La luminosa sentenza del Tar Sardegna che dichiara illegittimo lo smisurato progetto di Malfatano presenta, ovvio, diversi piani di lettura. Noi troviamo impervi quelli giuridici e disdicevoli i peana e gli inni perché da una sentenza positiva può derivare anche una parte di dolore.
Il dolore proviene in questo caso da una riflessione sulla storia recente di Teulada e sulla sua comunità che negli anni Cinquanta si vide sottrarre per usi militari settemila ettari di costa incantevole e di terre coltivate. Che visse la tragedia di chi lavorava quelle terre e ne fu sradicato improvvisamente non essendone, in molti casi, neppure il padrone e dunque privato di ogni risarcimento. Teulada rimase lontana, per sua fortuna, dal “miracolo petrolchimico” e intravide soltanto, altra fortuna, il “miracolo turistico” dei suoi vicini che oggi hanno uguali drammatici tassi di disoccupazione, ma il territorio devastato. Vide svanire nel suo territorio una comunità di trecento persone, quella dei malfatanesi. Teulada si spopola nei decenni e le percentuali di disoccupazione sono drammatiche, come nel resto dell’intera Isola. E oggi, oltretutto, fa parte di uno dei siti inquinati più vasti d’Italia.
Inizia, anni or sono, il “sogno turistico” proposto da una potente associazione di imprese “continentali” che rileva terreni un tempo agricoli divenuti edificabili. Il progetto inizia il suo iter burocratico, ottiene le autorizzazioni e i permessi che oggi il Tar ha giudicato illegittimi. Insomma, anni or sono, chi amministrava Teulada decise un inverosimile futuro per il paese e incautamente innescò un dramma prevedibile.
Chi amministra una comunità che soffre ancora le ferite per l’esproprio delle aree militari, chi ha visto il declino del sogno industriale e turistico nella sua regione, chi ha già vissuto il trauma delle macerie di baia delle Ginestre, avrebbe dovuto riflettere sull’opportunità di operare scelte già fallite. E sostenere con passione scelte affidate alla consapevolezza della comunità e non a entità mitologiche provenienti da lontano.
Chi amministra deve curarsi che ogni sua azione sia inattaccabile e non tanto fragile da essere annullata da un giudice.
Chi amministra una comunità deve immaginare per chi lo ha eletto e condividere con lui regole e progetti per vivere decorosamente.
Chi amministra deve utilizzare al meglio ciò di cui la storia e la natura lo hanno provvisto e non proporre la cancellazione del proprio passato per sostituirlo con una finzione. Deve risparmiare le risorse naturali e non dilapidarle con spettrali villaggi vacanze.
E ora? Ora che Tuerredda, un diamante di famiglia, è ricoperta di costruzioni in aggiunta illegittime? Ora che l’opinione pubblica isolana e non solo isolana è inorridita per quelle costruzioni? Ora che un tribunale ha dichiarato illecito il progetto?
Sino all’ultimo chi governa Teulada – metafora oggi dell’intera condizione isolana – non ha neppure tentato di immaginare un’economia fondata su un uso durevole delle proprie risorse e la ricerca di una propria vera, autentica autodeterminazione. E ha proseguito nel cupo cammino scelto per i propri amministrati.
Ecco perché insieme al piacere grande di intravedere la salvezza per Malfatano – da cui discenderà la sconfitta di altri progetti come quello surreale degli oltre seimila posti letto nel territorio di Arbus – proviamo anche un’acuta amarezza, un dolore che proviene dal come sarebbe potuto essere e non è stato
Scriveva Marx, ai suoi tempi, che nella società capitalistica i paesi industrialmente più avanzati indicano agli altri il proprio avvenire. Chi è più avanti nello sviluppo anticipa trasformazioni e fenomeni che anche gli altri, più indietro nel processo di modernizzazione capitalistica, conosceranno qualche decennio più tardi.
Questa analisi-profezia, che ha resistito gagliardamente alla prova del tempo, sembrava essersi appannata nella seconda metà del XX secolo, quando un capitalismo incarnato e imbrigliato nelle culture e nelle istituzioni nazionali, sembrava dare a ciascun paese un proprio Sonderveg, come dicono i tedeschi, un proprio originale sentiero. I paesi europei, ad esempio, col loro solido welfare, si distinguevano dagli USA e sembravano capaci di contenere e filtrare i fenomeni più dirompenti che in quel paese facevano da avanguardia. Ma questo scarto è durato poco e, sotto la furia del pensiero unico - che nell'ultimo trentennio ha visto capitolare molti antichi presidi nazionali di costume e di cultura - lo sguardo anticipatore di Marx ha acquistato un nuovo e lucente smalto. Oggi abbiamo la possibilità di osservare sul nascere, e per così dire in vitro, come si afferma e diventa generale tale tendenza, chi sono i soggetti che la promuovono, quali motivazioni la sostengono.
La proposta del governo italiano in carica di prolungare l'orario di lavoro dei negozi è, a dispetto delle apparenze, un sontuoso cavallo di Troia che nasconde nella pancia alcuni fenomeni già all'opera nelle “società più avanzate”. Sembra una semplice iniziativa volta a facilitare gli acquisti dei cittadini-consumatori e naturalmente cova la speranza di innalzare il ritmo dei consumi. Ma essa contiene molto altro, costituisce il tassello di un processo, in atto da tempo, di distruzione di un modello di civiltà. Si fa presto a scoprirlo. E' sufficiente andare a vedere che cosa è accaduto là dove gli orari dei negozi sono stati deregolamentati per tempo.
Negli USA, che sono oggi “ il punto più avanzato dello sviluppo”, è possibile scoprire la trappola in cui sono caduti i cittadini americani, trascinati da decenni in una “bolla consumistica” che alla fine è esplosa con immenso fragore. I fondatori del gruppo Take Back Your Time, riprenditi il tuo tempo, hanno compreso, e denunciano da anni, che la spinta all'iperconsumo cui sono stati spinti i cittadini americani è stato un surrogato della riduzione dell'orario di lavoro. I guadagni di produttività oraria realizzati nell'industria e nei servizi USA non sono stati utilizzati , come era accaduto sino ad allora, per accrescere il tempo libero. Qui si è interrotto un antico percorso delle società industriali contemporanee. Gli incrementi produttivi sono stati monetizzati, tradotti in salario, grazie all'esca lucente di consumi sempre più abbondanti. Dove non bastava il salario, naturalmente, il credito bancario veniva amorevolmente in aiuto dei bisognosi di acquisto. Il risultato, dopo oltre un trentennio di questa gioiosa modernità, è che i lavoratori americani si sono trovati a lavorare in media 50 ore alla settimana e 350 ore annue in più dei loro equivalenti europei. Non c'è di che stupirsi. Come si fa a rinunciare ai sontuosi beni offerti da una smisurata macchina produttiva, a prezzi sempre più economici, resi sempre più indispensabili da una pubblicità senza quartiere? Come si fa rinunciare, se bastano un paio d'ore di straordinario al giorno per avere i dollari necessari a comprare l'ultima consolle, la macchina nuova, una pelliccia da sogno?
Negli USA la deregolamentazione degli orari dei negozi ha accompagnato in parallelo l'aumento della giornata lavorativa e la cosa non stupisce. Questo è il modello che il capitale va imponendo: una giornata completamente occupata dal lavoro, che impone l'utilizzo di tempo supplementare, oltre l'orario diurno, per svolgere il proprio compito di consumatore. I supermercati e i negozi aperti anche di notte, di domenica, nei giorni festivi devono offrire la possibilità di consumare anche a chi non possiede più tempo per se stesso. Certo, il tempo speso nelle compere serali o festive è sottratto alle relazioni sociali, alla famiglia, al dialogo fra persone, alla partecipazione alla vita civile. Ma un pover'uomo o una povera donna, che lavora dalla mattina alla sera, ha bisogno di un risarcimento, ha una necessità vitale di dare sfogo al proprio desidero di acquisto, di soddisfare il proprio ethos infantil e - come lo chiama Benjamin Barber nel suo Consumati - vagando tra le meraviglie merceologiche di un centro commerciale e portarsi a casa qualcosa. Ecco il grande successo conseguito dal capitalismo, quello a cui aspira di trascinarci la grande maggioranza degli economisti, sempre dietro qualche riforma da proporci. In questo modo si è completato il circuito di assoggettamento totalitario dell'individuo al processo di valorizzazione del capitale, che chiede sempre più tempo per la produzione e per i servizi, e ora sempre più tempo per i consumi.
L'uomo a una dimensione è bello e fatto. Nel punto più alto dello sviluppo, al culmine della modernità, gli uomini sono ridotti alla loro funzione primordiale: produrre e consumare, consumare e produrre. In tale ottica, la notte, naturalmente, costituisce una fase parassitaria nella vita delle società avanzate, durante la quale il PIL scende rovinosamente. Ce ne rendiamo conto. Per fortuna i turni lavorativi riescono a mantenere attiva la produzione in tanti settori e il commercio notturno può educare ad avere una idea meno pigra di questa fase della giornata in cui il sole conserva la cattiva abitudine di illuminare l'altra faccia della Terra.
Questa cultura della deregolamentazione, che ha scatenato le furie dei poteri finanziari, frantumato il potere sindacale e precarizzato il lavoro, demonizzato tutto ciò che era pubblico e fatto trionfare anche l'abiezione, purché fosse privata, freme tuttora come un animale ferito per azzannare qualcosa che ancora resiste indenne. Ora tocca al commercio, anche in Italia. E mi chiedo e chiedo che cosa pensa al riguardo la Chiesa, che cosa ne pensano i cattolici, anche quei tanti che stanno nell'attuale governo. Negozi aperti anche di domenica, il giorno del Signore? Perché la proposta recente rientra in quella tendenza del capitale che già abbiamo visto all'opera, e che non vuole fermarsi. In Italia si manifesta, ad es. , nella sorda pressione, più volte espressa da Confindustria, di ridurre le feste comandate, che frenano l'ascesa altrimenti trionfante del nostro PIL. Se fosse per tanti imprenditori, ma anche per tanti economisti che scrivono sui giornali, l'intero calendario gregoriano dovrebbe essere reso più “flessibile”, occorrerebbe togliere ogni residua solennità ai santi ancora festeggiati, rendere laicamente lavorativi tutti i giorni dell'anno, perché siano trascinati nella macchina insonne della crescita.
Per nostra fortuna i sindacati, anche quelli di categoria, hanno alzato gli scudi contro la proposta e meritoriamente molti cittadini hanno manifestato la loro contrarietà. Esempio di civismo, maturità, spirito di una civiltà che ancora resiste e dovrebbe fare arrossire tanti zelanti riformatori che ci assordano quotidianamente. E' tutta da verificare, infatti, l'economicità anche per i grandi supemercati e per i centri commerciali, a tenere le luci accese sino a mezzanotte o oltre. Ma, ricordiamo, se tale vantaggio dovesse verificarsi, non è evidente che una simile novità metterebbe in grave difficoltà i piccoli negozi di zona, accentuerebbe la crisi in cui versano, ne costringerebbe molti a chiudere favorendo il processo di desertificazione dei quartieri? E nessuno pensa a quanta economia è nascosta, quanto benessere collettivo, in un quartiere vitale, ben servito da piccoli esercenti, che limita gli spostamenti dei cittadini su lunga distanza, favorisce le mutue relazioni quotidiane, accresce la sicurezza senza bisogno di costose vigilanze e repressioni sicuritarie?
Questa è una dinamica sociale ormai ben nota, ma tanti economisti, e soprattutto gli uomini che si trovano di volta in volta a governare, se ne dimenticano facilmente, pur di lanciare i prodotti del loro marketing politico. Degli esiti sociali di lungo periodo delle cosiddette riforme nessuno si cura, pur di vendere al pubblico un qualche kit, un dispositivo economico che promette di imprimere dinamismo al sistema. E' l'analfabetismo politico della nostra epoca, lo conosciamo da tempo, e non possiamo far altro che additarlo nel suo quotidiano squallore.
Ma la proposta di regolamentare gli orari degli esercizi commerciali ha un valore paradigmatico molto più ampio e generale di quanto fin qui detto. Perché essa, sotto l'aria di voler rilanciare i consumi in una fase di crisi in cui effettivamente la ripresa della domanda svolgerebbe un ruolo equilibratore, instilla nell'immaginario pubblico il veleno del consumismo illimitato, ci mostra l'avvenire di una crescita continua e senza confine dell'acquisto di merci e servizi. Mentre la popolazione mondiale continua a crescere, centinaia di milioni di nuovi ricchi approdano ogni anno ai nostri stessi standard di consumo, i cicli di rigenerazione delle risorse della Terra si vanno arrestando per eccesso di sfruttamento, nella piccola Italia, facciamo la nostra parte simbolica. Mostriamo che si può comprare senza limiti di tempo, giorno e notte. Chiedersi quel che succede alle limitate risorse del nostro pianeta è naturalmente una preoccupazione stonata e fuori posto. I problemi son ben altri e del resto, in questo momento, siamo in emergenza. Come è noto da decenni.
www.amigi.org. Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
«I diritti sono diventati un lusso? L' “età dei diritti” è al tramonto ?» Si poneva queste inquiete domande Stefano Rodotà, su Repubblica del 20 dicembre, a proposito della messa in discussione dell'articolo 18 da parte del ministro Fornero, di Confindustria e vari altri esponenti del mondo politico italiano. Non sono domande né retoriche, né allarmistiche, come si tende di norma a far credere, minimizzando l'oltranza che intanto si fa strada. L'idea di far crescere l'occupazione rendendo più agevole il licenziamento dei lavoratori, ancorché empiricamente infondata, è una testata d'ariete contro uno dei pochi diritti del lavoro che rimangono ancora in piedi nel nostro paese.
Per comprendere sia l'inefficacia pratica e controproducente della misura invocata, che il carattere sostanzialmente devastatore di diritti fondamentali della persona, è sufficiente un breve sguardo storico. Basta osservare quanto è accaduto al mondo del lavoro nei paesi di antica industrializzazione negli ultimi 30 anni per capire che le misure a cui esortano i “modernizzatori” sono un altro passo verso una costituzione materiale che riduce la democrazia a una casa vuota. L'attuale situazione del mercato del lavoro, in cui si invocano nuove facilitazioni al capitale perché esso investa, e crei nuova occupazione, è infatti figlia di una storia che si tende a dimenticare. Pochi, infatti, ricordano, che essa stessa è il risultato storico della inedita, straordinaria facilità con cui le imprese hanno potuto disporre della forza lavoro negli ultimi decenni. Se al termine globalizzazione si toglie la crosta di retorica che lo nobilita, si vede facilmente che essa è consistita in questa gigantesca operazione: i circa 960 milioni di lavoratori attivi nei paesi sviluppati e in alcune enclave del Brasile e di pochi altri stati, nei giro di due tre decenni sono stati messi in diretta concorrenza con oltre due miliardi di portatori di forza lavoro disponibili in Cina e India e negli altri paesi in via di sviluppo. Le delocalizzazioni di USA, Europa, Giappone non sono solo servite alle imprese per fare lauti profitti utilizzando i salari da fame di vaste popolazioni rurali, spesso devastando il loro ambiente senza tutele. Questo è ben noto. Il loro fine è stato e continua ad essere anche quello di immettere la classe operaia sindacalizzata in questo nuovo e immenso serbatoio mondiale di forza lavoro, bloccando le sue rivendicazioni, costringendola in forme di subordinazione sempre più stringenti e socialmente frantumate. E' questa l'anima più travolgente della globalizzazione: la formazione di un mercato del lavoro di oltre tre miliardi di persone, il più vasto della storia, nel quale gli operai appena arrivati costituiscono, per il capitale occidentale, lo standard vantaggioso in cui trascinare tutti gli altri. Oggi, queste analisi sono proposte, significativamente, da studiosi e commentatori liberal americani, che possono ormai osservare con qualche distacco le cause profonde della presente crisi. Studiosi come Walman e Colamosca, con con largo anticipo, e poi Paul Mason e Luo Dobbs, il quale ultimo ha intitolato un suo recente libro, senza mezzi termini, War On The Middle Class, (guerra ai ceti medi e popolari) insieme a tanti altri mostrano nitidamente in quale sontuosa cucina è stato preparato il pranzo che sta squassando il mondo. L'impoverimento degli strati popolari in USA è infatti all'origine di tutto. Se questo grande paese doveva continuare ad essere la locomotiva dei consumi, e trascinare così la crescita mondiale, come si poteva quadrare il cerchio se le manifatture emigravano in Cina, i salari operai ristagnavano ? Chi continuava a riempire di stuff, di mercanzie inutili il carrello del supermercato? Gli stessi lavoratori e il ceto impiegatizio, naturalmente. Un miracolo tecnologico? Niente affatto! Una trovata del capitale finanziario, un passo in avanti verso la modernità direbbero tanti nostri commentatori, vale a dire l'indebitamento di massa delle famiglie americane. Le quali hanno continuato a comprare, non solo stuff, naturalmente, ma anche case a buon mercato, con mutui ben congegnati, per la gloria universale dello sviluppo.
Quel che è accaduto dopo, con l'esplosione della bolla finanziaria, è storia nota. Meno nota, o comunque meno connessa agli svolgimenti appena accennati, è la politica degli stati industrializzati, compreso ovviamente il nostro, di fronte alle spinte che venivano dal nuovo mercato mondiale del lavoro. Quali sono state le politiche che i governi, tanto di destra che di sinistra, hanno adottato per fronteggiare una situazione così inedita, che travolgeva in tempi rapidi assetti lungamente consolidati? Essi, più o meno all'unisono, si sono adoperati per rendere più agevoli le condizioni competitive dei rispettivi capitalismi nazionali nel nuovo spazio mondiale. E lo hanno fatto con vecchie e nuove politiche: tramite la riduzione del peso fiscale alle imprese, riducendo gli spazi del welfare, ricorrendo alle “riforme del mercato del lavoro”, che la cosiddetta Europa continua a invocare a gran voce.
La flessibilità, eccola l'altra lucente parola della modernità. Questa è stata individuata come la carta vincente per sostenere la competizione con Cina e India. Vale a dire la riduzione dei lavoratori a uno dei tanti fattori inerti della produzione, simile alle materie prime e ai macchinari, che vengono utilizzati a seconda della necessità. Quando non servono stanno in magazzino. Che grande passo in avanti per promuovere la crescita! Quale salto di civiltà ci fa compiere il capitalismo dei nostri anni, che mai aveva avuto così tanti volenterosi apologeti in tutta la sua storia! Ma chi si è ricordato del fatto che gli imprenditori bisognosi di essere aiutati nella competizione erano e sono spesso gli stessi che avevano delocalizzato in Cina o in Romania? Chi comprende questo passaggio storico decisivo, che si è consumato sotto i nostri occhi ? Sono le imprese, americane o europee, quelle stesse che si sono create, a loro esclusivo vantaggio, le condizioni della competizione mondiale, a chiedere al ceto politico di poterla fronteggiare con l' ormai definitivo servaggio della forza lavoro. Vale a dire accrescendo le condizioni delle loro convenienze di partenza e acuendo le disuguaglianze che stanno trascinando il mondo in una crisi senza sbocco. Questo è l'andamento del corso storico degli ultimi 30 anni, che oggi si vuol far passare come una realtà naturale, uno stato di necessità a cui non si può resistere, da assecondare, naturalmente con le riforme. Riforme, ecco le consunte parole con cui una intera generazione del ceto politico mondiale maschera la propria ormai inoccultabile impotenza.
