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Si è concluso ieri a Ferrara il XX Salone del restauro, dedicato quest’anno ai problemi della ricostruzione post- terremoto >>>

Si è concluso ieri a Ferrara il XX Salone del restauro, dedicato quest’anno ai problemi della ricostruzione post- terremoto. È stato il momento per fare il punto su quanto fatto per recuperare gli enormi danni subiti dal patrimonio culturale devastato dal sisma emiliano romagnolo dello scorso maggio. Ma si è trattato anche dell’occasione per un confronto con la situazione “gemella” de L’Aquila: una ferita ancora aperta, ma in cui, finalmente, dopo 4 anni, si comincia a intravedere qualche spiraglio di operatività.

Molti i problemi tuttora irrisolti, a partire da quello delle risorse che, proprio per i beni culturali sono fino a questo momento del tutto insufficienti a fronte delle necessità: stime ancora incomplete parlano di un miliardo di danni al patrimonio culturale, di cui 400 per i soli beni ecclesiastici. Purtroppo, a distanza di un anno gli organi di tutela, rigidamente gerarchizzati alle dipendenze della Direzione Regionale, non sono ancora in grado di fornire un quadro completo della situazione, nè tanto meno hanno terminato le operazioni di messa in sicurezza degli edifici. In compenso, una parte del mondo accademico dell’architettura italiana, e in particolare l’Università di Ferrara, ha già proceduto alla quasi totale occupazione degli spazi comunicativi.

Peccato che poi occorrerebbe anche avercelo, qualcosa da dire, mentre lo slogan che ha imperversato in questi ultimi mesi è quel miserevole “dov’era, ma non com’era”, i cui contenuti paiono risolversi, però, nella riaffermazione della supremazia del “progetto”. In nome di quest’ultimo si pretende di archiviare la pratica del restauro filologico quasi che quest’ultima prescinda da ogni progettualità e non implichi invece sempre, a priori, uno studio e una ricerca storico filologica, fondata su una precisa, scientifica metodologia che ne costituisce il tratto distintivo di modernità.

Come dimostra, con esemplare chiarezza, una piccola mostra fotografica di Italia Nostra inaugurata al Salone, su alcuni esempi di restauro che hanno guidato la ricostruzione dei nostri centri storici massacrati dalle guerre e dai sismi. La mostra, che si intitola “La restituzione della memoria” e verrà allestita, dal 5 aprile, a L’Aquila, testimonia come restauro e recupero del patrimonio siano essi stessi innovazione, tanto nell’uso dell’artigianato, quanto nell’uso e nell’evoluzione di metodi e tecnologie.

Al contrario, per i fautori del “progetto”, che sempre implica la visibilità del “segno” dell’architetto di turno (impossibile non ripensare agli “architetti impegnati” sbeffeggiati da Cederna), il restauro filologico è poco più di un arcaico arnese che la contemporaneità deve lasciarsi alle spalle.
Peccato che per questi progetti, appunto, seppure rivestiti dell’apparato tecnologico di inevitabile complemento (ah, i laser scanner!) l’unico criterio discriminante per decidere della qualità di un intervento ricostruttivo (perchè la manica lunga del Castello di Rivoli sì e las Arenas di Barcellona no?) si appiattisce inesorabilmente sul gusto del decisore di turno, criterio che, quanto a metodologia, lascia un po’ a desiderare.

Ma se la naiveté culturale di un approccio di questo genere, dove è palese l’indifferenza al contesto urbano e paesaggistico, può essere per lo meno comprensibile in un orizzonte accademico, soprattutto quello nostrano, diventa colpevole laddove sposata acriticamente dagli organismi di tutela. Il vero dramma del posterremoto diventa allora, ancor più della mancanza di risorse economiche, l’incapacità di una visione coerente del destino e della funzione del nostro patrimonio culturale: triste in ambito accademico, inammissibile da parte di chi è demandato istituzionalmente a tutelare questo stesso patrimonio.

Gravissimo infine, che a questo ossimoro della ricostruzione senza restauro gli amministratori regionali abbiano prontamente fornito le armi giuridiche: quella legge sulla ricostruzione (n.16/2012) frutto di micidiale, ma non casuale, amnesia storica nei confronti di una tradizione di tutela dei centri storici della Regione Emilia – Romagna. La legge cancellando, nei comuni colpiti dal sisma, la vigente e gloriosa normativa dei piani regolatori, “svincola” dalla regola del ripristino filologico gli edifici crollati o gravemente danneggiati dal terremoto e addirittura affida a “piani di ricostruzione” la facoltà di riprogettare radicalmente gli insediamenti urbani storici.

In questo contesto, la salvaguardia dell’identità civica dei centri colpiti dal terremoto rimane affidata alla responsabilità degli amministratori comunali. Segnale di speranza è allora la passione cocciuta del giovane sindaco di Finale Emilia, che, proprio al Salone di Ferrara, ha ribadito la volontà sua e di tutti i concittadini di ricostruire la torre dei Modenesi, il simbolo di Finale, com’era e dov’era.

Un’ultima considerazione: trasformare l’opera di ricostruzione di monumenti e centri storici in un’operazione di recupero e riqualificazione territoriale fondato sui criteri del restauro filologico, significherebbe anche affidarsi a manodopera di elevata competenza, ad un artigianato specializzato che niente ha a che spartire con un’imprenditoria edile largamente infiltrata dalle cosche calabresi, com’è ormai anche nelle zone terremotate (cfr. G. Tizian, Le mani sul terremoto, L’Espresso, 22 novembre 2012).

Si toglierebbero insomma spazi di manovra alle ‘ndrine dominanti nelle attività connesse all’edilizia e al movimento terra, anche grazie ai prezzi “stracciati” proposti per queste attività e possibili solo a chi si pone soprattutto obiettivi di riciclaggio e di infiltrazione.
Una sorta di presidio di legalità che, anche in questo, contribuisce alla rinascita di un territorio.

(questo post è inviato contemporaneamente a l'Unità)

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Mentre continua la partita a scacchi sulla costituzione del nuovo governo, già si affacciano altre scadenze non di poco conto che mai come in questo caso avranno ripercussioni sul complicatissimo puzzle politico nazionale. Il 26 e 27 maggio si voterà a Roma per il nuovo Sindaco e il rinnovo del Consiglio comunale.

Il bilancio del governo di Alemanno è così disastroso, sotto tutti i punti di vista (ritorneremo sui beni culturali, presto), che parrebbe scontato un ricambio. Senonchè, come ormai da tradizione, il centro sinistra risulta sinora privo di proposte autorevoli. Senza affrontare la cabala nominalistica, proviamo a suggerire alcune considerazioni di buon senso sul programma.

Al primo posto, ovviamente, un’inversione di rotta radicale sulla politica urbanistica, anche se chiamare politica ciò che è avvenuto da troppi anni a questa parte per quanto riguarda appunto l’urbanistica è un vero e proprio eufemismo, perché il termine rimanda in ogni caso ad una visione coerente – condivisibile o meno che sia – della città, nella sua forma e nei suoi usi. Al contrario, ciò che è avvenuto in questi anni, dalla redazione dell’ultimo, infausto pgt, si apparenta di più ad una pura e semplice svendita di territorio e di funzioni operata dall’amministrazione pubblica a vantaggio di alcuni privati e con rischi gravissimi sulla residua qualità urbana.

Questo tema, su cui da anni si concentrano analisi e denunce di urbanisti, da Italo Insolera a Vezio De Lucia a Paolo Berdini (i materiali sono consultabili su eddyburg.it) e dei mille comitati sorti a contrastare speculazioni di ogni tipo in tutti i quartieri della città, non può che essere la cornice entro cui si muovono tutti gli altri. A partire dal traffico: uno dei fattori di degrado che condannano da decenni Roma all’ultimo posto fra le capitali europee, ben al di sotto di Madrid e Atene, per intenderci, dove in anni recenti le amministrazioni pubbliche sono riuscite a dotare le rispettive città di servizi adeguati alle esigenze di moderne metropoli.

Non così a Roma, dove la costruzione della metropolitana assume ormai i contorni di una soap opera farsesca, con sceneggiatura almodovariana e amministrazioni pubbliche civiche e statali (quelle della Soprintendenza archeologica e del Mibac) sull’orlo di ripetute crisi di nervi. Comunque incapaci, tutte e nonostante i commissariamenti recenti e inutili, di risolvere problemi senz’altro gravi, ma non insormontabili, come dimostra l’esperienza di Atene.

Nonostante questa situazione perennemente sull’orlo del tracollo, lo spirito indomito del civis Romanus, temprato da decenni di malgoverno cittadino, trova nuove forme di sopravvivenza: risalgono a un paio di settimane fa i risultati, pubblicati su Repubblica del 3 marzo scorso, di un Rapporto sulla ciclabilità a Roma che fornisce dati inaspettati sull’uso della bicicletta da parte dei cittadini romani: decuplicato – dallo 0,4 al 4% – nel giro di due anni (dal 2010 al 2012). In cifre assolute si tratta di circa 150-170.000 cittadini che utilizzano abitualmente la bicicletta per i loro spostamenti. Eroicamente, perchè Roma non è decisamente un paese per ciclisti, considerata la tetragona indifferenza dell’amministrazione capitolina a politiche sulla ciclabilità.

Il fenomeno è da collegare ad alcuni fattori convergenti, fra cui il crollo della vendita delle auto dovuto alla crisi economica, ma anche la diffusione dei movimenti che lottano per una mobilità urbana sostenibile, quali Critical Mass, attiva a Roma già da dieci anni.

Al prossimo primo cittadino, va la richiesta di vere politiche sulla ciclabilità che non si esauriscono, come i puerili tentativi finora compiuti, nell’allestimento di qualche pista ciclabile in più, ma presumono, innanzi tutto, un mutamento di orizzonte sull’intera questione della mobilità, finalmente orientata a favore dei mezzi pubblici e, in generale, ripensata non a partire dai flussi delle auto, ma dalle esigenze di spostamento di chi vive la città.

L'articolo è inviato contemporaneamente a l’Unità online

Gentile Sindaco, le scrivo interpretando lo sbigottimento, l’allarme e la tristezza di tanti che, percorrendo l’orribile statale 554 subiscono l’insopportabile vertice di bruttezza toccato da Quartucciu >>>

Gentile Sindaco,

le scrivo interpretando lo sbigottimento, l’allarme e la tristezza di tanti che, percorrendo l’orribile statale 554 subiscono l’insopportabile vertice di bruttezza toccato da Quartucciu.
E rappresento con queste poche righe anche lo sconcerto di Italia Nostra di cui faccio parte.
L’hinterland cagliaritano è un mostro urbanistico unanimemente riconosciuto. I comuni dell’area vasta, e oltre, sono presi in una gara a che produce il PUC più mostruoso, deforme e invasivo.
Quartucciu, basta un’occhiata, ha deciso da qualche anno di accelerare questa corsa all’orrore. Vederla andare verso la distruzione, verso la sistematica cancellazione del passato, verso la devastazione particolareggiata di quanto di bello aveva conservato, produce dolore, nausea, vergogna. E la sua Amministrazione, indistinguibile dalle precedenti, partecipa a questo piano di sterminio del territorio.

Provo vergogna e anche senso di colpa per essere un abitante dell’Isola e di non aver fatto abbastanza per impedire questo epidemico squallore – oltretutto una dissipazione di denaro pubblico – che i comuni del cosiddetto hinterland sono riusciti a produrre con un’indifferenza, un cinismo e un’ostinazione che spaventano.
Restauro, conservazione, tutela? Parole sconosciute e se conosciute mai praticate.
Credo che chiunque sia dotato di un minimo di senso non dico del bello, ma della decenza si atterrisca davanti all’indecente nuovo museo archeologico e al parco – ma non si chiama parco una desolante spianata con un mostro informe di cemento – incomprensibilmente dedicato a Sergio Atzeni il quale, ne sono certo, davanti a tanta deformità morirebbe una seconda volta.

L’Amministrazione di Quartucciu procede con esiziale fermezza alla sistematica distruzione del suo patrimonio. Parlo della necropoli di Pill’e Matta e del centro storico di cui a Quartucciu era miracolosamente salvo almeno qualche brandello.
La necropoli sepolta sotto gli osceni capannoni dell’area industriale. La solita necropoli scavata, decantata e poi ricoperta di schifezza. Eppure quando Pill’e Matta fu individuata capannoni non ce n’erano, si sarebbe potuta modificare la destinazione industriale dell’area, si sarebbe potuto conservare un luogo sacro e unico. Niente da fare. Le Amministrazioni di Quartucciu hanno continuato imperterrite la loro marcia verso il brutto.

Molti milioni di euro buttati per un museo nel quale nessuno entrerà perché superare la ripugnanza per quell’edificio sarà impossibile per qualunque creatura normale.
Ma lei riesce davvero a immaginare un visitatore che, anche se debitamente sedato, possa vincere il disgusto per una specie di colapasta di cemento armato che offende le retine oneste da lontano e da vicino, oltraggioso, degradante e di indicibile bruttezza?
E il centro storico?
Metaforica la vicenda della piazza della parrocchia.

La Piazza San Giorgio, che conservava una sua accattivante armonia, modesta e senza pretese, ma aggraziata, è destinata, con un orrendo progetto dal titolo vagamente blasfemo di Urban Getsemani a divenire l’ennesima, triste, anonima piazzetta deserta degna della peggiore periferia urbana.
Lei, gentile Sindaco, sta permettendo che uno dei pochi siti gradevoli della sua cittadina venga trasformato come quei visi devastati dal silicone per un tossico modo di intendere la modernità. Diverrà un luogo repulsivo e tetro anche per sua responsabilità.
Sarà mio impegno, insieme all’Associazione di cui faccio parte, esercitare ogni strumento di critica e opposizione a questo proliferare del brutto epidemico che anche lei sostiene e a questa umiliante visione di sviluppo deforme che coinvolge e rende irreversibilmente poveri, cupi e anonimi la gran parte dei nostri paesi.

Mi opporrò con ogni energia e cercherò di far conoscere i meccanismi malati grazie ai quali una bellissima necropoli che sarebbe potuta divenire un luogo di grande bellezza, che avrebbe avuto necessità di cura e protezione, dove la mano dell’uomo si sarebbe dovuta manifestare leggera sino all’invisibilità, quella necropoli è stata annichilita a perpetua vergogna di chi ha, come amministratore, il dovere di curarla.
Quanto alla Piazza della Parrocchia, gentile Sindaco, ritengo che distruggere con un progetto dozzinale un sito che aveva con il tempo raggiunto faticosamente un suo equilibrio costituisca una colpa e un segno di come il centro storico di Quartucciu – di cui restavano tracce – venga trattato come una roba di cui vergognarsi, da rimuovere anche dai ricordi. Un triste tratto psicologico sardo: la vergogna del proprio passato.

Quella piazza non aveva bisogno di granché, sarebbe bastato rimuovere la crosta di brutto che era, appunto, solo una crosta.
Ma questa è un’operazione impossibile, troppo semplice, troppo economica.
La semplicità è uno degli obiettivi più complessi e i nostri amministratori non la raggiungeranno mai.
Sono gli amministratori che dovrebbero orientare, suggerire, diffondere un’idea di buon vivere in luoghi preservati, spiegare e conservare la storia alle comunità e non divenire notai di piani urbanistici che mirano ad altro e che perpetuano un modello che esplode dappertutto.

Le chiedo di fermarsi, signor Sindaco, di trovare fondi per abbattere il museo, di ripristinare la piazza e di conservarla, di aprire contenziosi in nome del bene comune per invertire questa corsa verso la bruttezza che allontanerà da Quartucciu, e da tutto l’hinterland, chiunque cerchi in un luogo il bello e l’armonico. E allontanerà, di conseguenza, anche ogni forma di ricchezza, economica e spirituale.

