai, ai partiti politici. Quanto abbiamo ricordato significa innanzi tutto una cosa: la politica moderata del centro-sinistra, che ha attuato – non diversamente dal centro-destra - le ricette neoliberiste, non è minimamente servita a difendere i ceti operai, anzi li ulteriormente impoveriti. Non ha ottenuto maggiori investimenti da parte delle imprese, ha contribuito a fare arretrare il paese nel suo complesso. Ma significa anche che continuare su questa linea fallimentare, con l'idea di “uscire dalla crisi” secondo la ricetta moderata, costituirà una sciagura di portata incalcolabile per le masse popolari e per tutta la società industriale italiana. Il tracollo economico in cui siamo immersi non è la solita crisi ciclica. Altrimenti non avremmo avuto così tanta disoccupazione e povertà prima che essa esplodesse. Nelle fasi alte del ciclo - come sappiamo dalla lunga storia storia dei tracolli capitalistici - crescono ricchezza e occupazione. Noi abbiamo avuto soltanto la bolla finanziaria, cresciuta sul debito. La “crisi” di questi anni è il risultato di un gigantesco saccheggio di reddito che il capitale ha compiuto in una fase storica di debolezza del suo avversario di classe e del movimento operaio organizzato. Perciò dal presente imballo sistemico non si esce se non attraverso una altrettanto gigantesca opera di redistribuzione della ricchezza.
Un compito di ampia portata ne siamo consapevoli. Ma bisognerebbe innanzitutto incominciare a dichiararlo. Poi predisporre le forze. Perché oggi, per essere all'altezza delle sfide, bisogna mettere in piedi un fronte di conflitto sociale di non comune ampiezza. Il comportamento “moderato” di tanti dirigenti del PD, sostanzialmente favorevoli ad accettare la strategia di Marchionne è a mio avviso un fatto drammatico, che impone una presa d'atto di tutte le persone che militano oggi nella sinistra.
Il Pd : «un amalgama malriuscito» è stato definito da chi si intende della materia, avendo ridotto la politica all'arte di “amalgamare” capi partito. Credo che sia stato qualcosa di ben più grave. La scelta veltroniana del bipartitismo perfetto rivela una lettura di retroguardia delle tendenze politiche mondiali. Laddove esso è stato storicamente dominante ( USA e UK) oggi appare come una barriera all'esercizio della democrazia. Gli scienziati della politica hanno coniato in proposito il termine di cartel party, cartello di partiti, per indicare questo assetto di duopolio, che emargina le voci e le culture politiche dissenzienti e realizza invariabilmente le medesime politiche alternandosi alla guida degli esecutivi.
Ma è la scelta di equidistanza tra le classi, il moderatismo sociale che oggi fa del PD – sia detto con tutta la responsabilità che l'argomento e il momento richiede – un partito inservibile. Esso ha privato la società italiana di una opposizione che portasse i bisogni del paese dentro il Parlamento. Qualcuno dei lettori ha mai sentito D'Alema, Veltroni, Bersani parlare, poniamo, di legge urbanistica e di problemi della città, di assetto del territorio, di riscaldamento climatico, di agricoltura biologica, di ritmi di lavoro e di sfruttamento in fabbrica, di beni comuni ? Non aggiungo nell'elenco precarietà e disoccupazione, perché sono presenti nel loro vocabolario, ma come slogan privi di qualunque contenuto. Mi permetto di continuare con le domande. Quanto la sfida che Marchionne ha lanciato alla Fiom e alla classe operaia di Pomigliano e di Torino si fonda sul calcolo di un'opposizione benevola di tanta parte del PD? E infine una questione generale, relativa alla vita politica italiana recente: quanto il dilagare della Lega nelle zone operaie del Nord, quanto la permanenza del potere berlusconiano, anche in queste ultime settimane, dipende direttamente dall'assoluta incapacità del PD - culturale ancor prima che politica - di rappresentare gli interessi delle masse popolari, di offrire agli italiani un progetto e almeno un'immagine diversa di società?
Il moderatismo politico non è oggi una scelta di prudenza, di politica dei piccoli passi. Non è la moderazione, piuttosto è un galleggiamento sull'esistente. Ma l'esistente, dominato oggi da forze predatorie, non rimane fermo, tanto meno procede verso il meglio, come del resto mostra tutto lo scenario che abbiamo intorno a noi. Si indietreggia lentamente sul terreno sociale, dei diritti, della democrazia. In una fase storica in cui solo la ripresa del conflitto può ridare equilibrio alla macchina economica e alla società, significato e forza alla politica, i partiti moderati sono inservibili. Sono oligarchie parassitarie. Danno ospitalità permanente a professionisti che vivono di politica. E dobbiamo amaramente concludere: a che serve un PD che crede di uscire dalla situazione in cui siamo precipitati replicando la politica che ci ha condotti sino a questo punto?
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Le lotte studentesche esplose in Europa negli ultimi mesi, legate ad occasioni contingenti – come le proteste contro l'aumento delle rette nel Regno Unito o quelle contro il ddl Gelmini in Italia – meritano una riflessione di portata più generale. Un rapido sguardo storico ci mette innanzi tutto sull'avviso di un fenomeno di ampia portata: la crescita costante della popolazione studentesca universitaria nell'ultimo mezzo secolo. In Italia gli studenti universitari erano 402 mila nel 1965-66, raggiungono la cifra di 1 milione e 685 mila nel 1995- 96, si attestano a poco meno di 1 milione e 800 mila nel 2009-10. Spettacolare è anche la crescita degli scritti nel Regno Unito che tra il 1980 e il 2002 passano da poco più di 800 mila a oltre 2 milioni. Crescita proseguita fino a oggi. Nello stesso ventennio, nell'Europa a 15, essi più che raddoppiano , passando da 6 milioni e mezzo a 13 milioni e mezzo.
A che cosa si deve una tendenza sociale e culturale così evidente e negli ultimi decenni così accelerata? Senza dubbio essa è figlia dello sviluppo “generale delle forze produttive”, direbbe Marx. Le società industriali e postindustriali reclamano in maniera crescente forza-lavoro dotata di formazione superiore, in grado di soddisfare i bisogni produttivi e di creazione di servizi che il capitalismo richiede in questa fase di tarda maturità. Ma questa è solo una una faccia del processo.
Il crescente numero di ragazzi che prosegue gli studi iscrivendosi all'Università è figlio di un altro fenomeno: la sempre più accentuata disoccupazione giovanile e il tentativo di sfuggirla e di sottrarsi a un lavoro subalterno e precario grazie a una più elevata formazione. L'ideologia della competizione, nuova religione della nostra vita quotidiana, fa il resto. Com' è noto a livello generale, e come ha mostrato per l'Italia Livi Bacci ( Avanti giovani, alla riscossa, 2008), l'ingresso dei ragazzi nel mondo del lavoro si è spostato, significativamente, sempre più in avanti. Parlo di un fenomeno ormai storico, che dura cioé da due-tre decenni.
A tal proposito va ricordato quanto sia infondato il tentativo di molti commentatori di spiegare tutte le difficoltà del capitalismo attuale con la crisi in corso.Il loro sforzo apologetico di convincerci a tirare momentaneamente la cinghia, in attesa del luminoso avvenire che sta dietro l'angolo, ha lo scopo di farci accettare il vecchio modello di accumulazione oggi a pezzi.Ma quel modello, dal punto di vista della capacità di creare lavoro, era in rotta da tempo. Nel 2000, quindi 8 anni prima della Grande Crisi del nuovo millennio, nei 30 paesi dell'OCSE si contavano ben 35 milioni di disoccupati ufficiali. Creare pochi posti di lavoro e crearli precari è una tendenza ormai sistemica del capitalismo del tempo presente.
Ora, a partire dalla Processo di Bologna (1999) i gruppi dirigenti dell'UE hanno avviato un progetto di razionalizzazione degli studi universitari, tendente a uniformare a livello continentale procedure e forme di valutazione, ma con un intento strategico che apparirà evidente in seguito: staccare l'istituzione universitaria dall'ambito del welfare per trascinarla nell'agone del mercato. Da allora e in maniera sempre più evidente negli ultimi anni, gli sforzi dei riformatori si è indirizzato a fare dell'Università del Vecchio Continente una New Public Company, vale a dire una azienda pubblica, gestita secondo stretti criteri di economicità e di profitto. Una impresa come le altre in un mondo di imprese. Gli studenti, trasformati in clienti, dovevano pagare in maniera economicamente soddisfacente per sostenere l' offerta formativa di cui facevano domanda. Domanda e offerta si dovevano incontrare. E anche la formazione, dentro le aule delle Facoltà, doveva assumere la forma di prestazioni standardizzate sottoposte a valutazioni misurabili con crediti, secondo il nuovo e glorioso linguaggio bancario. E naturalmente gli studenti sono stati invitati a competere tra di loro. Così come le Facoltà e le Università, spinte a conquistarsi gli studenti-clienti con adeguate campagne pubblicitarie.
Quanto è avvenuto nelle Università inglesi illumina di chiarezza solare fino a che punto si è spinto il processo di aziendalizzazione degli studi, ma anche di mercificazione della vita. L'aumento delle rette fino a 9000 sterline l'anno – a parte i costi per vivere - che verranno anticipate agli studenti dallo stato sotto forma di crediti (secondo il modello USA) determinano un mutamento drammatico nella condizione di tantissimi giovani. Essi sono costretti a indebitarsi seriamente fino al conseguimento della laurea, senza nessuna certezza della riuscita finale. A parte l'ipoteca del debito che graverà per anni sulle loro spalle, da sostenere per lo più con lavori incerti e precari, non può certo sfuggire la novità che fa davvero epoca: gli studenti sono costretti ad assumersi precocemente dei rischi d'impresa. Da giovani in formazione si trasformano in imprenditori che investono nel proprio curriculum, ipotecando il proprio immediato futuro. Il neoliberismo mostra gli ultimi cascami del suo delirio economicista, mentre estende ulteriormente gli spazi sociali dell'indebitamento. Ma per questa strada infila un cuneo di disuguaglianza nella massa dei giovani e completa un processo ormai evidente degli ultimi anni: l'emarginazione sempre più conclamata dei ceti medi. Fenomeno di paradossale inversione nella storia del capitalismo contemporaneo.