Rendere più agevole al capitale l'uso della forza lavoro non solo non è la soluzione, ma la causa prima del presente disordine mondiale, poggiante su un sovrastante dominio di classe. Se ne persuada il ministro Fornero, e tutti gli zelanti salvatori dell'Italia, i nuovi posti non nasceranno rendendo più facili i licenziamenti dei lavoratori. A frenare gli investimenti non sono certo le condizioni del mercato del lavoro, come mostrano del resto recenti ricognizioni presso le imprese. L'abolizione dell'articolo 18, inutile allo scopo, costituirebbe un altro piccolo passo verso la barbarie: condizione a cui si perviene, ovviamente, con la giusta gradualità, perché gli uomini hanno bisogno di un po’ di tempo, ma poi si adattano a qualunque abiezione. Se anche nell'animo dei cristiani i dogmi neoliberali sono diventati articoli di fede, occorrerà rifondare qualche nuova religione, o l'umanità è perduta.
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Domandare “Che ne pensi della guerra” a uno qualsiasi dei giovani attivi per la vittoria dei referendum, il riconoscimento dei “beni comuni”, il diritto allo studio, il prevalere di “No Tav”, o che altro, probabilmente comporterebbe una reazione tra stupita e scarsamente interessata: di chi ritiene la condanna della guerra una scontata ovvietà.
E però questo accade in un mondo in cui le guerre, piccole e grosse, sempre più sono la normalità: praticate a tutte le latitudini, per le ragioni più diverse, di fatto accettate come uno strumento inevitabile, addirittura “normale” dei rapporti tra nazioni, popoli, gruppi; politica condotta con altri mezzi, come da tempo ci è stato spiegato, cui tutti, di fatto senza eccezione, si adeguano. Lontanissime oggi e – si direbbe – ormai impensabili, quelle gigantesche manifestazioni pacifiste prodottesi praticamente in tutto il mondo sul finire del secolo scorso, delle quali il New York Times ha parlato come della “seconda potenza mondiale”.
In questa situazione è di particolare interesse l’appello per il taglio delle spese militari (di cui anche Liberaziones’è occupata con una impegnata intervista a firma di Giorgio Ferri) lanciato da Alex Zanotelli, combattivo Padre comboniano, direttore di Nigrizia. L’interesse riguarda non pochi aspetti dell’impianto complessivo del testo, d’altronde per più d’una ragione difficilmente destinato a trovare ascolto sia nel mondo politico cui esplicitamente si rivolge, sia in quello imprenditoriale indirettamente chiamato in causa; ma comunque forse capace di sollecitare riflessioni oggi assenti dal discorso politico, non soltanto italiano.
“La corsa alle armi è insostenibile, oltre ad essere un investimento in morte”, afferma Zanotelli. E, al di là della appassionata condanna della guerra in quanto tale, in qualche misura scontata da parte di un religioso (che non manca di deplorare il silenzio osservato in proposito da gran parte delle gerarchie ecclesiastiche e della Chiesa militante), mostra una precisa e dettagliata conoscenza dei conti pubblici del nostro paese, e insieme la capacità di individuare e deplorare la scarsità di logica e di civica consapevolezza che presiede alla distribuzione delle nostre sempre inadeguate risorse disponibili: 27 miliardi di euro dell’ultimo Bilancio Difesa , cui si aggiungeranno nell’immediato futuro altri 17 miliardi per l’acquisto di 131 cacciabombardieri F 35 ; mentre per la partecipazione alla “missione“ in Libia si prevede all’incirca una spesa di 700 milioni di euro, da sommarsi a quelle per l’impegno in Afganistan, ecc. “Se avessimo un orologio tarato su questi calcoli, vedremmo che in Italia spendiamo oltre 50.000 euro al minuto, 3 milioni all’ora, 76 milioni al giorno”.
Ma ciò che più scandalizza Zanotelli è che alla spesa di 27 miliardi di euro in armi, corrisponda il taglio di 8 miliardi destinati alla scuola e ai servizi sociali… “Vogliamo sapere che tipo di pressione fanno le industrie militari sul parlamento per ottenere commesse. (…) Quanto lucrano con queste guerre aziende come la Fin-Meccanica, l’Iveco-Fiat, la Oto-Melara, l’Alenia Aeronautica (…) E quanto lucrano le banche in tutto ciò, e quanto va in tangenti ai partiti…”
“Potremmo recuperare buona parte dei soldi per la manovra semplicemente tagliando le spese militari,” è la conclusione di Zanotelli. Che molti certo giudicano ingenua e semplicistica, ma che forse invece potrebbe prospettarsi come una ipotesi almeno temporaneamente risolutiva. E forse anche potrebbe sollecitare l’attenzione dei tanti giovani e meno giovani in vario modo impegnati ad allargare la loro riflessione sulla guerra; e - al di là della concreta distruttività della sua funzione specifica - scoprirne la presenza e il senso di categoria portante, mentale e comportamentale, decisiva di ogni scelta di vita, sociale e privata, in ogni momento della nostra società, nel lavoro come nei rapporti personali. Per arrivare forse anche alla scoperta di come la guerra non sia un problema privo di nessi (non solo di natura psicologica e di generica distruttività) con la crisi ambientale, ma al contrario in essa oggi giochi un ruolo decisivo. (Proprio a queste problematiche qualche anno fa ho dedicato un libro Ambiente e pace – una sola rivoluzione, Milano 2008).
Chiunque abbia percorso un territorio attraversato dalla guerra (edifici ridotti a macerie senza identità, celebri monumenti azzerati in cumuli di materiali illeggibili, strade non più rintracciabili nel loro percorso, fiumi esondati dagli argini distrutti, ogni verde cancellato in campagne senza più alberi né culture…) sa che cosa significhi il passaggio della guerra su un qualsiasi territorio; e parlo riferendomi ai miei personali ricordi, cioè di una guerra nemmeno paragonabile alla capacità distruttiva degli armamenti moderni… Oggi d’altronde non si tratta più solo di devastazione di luoghi percorsi dalla guerra. Oggi è la produzione medesima degli armamenti più moderni (atomici in particolare) a causare squilibri e inquinamenti micidiali per ampi spazi prossimi alle fabbriche. Che cosa possa significare il loro uso, nessuno per ora fortunatamente lo sa: assurda produzione di una deterrenza, il cui utilizzo è internazionalmente vietato. Ma forse qualche economista potrebbe obiettare che anche questo dopotutto significa tanto buon Pil, a sostenere la crescita…
E qua ancora una volta, inevitabilmente, ci si imbatte nell’assurdo obiettivo (cui più volte mi sono richiamata anche su questo giornale) di una crescita senza limiti, inseguita in un pianeta che ha dimensioni e disponibilità non dilatabili a richiesta: incapace pertanto sia di alimentare una produzione in crescita esponenziale, sia di neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gassosi, che ne derivano. Come il terrificante deterioramento degli ecosistemi dimostra.
In realtà, si tratta di ripensare il mondo… Impresa di cui solo una situazione limite potrà forse tentare l’azzardo. Ma ne siamo poi tanto lontani?
Questo articolo è stato inviato contemporaneamente al quotidiano Liberazione
Bene la Regione Toscana su Casole d'Elsa, ma ora è tempo di cambiare. Il 3 novembre 2011 la Giunta regionale toscana, su proposta dell'assessore al territorio Anna Marson, ha 'adito' la conferenza paritetica interistituzionale nei confronti della variante di 'riallineamento' del Piano strutturale di Casole d'Elsa. Il riallineamento, in voga in non pochi comuni toscani, significa che un Regolamento urbanistico difforme (in genere sovradimensionato) rispetto al Piano strutturale, viene sanato a posteriori da una variante allo stesso Piano strutturale. La conferenza paritetica è una 'commissione' politica cui può adire l'ente che rileva profili di contrasto fra un proprio piano vigente e un strumento urbanistico approvato da un'istituzione di livello inferiore, ciò che si verifica tipicamente nel rapporto Regione-Comuni. L'iniziativa può essere adottata anche su proposta di associazioni di cittadini (in questo caso proponenti sono stati la Rete per la difesa del territorio e l'associazione CasoleNostra, anche se la Regione ha agito 'motu proprio'). La conseguenza più drastica può essere la messa in salvaguardia delle previsioni difformi, quando la conferenza esprima in proposito un parere negativo e queste, invece, siano confermate dal Comune.
Casole d'Elsa, come è stato già pubblicato da eddyburg, costituisce un caso limite dell'anarchia comunale promossa e sostenuta da Riccardo Conti, precedente assessore del territorio. Il suo padre padrone è Piero Pii, prima sindaco per il Pd, poi passato a una lista civica appoggiata dal Pdl, recentemente rinviato a giudizio insieme ad altri 14 politici e tecnici del Comune per abuso edilizio.
Pii è l'ispiratore e sostenitore di un piano che prevede, fra le tante magagne puntualmente rilevate nell'osservazione regionale, 140.000 mq di superfici produttive coperte, (ridotte di appena 4.000 mq a seguito dell'osservazione) in un comune che non arriva a 4.000 abitanti. Vi è, dunque, un motivo di soddisfazione per associazioni e cittadini che si battono per il contenimento del consumo del suolo, per la salvaguardia dei terreni agricoli e per il rispetto della legalità e va dato atto al nuovo assessore al territorio di usare l'unico strumento a sua disposizione per cercare di porre un argine al disastroso consociativismo edilizio, quando non peggio, vigente fra politici e costruttori: soprattutto se si pensa che la precedente amministrazione regionale solo due volte in tre anni aveva adito la conferenza.
Tuttavia, occorre essere consapevoli che i contenziosi amministrativi hanno un esito incerto, sono sottoposti ad arbitraggi politici e comunque non possono essere assunti come una normale modalità di gestione del territorio. Ben venga un'effettiva concertazione fra diversi livelli istituzionali nella formulazione dei piani (dubito che ciò sia avvenuto e avvenga in molti casi), ma una volta che questi siano approvati devono essere rispettati e le regole devono valere per tutti. Quindi bisogna cambiare la legge di governo del territorio della Regione Toscana che dà la possibilità ai Comuni di (auto)approvare i propri strumenti urbanistici infischiandosene di leggi e piani e lascia a Regione e Province – queste ultime del tutto assenti - l'unica chance di rincorrere gli avvenimenti con procedure speciali, incerte e potenzialmente soggette a ogni tipo di pressione.
«I diritti sono diventati un lusso? L'età dei diritti è al tramonto?» Si poneva queste inquiete domande Stefano Rodotà, Repubblica del 20 dicembre, a proposito della messa in discussione dell'articolo 18 da parte del ministro Fornero, di Confindustria e vari altri esponenti del mondo politico italiano. Non sono domande né retoriche, né allarmistiche, come si tende di norma a far credere, minimizzando l'oltranza che intanto si fa strada. L'idea di far crescere l'occupazione rendendo più agevole il licenziamento dei lavoratori, ancorché empiricamente infondata, è una testata d'ariete contro uno dei pochi diritti del lavoro che rimangono ancora in piedi nel nostro paese.
Per comprendere sia l'inefficacia pratica e controproducente della misura invocata, che il carattere sostanzialmente devastatore di diritti fondamentali della persona, è sufficiente un breve sguardo storico. Basta osservare quanto è accaduto al mondo del lavoro nei paesi di antica industrializzazione negli ultimi 30 anni per capire che le misure a cui esortano i "modernizzatori" sono un altro passo verso una costituzione materiale che riduce la democrazia a una casa vuota.
L'attuale situazione del mercato del lavoro, in cui si invocano nuove facilitazioni al capitale perché esso investa, e crei nuova occupazione, è infatti figlia di una storia che si tende a dimenticare. Pochi, infatti, ricordano, che essa stessa è il risultato storico della inedita, straordinaria facilità con cui le imprese hanno potuto disporre della forza lavoro negli ultimi decenni. Se al termine globalizzazione si toglie la crosta di retorica che lo nobilita, si vede facilmente che essa è consistita in questa gigantesca operazione: i circa 960 milioni di lavoratori attivi nei paesi sviluppati e in alcune enclave del Brasile e di pochi altri stati, nei giro di due tre decenni sono stati messi in diretta concorrenza con oltre due miliardi di portatori di forza lavoro disponibili in Cina e India e negli altri paesi in via di sviluppo. Le delocalizzazioni di Usa, Europa, Giappone non sono solo servite alle imprese per fare lauti profitti utilizzando i salari da fame di vaste popolazioni rurali, spesso devastando il loro ambiente senza tutele.
Questo è ben noto. Il loro fine è stato e continua ad essere anche quello di immettere la classe operaia sindacalizzata in questo nuovo e immenso serbatoio mondiale di forza lavoro, bloccando le sue rivendicazioni, costringendola in forme di subordinazione sempre più stringenti e socialmente frantumate.
È questa l'anima più travolgente della globalizzazione: la formazione di un mercato del lavoro di oltre tre miliardi di persone, il più vasto della storia, nel quale gli operai appena arrivati costituiscono, per il capitale occidentale, lo standard vantaggioso in cui trascinare tutti gli altri. Oggi queste analisi sono proposte, significativamente, da studiosi e commentatori liberal americani, che possono ormai osservare con qualche distacco le cause profonde della presente crisi. Studiosi come Walman e Colamosca, con largo anticipo, e poi Paul Mason e Luo Dobbs, il quale ultimo ha intitolato un suo recente libro, senza mezzi termini, War On The Middle Class, (guerra ai ceti medi e popolari) insieme a tanti altri mostrano nitidamente in quale sontuosa cucina è stato preparato il pranzo che sta squassando il mondo.
L'impoverimento degli strati popolari in Usa è infatti all'origine di tutto. Se questo grande paese doveva continuare ad essere la locomotiva dei consumi, e trascinare così la crescita mondiale, come si poteva quadrare il cerchio se le manifatture emigravano in Cina, i salari operai ristagnavano? Chi continuava a riempire di stuff, di mercanzie inutili il carrello del supermercato? Gli stessi lavoratori e il ceto impiegatizio, naturalmente. Un miracolo tecnologico? Niente affatto! Una trovata del capitale finanziario, un passo in avanti verso la modernità direbbero tanti nostri commentatori, vale a dire l'indebitamento di massa delle famiglie americane. Le quali hanno continuato a comprare, non solo stuff, naturalmente, ma anche case a buon mercato, con mutui ben congegnati, per la gloria universale dello sviluppo.
Quel che è accaduto dopo, con l'esplosione della bolla finanziaria, è storia nota. Meno nota, o comunque meno connessa agli svolgimenti appena accennati, è la politica degli stati industrializzati, compreso ovviamente il nostro, di fronte alle spinte che venivano dal nuovo mercato mondiale del lavoro. Quali sono state le politiche che i governi, tanto di destra che di sinistra, hanno adottato per fronteggiare una situazione così inedita, che travolgeva in tempi rapidi assetti lungamente consolidati? Essi, più o meno all'unisono, si sono adoperati per rendere più agevoli le condizioni competitive dei rispettivi capitalismi nazionali nel nuovo spazio mondiale. E lo hanno fatto con vecchie e nuove politiche: tramite la riduzione del peso fiscale alle imprese, riducendo gli spazi del welfare, ricorrendo alle "riforme del mercato del lavoro", che la cosiddetta Europa continua a invocare a gran voce.
La flessibilità, eccola l'altra lucente parola della modernità. Questa è stata individuata come la carta vincente per sostenere la competizione con Cina e India. Vale a dire la riduzione dei lavoratori a uno dei tanti fattori inerti della produzione, simile alle materie prime e ai macchinari, che vengono utilizzati a seconda della necessità. Quando non servono stanno in magazzino. Che grande passo in avanti per promuovere la crescita! Quale salto di civiltà ci fa compiere il capitalismo dei nostri anni, che mai aveva avuto così tanti volenterosi apologeti in tutta la sua storia!
Ma chi si è ricordato del fatto che gli imprenditori bisognosi di essere aiutati nella competizione erano e sono spesso gli stessi che avevano delocalizzato in Cina o in Romania? Chi comprende questo passaggio storico decisivo, che si è consumato sotto i nostri occhi? Sono le imprese, americane o europee, quelle stesse che si sono create, a loro esclusivo vantaggio, le condizioni della competizione mondiale, a chiedere al ceto politico di poterla fronteggiare con l' ormai definitivo servaggio della forza lavoro. Vale a dire accrescendo le condizioni delle loro convenienze di partenza e acuendo le disuguaglianze che stanno trascinando il mondo in una crisi senza sbocco. Questo è l'andamento del corso storico degli ultimi 30 anni, che oggi si vuol far passare come una realtà naturale, uno stato di necessità a cui non si può resistere, da assecondare, naturalmente con le riforme. Riforme, ecco le consunte parole con cui una intera generazione del ceto politico mondiale maschera la propria ormai inoccultabile impotenza.
Rendere più agevole al capitale l'uso della forza lavoro non solo non è la soluzione, ma la causa prima del presente disordine mondiale, poggiante su un sovrastante dominio di classe. Se ne persuada il ministro Fornero, e tutti gli zelanti salvatori dell'Italia, i nuovi posti non nasceranno rendendo più facili i licenziamenti dei lavoratori. A frenare gli investimenti non sono certo le condizioni del mercato del lavoro, come mostrano del resto recenti ricognizioni presso le imprese. L'abolizione dell'articolo 18, inutile allo scopo, costituirebbe un altro piccolo passo verso la barbarie: condizione a cui si perviene, ovviamente, con la giusta gradualità, perché gli uomini hanno bisogno di un po di tempo, ma poi si adattano a qualunque abiezione. Se anche nell'animo dei cristiani i dogmi neoliberali sono diventati articoli di fede, occorrerà rifondare qualche nuova religione, o l'umanità è perduta.
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Che cosa può rendere attuali e perfino per tanti versi affascinanti gli scritti, di e su un decennio ormai lontano, di un protagonista della scena culturale italiana degli ultimi 40 anni? Forse basterebbe la qualità storica del periodo in questione: gli anni '60, senza dubbio il decennio epico della seconda metà del XX secolo, la pagina più intensa e più alta della storia italiana dello scorcio finale dell'età contemporanea. Con studiata foga iperbolica – ma con molti elementi di verità - Alberto Asor Rosa (Le armi della critica: Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1970) , Einaudi Torino 2011 pp.VII-LXIX, 368) la definisce « la più ciclopica trasformazione delle proprie strutture sociali, economiche, produttive – e però anche intellettuali e culturali – dai tempi della caduta dell'Impero romano in poi». Un decennio, come vedremo, su cui gravano interrogazioni fondamentali che arrivano al nostro tempo. Me nella Prefazione storica che organizza i saggi, in parte usciti in edizioni precedenti - e che a mio avviso vale, da sola, per nitore analitico e tensione esistenziale e civile, l'intero libro – c'è anche dell'altro.
Asor Rosa racconta in questo saggio il proprio ingresso nel mondo dell'impegno politico e al tempo stesso l'inquieta esplorazione dell'universo intellettuale che gli stava intorno e che e a quell'impegno doveva fornire fondamenti di senso e prospettive. Si tratta di pagine autobiografiche all'interno delle quali si snodano vicende, che solo in parte sono personali, perché riescono a coinvolgere nel racconto, sullo sfondo dei processi del decennio, la vicenda di un gruppo intellettuale tra i più significativi dell'Italia della seconda metà del secolo. Amici e sodali dell'avventura politica e culturale di Asor Rosa, in quegli anni, erano Mario Tronti, uno dei padri dell'”operaismo,” Toni Negri, oggi teorico molto influente, Massimo Cacciari, filosofo e politico a tutti noto, Umberto Coldagelli, diventato il maggiore studioso di Tocqueville in Italia, Aris Accornero, l'unico operaio italiano pervenuto alla cattedra universitaria e sociologo del lavoro, Rita di Leo, sociologa anch'essa e studiosa della composizione sociale dell'URSS e dello stalinismo, Manfredo Tafuri, storico e teorico dell'urbanistica precocemente scomparso. La storia dei gruppi intellettuali, tema negletto nel paese di Gramsci , trova nelle prime pagine della Prefazione indicazioni e suggestioni che danno il senso di un'epoca e anche non poche piste di ricerca.