La saluto cordialmente,

Giorgio Todde, Cagliari, 8 marzo 2013

La scena politica italiana ci mette ormai da anni di fronte a tali e tante enormità che oggi ci mancano le parole, lo sdegno ci ammutolisce. Eppure bisogna alzare la voce... >>>

La scena politica italiana ci mette ormai da anni di fronte a tali e tante enormità che oggi ci mancano le parole, lo sdegno ci ammutolisce. Eppure bisogna alzare la voce, far sentire il grido della nostra coscienza offesa. Perciò avverto il bisogno di dichiarare che come cittadino italiano mi sono sentito umiliato dal comunicato di Napolitano a proposito della gazzarra inscenata dal PDL nel Tribunale di Milano. La gravità dell'intervento del Capo dello stato è stata già stigmatizzata da autorevoli (pochi) giornalisti (Massimo Giannini su Repubblica del 13 marzo, Marco Travaglio sul Fatto dello stesso giorno) e da un duro comunicato Libertà e Giustizia. Oggi sul Manifesto da Mauro Volpi. Ma non ci si può fermare, non possiamo girare pagina, passare ad altre notizie, come se l'Italia fosse dentro un qualche telegiornale, e dovessimo correre dietro al consumismo bulimico dei media.
La marcia dei parlamentari del PDL dentro il Tribunale di Milano è episodio troppo grave e inaudito per coprirlo col rumore delle notizie sul nuovo papa. E' accaduto che un corpo dello stato, come una qualunque squadraccia, è entrato nella sede dove la magistratura, un altro corpo dello stato, stava svolgendo il proprio difficile e delicato lavoro, per intimidirla. E debbo qui sorvolare sul fatto che tanti di quei manifestanti hanno già coperto di vergogna e di disonore il Parlamento italiano, giurando sull'incredibile fandonia di Ruby “nipote di Mubarak”. Un sopruso che ha ferito la dignità della Repubblica italiana agli occhi del mondo. Anche quanto successo a Milano non era mai accaduto nella storia dell'Italia unita, fascismo a parte. Che cos'altro doveva accadere, per il Presidente della Repubblica, perché pronunciasse una condanna senza alibi né contrappesi, di fronte a un'azione di così estrema gravità?

So bene che il Capo dello stato deve svolgere un'azione di persuasione morale e cercare di attenuare le asprezze dei conflitti tra le parti, specie in una fase complicata e difficile nella vita del nostro Paese. Ma come può Napolitano controbilanciare la condanna dell'episodio al Palazzo di Giustizia di Milano, aggiungendo di comprendere la preoccupazione del Pdl di « veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento>> ? E' difficile far rientrare una simile affermazione nella sfera della moral suasion, come si dice con “nobilitante” gergo inglese. I giudici impediscono a Berlusconi di svolgere la sua funzione? Ma l'intera vita politica italiana degli ultimi venti anni è la storia dei tentativi di Berlusconi di sfuggire alla giustizia con tutti i mezzi. Un fine perseguito, come in questi giorni, con i cavilli e le dilazioni di squadre di avvocati.parlamentari, pagati dunque anche da noi.

Ma soprattutto attraverso il soggiogamento del Parlamento, la manipolazione delle leggi della Repubblica, piegate alle sue personalissime e inconfessabili necessità. Berlusconi, l' anomalia di potere più grave e insanata di tutto l'Occidente e oltre, sarebbe impedito nello svolgere le sue funzioni?
Ci sono due aspetti molto gravi in questa posizione di Napolitano su cui occorrerebbe riflettere. La prima riguarda l'influenza paralizzante che in questa come in altre circostanze ha avuto ed ha sulle scelte di quello che era, o doveva essere, il maggiore partito d'opposizione. Lo si è visto con la scelta del governo Monti e lo si vede ora. Dal PD non abbiamo sentito alzarsi un voce in difesa dei magistrati di Milano. Non sono costituzionalista e non azzardo giudizi di merito. Ma il peso che Napolitano ha da tempo sul PD mi pare, di fatto, distorcente di una normale dialettica democratica.
Naturalmente il PD fa la sua parte in fatto di inerzia, silenzio e inettitudine. Fatto sta che da tanto tempo uno dei maggiori stati industriali del mondo è privo, nella sostanza, di un'opposizione politica.
La seconda osservazione riguarda questa speciale Realpolitik italiana - da decenni linea di condotta del centro-sinistra - che prende atto prudentemente dei rapporti di forza in campo e sorvola “cattolicamente” sui peccati di legalità, di corruzione, di abuso, di sopraffazione dell'avversario. Non aver risolto il gigantesco conflitto di interessi di un impero mediatico piantato nel cuore di uno stato di diritto è conseguente a tale condotta. Ed è un veleno mortale che intossica la vita pubblica. Questo è, storicamente, il modo in cui il PDS, Ds, ora PD ha guardato e continua a guardare a Forza Italia, PDL e alla condotta di Silvio Berlusconi. Com'è noto, il più conseguente teorico di tale filosofia è Massimo D'Alema, la cui cultura politica mi appare “un amalgama mal riuscito” di cinismo da Terza Internazionale e lustrata ideologia neoliberista. Ebbene, tale realismo – dovrebbe essere ormai sotto gli occhi di tutti – ha costituito uno dei germi più perniciosi della malattia italiana.
Perché il male più grave del nostro Paese, ancora più difficile da curare della crisi economica, è l'immoralità dilagante, l'abuso, la corruzione, l'accaparramento privato del bene pubblico, il godimento esibito dei privilegi, l'ingiustizia quotidiana fatta normalità, e soprattutto l'esistenza di una oligarchia politica al di sopra del bene e del male. Non sono né moralista, né giustizialista, per ricorrere al gergo corrente. Credo di star facendo il mio mestiere di storico. E sono abituato a esaminare la realtà del passato con più varie categorie, che non quella della semplice moralità pubblica. Ma cade ormai sotto l'ambito del giudizio storico il fatto che tale realismo, l'assenza di intransigenza morale nella lotta politica, ha costituito uno degli ingredienti micidiali per la corruzione dello spirito pubblico nazionale. Lo spirito pubblico non è l'infatuazione di un momento, una moda transitoria. E' l'anima di una nazione. Ed è in questo grave decadimento morale, di cui i partiti sono stati gli agenti fondamentali, che affondano le ragioni del declino del paese e del fallimento del sistema politico italiano.
Vorremmo ricordare al presidente Napolitano che c'è una linea sottile in ogni tentativo di persuasione, di pratica del buon senso, oltre la quale il messaggio scivola nell'indistinto morale, oltre che politico. E questo finisce con l'accrescere la distanza tra i cittadini e le istituzioni, crea ulteriori lacerazioni nell'anima civile degli italiani. Ma so che è inutile. Nel crepuscolo della cosiddetta seconda Repubblica si mostra in cristallina luce quanto avevano compreso gli antichi Greci, gli antenati di un popolo che l'Europa oggi mette in vendita al migliore offerente: « Gli dei accecano coloro che vogliono perdere.» E davanti a noi possiamo bene osservare quanto sono ciechi i comandanti di oggi, che continuano a marciare sicuri verso il precipizio. Purtroppo non possiamo rallegrarcene, perché nel baratro stanno trascinando anche noi.

(questo articolo viene contemporaneamente inviato al manifesto)

www.amigi.org

Uno dei miei post precedenti aveva il titolo “Di chi è il paesaggio?” e argomentava la necessità che su di un ambito così sensibile come il nostro paesaggio, lo spazio del nostro vivere, il “giudice di Berlino”, quello chiamato alle decisioni di ultima istanza a tutela degli interessi comuni, fosse dotato di caratteristiche di competenza e indipendenza. Nell’attuale quadro istituzionale e legislativo, quella figura di decisore ultimo, pur con molte difficoltà e criticità, è incarnata dal Soprintendente, le cui prerogative sono però spesso, e sempre più frequentemente, messe in discussione, in particolare da politici e amministratori locali.
In nome delle esigenze dello sviluppo – leggi costruzioni e infrastrutture – unico rimedio possibile ad una crisi sempre peggiore.

Come i ciechi del quadro di Bruegel che se ne vanno ignari verso il baratro, i nostri politici locali (e non solo), di ogni colore, hanno pervicacemente sostenuto questa visione, indifferenti ai segnali che da quello stesso territorio raccontavano di una montante ribellione nei confronti di politiche speculative che, senza alleviare la recessione, hanno abbassato, in molte aree pesantemente, qualità urbana e della vita in genere.

Indifferenza di cui i programmi elettorali sono stati specchio immediato nell’assenza programmatica di politiche di governo del territorio articolate che superassero le retoriche posticce di una generica riduzione del consumo di suolo o del risparmio energetico. Quella spruzzata di green economy vissuta come obbligatoria strizzatina d’occhio all’elettorato “ggiovane” o “alternativo”.

Neppure nel programma del Movimento 5 stelle questi temi sono presenti. Ma non sono certo in contraddizione con ciò che c’è, a partire dalle proposte sulla mobilità, sull’energia e, in particolare, sulla necessità di un ripensamento radicale delle grandi opere (per non parlare di altri temi, come quello dell’informazione, condivisibili al 99%).

In questo contesto politico, il territorio italiano sembra ancora res nullius, il che significa che rimane abbandonato al diritto del più forte in termini economici.

A chi, se ancora esiste, si candida ad interpretare il ruolo di partito di sinistra, che si ponga quale obiettivo primario la difesa del bene comune, indicherei come spazi di manovra privilegiati quelli di una politica del territorio orientata su due – tre principi rigidi: tutela integrale del paesaggio, stop (non riduzione) al consumo di suolo rurale e costiero, riqualificazione edilizia delle città, riduzione drastica del rischio idrogeologico.
Su questi temi, la sinistra riuscì, molti anni fa, a diventare un modello per le politiche orientate al bene comune. E costruì il proprio successo nelle regioni rosse, Emilia Romagna in testa.

Opinione pubblicata anche su Unità on line 4/3/2013
p.s. Nelle elezioni della scorsa settimana la coalizione di centro sinistra, in Emilia Romagna, ha perso il 10% rispetto alle precedenti elezioni politiche e circa il 18% rispetto al 2001.


Dunque lo tsunami, annunciato da Beppe Grillo come un allegro tour nella campagna elettorale, è arrivato. Esso ha creato l'«onda nel porto», come la chiamano i giapponesi, trascinando nel suo urto l'intero sistema politico italiano. Ma il richiamo alla metafora del maremoto ha una nascosta ambivalenza, come tanti aspetti del movimento 5 stelle. Lo tsunami, infatti, non soltanto rovescia sulla costa la sua smisurata massa d'acqua che travolge ogni cosa. Ha anche un movimento inverso, un risucchio, un moto di ritorno dell'onda verso il mare, che trascina con se i resti disordinati della sua distruzione. E' quel che Grillo rischia di creare nella vita politica italiana, incarnando così la metafora del fenomeno naturale nella sua completa catastroficità.

Diciamo la verità, il risultato elettorale, esaminato come mente fredda, e con molti più elementi di valutazione dei primi giorni dopo il voto, ha diradato non poche' delle cupe ombre che esso aveva sollevato. Soprattutto il grande successo del movimento 5 Stelle ha rivelato – ne hanno parlato vari commentatori anche su questo giornale – che esso ha assorbito e proiettato verso le istituzioni rappresentative l'energia politica e gli obiettivi dei vari movimenti italiani.

Assai più che i partiti della sinistra radicale – imbozzolati nelle vecchie logiche e strutture della forma-partito. Un movimento che trascina dietro di sé altri movimenti e fornisce loro una visibilità di vaste proporzioni. Ma il successo elettorale di Grillo ha mostrato – e ancora mostra – una grande potenzialità: la possibilità di realizzare finalmente trasformazioni significative nelle strutture istituzionali e nella vita materiale del Paese che probabilmente neppure il centro-sinistra avrebbe messo in opera. Dunque, in pochi giorni, le aspettative di milioni di italiani consegnate al voto, si sono trasformate, a urne chiuse, in speranza di prossima realizzazione dei risultati tanto attesi. A torto o a ragione, il vincitore delle elezioni, appare come colui che nei prossimi mesi può realizzare le riforme che i partiti politici non sono stati in grado di realizzare negli ultimi 20 anni.
E soprattutto come colui che può radicalmente innovare un sistema politico insostenibile: costoso, corrotto, criminale. Il sistema della tre C, potemmo definirlo, confortati ( si fa per dire) dalle ultime inquietanti notizie dell'affare De Gregorio. Questo montare di aspettative degli italiani è dentro l'onda d'ingresso dello tsunami 5 S, lo ha rafforzato anche oltre il risultato elettorale. Ma il moto rischia di essere trascinato dall'onda di risucchio, di riportare in mare il disordine di una distruzione senza esito. Il comportamento di Grillo, in questi ultimi giorni, suscita perplessità, anche facendo la tara agli aspetti tattici e propagandistici delle sue mosse. L'entusiasmo e la speranza, che si trasformano rapidamente in delusione, rischiano di creare un moto inverso di imprevedibile forza, destinato a mettere in crisi il movimento 5 stelle e a preparare un avvenire infausto, o comunque di confusione ingovernabile per il nostro paese.
Certo, responsabilità enormi ha in questo momento il Partito Democratico. Esso dovrebbe – come ha indicato Salvatore Settis su Repubblica del 3 marzo – avviare un profondo ripensamento delle proprie strategie, e non limitarsi a verniciature superficiali della facciata del proprio edificio. E deve avanzare proposte coraggiose, come chiesto da tanti. Ma se Grillo non prova a realizzare con il centro-sinistra alcune importanti riforme, che sono oggi possibili, e lascia l'iniziativa al Quirinale, a forme comunque camuffate di stallo, le possibilità che il riflusso dello tsunami si verifichi sono, a mio avviso, elevatissime. E per un insieme non picciolo di ragioni.

Beppe Grillo, apparirà come il vincitore che, clamorosamente, non vuole governare. Una volta che il movimento 5S si sarà insediato nel Parlamento italiano, esso farà parte a pieno titolo del sistema politico e tutte le inerzie, le guerriglie tattiche entro cui opererà lo faranno somigliare sempre più ai partiti. Credo inoltre che Grillo e Casaleggio sottovalutino molto un sentire comune di questa fase, l'impazienza: forse lo stato d'animo più diffuso degli italiani. La situazione economica, sociale, imprenditoriale del paese peggiora di giorno in giorno. Basta una piccola ricognizione storica su quanto sta avvenendo da alcuni anni per rendersene conto. I comunicati periodici dell'Istat sono ormai dei bollettini di guerra. Gli italiani ritengono non più tollerabile l'attesa.

Perché dovrebbero premiare il movimento 5S se si dovesse rivotare dopo mesi di stallo, di confuse battaglie tattiche? Che cosa c'è di non credibile nell'immaginare che nuove elezioni sarebbero vissute da milioni di italiani come uno spreco intollerabile, di tempo e di danaro, di mancati interventi, di soluzioni possibili non realizzate? E infine, comè facile prevedere, in che condizioni avverrebbero queste ulteriori elezioni ? Certamente in una situazione economica deteriorata e sotto il ricatto della finanza internazionale. Non la speranza di un radicale cambiamento almeno delle regole politiche, sarà allora il sentimento dominante degli italiani, ma la paura. Paura di perdere i risparmi di una vita, di vedere dissolversi il tessuto produttivo del paese, di non avere più prospettive di lavoro per molti anni a venire.