Ora, io credo che l'attuale pressione sia economica che di ordinamenti indirizzata contro l'Università pubblica in Europa ( ma anche in USA, come mostra un'ampia letteratura) risponda a molteplici logiche. Avere una massa crescente di giovani laureati costituisce un vantaggio evidente per gli attuali gruppi dominanti. Da questa si possono selezionare più agevolmente i quadri eccellenti che sono in grado di far fare un salto di qualità al processo di valorizzazione del capitale: grandi manager, scienziati, creatori di brevetti, inventori di nuovi prodotti e servizi. La retorica dell'eccellenza che domina nelle ciarle pubbliche quotidiane ubbidisce a tale specifico fine. Ma la dimensione di massa di questa nuova manovalanza intellettuale costa troppo e perciò si tende da tempo ridurla e a selezionarla. Una strada intrapresa da tempo è quella di diminuire gli spazi dei saperi umanistici. Tutto ciò che rimanda a formazione, mondo umano, sapere critico e disinteressato, in una parola cultura, va vigorosamente ridotto. E' materia non edibile, come sostiene un ministro della Repubblica italiana, dichiarando l'evidente intento del capitalismo attuale e dei sui rappresentanti di muovere ormai apertamente contro gli assetti della nostra civiltà. L'altra strada, che nell'Italia degli ultimi due anni ha conosciuto fasti inauditi, è quella di tagliare i costi generali, trasferendoli alle famiglie.
Quest'ultima necessità sembra ubbidire a realistici vincoli di bilancio e quindi difficilmente aggirabile. In realtà, si tratta di una contabilità fasulla che trasforma l'interesse capitalistico in senso comune. Addirittura in realistico buon senso, specie di questi tempi, in cui la Crisi è stata trasformata in una sorta di minaccia divina, cui chinarsi rassegnati e pazienti. Che cosa appare , invece, a uno sguardo analitico che osservi i fenomeni a un livello minimo di profondità? Come già aveva osservato Marx, la formazione scolastica e culturale di un individuo soddisfa due diverse sfere di esigenze: per un verso arricchisce spiritualmente la persona, lo emancipa dalla sua condizione naturale, lo dota di sapere per sé. Ma al tempo stesso lo predispone a servire in forme più elevate la valorizzazione del capitale. Nessuno, nella società capitalistica contemporanea, sfugge a questo compito generale. Oggi, come già nell' '800 di Marx « tutte le scienze sono catturate al servizio del capitale.”.
Ma allora non può sfuggire la ben diversa contabilità che oggi va messa in luce. Tanto le famiglie che lo stato, nell'investire in formazione, non elevano solo culturalmente le nuove generazioni. Contribuiscono potentemente alla valorizzazione del capitale, creando forza lavoro altamente qualificata per le imprese. In alcuni casi, come nelle Facoltà di Economia, con i soldi pubblici si preparano soldatini pronti alla “guerra economica” senza neppure dotarli di quella cultura che potrebbe renderli non solo tecnici della crescita, ma anche esseri pensanti. I risparmi delle famiglie e il danaro di tutti, rastrellato attraverso la fiscalità generale, va a valorizzare l'impresa economica dei privati. E solo una ristretta élite di giovani parteciperà, più tardi, al banchetto dei profitti capitalistici. Chi restituirà alle famiglie il valore in più che con i loro risparmi hanno generato per il capitale? In che misura il fisco gravante sulle imprese restituirà allo stato gli investimenti sostenuti per valorizzare la forza lavoro altamente qualificata che esse impiegano?
E' evidente dunque che il bene comune del sapere necessità oggi di una nuova contabilità. Gli oneri per la sua produzione vanno ripartiti secondo un nuovo calcolo dell'utilità generale. Gli studenti europei mostrano di aver compreso l'aspro fronte di classe in cui si inscrive oggi la loro lotta. Quando la capiranno le formazioni politiche che si richiamano alla sinistra?
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L'articolo di Piero Bevilacqua uscirà anche sul manifesto
Nelle ultime settimane, a Napoli, Salerno, Avellino, Caserta e nei piccoli centri dell’interno, ci sono stati molti incontri, convegni, appuntamenti, in memoria del terremoto di trent’anni fa e poi servizi giornalistici e televisivi, e altre iniziative sono in programma nelle prossime settimane. Non era stato così nei precedenti anniversari dieci e venti anni fa, quando furono poche e trascurabili le occasioni per commemorare la catastrofe. È stata forse la prossimità del terremoto e la drammatica attualità della mancata ricostruzione dell’Aquila a sollecitare i ricordi, e vale la pena di proporre qualche piccola e riflessione.
Per prima cosa, una rapida ricostruzione dei fatti. Alle 19,30 circa del 23 novembre del 1980, una violentissima scossa lunga oltre un minuto – con epicentro al confine fra le province di Salerno, Avellino e Potenza – distrusse o danneggiò gravemente decine di comuni. I morti furono circa tremila. Ma, come si disse allora, se il baricentro sismico era stato nel cuore degli Appennini, il baricentro sociale fu a Napoli e nell’area metropolitana, dove il terremoto assestò il colpo di grazia a un patrimonio edilizio affetto da secolari processi di degradazione, provocando centinaia di migliaia di senzatetto. La situazione diventò subito terribile. A soffiare sul fuoco furono le brigate rosse mobilitate “contro la deportazione dei napoletani”. L’episodio più grave fu il rapimento dell’assessore regionale all’urbanistica Ciro Cirillo e l’assassinio della sua scorta, che generò un sordido intrigo fra terroristi, camorristi e servizi segreti. Se poco più di tre anni prima, in occasione del rapimento Moro, il fonte della fermezza era stato vasto e compatto, nel caso Cirillo la disponibilità alla trattativa fu immediata e unanime. Una vicenda tenebrosa che faceva seguito ad altri fatti di pochi mesi prima ancor più spaventosi e mai del tutto chiariti: la strage di Ustica del 27 giugno del 1980 e la bomba alla stazione di Bologna del 2 agosto.
Ma torniamo al terremoto. I soccorsi furono caotici, i ritardi paurosi. Funzionò invece benissimo la televisione arrivata dovunque per prima. Il presidente della repubblica Sandro Pertini intervenne con inusitata durezza contro il governo Forlani, di fatto determinandone le dimissioni. La vicenda va ricordata a coloro che in questi giorni accusano Giorgio Napolitano di scarso equilibrio nei rapporti con il governo Berlusconi.
La ricostruzione delle zone interne fu gestita ancora peggio dell’emergenza. Si cercò di far tesoro delle precedenti esperienze, il terremoto del Belice del 1968 e quello del Friuli del 1976. Nel primo caso, nonostante la regione a statuto speciale, la ricostruzione fu opera del ministero dei Lavori pubblici ed è difficile immaginare risultati peggiori da ogni punto di vista, dai ritardi smisurati agli esiti deludenti dei paesi ricostruiti altrove. Del tutto diversi i risultati in Friuli dove il potere fu subito affidato ai comuni, coordinati da un’attenta ed efficace azione regionale. In dieci anni la ricostruzione fu completata e non è forse un caso se da allora prese corpo il repentino sviluppo del Nord Est. [Per una storia sintetica ma completa, chiara e documentata dei terremoti dal Belice all’Aquila, cfr. Francesco Erbani, Il disastro, Laterza, 2010].
In Irpinia si cercò di fare come in Friuli, ma finì in tragedia. Le regioni Campania e Basilicata restarono alla finestra, tutto il potere fu affidato ai comuni, in assenza di coordinamento e di controlli, in un quadro politico comandato dal clientelismo e dagli affari. Per dire, i comuni terremotati, che erano in realtà qualche decina – 71 secondo lo studio di Manlio Rossi Doria, sul quale torno dopo – diventarono ufficialmente quasi settecento, tutti beneficiati dal pubblico erario. Comuni piccoli e piccolissimi gestirono decine di miliardi di lire. Quasi diecimila, dei cinquantamila miliardi di lire stanziati per la ricostruzione, finirono nelle tasche dei tecnici dell’edilizia, ingegneri, architetti, geometri, il ceto sociale più ricco, potente e famelico di questa parte d’Italia. Tutti di ferrea appartenenza partitica. Una delle pagine più scandalose fu l’insediamento di nuove aree industriali in montagna (quasi ottomila miliardi di lire), spesso dentro il letto dei fiumi e servite da inutili strade sopraelevate, oggi semiabbandonate.
Ci furono anche, qua e là, risultati apprezzabili a opera di volontari, amministratori e tecnici benemeriti, ma furono casi eccezionali. La verità è che, trent’anni dopo, è cambiata la geografia. A poche settimane dal terremoto Manlio Rossi Doria curò un rapporto sul territorio colpito, definito come “il cuore e la parte più bella dell’Appennino meridionale, una regione antica e di antica e solida civiltà”. Un territorio che presentava la minore estensione delle terre incolte o abbandonate di qualunque altra zona d’Italia o d’Europa. Alla fine del ‘700, mentre l’Italia nel suo complesso e il Centro Nord avevano un terzo della popolazione attuale, nei luoghi del terremoto era invece insediata la stessa popolazione di oggi. [Università degli studi di Napoli. Centro di specializzazioni e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno, Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23 novembre 1980, Einaudi, 1981]. Prima del 1980 la popolazione era concentrata nei paesi, pochi i residenti nelle case sparse. Dopo il terremoto, gli antichi abitati si sono spopolati, si vive soprattutto in villette sparpagliate in campagna. E si resta sconcertati dal contrasto fra l’opulenza, lo spreco, il lusso di molte nuove case e lo squallore prevalente degli spazi pubblici e del paesaggio. Credo che sia stato Franco Arminio a raccontare meglio di tutti la mutazione anche antropologica di quelle terre. [Per esempio: “Il desiderio secolare di poter contare sul pane e su un po’ di povera lietezza non doveva trasformarsi nel desiderio del contributo”, in Viaggio nel Cratere, Sironi, 2003].
Concludendo, nelle zone terremotate e poi in tutta la Campania le conseguenze disastrose del dopo terremoto si sono sommate alla più generale decadenza della cultura urbanistica e alla crisi irreversibile della pianificazione, cominciate proprio all’inizio degli anni Ottanta, con la new wave della deroga come regola, dell’abusivismo condonato, del furore privatistico, fino all’infamia del piano casa. La conseguenza più vistosa di tutto ciò è che, in trent’anni, dal 1980 al 2010, è raddoppiata la superficie urbanizzata e il consumo del suolo continua a ritmo vertiginoso.