La cifra essenziale della tensione teoretica dell'autore e del gruppo – molto più affollato dei nomi noti appena ricordati – è soprattutto una: il rapporto diretto con il pensiero di Marx, per afferrare con profondità analitica ciò che si voleva conoscere direttamente, la classe operaia di fabbrica. Asor Rosa ricostruisce il suo personale percorso – con uno sforzo costante, da storico di mestiere, di rendere impersonali le vicende che lo riguardano - di avvicinamento a Marx e delle scoperte che ne ha ricavato. E nel testo fa rivivere pagine dai Grundrisse o dal Capitale, che ancora oggi gettano lampi di bagliore conoscitivo ineguagliati sulla società del nostro tempo. E trovo davvero incontrovertibile l 'affermazione perentoria in cui si lascia andare : « Chi, anche oggi, non ha letto e meditato Marx non è in grado di capire in che mondo viviamo». Una verifica immediata? Osservate, con un rapido sguardo, il profilo intellettuale del ceto politico della sinistra ufficiale e ne troverete plastica ed esaustiva conferma.
Le pagine di questo saggio, tuttavia, si fanno leggere con singolare passione per un'altra ragione. Perché Asor Rosa ci trascina nella insolita bivalenza della sua personalità e nella spiazzante originalità del suo percorso esplorativo: che mette insieme Marx, Leopardi, Nietzsche e i grandi autori della letteratura europea. Forse il nucleo più ardimentoso di tutto il ragionamento, sempre esemplarmente rigoroso, del saggio sta nel tentativo, a mio avviso riuscito e persuasivo (ma potrei essere condizionato da affinità di sentire) di mettere insieme, diciamo, le forme di estrazione del plusvalore nelle società capitalistiche avanzate, descritte da Marx , con questo incantevole verso di Leopardi : «Dolce e chiara è la notte e senza vento». La teoria rivoluzionaria e la poesia, la lotta per l'emancipazione di una classe oppressa e la ricerca di una visione profonda e disincantata della condizione umana. Sfere assai distanti fra di loro, ma in realtà tenute insieme da una medesima tensione: la libertà del pensiero da tutti i condizionamenti, da tutti gli idola, la sovrana conoscenza della realtà e della “verità”, il poter collocare la propria opera transeunte nell' universo di senso che solo la grande poesia può regalarci. Con Nietzsche - «un grandioso continente di pensieri» - le cose sono più facili, anche se non meno avvincenti. Alcune riflessioni del filosofo tedesco sulla classe operaia – di folgorante inattualità - danno al ragionamento dell' autore una convincente rotondità.
Nella Prefazione Asor Rosa pone una questione storica che meriterebbe una discussione più ampia di quella possibile in queste note. Egli sostiene che in Italia, in quegli anni , «un forte sviluppo in presenza di una forte conflittualità , una forte conflittualità in presenza di un forte sviluppo avrebbero garantito a tutti quel salto che invece non c'è stato e da cui è scaturita l'attuale decadenza». Prima di entrare nel merito, io vorrei preliminarmente osservare che in tale riflessione dell'autore riaffiora una tensione, direi una vibrazione morale costante in tutta la sua opera di storico della letteratura. E' quell' «amarezza del pensiero e dell'intelligenza» , ch'egli attribuisce in questa Prefazione a Machiavelli, dipendente dallo scarto, che segna tutta la nostra storia - e che l'autore ritrova ogni volta che si occupa di Dante, di Machiavelli, Guicciardini, Leopardi – quello scarto tra le incomparabili potenzialità delle nostre energie e intelligenze nazionali e gli scadenti esiti statuali che ne sono di volta in volta derivati. Anche negli anni '60 sarebbe accaduto qualcosa di “antico”. La tesi contiene degli elementi di verità storica che andrebbero esplorati in maniera più circostanziata. Io credo, tuttavia, che forse la “mancata risposta” alla potenzialità contenuta nei conflitti, sia da spostare più avanti, e da concentrare soprattutto sul piano della cultura politica Non posso fare a meno di ricordare che gli anni '70 non furono di semplice opposizione, da parte delle classi dirigenti italiane.
Alla pressione operaia e popolare, in certi casi, si rispose con riforme importanti: la nascita delle Regioni (non senza effetti indesiderati, soprattutto al Sud) lo Statuto dei lavoratori, la nascita, nel 1978, del Sistema Sanitario Nazionale, un processo parziale, ma importante di democratizzazione dei corpi di polizia. E al tempo stesso, in quel decennio, vi furono conquiste politiche e di civiltà: l'affermazione delle sinistre nelle grandi città, la vittoria referendaria per il divorzio, mutamenti di costume e di rapporti tra genitori e figli, la ventata libertaria del movimento femminista. Naturalmente quelli sono anche gli anni della reazione stragista da parte di potenze oscure della società italiana, e poi del terrorismo.
Dunque, alcune trasformazioni importanti sono pur venute da quei conflitti. Nella società sono continuate modificazioni culturali profonde. Quel che è rimasto imballato, certamente, è stato il sistema politico. Forse perché i due maggiori partiti troppo a lungo non hanno goduto di piena autonomia nazionale. Ma quel che mi sento di dire, per ciò che riguarda la sinistra, è che il vecchio Partito comunista aveva esaurito, già negli anni '80, la sua progettualità strategica. Tardivamente e mal riformato, ha perso rapidamente, nel corso degli anni '90, la capacità di leggere i movimenti profondi che il capitalismo stava promuovendo. Il vasto sommovimento globale messo in atto dal neoliberismo è stato non a caso, anche dal gruppo dirigente di quel partito, scambiato per una nuova frontiera della modernità.
E' un obbligo di onestà intellettuale riconoscere – come hanno fatto quasi tutti gli amici che sono già intervenuti sul manifesto – il netto mutamento prodotto dal governo Monti rispetto al precedente esecutivo. Ed è anche, io credo, un obbligo della intelligenza politica saper riconoscere i mutamenti di fase, percepire gli spostamenti del fronte della lotta. Già la stessa estromissione di Berlusconi toglie all'opposizione contro le politiche neoliberistiche quell'indistinta nebulosità che l'ha caratterizzata fin qui, conferendole una maggiore nettezza, una migliore visibilità delle poste in gioco. Non sarebbe peraltro giusto sottovalutare sprezzantemente alcune novità relative alla civiltà politica del nostro Paese, che il governo ha introdotto. Il nuovo ethos pubblico, che l'esecutivo guidato da Monti ha reso subito evidente, ha non solo spazzato via d'un colpo l'aura di abiezione che circondava la masnada berlusconiana. Ha portato un ventata di pulizia nello spirito pubblico del nostro paese. E io credo che faccia in qualche modo parte – certo una piccola, ma importante parte – della pubblica felicità essere governati da persone a cui si riconosce onestà e probità morale. Si vivono meglio la proprie giornate di cittadini. La dichiarazione di umiltà da parte dello stesso Monti è, sul piano dello stile, e per il messaggio che comunica, una novità notevole, dopo un ventennio indimenticabile di arroganza e protervia del potere politico. D'altra parte, non dimentichiamolo, i governi di Berlusconi, fondati su un gigantesco conflitto d'interesse, per la costante pratica eversiva delle regole – oltre che per gli uomini che li hanno affollati dentro e nei dintorni – hanno costituito non solo un incoraggiamento, ma un incitamento e talora una fonte di illegalità. In un paese dove fiorisce la più estesa e attiva criminalità d'Europa si può agevolmente comprendere l'importanza di questo primo passo segnato dal nuovo esecutivo.
Ma tutto questo riguarda l'ethos, la pubblica moralità. La sensazione che oggi domina, di fronte a questa svolta, è che gli attori in azione sul proscenio del presente siano diretti da scelte operate nel passato, da politici defunti, oltre che da potenze impersonali e invisibili a cui si da il nome falsamente neutro ed egalitario di mercati. Le scelte sono, certamente, quelle dei vari governi nazionali che hanno accumulato un così ingente debito pubblico. Ma soprattutto quelle, fatte fuori dai confini nazionali, della deregolamentazione dei mercati finanziari messa in atto dai governi occidentali (compreso quello di Mitterand, in Francia) a partire dagli anni '80 del secolo scorso. E quelle più recenti, volte a salvare le banche dal fallimento utilizzando le risorse degli stati, oltre, naturalmente, all' internazionalizzazione del debito pubblico. Cui va aggiunta un'ultima “non scelta”, forse la decisione più clamorosa di tutte: l'assoluta mancanza di volontà politica, sia da parte di Obama, negli USA, che dei confusi e inetti governanti europei, di assoggettare il mondo finanziario in difficoltà, quando era il momento, a vincoli stringenti, che ponessero fine alle loro scorrerie. E imponendo un prelievo fiscale ai loro ingenti profitti per mettere in equilibrio un'architettura che essi stessi avevano devastato. E a proposito di inerzia e volontà politica, non si può non deplorare l'assoluta mancanza di una qualche iniziativa congiunta dei paesi con alto debito per tentare manovre comuni di contrattazione con i creditori. E la sinistra europea? Ma dov'erano, che cosa hanno detto, proposto, pensato di azione comune gli uomini che abbiamo eletto al Parlamento europeo ?
Oggi il presente esecutivo appare obiettivamente, se non al servizio, certamente subalterno ai limiti che il potere finanziario impone ai governi, alla politica intesa come libera decisione dei cittadini. Senza sottovalutare il condizionamento che esso subisce dal centro-destra, occorre riconoscere che la sua sovranità è limitata, perché essa è figlia della paura. Paura del fallimento della nazione, resa universalmente visibile dalla tragedia sociale della Grecia. Quella paura che alla fine ha avuto ragione della protervia di Berlusconi. Quello stato di necessità che svuota o limita gravemente gli spazi della democrazia e che sembra essere ormai una linea strategica dei gruppi dirigenti del capitalismo del nostro tempo.
Ebbene, bisogna dirlo subito e col giusto allarme. La paura non gioca a favore della sinistra. Corriamo il rischio, in questo anno e mezzo che ci separa dalle elezioni – se l'esecutivo Monti riesce a durare – di perdere per strada un bel po' dello slancio e dell'entusiasmo che si sono espressi nelle elezioni della primavera e nel successo dei referendum. Sotto l'assedio della paura è il centro moderato che può calamitare consensi, raccogliendo anche l'ondata di delusione che la caduta del governo e le divisioni interne al PDL e alla Lega provocherà nell'elettorato del centro-destra.
Tale pericolo imporrebbe una condotta politica del centro- sinistra e della sinistra extraparlamentare all'altezza della sfida. Non sappiamo, infatti, quanto e se l'esecutivo Monti riuscirà a farci uscire dall'emergenza finanziaria legata dal nostro debito pubblico. Quello che è facilmente prevedibile è che esso non riuscirà a contenere la divaricazione dei redditi e l'emarginazione sociale di una parte crescente della popolazione per effetto della crisi e delle decisioni di politica economica decise in Italia e in Europa. Il dato secondo cui il 10% delle famiglie italiane detiene quasi la metà del reddito nazionale – fornito non dall'ufficio studi della Fiom, ma dalla Banca d'Italia di Draghi – non verrà certamente modificato dal programma di governo che ci è stato illustrato. L'idea di una patrimoniale, che sarebbe un atto di sacrosanta giustizia sociale, prima ancora che una saggia scelta di politica economica, è scomparsa dall' orizzonte. E l'ICI sulla prima casa probabilmente aggraverà lo squilibrio.
Con ogni evidenza , dunque, il disagio sociale è destinato a crescere man mano che si faranno sentire – come già accade – l'aumento di prezzi e tariffe per l'aumento dell'IVA e gli effetti degli innumerevoli tagli imposti dal precedente esecutivo. E' a questo scenario sociale che occorrerà prestare la massima attenzione, ma intervenendo con proposte credibili, da far sentire con voce forte a tutto il Paese. Ci sono milioni di giovani senza lavoro oggi in Italia, migliaia di questi hanno lauree, dottorati, master. Quale prospettiva diamo loro? Li esortiamo a pazientare finché arriva la crescita? Draghi ci ha appena comunicato che non è alle viste. Proponiamo loro di attendere - come ha fatto il neo ministro della Pubblica istruzione – l'applicazione della legge Gelmini? Perché tanta timidezza, da parte della sinistra, nel proporre un reddito di cittadinanza per lo meno a una fascia ampia della nostra gioventù? Posti di ricercatore nell'Università, nel CNR, borse di studio per i tanti studenti meritevoli e bisognosi? Non basterebbe stornare la spesa prevista per la costruzione dei 131 cacciabombardieri F35 per finanziarlo? Non possiamo introdurre una tassa di scopo? Ricordo che la disoccupazione, presente e futura della nostra gioventù, riguarda la quasi totalità delle famiglie italiane. Essa rischia di diventare esplosiva se si aggiunge alla riduzione dei redditi familiari, alla disoccupazione dei capifamiglia. E' anche per questo che in esse si localizza una potenzialità di consenso di vasta portata. Costeggiare la sovranità della paura con una politica priva di profilo classista, moderata, incapace d'azione e di proposte coraggiose, potrebbe non rendere certa, nel 2013, una vittoria elettorale del centro sinistra che oggi invece appare alla portata.
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Chi, ormai da decenni, studia la storia del territorio italiano, di fronte alle frane e a morti delle Cinque terre e ora al disastro di Genova, oltre al dolore per le vittime, prova oggi uno scoramento profondo. La voglia di non dire nulla, il senso dell'inutilità di scrivere e protestare. Chi scrive ha troppe volte dovuto intervenire per commentare consimili tragedie, tentando di mostrare le cause morfologiche e storiche che sono normalmente all'origine delle cosiddette calamità naturali nel nostro Paese. E, per la verità, lo ha fatto insieme a voci sempre più numerose e agguerrite di geologi, metereologi, esperti. Tutto invano. E nell'ultimo ventennio più invano che mai, considerata la qualità intellettuale e morale del ceto politico di governo che ci è capitato in sorte e che del territorio italiano si è occupato per darlo in pasto agli appetiti speculativi.
Tuttavia, l'obbligo di tentare di contribuire alla riflessione collettiva su fatti così gravi finisce col vincere sul senso di frustrazione. Senza l'ostinazione e la tenacia, d'altronde, la lotta politica, specie per chi sì è ritagliato una piccola frontiera di critica e di opposizione, non sarebbe neppure concepibile.Io credo che oggi, di fronte agli eventi catastrofici che si susseguono, bisogna denunciare ormai con chiarezza l'emergere di una grave questione territoriale in Italia. Non si tratta di una novità assoluta, le vicende del territorio hanno un corso lento, lasciano il tempo per essere osservate, ma essa oggi si presenta con caratteri assolutamente nitidi e drammatici per un insieme di ragioni. Mettiamo da parte, per brevità, la Pianura padana, che ha problemi particolari, ma che ospita, ricordiamolo, il più complesso sistema idrografico d'Europa, essendo il ricettacolo dei grandi fiumi alpini. Si tratta dell'area più stabile del nostro Paese, eppure, anch'essa, è percorsa da sistemi di forze che possono assumere carattere distruttivo in caso di eventi climatici estremi.
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Il problema principale si chiama Appennino. La dorsale montuosa con i suoi innumerevoli corsi d'acqua e gli ingenti materiali d'erosione che trascina incessantemente a valle. Un tempo, la centralità dell' Appennino nell'equilibrio complessivo della Penisola era chiaro anche agli uomini politici, quando questi possedevano un proprio profilo culturale oltre al curriculum politico. Meuccio Ruini, ad esempio, che fu anche presidente del Senato, ricordava nel lontano 1919, come « contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma dell' Italia peninsulare è signoreggiata dall'Appennino e ne riceve l'impronta. » Ora, è noto da tempo, l'Appennino è in stato di abbandono. Ma soprattutto in condizioni di abbandono si trovano le terre pedemontane e collinari interne, quelle che per secoli sono state presidiate dalle abitazioni contadine, che sono state tenute sotto manutenzione dal lavoro quotidiano degli agricoltori. Una delle ragioni della diffusione e della durata storica della mezzadria nell'Italia di mezzo (soprattutto Toscana, Marche, Umbria) che dal medioevo è arrivata sino alla seconda metà del '900, è legata al fatto che essa prevedeva l'insediamento della famiglia mezzadrile nel fondo, impegnata a governare un territorio instabile. Ora, anche questo è noto, da tempo le colline mezzadrili sono state abbandonate, o sono coltivate industrialmente, con poche macchine e senza uomini.
Tale situazione, nota da tempo ai pochi esperti e appassionati della materia, conosce oggi un aggravamento dovuto a più fattori evolutivi. Da una parte, il progressivo, ulteriore abbandono dell'agricoltura da parte dei piccoli coltivatori che non ce la fanno a reggere i bassi prezzi con cui viene remunerata la loro impresa. Un fenomeno a cui gli economisti agrari di solito plaudono, perché il modello competitivo – nel pensiero economico astratto - è naturalmente la grande azienda, senza alcuna considerazione di ciò che accade al territorio, quando scompare un presidio. Di norma, quando la piccola impresa non è accorpata a una azienda più ampia, il terreno viene progressivamente invaso dalla vegetazione spontanea. Negli ultimi anni, tuttavia, a tale fenomeno si è aggiunto un sempre più largo uso edificatorio del suolo. Il cemento ha preso il posto degli ulivi o degli alberi da frutto. I comuni hanno fatto cassa svendendo il loro territorio. Nel frattempo il circolo vizioso demografico si è venuto sempre più accelerando. Se si abbandonano le aree interne tutto tende a gravitare nelle zone di pianura, che nella Penisola solo prevalentemente le aree costiere. Qui oggi si accentra oltre il 66% della popolazione peninsulare. E qui sono insediati industrie, servizi, infrastrutture, la ricchezza materiale italiana. Ma anche qui, negli ultimi devastanti decenni dei governi di centro- destra ( e nella pochezza e brevità di quelli di centro-sinistra) si è continuato a cementificare con furia da “accumulazione originaria” cinese. Ora, l'ultimo elemento che completa il quadro riguarda la frequenza degli eventi estremi, vale a dire, nel nostro caso, la straripante quantità d'acqua che oggi cade in poco tempo in delimitate aree territoriali. Si tratta di un fenomeno dipendente dal riscaldamento globale, che il climatologo inglese John Houghton, definì, nel 1994, come « frequenza e intensità di eccessi metereologici e climatici».
Dunque, come in questi ultimi anni, le piogge tenderanno in futuro a presentarsi sempre più come eventi particolarmente intensi.E le acque, dalle colline abbandonate o cementificate, mal regimate, precipiteranno lungo le pianure costiere dove il verde – la spugna che un tempo assorbiva le piogge – è diventato sempre più raro, impermeabilizzato da chilometri quadrati di cemento. Che cosa possiamo aspettarci ? Davvero pensiamo di affrontare tale gigantesca questione organizzando meglio la protezione civile? Rendendo più efficaci i sistemi di allarme?