Quella stessa paura che ha permesso a Monti e alla sua perversa maggioranza di infliggere colpi gravissimi all'economia e al welfare dell'Italia. Non dimentichiamo che l'”europeo” Monti doveva proteggerci dai ricatti finanziari dell'Europa. Perché questi italiani spaventati dovrebbero tornare a votare per il movimento 5S? Perché tanti media italiani, che hanno portato la voce di Grillo anche in televisione ( penso soprattutto ai programmi di Michele Santoro) dovrebbero continuare a guardare con simpatia a questo fenomeno politico? In tale situazione la freschezza, l 'ingenuità dei ragazzi del movimento 5S entrati in Parlamento, lievito potenziale di un grande cambiamento, rischieranno di apparire drammaticamente inadeguati alle necessità del momento.

E infine: è sicuro Beppe Grillo che la maggioranza degli italiani si sentirebbe tranquilla immaginandolo come il padrone assoluto del sistema politico nazionale? Un leader che controlla i propri militanti come un capo-azienda? Non ne sono proprio sicuro. Che Grillo sconvolga un sistema politico visibilmente decomposto va bene ai più, non ci si poteva augurare di meglio. Ma che egli divenga alla fine il padre-padrone della vita politica italiana è prospettiva che ha perso la sua carica liberatoria e che allunga su di noi più ombre d'inquietudine che non luci di speranza.

www.amigi.org articolo inviato contemporaneamente anche a il manifesto

Il risultato delle elezioni politiche sancisce non solo il trionfo del movimento Cinque Stelle, ma anche l'ennesima sconfitta della linea politica di D'Alema >>>
che per decenni ha inseguito la destra sul suo terreno, cercano di posizionare il partito appena un po' alla sinistra del presunto avversario (ma in realtà confondendo e condividendo ampiamente la materia). Una linea che nei fatti si è incarnata nel Monte dei Paschi, nei fondi gestiti da Gamberale, nelle varie leghe delle cooperative affamate di grandi opere, nelle autostrade tirreniche colluse con Mattioli, nello sviluppo inteso come tanti soldi per le infrastrutture e niente per Università e ricerca. Una linea che alla Camera ha trionfalmente portato il Pd a un 25% di voti dal 37% del bistrattato Veltroni.

Il movimento Cinque Stelle fa capo a un leader che spesso esprime idee deliranti, come l'uscita dell'Italia dall'euro, è rappresentata da una serie di dirigenti nazionali di qualità mediocre, tutti a ripetere la giaculatoria che incalzeranno i partiti affinché mantengano le loro promesse... ( anche quelle più bieche e contraddittorie?). Ma la base è un altra cosa. Oltre agli elettori inferociti e disgustati da partiti che navigano negli scandali, nella corruzione e nel malaffare, ci sono tanti giovani impegnati per una diversa politica.

Ci sono i No Tav della Valle Susa e i no Tav in generale; ci sono gli antagonisti alle grandi opere distruttive; i protagonisti del referendum sull'acqua; la gente che si batte contro le lobby degli affari, contro una politica dei rifiuti fatta di inceneritori e discariche; contro la cementificazione; a favore di un ambiente vivibile; ci sono gli studenti impegnati a sostenere un'Università migliore e a chiedere occasioni qualificate per chi entra nel modo del lavoro. C'è, una parte di quel 20% di cittadini che fanno società locale, che difendono il territorio, che si associano in comitati e che non sono rappresentati dai partiti di sinistra, spesso antagonisti nelle amministrazioni locali. Una potenzialità sociale e anche elettorale snobbata dagli strateghi del Pd; a parole perché esprime valori 'nimby', ma in realtà perché è antagonista al potere della casta: alimentato e collegato agli interessi delle banche grandi finanziatrici di opere pubbliche mai realizzate o realizzate solo in parte, con gran spreco di denaro pubblico per progetti affidati ad amici. (si veda il buon documento in proposito nel sito di Legambiente)..

Le proteste e le rivendicazioni sacrosante della base grillina sapranno tradursi in programmi e in politica a livello nazionale? Questa è la grande incognita, perché il rischio è che i neo deputati e i neosenatori, del tutto impreparati rispetto ai compiti parlamentari, perdano la bussola e non riescano a darsi una politica a prescindere da urla e schiamazzi. Ma se il movimento Cinque Stelle saprà darsi veramente una politica ambientalista e proporre un modello di sviluppo alternativo a quello delle 'grandi opere finanziate dalle banche', se ciò avverrà, si aprirebbe per il PD una scelta fondamentale. Con Berlusconi e Monti, per un governo di neoliberismo all'italiana e una spartizione di risorse fra potentati di varia natura: il mondo del project financing in salsa nostrale. Oppure con tutto ciò che di nuovo e progressivo può (ripeto: può) rappresentare il movimento Cinque Stelle, nelle sue articolazioni e nel suo vero significato di innovazione (il nuovo tanto evocato come slogan elettorale, tanto temuto nei fatti).

La vittoria del movimento Cinque Stelle non è solo di Grillo, ma anche di un'Italia impegnata e molto migliore di quella che ci ha finora governato. Un'occasione anche per una parte del PD, più giovane, inserita nella società e non solo nelle amministrazioni, per dare una svolta radicale alla politica del partito; e forse anche per far sì che la sinistra risalga la china dopo la batosta elettorale.

Universale risuona intorno a noi la critica e il biasimo ai partiti politici, alla scadente qualità dei loro linguaggi e delle loro narrazioni. Ma quale contributo di riscatto e di elevazione danno ad essi i mezzi prevalenti attraverso cui i partiti ricevono voce e rappresentazione? Quanto e in che modo la stampa e la TV contribuiscono a rendere evidente la modestia culturale e morale del ceto politico e quanto invece concorrono ad alimentarla finendo col fare, insieme allo stesso mondo politico, sistema? Questione troppo vasta. Anche se qui intendo riferirmi solo alla grande stampa democratica e alla TV di stato, lasciando da parte gli immensi condizionamenti dell'impero mediatico di Berlusconi: ferita sanguinante della democrazia e del clima culturale italiano. Ma il problema può essere offerto alla discussione, nella sua voluta parzialità, affrontando aspetti all'apparenza minori.

Bene, un primo di tali aspetti, laterali e “minori”, riguarda il linguaggio: veicolo potente di messaggi , che trasformano in senso comune, in persuasione generale i dettami espliciti o occulti del potere. Si pensi a vulgate all'apparenza banali. L'uso sempre più diffuso del termine governatore per designare il presidente delle nostre regioni, non è solo un modo con cui tanti giornalisti italiani si gonfiano il petto: il presidente del Molise equiparato al governatore della California. Si fa passare l'idea leghista che il nostro sia uno stato federale. Cosa non solo infondata, ma storicamente irrealizzabile, essendo già il nostro uno stato unitario, che non deve “federarsi” per trovare un'unità che già possiede. Non meno importanti gli anglismi utilizzati al posto delle nostro vocabolario. Spesso di origine neolatina, si immagina ch'essi assumano una patina culturale più elevata allorché vengono deformati dalla lingua inglese. Rammento uno dei lemmi più inflazionati del linguaggio corrente, governance. Eppure quel termine( dal latino gubernare, lett. “reggere il timone”) nella storia della nostra lingua ha finito col significare una delle finalità più alte dell'agire politico: guidare le sorti degli uomini uniti in società. Oggi che la parola ha fatto un bagno nel mondo della finanza e delle imprese, caricandosi di significati economici e manageriali, viene utilizzato come se si fosse accresciuto di significato, non invece reso più specifico e unilaterale. Noi abbandoniamo le nostre parole con la loro densa storia e pensiamo di allargare gli orizzonti utilizzando quelle delle élites al comando, senza comprendere il nuovo marchio di potere che recano. Subiamo così una doppia insolenza: mentre i poteri dominanti manipolano ai loro fini le parole del nostro grande passato, noi le riutilizziamo, deformate, per introiettare ideologie del nuovo ordine che esse veicolano.

Ma le parole del giornalismo nostrano svolgono ben più importanti compiti. Si pensi alla vera e propria costruzione dell'immaginario collettivo cui esse contribuiscono. In questo senso, nel panorama della carta stampata spiccano alcune testate che offrono un condensato di forme linguistiche (poi diluite nel linguaggio della stampa non specialistica)finalizzato a creare universi psicologici di stampo neoliberista. Si prendano gli inserti “Corriere economia” del Corsera o “Affari e finanza” di Repubblica. Qui le titolazioni degli articoli sono un fuoco d'artificio futurista che esalta la velocità, la competizione, le fusioni:« Non si ferma Esaote, anzi aumenta la velocità,« si scatena lo shopping, «corsa alle fusioni. A volte esse mimano quello delle competizioni sportive: « Morandini prepara la staffetta», «L'energia rinnovabile è in corsia di sorpasso». Più spesso vengono curvate in senso bellico e predatorio: «Colao scatena la guerra del “mobile”», «Il Nord Est insorge per non perdere il treno dell'Europa». «Lottomatica alla guerra del Gratta e Vinci». Certo metafore, anche se talora superano il grottesco: «Armi, navi, jeep tutti senza piloti nelle guerre future.» (Affari &Finanza del 1.2. 2010). Siamo quindi esortati a diventare più veloci, individualisti, competitivi, a incarnare la nuova antropologia di questa modernità da pescecani.

Non si comprende, tuttavia, l'efficacia persuasoria di simili titolazioni se non leggendole nella pagina stampata. Con tali titoli gareggiano, infatti, le foto piccole o grandi dei manager, dei capitani d'industria, dei banchieri, che corrono di pagina in pagina, divinità del nuovo Olimpo economico-finanziario. In tale sopramondo ideale ci sono solo capi, soldi, banche, mercati, gadget elettronici,paradiso in terra del nostro “nuovo mondo”. E' come se la ricchezza promanasse dalle mani di questi santi in effige, perfetta metafora del dominio del capitale finanziario, che crea danaro per mezzo di danaro senza passare per l'inferno della fabbrica. E infatti in questo lucente universo parallelo, che scorre sopra la realtà dei mortali, non c'è posto per il lavoro, per gli operai in carne ed ossa.Ma non deve qui sfuggire un aspetto rilevante dei valori veicolati da tale nuovo divismo. Sela ricchezza è frutto delle capacità di comando, dell'energia e dell'astuzia dei singoli, non solo scompare il lavoro sociale come produttore dei beni e servizi, ma viene esaltato l'individuo primeggiante sugli altri quale prototipo antropologico cui modellarsi. Tale divismo imprenditoriale, che in Italia si combina perfettamente con quello calcistico, crea degli idoli a cui sono consentiti livelli oltraggiosi di arricchimento personale, fortuna e successo da ammirare quale frutto di un merito conseguito sul campo. Gli stipendi milionari dei calciatori rendono popolare e legittimata la disuguaglianza, che viene trasferita nel mondo del gioco e del sogno. Così, l'iniquità che lacera il tessuto della società, viene sublimata agli occhi della massa dannata dei mortali, riscattabile solo in un possibile al di là: quel luogo dove il caso, l'astuzia personale, il duro lavoro, qualche fortunata vincita può condurre solo pochi eletti.

Naturalmente non è solo questione di linguaggio. Un problema fondamentale dei nostri media riguarda la realtà rappresentata. Anche qui domina il divismo. Le prime pagine dei grandi quotidiani nazionali sono stracolme delle gigantografie dei leader politici immortalati nella loro gestualità sacrale. Mentre gli articoli sono per lo più il racconto aneddotico delle loro chiacchiere. Certo, la TV non è da meno. I telegiornali, di qualunque rete, mettono in scena, ogni sera, una vera e propria apoteosi del divismo del ceto politico. E così i talk-show, abitati quasi sempre dagli stessi ospiti di riguardo. Non sottovaluto gli squarci di vita del paese reale che essi offrono. E' giusto ricordare che essi hanno interrotto, a partire da Samarcanda di Michele Santoro, un decennio, gli anni '80, di cancellazione della realtà sociale del nostro Paese dai teleschermi. Ma non si può non notare che in tali trasmissioni si mostrano gli operai disoccupati, disperati, sui tetti o sulle gru: quando cioè fanno spettacolo. Mai nella loro normale condizione quotidiana, fatta di viaggi in treni sporchi e affollati, di sveglie all'alba, di lavoro dentro capannoni dove per almeno 8 ore non si vede il cielo e si è assordati dal rumore dei macchinari. E' l'ignoranza di questo mondo di dura fatica quotidiana che fa accettare a tanta opinione pubblica le disposizioni di economisti e governanti sugli orari, le pensioni, i salari di una umanità del tutto sconosciuta ai suoi zelanti medici.

Certo, occorre riconoscere che in questa apparizione costante dei visi dei leader politici sui teleschermi di casa si manifesta un effetto di democratizzazione del potere. Tutti possiamo constatare l'umana modestia di chi sta al comando, spesso l'evidente mediocrità. In passato il potere era largamente invisibile e questo rendeva più insondabile il suo enigma. Ma bisognerebbe capire se ciò non accada anche per il fatto che il potere reale, quello che orchestra i nostri destini collettivi, non sia nel frattempo trasmigrato altrove, lasciando apparire in propria rappresentanza solo dei modesti figuranti.

Ma un'altra grande responsabilità grava sul giornalismo italiano, diretta conseguenza del “servilismo spettacolare” nei confronti del potere politico. Tale subalternità induce a fabbricare una realtà deformata della società italiana. Non solo ingigantisce oltre il dovuto la capacità del ceto politico di governare le cose reali. Ma cancella o lascia in ombra l' operosità e creatività, negli ambiti più disparati della vita civile, degli italiani che non sono divi. Potrei testimoniare di decine di iniziative culturali e politiche – anche di rilievo internazionale - sistematicamente disertate dal giornalismo italiano. Dove c'è puzza di serietà e di cultura i giornalisti italiani si tengono lontani. A meno che non sia prevista la presenza di un leader politico o di qualche divo equivalente. Così gli italiani si specchiano in questa mediocre e rattrappita rappresentazione di sé stessi e del paese intero e non hanno ragioni di ben sperare per il futuro. Per queste vie “indirette” anche la stampa democratica di un paese in declino gioca la sua parte nel risospingerci all'indietro.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto, dove è stato pubblicato il 18 febbraio 2013.

Il Presidente della Regione Friuli, Renzo Tondo (Pdl), è tornato a chiedere, Il Presidente della Regione Friuli, Renzo Tondo (Pdl), è tornato a chiedere, qualche giorno fa, il trasferimento delle competenze in materia di tutela del paesaggistica dal Ministero dei Beni Culturali alla Regione da lui governata. Richiesta non nuova che ripropone l’insofferenza di quasi tutte le Regioni italiane nei confronti delle prerogative statali sancite dal Codice dei beni culturali e da innumerevoli sentenze della Corte Costituzionale chiamata ad esprimersi su questo tema proprio dai ricorsi suscitati dalle Regioni italiane. In questo caso, il casus belli è stato determinato dai difficili rapporti dell’amministrazione locale con l’attuale Soprintendente ai beni architettonici e paesaggistici del Friuli, accusata – trasversalmente, da tutte le forze politiche, oltre che dall’Associazione Costruttori – di bloccare regolarmente i lavori producendo gravi danni all’economia locale.

Non conosciamo nel dettaglio gli episodi che in Friuli hanno condotto a questa contrapposizione fra poteri dello Stato ed è sicuramente vero che il meccanismo dell’autorizzazione paesaggistica – il provvedimento di nulla osta del Soprintendente - non sia esente da rischi in termini di arbitrarietà. Ma, come diceva Churchill per la democrazia, di meglio non siamo riusciti ad inventare e il parere di un tecnico, nominato sulla base di specifiche competenze, di un concorso pubblico e che agisce in nome dello Stato, e quindi dell’intera comunità dei cittadini, continua ad essere di gran lunga preferibile.