«Non ci piace la Milano brutta, trasandata, lontana dagli standard di vivibilità delle metropoli europee», Valerio Onida, 25 ottobre 2010.
Milano, “capitale economica e morale” (si diceva) funzionava bene in ognuno dei suoi organi e nel loro insieme coeso, come un corpo sano. Ora, capitale – con Roma – della speculazione immobiliare e degli affari mafiosi, rifugge da tutte le buoni funzioni indispensabili per la buona vita degli abitanti, residenti o frequentatori. Era città madre della borghesia produttiva e della classe operaia, ora le due classi antagoniste e protagoniste, ragione primaria dell’organizzazione urbana razionale e conveniente per la comunità, sono sparite. Al posto dei borghesi non eredi dell’illuminismo – inesistente in Italia – ma illuminati, un ceto finanziario, proprietario, commerciale; al posto degli operai, impiegati (i nuovi operai?), negozianti, pensionati. Era città di industria caratteristica per diversificazione della produzione e della dimensione. Ora, distrutte inopinatamente tutte le fabbriche, è centro di due abnormi mercati improduttivi, quello della merce più preziosa, il denaro e quello dei terreni.
Milano esibiva belle case della borghesia e anche del ceto medio allineate nelle eleganti strade dell’Ottocento e del Novecento – benché non immuni da eccessi di densità fondiaria – e dignitosi quartieri popolari semiperiferici, specie dell’Istituto autonomo case popolari. Ora è sottoposta alla più smaccata deregolamentazione edilizia: violente alterazioni nel patrimonio esistente; costruzioni mostruose, specie in forma di grattacielo, laddove ci sia un’area vuota di cui la fasulla urbanistica comunale, nemica della pianificazione, esige il riempimento edilizio privato anziché la destinazione a parco comunale. Gli enti pubblici detenevano una parte del potere e non erano, come adesso, dipendenti in toto dai poteri economici; un Istituto come l’Iacp svolgeva i suoi compiti con una certa autonomia, persino in epoca fascista. Del buon funzionamento urbano era parte fondamentale e famosa la rete di tram, un mirabile sistema unico in Italia ed esemplare in Europa. Poi la politica municipale del trasporto, compiacente verso l’abuso dell’automobile, dopo aver abolito intere linee o averle sostituite con autobus solo in alcuni casi, ha raggiunto l’auspicato, dai liberisti, traguardo dei tagli bruti, della riduzione dei percorsi, dell’abolizione del collegamento più moderno, quello da periferia a periferia passando per il centro.
La città richiamava nuova popolazione, fattore essenziale di un riequilibrio demografico necessario alla vita urbana. Oggi, dopo la perdita di residenti cominciata a metà degli anni Settanta, ne ha quasi mezzo milione di meno e solo l’arrivo di immigrati non comunitari l’ha arrestata ma non ha potuto ancora ripianare lo scompenso strutturale, causa di gravi distorsioni nel mercato del lavoro, nel mercato delle abitazioni e nei servizi sociali. Il vecchio piano regolatore generale sancì la fine della pianificazione urbanistica. Presto cominciò a perdere i pezzi sotto la mannaia delle varianti pubbliche per favorire la ricostruzione privata della città tutta rivolta alla speculazione e non alla risoluzione dei problemi sociali. Milano, approdata al dominio dei capitalisti rentier, ha cambiato profondamente se stessa qua e là, così cambiando la totalità, attraverso l’erezione insensata di cubature edilizie enormi avulse dai contesti urbani e dalla domanda sociale: volumi destinati in buona parte all’inoccupazione ma tuttavia capaci di riprodurre plus-rendita nel processo incessante di compravendita. Esisteva un’architettura della città compatta. Accantonati gli spropositi edilizi del dopoguerra dovuti alla lassista legge sulla ricostruzione, Milano riusciva a superare gli errori mediante l’”affermazione ed evoluzione del razionalismo” (Piero Bottoni) e le opere degli architetti succeduti alla generazione dei maestri.
Ora è sottoposta a una doppia vessazione compendio di un’ulteriore novità nel passaggio di millennio e nel ventunesimo secolo: in basso parcheggi sotterranei multipiano in spazi pubblici di alto valore storico e sociale, piazze, slarghi ricchi di alberi (tagliati con gusto perverso), giardini intatti; in alto sopralzi di ogni genere, uno, due e più piani sfruttando cavillosamente la famosa legge per il falso riutilizzo dei sottotetti e la incredibile “regola” della Tslp, ovvero Traslazione di superficie lorda di piano (demenziale norma, secondo la quale si è potuta ottenere in una cortina stradale costituita di edifici a tre piani la riedificazione di una singola casa fino a otto piani). Intanto sorgono dappertutto, dentro e fuori della cerchia spagnola, gli oggettoni pseudo architettonici degli internazionalisti, non veri autori indipendenti ma attenti servitori degli imprenditori di turno ai quali garantiscono il perseguimento fino all’ultimo centimetro cubo della smisurata volumetria concessa dall’amministrazione comunale.
Non sorprende l’ultima trovata dell’assessorato “allo sviluppo del territorio” (locuzione programmatica): “realizziamo una nostra Defense” sui terreni di Ligresti prossimi alla zona destinata all’Expo (via Stephenson, periferia nord-ovest): cinquanta grattacieli per uffici. Superficie territoriale 400.000 metri quadrati, volume totale 3.600.000 mila metri cubi, probabile altezza dei grattacieli 140 metri (la guglia con la Madonnina è di 108,50), una densità di fabbricazione mai pretesa nemmeno dai più famelici speculatori del dopoguerra.
La città non funziona ed è brutta. La bruttezza, inseritasi nella città storica e dispiegata all’intorno, è peggiore della disfunzione perché irrimediabile. A Milano si stava bene.
Non si può non essere d’accordo con una prima diagnosi dell’articolo di Asor Rosa sul ‘neo-ambientalismo italiano’, preliminare a ogni ulteriore considerazione: ovunque in Italia, in molteplici circostanze urbane e territoriali, per motivi simili, fioriscono e sono attivi comitati, a volte effimeri, a volte consolidati localmente come quasi mini-partiti politici. Questa Italia migliore – perché più altruista – esprime quanto esiste nel nostro paese in tema di democrazia partecipata. Dall’altra parte, da parte delle forze politiche, tutte, stanno risposte negative, l’indifferenza o l’ostilità, un comportamento che deriva prima di tutto dall’interesse di una classe ad auto perpetuarsi.
Veniamo alla parte propositiva. E’ essenziale l’idea che il paesaggio sia considerato ‘bene comune’, già lo è secondo la Costituzione. Per questo, una delle proposte cardine della Rete dei comitati per la difesa del territorio è di amministrare questo bene comune sulla base di una carta statutaria, uno ‘statuto’ appunto, fatto delle regole di uso e trasformazione del paesaggio e dei ‘paesaggi’.
Statuto del territorio a livello regionale, perciò, da articolare in tanti statuti locali, a livello di ‘ambiti’, distinti e sovraordinati ai piani, da cui discendano politiche urbanistiche comunali coerenti. Questa potrebbe essere una proposta unificante per la costellazione neo-ambientalista. Una proposta da praticare in forme di democrazia diretta – un esempio in Toscana è lo statuto partecipato di Montespertoli coordinato da Alberto Magnaghi – e da adattare a seconda delle realtà regionali, delle leggi, della qualità delle rappresentanze politiche. Va da sé che gli statuti una volta approvati non possano essere modificati con delibere di variante come avviene nei piani in un circuito interno alle amministrazioni.
Statuti e movimenti, termini apparentemente contraddittori, ma in realtà i primi possono prefigurare lo sfondo politico, unificante dei secondi, non fosse altro per un conseguente spostamento di potere decisionale verso il basso. Tenendo conto che i secondi, i comitati, ma anche movimenti, associazioni, costituiscono nel complesso una cittadinanza politicamente delusa, propensa ad astenersi dal voto perché non rappresentata se non combattuta dalle forze politiche di destra e di sinistra.
Ma le forze politiche perché sono così sorde nei fatti alle ragioni del paesaggio e dell’ambiente nonostante che la loro sostenibilità sia spesa (a parole) in ogni circostanza? Alla base – come sottolinea Asor Rosa - c’è un capitalismo oligopolistico, colluso con il potere politico, che in Italia si esprime nei grandi gruppi di costruzione e si sostanzia negli appalti, nei sub appalti, nelle ditte mafiose, nelle amministrazioni conniventi, nelle valutazioni ambientali fasulle, nei mancati controlli … tutte cose note, ma su cui è necessario insistere. E alla base della base ci sono le banche che finanziano le grandi opere, le Tav, le autostrade, le ferrovie i trafori; tanto più costano meglio è, più corrono interessi: rendite sicure perché tutte le perdite sono a carico dello Stato. Business che deve andare avanti, mal che vada a spesa del contribuente.
Ma allora, ci si può chiedere, di fronte a questo moloch cosa possono fare i comitati? In realtà quello che possono fare non è poco, prima di tutto resistere come fece il popolo vietnamita, che conosceva il suo territorio, di fronte allo strapotere militare americano. Poi, come dice Asor Rosa “allargare attorno a sé il consenso popolare”. Aggiungo, da professore universitario, svegliando la coscienza dei giovani, non con la propaganda ma mostrando la bellezza, (nel senso più pieno del termine), la profondità identitaria del paesaggio, l’unico vero bene non esclusivo, non riservato, aperto all’esperienza di tutti, bene comune appunto.
Tuttavia non si possono omettere i punti deboli della proposta federativa dei comitati. Il fatto è che qualsiasi federazione, qualsiasi coordinamento con finalità in qualche modo politiche richiede un’infrastruttura. E questa infrastruttura suppone ruoli, organizzazione, risorse finanziarie, tutto ciò che in realtà i comitati non possiedono e che è, oltretutto, lontano dal loro modo di essere. Infrastruttura che non può essere surrogata dalle prestazioni volontaristiche – il volontarismo è una fiammata, non un fuoco continuo. Si capisce perciò la decisione (nel convegno tenuto a settembre a Sarzana) del movimento ‘no consumo di territorio’ di rimanere allo stato di movimento – una decisione accompagnata, però, dalla dichiarazione della stanchezza per un lavoro volontario alla lunga insostenibile.