E' evidente che qui ci si presenta una sfida che è anche una grande opportunità per il nostro Paese. Sia per creare nuove occasioni di lavoro, sia per ridare orizzonti progettuali alla politica sprofondata nel tramestìo quotidiano. La prospettiva è: riequilibrare la distribuzione demografica e valorizzare le vaste aree interne della Penisola. Un grande progetto per scongiurare disastri, ridando vita a una vasta area territoriale in cui gli italiani hanno vissuto per secoli. Il che si può fare con una molteplicità di interventi concertati, che puntino alla selvicultura e all'agricoltura di qualità, allo sfruttamento economico delle acque interne, al potenziamento del turismo escursionistico, al recupero - anche per insediarvi centri di ricerca - di tanti borghi e centri cosiddetti “minori” : spesso gioielli monumentali che fanno l 'identità profonda di una parte estesa d'Italia. Un insieme di iniziative e pratiche che potrebbero offrire lavoro alla nostra gioventù e a tanti giovani extracomunitari, oggi perseguitati da una legislazione criminogena. L'urgenza e l'assoluto vantaggio economico di procedere in tale direzione potrebbe fornire anche nuova forza al grande e specifico problema di tutela e conservazione del nostro paesaggio. Un bene inestimabile che stiamo compromettendo.
Naturalmente, per realizzare tale obiettivo, che col tempo potrà salvare l'Italia da perdite umane ed economiche sempre più gravi, occorre utilizzare risorse. E le risorse – per definizione sempre scarse - oggi lo sono più che mai. Ma proprio per questo appare necessario, in questo momento, un atto di coraggio anche da parte di tanto ceto politico e giornalismo che, talora in buona fede, ha visto nelle cosiddette grandi opere (TAV, Ponte dello Stretto) un'occasione di sviluppo per il nostro Paese. Bisogna avere la forza di ricredersi. Se le risorse finanziarie andranno alle grandi opere verranno a mancare per le piccole con cui noi oggi dobbiamo affrontare la questione territoriale italiana. Se si realizzerà il TAV, le risorse pubbliche saranno prosciugate e, per la salvezza del nostro territorio, resteranno le briciole.O l'uno o le altre, tertium non datur. Senza dire che le due scelte si presentano incompatibili anche sotto il profilo storico e culturale. Le grandi opere sono il frutto recente di un modo di procedere del capitale finanziario, in concerto con i poteri pubblici, per costruire infrastrutture – di più o meno provata utilità collettiva – e in genere contro la volontà delle popolazioni che vivono nei luoghi interessati. Senza dire che il nostro è un territorio delicato, che mal sopporta il gigantismo delle costruzioni fuori misura. Al contrario, le piccole opere per risanare l'habitat italiano possono esaltare la partecipazione popolare, iscriversi nel solco di una tradizione secolare che ha fatto dell'Italia, per mano di anonimi artisti popolari, quello che resta ancora del Belpaese.
E' tempo di riprendere la discussione sull'Università, una delle istituzioni che è entrata tardivamente nel vortice delle politiche neoliberiste e che oggi le subisce con particolare asprezza. Vorrei qui richiamare l'attenzione soprattutto sull'art. 12 della Legge Gelmini, relativa ai Ricercatori a tempo determinato. Per il commento critico sistematico a questa Legge rinvio al sito www.amigi.org. Stabilisce il Comma 4: « I contratti hanno durata triennale e possono essere rinnovati una sola volta per un ulteriore triennio previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte». Ecco d'un sol colpo e quasi di soppiatto inserito nel corpo dell'Università un dispositivo che sconvolge l'assetto storico della riproduzione scientifica e intellettuale nel nostro Paese. Il “lavoro flessibile”, dunque, il precariato è legge anche dentro le nostre vetuste strutture dell'alta formazione. Come non esaltarsi di fronte a tanta modernità che avanza, alle invocate riforme che finalmente si realizzano?
La prima riflessione da fare, a proposito di questo punto della norma, riguarda la sua ratio. A che serve? L'unica spiegazione “nobile” – a parte quella economica, mirata a ridurre drasticamente il peso dell'Università pubblica nel bilancio dello stato – è quella di rendere i futuri ricercatori competitivi, sempre “sulla corda” rispetto alla loro posizione, costretti ad essere sempre produttivi per non essere espulsi dall' istituzione. Ora, c'era davvero bisogno di inserire la precarietà per legge al fine di dar slancio competitivo ai nuovi ricercatori? Credo che solo chi ha frequentato la nostra Università attraverso corsi per corrispondenza possa essere stato sfiorato dall'idea di una simile fandonia. Le nostre Facoltà, scientifiche o umanistiche che siano, non hanno alcun bisogno di stimoli o incentivi: la competizione è già elevatissima. Lo è anche per il fatto che dalla produttività scientifica dipende l'avanzamento della carriera, in maniera assolutamente più limpida che in altri ambiti dell'amministrazione pubblica. Chi vuole diventare ricercatore, professore associato, professore ordinario, deve pubblicare, essere riconosciuto meritevole dalla comunità scientifica di riferimento, superare regolari concorsi. Piuttosto è l'Università italiana, soprattutto per la miseria in cui versa da decenni e per la cattiva amministrazione, che non riesce a premiare una produttività e competitività che sono invece elevate.
Sono stato di recente presidente di commissione in un concorso per ricercatore di storia contemporanea e ho dovuto esaminare – e necessariamente bocciare, perché il posto assegnabile era soltanto uno – decine e decine di candidati con titoli scientifici così numerosi e pregevoli da meritare la cattedra di professore ordinario. Dunque, non è la competizione il problema, ma l'assenza totale di prospettive per i tantissimi nostri studiosi che fanno ricerca di alta qualità.
Ma c'è nell'art.12 della Legge l'introduzione di un dispositivo che va esaminato più da vicino per coglierne tutte le potenzialità distruttive di prospettiva. Innanzi tutto - è forse il primo aspetto da sottolineare – la norma istituisce solennemente la subordinazione intellettuale e il conformismo culturale come principio cardine della formazione dei futuri ricercatori e dei docenti. Chi non riesce a immaginare che cosa succederà a queste figure che hanno solo tre anni di lavoro sicuro davanti a sé e la cui conferma dipende dal docente cui sono legati? Qualcuno si ricorda le polemiche della Gelmini contro i “baroni”? Ecco, il vassallaggio personale al loro potere diventa ora assoluto. Nessun giovane si arrischierà a pubblicare ricerche eterodosse che possano urtare il proprio professore. Quindi il conformismo culturale e scientifico e l'uccisione sul nascere di ogni spirito di innovazione è assicurato. Ma questo è solo una parte del cammino predisposto da questa esaltante trovata della Legge Gelmini, che per la verità riprende strategie già in atto in altre Università, soprattutto negli USA. Anche nelle nefandezze la destra italiana è debitrice del pensiero altrui.
E qui sono costretto a notare che si è poco riflettuto su un aspetto ancora più grave e di più straordinarie implicazioni avvenire. Qualcuno si è chiesto quale mai grande impresa di ricerca, quale ambizioso progetto intellettuale, sia scientifico che umanistico, potrà mai essere concepito in futuro dai nostri giovani ricercatori su cui graverà- nella fase di fondazione dei loro studi – un orizzonte di così evidente incertezza e precarietà? Quale ricerca di lunga durata verrà mai progettata senza nessuna sicurezza dell'avvenire? E' evidente, dunque, che verranno intrapresi solo studi di breve periodo, immediatamente utili, per la carriera o per la produzione di brevetti, finalizzati al tempo veloce di valorizzazione del capitale, cui dovrebbe ormai subordinarsi l'intero mondo degli studi. Dunque, va detto con la solennità che l'evento merita: per la prima volta, nella storia d'Italia, tramite la Legge Gelmini, un governo della Repubblica programma il decadimento dei nostri studi e della nostra cultura, progetta cioé per i decenni futuri l'immiserimento della nostra civiltà e la creazione di un corpo docente ridotto al rango di frettolosi tecnocrati di un pulviscolo di discipline strumentali.
Certo, la Legge Gelmini ha il merito di mostrare con limpidezza il progetto sempre più dispiegato del capitale di piegare le strutture dell'alta formazione e della ricerca pubblica ai propri fini immediati e di breve periodo. Essa mostra cioé, in filigrana, l'orizzonte di immiserimento antropologico verso cui la cosiddetta crescita vuol condurci. Ma qui debbo ricordare almeno una pratica in corso, in atto da tempo nel nostro Paese, che si muove nella stessa direzione e che invece sembra godere di un tacito consenso universale. Mi riferisco alla istituzione ormai dilagante del numero chiuso che sbarra ai giovani l'accesso a un numero crescente di Facoltà.
Ora, metto da parte, i criteri della selezione: l'utilizzo dei test attitudinali, vale a dire i cascami degenerati di una branca della psicologia americana. Quanti giovani di valore non superano questi test ?Ma il punto da discutere è: perché lo sbarramento? Non sono sufficienti gli stessi esami universitari a selezionare l'attitudine dei giovani a proseguire negli studi intrapresi? Ricordo che i nostri esami sono tra i più severi che si praticano nelle varie università del mondo. Perché non possono iscriversi a una Facoltà se hanno il titolo di studio necessario e pagano le tasse? Non ci hanno assordato per trent'anni col ritornello che bisogna assecondare il mercato? E allora perché, se c'è una così elevata domanda di istruzione superiore, non si risponde con una offerta adeguata? L'offerta, e dunque l'investimento, si ha solo per fini immediati di profitto? Si obietta, ad esempio, che ci sono troppi medici e bisogna scoraggiare nuove iscrizioni. E se si vuole diventare ugualmente medici perché si ama la medicina, se si ha in progetto di fare il medico nel Senegal o in Bangladesh? Che fine fa la tanta esaltata nobiltà della conoscenza, che fine fa il cosmpolitismo del cosiddetto mondo globale?
In realtà la ragione non detta è un'altra, ed è di vasta portata strategica, destinata – se non verrà sconfitta – a distruggere la civiltà culturale dell'Occidente e dell'Oriente. Lo sforzo delle classi dominanti è di subordinare sempre più strettamente il processo di formazione delle nuove generazioni alle domande del mercato del lavoro. Dopo che, per almeno tre secoli, mondo della formazione e della ricerca e attività produttiva capitalistica erano stati ambiti correlati, ma dotati di relativa autonomia, oggi il capitale finanziario non è più disponibile a finanziare una formazione culturale “disinteressata”, non destinata a produrre immediate ricadute di profitto. Un tempo i giovani sceglievano liberamente di diventare maestri o ingegneri, poi il mercato del lavoro offriva loro varie opportunità d'impiego. Ora questo appare, al senso comune dominante, parassitizzato fin nel midollo dall'economicismo dell'epoca, non più tollerabile, diseconomico. Che cos'è questa voglia disinteressata di studiare chimica o letteratura greca se non ci sono i posti di lavoro in cui renderle “produttive”? Possiamo forse quotare in borsa la letteratura italiana, la linguistica, la filologia romanza? Non sono costi che ci possiamo permettere urlano gli economisti. Invito a riflettere .
L'abisso in cui il capitalismo ci sta trascinando è visibile in questo paradosso: la società più opulenta che mai sia apparsa nella storia umana dichiara di non potersi consentire il lusso di finanziare saperi che non valorizzano immediatamente il capitale investito. Com'è noto, del resto, in USA e UK si fanno indebitare gli studenti perché essi possano conseguire la formazione universitaria. Imprenditori di se stessi, essi sono diventati una fonte di lucro per le banche e un segmento dell'economia del debito, il cui successo è sotto gli occhi di tutti.
Infine un modesto consiglio agli studenti e ai ricercatori che hanno scritto negli ultimi due anni una pagina importante di lotta civile nel nostro Paese. Essi debbono rammentarsi che non costituiscono solo un gruppo sociale capace di mobilitazione. In moltissimi casi, essi sono i membri più colti e consapevoli delle proprie famiglie. Talora di estese parentele. Essi cioé sono in grado di avere una influenza politica di vasta portata anche al di fuori del proprio ambito. Occorre ricordarsene, perché, quando avremo cacciato via il presente governo, non è per nulla scontato che chi si candida a sostituirlo cambi radicalmente registro. E allora bisognerà esser consapevoli di poter influenzare un vasto bacino elettorale, avere la forza di incidere su scelte di decisiva rilevanza.
www.amigi.org. Questo articolo è spedito contemporaneamente anche al manifesto.
, “Misure di accelerazione per la realizzazione delle opere pubbliche di interesse strategico regionale e per la realizzazione di opere private”. Opere per cui la Regione ha predisposto un percorso agevolato che, utilizzando l'istituto degli accordi di programma, permetterà la variazione contestuale degli strumenti urbanistici delle amministrazioni interessate e una compressione dell'iter di pubblicizzazione, osservazioni comprese. E se qualcuno si opponesse, ad esempio un Comune che non volesse un inceneritore, una discarica o una bretella stradale, si rassegni. La legge ne prevede il commissariamento ad hoc se la maggior parte degli enti coinvolti è d'accordo sulla realizzazione dell'opera (che sul territorio del vicino fa meno male). Ma quali sono le opere strategiche?
Quelle per cui il finanziamento regionale supera il 50% e quelle che la Regione, 'in via straordinaria', deciderà essere tali: cioè potenzialmente tutte e a discrezione. Non basta: a questa 'accelerazione' partecipano anche i privati; anzi, in un tempo di tagli agli stanziamenti pubblici, sono i privati che possono diventare i protagonisti del gioco quando propongano l'insediamento di medie e grandi imprese industriali, di impianti di smaltimento dei rifiuti o di fonti rinnovabili di energia, il business più lucroso e più inquinato (in vari sensi) dell'attuale fase economica. La legge 35/2011 rappresenta il totale stravolgimento di quanto era stato approvato nel novembre del 2010 in sede di Giunta regionale: qui le opere strategiche erano quelle “essenziali per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo socio-economico e di qualità della vita, del territorio e dell'ambiente definiti nel programma regionale di sviluppo” e dovevano essere coerenti al Piano di indirizzo territoriale, vale a dire al piano paesaggistico. Gli accordi di programma, ove necessari, rimanevano disciplinati secondo la normativa preesistente e non era previsto alcun ruolo proponente dell'iniziativa privata.
Perché una legge di razionalizzazione dell'intervento regionale nelle infrastrutture si è trasformata in una mini legge-obiettivo?. La prima risposta è che, evidentemente, esiste uno scollamento tra una Giunta in cui soffia qualche vento di novità verso un modello di sviluppo sostenibile e un Consiglio ancora – maggioranza e opposizione - proiettato sulle grandi opere, le piattaforme logistiche, i porti, le bretelle, i sotto-attraversamenti. D'altronde c'è poco da stupirsi: questa schizofrenia, non fa che ribadire il peso minoritario di una sinistra (da cui non sono escluse parti del PD) diversa rispetto agli apparato correntizi che prosperano nella collusione fra gli interessi di potere (si fa fatica a chiamarli politici) e quelli di un'imprenditoria oligopolistica e garantita
In cui siedono allo stesso tavolo Impregilo, Ligresti, Zunino, cooperative rosse e simili capitani industriali, con alle spalle le banche, fra cui spicca quella 'rossa', il Monte dei Paschi di Siena, anch'esse con rischi nulli (paga lo Stato) e guadagni garantiti. In cui la regia è condotta, in pieno conflitto di interessi, da politici come Riccardo Conti, responsabile nazionale del PD nel settore trasporti, consigliere d'amministrazione del fondo privato F2ì specializzato in investimenti in infrastrutture e della controllata G6 Rete Gas, 'delegato' del Monte dei Paschi e da Antonio Bargone, già uomo chiave del partito, legato a D'Alema, presidente della Società Autostrada Tirrenica e commissario straordinario di sé stesso per nomina governativa. Il tutto nell'illusione di risolvere con scorciatoie amministrative ciò che richiederebbe innanzitutto buona politica, comunicazione e partecipazione.
Un'ultima, ma non secondaria annotazione. Cosa succederà quando un accordo di programma confliggerà con un'invariante strutturale stabilita nel piano paesaggistico: prevarrà la legge nazionale o quella toscana? O si troverà un compromesso variando e deperimetrando. E, a questo punto, per dare un'ulteriore accelerazione, tanto vale abolire la legge toscana sulla partecipazione. Lo sviluppo non può attendere.
L'articolo di Guido Martinotti ( il manifesto,12 luglio) che a sua volta riprendeva un articolo di Umberto Eco ( Repubblica, 2 luglio), entrambi riportati in eddyburg, su vincitori e sconfitti nelle ultime elezioni comunali, inquadra lucidamente le ragioni della subalternità della sinistra rispetto al governo Berlusconi; subalternità che ha come corrispettivo il rafforzamento consociativo della casta, guidata nel PD da D'Alema, massimo (con la m minuscola) stratega delle sconfitte politiche del partito.
La concezione di D'Alema della politica, come ramo specialistico delle professioni intellettuali (ipse dixit), ha qualcosa in comune con la Repubblica dei filosofi di Platone (in cui Bertrand Russel individuava già i germi del totalitarismo), del leninismo e, del togliattismo. In una versione 'nobile' la politica professionale è al servizio di un'idea strategica forte di cambiamento della società, come poteva essere la conquista del potere da parte della classe operaia, ma in un certo senso anche il 'compromesso storico'; inoltre necessita di un apparato partitico fedele alle direttive e intrinsecamente onesto, vale a dire scevro da mire e interessi personali che contrastino con il 'bene comune'.
Nell'Italia della seconda Repubblica sono entrati in crisi tutti questi presupposti. I cambiamenti economici e sociali del paese, la scomparsa della classe operaia intesa in senso tradizionale, il prevalere delle articolazioni 'verticali' della società (v. Lega) rispetto alle stratificazioni orizzontali, di classe, vanificano l'idea stessa di una gestione dall'alto della politica: non solo perché è venuto meno l'apparato, quei funzionari di partito improntati a una morale rigorosa (v. articolo di Mario Pirani su Repubblica del 20 luglio), ma perché è venuta meno anche la società, almeno nelle forme tradizionali cui la versione 'nobile' del dalemismo avrebbe potuto far riferimento. Perciò la tattica politica professionale ha come unico orizzonte la conservazione consociativa del potere. E nel discendere dall'alto verso il basso, dal nazionale al locale, la politica tende inevitabilmente a rendersi autonoma rispetto a ogni direzione che non sia quella di creare e consolidare e associarsi ai poteri economici esistenti.
Nella versione del governo toscano, ciò ha significato durante legislatura di Claudio Martini e di Riccardo Conti il via libera ai sindaci e ai Comuni: ognuno faccia quel che gli pare dietro il paravento ideologico dello sviluppo. Ciò che forse gli apprendisti stregoni al governo della Regione non prevedevano era una vera e propria deflagrazione di illegalità che ha percorso buona parte urbanistica toscana, dove molti Comuni non solo si sono fatti beffa di leggi e piani, ma, indipendentemente dal colore politico, sono diventati subalterni ai poteri economici: grandi (Domenici, ex sindaco di Firenze rispetto a Ligresti), e meno grandi: i suoi colleghi rispetto a cooperative, costruttori edili, proprietari fondiari.
La nuova legislatura, con Enrico Rossi presidente, mostra segnali contrastanti; buoni orientamenti e iniziative nell'urbanistica guidata da Anna Marson, vecchie logiche nel settore infrastrutture, dove prevale ancora una sviluppistica dura, come se fossero le piattaforme logistiche e le infrastrutture pesanti a creare posti lavoro e a favorire la modernizzazione. Esemplare (in negativo) a questo proposito il silenzio della Regione sul sottoattraversamento della Tav nel nodo fiorentino o l'indecisione fra scelte a favore del parco o dell'aeroporto di Peretola nella piana fiorentina, dove si dovrebbe avere il coraggio di dire che la pista parallela non solo è devastante ma non è fattibile, né tecnicamente, né finanziariamente.