Significativo quanto, in questa occasione, ha dichiarato un Consigliere friuliano della Lega, sostenendo la necessità del passaggio di consegne dal Mibac alla Regione in tema di tutela: “La Regione, se investita direttamente del ruolo di soggetto decisore, saprebbe trovare il giusto compromesso tra salvaguardia del patrimonio culturale ed esigenze amministrative.” Nell’ossimoro del “giusto compromesso” sta il nodo della questione: di fronte allo scempio del paesaggio, alla gravità del fenomeno del consumo di suolo e del degrado del territorio rurale, ogni “compromesso”, oltre che incostituzionale, e quindi illeggittimo, è politicamente, culturalmente, socialmente innammissibile. Gravissimo è che la risposta dei politici continui ad essere ispirata a quei criteri di arroganza del potere cui il ventennio berlusconiano ci ha assuefatto: agli eletti dal popolo non possono essere frapposti ostacoli, neanche in nome di principi costituzionali che guardano ai diritti di tutti e non di pochi.

Anche a difesa del nostro paesaggio, è tempo di seppellire questa funesta pagina della storia nazionale.

Articolo inviato contemporaneamente al blog dell'Autore su l'Unità
L'Unità on-line, 30 gennaio 2013

Colpisce, in questa campagna elettorale rissosa e poco propizia ad una reale discussione sui contenuti, il numero di appelli, decaloghi, proposte sul nostro patrimonio culturale. La situazione preagonica del Ministero per i beni e le attività culturali è ormai conclamata: le cronache quotidiane ci raccontano sia del degrado dei monumenti, sia delle difficoltà sempre più pesanti che affrontano musei e biblioteche pubbliche. Crolli e chiusure sono i sintomi della condizione di totale irrilevanza cui il Ministero è ridotto da troppi anni e almeno tre ministri. Associazioni ambientaliste, intellettuali, giornalisti ne richiedono, unanimemente, una radicale riforma. Renato Esposito ed Ernesto Galli della Loggia si sono spinti oltre, proclamando la necessità di istituire un Ministero della Cultura che costituisca niente meno che l’antidoto all’attuale “paralisi della coscienza nazionale” ed elabori un nuovo “ruolo dell’Italia in Europa”.

Davvero improbabile che una specifica struttura dell’amministrazione statale possa essere investita di un compito così vasto e complesso, per cui caso mai occorre ripartire dalla scuola e dall’educazione, ad ogni livello e pensando ad un processo interdisciplinare che coinvolga anche patrimonio culturale e paesaggio. Ma la provocazione di Esposito e Della Loggia ha l’indubbio merito di ribadire una gerarchia di priorità verso la quale il mondo politico dimostra un consenso superficiale e puramente mediatico. Basta leggersi quell’Agenda di Mario Monti che alla voce cultura ha riservato una striminzita paginetta con molte banalità, mentre una delle sue candidate, l’ex presidentessa del Fai, per ribadire quale sarà il suo impegno a favore del patrimonio culturale ha auspicato che «la cultura sia, naturalmente dopo il lavoro, naturalmente dopo l’emergenza dei nostri conti, naturalmente dopo altre emergenze, una delle grandi priorità del Paese» (Giornale dell’Arte, 1/2013)

E’ esattamente quello che non vogliamo più: la tutela del nostro patrimonio culturale e del nostro paesaggio deve essere al primo posto dell’agenda di chi ci governerà perchè significa in primo luogo lavoro: per i tantissimi giovani precari che già adesso, in condizioni davvero poco dignitose, garantiscono la tenuta del nostro sistema, scavando nei cantieri archeologici, catalogando libri e documenti, consentendo l’apertura di musei, siti, biblioteche, altrimenti chiusi.

E ancora lavoro ottenuto attraverso un’opera di manutenzione e riqualificazione delle nostre città, dei nostri centri storici e di un territorio che in Italia coincide con il paesaggio. La prima grande opera che, attraverso la prevenzione dei danni sempre più ingenti provocati dai disastri naturali, consentirebbe ingenti risparmi sui bilanci dello Stato.

La cultura non viene nè prima, nè dopo le grandi emergenze che conosciamo, ma le attraversa tutte. E si fonda su quell’infrastruttura fondamentale che sono patrimonio culturale e paesaggio. Da lì occorre ripartire, ripensando radicalmente al Ministero per i beni e le attività culturali, non solo in termini di aumento della qualità e quantità delle risorse – economiche, di personale, di competenze – ma anche e soprattutto di rapporti funzionali fra le strutture dello Stato e della Repubblica.

Ancora prima di ogni costruzione o riforma ministeriale, infine, occorre tornare, dopo un decennio di apnea intellettuale, ad una visione politica del patrimonio culturale e del paesaggio degna di questo nome.

Uno degli imperativi dell'ambientalismo è quello di coniugare l'ecologia con l'economia. Una iniziativa in questo senso è rappresentata dalla proposta di sostituire le domande di iscrizione alle scuole e i documenti relativi alle carriere scolastiche e le stesse pagelle degli studenti, finora su carta, con moduli da compilare sul computer e da rendere disponibili in forma telematica. Gli scopi sono vari: uno ecologico, la possibilità di risparmiare carta e quindi di evitare il taglio di alberi e tutti i rifiuti e inquinamenti associati sia alla produzione della carta, sia allo smaltimento delle carte usate.

Un secondo aspetto è risparmiare spazio; gli archivi di documenti cartacei occupano spazi sempre crescenti e sempre più difficili e costosi da trovare, al punto che alcune amministrazioni sono costrette a disfarsi di vecchie pratiche, addirittura di mandare al macero vecchi libri o doppioni di libri esistenti nelle biblioteche. A dire la verità mi addolora pensare a queste perdite ma mi rendo conto che sono imposte proprio da quei limiti della sopportabilità della Terra su cui l'ambientalismo giustamente richiama l'attenzione

La informatizzazione di molte pratiche ha anche importanti vantaggi sociali; fa risparmiare tempo ai parenti che non hanno più bisogno di andare presso le scuole a depositare le iscrizioni, e agli impiegati il cui lavoro viene snellito e reso più efficiente, alleggerendo così anche le spese dello Stato. Ancora dal punto di vista economico, viene diffuso l'uso dei computer e dei metodi di comunicazione elettronica, con aumento delle vendite di questi apparecchi in un momento in cui il mercato sembra andare verso la saturazione delle vendite, dai computer compatti ai telefoni che-fanno-tutto.

Qualcuno ha sollevato qualche dubbio: non tutti possiedono o hanno voglia di acquistare dei computer: niente paura ci saranno sempre presso le scuole delle postazioni e degli assistenti che aiuteranno a compilare le iscrizioni telematiche. Qualcuno ha anche obiettato che non tutti i parenti hanno familiarità con l'uso di apparecchiature elettroniche, ma l'iniziativa si propone proprio anche la alfabetizzazione telematica di tutto il paese, condizione considerata indispensabile per entrare in pieno nella modernità e nel futuro. Sono state sollevate obiezioni, anche in questo giornale, sulla perdita di un contatto fisico, materiale, con i documenti scolastici, che siano compiti o registri o pagelle; alcuni hanno ricordato con nostalgia le pagelle dei lontani tempi di scuola nelle quali restava una traccia ben visibile della propria storia personale, delle speranze e delle delusioni, delle sgridate per i cattivi voti o dei premi per i buoni risultati. Su questi aspetti di natura psicologica o pedagogica non so esprimere un parere.

Una piccola osservazione vorrei fare a proposito della conservabilità futura dei documenti telematici raccolti su dischi e supporti magnetici che occupano poco spazio, ben catalogabili e i cui dati possono essere facilmente ritrovati con un click su un tasto o una finestrina del viodeo. Non c'è dubbio che l'informatizzazione dei documenti ha portato una benefica rivoluzione, soprattutto per chi studia e vuole avere notizie. E' oggi possibile a qualsiasi persona, anche in zone isolate o lontane, mediante collegamenti telefonici o radio, accedere a documenti o testi che avrebbe potuto trovare soltanto dopo visite a biblioteche o uffici lontani. E' oggi incredibilmente più facile scrivere articoli o tesi di laurea.

L'unico pericolo è che i testi informatici col tempo possano "scomparire" per qualche motivo: perché cambia il modo in cui sono stati "scritti" o cambia il supporto magnetico che li ospita, dai vecchi dischetti alle odierne "pennette" capaci di contenere milioni di pagine in uno spazio ristrettissimo, strumenti perfetti ma fragili meccanicamente, col rischio della perdita di dati se esposti a campi magnetici. Purtroppo l'esperienza mostra che ogni tanto interi blocchi di informazioni, a cui ieri si accedeva, oggi non si trovano più, spostati o cancellato. Al punto che è stato necessario creare in Internet un "archivio", nel sito: "http://archive.org", in cui, con grande pazienza è fortuna, è talvolta possibile ritrovare vecchio materiale informatico.

Della carta si sanno molte cose: nei cinque secoli della sua storia si sa quali tipi sono pervenuti a noi, spesso in buono stato, si sa quali tipi di carta sono stati attaccati dai parassiti o sono diventati fragili e illeggibili. Quanto si troverà fra venti anni dei documenti e libri e articoli oggi "informatizzati", dalle pagelle ai documenti catastali e notarili, eccetera ?

Vorrei formulare una modesta proposta: la istituzione di una commissione permanente di vigilanza sullo stato di conservazione e di accessibilità pubblica dei documenti informatici Non è un problema banale e lo dimostra il fatto, per esempio, che le tracce di alcune telefonate, anche loro piccoli segnali elettronici su qualche disco o nastro magnetico archiviato chi sa dove, sono reperibili, ma se si vogliono leggere vanno trascritte in migliaia di pagine --- su carta. La vendetta della carta.


Credo che mai, alle persone della mia generazione, sia capitato di iniziare un nuovo anno con la certezza che esso sarà peggiore del precedente. E' quanto accade in questo 2013. Sotto il profilo sociale, per il nostro paese, per milioni di cittadini, l'anno che verrà sarà uno dei più devastanti nella storia dell'Italia repubblicana. Dopo tante prove - su cui si fonda tale sconsolata certezza - se ne è appena aggiunta un'altra, che rende il quadro economico nazionale perfettamente delineato.L'Istat ha comunicato un 'inflazione annua del 3%. Inflazione ufficiale, naturalmente, cioé sottostimata, ma che già da sola dà la misura di uno sconvolgimento senza precedenti dell'economia nazionale. Ma come, un Paese in cui il PIL scende del 2%, la disoccupazione dilaga a livelli di dopoguerra, il potere di acquisto della popolazione regredisce di decenni, migliaia di imprese chiudono i battenti, noi abbiamo un aumento dei prezzi di beni necessari di tale misura? I montiani collocati in tutto l'arco costituzionale – come si diceva una volta – hanno di che gloriarsi.

Queste considerazioni costituiscono la premessa indispensabile per alcune riflessioni politiche che riguardano la sinistra nel suo insieme, ma in primo luogo il centro-sinistra. Non c'è dubbio, tanto per cominciare, che quest'ultimo – se sarà chiamato a governare, come speriamo - erediterà un paese in condizioni peggiori di quanto non fosse un anno fa. Quando era possibile andare alle urne. In aggiunta esso dovrà fare i conti con la gabbia d'acciaio – alla cui costruzione ha dato un volenteroso contributo – del fiscal compact, su cui si è appena soffermato Luciano Gallino (Repubblica dell' 8 gennaio). E' uno svantaggio di partenza enorme, sia per l'insieme dei problemi urgenti che si presentano, sia per come si configureranno i rapporti tra i partiti. E' già evidente, da queste prime battute di campagna elettorale, che le forze politiche che hanno condotto l'Italia alle attuali condizioni, e tra queste anche Monti, si libereranno di ogni responsabilità pregressa. Si presenteranno e già si presentano come oppositori di lungo corso, che mai hanno messo piede nelle stanze di Palazzo Chigi. E' prevedibile che tale situazione politica venga aggravata da due componenti, in parte oggettive e in parte psicologiche. Le pretese delle masse popolari in condizioni di crescente disagio saranno maggiori nei confronti del centro-sinistra, più incalzanti di quanto non siano stati con i precedenti governi. A dispetto dei “buoni uffici” che può svolgere la CGIL. Anche perché le condizioni sociali si sono nel frattempo deteriorate: ciò che prima era grave oggi è intollerabile. Ci sarà poco tempo, al governo sarà concessa poca attesa. Il tempo che c'era per attenuare le punte più aspre delle sofferenze se l'è mangiato il governo Monti, impiegandolo per renderle ancora più estreme. Al tempo stesso, la psicologia da eterni penitenti degli ex comunisti, che si considerano sempre sotto esame di ortodossia da parte dei poteri europei, li porterà ad essere più realisti del re e a muoversi nel recinto della suddetta gabbia. Se il centro-destra si sposterà, come già sta facendo, su una strumentale posizione di critica antiliberista e realisticamente antieuropea (dell' Europa della Troika) le difficoltà politiche del centro-sinistra, già in campagna elettorale, aumenteranno di giorno in giorno. Ma potrebbero costringerlo ad assumere finalmente un profilo più smarcato dalle varie agende neoliberiste. Se perfino Monti prova a smarcarsi dal suo precedente governo!
Entro queste strettoie le possibilità di un qualche successo del centro-sinistra e della sinistra intera sono affidate innanzi tutto a una capacità di manovra con i paesi del Sud d'Europa e della Francia, che li metta in condizioni di rinegoziare il debito e spingere la Bce ad un nuovo ruolo: condizione per uscire dalla turbolenza finanziaria e per puntare a una nuova architettura istituzionale dell'Unione. Ma il centro sinistra e la sinistra – che mi auguro possa avere anche una presenza in Parlamento – debbono invertire la rotta con iniziative interne mirate soprattutto ad alleviare le condizioni di sofferenza sociale diffuse nel Paese. Con la consapevolezza che siamo in grave ritardo. Ricordo un particolare non da poco. Non è da ieri che le varie forze politiche della sinistra sono consapevoli che il problema centrale dell'Italia ( e del nostro tempo) è il lavoro, l'occupazione. Ebbene, non dovevano queste forze, già da qualche anno, chiamare a raccolta le migliori intelligenze della nazione per studiare soluzioni, proposte, vie d'uscita, strategie di medio e lungo periodo? Non dovevano richiamare l'attenzione di tutte le classi dirigenti con una iniziativa anche simbolicamente dirompente? Non è mai successo. L'unica iniziativa di tal genere l'ha realizzata ALBA, un piccola e nascente formazione politica, priva di mezzi, ai primi di ottobre dello scorso anno. «Un po' di lavoro» suole ripetere Pierluigi Bersani, come un tempo i mendichi chiedevano »un po di pane» sugli usci delle case. Espressione in cui traluce lo spirito del nostro tempo, riflesso dei rapporti di forza ormai abissali tra operai e capitale. Ma se si resta a questo livello minimo non si andrà lontano. Io credo che gli sgravi fiscali sul lavoro, l'eliminazione di barriere burocratiche vessatorie alla costituzione di imprese, e altre misure consimili possano, certo, avere degli effetti benefici. Ma è una illusione credere che da qui passi la “ripresa” e ritorni la piena occupazione. Sappiamo già dalla storia recente degli USA – che pure oggi stanno facendo una politica opposta a quella della UE – che la ripresa è jobless recovery, cioé senza occupazione. E' accaduto già ai primi anni '90, sta accadendo anche oggi malgrado i fiumi di dollari a buon mercato profusi dalla Federal Reserve e la crescita del PIL. La ripresa economica, la cosiddetta crescita, avviene soprattutto tramite incremento della produttività del lavoro ( sostituzione di uomini con macchine, oltre che con intensificazione della fatica degli occupati) e quindi il nuovo lavoro che nasce è “poco”. Questo rinvia a una incapacità sistemica ormai conclamata del capitale e alla necessità di una nostra consapevolezza di prospettiva: il vecchio modello di accumulazione non regge. Genera sempre meno occupazione e turbolenza finanziaria endemica. Consapevolezza da tenere ben presente anche per gli interventi immediati, che riguardano il nostro dannato presente. E sotto tale profilo l'istituzione di un reddito di cittadinanza – avanzata a modo suo persino dall'algido Monti - costituisce il nesso che lega la prospettiva strategica alla rivendicazione immediata. Oggi appare come un passaggio obbligato se si vuole separare reddito da occupazione (che non c'è), lavoro da dignità umana, prestazione produttiva da godimento dei diritti ed esercizio della democrazia. E' una necessità per lo stesso capitalismo in questa fase tarda della sua storia. Per noi dovrebbe costituire uno degli elementi da inserire nella costellazione dei diritti universali, nuova energia cosmopolita – come ci ricorda Stefano Rodotà nel suo ultimo libro - che spinge le comunità umane ad abbattere vecchie gerarchie e ad affrontare con buone armi i poteri che si sono liberati dei controlli degli Stati nazionali.