Qui, a mio avviso, potrebbero entrare in gioco le amministrazioni di sinistra, se sono tali non solo a parole e se capiscono che dare ascolto e supporto a movimenti e comitati è l’unica o quasi chance di rinnovamento. Iniziando da fatti semplici: rendere gli atti urbanistici trasparenti e accessibili, in particolare le ‘conferenze di servizi’ dove si consumano i peggiori crimini contro il territorio, sostenere processi partecipativi non istituzionali, rivedere le leggi e i piani - la Rete toscana ha fatto molte proposte circostanziate in proposito, come d’altronde le associazioni ambientaliste tradizionali. In Toscana, l’assessore al territorio, Anna Marson, si sta muovendo in questa direzione e ora la questione fondamentale è se la giunta regionale le darà quel supporto politico che nasce da una condivisone di valori.
Su un piano più generale ognuno può fare le considerazioni che crede. Certo sarebbe interessante se almeno un partito di sinistra non marginale fosse capace di rappresentare questa cittadinanza non rappresentata – diciamo il 10% degli elettori, ma forse sottostimo. Non per tatticismo o per opportunità locale, ma per reale adesione al principio che paesaggio e territorio sono beni comuni. Quindi con un conseguente cambiamento di programmi e di uomini.
PS Riccardo Conti ex assessore al territorio della Regione Toscana, grande sostenitore della autostrada tirrenica e di ogni altro tipo di opera è diventato il 21 giugno di quest’anno coordinatore nazionale del settore infrastrutture del Pd e da poco è entrato nel consiglio di amministrazione di F2i Sgr, Fondo italiano (chiuso) per le infrastrutture. “F2i Sgr nasce da un progetto condiviso tra Vito Gamberale, manager di lunga esperienza al vertice di importanti aziende italiane e, in qualità di sponsor, primarie istituzioni, istituti di credito, banche d’affari internazionali, fondazioni bancarie e casse di previdenza” (dal sito della società). Tanto per dire che il conflitto di interessi non è solo di Berlusconi.
Tra il 23 e il 26 ottobre, a Teano, si svolgerà una delle più insolite manifestazioni politiche e culturali degli ultimi anni. L'occasione è la ricorrenza dei 150 anni dal famoso incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Un incontro assunto a simbolo dell'annessione dell'ex Regno di Napoli allo Stato sabaudo, e dunque della data di nascita dello Stato unitario italiano. Sarà perciò la prima delle celebrazioni che si susseguiranno lungo il 2011, e che con molta probabilità è destinata a restare come la meno convenzionale e politicamente più eterodossa dell'intera stagione.
A Teano prenderanno la parola gli storici, alcuni dei più prestigiosi studiosi italiani e stranieri dell'Italia contemporanea, che esporranno gli esiti dello loro più aggiornate ricerche e che tenteranno anche di fornire uno sguardo storico sulle trasformazioni recenti del nostro Paese. Serietà e severità scientifica, utili non solo come antidoto alle vulgate “revisionistiche” degli ultimi anni, ma finalizzate anche a una comprensione più profonda dei caratteri dell'Italia contemporanea. Tuttavia non si parlerà solo di storia. A Teano confluiranno le rappresentanze delle più vitali e generose associazioni che la società civile italiana é riuscita ad esprimere negli ultimi anni, da Libera all' Altra economia per intenderci, e che daranno vita a workshop tematici su problemi rilevanti del nostro tempo. All'interno di questi, per 4 giorni, una foltissima rappresentanza di studiosi di varia formazione, militanti, amministratori, sindacalisti, provenienti da ogni regione d'Italia, discuterà di acqua pubblica, beni comuni, città e territorio, energie alternative, legalità, disoccupazione e lavoro, formazione e ricerca, ecc.
Teano è dunque l'occasione per una riflessione storica non celebrativa che fa da sfondo e premessa alla rappresentazione in grande stile della nuova cultura politica che fermenta nel cuore del Paese e che non trova più rispondenza, e neppure un' eco, non solo nelle aule del Parlamento nazionale, ma neppure nelle stanze ormai vuote dei partiti. Certamente, nel comune campano si incontreranno culture, storie, persone fra loro diverse. Linguaggi e punti di vista che si confronteranno e in qualche caso, probabilmente, si scontreranno con schiettezza. Ma questo straordinario pluralismo culturale e politico si presenta con solide basi comuni: esso porta a Teano, pur nella varietà delle posizioni, la difesa delle autonomie locali e dei territori che non mette in discussione l' unità nazionale, i valori dell'accoglienza e dell'inclusione, la condanna senza se senza ma del lavoro precario, della guerra che viola la nostra Costituzione e porta morte ad altre popolazioni, rivendica la difesa e l'estensione dei beni comuni come forma di gestione che si sottrae al mercato, la tutela della legalità, la cura dell'ambiente e del paesaggio, la pratica di economie e di relazioni solidali, riafferma la centralità della scuola e dell'Università pubblica.
Potremmo dire che le giornate di discussione a Teano si presentano un po' come una metafora della sfida che una formazione politica all'altezza delle necessità presenti dovrebbe oggi in Italia assumere come proprio obiettivo storico: raccogliere la diversità di culture, economie, bisogni, storie e provenienze che sommuovono e talora lacerano il nostro Paese, ma che alimentano spesso la sua creatività, per farne la leva di un nuovo progetto di società solidale. Trasformare le sue interne diversità e differenze, l'arcipelago delle sue vitali difformità, in un superiore disegno cooperativo che ridia nuovo senso e nuove speranze allo stare insieme nella casa comune della nazione. E' forse oggi la sfida più grande che gli italiani hanno di fronte. Contro «l'egoismo territoriale» della Lega, fomite di divisione, ispiratore di un'idea rancorosa e perdente di organizzazione sociale, si può contrapporre una diversità che dialoga, che si tende la mano, che collabora nella comune sfida all'interno dell'economia-mondo del nostro tempo.
Ma Teano rappresenterà anche altro. In quei giorni nella piccola cittadina ci sarà quella che definirei l' Esposizione universale della sinistra reale del nostro Paese. Sia pure per ristrette rappresentanze, saranno all'opera le multiformi culture politiche che in tutti questi anni la sinistra non parlamentare è venuta elaborando al di fuori dei partiti, nel vivo delle vertenze, delle lotte locali, delle iniziative settoriali, sui siti della rete, sulla stampa, nei territori, nei mille comitati e associazioni in cui si è venuta esprimendo la politica dal basso in Italia. A Teano si potrà avere una idea campionaria di una sinistra del Paese, oggi priva di rappresentanza, e che il sistema maggioritario, applicato come una camicia di forza, tiene ai margini della vita politica nazionale. Ma questa Esposizione può costituire una grande occasione sperimentale. Qui si potrebbe cominciare a provare come la diversità, la varietà dei punti di vista, degli approcci, delle prospettive possa alla fine approdare a una pratica cooperativa, dare vita a un progetto comune: articolato, ma condiviso.
La stessa sfida che oggi ha di fronte l'Italia ce l'ha la sinistra. Ambedue, in passato, hanno saputo tenere insieme le diversità interne e hanno attraversato, da protagoniste, la storia contemporanea.
La sinistra non è ancora riuscita a portare la propria pratica politica all'altezza di una sfida che si è trovata di fronte negli ultimi decenni: la ricchezza critica e culturale raggiunta dagli individui nel nostro tempo. Essa è rimasta al di qua di questa soglia, che non le ha ancora consentito di approdare a una nuova epoca dell'organizzazione del conflitto. Le fedi del passato si sono dissolte e la politica, che certamente vive di passione, si pratica tramite le analisi circostanziate degli individui. E qui va accennata una verità scomoda: in passato gran parte dell'unità, del disciplinamento militante degli uomini della sinistra, era frutto anche di un atteggiamento semireligioso, di un'obbedienza passiva a dettami ideologici ridotti a catechismo. Il pluralismo delle visioni individuali oggi non consente più quella formidabile coesione ideale. Un livello sempre più avanzato di informazioni e di conoscenza critica rende arduo trovare tra gli individui la sintesi che costituisce la base della decisione, la premessa dell'azione comune. Ma qui sta il punto drammatico su cui occorre concentrare l'intelligenza di questo vasto arcipelago che è oggi la sinistra italiana. E' necessario elaborare, al più presto, una cultura dell'accordo, dell'accettazione delle decisioni prese a maggioranza, sapendo che una scelta collettiva valle mille volte la propria solitaria verità individuale. Coltivare non l'arte dell' unità – che non sarà più possibile – ma della cooperazione solidale deve diventare l'obiettivo strategico di una sinistra che esce dalla propria minorità.
Facile a dirsi, difficile a farsi. E tuttavia le innumerevoli sconfitte degli ultimi anni sono troppo ricche di insegnamenti per far finta di nulla. Alla fine sono le necessità che danno alle possibilità l'occasioni e i fondamenti per realizzarsi. O la sinistra consegue questo più avanzato livello cooperativo o s'inabisserà nell'irrilevanza.
A Teano si possono, dunque, fare prove importanti di questo territorio sperimentale. Perché la discussione avverrà su problemi concreti, lontani dalle diatribe degli schieramenti e delle tattiche elettorali in cui le oligarchie oggi in frantumi continuano a scindersi e a dissipare il loro tempo. Acqua pubblica, disoccupazione della gioventù, energie alternative, agricoltura biologica, acquisto solidale, rifiuti differenziati , vivibilità urbana, ecc. Tutti temi su cui non solo è facile trovare il legame cooperativo, ma che non si presentano come i tasselli sconnessi di rivendicazioni settoriali. Un comune, vasto orizzonte culturale e strategico li tiene insieme. Costituiscono le articolazioni di un progetto ormai sempre più evidente di società, che attende di trovare le proprie specifiche forme organizzative, per partire dai dispersi territori del Paese ed entrare come forza riformatrice nello luoghi decisionali dello Stato.