La conclusione è quindi esattamente opposta a quanto teorizzato da D'Alema: solo riportando la politica all'interno della società civile, facendo propri quelli che sono molto più che segnali e volontà di cambiamento, aprendosi al confronto con comitati e cittadini, favorendone la partecipazione, si può governare una società 'liquida' in uno scenario dove il 'deficit' ambientale, e le crisi economiche e finanziarie costituiscono le grandi sfide da affrontare, prima che diventino vere e proprie catastrofi. Con buona pace dei professionisti della politica.
Almeno due fenomeni, distinti fra loro, ma fortemente correlati, sgomentano oggi chiunque osservi la turbolenta scena dell'economia e della finanza. Una scena che ormai fa del presente disordine mondiale il nostro pasto mediatico quotidiano. Il primo riguarda lo stolido e pervicace conformismo con cui banche centrali, governi, partiti, economisti, continuano a trovare «soluzioni alla crisi» riproponendo le usurate ricette che hanno l'hanno generato, e ora resa potenzialmente catastrofica.
La seconda riguarda la rapidità con cui la violenza di alcuni potentati finanziari internazionali si trasforma in uno stato di necessità, accettato dai gruppi dirigenti dei vari Paesi come una inaggirabile calamità naturale. La minaccia di declassamento del debito viene vissuta come l'arrivo di un ciclone a cui si può rispondere solo chiedendo ai cittadini di rinserrarsi nelle proprie case. La cultura che non vede altra strada alle difficoltà presenti se non il vecchio e battuto sentiero, è la medesima che, in poco tempo, ha trasformato in senso comune l'impensabile. Uno Stato oggi può perdere la propria sovranità, come ad esempio accade alla Grecia (e accade in parte anche a noi) non per l'invasione di un esercito straniero, ma per il proprio debito pubblico. La ricchezza, il patrimonio artistico, la cultura, il territorio, il frutto di millenni di storia di un popolo può essere saccheggiato e spartito da predoni in giacca e cravatta che siedono dietro una scrivania a migliaia di km di distanza. È una novità storica di devastante violenza, eppure la stampa e gli esperti, con tono impassibile, fanno già l'elenco dei beni da privatizzare, dalle isole al Partenone. Quel che pochi considerano è che quel debito è frutto della medesima politica (e della medesima etica truffaldina) che oggi si erge a inflessibile rigore di razionalità economica. Il debito greco ha ricevuto - come ha ricordato Paolo Berdini su questo giornale - una potente spinta con le grandi opere delle Olimpiadi di Atene del 2004, con 20 miliardi di euro rimasti sul groppone dello Stato. Tutto questo secondo meccanismi ben collaudati, quelli appunto delle grandi opere - tavola imbandita per banche e grandi imprese di costruzione - che lasciano poi alla mano pubblica l'obbligo di accollarsi l'onere delle perdite private. La Tav in Val di Susa e il Ponte di Messina sono perfetti archetipi di queste strategie, che dopo i banchetti di banche e imprese sono destinate a lasciare stremate le finanze pubbliche.
La riproposizione delle ricette neoliberiste, tuttavia, non è solo espressione di un conformismo dottrinario ormai senza più vie d'uscite. È anche una pervicace rivendicazione di interessi di classe. Lo "stato di necessità" è una ghiotta occasione per il capitalismo industriale, che preme per mettere più strettamente al proprio servizio il mercato della forza-lavoro. Esso torna ora utile per nascondere il grande saccheggio dei redditi operai e popolari che è a l'origine del tracollo finanziario. Basti pensare che tra il 1979 e il 2007 la quota della ricchezza prodotta nell'Europa a 15 andata ai salari è passata dal 68% al 57%. L'Italia, i cui salari operai arrancano agli ultimi posti dei 30 Paesi Ocse, è un caso esemplare per osservare gli ottimi profitti conseguiti nel frattempo dalle imprese. E parliamo dell'Italia «che non cresce», «fanalino di coda» e non delle banche, ma del cosiddetto capitalismo produttivo. Ebbene, come hanno ricordato Bertorello e Corradi in Capitalismo tossico, secondo i rapporti di Mediobanca, tra il 1995 e il 2006, le grandi imprese italiane hanno accresciuto i profitti netti per dipendente del 63,5%. Se poi si considera l'insieme dell'industria italiana, comprese le imprese fallite o in perdita, il dato cala al 15,5%, ma è pur sempre tre volte quello delle retribuzioni operaie.
Questi dati e le argomentazioni correlate - peraltro ripetutamente ribadite da tanti collaboratori su questo giornale - devono costituire a mio avviso il più importante fronte di contrapposizione politico alle manovre di «salvezza nazionale» che si stanno orchestrando in questi giorni, e che purtroppo irretiscono settori della Cgil e del centrosinistra. Deve essere chiaro e ripetuto sino alla noia che la causa della crisi è l'impoverimento dei ceti popolari e medi, consumatosi negli ultimi decenni, e che il tracollo finanziario deriva dalla immensa ricchezza che si è accumulata in poche mani. E dunque proseguire per questa via con il taglio dei servizi, l'accrescimento della precarizzazione del lavoro, la privatizzazione di nuovi settori, potrà forse tranquillizzare i cosiddetti mercati, ma produrrà lacerazioni esplosive nel corpo della società. E la macchina economica resterà imballata. È dunque molto importante che il messaggio sia semplice e comprensibile a tutti. Il senso di insostenibile ingiustizia che anima la manovra governativa deve fornire nuova energia ai movimenti politici che si opporranno alle scelte oggi in atto.
Ma la questione delle strategie neoliberistiche quali soluzioni a una crisi neoliberistica meriterebbe considerazioni di vario ordine, su una delle quali, di più immediata prospettiva politica italiana, occorrerà tornare in maniera specifica. Qui vorrei svolgere una breve riflessione di carattere più generale. È evidente a tutti che il neoliberismo, responsabile della crisi, è più vivo che mai nelle proposte dei governi e dei partiti politici, nella cultura delle istituzioni. Tale dato, del resto, riflette i rapporti di forza oggi in campo a livello mondiale. Diversamente che nel corso della grande crisi degli anni Trenta, i gruppi capitalistici non sono minacciati dallo spettro del comunismo. Né Obama né Barroso sono nella condizione di Roosevelt, che aveva di fronte Stalin e l'internazionale comunista. Ed era dunque costretto a una creatività politica che i suoi successori non sentono necessaria. Ma questo evidente vantaggio storico dei nostri contemporanei si accompagna a una stupefacente sterilità di idee, di coazione a ripetere, di conformismo, a una mancanza di prospettive che sembra spingere il capitalismo verso l'abisso. Non è tanto nell'economia reale che il capitale boccheggia, ma è sul piano culturale che oggi, per usare un'immagine di Marx, appare come un «cane morto». Il declassamento del debito Usa è una novità storica di prima grandezza non solo perché una banca privata americana colpisce e umilia agli occhi del mondo il potere politico dell'Impero. Non solo perché gli Usa nel corso del trentennio neoliberista sono stati il modello di crescita a cui economisti e media ci esortavano a guardare. E che ora sono sull'orlo di un nuovo crac. Dobbiamo imitare ancora l'America che fallisce? Ma perché il potere politico appare oggi assolutamente inetto a governare le potenze infernali che esso stesso ha suscitato. L'incapacità di Obama di abbassare le tasse dei ricchi americani, difesi dai repubblicani del Tea Party, chiude perfettamente un cerchio che rivela la continuità e l'essenza stessa del fallimento americano.La deregulation di Ronald Reagan, infatti, comincio nel 1981 con quello che fu definito «il più grande taglio di tasse nella storia fiscale americana». E la storia si è ripetuta, due volte, con Bush jr. I ricchi si sono ulteriormente arricchiti, ma gli altri, com è noto, hanno avuto un diverso destino. E così il cosiddetto «sogno americano» è stato gettato nella soffitta delle patrie retoriche.
È facile dunque immaginare che questa crisi che non finisce, che nel migliore dei casi si trasformerà in una lunga depressione mondiale, che creerà nuove povertà e disuguaglianze, è destinata a infliggere una gigantesca perdita di credibilità ai ceti dominanti e ai loro rappresentanti politici. E questo sta già accadendo. Anche se i fenomeni culturali, la stoffa sotterranea su cui si regge ogni egemonia, sono più lenti a formarsi e manifestarsi. Ma poi generano mutamenti storici profondi. E accade non solo perché la crisi colpisce ora anche ceti sociali prima interni all'orbita del sistema, ma anche perché essa si accompagna all'evidente incapacità dei gruppi che governano da trent'anni di risolvere le sfide globali incombenti: esaurimento delle risorse naturali e distruzione degli habitat del pianeta, permanenza e anzi crescita dei poveri e degli affamati, riscaldamento climatico, guerre costose e disastrosamente perse.
Alle forze di sinistra, pur deboli, divise, frammentate - ma certamente portatrici di idee nuove, capaci realmente, oggi, di elaborare gli elementi di un nuovo progetto di società - spetta il compito di mostrare ai ceti popolari e ai ceti medi le responsabilità storiche del colossale fallimento che sono costretti a sopportare. E indicare anche obiettivi credibili e praticabili che mostrino vie d'uscita, mete conseguibili. È un compito difficile e drammaticamente necessario. Rappresentare politicamente le istanze di chi reggerà il maggior peso della tempesta in corso non è solo la condizione per tentare di spostare i rapporti di forza, ma è l'unica via per evitare che la democrazia venga travolta col vecchio ceto politico che dovrà uscire di scena.
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Il Sindaco di Dunquerque, in Normandia, non proprio scherzando, ha chiesto che la necropoli di Tuvixeddu gli sia data in affidamento. Il Sindaco di Barumini considera un tesoro il villaggio nuragico benché pieno di pietre e “cocci”. Perfino gli Amministratori di Olbia la Sviluppista si sono commossi quando sono stati trovati i relitti di navi romane e medievali. Ovunque, quando una comunità ritrova una traccia del proprio passato si sente più sicura sulle gambe.
Ma a Cagliari le cose vanno diversamente. Qua si cammina su gambe di cemento e piedi di mattoni, e si dichiara guerra ai “cocci”. Qua il passato è un ingombro e ci impedisce di essere “moderni”. Qua il Sindaco sbuffa perché, dice, si esagera con la tutela e c’è un Direttore delle Sovrintendenze, indicato come il “Garzillo di turno”, il quale disturba i lavori in corso che inciampano continuamente in “cocci”, altrove chiamati reperti. Ci si ferma perfino se si trova il relitto di una nave romana. Ma a cosa serve una nave romana? Non galleggia più. Una seccatura. Andata a picco proprio davanti al molo crociere dove migliaia di turisti, accolti da indigeni festosi, devono sbarcare, mordere la città per un giorno e fuggire lasciandoci i loro giudizi, annotati dai cronisti come responsi divini.
In questa città la tutela è soffocante. La villa di Tigellio è piena di “cocci” e spezza il profilo dei palazzoni intorno. I punici, ostili al Comune di Cagliari, hanno eretto templi in zone B, edificabili, i romani, nemici del PUC, hanno costruito terme dove dovevano sorgere due banche e pedanti bizantini hanno fatto mosaici dove era prevista una città mercato.
E’ urgente cancellare le tracce del passato. Che non pensino che siamo arretrati.
I sepolcri abusivi di Tuvixeddu sono un ostacolo al furore edificatorio. Dice il Sindaco che vuole fare “rivivere” la necropoli e chissà come “rivive” un cimitero. Hanno preso atto che la necropoli c’è, ne hanno tracciato liberamente i confini e deciso che qualche centimetro oltre quei confini si può costruire. E’ perfino accaduto che quattrocento sepolture siano finite sotto i palazzoni del viale senz’alberi di Sant’Avendrace. Insomma, qui non è sacra la necropoli, sono sacri i progetti e il mondo è capovolto.
Si è padroni di considerare “coccio” un’anfora sbrecciata, una sepoltura punica come un buco nel calcare o il tramonto come una lampadina che si spegne. Ma nessuno ha il diritto di eliminare un paesaggio millenario per sostituirlo con una brutta sbobba urbana.
E il “Garzillo di turno” di cui parla il Sindaco, disgraziatamente non è “di turno”. E’ l’eccezione nelle Sovrintendenze dell’Isola. Ci fosse un “ turno degli Elio Garzillo” oggi non avremmo un patrimonio archeologico e un paesaggio così maltrattati. Con il “turno dei Garzillo” avremmo conservato i nostri beni anziché ricoprirli di cemento e asfalto. Noi abbiamo patito sino a poco tempo fa un’attività di tutela che ha teorizzato e praticato una rovinosa “mediazione”. Con il visibile risultato che la tutela è stata schiacciata, la città resa mediocre e i luoghi consumati dalla frenesia edilizia. Abbiamo prodotto bruttezza e offeso l’armonia del nostro bel sito naturale perché non è vero, purtroppo, che un “Garzillo di turno” si trova sempre.
Ora il Ministero vuole in pensione anticipata i funzionari migliori e magari gli “Elio Garzillo” usciranno dai “turni”. Resterebbero le conseguenze salutari delle loro azioni ma noi forse torneremmo a una distruttiva “mediazione”. La città sarebbe ripulita dai “cocci”, lo “sviluppo” liberato da anticaglie, ruderi e sepolcri. Finalmente moderni.
L'articolo è stato pubblicato anche ne la Nuova Sardegna oggi, 25 gennaio 2010, col titolo "Archeologia? Solo cocci che ostacolano il progresso"
Forse è utile ricordare che è stato Jean-Francois Lyotard, filosofo francese, a fare del termine narrazione un lemma del vocabolario politico dei nostri anni, quello, per intenderci, che Nichi Vendola ha reso popolare nella sua originale prosa politica. Nel suo La condizione postmoderna (1979) Lyotard decretava la fine delle grandi narrazioni “metafisiche” che avevano sin lì influenzato gli uomini e le donne dell'Occidente. L'illuminismo, l'idealismo, il marxismo, queste grandi e totalizzanti interpretazioni del mondo apparivano ormai esaurite, di fronte ai processi di disincanto che attraversano le psicologie collettive, al pluralismo culturale che si diffonde tra gli individui, al processo di atomizzazione della società. Per la verità, io credo che la condizione definita postmoderna da Lyotard non fosse e non sia che il dispiegamento pieno dei caratteri fondativi della modernità. Quelli, per intenderci, intravisti con sovrana capacità anticipatrice da alcune grandi menti, come quella di Marx, di Nietzsche o di Weber. Chi non ricorda il famoso passo del Manifesto «Tutti gli antichi e arrugginiti rapporti della vita con tutto il loro seguito di opinioni e credenze ricevute e venerate per tradizione si dissolvono, e i nuovi rapporti che subentrano passano fra le anticaglie (...) Tutto ciò che aveva carattere stabile (...) si svapora, tutto ciò che era sacro viene profanato e gli uomini si trovano a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione». Non parlano, queste parole, della nostra condizione? E Nietzsche nella Gaia Scienza aveva quasi urlato: «anche gli dei si decompongono. Dio è morto!» Quand'egli osservava « il deserto che avanza>> , anticipava quel dilagare del nichilismo che il processo storico avrebbe trasformato nella stoffa del nostro quotidiano. E L'Entzauberung il “disincanto” del mondo, intravisto da Weber, aveva bisogno di almeno un secolo per diventare un fenomeno di massa. La “società liquida” che Bauman oggi ci rappresenta non è che la modernità pienamente realizzata.
Quel che tuttavia stupisce e di cui importa qui parlare è il fiorire, malgrado tutto, di continue nuove narrazioni che si fanno strada, come farfalle dalla crisalide del bruco, dalla consunzione delle precedenti “immagini del mondo”. Tutta l'età contemporanea ne è teatro. La più grande vittima delle trasformazioni capitalistiche, ma anche degli orrori perpetrati dalle classi dirigenti europee, è stata l'idea di progresso, forse il più lungo racconto dell'età contemporanea: la grande fede di una umanità in marcia verso i lidi dell'emancipazione universale. Nel 1937, dopo i massacri della prima guerra mondiale e quando le ombre del nazifascismo si allungavano sull' Europa, lo storico olandese Johan Huizinga poteva irridere quella tarda eredità dell'illuminismo, degradandola quasi a credenza superstiziosa, al «concetto puramente geometrico del procedere innanzi». E dopo è seguito l'Olocausto e la carneficina della seconda guerra mondiale, che hanno seppellito, sembrava definitivamente, ogni possibile narrazione trionfante per l'avvenire. E invece non è stato così. Nella seconda metà del novecento è fiorita una nuova storia, la grande narrazione dello sviluppo, in cui siamo in parte tutt'ora immersi. La crescita economica continua e la distribuzione della ricchezza a un numero crescente di cittadini ha reincarnato, in forme nuove e per alcuni decenni, la vecchia epica del progresso ottocentesco. Il movimento operaio e i partiti di sinistra hanno incarnato perfettamente questo nuovo immaginario, non meno di altre formazioni e gruppi moderati. Ricordate Togliatti : «veniamo da lontano e andiamo lontano»? Segno, probabilmente, di una predisposizione irrinunciabile degli uomini alla speranza, alla proiezione della propria condizione presente in un futuro sempre perfettibile, al bisogno, comunque, di sentirsi dentro una storia dotata di senso. E' su questa predisposizione fondativa che la politica moderna ha giocato le sue carte, tanto in chiave conservatrice che progressista o rivoluzionaria. Occorrebbe chiedersi:non è costantemente all'opera nel fondo della politica, prima e dopo Machiavelli, un'ars retorica, un'arte della persuasione che si modella secondo narrazioni? Non risponde la politica anche a questo irrinunciabile bisogno dell'umano immaginario?
Negli ultimi 30 anni anche le èlites della borghesia hanno sentito il bisogno, per dare corpo a una controffensiva capitalistica su larga scala, della narrazione neoliberista. Un romanzo di reincarnazione del progresso al cui centro si ergeva la libertà degli individui, l'eliminazione delle burocrazie, il premio al merito, il libero mercato come supremo ed equo regolatore delle relazioni sociali. Questa aura leggenda ha avuto una gigantesca capacità di fascinazione, al punto da riuscire a parassitizzare anche i vecchi partiti della sinistra. Il termine è preso a prestito dall'entomologia. Alcuni insetti inoculano le proprie uova nel corpo di altri insetti, così che le larve nasciture possano nutrirsi con il corpo dell'ospitante. Le idee di liberalizzazione, privatizzazione, competizione, flessibilità si sono nutrite con il corpo ospitante dei vecchi partiti di sinistra, che ne sono usciti spolpati. Ma proprio oggi, guardando alle parole, si può scorgere nitidamente la fine dell'ultimo grande racconto del capitalismo contemporaneo. Che cosa sanno prometterci oggi gli apologeti dello sviluppo ? Privatizzazioni, liberalizzazioni, detassazioni, ecc. Ma quale futuro della nostra condizione possiamo intravedere dietro queste promesse? Quale pubblica felicità? Dopo trentanni di di propaganda alla libertà degli individui il fantastico risultato è che le prossime generazioni vivranno peggio delle precedenti, i figli peggio dei padri. Per la prima volta nella storia contemporanea dell'Occidente in un racconto politico manca il lieto fine. Mentre le parole sono sempre le stesse, da trent'anni. E nel grande mare del libero mercato, dove tutto diviene rapidamente obsoleto, queste consunte parole sono ormai diventate rifiuti, come le merci del consumismo quotidiano.