C'è un altro versante di problemi immediati su cui intervenire. Mi riferisco al mondo della scuola, dell'Università e della ricerca. Non è più tollerabile che le strutture fondanti di un grande paese industriale, della nostra stessa civiltà, siano considerate come fonti di spreco da punire e demolire. Su questo punto, nei primi 100 giorni il governo che verrà dovrà dare segnali inequivocabili, in termini di risorse e di mutamento radicale di indirizzo politico. Tale scelta necessaria non costituisce soltanto la premessa di una strategia di alto profilo, impegnata a delineare un nuovo modello di economia, ma rappresenta la condizione indispensabile per dare un segnale immediato di speranza a milioni di giovani. Studenti che vogliono proseguire gli studi, laureati, dottori, ricercatori che oggi sono senza mezzi e prospettive. Fornire a tali figure un ruolo da protagonisti non solo significa, per l'avvenire, ricercare un superiore assetto alla nostra società di capitalismo maturo, ma dare subito ai nostri ragazzi, alla classe dirigente in formazione, il senso di un mutamento generale in cui credere e a cui appassionarsi. Chi appoggerà nel paese un governo che si limita ai piccoli passi e a indolori aggiustamenti, mentre la sofferenza sociale dilaga ? La politica si fa certo "acendo le cose", ma anche suscitando passioni, inserendo anche le giuste piccole cose in un quadro d'insieme: una prospettiva che faccia intravedere orizzonti più larghi, mete plausibili di cambiamento generale per le quali si è disposti a lavorare e a resistere. Sotto tale profilo non c'è dubbio che il problema del lavoro e quello della formazione, della cultura e della ricerca, trovano il punto d'incontro in una prospettiva d'insieme: la riconversione ecologica dell'apparato produttivo. La qual cosa in Italia significa, soprattutto (ma non solo), un nuovo rapporto tra economie e territorio. La sfida di porci dentro i marosi del mercato mondiale con una nostra specifica forza economica che conservi saperi e bellezze, che tuteli il suolo e gli abitati e che nello stesso tempo offra lavoro produttivo e di restauro è una partita di grande respiro. Già da sola potrebbe offrire a tutta la sinistra un'occasione di unità di intenti e al tempo stesso un vessillo identitario dietro cui trascinare masse sociali, istituzioni, imprese. I movimenti sono già attivi in vario e frammentario modo su tale terreno. Costituiscono le esperienze politiche più originali della storia italiana recente. Da essi, i partiti hanno molto da imparare in termini di procedure e di competenze acquisite sul campo. Ma devono mettere da parte la logica delle grandi opere. In tale ambito le opere devono essere piccole e innumerevoli, in grado di dare lavoro, non attraverso il saccheggio una tantum del territorio, ma tramite la sua cura e la sua valorizzazione permanente.

www.amigi.org

Dopo che nel governo dei tecnici l’unico Ministro...
Dopo che nei governo dei tecnici l'unico Ministro privo di specifiche competenze era stato proprio quello dei beni culturali, quell’Ornaghi che in questi tredici mesi si è guadagnato la medaglia di peggior ministro della storia del Ministero di Spadolini, le attese da parte nostra sull’agenda Monti erano davvero poche.

Ma l’inconsistenza della mezza paginetta dedicata a “L’Italia della bellezza, dell’arte e del turismo” nel documento “Un’Agenda per un impegno comune” , il manifesto politico di Mario Monti, è tale da superare, al ribasso, le già limitate aspettative di partenza.

Anche dalle aporie, in ogni caso, si possono trarre alcune considerazioni. A partire dall’uso del linguaggio che, già in incipit, fa ricorso alla consueta panoplia retorica a proposito di un patrimonio culturale “che non ha eguali al mondo” e che nella visione montiana spazia “dai monumenti alla gastronomia” (sic).

Come pure indicativa è l’elencazione (assai breve) dei risultati del governo ottenuti in questo ambito. Ritorna un grande classico: Pompei. Senonchè il così detto Grande Progetto Pompei, presentato in pompa magna dallo stesso Monti e ben 4 ministri 4, all’inizio di aprile, e non ancora entrato in fase operativa (nessun cantiere avviato), si affida interamente alle risorse della Comunità europea (105 milioni) e rappresenta, sul piano istituzionale e culturale, il fallimento dell’esperimento dell’autonomia del sito archeologico. Tutto è in mano al Ministro per la coesione territoriale Barca e alla società Invitalia, e la Soprintendenza, sottoposta ai controlli di un prefetto, è di fatto commissariata sia sul piano tecnico-scientifico che su quello amministrativo.

Quanto al progetto della Grande Brera, al di là della contestatissima costituzione della Fondazione, poco o nulla si è fatto per risolvere uno dei grandi buchi neri della cultura milanese e italiana e mentre continua il minuetto sul trasloco dell’Accademia, manca ancora un progetto complessivo credibile per la Pinacoteca.
Eppure il ricorso a Fondazioni o al più a “partnership pubblico-privato” sembra essere l’unica ricetta disponibile per “un allargamento dello spettro delle iniziative finanziabili”.

Detto in soldoni: non è neppure pensabile che lo Stato possa investire altre risorse, e quindi non resta che cercare altrove, nel privato. Al Ministero, sembra di capire, potrebbe rimanere giusto il compito di stilare la lista delle “iniziative”, fra cui il finanziatore sarebbe chiamato a scegliere. Come in una lista di nozze.

E questo è tutto, perchè subito a seguire, il documento affronta il tema del turismo, non sorprendentemente letto come una (la sola citata) delle finalità del patrimonio culturale. Anche qui ce la caviamo con qualche suggerimento di sinergie e marketing, ma almeno si accenna ad un Piano strategico per il Turismo e quindi ad un’elaborazione di politica del settore.
Insomma, par di capire, nella visione montiana, “puntare sulla cultura” significa semplicemente trovare in giro un po’ di soldi in più da distribuire a qualche museo o sito dotato di un qualche progetto.

Completamente assente ogni considerazione delle criticità della situazione attuale attraversata dal Ministero e per molti versi vicina al collasso: un numero ogni giorno maggiore fra le le istituzioni culturali, dai musei, anche di grandissimo rilievo, ai siti archeologici, alle biblioteche e agli archivi non riesce più a garantire neppure i servizi essenziali.
Ma soprattutto il Ministero si sta ritirando, non solo per ragioni contingenti legate alle carenze di personale e mezzi, dalle funzioni fondamentali di controllo sul territorio.

Non per caso, probabilmente, il grande assente nel documento programmatico, è il paesaggio: il grande malato d’Italia.
Non una parola sulla pianificazione paesaggistica ormai abbandonata alla deriva regionalistica. L’unica volta in cui compare il termine paesaggio è laddove si chiarisce che “puntare sulla cultura” significa integrare “arte e paesaggio”: quasi fosse un compito ancora da intraprendere. In un paese dove l’opera delle generazioni che ci hanno preceduto ha saputo costruire, nei secoli, una delle più armoniche integrazioni al mondo di arte e paesaggio, appunto.

Se è vero che è ingenuo pretendere analisi approfondite da documenti elettorali, la pochezza di queste righe lascia ugualmente sconcertati. Elementi di superficialità e genericità ricorrono in altri paragrafi del manifesto, ma qui ci troviamo di fronte ad una sorta di estraneità culturale ai principi costituzionali rappresentati nell'art. 9. Nessuno pretendeva soluzioni innovative e articolate o strategie pronte per l’uso: la materia è complessa e la situazione difficilissima. Ma proprio per questo ci saremmo aspettati, appunto, il richiamo alla necessità – urgentissima – di una nuova politica per i beni culturali.

Una politica la cui mancanza, ormai da molti lustri, è causa prima del disastro in cui ci troviamo. Che l’Agenda Monti non ne senta il bisogno, sottolinea senza scampo che, così come è avvenuto per l’ultimo anno, patrimonio culturale e paesaggio sono relegati, in questa visione, ad un ruolo di totale irrilevanza: accessori estetici un po’ (troppo) costosi , utili tutt’al più all’aumento dei flussi turistici.
La presenza latitante di un Ornaghi al Collegio Romano diventa, in questo quadro, del tutto pertinente.

Bologna, 25 dicembre 2012
"L'Agenda Monti":Cambiare l'Italia, riformare l'Europa

Indovinare se Berlusconi si presenterà o meno, quale leader del centro-destra, alle prossime elezioni rappresenta uno deiIndovinare se Berlusconi si presenterà o meno, quale leader del centro-destra, alle prossime elezioni rappresenta uno dei misteri gloriosi del momento politico italiano, visto che chi racchiude l'arcano non sa egli stesso che cosa farà domani. Incertezze della squallida scena nostrana, che dopo momenti di ripresa e addirittura di entusiasmo popolare per le vicende della politica (primarie del centro-sinistra ), ripiomba nel solito confuso tran tran. Naturalmente non ci tormenta più di tanto il ritorno in scena del vecchio e torbido padrone della vita politica italiana. Certi miracoli non sono più replicabili. Gran parte della borghesia italiana e quel frammento di potere-ombra che ha sede entro le mura del Vaticano hanno dovuto ormai da tempo voltargli le spalle. Senza dire che un po' di senso della decenza si è fatto strada anche nelle coscienze di chi, per odio contro la sinistra, per superficialità, per antica abiezione morale lo aveva sin qui osannato. Ma il breve ritorno in scena di Berlusconi, le sue apparizioni televisive, sono bastate per anticiparci i lineamenti di uno scenario possibile: per farci comprendere la potenza eversiva del programma che oggi potrebbe mettere in campo la destra in Italia. Alla trasmissione televisiva Servizio Pubblico del 13 dicembre, l' ex ministro Giulio Tremonti, senza scadere nello sguaiato antioeuropeismo della Lega, ha completato il quadro, mostrando quale nuova miscela potrebbe creare una alleanza di quel che resta del PdL e dintorni con il partito di Maroni. Intanto, si deve far notare come gli uomini che stanno al governo da quasi un paio di decenni sono già in grado di collocarsi perfettamente nel ruolo degli oppositori. Mentre Monti ha messo in atto una delle più feroci manovre antipopolari della storia repubblicana, i suoi stessi sostenitori, coloro che in Parlamento hanno approvato e talora ispirato le sue leggi, ora lo accusano di avere affamato il popolo. Sono già passati dall'altra parte della barricata. Salvo pentirsi il giorno dopo, chiedendo all'accusato di mettersi a capo delle loro schiere. Ma questo a riprova della spregiudicatezza con cui queste figure, senza ideali e senza fedi, sanno muoversi in una situazione di grande confusione.

C'è tuttavia un punto dei motivi programmatici fatti balenare dal centro-destra che genera allarme: la rivendicazione della autonomia e della dignità nazionale di fronte alla proterva configurazione oligarchica dell'Unione Europea. Tale tema è infatti destinato a un grande successo popolare nei prossimi mesi e anni. Perché, come dovrebbe essere evidente, il progetto europeo ha perso tutte le seducenti idealità da cui era stato accompagnato alla sua nascita, e oggi – come ha mostrato Barbara Spinelli in un perfetto articolo su Repubblica del 12 dicembre – appare responsabile dei più gravi problemi che gravano sul Vecchio Continente. L'Unione è diventata una gabbia di ferro, un ristretto ufficio di ragioneria, che tiranneggia con le sue manovre finanziarie gran parte delle popolazioni dei vari stati.

Ebbene, allo stato attuale non credo che il centro-destra sia nelle condizioni di imbastire in poco tempo una campagna elettorale di tipo nazional-populista in grado di condurlo alla vittoria elettorale. Questo pericolo non è immediato, ma può assumere ben altre dimensioni e forza più avanti, una volta che un governo di centro-sinistra si sia insediato al potere. A fare temere l'evolversi di una tale disastrosa prospettiva sono molti elementi del quadro presente. Intanto la situazione economica. E' davvero singolare come i fenomeni economici, a partire dal 2008, si siano svolti sotto i nostri occhi secondo le sequenze che Marx aveva descritto nelle crisi del suo tempo. «La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione». E infatti è occorso del tempo prima che dal disordine finanziario si passasse alla vita delle imprese, dalle imprese alla società e ai lavoratori. Ma ai meccanismi per così dire spontanei della crisi si aggiunge oggi la politica di austerità, che replica le cause profonde della crisi stessa e continua ad alimentarla. Così non stupisce che ormai da anni quasi ogni mese ci riserva una “rivelazione”. Un giorno è la notizia del calo del Pil , un altro ci annunzia la riduzione della produzione industriale, un altro ancora il crollo dei consumi. In questi giorni, oltre il record del debito pubblico, che ha sfondato il muro storico dei duemila miliardi (chi dà un premio a Mario Monti, salvatore della patria, per tale risultato?) l'Istat ci ha informato che la disoccupazione ufficiale ha superato l' 11%, la Banca d'Italia ci comunica che la disuguaglianza dei redditi familiari è ancora cresciuta e che un 10% delle famiglie si gode il 45% della ricchezza nazionale. Purtroppo, chi crede che le rivelazioni finiscano qui si sbaglia. Perché nei prossimi mesi noi avremo le notizie quotidiane delle migliaia di cassiintegrati che diventano disoccupati, dei lavoratori precari che perdono anche l'occupazione provvisoria, delle famiglie indebitate che non possono pagare più il debito, delle imprese che chiudono perchè non ricevono credito e non sanno a chi vendere i loro prodotti. Il tempo prossimo che ci attende peggiorerà una situazione già pessima, perché esso non lavora per noi, ma per dispiegare interamente i meccanismi di distruzione della crisi e della politica di austerità. Solo chi mente dice che l'uscita dal tunnel è prossima. E ricordo che la storia di queste menzogne, raccontata con ridicola protervia da schiere di economisti e uomini politici, inizia già a un anno dall'esplosione della crisi, nel 2009. Si potrebbe scrivere un'antologia di queste fandonie, che segnano un'apoteosi di profezie fallimentari dell'analisi economica neoliberista.