Qui il programma e gli altri materiali dell'incontro di Teano
Malfatano e la collina di Tuerredda, comune di Teulada, trasformati in cantiere edile. Un progetto invasivo che arriva dritto dai terribili anni sessanta con un tocco di stile Dallas-dinasty. La solita balla da capitan Fracassa che 150.000 metri cubi porteranno “lavoro” per incanto. Rivive l’antica pars dominicana, quella del padrone, a scapito della comunità di massai. I teuladini condannati a divenire un’indifferenziata manovalanza – un cameriere ogni quaranta posti letto, qualche muratore a scadenza, qualche giardiniere che anziché innaffiare il proprio campo innaffierà i giardini dei prìncipi – e un plotone di disoccupati ai confini del territorio dei nuovi signori delle spiagge e delle campagne vendute. E quando i padroni di Teulada chiederanno, per capriccio e concessione, qualche prodotto locale per la mensa dei ricchi, non ci saranno neanche formaggio, vino, grano per il pane, perché a Teulada non si produrrà più nulla.
Il “modello di sviluppo” che il Sindaco immagina per i suoi cittadini è talmente retrò da costituire una novità. E toglie speranza apprendere che il progetto Malfatano si sia concretizzato, anni fa, con un sindaco che si qualificava progressista. Altro che progresso. Altro che “indotti economici” per tutti. Questo è un modello con il quale si rinuncia al miglioramento sociale, alla qualificazione professionale, all’agricoltura, alla possibilità di operare e vivere secondo le personali capacità, si accettano tassi desolanti di scolarizzazione, si negano apprendimento e conoscenza, uniche forma di ricchezza durevole di una comunità. E si tratta di affari per pochi.
Nessuno immagina che i teuladini debbano rinchiudersi nei “furriadroxius”, fissati in una macchina del tempo. Le donne all’arcolaio, i maschi con la falce nei campi e con le greggi nei pascoli. Ma un’Amministrazione deve provvedere, o tentare di provvedere alla scuola e allo studio, a una possibilità di vita dignitosa, indipendente ed economicamente accettabile, a un lavoro duraturo per i suoi amministrati. Deve immaginare un’economia reale di cui sia responsabile la comunità, non un’economia affidata ad altri, a capitali luccicanti che alimentano se stessi. Non deve consegnare i propri cittadini e la terra su cui cammina e vive ad altri.
E’ inammissibile che il Sindaco di quel paese, impresario edile, propugni una crescita fondata su un uso atroce del mattone che ha fallito ovunque e in certi casi è saltato in aria con fragore. Le comunità che hanno distrutto le proprie prerogative si sono inesorabilmente impoverite. Ancora di più quando gli indigeni hanno “sgombrato” dalla loro incomoda presenza il territorio più bello.
Edilizia e turismo non sono veleni in sé, s’intende. Il veleno è contenuto nell’uso improprio delle due risorse che divengono tossiche se male utilizzate, nella politica microscopica che si allinea con i poteri economici dalle cui tasche cascano resti e rimasugli sui quali noi isolani da mezzo secolo ci avventiamo famelici. Il veleno è nel considerare “inutilizzato” un luogo intatto mentre lasciarlo com’è è il migliore degli “usi” possibile.
Ci rassicura un’idea, una filosofia economica che preveda “anche” il turismo ma conservando il legame con le proprie origini, senza distruggere il territorio e senza l’onta dello “sfratto” a chi lo abita e lo lavora da secoli. Un turismo tutto in mano a chi vive davvero i luoghi e li “risparmia”. Economie agricole aggiornate, lontane dalla retorica del contadino zappatore con la schiena curva. Una comunità operosa che costruisce il futuro sul proprio passato.
La nuova “signoria fondiaria” decisa dal Comune di Teulada ci riporta indietro sino all’economia curtense quando il signore del castello dominava grandi territori e lasciava le briciole ai massai. E proviamo per questo una profonda, dolorosa vergogna.
L'articolo è pubblicato contemporaneamente anche su la Nuova Sardegna
Per la realizzazione di Roma capitale il governo ha appena approvato il primo decreto attuativo, per ora riguardante solo l’assetto istituzionale. Un provvedimento retorico e demagogico che, se andasse avanti, provocherebbe un inverosimile sconquasso istituzionale, di fatto eliminando dalla geografia e dalla storia la regione Lazio e la provincia di Roma così come le conosciamo. Per quanto se ne sa, i poteri da trasferire alla capitale con successivi decreti legislativi dovrebbero riguardare i beni culturali, lo sviluppo economico e il turismo, l’assetto del territorio, le aree protette, l’edilizia pubblica e privata, la mobilità, i rifiuti, l’energia, la protezione civile e altre eventuali materie, tutte sottratte in particolare alla regione e alla provincia. Che sarebbero snaturate. Alla regione resterebbe integralmente la sanità e poco di più.
Si guardi il disegno: che senso avrà, come si potranno formare il piano territoriale di coordinamento o governare i trasporti di una provincia di Roma ridotta a spazio residuale, con un buco in mezzo? La popolazione provinciale – quella virtualmente riferita alle materie elencate sopra – si ridurrebbe da oltre 4 milioni di abitanti a meno di un milione e mezzo. E non tanto diverso sarebbe il declassamento della regione Lazio che, sempre astrattamente riferendoci a quelle stesse competenze, avrebbe una popolazione quasi dimezzata, e nella graduatoria delle regioni per peso demografico, scenderebbe dal terzo posto (dopo Lombardia e Campania) al decimo posto, dopo la Toscana e prima della Calabria. Insomma, un pasticcio incomprensibile che, tra l’altro, collocherebbe Roma e dintorni in una prospettiva molto peggiore di quella prevista per le ordinarie città metropolitane.
Il Sole 24 Ore dei giorni scorsi ha fatto il punto sui ritardi nell’avvio delle 9 città metropolitane previste dalle norme sul federalismo approvate l’anno scorso. Esse sono Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Reggio Calabria, Torino e Venezia e dovrebbero sostituire le vigenti province, ereditando lo stesso territorio, oppure uno diversamente organizzato, in questo caso i comuni non ricadenti nella città metropolitana andrebbero assegnati alle restanti province “ordinarie”. Sarebbe quindi ridisegnata la geografia amministrativa, secondo principi dettati dalla logica e dal buon senso. Sempre che logica e buonsenso sopravvivano nel nostro povero Paese, e che la riforma vada avanti.
Roma capitale dovrebbe invece convivere con una provincia e una regione depotenziate, mortificate, superflue. Non serve la zingara per capire che siffatta impostazione non andrà avanti, se non altro per l’opposizione (giustamente) furiosa di regione e provincia. E allora si dovrà rimettere mano alla questione. Secondo me, la prima decisione da prendere dovrebbe essere di attribuire a Roma capitale il rango di regione, com’è stato fatto per altre capitali europee che comprendono sempre vasti territori (la comunidad autonoma di Madrid comprende 179 comuni). Di conseguenza si dovrebbe decidere se la regione Lazio sopravvive (con una diversa articolazione delle province) o viene spartita fra Toscana, Abruzzo e Campania. Insomma, un’autentica riforma. Inconcepibile con l’attuale personale politico, dell’una e dell’altra parte.
Ho notato in particolare il ricordo degli anni Sessanta e Settanta. Ho provato a ritrovarli da un mio punto di vista.
La legge 167 del 1962 concernente i piani per l’edilizia economica e popolare diede luogo a numerosi progetti spesso di ampia dimensione nei comuni governati dalla sinistra (in qualche raro caso addirittura molto aggressivi verso il cuore della città); ma ebbe troppo scarso riscontro in coerenti realizzazioni di alta qualità, per la difficoltà di acquisire tempestivamente le aree, per la mancanza di risorse finanziarie, per la scarsa vocazione dei municipi a destinare quote di bilancio alla formazione di un demanio di terreni, per la reticenza a integrare il progetto urbanistico in una chiara visione anche architettonica.
Il decreto del 1968 sugli standard, applicativo degli spunti regolatori insiti nella “legge ponte” del 1967, accontentò chi credeva fosse la rigida normativa delle quantità spettanti nel piano alle varie destinazioni funzionali a risolvere il dissesto urbano. La bandiera dello standard sventolerà sempre più sui Comuni di sinistra: lo standard urbanistico riferito in specie ai servizi sociali come panacea dei mali urbani, come soluzione ritenuta di rottura in contesti carenti appunto di questi servizi. In Italia, particolarmente nelle grandi città, mancavano il verde, le scuole, eccetera. Perciò la rivendicazione delle relative necessarie quantità ebbe un senso persino ovvio. Era effettivo l’obbligo per l’urbanistica progressista di esigere dalla classe dominante di comportarsi in maniera un po’ più “svedese”, tanto più di pretenderlo dalle amministrazioni di sinistra. Avrebbe invece dovuto prevalere il problema di misurare le rivendicazioni con un’analisi convincente di una realtà in cui i ruoli sociali e la loro distribuzione sul territorio, in altre parole l’iniqua suddivisione di città-territorio fra capitale e lavoro, rappresentavano il risultato storico dei rapporti e degli scontri di classe. Così sarebbe potuta emergere la vera natura della realtà socio-territoriale e delinearsi un comportamento della politica e dei governi locali volto non tanto a tappare i buchi più grossi nella sovrastruttura dei servizi non colmati dal bulldozer capitalistico, quanto a collegare la pianificazione alla strategia generale per una trasformazione dei rapporti fra le classi in relazione, per così dire, all’appropriazione e al consumo del territorio. Tra l’altro, riguardo a certe situazioni economico-sociali drammatiche, come nel Sud, si sarebbe potuto mettere in luce, attraverso puntuali analisi qualitative, la contraddizione fra condizione reale e idealismo astratto dell’approccio urbanistico, contribuendo così, almeno, alla formazione di una conoscenza locale capace di dare un contributo alla contesa per mutare convenientemente gli assetti sociali e territoriali.