I beni comuni, è ormai divenuto chiaro, posseggono una straordinaria potenzialità di narrazione. Essi raccontano una storia secolare. L'avanzare dei modi di produzione capitalistici e il progressivo appropriarsi da parte dei privati delle terre, dei boschi, delle acque che prima appartenevano alle comunità. Tutta l'età contemporanea è una storia sempre più accelerata di predazioni private. Possediamo dunque un fondo storico di rivendicazioni di straordinaria potenza. Ma ci sono beni comuni, dipendenti dal vecchio welfare, che si possono rimettere al centro della narrazione, perché mutilati e messi in forse dalle aggressioni degli ultimi anni. Il sistema medico nazionale in Gran Bretagna, poi esteso ad altri paesi europei, ha reso possibile la difesa universalistica del bene comune della salute: un bene, quest'ultimo, la cui difesa consente di contrastare e battere gli interessi privati in ambiti amplissimi della vita sociale, dalla produzione di energia atomica allo smog cittadino. Allo stesso modo possono essere rivendicati con nuovo vigore il bene comune della conoscenza, della formazione pubblica garantita a tutti, un diritto nell'età dello sviluppo che ora si presenta in nuove forme. Ma al di la di ogni elencazione, e mettendo da parte questioni di definizione teorica, quel che vorrei sottolineare è che il concetto di bene comune possiede una fertilità di scoperta e applicazione assolutamente senza confronti. E' sufficiente pensarci un po' e subito si scopre che bene comune è l'etere, privatizzato da tante potenze economiche, l'aria che respiriamo, gli spazi urbani della nostra mobilità quotidiana, la bellezza del paesaggio, il tempo di vita. In realtà, la rivendicazione dei beni comuni è in gran parte l'espressione di un bisogno soggettivo degli individui di riscoprire il tessuto sociale connettivo che li può strappare all'isolamento e all'atomizzazione senza coartare la loro libertà. E' il racconto politico che tende a proteggere gli individui dall'angoscia della modernità, proiettandoli in una storia ricca di senso e in grado di illuminare criticamente i disagi del presente. Raccorda interessi e bisogni multiformi e fornisce a essi una prospettiva conseguibile con la partecipazione, quella prospettiva che negli ultimi decenni è scomparsa dai cieli delle masse popolari e di tutti noi. Infine, non va dimenticato, tale racconto confligge apertamente con la contraddizione fondativa del capitalismo: la produzione sociale di un immenso flusso di ricchezza entro i vincoli stretti dell' appropriazione privata. E oggi, dentro tale contraddizione, non si trovano soltanto delimitati stock di beni e risorse, ma la Terra intera, la casa comune degli uomini, messa in pericolo dal saccheggio privato di forze che minacciano l'universalità dei viventi. E allora si comprende quale elevato grado di consenso tra tutte le classi sociali, culture e religioni, lungo tutte le geografie del pianeta, quale slancio e progettualità può fornire a tutte le nuove generazioni il racconto dei beni comuni.
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La Rete dei comitati toscani per la difesa del territorio si è più volte schierata a sostegno della lotta contro la, Tav in Val di Susa. Non si tratta di un’adesione di principio, ma della condivisione dei dati e degli argomenti del movimento no-tav, offerti al pubblico e ignorati dalle “autorità”; e nello sfondo vi è un nodo politico che va oltre il problema delle inutili e devastanti grandi opere (non tutte, ma molte).
La Tav in Val di Susa è una questione emblematica a livello internazionale (come avrebbe potuto essere quella del Mugello a livello nazionale, un'occasione perduta). Chi tentasse di avere qualche informazione dall’Osservatorio preposto al controllo dei lavori, troverebbe, alla voce “Il progetto: a che punto siamo”, solo quattro paginette generiche: informazioni zero (ma un osservatorio non dovrebbe essere anche il tramite fra progetto e cittadini?). Quello che sappiamo è quanto viene pubblicato, senza smentita alcuna, dalle varie ramificazioni del movimento no-Tav. Chiunque abbia letto il dibattito, in particolare l'intervista a Marco Ponti, le osservazioni della Comunità montana, la lettera aperta indirizzata a Bersani da Ivan Cicconi, oltre i numerosi documenti ospitati da eddyburg, non può non dare ragione agli oppositori della Tav. Fra le tante informazioni due mi sembrano degne di essere sottolineate. La prima è che a seguito dell'accordo nel 2005 Raffarin-Berlusconi, si è stabilito che l'Italia pagherà i 2/3 del costo della tratta internazionale che è la più onerosa e il cui costo dichiarato dal ministro Tremonti (La Stampa 16/09/2010), è di 120 milioni di euro al km, ovvero 1.200 euro al cm (i risparmi solo su statali e pensionati?). La seconda è che l'alta velocità è prevista soltanto sul tratto italiano; non vi è quindi neanche l'alibi di dovere per forza completare un'opera internazionale con caratteristiche unitarie, dal momento che i francesi ben si guardano dal buttare via i soldi (ma in l'Italia non sono buttati, sono trasferiti ai soliti noti).
Tuttavia vi è un problema, a mio avviso, ancora più grave. Sono le 5 domande poste sul manifesto da Beni, Mattei, Pepino, cui nessuno ha dato risposta. Le domande sono molto semplici. Quale credibilità hanno le previsioni di traffico al 2020 e di trasferimento delle merci dalla gomma al treno che giustificherebbero l'opera? Quali sono i vantaggi in termini ambientali dato lo spaventoso impatto del cantiere? Chi paga i costi (20 miliardi naturalmente destinati a raddoppiarsi)? Per inciso, la Grecia – come ha rilevato Paolo Berdini - si è impiccata con le olimpiadi che dovevano modernizzare e sviluppare il paese. Infine: quale è il conclamato effetto positivo sull'economia locale?
A queste domande dovrebbe rispondere prima di tutto Cota, ma anche Chiamparino e lo stesso Bersani. Invece tutti recitano il mantra della modernizzazione e dello sviluppo. Perché lor signori non si degnano di rispondere, magari convincendoci delle loro buone ragioni? Forse perché hanno deciso che l'opera si farà nell'interesse dei costruttori (e delle caste partitiche) e non della collettività? Forse in tutto ciò pesa che la realizzazione della nuova galleria di servizio della Maddalena sia stata affidata alla cooperativa CMC di Ravenna (rigorosamente a trattativa privata)
Un'ultima curiosità, tutta toscana. Cosa risponderebbe il presidente Enrico Rossi investito dalle stesse domande? Sarebbe aperto – come spero - alle voci della società o si allineerebbe al partito dei costruttori (che poi è quello di D'Alema, Conti, Matteoli, Monte Paschi, cooperative, ecc., ecc., e, ahimè, temo anche di Bersani).
La Giunta della Regione Toscana ha proposto alcune modifiche della legge di governo del territorio per adempiere alle disposizioni del Decreto legislativo 70 del 2011 che, fra le altre cose, impone alla Regioni a statuto ordinario di emanare entro 60 giorni una normativa premiale che favorisca ''la riqualificazione delle aree urbane degradate”. Nella proposta di legge toscana vi sono alcune parti interessanti e, a mio avviso, positive, in particolare gli articoli che prospettano ai Comuni un percorso trasparente per formulare gli interventi di 'riqualificazione urbana con la partecipazione dei cittadini. Nonostante che siano esclusi cambi di destinazione (nel meritevole intento di incentivare l'industria manifatturiera), critica mi sembra, invece, la parte che riguarda il miglioramento urbanistico, ambientale ed energetico delle aree produttive: vediamo perché. Il meccanismo premiale previsto si articola in tre tipologie. Prima tipologia: un edificio industriale in situazione di degrado può essere ristrutturato o sostituito con un incremento di superficie utile lorda (Sul) del 20%. Si tratta della situazione di tanti impianti obsoleti o dismessi nelle periferie urbane, che tuttavia, tipicamente hanno rapporti di copertura estremamente elevati, spesso occupano l'intero lotto. Qui si tratterebbe di ridurre e non di incentivare un ulteriore incremento di superficie, peraltro nella grande maggioranza dei casi impossibile, a meno di un cambiamento di destinazione d'uso che consenta di andare in altezza. Seconda tipologia: un'area industriale, anch'essa obsoleta, da trasformare in APEA. Il caso tipico è il macrolotto uno di Prato, 150 ettari di capannoni per l'industria tessile, almeno il 30% dismessi. Qui il meccanismo premiale prevede la possibilità di un incremento del 40% della Sul; peccato che nel macrolotto la superficie coperta territoriale sia circa il 70%, difficile che si possa possa raggiungere il 110%. Trasformare il macrolotto in APEA significherebbe ridurre questo indice spaventoso (con coperture fondiarie del 100%) almeno della metà per consentire un'adeguata dotazione di verde e servizi, altro che ulteriori espansioni! La terza tipologia prevede un trasferimento delle attività industriali in un'APEA esistente o di progetto, con un premio anch'esso del 40% rispetto alla Sul esistente; in questo caso, il meccanismo potrebbe addirittura incentivare nuovi consumi di suolo, contro le intenzioni del legislatore toscano.
Il vizio di fondo è evidentemente nel Decreto legge del governo che, per funzionare, implica un'economia che tiri e la possibilità di cambiamenti di destinazione d'uso, tanto per dire cambiamenti dall'industria a residenze o centri commerciali. Esclusi questi (giustamente), non sono certo gli ampliamenti di superficie, in una situazione di crisi dell'industria manifatturiera con tanti capannoni vuoti, a incentivare gli investimenti degli imprenditori. Ma l'errore è anche cercare di affrontare con una legge generale una casistica complicata e articolata in tante situazioni diverse tra loro, che richiedono piuttosto una buona pianificazione attenta ai contesti specifici. Sarebbe meglio, perciò, se la Regione Toscana cercasse di ridurre i danni del Decreto che, oltretutto, prevede la possibilità di contenere gli incrementi di superficie al 10% e adottasse una strategia qualitativa piuttosto che quantitativa per affrontare il problema. Ad esempio, istituendo un tavolo con i Comuni per discutere altri tipi di incentivi come l'esenzione degli oneri di costruzione o dell'ICI per gli imprenditori che vogliano migliorare la qualità ambientale ed energetica dei loro stabilimenti. Dunque, se la Regione Toscana ha cercato di utilizzare uno strumento concettualmente perverso 'a fin di bene', tuttavia i provvedimenti proposti sono inefficaci da un punto di vista del rilancio economico e sbagliati da un punto di vista tecnico. Infine, è auspicabile che gli articoli riguardanti le aree produttive siano inseriti in un provvedimento diverso, magari a termine (viste le analogia con il cosiddetto 'piano casa') e non inseriti in una legge fondamentale di governo del territorio; in fin dei conti si tratta di una strategia 'edilizia' subita piuttosto che voluta, mentre ben altri provvedimenti sono necessari per il rilancio e la riconversione in chiave competitiva e moderna delle attività industriali toscane.
Habent sua fata verba. Anche le parole hanno il loro destino nel confuso universo del dibattito pubblico. Il termine moderato, ad esempio, è di quelli cui sembra arridere un imperituro favore, continuamente rinnovato, anche quando esso appare sostanzialmente falsificato dalla realtà dei fatti. Così può accadere che, per spiegare la vittoria di Giuliano Pisapia a Milano, gli si attribuisca un sostanziale moderatismo, confliggente con l'area di sinistra che lo ha candidato. Un caso in cui appare esemplarmente la confusione concettuale e semantica che domina spesso il dibattito corrente. Si scambia la mitezza dei modi della persona con il suo programma politico. A Milano, casomai è stato battuto, già alle primarie, il debole progetto moderato avanzato dal PD, destinato a probabile insuccesso.
Ma perché il termine moderato gode di tanto pubblico favore? Esso incassa abusivamente i meriti indubbi della virtù morale che definisce in origine. La moderazione – dal latino modus, misura, medietà – è una encomiabile proprietà dell'uomo saggio e mite, che rifugge dagli eccessi. Un ideale di umanità che la civiltà romana mise in cima alla sua gerarchia di valori. Ma il passaggio dalla morale dell'uomo alla lotta politica e alla strategia dei partiti non sempre lascia inalterata quella eccellente virtù. In Italia, ad esempio, possono verificarsi imbarazzanti paradossi. Il PDL ha sempre preteso di essere un partito moderato. Eppure esiste oggi, sulla scena pubblica italiana, un personaggio più smodato, intemperante, eccessivo, disordinato di Berlusconi?
Perché il moderatismo politico oggi non è una virtù, ma, al contrario, la conclamata perversione di una politica riformatrice? A renderla tale sono fenomeni vari e complessi, riassumibili nella trasformazione subita dai partiti politici. Tutti, infatti – salvo quelli definiti radicali – ricercano oggi il “centro”, come un tempo i cavalieri medievali cercavano il sacro Graal. Essi puntano, cioé, a disporsi in una posizione intermedia fra le classi sociali allo scopo di rappresentare gli interessi moderati che si immaginano dominanti nella società. E' una scelta che mira dritta al successo elettorale e che non ha nessun progetto di trasformazione della società. I “moderati” assumono le gerarchie esistenti, i rapporti di forza dati non come il terreno di un progetto di trasformazione, ma come un principio di realtà. Si parte dallo status quo e dal potere su cui si regge, per rappresentarlo con messaggi politici e per svolgere un 'opera di mediazione e di raccordo con le più varie figure sociali, pensate come elettori, più che come articolazioni di una gerarchia di classi. Gli esponenti del moderatismo sono, dunque, gli agenti di un nuovo «mercato della politica», impegnati a vendere messaggi in cambio di consenso per la propria riproduzione di ceto. Per la verità il moderatismo – che non è nato ieri – non sempre ha svolto un ruolo così apertamente parassitario. La Democrazia Cristiana, ad esempio, tra gli anni '50 e '70, ha realizzato una politica moderata, che ha assorbito e neutralizzato vasti settori reazionari ed eversivi, presenti nella società italiana , imponendo, talora, forme contenute ma efficaci di modernizzazione capitalistica. Ma oggi ? Sotto il profilo culturale il moderatismo rappresenta la perpetuazione di un conformismo ideologico fra i più vasti e totalitari che l'umanità abbia conosciuto. Esso si fonda interamente sul “senso comune” neoliberista, un insieme di convinzioni dottrinarie fra le più estremiste della nostra epoca. Promuove, infatti, il sostegno incondizionato alla crescita economica, immaginata come il motore da cui discendono poi a cascata, per virtù del mercato, tutti i vantaggi distribuibili tra i vari ceti sociali. Ma è ancora così ? O non è diventata nel frattempo la crescita una fonte, per nulla moderata, di distruzione, sia sociale che ambientale? Basta un rapido sguardo storico per accorgersene. Forse che non è cresciuta l'economia USA negli ultimi 30 anni? Eppure gli americani hanno visto aumentare l'intensità e la durata della loro giornata di lavoro. In tale ambito sono ritornati indietro di quasi un secolo. Mentre l'insieme delle relazioni umane tendono, per dirla con Bauman, a liquefarsi. Non è cresciuta l'economia europea nello stesso periodo? Eppure la disoccupazione, già prima della crisi, è aumentata, solo in parte contenuta dal dilagare del lavoro a tempo determinato. Una intera generazione di giovani, in diversa misura da Paese a Paese, è stata gettata nel limbo dell' incertezza e della precarietà. Sono nati nuovi poveri, la disuguaglianza ha raggiunto picchi da antico regime, è dilagata l'infelicità sociale. E che cosa ha di moderato una crescita economica che rende sempre meno vivibili le nostre città, che viene distruggendo le risorse naturali a un ritmo insostenibile, che sta modificando il clima, che minaccia la possibilità di vita di intere regioni e popoli della terra nei prossimi decenni?
Il termine radicale non ha fortuna, perché esso è – nel linguaggio corrente – sinonimo di estremo. E dunque estremista, che oggi, in politica, è peggio di un insulto. Eppure, il pensiero teorico della sinistra aveva da tempo provveduto a disinnescare l'equivoco. E' ancora permesso citare Lenin ? Qualcuno ricorda almeno il titolo di Estremismo malattia infantile del comunismo ? Ma è stato Marx a insegnarci che radicale significa «andare alla radice delle cose», affondare lo sguardo in profondità, nei meccanismi costituitivi dei processi materiali: e quindi compiere un disvelamento dei fatti sociali occultati dalle idee ricevute, dal conformismo, dal belletto ideologico dell'industria culturale. Scorgere la distruttività fondativa del capitalismo. Giacché mai come oggi è stata tanto vera l'affermazione, dello stesso Marx, secondo cui «le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti»
Dunque, la politica che non voglia essere moderata, ma che ha l'ambizione di incidere negli equilibri sociali con modalità riformatrice, ha l'obbligo di una lettura radicale del capitalismo del nostro tempo, deve essere consapevole della sfida che ad essa pone il gigantesco “fallimento del mercato” ereditato dal trentennio neoliberista. Appare oggi evidente che essa può avere successo se si impegna a risalire la china di una sconfitta storica, di rapporti di forza impervi. Altrimenti soccomberà alla logica moderata della mera gestione dell'esistente. E come può farlo ? Come si può, ad esempio, in Italia – dove il 10% delle famiglie detiene quasi la metà della ricchezza – ridare equità alla distribuzione dei redditi? Come si può rimettere in piedi la nostra Università, dare un futuro alla ricerca e alla gioventù studiosa senza generosi investimenti? E' evidente che occorre sconfiggere interessi potenti e consolidati. E il tentativo può avere successo solo se sostenuto dalla forza di una mobilitazione conflittuale di inusuale ampiezza. Ma questa non è una invocazione di fede.
La società italiana, tanto per restare al nostro Paese, ribolle di conflitti. Spiace dirlo, ma nell'analisi dei risultati elettorali recenti pochi commentatori si sono ricordati delle lotte che da due anni occupano la scena pubblica nazionale. Gli insegnanti della scuola e le famiglie , gli studenti, i precari della ricerca, gli operai delle fabbriche in crisi, la FIOM e la CGIL, gli extracomunitari resi schiavi nelle nostre campagne, le popolazioni minacciate dai rifiuti o da impianti inquinanti, il “popolo viola”, le varie associazioni in difesa della Costituzione, i centri sociali e , finalmente, le donne: tutti hanno protestato. Qualcuno si è chiesto quale nuova immagine dell'Italia, delle sue condizioni reali, al di là delle finzioni televisive, hanno tramesso questi movimenti a tutti gli italiani? Quale collettiva critica dell'esistente hanno promosso ? Essi rappresentano i portatori di bisogni avanzati, l'energia del conflitto, una inedita creatività, le nuove culture e le forme inedite della loro comunicazione e diffusione. Una politica radicale comprende che le trasformazioni non si conseguono tramite accordi tra capipartito, per abborracciare qualche traballante governo. La possibilità di una modificazione profonda della condizione italiana passa attraverso l'unificazione entro un progetto comune di società di questa moltitudine di voci e di bisogni. Ed essa non va pensata solo come un bacino elettorale, ma deve essere resa protagonista, coinvolta in un processo partecipativo senza precedenti alla lotta politica. Trasformazione grazie a un di più di democrazia. E' un compito di grande difficoltà. Ma qui e solo qui sta la nuova frontiera della politica per la sinistra del nostro Paese.
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Fra le novità che emergono dal primo turno delle elezioni amministrative, l'arretramento della Lega è certo la più sorprendente. Le aspettative di una ulteriore avanzata sono state smentite. Ma questo è il dato di partenza. Come già alcuni osservatori hanno messo in evidenza, la Lega che esce da queste elezioni si trova stretta dentro sempre più evidenti difficoltà. Io direi che è finita in un cul de sac di contraddizioni insostenibili.