Ebbene, è difficile immaginare che il vento del disagio sociale che spazza l'Italia si placherà nel 2013. Se il centro-sinistra, com' è probabile, vincerà le elezioni, si troverà a dover fronteggiare una situazione economica e sociale di inedita gravità. Di fronte a tale realistico scenario, a parte la debolezza e la confusione che regna nel campo della sinistra radicale, sgomenta ( ma non stupisce) il traccheggio del PD dopo l'indubbio successo delle primarie. Certo, onestà vuole che si riconosca la difficoltà della situazione in cui si trova questo partito e soprattutto Bersani. Chi fa analisi politica dovrebbe praticare l' esercizio di modestia di immaginare le proprie capacità di manovra calandosi nella posizione del soggetto giudicato. Bersani è oggi tirato dall' alto, dal basso, dal centro, da dentro e da fuori e la sua stessa resistenza è un piccolo miracolo. Ammetto anche che costituisca una saggia pratica politica non lasciarsi andare in astratti proclami rivoluzionari e realizzare poi nei fatti un'opera di giustizia sociale e di redistribuzione della ricchezza. La vera “manovra finanziaria” che il centro sinistra dovrebbe varare. Ma non si può non ricordare che la politica è fatta anche di cose dette, di messaggi, di parole nuove, di visioni che creano consenso ed energia di mobilitazione. Il centro-sinistra è stato premiato con le primarie al di là dei suoi meriti, perché in questo momento le masse popolari democratiche non hanno altro fronte politico-istituzionale in cui esprimere la propria testarda volontà di “prender parte”. In Italia un indomito popolo di sinistra continua a tenere alte le insegne della lotta come in pochi altri paesi del mondo. Ma questo patrimonio di consenso e di fiducia rischia di essere disperso, di trasformarsi in delusione e abbandono se esso non avrà la risposta che si attende: una decisa politica di riduzione delle iniquità che lacerano il paese, di difesa dei beni comuni, del welfare, della scuola e dell'Università, di orgogliosa rivendicazione della sovranità politica del nostro Paese di fronte ai poteri vessatori della finanza e delle istituzioni non elettive della UE. Ebbene, è difficile vedere oggi una tale nettezza di visione, di determinazione politica nel maggiore partito del centro-sinistra. Non scorgiamo la volontà di un raccordo con i popoli e i governi dei Paesi d'Europa messi in ginocchio dagli interessi e dalla superstizione finanziaria della Troika. Sentiamo solo toni dimessi e soprattutto la scarsa rivendicazione della dignità del Paese, dei suoi istituti democratici, che tanti, in Italia e in Europa, vorrebbero sotto la tutela di un uomo, Mario Monti, deputato a rassicurare i poteri finanziari.

Quanta miseria di pensiero c'è in questo universale osanna di un uomo che ha fallito tutti gli obiettivi economici del suo programma! Ma se questo dimesso profilo dovesse diventare anche la sostanza della politica governativa del centro-sinistra, diventa altamente probabile il fallimento dell'alleanza e di tutto il progetto. Un paese che da anni ormai precipita all'indietro sul piano delle conquiste materiali e dei diritti, non si accontenterà di qualche pannicello caldo per lenire le ferite più recenti. Se non si danno segnali significativi di svolta, non solo verrà meno quella spinta di popolo senza la quale non si realizzano gli spostamenti di ricchezza e di potere con cui si esce dalla crisi. Ma il centro-destra avrà a sua disposizione praterie per organizzare la sua riscossa. I risultati elettorali in Giappone sono un ammonimento per tutta la sinistra. Mettere sotto accusa l'ottusità dei dirigenti della UE, rivendicare l'autonomia e la dignità offesa dell'Italia e dei popoli europei, rivendicare meno tasse, darà nuova dignità e linfa vitale al populismo della destra. E' del resto un fenomeno già in atto. Da tempo i dirigenti dell'Unione stanno gettando legna sui mille focolai del populismo accesi in ogni angolo del continente. Ma se il populismo dovesse vincere in Italia, sulla sconfitta del centro-sinistra, contro l'europeismo democratico e progressista, l'edificio della UE rischia il suo definitivo disfacimento.

www.amigi.org. l'articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto

"Il passato è prologo", ammonisce Shakespeare, ed è vero perché gli eventi di oggi sono stati preparati e anticipati da simili eventi del passato. Questo vale in particolare per i problemi ambientali, come inquinamenti, erosione del suolo, violenza per la conquista delle risorse naturali scarse, conflitti occupazione-salute, per i quali dal passato abbiamo imparato ben poco. Da qui l'importanza della storia dell'ambiente, una disciplina troppo poco praticata e tanto meno diffusa nell'opinione pubblica.

Negli anni cinquanta del Novecento si diceva, un po' per scherzo, che le bizzarrie del clima, le estati troppo calde o gli inverni troppo freddi erano "colpa delle bombe atomiche". Negli anni quaranta e cinquanta del Novecento le centinaia di esplosioni di bombe nucleari americane, sovietiche, francesi e inglesi nei deserti e nelle isole lontane, non influenzavano molto il clima ma rappresentavano un gravissimo pericolo per la vita diffondendo nell'atmosfera di tutto il pianeta atomi radioattivi che venivano assorbiti dai mari, dai vegetali, entravano nei cicli biologici e finivano nel corpo umano. Il massimo della contaminazione radioattiva planetaria si ebbe nel 1961 e 1962. Intellettuali e studiosi si sforzavano di informare l'opinione pubblica dei pericoli sulla salute mondiale di questa corsa ad armi nucleari sempre più potenti, ma negli Stati Uniti il governo cercava di metterli a tacere accusandoli di essere comunisti, processandoli per attività antiamericane.

Nello stesso tempo venivano scoperti i danni provocati all'ambiente e alla salute dal crescente uso di nuovi "potenti" prodotti chimici, grandi successi commerciali ma spesso tossici come i pesticidi clorurati. Molti processi chimici usavano sostanze tossiche come mercurio, piombo, cloruro di vinile, amianto; producevano sostanze "perfette" e indistruttibili come molte materie plastiche, detersivi sintetici, fosfati e nitrati che finivano nelle acque con danni biologici. La protesta degli scienziati fu diffusa dai primi movimenti di contestazione ecologica attraverso riviste, pubblici dibattiti fino a raggiungere la grande stampa.

Nel 1952 un certo Lewis Herber pubblicò negli Stati Uniti un articolo intitolato: "Il problema dei prodotti chimici negli alimenti", a cui fece seguito, nel 1962, un libro più ampio intitolato: "Il nostro ambiente sintetico", apparso pochi mesi prima dell'altro libro di successo scritto da Rachel Carson, "Primavera silenziosa". Herber era lo pseudonimo che Murray Bookchin (1921-2006) aveva adottato per evitare l'incriminazione da parte della Commissione sulle attività antiamericane a cui non erano sfuggite le sue attività di informazione dell'opinione pubblica sui pericoli ambientali. Bookchin era nato a New York, figlio di emigrati russi, ed ebbe una vita avventurosa cominciata come operaio, poi come sindacalista; divenuto scrittore di successo e professore universitario fu l'animatore di movimenti in difesa dei consumatori, ecologici, pacifisti, contro la discriminazione razziale.

Fu tra i primi a scrivere di "ecologia sociale" (1974), a parlare dei "limiti delle città" (1973) e di crescita e declino dell'urbanizzazione (1987), anticipando anche in questo caso nuove visioni che cominciano oggi a farsi strada. Il suo libro "Per una società ecologica" (1980), tradotto anche in italiano, spiega le ragioni di molti guai con cui stiamo facendo i conti adesso e indica alcune delle vie per superarli.

Il libro "Il nostro ambiente sintetico", apparso mezzo secolo fa (purtroppo non è stato tradotto in italiano, ma si può leggere liberamente in Internet) denuncia la presenza negli alimenti di sostanze dovute all'inquinamento ambientale come le sostanze radioattive e i residui di pesticidi tossici, la contaminazione di prodotti commerciali ad opera di additivi usati nei cosmetici o nei preparati per lavare, nelle materie plastiche, nei carburanti. In sessant'anni di lotte ecologiche sono stati eliminati alcuni pericoli ma ne sono sorti altri; nuovi nomi come quelli delle diossine o del benzopirene sono entrati nel dizionario dei veleni.

Addirittura una recente proposta di legge minaccia di autorizzare l'uso come potabile di acqua contenente una pur piccola, ma non trascurabile concentrazione di microcistina LR, una molecola la cui presenza indica che le acque superficiali, inquinate da residui di fogne e concimi, prima di essere immesse negli acquedotti, hanno subito una depurazione soltanto imperfetta. L'attenzione per gli alimenti è spesso basata sulle mode e sulle diete dimagranti; la composizione e gli ingredienti dei prodotti come cosmetici e detersivi, quando devono essere indicati per legge, sono scritti in caratteri e in forma illeggibili. La situazione è complicata dalle crescenti importazioni di prodotti fabbricati chi sa come e dove.

Proprio la storia ambientale dei decenni passati dovrebbe stimolarci a rilanciare una "merceologia ecologica", quella descritta da Bookchin e dalla Carson, che aiuti e riconoscere i pericoli per l'ambiente, e quindi per la salute, nascosti nelle sostanze che maneggiamo ogni giorno.

(testo inviato anche alla Gazzetta del Mezzogiorno)

A rappresentare la crisi del mercato edilizio sarebbero la diminuzione dell’occupazione, la caduta del valore dei fondi immobiliari, il rallentamento della costruzione di abitazioni. Si dimentica, al contrario, l’andamento del settore riguardante gli uffici, i centri commerciali, i capannoni-magazzino, le infrastrutture pubbliche e private. Il censimento della popolazione e delle abitazioni (2011) mostra un aumento decennale degli alloggi inferiore a quello dei decenni precedenti. Dovuto in parte alla diminuzione delle abitazioni non occupate, che tuttavia restano a un livello inaudito, quasi cinque milioni. Permangono anzi si aggravano le vecchie distorsioni. I casi di coabitazione costituiscono un primato, se si esclude il periodo del dopoguerra. Infatti, se ne contano, sempre alla data del censimento, un milione, stante l’«avanzo» di oltre 500.000 famiglie residenti rispetto agli alloggi occupati.

Ho altre volte ricordato il fulminante giudizio dato da Pier Luigi Cervellati durante un convegno di quarant’anni fa, lo ripresento qui: «abbiamo prodotto troppe case, abbiamo prodotto le case che non servono». Aggiungendo la pletorica edificazione di quanto non concerne le abitazioni, considerando inoltre l’abusivismo mai morto (forse 30.000 abitazioni l’anno; così una stima relativa al 2008), il risultato è quella «cementificazione» del territorio, quell’enorme consumo di suolo urbano libero e distruzione anche di terreni agricoli su cui si discute anche in eddyburg. Sembra perfetto un titolo in il Fatto Quotidiano: «aumenta il cemento calano le abitazioni» (10.12.12.) intendendo alloggi economicamente accessibili alla gran parte di coloro che, non avendolo in proprietà, lo cercano disperatamente o in acquisto con mutuo o in affitto, comunque l’uno o l’altro proporzionato al proprio reddito. E non lo trovano. Perché, nonostante qualche dato statistico medio indichi una modesta flessione dei prezzi, la realtà della condizione urbana soprattutto nelle città grandi e medie mostra l’opposto, benché il mercato della compravendita non sia più quello esaltato, pazzo di certi periodi. Osservo Milano e noto che né il prezzo di vendita né l’affitto ha ceduto posizioni.

L’affittanza o il mutuo, poi, sarebbero la soluzione per singoli o coppie giovani che lavorano per lo più nel terziario e cercano alloggi di due, tre locali, se non il monolocale. Con stipendi fra i 1000 e i 1500 euro il divieto di accesso è assoluto. Un piccolo appartamento di due locali a Milano o a Roma, in aree periferiche urbane non lontanissime dal centro, può valere 250.000 euro. Leggo di una «prova» inerente a un mutuo trentennale e ai diversi vincoli fissati dalla banca: la rata sarebbe di 1400 euro il mese (Il FQ, idem). Una cifra che sbatte immediatamente fuori del mercato il richiedente, come fosse un pericoloso eversore. Conosco a Milano un gruppetto di cinque giovani neolaureati, impiegati a termine in una stessa azienda, che co-abitano in un alloggio di cinque stanze arredate ma con una sola cucina e che pagano ciascuno 800 euro, così che il locatario se ne ritrova 4000 il mese. Loro ne guadagnano 1400. Intanto la città è stravolta da una spropositata espansione interna o ricostruzione costituita da giganteschi edifici in buona parte di uffici e per il resto appartamenti di lusso, in forma di fantasioso per non dire insensato grattacielo, talvolta firmato dai soliti noti internazionalisti, o di alte muraglie a far da pesante contrappeso.

Area dell’ex Fiera, il Portello (terreno dei vecchi capannoni dell’Alfa Romeo, Montecity-Rogoredo, Garibaldi-Repubblica, Porta Vittoria (ex scalo ferroviario), l’Isola (vecchia Milano spazzata via)…, cui si aggiungeranno altri milioni di metri cubi sempre del medesimo tipo e «stile» nei terreni di altri scali ferroviari dismessi: ecco la nuova Milano, estranea a un principio di metropoli organizzata e a ogni legame con la città reale, che sbeffeggia i lavoratori in cerca di una casa equa per qualità e prezzo. Milano nasconde 50.000 alloggi vuoti e un numero inestimabile ma per così dire certo di uffici sfitti o invenduti. Il grattacielo Galfa, proprietà di Ligresti (l’indescrivibile nonno degli immobiliaristi) vicino alla Stazione Centrale, è completamente vuoto da quindici anni. La rendita fondiaria, lo sappiamo, si riproduce nel passare del tempo indipendentemente dalle vicende vissute dall’oggetto messo sul mercato o tenuto artificiosamente fuori. Intanto a Roma ci sta pensando Alemanno a onorare in misura mai vista la mai smentita fama di «città della cazzuola». Sembra che la giunta si affretti ad approvare, nel breve tempo prima delle elezioni comunali, progetti di nuove costruzioni dappertutto per venti milioni di metri cubi.