Gli effetti delle lotte alla fine degli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta provocarono anche una più ricca articolazione del fronte dell’urbanistica. Ed era merito del movimento operaio e del movimento studentesco la scoperta dei nuovi livelli dei problemi e del conforme impegno culturale. Il salto qualitativo circa l’annosa questione delle abitazioni, per esempio, con la rivendicazione “casa uguale a servizio sociale”, derivò non dalle elaborazioni della cultura urbanistica e architettonica, bensì dalle analisi e dalle esperienze dei sindacati operai, dalla loro capacità di mobilitare attorno a un obiettivo realmente nuovo l’intera massa dei lavoratori italiani (sciopero generale dell’ottobre 1969…). Molti di questi acquisirono coscienza del fatto che rompere un nodo della loro condizione materiale come quello dell’ingiusta situazione abitativa avrebbe avuto forti riflessi, più dell’aumento salariale, sul complessivo assetto sociale.
Le lotte di massa in una prospettiva di unità operai studenti proposero una nuova figura di intellettuale e influirono sulla revisione dei ruoli culturali nelle università, in particolare in quelle di architettura dove le contestazioni erano sorte (a Milano fin dai primi anni Sessanta) proprio dalla messa in discussione dei compiti dell’urbanistica. Tra le posizioni dei docenti molto differenziate nella facoltà di architettura milanese, si distinse quella che affidava all’impegno nella didattica e nella ricerca l’approfondimento circa i compiti dell’insegnante: assumendo i nuovi temi che le lotte operaie e studentesche andavano enunciando e collegandoli alla questione generale del territorio e della città; sperimentando nei fatti, giorno per giorno, la funzione nuova dell’università, ossia, come recitava uno slogan studentesco, l’“uso sociale dell’università”.
Intanto, a scala delle istituzioni politiche e amministrative non mancarono certi effetti dovuti alle mobilitazioni di massa e anche alle annose richieste della parte migliore degli urbanisti. La legge sulla casa 865 del 1971 cercava di ricucire organicamente i fili del discorso legislativo a cominciare dal provvedimento del 1962 sull’edilizia economica e popolare e dalle disposizioni del 1967-1968, per sboccare infine nella legge Bucalossi del 1977 sul regime dei suoli e sulla “concessione” all’edificazione. In queste circostanze le sinistre svolsero una tenace azione di stimolo e, anche troppo, di compromesso “governativo”. Alcune Regioni iniziarono a svolgere i compiti nel campo urbanistico che il trasferimento di determinate funzioni dallo stato prevedeva. Furono sollecitati i piani regolatori comunali, si stabilì, per questi, qualche indirizzo circa la stesura per lo più in senso quantitativo. La vittoria delle sinistre nelle elezioni amministrative del 1975 e la conseguente conquista del potere anche in molte città grandi e medie si tradussero nel perseguimento del “buon governo” e, quindi, del “buon piano” urbanistico. Nacque un più diffuso rapporto fra architetti e urbanisti di sinistra e istituzioni democratiche, proliferarono i piani regolatori, i piani per l’edilizia economica e popolare, i piani pluriennali di attuazione. Raramente, però, si trattava di un rinnovamento profondo della concezione culturale e della politica per gli interventi. L’influenza delle linee di ricerca emerse nell’università di architettura fu assai scarsa. Gli architetti e ingegneri che lavoravano per i Comuni, a parte i mai morti praticoni dell’urbanistica, appartenevano, nel caso migliore, alla concezione del “tecnico critico” e della “committenza alternativa” che non si discostava dalla vecchia rivendicazione tutta riferita al momento distributivo-quantitativo: lo standard dei servizi, la “parificazione” (Keynes), senza riguardo alla realtà dei rapporti sociali di produzione. Oppure restringevano i problemi dell’assetto territoriale al momento della gestione, sostantivo che divenne rappresentativo, nel suo abituale abuso unito all’aggettivo democratica, di un modo quasi funzionaristico con cui una parte della sinistra, nell’amministrazione e nella professione, intendeva l’operare urbanistico (e non solo questo).
Intanto, il perdurare della crisi respinse ai margini le riforme. Primeggiava nuovamente il problema dell’occupazione e del salario, le rivendicazioni non potevano non muoversi in questa direzione. Lontani i tempi in cui la lotta per la “casa servizio sociale” sembrava potere aprire nuovi scenari nel confronto-scontro fra capitale e lavoro. La cronica distorsione di un mercato delle abitazioni del tutto sfavorevole ai ceti popolari ripropose il problema puro e semplice della possibilità di procurarsi comunque un’abitazione; così come per i giovani, le donne, gli emarginati, gli immigrati premeva la preoccupazione di procurarsi comunque un lavoro. Le ipotesi di modificazione della vecchia logica nella produzione sociale e nella conformazione territoriale sfocavano nel regno dell’utopia.
Il famoso piano decennale della casa rivelò subito, all’avvio dell’attuazione, i suoi limiti e le sue contraddizioni, per non dire i suoi inganni. L’inflazione mangiava gli investimenti, mentre nelle regioni l’assurda distribuzione a pioggia degli interventi, inoltre inficiati da metodi clientelari, impediva di ottenere soluzioni che fossero cardine di una nuova visione dell’organizzazione territoriale.
D’altra parte la scoperta, tardiva, dell’Italia sommersa della produzione industriale fu anche scoperta di incredibili modelli territoriali spontanei in cui predominava il “privato” talmente che il “pubblico” pareva elemento di disturbo. Modelli contrapposti a quelli ipotizzabili dalla sinistra politica, sindacale, culturale per una nuova società e un nuovo territorio perseguibili attraverso l’aggregazione di un ampio blocco sociale, con al centro la classe operaia, fiducioso nel cambiamento.
Ma oramai arrivavano, per affossare ogni speranza, gli “orribili anni Ottanta” (Salzano)...
Milano, 24 settembre 2010
La penisola di Malfatano ci conserva un uomo vigoroso e fatto con poco, di nome Ovidio Marras, che nel suo furriadroxiu, antica unità produttiva del Sulcis, alleva bestiame e coltiva un orto accerchiato da una colossale speculazione edilizia. La sua vita si è scontrata, storia già vista, con una forza economica che ha adocchiato il colle, sopra la spiaggia miracolosa di Tuerredda, e con un sindaco, quello di Teulada, il quale dichiara senza arrossire che i suoi cittadini potranno finalmente fare i giardinieri e i guardiani anche d’inverno.
In cambio Teulada ha offerto in saldi 700 ettari di costa dove un gruppo di ditte, compresa l’ecologica Benetton, anch’esse senza arrossire, tireranno su 150mila dozzinali metri cubi di alberghi e villoni in un sito di perfezione divina. Per costruire questo mostro, che ha vinto un premio chiamato con malinconica schiettezza il “Mattone d’Oro”, il sindaco e l’impresa hanno spezzettato in “tanti piccoli impatti” la valutazione complessiva di impatto ambientale. Incuranti della Comunità europea che considera inaccettabile questa “astuzia” da Bertoldo.
Nel sito internet della “Mita Resort”, intricata società del gruppo Marcegaglia che gestirà questi spietati metri cubi, c’è la spiegazione della vita assediata di quell’uomo, un partigiano antisviluppista. La Mita amministrerà l’albergo. E definisce il proprio progetto di “colta semplicità”. Vediamola questa “colta semplicità”. Albergo, 300 camere, e ville da un milione e mezzo di euro. Insomma, 150mila metri cubi di “colta semplicità”. Così a Teulada passano docili dalla servitù militare a quella turistica, tanto sempre servitù è.
La “colta semplicità” avrebbe dovuto suggerire al sindaco, alla giunta, alla Mita, all’impresa trevigiana e a tutte quelle coinvolte, specie quelle isolane, di sostenere la rete preziosa dei furriadroxius anche riconvertendoli, ma a patto di conservare la funzione originaria di unità produttiva. Questo richiedevano la “colta semplicità”, il nostro Piano paesaggistico e il pubblico interesse.
Malfatano era oltretutto un approdo punico, forse fenicio, un porto al confine del mito. Così, ecco che spunta altra “colta semplicità”. L’impresa “collabora” con la Soprintendenza archeologica che studia un poco i luoghi e in uno slancio di “colta semplicità” approva albergo e ville che “valorizzeranno” con un faretto qualche micro-rudere. Addio fenici e punici, ora ci sono i trevigiani e la Sovrintendenza li tutela più delle vestigia. Il sindaco si appunterà le stelle degli alberghi dove vorrà, ma sarà ricordato, insieme alla sua giunta e a quelle precedenti, per non avere protetto il tessuto sociale di Malfatano conservando “vivi” i furriadroxius e proteggendo i suoi “amministrati”, soprattutto Ovidio Marras. Il sindaco impresario sarà ricordato per la distruzione di Malfatano.
Ovidio di Tuerredda resiste, coltiva e alleva, ed è considerato un nemico di quest’idea di sviluppo malato, perché lui non vuole diventare servo. La speranza è nella sua tempra di pastore e contadino che fa vivere l’economia dei furriadroxius, più solida, moderna, durevole e onorevole di quella luccicante che produce posti di lavoro volatili e servitù turistiche distruggendo luoghi e bellezza.
Quanto alla “colta semplicità” che dilaga nell’Isola, ricordiamo che l’ex arsenale di La Maddalena, 119 milioni di denaro pubblico, è stato “donato” in gestione per 40 anni proprio alla Mita resort per 60.000 euro l’anno previo contributo di 31 milioni di euro. E per non turbare la “colta semplicità” della Mita, la Regione Sardegna pagherà un’Ici annua di 400.000 euro, sette volte l’affitto. Siamo servitori gentili, noi, e non disturbiamo.
L'articolo è stato pubblicato oggi anche su la Nuova Sardegna il 25 agosto 2010
L’ormai consueta, autoencomiastica conferenza stampa con la partecipazione, fra gli altri, del ministro Bondi e del sindaco di Roma Alemanno, ha annunciato urbi et orbi, mercoledì 28 luglio, l’imminente pubblicazione del bando di gara per sponsorizzazioni private finalizzate al restauro del Colosseo.
Che i doverosi e non più rinviabili lavori di restauro all’anfiteatro flavio siano in procinto di essere avviati è senz’altro una buona notizia. E la magniloquente fanfara mediatica allestita per annunciare – si noti bene – il semplice ricorso ad una sponsorizzazione per un’operazione di manutenzione irrinunciabile e per di più giunta con grave ritardo (si ricordi il crollo avvenuto agli intonaci il 9 maggio scorso) si allinea allo stile governativo in grado di spacciare per innovativo “modello” di gestione il tentativo di ricorrere sic et simpliciter ai soldi privati. Il polverone autoincensatorio è però in questo caso talmente smaccato da dissolversi con grande rapidità: in realtà i nuovi mecenati saranno chiamati semplicemente a coprire il vergognoso stato di sistematica sottrazione di pubbliche risorse in cui versa il ministero deputato alla tutela del nostro patrimonio culturale.