Non è solo il dispositivo tattico del «partito di lotta e di governo» che si sta rompendo. Probabilmente si è consumato uno spiazzamento strategico più profondo. Per afferrare la novità che il risultato elettorale comincia a rendere evidente è necessario svolgere una breve considerazione preliminare. E' necessario rammentare la diversità originaria di questa formazione politica. La Lega è nata per coagulare e dar voce a un risentimento collettivo. La recriminazione di ampi ceti e territori rimasti privi, per anni, di rappresentanza e di ascolto nel governo e nel Parlamento. Una sorta di autoidentificazione conseguita per contrapposizione al potere centrale – “Roma ladrona” - e a un Mezzogiorno rappresentato come un corpo parassitario in preda alle scorribande della malavita. Più tardi un nuovo nemico esterno, i clandestini, è stato utilizzato con la stessa funzione. Dunque, e com’è noto, una delle forze propulsive della Lega è stata la sua carica “antipolitica”, la critica e la denigrazione del ceto politico tradizionale, che rappresenta un “comune sentire” degli italiani da almeno un ventennio. Il suo populismo è stato sempre più autentico di quello mediatico berlusconiano, perché legato ai territori, a ceti produttivi istintivamente portati a vedere come impacci le mediazioni e i rituali della politica, i tempi lenti delle istituzioni.
Ma in quest'ultima esperienza di governo i dirigenti nazionali della Lega non solo sono apparsi a loro agio dentro i fasti imperiali di “Roma ladrona”. Non solo hanno tenuto il sacco, in ogni occasione, alle più sordide prove pubbliche e private del presidente del Consiglio, mostrando una subalternità al Capo che ha incrinato non poche sicurezze. Un Bossi che si contorce e inventa fasulle opposizioni interne al governo, destinate a sciogliersi come neve al sole il giorno dopo, appare non più libero, consegnato mani e piedi al magnate di Arcore. Il grande capo della Lega, per riprendere il suo gergo, finisce coll' apparire sempre più, anche ai suoi, come un “contaballe”. Ma occorre anche aggiungere che, in questa discesa negli inferi della più squallida politica, i leader della Lega sono apparsi , volenti o nolenti, compagni di governo di un gruppo politico che varie indagini della magistratura hanno mostrato come una ramificata “cricca” affaristica. Non è tutto. Negli ultimi mesi niente ha potuto più nascondere che la Lega fa parte di un Governo tenuto in piedi dal più sconcio mercato di piazza di parlamentari mai verificatosi nell'Italia repubblicana.
Ora, è vero che Bossi fa appello al residuo fondo di cinismo nell'animo dei suoi elettori, per poter tagliare il “grande traguardo” finale. La traversata del deserto per giungere alla terra promessa del federalismo. Una sorta di fine della storia, il paradiso conclusivo in cui i popoli della Padania si assesteranno finalmente pacificati e felici per i decenni avvenire. Ma raggiungere l'obiettivo finale, per un movimento, non solo fa venir meno le ragioni per continuare a marciare. Il risultato nasconde un altro rischio. Scoprire che il federalismo fiscale non cambia gran che nella vita delle persone e dei territori, e che la storia non è finita, ma continua come prima e forse peggio, può generare cocenti delusioni di massa.
Da un punto di vista sostanziale, il federalismo fiscale è destinato a restare a lungo una scatola vuota, uno slogan sempre più inservibile. I suoi risultati economici e politici si vedranno – se tutto dovesse andare per il meglio – a distanza di anni. Ma per il momento niente potrà impedire che gli amministratori locali della Lega, appaiano come severi esattori di un fisco sempre più esigente. La responsabilità fiscale ha un lato scomodo che molti sindaci e assessori dovranno sperimentare a proprie spese. Questa riforma dello Stato, infatti, non solo non è a costo zero, ma deve fare i conti con la presente situazione economica e con la feroce politica deflattiva della UE. Tonino Perna su questo giornale, è arrivato a ipotizzare, che essa è un modo per “decentrare “ il debito pubblico. Ora, rammentiamo che Tremonti è, per unanime opinione, l'uomo della Lega nel Governo. Ma lo stesso Tremonti è il severo applicatore in Italia di quella politica, che colpisce tutti, ma non meno di altri i ceti produttivi che la Lega pretende di rappresentare. E anche su questo versante le contraddizioni tra il governo e “il popolo della Padania” diventano stridenti.
Di recente si è visto che la presenza al governo non è servita neppure per arginare i flussi migratori ingigantiti ad arte da Maroni. Ma è apparso anche a tanti uomini semplici da quale giganteschi problemi mondiali proviene l'emigrazione che oggi attraversa l'Europa. Che può fare la piccola Lega di fronte a un mondo così apertamente ingovernabile? Al cospetto di tali scenari tramonta anche la minaccia secessionista. Le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità sono state così calorose, in Italia, non per un rinato patriottismo, ma per evidente ostilità nei confronti degli atteggiamenti antiunitari della Lega. Dietro cui sta una ragione evidente: in un mondo spazzato dalle scorribande delle forze finanziarie transnazionali, se già lo Stato–nazione appare insufficiente a difenderci, che cosa potrà mai una strana patria chiamata Padania, di cui non sono visibili né i confini, né tanto meno le dogane? Nel frattempo si è già appannata l'immagine mitologica del Nord immune dai fenomeni criminali, che serviva a marcare la lontananza e la diversità del Sud. E la patria onesta e laboriosa delle origini, anche da questo lato, svapora. La criminalità mafiosa è operosa anche al Nord.
E vero che la Lega, in tante realtà locali è anche buona amministrazione, servizio ai cittadini. Ma il fondo culturale che la sorregge è privo di forza e di progetto, quando non escludente e rancoroso nei confronti degli esterni. L'ancoraggio della Lega al cosiddetto territorio è privo di una cultura del territorio. Basti dare uno sguardo a che cosa è accaduto alla geografia del Nord-Est, sconvolta da una cementificazione caotica che oggi penalizza anche le attività produttive che doveva servire. Paradossalmente, in Italia una cultura territoriale ricca e avanzata esiste da tempo, anche se di rado prende forma di rappresentanza politica. Mi riferisco non solo a quanto hanno prodotto negli ultimi anni i vari movimenti ambientalisti, ma anche a quella potente leva di immaginario che è stata ed è l'elaborazione di Slow Food. Un nuovo racconto culturale che ha riempito i luoghi di cucine, prodotti, agricolture, tradizioni, apertura al mondo. La stessa cura di quell'immenso patrimonio che è il nostro paesaggio, e che imprime al nostro territorio una connotazione unica, da chi è venuta ? Non certo dalla Lega. Anche qui occorre cercare a sinistra, a Italia Nostra, al FAI, alla Rete dei Comitati coordinata da Asor Rosa, al sito eddyburg di Salzano. E ora si potrà guardare anche alla Società dei territorialisti, promossa da Alberto Magnaghi, che raccoglie le numerose intelligenze che in Italia si occupano di territorio.
Dunque, in questa fase, la Lega vede liquefarsi gran parte delle ragioni della sua forza e non può tornare all'opposizione, senza rischiare l'insignificanza. Deve restare attaccata al governo e condividere tutte le abiezioni in cui sarà trascinata in questo finale di partita. E qui occorre rammentare che la “maggioranza del popolo italiano” di cui così tanto, in questi anni, si è vantato Berlusconi, in realtà non era che il frutto di un patto politico tra forze diversissime tenute insieme dall'abilità indubbia ( ma anche dal potere televisivo) del premier. E' noto: si è sfilato prima Casini, poi Fini, tardivamente, dopo aver commesso l'errore capitale di gettare AN nell'inghiottitoio del PdL. Oggi occorre mostrare agli elettori della Lega che le vele di questo partito si sono afflosciate e nessun vento le gonfierà. Anche quest'ultimo anello della catena si sta rompendo, bisogna spezzarlo definitivamente, ed il Grande Gioco di Berlusconi è finito.
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Gli auguriamo naturalmente un ampio successo nella sua attività di governo: a tutti è noto quanto bisogno abbiano il nostro patrimonio culturale e il nostro paesaggio di una politica finalmente adeguata alla loro straordinaria importanza.
Mentre il ministro sarà oggi in visita al sito archeologico campano, comincerà il suo percorso parlamentare il decreto legge 31 marzo 2011 , n. 34 contenente, fra l’altro, disposizioni urgenti in favore della cultura.
Ed è sull’articolo 2 di tale decreto, quello dedicato ai provvedimenti in favore di Pompei, che desideriamo attirare l’attenzione del ministro.
Al contrario di quanto autorevolmente affermato sui media e in sede governativa, nel decreto non vi sono per Pompei risorse economiche aggiuntive certe: non un euro proviene dalle casse ministeriali in più dei fondi normalmente in dotazione alla Soprintendenza autonoma di Napoli e Pompei. E non solo ci si affida all’ipotesi di eventuali risorse messe a disposizione dalla Regione Campania (in condizioni finanziarie non esattamente floride), ma il comma 8 prefigura addirittura trasferimenti di fondi fra Soprintendenze. Peccato che in passato tali trasferimenti abbiano piuttosto seguito un percorso al contrario, abbiano cioè comportato il passaggio di risorse finanziarie dalla Soprintendenza pompeiana (d’altro canto di gran lunga la più ricca) ad altre in maggiori difficoltà.
Riequilibri e aggiustamenti non sono peraltro riprovevoli in sè, soprattutto nella disastrata situazione economica in cui versa il Mibac, ma è a dir poco contraddittorio che in un decreto che dovrebbe stanziare risorse aggiuntive si prevedano storni che non potranno che essere in una sola direzione.
Ancora, per quanto riguarda le risorse in termine di personale, del tutto avventate ci sembrano, rispetto al dettato del decreto, le cifre pur autorevolmente avallate di 30 archeologi e 40 operai da ssumere ex novo: i 900.000 euro peraltro già nella disponibilità del Mibac consentiranno un massimo di 25-30 assunzioni complessive (e si tratta, beninteso, di uno sforzo non esiguo).
Ma ben più grave, sotto il profilo della legittimità, appare il comma 6 che consente interventi - di qualunque natura - in deroga agli strumenti di pianificazione urbanistica e rappresenta quindi l’ennesima, ingiustificabile sanatoria a priori.
In un territorio quale quello campano gravato da decenni di abusivismo che hanno degradato uno dei paesaggi fra i più celebrati al mondo si vuole quindi consentire l’ennesimo strappo alle regole, peraltro senza alcuna reale necessità legata alle esigenze di conservazione e tutela in senso ampio dell’area archeologica.
Affinchè questo nuovo corso che si preannuncia finalmente per Pompei proceda con quella trasparenza necessaria all’importanza della posta in gioco, occorre fare chiarezza sulle risorse disponibili, e dare in via esclusiva alla Soprintendenza Archeologica la gestione di quel programma di manutenzione programmata che, come ci risulta, la stessa Soprintendenza aveva peraltro già elaborato in anni recenti.
La conservazione programmata quindi è la strada maestra, quella pratica che seppur sbandierata come recente acquisizione , ben prima di ora e a ben altro livello di competenza lo stesso ministero aveva saputo concepire: il lungimirante e straordinario Piano Umbria di Giovanni Urbani, vera pietra miliare della storia della tutela, risale al 1974.
Archiviata doverosamente la disastrosa stagione dei commissariamenti (ma lo stesso si deve fare, da subito, per l’area archeologica centrale di Roma e per L’Aquila) nessuna scorciatoia amministrativa è riproponibile, ma piuttosto si deve mirare ad una collaborazione allargata con professionalità di consolidata esperienza (archeologi, architetti e restauratori di sicura competenza pompeiana) quali peraltro abbondano fra gli studiosi stranieri . Pompei torni ad essere il nostro biglietto da visita: un laboratorio internazionale così come avveniva fin dagli anni Sessanta del secolo scorso.
Un cantiere di restauro a cielo aperto accessibile ai visitatori (non quello finto e perciò fallimentare della Casa dei Casti Amanti) come pratica di valorizzazione ben più efficace dei ricorrenti e risibili progetti in stile “Disneyland peplum”, inequivocabile sintomo di provincialismo culturale.
Senza rifare per l’ennesima volta operazioni di documentazione e rilievo già compiuti in passato anche recente, disponibili e tutt’al più aggiornabili con costi limitati. E senza distorcenti aspettative nelle salvifiche virtù della tecnologia (dalle nuvole di punti alle ricostruzioni in 3D) che se non inserite e rigidamente verificate all’interno di una pianificazione di attività complessiva, finiscono inevitabilmente per produrre disastrosi risultati quanto a rapporto costi/benefici.
Ma la prima azione che invitiamo il ministro a intraprendere con decisione è, senza ombra di dubbio, il ripristino della legalità: a partire dalla più ferma opposizione ad ogni iniziativa di condono e a provvedimenti che a qualsiasi titolo consentano operazioni in deroga alle norme vigenti.
La rinascita di Pompei non può che essere fondata su di un sistema di regole certe e trasparenti; in tal senso il sito archeologico deve essere l’esempio di quel ritorno ad una corretta pratica di governo del territorio che costituisce il primo e più efficace strumento per la difesa del nostro paesaggio e del nostro patrimonio culturale.
Il testo costituisce una versione rielaborata di un comunicato predisposto dall'autrice per Italia Nostra
Che la democrazia versi in più o meno precarie condizioni, in tutti i paesi in cui essa è nata o si è sviluppata nella seconda metà del Novecento, è un fatto abbastanza noto. Almeno a coloro che hanno letto qualche libro di analisi politica negli ultimi anni. Basterebbe rammentare il fatto che la democrazia è nata ed è anche cresciuta all'interno dei territori nazionali ed oggi deve fare i conti con poteri che si muovono senza frontiere, sulla base di leggi che spesso questi medesimi poteri impongono ai governi. La subalternità del ceto politico - quello che forma per l'appunto i governi e gli Stati - al potere economico e finanziario costituisce uno degli elementi di corrosione degli istituti democratici che si erano formati nel secolo scorso. Occorre aggiungere che la competizione inter-capitalistica a livello mondiale è arrivata a un tale grado di asprezza, che gli ordinamenti democratici vengono vissuti sempre più, dalla grande imprenditoria capitalistica, come una camicia troppo stretta.
Da qui la richiesta di messa in discussione dei diritti sindacali, degli accordi contrattuali, della dignità del lavoro, ridotto a merce flessibile e precaria. La democrazia diventa un ostacolo al mercato e va adattata alle sue regole. Ma così diventa un simulacro. In Italia, tuttavia, il fenomeno ha aspetti particolarmente gravi. Da noi il potere economico non si limita a condizionare il governo. In Italia è accaduto l'impensabile. Un imprenditore è diventato egli stesso il presidente del consiglio. Ma non un imprenditore qualunque, un grande magnate della tv, ossia il proprietario monopolista dello strumento principe con cui si fa la politica nel mondo attuale.
C'è di più. Questo presidente del Consiglio ha ai suoi ordini il più abietto ceto politico che abbia mai calcato la scena pubblica nella storia dell'Italia contemporanea. Non è un'invettiva moralistica ma, da storico, una constatazione freddamente politologica. Mai si era visto un'intera maggioranza di governo umiliata al punto da fare propria la più inverosimile delle menzogne per difendere il proprio premier (la nipote di Mubarak). Mai si era visto nel Parlamento italiano trionfare un così spudorato mercato dei posti di parlamentare. Moralismo? Ma l'abiezione morale dei parlamentari dei Pdl e dintorni è la condizione politica perché il presidente del consiglio possa usare le istituzioni dello Stato per fini strettamente personali, senza che questo crei dissenso e contrasti all'interno del governo e della maggioranza. Ed è anche la condizione sostanziale perché il magnate Berlusconi possa estendere la sua maggioranza con strumenti di persuasione che nessun altro possiede. Nel frattempo, perché si possa trasformare la menzogna in verità viene attaccato un potere fondamentale dello Stato, denunciati i giudici come golpisti, comunisti, persecutori di chi comanda grazie al voto popolare.
È democrazia questa? Certo, non ci sono i carri armati per le strade, le tipografie dei giornali nemici non sono incendiate, gli oppositori non sono buttati in galera. Ma si commette un grave errore di valutazione pensando che la democrazia possa morire violentemente come lo Stato liberale e sottovalutando gli aspetti etico politici della questione. Ricordiamo che la democrazia vive anche dell'ethos storico che anima le sue istituzioni. Se questo si spegne, muoiono anche i suoi istituti e noi siamo un paese fragile dove dilaga la corruzione, un paese che vanta l'infelice primato di possedere tre delle maggiori forme di criminalità organizzata del pianeta. Si indovina quale può essere il seguito della nostra storia? Di fronte all'inaudito dobbiamo solo gridare il nostro sdegno? Dobbiamo limitarci a protestare educatamente?
La proposta paradossale di Asor Rosa - equivocabile quanto si vuole - era un'evidente provocazione, frutto di una situazione moralmente intollerabile, che voleva fare scandalo. E lo scandalo occorre suscitarlo, perché le democrazie possono morire in molti modi, anche per stanchezza e rassegnazione. La canea suscitata sul Foglio da Giuliano Ferrara - un fine intellettuale, noto per il suo disinteresse personale e per sua coerenza politica, che ha dato contributi fondamentali alla cultura italiana - non mi stupisce. Continua nel suo mestiere di servire il Principe facendo finta di avere a cuore le sorti dell'Italia. Ma il manifesto bipartisan pubblicato sul Foglio del 15 aprile «contro l'antidemocrazia intollerante e anticostituzionale», firmato da parlamentri Pdl e Pd, dà le vertigini per la sua grottesca stupidità. È Asor Rosa la minaccia alla democrazia? Silvio Berlusconi sta facendo a pezzi la nostra Costituzione e si sottoscrive un manifesto con i suoi accoliti contro un intellettuale che ha reso un po' più degno vivere in questo Paese?
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In un celebre brano della Ricchezza delle Nazioni, Adam Smith osservava «Le cose che hanno il maggiore valore d'uso hanno spesso poco o nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno maggior valore di scambio hanno spesso poco o nullo valore d'uso. Nulla è più utile dell'acqua, ma difficilmente con essa si comprerà qualcosa (...) Un diamante al contrario, ha difficilmente qualche valore d'uso, ma in cambio di esso si può ottenere una grandissima quantità di altri beni». A quasi due secoli e mezzo di distanza possiamo misurare il cammino percorso nel frattempo dal capitalismo. Quella che era una risorsa fondamentale alla vita umana, ma libera, perché non appartenente a nessuno ( res nullius) e priva di valore in quanto straordinariamente abbondante, è oggi diventata una preziosissima merce. E' il diamante della nostra epoca. La sua scarsità in rapporto ai bisogni della popolazione, e le possibilità tecniche della sua distribuzione e partizione la rendono un bene di mercato. Ma l'acqua che diventa merce non racconta solo un tratto di storia, ci parla anche del nostro presente e ci proietta negli scenari dell'avvenire. Le risorse fondamentali dell'umanità, la terra fertile, le foreste, i mari, il patrimonio genetico delle piante agricole, la biodiversità, l'aria salubre, i minerali e le fonti di energie del sottosuolo, proprio perché diventano sempre più scarsi, e in virtù delle crescenti possibilità tecniche del loro utilizzo, si trasformano in merci sempre più ambite e «recintabili» dai privati. L'accaparramento oggi in corso delle terre agricole in Africa, da parte della Cina, Arabia Saudita, ecc. ci illustra con eloquenza il fenomeno ormai in atto. Così possiamo facilmente prevedere l' aspro conflitto che si para davanti a noi. Mentre finalmente prendiamo atto che le risorse non sono infinite, e che essendo indispensabili per la sopravvivenza stessa dell'umanità, non appartengono ai singoli paesi, ma sono patrimonio di tutti i viventi, il capitalismo tende a trasformare la sopraggiunta scarsità in nuovi territori di profitti privati. Anzi – come ad esempio nella imposizione di brevetti su piante che appartengono alla sapienza degli indigeni – esso crea una scarsità artificiale attraverso l'istituzione di un monopolio su un bene che prima apparteneva alle comunità locali.