Milano, 11 dicembre 2012

Non convince la proposta del ministro Mario Catania. >>>
Non convince per gli antiquati e storicamente inconcludenti procedimenti a cascata, per l’imprevedibile lunghezza dei tempi, non convince soprattutto perché, alla fine, a decidere sono le regioni. Che è come chiedere al gatto di Pinocchio di tenere a bada la volpe, o viceversa. Intendiamoci, non tutte le regioni sono uguali. So bene che in certi posti gli spazi aperti sono in qualche misura tutelati, soprattutto nel centro Nord. Viceversa, nel Mezzogiorno, dal Lazio in giù (Lazio e Roma da questo punto di vista sono profondo Sud) lo spazio aperto è considerato sempre e comunque edificabile, farsi la casa in campagna un diritto inalienabile, e chi ha provato a metterlo in discussione è stato rapidamente emarginato. Insomma, con la proposta Catania, l’obiettivo logicamente prioritario, che dovrebbe essere di imporre le misure più severe laddove maggiore è sregolatezza, diventa francamente velleitario: ve le immaginate la Campania, il Lazio prime della classe che bloccano le espansioni e reprimono l’abusivismo? Servono perciò soluzioni radicalmente diverse.
E urgenti.
Continuare con l’attuale ritmo di dissipazione del territorio, anche per pochi anni, in attesa che le regioni si convertano al buogoverno, significherebbe toccare il fondo, annientare materialmente l’unità d’Italia, un disastro non confrontabile con crisi come quelle economiche e finanziarie, più o meno lunghe, più o meno gravi, più o meno dolorose, ma dalle quali infine si viene fuori. Il saccheggio del territorio è irreversibile. E allora? Andando subito al merito, secondo me, e scusandomi del carattere anche molto tecnico dell’esposizione, dovrebbero essere praticabili due percorsi che provo a illustrare. Il primo percorso fa capo al Codice dei Beni culturali che, com’è noto, sottopone a tutela (art. 131, c. 2) il paesaggio dotato di “quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”: parole che riprendono quelle scritte da Benedetto Croce in occasione della legge 778 del 1922, da lui voluta (“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo”). Il paesaggio come identità nazionale non può essere evidentemente tutelato in autonomia da 20 regioni, e perciò il Codice dispone (art. 135, c. 1) che i piani paesaggistici siano elaborati “congiuntamente” tra ministero dei Beni culturali e regioni: mentre prima, al tempo della legge Galasso, i piani paesistici erano di esclusiva competenza regionale.
Che lo Stato non debba partecipare solo nominalmente o in via subordinata alle iniziative regionali, ma debba essere invece il motore della pianificazione è previsto dalla seguente norma che secondo me è la più importante del Codice (art. 145, c.1): “La individuazione, da parte del Ministero, delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione, costituisce compito di rilievo nazionale, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di principi e criteri direttivi per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali” (una norma d’importanza capitale di cui va anche apprezzato il ritorno al lessico del noto e colpevolmente disatteso art. 81 del Dpr 616 del 1977, che prevedeva la funzione centrale di indirizzo e coordinamento in materia di urbanistica). Ma quest’aspetto davvero innovativo del Codice, è totalmente disatteso. Delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione” non c’è traccia. Non è stata possibile neanche l’individuazione dell’ufficio che dovrebbe occuparsene. Il ministero dei Beni culturali, più volte sollecitato in proposito (per esempio da Italia Nostra, nell’ambito del primo – e ahimè unico – Rapporto sulla pianificazione paesaggistica dell’ottobre 2010, e dall’associazione “Salviamo il paesaggio” con una nota al ministro del febbraio di quest’anno) non ha dato segni di vita.
Riguardo al contenuto delle linee fondamentali, non mi pare che possano esistere dubbi sul fatto che al primo posto debba essere collocato lo stop al consumo del suolo, riconoscendo in esso il male assoluto, quello che distrugge il paesaggio come identità nazionale e perciò da fermare con inflessibile determinazione. Se necessario, individuando formalmente nello spazio aperto una specifica categoria del territorio (ex legge Galasso) meritevole di tutela assoluta. Esiste forse un’emergenza più avvertita? (Allo stop al consumo del suolo possono certo affiancarsi altri obiettivi, per esempio Italia Nostra propone anche un vincolo di tutela generalizzato per tutti i centri storici). Si può qui osservare che anche il percorso che sto proponendo alla fine fa capo alle regioni. È vero. Ma è anche vero che in questo caso le regioni sarebbero ingabbiate in un’unica procedura nazionale, con precise scadenze e poteri sostitutivi ope legis (art. 143, c. 2), e il perseguimento della tutela del territorio attraverso i meccanismi di una pianificazione immediatamente cogente e direttamente riferita alla complessità del reale appare più convincente delle contorte modalità della proposta Catania. Ma più ancora delle procedure dovrebbero contare l’impegno politico-culturale del governo e la sua azione sull’opinione pubblica per obbligare le regioni a fare la loro parte: da questo punto di vista mi pare decisivo lo spostamento del comando dal ministero dell’Agricoltura a quello dei Beni culturali con il conseguente spostamento dell’oggetto della tutela dalla produzione agricola, importante quanto si vuole ma non come il paesaggio, connotato costitutivo e costituzionale del nostro Paese. Ovviamente, adesso è inutile sperare in una resipiscenza dell’attuale compagine governativa. Con Lorenzo Ornaghi forse è peggio che con Sandro Bondi, ma non si può dare ragione a chi sostiene che il ministero del Collegio Romano sia ormai destinato all’estinzione. Dobbiamo invece sperare che al più presto un nuovo governo, con un prestigioso ministro dei Beni culturali, affronti con risoluta autorevolezza la questione del consumo del suolo. Magari come occasione per la riforma e il rilancio del ministero. O addirittura con la responsabilità diretta del presidente del Consiglio come garante dell’impegno collegiale del governo nella tutela del paesaggio.
E se, sognando a occhi aperti, il nuovo governo fosse davvero sensibile, si potrebbe anche pensare – è il secondo percorso che propongo – a una spietata decisione statale – un decreto legge o una legge di principi in attuazione dell’art. 9 della Costituzione – che azzeri subito tutte le previsioni di sviluppo edilizio nello spazio aperto e obblighi a ridisegnare gli strumenti urbanistici indirizzandoli alla riqualificazione degli spazi degradati, dismessi o sottoutilizzati attraverso interventi di riconversione, ristrutturazione, riorganizzazione, rinnovamento, restauro, risanamento, recupero (ovvero di riedificazione, riparazione, risistemazione, riutilizzo, rifacimento: la disponibilità di tanti sinonimi aiuta a cogliere la molteplicità delle circostanze e delle operazioni cui si può mettere mano). Non si possono escludere situazioni eccezionali, irrisolvibili senza occupare lo spazio aperto (come impianti produttivi connessi a particolari caratteri dei suoli). In queste circostanze si deve fare ricorso a norme altrettanto eccezionali, per esempio provvedimenti legislativi regionali ad hoc.
Questo secondo percorso è molto meno feroce di quello che sembra. Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che la strategia di una grande e insormontabile linea rossa da tracciare intorno allo spazio urbanizzato non è un’utopia. Sa che le possibilità di riuso e simili sono sconfinate. Sa che stop al consumo del suolo non significa sviluppo zero, perché i bisogni da soddisfare – in misura diversa al variare delle circostanze – sono comunque sconfinati (a cominciare dalle residenze per gli strati sociali sfavoriti). Sa che in una logica di riuso e simili ogni investimento volto al soddisfacimento di bisogni è al tempo stesso un’azione di recupero ambientale. D’altra parte non sono poche le recenti esperienze di pianificazione senza consumo di suolo. Non è solo Cassinetta di Lugagnano. Ci sono anche, che io sappia, a zero consumo di suolo, il piano regolatore di Napoli del 2004, il piano territoriale della provincia di Torino del 2010 e il piano territoriale della provincia di Caserta approvato nel luglio di quest’anno. Non mi pare poco (ma sarebbe bene disporre di un quadro aggiornato delle altre analoghe situazioni).

Niki Vendola ha invitato i suoi elettori a votare Bersani nel ballottaggio con Renzi, perché nelle sue parole sente un 'profumino di sinistra'. Speriamo che ci sia anche l'arrosto! Ma quale è l'arrosto, cioè, cosa significa una politica di sinistra? A questa domanda possiamo rispondere con una dichiarazione impegnativa dello stesso Vendola: ridare centralità politica alla questione dell'ambiente e del paesaggio. Prospettare cioè, un modello di sviluppo (ma altri direbbero di decrescita) in cui paesaggio e ambiente siano considerati beni comuni 'della comunità' (e non dello Stato in quanto 'persona' - si veda a questo proposito lo straordinario ultimo libro di Salvatore Settis "Azione popolare"); quindi inalienabili e non spacchettabili o cartolarizzabili. Ma vi è molto di più; significa, tanto per cominciare, iniziare una poderosa opera di cura del territorio, dai versanti in pericolo, al reticolo idraulico minore, primo passo indispensabile per un ripopolamento della collina e della montagna. Le tante piccole opere che, perfino il ministro Clini, in un recente convegno, ha indicato come necessarie e occasioni di occupazione - intellettuale e non solo bracciantile - per molti giovani cui piace un ritorno qualificato all'agricoltura. Scelta tanto più necessaria, quanto più appare evidente che i cambiamenti climatici sono già ora e nel futuro non potranno che aggravarsi; a partire dal fatto che le alluvioni catastrofiche non 'rispettano' più tempi di ritorno duecentennali (su cui sono calibrate le opere idraulica di messa in sicurezza, con conseguenti possibilità edificatorie), come mostrano i recenti fenomeni in Liguria e Toscana. Dunque, l'alternativa fra destra e sinistra, fra neo-liberismo e consapevolezza della necessità di superare l'idolatria del mercato è molto chiara. Non valgono le alchimie politiche delle alleanze a prescindere dai programmi e dagli impegni. Qui si tratta di cogliere un'occasione formidabile per dare rappresentanza al popolo dei cittadini e dei comitati che difende territorio e ambiente come beni comuni in grado di produrre ricchezza, non solo per noi ma anche, soprattutto, per le generazioni future. Su questo tema centrale, il centrosinistra al governo, con Prodi e D'Alema, è stato sostanzialmente subalterno alla strategia di rientro del debito (ma in realtà così non avverrebbe) ottenuto della vendita dei beni statali o del loro uso ai privati, previa un passaggio intermedio a Regioni e Comuni, incaricati di varianti urbanistiche 'di valorizzazione' alla barba degli strumenti urbanistici: un federalismo distorto e micidiale nella situazione attuale di tagli lineari alla spesa pubblica. Vendola ha perciò una responsabilità precisa: non solo portare questi valori in un prossimo governo di sinistra (se mai si farà), ma far sì che siano tradotti in azioni concrete. Altro che profumino di sinistra...


Cagliari porta la sua croce edilizia anche sulla spalla sinistra e resta una città del cemento nonostante le dichiarazioni di chi oggi la governa al grido di “neanche un mattone in più” e invece opera al contrario. Più di diecimila appartamenti vuoti, ma progetti di centinaia di nuove case, perfino di nuovi quartieri per esseri umani che non esistono e non esisteranno. Dire e fare si divaricano.

Cagliari ha già visto tristi progetti “di sinistra”. Il quartiere di Sant’Elia è stata una fallimentare esperienza “progressista”. Migliaia di persone allontanate dalla città che da più di mezzo secolo non è stata più voluta compatta, ma sparsa nel suo hinterland.

Una malattia dell’insediamento umano consistente nel disperdere la città in tanti nuclei difficili da collegare, che favoriscono l’esclusione di bambini, di anziani e di intere comunità, costringono all’uso dell’auto, dilapidano denaro, peggiorano la vita. Quasi mezzo milione di persone sparpagliate tra Cagliari e i paesi intorno. Il vuoto al centro e la periferia brulicante di uomini e automobili. Paesoni di una bruttezza irreversibile che hanno infestato campagne, uliveti, rive degli stagni. Questo è il Patto per l’area vasta, questa la “strategia”.

La malattia peggiora ogni giorno perché ciascuno dei comuni che compongono questa sbobba chiamata area metropolitana produce un proprio Piano Urbanistico Comunale. Ogni paese gioca a chi ha il PUC più grosso. E inventa una crescita demografica immaginaria con nuovi metri cubi per abitanti che non arriveranno mai. La colata di cemento è impressionante, basta un’occhiata lungo strade incivili come la 130 o la 554. Un orrore urbano. Ogni comune, in anarchia, immagina nuovi abitanti che però si ostinano a non venire al mondo. Cagliari e hinterland hanno il più basso tasso di fertilità del Paese, ma i Comuni affibbiano metri cubi ai mai nati.

Anche a Cagliari si intestardiscono, smentendo le promesse elettorali, a costruire case in aree distanti da tutto: il Fangario – approvato da destra, sinistra e centro – e Su Stangioni, lontani dalla città. Nuovi quartieri con tutto quello che ne consegue di male. Hanno inventato anche una formula per i più creduli: housing sociale. Ma non basta ripetere ossessivamente “housing sociale” per contrabbandare come edilizia agevolata nuovi quartieri al Fangario e a Su Stangioni. Il social housing, comunque lo si definisca, prevede case a prezzi d’affitto o d’acquisto bassi. Ma il presupposto deve consistere in un effettivo fabbisogno di nuove abitazioni che oggi non esiste.

E’ insensato attivare il censimento delle case vuote e progettare nuovi rioni fantasma. Così si distrugge per sempre il tessuto e il carattere della città. Un disastro abitativo.

Ma chi ci amministra non si distrae e pensa anche ai centri storici. Ci sono otto ettari allettanti di vuoti urbani in centro.

Non è progresso – ma solo una squallida idea di sviluppo – tappare i vuoti urbani del Centro Storico con mattoni e cemento, ignorando ogni principio di restauro e conservazione che da queste parti è considerato roba per signorine.

Perché fare case nuove se la popolazione diminuisce? Perché permettere che ogni Comune decida da sé il proprio PUC gonfiato mentre si celebra la firma di un cosiddetto “piano strategico” dei 16 Comuni dell’area vasta? E perché distruggere il Centro Storico di Cagliari con un piano particolareggiato di sterminio? L’abbiamo già vista questa strategia.

Ancora vincono – ecco la continuità – le esigenze finanziarie di pochi e non quelle reali della comunità. Come sarebbe bello – una svolta storica – se le promesse elettorali coincidessero con i fatti, se nella cosiddetta “area vasta” si individuassero i bisogni veri e non si presumesse di spostare la gente come sopramobili in base alle esigenze dei padri del mattone che decidono - chiunque la amministri - la forma invariabilmente brutta della città nuova.


Come in tutti i periodi di crisi e di grandi mutamenti economici e sociali tutti cercano di formulare previsioni: i governi, le imprese (che cercano di capire che cosa e come produrre), le banche (che sono preoccupate per i soldi che dovranno prestare a governi e imprese), le compagnie di assicurazioni (preoccupate per i soldi che dovranno versare per risarcire catastrofi e errori). Così da alcuni anni a questa parte si moltiplicano le previsioni dei consumi e fabbisogni energetici, dal momento che tutti i fenomeni economici richiedono energia: per produrre acciaio, per scaldare le case, per far camminare le automobili, per ottenere patate e grano, eccetera. Le previsioni sono in genere estese a periodi fra il 2025 e il 2035, più in la ben pochi si azzardano ad andare. Tutti più o meno concordano nel fatto che la popolazione umana aumenterà dagli attuali 7000 milioni di persone a un numero intorno a 8500 milioni di persone verso il 2030.