Tutta l’operazione rivela fra l’altro, ancora una volta, l’inutilità della gestione commissariale che si è limitata, nell’occasione, ad un ruolo di passacarte, visto che il progetto scientifico è a cura della Soprintendenza, mentre per il bando si sono scomodati oltre all’ufficio legale del ministero, niente meno che università Bocconi di Milano, Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici e Avvocatura dello Stato (Avvenire e Messaggero, 28 luglio 2010).
In questi termini, come è chiarissimo, si tratta di una non-notizia: la pratica delle sponsorizzazioni, anche molto generose, finalizzate al restauro di monumenti pubblici, esiste da sempre, mentre la vera, drammatica notizia, risiede nelle condizioni di degrado in cui continua a versare non solo il Colosseo, ma tutta l’area circostante: a trent’anni di distanza dalle denunce di Antonio Cederna ben poco è stato fatto, e quel poco, ricordiamolo, si deve all’opera di Luigi Petroselli, protagonista politico di un’indimenticata stagione di recupero del ruolo culturale dell’area archeologica centrale.
Il nostro monumento – icona continua ad essere sfruttato per gli usi più impropri (i così detti e ormai imprescindibili “eventi”) come la famosa gallina dalle uova d’oro, tanto è vero che con candore lo stesso sindaco Alemanno ha sottolineato l’urgenza dei restauri dal momento che l’immagine dell’anfiteatro sarà il logo trainante per il lancio della candidatura della Capitale come sede delle Olimpiadi 2020. E vedremo se gli eventuali munifici mecenati, alla fine dei conti, saranno davvero così “eleganti” (sic, la Repubblica, 29 luglio 2010) da non pretendere, in cambio dei contributi elargiti, ben più di un richiamo a margine dei biglietti di entrata.
Con il consueto rimando sine die ad un futuro progetto dai vaghi contorni, poi, nella conferenza stampa di mercoledì scorso, è stato affrontato il problema della viabilità, vero nodo irrisolto di tutta l’area che si pretende di calmierare con soluzioni palliative, aggirando costantemente il ganglio rappresentato da via dei Fori Imperiali e dalla necessità della sua pedonalizzazione (e, a seguire, rimozione...). Soltanto attraverso una drastica riduzione del traffico veicolare, le operazioni di restauro che si stanno per intraprendere avranno una ragionevole sostenibilità nel tempo.
Ma per una reale salvaguardia del nostro monumento più famoso a tali imprescindibili operazioni urbanistiche andrebbe associata una gestione che, come recitano le nostre leggi, anteponesse le ragioni della tutela a quelle di uno sfruttamento, quello a fini turistici, responsabile, al pari dell’inquinamento da traffico, di una pressione antropica sempre più accentuata e lesiva per l’integrità del monumento stesso.
Obiettivo contraddittorio, però, con gli strepitosi successi, in termini di aumento dei visitatori, che a poche ore di distanza, sono stati sbandierati, in congrua conferenza stampa e collaudata eleganza comunicativa (“è passata ‘a nuttata”: vedere, per credere, la locandina pubblicitaria sul sito Mibac con la storpiatura del ritratto di Antonello), dal Direttore alla Valorizzazione cav. Resca, propugnatore del nuovo assioma in stile Auditel, secondo il quale il livello culturale si misura in termini di quantità di incassi.
Perfettamente allineato, a conclusione della kermesse pro sponsorizzazione dei restauri, il commissario alle aree archeologiche di Roma e Ostia, Roberto Cecchi, ha annunciato trionfalmente l’apertura dell’anfiteatro flavio anche nelle ore notturne: venghino, signori, venghino.
«Siamo il Comune dove si è costruito meno all’Elba. Avremo pur il diritto di ritagliarci anche noi il nostro sviluppo? È la convinzione del sindaco di Rio Marina, Francesco Bosi (Pdl), smentita proprio ieri dalla giunta della Regione Toscana che ha annunciato la sospensione dell’efficacia di cinque previsioni contenute nel regolamento urbanistico, in quanto si ravviserebbero possibili profili di incompatibilità e contrasto tra le previsioni del Comune e la disciplina paesaggistica del Piano di indirizzo territoriale». (Corriere di Firenze, pagina locale del Corriere della Sera, 8 agosto) Lo stesso sindaco: «Se questo è il nuovo corso stiamo freschi» (Repubblica, 8 agosto)
«Più posti barca, ma meno cemento e costi più bassi per una clientela medio-bassa. Così l’assessore all’urbanistica Anna Marson sintetizza il nocciolo politico delle modifiche al master plan sui porti, allegato al Pit, che l’ex assessore regionale Riccardo Conti fece approvare nel 2007. Un nuovo strappo rispetto alle linee di politica urbanistica della precedente giunta guidata da Claudio Martini.» (Tirreno, 10 agosto). «La linea dell’assessore è chiara: più posti barca, ma meno cemento e costi più bassi per una clientela medio-bassa. Questo perché, dicono dalla Regione, i costi di un posto barca oggi sono troppo elevati e penalizzanti per una clientela medio bassa» (Corriere fiorentino, 11 agosto). Risponde Gianni Anselmi, sindaco di Piombino di centro sinistra: «sbagliato, nella mia città voglio portare i mega yacht» (Tirreno, 11 agosto). «Urbanistica, il Pd frena la Marson. Direzione regionale contro l’assessore di Rossi» (Titolo del Corriere di Firenze, 12 agosto). E ancora: «La volontà di ritoccare il master plan dei porti varato nel 2007 dall’allora assessore Riccardo Conti ha provocato parecchi mal di pancia proprio a Piombino, città del segretario regionale (del Pd) Andrea Manciulli. » (Corriere di Firenze, 12 agosto.) «Di fronte alle parole della Marson, il malumore del sindaco di Piombino Gianni Anselmi, … è rilevante, ma ad aprire un caso politico sono le parole del responsabile ambiente e infrastrutture del Pd toscano Matteo Tortolini che boccia su tutta la linea l’impostazione dell’assessore regionale.» (Tirreno, 12 agosto). «Pd contro Marson. Sani (deputato e coordinatore della segreteria del Pd toscano): nessuna sfiducia, ma deve confrontarsi» (Unità 15 agosto).
Sono alcuni esempi dell’insofferenza, in consonanza con il Pdl, di parte del Pd, quella sviluppista che ha come referenti la vecchia guardia del partito e la sua burocrazia. E’ il Pd che si trova molto più a suo agio con i Ligresti e i Frattini che con la gente comune. Nello sfondo una nuova versione dell’assalto del territorio più pregiato – le coste, ma proprio sul mare – condotta dal grande capitale: a Donoratico, a Talamone, al parco di Rimigliano a Capalbio e via cementificando. Non che sia finita l’era delle villette legali o abusive. Completamente abusive quelle scoperte dalla Guardia di Finanza, quando già erano state messe in vendita: 98 villette costruite nel comune di Scarlino (amministrazione di centrosinistra) al posto di una residenza turistico-alberghiera - che Comune distratto!
Le buone notizie sono: 1) alcune grandi opere sciagurate e fortemente sostenute dalla passata amministrazione regionale stanno entrando in crisi per mancanza di risorse finanziarie, in primis l’autostrada tirrenica dove la stessa Sat vuole ritornare al tracciato sull’Aurelia. 2) molti sindaci eletti nel centrosinistra o del Pd sono favorevoli al nuovo corso della Regione: si veda il sindaco di Portoferraio che dice «basta seconde case solo la qualità ci fa vincere! » (in effetti uno studio dell’Irpet dimostra che producono una perdita secca per l’isola). 3) Il sostegno del presidente Rossi ad Anna Marson. 4) La conseguente iniziativa di rivedere il Pit e la legge di governo del territorio, non per ristabilire vecchi e ormai anticostituzionali principi gerarchici, ma per rendere effettiva una collaborazione fra Regione, Province e Comuni che assicuri la sostenibilità del territorio e un’efficace tutela del paesaggio; e anche di uno sviluppo a favore dei redditi medi e bassi e non degli speculatori edilizi e del grande capitale interessato solo alla clientela affluente, quella che si arricchisce nelle crisi economiche. E’ una (moderata) politica di sinistra, ma che male c’è?
A Milano non esiste una chiara opposizione alle politiche urbanistiche e edilizie della giunta guidata da Letizia Moratti. Ben prima dell’attuale strano accordo sul Piano di governo del territorio, il Pd ha lasciato campo libero a ogni operazione che ha portato benefici a imprese e speculatori fondiari e danno alla Milano dei cittadini. Ne cito due fra tante riguardanti la città esistente (non le nuove spaventose edificazioni «firmate»), maggiormente destinate a rovinare gli spazi e le case della città centrale: gli enormi sili sotterranei (con relativi volumi fuori terra) in belle piazze e giardini alberati, spazi considerati beni pubblici unici, fra tutti quello immenso quasi appiccicato a Sant’Ambrogio; il sopralzo di uno o due e più piani motivato all’origine dal recupero abitativo dei sottotetti e diventato poco più tardi puro pretesto per nuove aeree costruzioni, ora ancor più cresciute a causa della dissennata regola denominata traslazione di superficie lorda di piano.
Non si è sentita nessuna protesta proveniente dal Pd, nessuna denuncia della doppia devastazione arrecata nel basso e nell’alto della costituzione urbana. Centinaia, anzi riguardo ai sopralzi migliaia di episodi sono passate sotto gli occhi attoniti degli abitanti e dei commuter non solo senza opposizione ma con il consenso, o al meglio il disinteresse di quelli che a fronte di questi progetti degli amministratori, smaccati liberisti, avrebbero dovuto impiantare un duro contrasto per così dire all’americana (in Usa la minoranza fa di tutto per metter in difficoltà e battere la maggioranza su qualsiasi problema). Non è sorprendente, allora, il contorto avallo concesso al più deregolante piano che si sia mai visto nel paese. Il Pd ha dichiarato che voterà contro il Pgt ma dopo aver ritirato quasi tutti gli emendamenti (1400 all’origine, diventati 1150 e infine ridotti a un centinaio) e aver concordato la data, 28 giugno, per il varo del piano. Regalando così alla destra la certezza dell’approvazione finale entro il termine della legislatura, ossia prima delle elezioni. «Semplicemente incomprensibile», scrive il commentatore su Repubblica/Milano (r.rh., 1 giugno 1010).