Ora, la difesa teorica che sta alla base di tale predazione, che può condurre l'umanità a dilaniarsi in guerre distruttive, sta tutta in una argomentazione molto semplice, a cui gli economisti di varie tendenze danno da tempo dignità culturale. I privati – essi sostengono – investono i propri capitali in queste risorse e le valorizzano, le rendono più facilmente disponibili: ad es. nel caso dell'acqua costruendo acquedotti, provvedendo alla loro manutenzione, ecc. I privati ricavano certo dei profitti dai pagamenti dei cittadini-utenti, ma proprio quei profitti attesi li spinge all'efficienza economica, alla cura e conservazione della risorsa, con vantaggio, dunque, generale. La gestione pubblica è invece inefficiente e fallimentare.
Proverò a mostrare che, l'argomentazione non regge né alla prova della storia, né della teoria. E ' noto che in Italia, tanto l'acqua potabile che altri servizi, per buona parte dell''800 furono gestiti da società private. I risultati furono talmente fallimentari, sia sotto il profilo dei prezzi agli utenti che della qualità del servizio, da convincere non solo i socialisti, ma anche i cattolici e gli stessi liberali a municipalizzare l'acqua delle città. Come ha ricordato di recente un giovane storico, Lorenzo Verdirosi, perfino Luigi Einaudi, se ne persuase, affermando che «quando un servizio assume carattere monopolistico non resta per l'ente pubblico che la soluzione della gestione diretta» E i comuni italiani hanno poi scritto una pagina positiva e importante per la diffusione delle risorse idriche nelle piazze e nelle case degli italiani.
La base dell'errore teorico che assegna il primato dell'efficienza ai privati in ambito di gestione dei beni comuni sta in questa convinzione: l'assenza di una ricerca del profitto priva la gestione pubblica di quel rigore nei conti economici che alla fine sfocia nelle passività di bilancio e nel collasso. La sottrazione alla libera competizione nel mercato le fa mancare gli stimoli all'innovazione tecnologica, ecc. Ma è proprio così? La storia dell'economia italiana offre un buon repertorio di smentite in proposito. Forse che l' ENI o la Società Autostrade hanno fatto mancare profitti alle casse pubbliche, finché erano statali, o non sono stati capaci di innovazione? E tuttavia, quando si gestiscono beni comuni, il fine non è il profitto, ma la distribuzione ottimale di un bene o di un servizio. In questo caso è la finalità sociale a essere preminente. Certo, la cattiva amministrazione non è mai rivoluzionaria. Ma non è la ricerca di soddisfare l'interesse collettivo, con criteri di economicità ( e non di profitto) il punto debole della gestione dei beni comuni. E' l'invasione da parte dei privati – in Italia gruppi e correnti dei partiti politici – che alterano la buona amministrazione pubblica. Dunque, quello che è un problema di trasparenza, di controllo partecipato dei cittadini, insomma una questione di democrazia, viene trasformata in un principio ideologico: solo l'egoismo privato del profitto garantisce l'efficienza!
Ma l'egoismo privato è efficiente, socialmente vantaggioso? Ricordiamo che tale principio ideologico ha assunto la guida monopolistica dell'economia mondiale da almeno 30 anni. Chi non ricorda il refrain che uno dei padri del neoliberismo, Milton Friedman, premio Nobel per l'economia nel 1976, ripeteva nelle sue interviste? «Il fine di ogni impresa è fare profitti» Ebbene, non pare che tale fine supremo, applicato a un bene pubblico come la salute, abbia portato efficienza e vantaggi generali alla sanità americana, la più costosa e iniqua dei paesi avanzati. Né sembra che esso abbia impedito la messa in atto di truffe colossali ai danni dei cittadini e dei risparmiatori, come ha provato la vicenda, ad esempio, di Enron Corporation o di Parmalat. Tanto per limitarci a casi universalmente noti. E che cos'è, del resto, la Grande Crisi dei nostri anni se non la somma generale dei singoli e ciechi egoismi privati? Ma noi in Italia possiamo offrire esempi sontuosi di “successo” di tale principio. Forse che i casalesi raccontati da Saviano o gli 'ndranghetisti analizzati dal giudice Nicola Gratteri non perseguono, con stringente razionalità economica, e con successo , lo scopo del loro privato profitto, ammazzando chi lo contrasta? Non realizzano profitti le imprese del Nord Italia che smaltiscono clandestinamente rifiuti tossici, avvelenando i terreni agricoli e probabilmente anche i mari, di tante regioni del Sud? E allora, chiediamo: che fine fa l'interesse generale, la legalità, la vita associata, che cosa possono le leggi di uno Stato, se l'interesse privato diventa non solo il criterio di gestione di beni collettivi, ma alla fine, inevitabilmente, un principio regolatore dell'etica pubblica?
Il referendum per l'acqua pubblica, dunque, non è solo una singola partita da vincere. E' un passaggio strategico fondamentale. Perché esso può schiudere un orizzonte nuovo di lotte per la trasformazione radicale della società capitalistica. Da quella possibile vittoria si può partire per annettere ai territori dei beni comuni, non solo quelli che sono appartenuti al welfare novecentesco (salute, istruzione, casa) ma anche i nuovi e sempre più irrinunciabili da sottrarre alla predazione del mercato: le terre agricole, l'alimentazione, la biodiversità, la salubrità ambientale, l'energia, il lavoro.
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Il costruttore Gualtiero Cualbu al quale i giudici del Consiglio di Stato vietano oggi di edificare a Tuvixeddu, paragonò con squisitezza gli ambientalisti a “un cancro per la città”. Ma noi, che siamo ambientalisti e anche di più, consideriamo un cancro la smania edificatoria che divora Cagliari e riteniamo i palazzi a Tuvixeddu una grave complicanza. L’impresa Cualbu aveva previsto villette e strade nel colle che è la nostra storia, anche quella sentimentale che ci lega a quei luoghi, rocce bianche, falchi, orchidee, un mondo naturale perfetto e una necropoli stupefacente. Il Comune, un’eccezione planetaria, indifferente al valore di quel sito e, si vede, poco sentimentale, è schierato da vent’anni con l’impresa, disposto a difendere i mattoni sino all’estremo grado di giudizio.
La Sovrintendenza, la cui funzione “naturale” di tutela è stata deformata in un’opera di mediazione totale, funzionari che non ammettono l’evidenza dei nuovi ritrovamenti. Più di mille tombe scavate e negate nell’area che i giudici hanno definito unitaria. Per il sovrintendente negazionista Santoni una richiesta di rinvio a giudizio. Per la relazione dell’attuale sovrintendente Minoja basterà forse il pubblico giudizio.
Oggi, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, si deve finalmente considerare tutto il colle un’unità paesaggistica e si può ambire ad abbattere la brutta palazzata già costruita in via Is Maglias. Il valore dei luoghi vince sugli affari e sulla rendita. Crolla la città dei costruttori e si sfalda l’accordo di programma che non è una tavola della legge. Salta per aria l’idea che la comunità sia in debito con l’impresa e vince il principio che, casomai, è l’impresa in debito con la comunità. Insomma, il Bene Comune, opposto al vantaggio di pochi, questa volta non fa capitombolo.
E i danni di immagine minacciati dall’impresa? Be’, un danno di immagine, in effetti, c’è. Ma lo abbiamo patito noi e la città. Cagliari, a causa delle scelte del Comune, di alcuni Sovrintendenti e della stessa impresa, è apparsa nelle pagine di grandi quotidiani italiani ed europei come una città che arriva a ripudiarsi da sé in cambio di palazzine. La città esce ridicolizzata dalla vicenda, altro che capitale, altro che metropoli civilizzata.
Animosa la giunta Soru, coraggiosi tutti coloro che, privi di un interesse personale, hanno speso energie per difendere il colle sacro. L’ex direttore regionale Elio Garzillo, l’ex sovrintendente Fausto Martino, le associazioni ambientaliste - per esempio Italia Nostra che ricorre al Consiglio di Stato - disposte perfino a sentirsi paragonate a un cancro. Greve il tentativo di trasformare i sostenitori del colle in un’associazione a delinquere. Il piemme ha archiviato le accuse a Soru, ai suoi assessori e consulenti. E ha chiesto, dopo inquietanti intercettazioni telefoniche, sette rinvii a giudizio, tra i quali l’ex sovrintendente Vincenzo Santoni.
Il Tar Sardegna, a favore delle costruzioni, contraddetto dalla luminosa sentenza del Consiglio di Stato che prescrive per il colle un regime di tutela “volta alla salvaguardia della relazione di insieme che si è prodotta nella storia tra le diverse testimonianze della civiltà umana e il più ampio ambito del contesto naturale”.
Infine questa è anche la sconfitta della rovinosa mediazione sproporzionata tra un bene fragile (la necropoli) e il potere della rendita. E’ accaduto che due posizioni contrarie e nette si siano battute in tribunale e che il tribunale abbia deciso di proteggere il bene immenso del colle. Dalla mediazione di quelli del “costruiamo un po’ meno e non esageriamo con la tutela” sarebbe nato un mostro.
Oggi possiamo fare della necropoli un luogo di meraviglia. Basta pochissimo, purché vinca l’idea che il progetto perfetto, l’unico possibile a Tuvixeddu, è quello che non si vede perché là, da vedere, devono esserci esclusivamente il colle e i suoi tesori.
L'articolo è pubblicato contemporaneamente anche su la Nuova Sardegna
Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica, avviata negli '80 in Gran Bretagna e in USA, e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati? Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressocché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima. Alla fine degli anni '90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. .Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.
E allora? Com' è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico? Non siamo così meccanicisti da non comprendere la diversità dei piani messi a confronto e la differente temporalità dei fenomeni che si agitano nelle due diverse sfere sociali. Ma la domanda si pone.
Io credo che una prima risposta sia da ricercare in questo esito paradossale: concludendo il suo ciclo nel tracollo economico-finanziario, il neoliberismo ha potuto far tesoro di due esiti politicivantaggiosi. La crisi ha infatti rese acute due gravi scarsità: la scarsità del lavoro e la scarsità di sicurezza. Quest'ultima in parte connessa alla prima. Tali scarsità pongono la classe operaia e i ceti popolari in una condizione di grave asimmetria di potere e forniscono ai ceti dominanti rapporti di forza e materia di manipolazione ideologica in grado di offuscare le sconfitte subite sul piano economico. Come sempre, bisogno e paura sono diventati due formidabili armi di potere.
Ma questa è una parte della risposta. Alla fine del '900 si è consumata una inversione storica per tanti versi stupefacente. Come ha osservato Mario Tronti, sino ad alcuni decenni fa, il movimento operaio aveva una dimensione internazionale a fronte di un confinamento nazionale del capitale. Con tutti i suoi limiti, l'insieme dei paesi comunisti era anche questo: un fronte internazionale. Oggi assistiamo a un capovolgimento completo dello scenario. Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo: una libertà di movimento che è un potere politico inedito contro chi ha perso la sua rappresentanza globale. La capacità di ricatto di Marchionne, che può muoversi liberamente tra USA, Brasile, Polonia, Serbia è, sotto tale profilo, esemplare.
Ma forse il più grande successo politico del neoliberismo- quello che gli consente oggi di avere ancora diritto di parola- è stata la sua presa egemomica sui partiti tradizionali della sinistra e il loro svuotamento come partiti popolari. Vogliamo ricordare quali sono state le parole d'ordine prevalenti – fatte salve le diversità nazionali - dei laburisti britannici, dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, dei comunisti italiani, in tutti questi anni ? Liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato sociale, emarginazione del sindacato, ecc. L'idea che la libertà individuale si dovesse far strada come agente dominante di un nuovo progetto di società, regolato dalle logiche dinamiche e vincenti del mercato, è stato il cuore – tutto di marca neoliberista – che ha sostituito il vecchio patrimonio solidarista e internazionalista. Una resa senza condizioni alle ragioni dell'avversario, che, da un punto di vista culturale, si spiega anche con la tradizione marxista e comunque industrialista della sinistra europea.
L'astrale distanza di queste formazioni storiche dal pensiero ecologico contemporaneo, infatti, ha impedito loro si intravedere un nuovo orizzonte solidale e cosmopolita di fronte alla crisi fiscale dello Stato sociale nei paesi industrializzati e al tracollo dell'URSS. Esaurita la spinta riformatrice dei decenni precedenti, ad essi non è rimasta altra strada, se volevano continuare nella promozione della crescita economica, che quella indicata dall'avversario. Pur tra esorcizzazioni e camuffamenti, il neoliberismo è stato di fatto accettato come la nuova frontiera da seguire. Ma oggi quella nuova religione della crescita, che apparve negli anni '80 come l 'avanguardia di una nuova stagione di modernizzazione e di avanzamento del mondo intero, si mostra in tutta la sua paradossale e stupefacente antistoricità. Era una retroguardia ottocentesca ed è stata scambiata per il fiore in boccio di una nuova stagione dell'umanità. L'individualismo economicistico su cui esso si fondavaè apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile, perché generatore, tra l'altro, della più grave minaccia che l'umanità abbia avuto davanti a sé: l'esaurimento delle risorse, il tracollo degli equilibri ambientali, il riscaldamento climatico. E' paradossale, ma ricco di significati, il fatto che i partiti popolari non abbiano saputo cogliere il nuovo orizzonte di cooperazione e di solidarietà che i problemi ambientali rimettevano al centro della scena mentre si eclissavano quelli delle vecchie ideologie socialiste e comuniste. Essi non hanno saputo vedere come la scoperta di una “Terra finita” e in pericolo, con il corredo delle scienze ecologiche, offrivano un nuovo progetto di società nel quale il bene comune, l'interesse generale, si ripresentava in rinnovate forme universali e drammaticamente cogenti. Un nuovo collante ideologico per una moltitudine di figure e di ceti sociali e al tempo stesso la premessa di un nuovo e più vasto internazionalismo.
Oggi, esattamente il disancoramento dall' “internazionalismo del lavoro”, eredità del passato, e l'inettitudine a comprendere il nuovo, proposto dall'ambientalismo, fanno dei partiti storici della sinistra delle barche di carta nella tempesta. Senza una mèta da seguire, senza energie per affrontare il mare. Nell'immediato, tuttavia, è l'assenza di un internazionalismo del lavoro la debolezza più grave e drammatica. La mancanza di una lettura delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo impedisce di comprendere le distruzioni in atto nel mondo del lavoro. Non fornisce lo sguardo prospettico su ciò che il capitale va preparando, a tutto il lavoro sociale, grazie alla sua capacità di movimento su scala mondiale. Impedisce di prefigurare la gigantesca dissoluzione dei legami sociali e di classe a cui esso è sempre più vitalmente interessato. Il capitale, infatti, oggi colpisce duramente non perché c'è la crisi, ma per il gigantesco potere politico nel frattempo guadagnato sui lavoratori in una fase di aspra competizione intercapitalistica. E allora, che fare?
Io credo che se il capitale è mobile e planetario, altrettanto può esserlo il diritto, la maglia delle regole imposte dalle lotte, dalla politica: anch'essa, del resto, potenzialmente universale. Ma quale soggetto, per esempio in Italia, può muoversi in tale direzione? Dal PD mi sembra assai difficile poterlo pretendere. Dalle catastrofi culturali non si riemerge in breve tempo e per la buona volontà di qualcuno. Dai piccoli partiti di sinistra può venire solo un piccolo contributo. Senza dubbio, la forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL.
Ritengo che oggi non sia più possibile rinviare una discussione spregiudicata e coraggiosa su questa importante forza operaia e popolare, che ha certo svolto una funzione fondamentale di difesa dei lavoratori in tutti questi difficili anni. Ma noi dobbiamo oggi chiederci e chiederlo ai dirigenti, come sia stato possibile che uno dei sindacati più potenti d'Europa – e forse il più ricco sotto il profilo patrimoniale - abbia potuto consentire un così drammatico arretramento dei redditi operai . In un rapporto OCSE 2006-2007 i salari dei lavoratori italiani risultavano al 23° posto dei 30 Paesi dell'Organizzazione. E l 'Italia, nella graduatoria, non è certo l'ultimo di questi Paesi. La CGIL, dispone di una geniale organizzazione territoriale, mutuata dal sindacalismo francese: la Camera del Lavoro. Essa raggruppa lavoratori delle varie categorie e svolge vari compiti di patronato e assistenza. Ma perché in tutti questi anni in cui il lavoro è stato frantumato, separato spesso dal luogo di lavoro, disperso, le Camere del Lavoro non hanno svolto un ruolo di ricomposizione locale, di riaggregazione sindacale e politica? Perché le Camere del Lavoro non si sono estese, disseminate nei quartieri delle città, nei piccoli centri, come nuovi presidi del lavoro sul territorio ? Non risulta che la CGIL non avesse le risorse per tali iniziative. Risulta invece che essa vive fondamentalmente e anche bene – benché non esclusivamente – con i soldi dei lavoratori e quindi ha obblighi morali più cogenti. E inoltre: come è stata possibile, mentre si realizzava l'Europa dell' euro e delle varie istituzioni dell'Unione, una così clamorosa assenza di iniziativa volta alla concertazione europea delle varie organizzazioni da parte di uno dei maggiori sindacati del Continente? Sul piano mondiale, infine, l'inerzia politica è ancora più grave e stupefacente, anche se riguarda indistintamente tutti i sindacati. E' dal 1919 che esiste a Ginevra l 'Organizzazione internazionale del Lavoro.(OIL) Essa è stata creata ben 25 anni prima del FMI e della Banca Mondiale. L' OIL, frutto delle ambizioni internazionaliste di quell'epoca, doveva vigilare sulle legislazioni del lavoro nei vari paesi del mondo. Ma nell'ultimo mezzo secolo essa è uscita di scena, mentre ha trionfato l'internazionalismo finanziario delle istituzioni di Bretton Woods. E i sindacati dove erano nel frattempo? Perché non sono stati in grado di seguire l'avanzante internazionalizzazione del capitale? Perché non sono stati capaci di fare di tale organismo, oggi membro dell'ONU, un reale potere mondiale dei lavoratori? Evidentemente, insieme alla forza dell'avversario, è l'inerzia dell'istituzione sindacale che ha giocato un ruolo importante. Per questo, l'insieme di tali fallimenti oggi rende inevitabile rivolgere alla CGIL una serie di richieste pressanti e precise. Essa deve dotarsi di una strategia volta alla creazione di una rete internazionale del movimento sindacale. Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte. Ci sono, in Italia, migliaia di ragazze e ragazzi che a 30 anni hanno girato il mondo, conoscono più lingue, praticano ogni giorno connessioni internazionali su internet. Da essi deve venire una nuova leva di dirigenti sindacali. Per tale ragione la CGIL avrebbe l'obbligo di avviare al proprio interno un censimento che ridefinisca i compiti di dirigenti, funzionari, impiegati, per cambiare in corsa la sua organizzazione e le sue strategie. Le inerzie del passato non sono più comprensibili, né tollerabili. Questo sindacato non può più vivere nella routine mentre sul mondo del lavoro si abbatte la tempesta.
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