Il Partito democratico, oltre a non aver ancora trovato un candidato sindaco affidabile (e stanno cercando verso destra…), non potrà proporsi agli elettori con l’autorevolezza di una formazione indiscutibilmente alternativa, ma dovrà farlo con la debolezza di chi ha giocato sulla doppiezza degli accordi fatti per davvero e negati per finta. Troppi dirigenti del partito appartengono all’ideale e alla politica dell’urbanistica privatizzata, comandata dai proprietari, dagli imprenditori finanziari e dagli impresari edili per lo più anche proprietari (come Ligresti, Cabassi, Caltagirone…). Se c’è una scena milanese in cui vige una recitazione bipartisan, è quella di un’inesorabile cementificazione della città.
Circa i contenuti del Pgt l’informazione è circolata abbondantemente in eddyburg. Nella trattativa del Pd con l’assessore Masseroli nulla ha scalfito l’ipotesi di un aumento della cubatura edilizia di 100 milioni di metri cubi (vedi la denuncia del presidente dell’Inu, Repubblica, cit.). Poi, due questioni considerate dapprima dal Pd basilari, il dimezzamento dell’indice di edificazione (da 0, 20 a 0, 10 mq/mq) nel Parco Sud concernente la perequazione da attuare in terreni urbani e la cancellazione della previsione del demenziale tunnel di 15 chilometri fra Linate ed Expo – Cascina Merlata, con sette uscite nella città, non hanno trovato benevolenza. Peraltro anche un indice di 0,10 è assurdamente elevato trattandosi di aree agricole, per le quali nei piani regolatori d’antan non quasi un terzo di metro cubo al metro quadro si indicava ma almeno dieci volte di meno, e solo per interventi strettamente riferiti alla conduzione agricola. Si capisce, occorre, attraverso la perequazione, remunerare la rendita al livello preteso dagli speculatori, ma, diciamo, est modus in rebus.
Quanto al tunnel, che aumenterà in misura insopportabile l’assalto delle auto dentro la città, l’accantonamento temporaneo scaltramente concesso dall’assessore è una presa in giro e i nostri dell’opposizione dolce lo sanno. Infatti, si è inteso che il progetto sia riproposto nel piano urbano del traffico. Nessun dubbio che sarà approvato sotto la spinta degli interessi finanziari e immobiliari che gli stanno dietro e delle arroganti convinzioni dello stesso sindaco.
Termino accennando a un aspetto creduto secondario del piano, scorso tranquillamente come fosse acqua sulla pietra e invece estremo emblema della cancellazione dell’urbanistica e del favore alla cattiva architettura. È scomparsa dagli obblighi la destinazione d’uso degli edifici, che siano molti nel progetto o uno solo non conta. Non è più necessario collegare contenitore e contenuto. Si progettano involucri astratti dalle ragioni funzionali e sociali, dal rapporto con la città e il contesto di appartenenza. È abolita per legge una delle motivazioni profonde del costruire; sparisce la domanda di, come diceva Rogers, per chi costruire. L’indifferenza e l’aleatorietà distruggeranno il senso stesso della città.
Milano 11 giugno 2010
Nel balletto di ipocrisie che nasconde ferocissimi scontri di potere all’interno del governo sulla manovra finanziaria in discussione in queste ore, spicca quest’oggi la “protesta” di Bondi sui tagli indiscriminati alla cultura.
E già, perché a tutti – in maniera bipartisan - una presa di posizione critica da parte di un ministro da sempre appiattito fino al masochismo sulle decisioni del governo è apparsa novità da sottolineare a riprova delle storture della manovra stessa.
Eppure, quando due anni fa la scure di Tremonti si abbattè, pesantissima, sul bilancio del suo Ministero, Bondi difese l’operato del governo sostenendo l’inefficienza ministeriale nella gestione delle risorse e sbandierandone come prova lampante l’elevato ammontare dei residui passivi. In quella occasione ad economisti anche non di parte fu facile smontare la versione del ministro: la realtà a tutti nota è che nessun governo di alcun colore politico ha mai investito seriamente sul nostro patrimonio culturale e il Ministero è da sempre mantenuto in una sorta di bagnomaria che gli permette solo di sopravvivere.
Ma è altrettanto vero che in questi ultimi due anni è stata messa in atto, consenziente il Ministro, una vera e propria strategia di asfissia progressiva e sempre più accelerata.
Pensionamenti anticipati, girandola di trasferimenti, sostituzione, nei ruoli di maggiore ruolo decisionale sul territorio come le Direzioni regionali, di personale amministrativo al posto di tecnici del settore, e, soprattutto, quella politica dei commissariamenti sotto l’egida della Protezione Civile che ha interessato via via le Soprintendenze e poli museali principali e i cui meccanismi distorti solo le inchieste giudiziarie sono riuscite a bloccare.
Mentre per quanto riguarda il paesaggio gli organi politici del ministero hanno posto in atto, da un anno a questa parte, una sistematica operazione di depotenziamento dell’intero sistema delle tutele sul quale torneremo a breve, sul piano politico, è giunta pressoché a compimento l’espulsione progressiva di tutte le voci di dissenso, avviata in grande stile con le clamorose dimissioni di Salvatore Settis da Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, trasformato poi, in pochi mesi, in un organismo tanto consenziente sul piano politico quanto ininfluente su quello culturale.
Anche in questa occasione, del resto, le dichiarazioni del Ministro sono in realtà molto più coerenti di quel che non possa apparire ad una prima lettura: nulla Bondi ha detto sull’ulteriore taglio del 10% al bilancio del Mibac previsto dalla manovra. Briciole in termini assoluti, ma ad un organismo sottoposto, come detto, ad una dieta draconiana, se gli si sottrae anche il tozzo di pane secco, se ne decreta di fatto la soppressione.
E nel comunicato di precisazione diramato in giornata, Bondi ribadisce anche, sulla stessa linea, la necessità di quella “riforma” degli enti lirici che ha scatenato proteste a livello internazionale.
Il dissenso del Ministro riguarda invece la soppressione dei finanziamenti statali ad una lunga serie di istituzioni culturali del più vario tipo che, inaspettatamente, egli si trova a difendere, almeno in parte, rivendicando – unico caso nel suo mandato – la competenza del proprio Ministero a decidere sui tagli.
Su eddyburg abbiamo pubblicato da subito le molte ragioni che si oppongono, in linea di principio, ad ulteriori tagli su enti di ricerca, ma adesso leggetevi la lista delle istituzioni cui verrebbero (condizionale d’obbligo) sottratti i fondi statali. Sfido chiunque a non riconoscere fra quelle che, a seconda delle proprie competenze, ci sono maggiormente note, alcuni (molti) carrozzoni polverosi e da anni sonnecchianti in iniziative di basso profilo: uno o due convegni l’anno in amene località, una pubblicazione patinata e poco altro.
Si tratta, in molti casi, di istituzioni dalla storia gloriosa, a volte pluricentenaria, ma che da alcuni decenni ormai vegetano in un’assoluta irrilevanza culturale (sul tema, sempre su eddyburg).
Eppure sono sopravissute sempre alle minacce che periodicamente i governi, preferibilmente di centro destra, scagliano contro i famosi “enti inutili”: spauracchio demagogicamente agitato ad ogni manovra finanziaria. La ragione, tutta italica, della loro sopravvivenza risiede nel fatto che molte di queste istituzioni si sono di fatto trasformate in comode sinecure per amici, sodali e congiunti.
Anche la sinistra, e qui vengo al punto centrale della questione, ha favorito questo andazzo, sicura di mantenere, garantendo elemosine di Stato a questi rifugi per intellettuali a riposo e per il loro corteggio, sacche di consenso spendibili alla bisogna. In molti casi questo calcolo di bassa cucina si è rivelato pure sbagliato, poiché, come noto, al cambio della guardia, i vari responsabili, direttori, presidenti, ecc. si sono in larga parte allineati al padrone di turno, al grido di “la cultura (archeologia, geografia o storia che fosse) non è di destra, né di sinistra”.
Appunto. Ciò che un governo realmente consapevole dell’importanza della ricerca e della cultura quale strumento strategico di progresso sociale e anche economico di un paese avrebbe dovuto fare, sarebbe stato quello, internazionalmente affermato, di costituire un sistema di controlli e verifiche periodiche e realmente autonome sull’attività di tali enti, in modo da premiarne quelli (non molti, ma pure presenti nella black list tremontiana) di reale eccellenza, facendo anzi confluire su questi le poche risorse disponibili.
Perché un’altra delle ipocrisie che si celano dietro questa operazione è quella di sottolineare l’esiguità delle elargizioni statali a riprova della loro ininfluenza in termini di risparmio complessivo delle risorse. Va detto, piuttosto, che la ricerca di alto livello ha dei costi non comprimibili al di sotto di una certa soglia e che, per converso, la scarsità di risorse cui sono costrette tante di queste istituzioni diviene prova evidente della miserevole incidenza culturale raggiungibile dalle loro attività.
Così, invece di contribuire a consolidare, con una politica di finanziamenti culturali trasparente e fondata sul merito, le istituzioni di ricerca di eccellenza che, nonostante tutto, sopravvivono nel nostro paese, la sinistra può annoverare anche questa colpa: nella bagarre che già si è scatenata sulla lista nera, vi sarà un arrembaggio giocato esclusivamente su prove di forza di bassa politica e dal calderone nel quale tutti sono appiattiti, saranno salvati non i migliori, ma quelli legati ad interessi o anche solo conoscenze di maggior potere.
Amaramente pertinenti appaiono le considerazioni di Barbara Spinelli nell’odierno editoriale: “Quello che urge da noi non sono sacrifici, ma un’autentica disintossicazione […] Si tratta di uscire dallo show, di entrare nella realtà, di vederla. Si tratta di rompere con gli usi e costumi vigenti dietro le comunità transennate”.
Si accettano scommesse sul finale di partita.