Queste persone avranno bisogno di varie cose irrinunciabili: alimenti, prima di tutto, metalli, cemento, acqua e inevitabilmente produrranno crescenti quantità di rifiuti. Le previsioni concordano su un crescente fabbisogno di energia e si tratta piuttosto di immaginare da dove trarla. La richiesta annua di energia oggi, 2012, si aggira nel mondo intorno a circa 12.000 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (tep), un valore che corrisponde all’energia “contenuta” in circa 4300 milioni di tonnellate di petrolio, più circa 5000 milioni di tonnellate di carbone, più circa 3000 miliardi di metri cubi di gas naturale, più l’elettricità fornita dalle centrali idroelettriche e nucleari e da un po’ di fonti rinnovabili. Le previsioni per il 2030 si aggirano intorno ad un fabbisogno di 16.000 milioni di tep all’anno. Le miniere di carbone contengono ancora riserve abbastanza grandi di questo combustibile fossile solido, ma la sua estrazione è pericolosa e il suo uso inquinante, anche se è quello che costa meno, per unità di energia fornita, tanto che il suo uso sembra destinato ad aumentare.
Peggiore è la situazione del petrolio, l’unico che fornisce i carburanti liquidi indispensabili per tenere in moto i novecento milioni di autoveicoli di oggi che diventeranno oltre 1500 milioni nel 2030. I grandi giacimenti mondiali di petrolio si stanno più o meno rapidamente impoverendo. Per soddisfare una crescente richiesta mondiale di petrolio, stimata di circa 5000 milioni di tep all’anno nel 2030, le previsioni contano sui giacimenti sottomarini a profondità sempre maggiori e in mari sempre più profondi e sulle tecniche, peraltro molto inquinanti, che permettono di estrarre il petrolio dalle rocce e sabbie che ne sono impregnate nel sottosuolo; alcuni prevedono che, sfruttando queste difficili risorse petrolifere, gli Stati Uniti potrebbero soddisfare i propri crescenti fabbisogni e addirittura diventare esportatori di petrolio. Le promesse dell’energia nucleare sembrano definitivamente svanite; un poco potrebbe aumentare l’elettricità ottenuta da grandi centrali che utilizzano il moto delle acque; qualcosa potrà venire dal Sole e dal vento.
L’uso di tutta questa energia farà aumentare i gas che finiscono nell’atmosfera per cui la temperatura “media” della Terra potrebbe aumentare in venti anni fra 2 e 4 gradi Celsius, con catastrofici effetti sul clima futuro. E l’Italia ? Negli anni settanta del secolo scorso, dopo la prima grande crisi energetica, sono stati fatti vari Piani Energetici Nazionali, rivelatisi tutti sbagliati nelle previsioni e nei rimedi suggeriti. Poi nell’ultimo ventennio si è vissuti alla giornata e solo in questo 2012 il governo ha finalmente formulato una Strategia Energetica Nazionale (SEN)(il termine “piano” è stato evitato perché sembra porti sfortuna): i consumi totali di energia dovrebbero restare costanti fino al 2030. Dovrebbero diminuire le importazioni di petrolio da circa 65 a circa 45 milioni di tonnellate all’anno con un aumento dell’estrazione da nostri giacimenti terrestri e sottomarini, da circa 5 a circa 12 milioni di tonnellate all’anno.
Alcuni critici si chiedono se davvero esistano riserve nazionali di questo genere ancora da sfruttare e quali sarebbero gli effetti ambientali. Gli attuali giacimenti italiani di gas naturale si stanno esaurendo: il SEN prevede tuttavia una ripresa della produzione nazionale da nuovi giacimenti, al fianco di ancora rilevanti importazioni. Le importazioni di carbone dovrebbero restare stazionarie intorno a 20 milioni di tonnellate all’anno. La produzione di elettricità dovrebbe restare più o meno costante fino al 2030, fra 300 e 320 miliardi di chilowattora all’anno: dovrebbe raddoppiare la produzione di elettricità dai rifiuti (la moltiplicazione degli inceneritori non è una buona prospettiva) e dovrebbe aumentare molto l’elettricità da impianti fotovoltaici solari. Dovrebbero restare più o meno costanti i consumi energetici finali nell’industria, nelle abitazioni, nei trasporti e dovrebbero diminuire un poco le emissioni annue di gas serra. Come mai si parla così poco di documenti da cui dipendono la vita e il lavoro futuro di tutti noi ?

Si potrebbe scrivere una storia dell'Italia elencando le perdite di vite, di ricchezza, di beni, conseguenti le frane e le alluvioni e la siccità, tutte ricorrenti, in tutte le parti d'Italia, con le stesse modalità e cause, tutte rapidamente dimenticate. Come anno zero può essere preso il 1951, l'anno della grande alluvione del Polesine provocata dal dissesto idrogeologico del lungo periodo fascista e di guerra durante il quale si è aggravato il taglio dei boschi ed è venuta meno la manutenzione dei fiumi.

In quell'anno del grande dolore nazionale, ci si rese conto che la ricostruzione dell'Italia avrebbe dovuto dare priorità alle opere di difesa del suolo; molte indagini e inchieste misero in evidenza la fragilità di molti corsi d'acqua, oltre al Po, in cui i detriti dell'erosione si erano depositati nell'alveo e avevano fatto diminuire la capacità ricettiva dei corpi idrici. Inoltre era già stata avviata una graduale occupazione e privatizzazione delle fertili zone golenali, originariamente appartenenti al demanio fluviale proprio perché ne fosse conservata, libera da ostacoli di edifici e strade, la fondamentale capacità di accoglimento delle acque fluviali in espansione nei periodi di intense piogge.

Il "miracolo economico" degli anni cinquanta e sessanta del Novecento è stato reso possibile dalla moltiplicazione di quartieri di abitazione, di fabbriche e di attività di agricoltura intensiva che richiedevano una crescente occupazione del territorio, nelle pianure e nelle valli. Nello stesso tempo la intensa migrazione interna dalle zone più povere e dissestate del Mezzogiorno verso un Nord che prometteva lavoro in fabbrica e paesi e città più vivibili e con migliori servizi, ha lasciato vaste zone del Mezzogiorno e delle isole e delle montagne e colline esposte all'abbandono umano e esposte ad un crescente degrado del territorio e a una serie crescente di frane e alluvioni.

Per una nuova politica del territorio, per avviare serie iniziative di difesa del suolo non servì la frana di un pezzo del monte Toc nel bacino del Vajont, e i relativi duemila morti del 1963. E neanche la grande alluvione di Firenze e Venezia del 1966, un altro momento del grande dolore nazionale; anche allora fu riconosciuta, nel dissesto territoriale la causa prima della tragedia; fu istituita la Commissione De Marchi che riferì al Parlamento che occorrevano investimenti di diecimila miliardi di lire di allora (100 miliardi di euro 2012) in dieci anni per opere di difesa del suolo. Opere che non sono state fatte.

Nei decenni successivi la costruzione di edifici e strade ha continuato ad alterare, anzi in maniera accelerata, profondamente la superficie del suolo creando ostacoli al flusso delle acque; si è innescata una reazione a catena che ha fatto aumentare l'erosione del suolo, i detriti dell'erosione hanno invaso gli alvei dei fiumi e torrenti e, di conseguenza, è diminuita la capacità dei fiumi e torrenti e fossi di ricevere l'acqua, soprattutto a seguito di piogge più intense.

Nello stesso tempo si sta assistendo a modificazioni climatiche planetarie che alterano i cicli delle stagioni e delle piogge. Di conseguenza sempre più spesso, il territorio e la collettività italiani sono (e saranno) esposti a siccità e frane e alluvioni che distruggono edifici, strade, raccolti; sempre più spesso le comunità danneggiate richiedono la dichiarazione di stato di calamità, che significa che lo stato deve provvedere a risarcire i danni provocati da "calamità" considerate "naturali" ma che tali non sono: sono calamità dovute ad errori e imprevidenza umani: per evitarli la politica della "protezione civile" dovrebbe essere sostituita con una cultura della "prevenzione".

Le frane e le alluvioni derivano in Italia da vari fattori. Dalle piogge, prima di tutto, che si alternano rapide ed intense in certi mesi e scarse in altri; ma come si può organizzare la prevenzione delle calamità se non si sa neanche esattamente quanto piove in una regione in un anno ?

La velocità con cui le piogge scorrono nelle valli, sul fianco delle montagne e colline, e poi nei fiumi a fondovalle, la loro forza di erosione del suolo, dipendono dalla vegetazione: se il suolo è coperto di alberi e macchia spontanea, la "forza" contenuta nelle gocce d'acqua delle piogge si attenua cadendo sulle foglie e l'acqua scorre sul suolo abbastanza dolcemente. Se il suolo è nudo, la forza delle gocce d'acqua lo sgretola in particelle fini che rapidamente sono trascinate a valle e, quando il flusso di acqua è intenso, il ruscellamento si trasforma in un fiume di fango, quello che abbiamo visto tante volte nelle immagini delle alluvioni.

Se poi il flusso delle acque incontra ostacoli, edifici, muraglioni, il fiume di acqua e fango si rigonfia, cambia strada, si infiltra dovunque e spazza via tutto. E di ostacoli le acque sul suolo italiano, in tutte le regioni, ne incontrano tanti: decisioni miopi ed errate e l'abusivismo edilizio, tollerato dalle autorità locali e addirittura incentivato con due devastanti "condoni", hanno fatto moltiplicare sul fianco delle valli, addirittura nel greto dei fiumi, case, fabbriche, edifici, strade.

Nel 1989 era stata emanata una legge, la "centottantatre", che stabiliva come rallentare ed evitare i disastri delle frane e delle alluvioni. La difesa del suolo e delle acque deve, indicava giustamente la legge, essere organizzata per bacini idrografici, quelle unità geografiche ed ecologiche che comprendono le valli, gli affluenti, i fiumi principali, dalle sorgenti al mare. Poiché i confini dei bacini idrografici non coincidono con quelli delle regioni e delle province, per ciascun bacino idrografico deve essere istituita una autorità di bacino che deve redigere un "piano" per indicare dove devono essere fatti i rimboschimenti, dove devono essere vietate le costruzioni, deve devono essere fermate le cave o le discariche dei rifiuti, dove devono essere costruiti i depuratori. Al piano di ciascun bacino dovrebbero attenersi --- lo voleva la legge, non sono ubbie di ecologisti --- le autorità amministrative, i consorzi di bonifica, le comunità montane, gli enti acquedottistici. Anche questa legge è stata abrogata dal testo unico delle leggi sull'ambiente approvato dal governo nel giugno 2006.

Eppure la salvezza del territorio contro le alluvioni e l'aumento delle risorse idriche richiederebbero un grande illuminato programma di opere pubbliche, sull'esempio di quelle intraprese dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt, nel 1933, per far uscire l'America dalla crisi con investimenti per la sistemazione delle valli e del corso dei fiumi, creando occupazione e tornando a rendere fertili terre erose e assetate proprio per l'eccessivo sfruttamento del suolo.

Tali opere richiederebbero un piano quinquennale che dovrebbe cominciare con una indagine dello stato del territorio, oggi facilmente eseguibile con mezzi tecnico-scientifici come rilevamenti satellitari e aerei. Tanto per cominciare gran parte di questo lavoro è disponibile, sparso per diversi ministeri e agenzie: in parte è stato fatto (avrebbe dovuto essere fatto) nell'ambito delle autorità di bacino idrografico secondo quanto richiesto a suo tempo dalla legge 183; in parte fu (avrebbe dovuto essere) predisposto dal decreto del 1999 dopo l'alluvione di Sarno. Tale indagine dovrebbe rilevare le vie di scorrimento delle acque dalle valli verso il mare e gli ostacoli attualmente esistenti a tale flusso, rivo per rivo, fosso per fosso, torrente per torrente, fiume per fiume.

Come secondo passo, l'indagine sullo stato del territorio indica (indicherebbe) dove non devono essere fatte nuove opere come costruzioni di edifici e strade e dove sarebbe opportuno localizzare futuri edifici e strade in moda da assicurare il deflusso senza ostacoli delle acque. Le decisioni conseguenti la pianificazione dell'uso del territorio --- l'indicazione di dove si può e di dove non si deve intervenire con opere nel territorio --- comporta due sgradevolissime conseguenze: la modificazione del valore di molte proprietà private e la necessità di una moralizzazione della pubblica amministrazione alla quale dovrebbe essere iniettato il coraggio di "dire no" alle pressioni di molti proprietari di suoli.

Come terzo passo l'indagine sullo stato del territorio indica (indicherebbe) dove esistono ostacoli al flusso delle acque; tali ostacoli sono costituiti da edifici o opere costruiti, abusivamente o anche "legalmente", al fianco dei torrenti e fossi, talvolta nelle golene e negli alvei; dalle arginature fatte per aumentare lo spazio occupabile a fini economici e che fanno aumentare la velocità e la forza erosiva delle acque, dai ponti e dalle strade e dalle opere che ostacolano il deflusso delle acque o che si trovano in zone esposte ad erosione, alluvioni e frane.

In parte tali ostacoli devono essere rimossi; sarà una scelta politica trovare delle forme di indennizzo per i costi di spostamento e di demolizione di proprietà private o di opere pubbliche; in qualche caso basta eliminare la cementificazione dei fianchi di colline; in altri si tratta di recuperare e riattivare antiche note pratiche di drenaggio delle acque, abbandonate in seguito allo spopolamento delle colline e montagne; in altri casi si tratta di praticare una pura e semplice "pulizia" di canali e torrenti. Opere di "manutenzione idraulica" esattamente equivalenti alla manutenzione che viene praticata sulle strade, negli edifici, ai macchinari, ma mirate allo scorrimento delle acque.

Come quarto passo, una accurata indagine territoriale è in grado di indicare come è variata, nei decenni, la capacità ricettiva dei torrenti e fiumi; tale variazione è dovuta sia al deposito di prodotti dell'erosione nell'alveo dei fiumi e torrenti, sia all'escavazione di sabbie e ghiaie; nel primo caso le acque piovane tendono ad uscire dagli argini e ad allagare le zone circostanti, e non servono le opere di innalzamento o cementificazione degli argini, ché anzi aggravano la situazione, trasferendo a valle materiali che ostacolano altrove il deflusso delle acque: nel secondo caso i vuoti lasciati dall'escavazione fanno aumentare la velocità e la forza erosiva delle acque in movimento.

Va anche tenuto presente che quanto avviene nel corso di fiumi e torrenti influenza i profili delle coste provocando avanzata o erosione delle spiagge, con conseguente, rispettivamente, interramento dei porti o perdita di zone di valore economico turistico --- e quindi ancora una volta costi per la collettività e anche per privati.

La quinta azione --- ma dovrebbe andare al primo posto come efficacia --- per rallentare e fermare i costi per frane e alluvioni, e per aumentare la disponibilità di acqua di buona qualità, consiste nell'aumento della copertura vegetale del suolo. La presenza di alberi e vegetazione fa sì che la pioggia cada sulle foglie, anziché direttamente sul terreno; le foglie e i rami sono elastici e attenuano la forza di caduta e quindi la forza erosiva delle acque. Inoltre la loro presenza e la presenza di sottobosco rallenta la discesa delle acque e quindi la loro forza erosiva.

Normalmente si ragiona in termini di rimboschimento delle terre esposte ad erosione; il rimboschimento tradizionale richiede pazienza, cultura e conoscenza delle caratteristiche del suolo, oltre che delle specie vegetali, e tempo e manutenzione perché il trasferimento delle piante dai vivai al terreno è opera lunga e delicata; ma l'attenuazione del moto delle acque è svolto anche dalla vegetazione "minore", dalla macchia e dalla vegetazione spontanea. Purtroppo esiste una anticultura che suggerisce o impone la "pulizia", che vuol dire distruzione, del verde, dalle campagne alle valli, ai giardini privati e pubblici urbani.

La macchia è spesso estirpata per lasciare spazio per strade o parcheggi o edifici: non ci si rende conto che ogni foglia, anche la più piccola e insignificante, anche quella che cresce negli interstizi delle strade, ha un ruolo positivo non solo come "strumento" per sequestrare dall'atmosfera un po' dell'anidride carbonica responsabile dell'effetto serra e dei mutamenti climatici, ma anche per contribuire allo scambio di acqua fra il suolo e l'atmosfera --- essendo, ancora una volta, l'acqua la fonte vera della vita anche economica.

Alla distruzione del poco verde contribuisce la gestione del territorio agroforestale, l'abbandono dell'agricoltura di collina e montagna, la diffusione di seconde case e attrezzature sportive proprio nelle valli, una parte molto desiderabile del territorio, la mancanza di "amore" per la vegetazione che è la forma prima di "vita", dalla quale dipendono tutte le altre forme di vita umana ed economica.

La poca cura e protezione del verde spontaneo è la fonte degli incendi (alcuni, molti sono provocati proprio per sgombrare il terreno dal verde che ostacola costruzioni e speculazioni); gli incendi, a loro volta lasciano il terreno esposto a crescente erosione.

C'è una sesta azione di sostegno alle cinque precedenti che avrebbe anche il vantaggio di non costare niente; un'opera di informazione e di "pedagogia" delle acque, di narrazione di come le acque si muovono nelle valli e nelle città, delle interazioni fra il moto delle acque e il suolo e la vegetazione e le opere umane; al di là dell'utilità pratica, appunto per diminuire i costi annui dovuti al risarcimento delle perdite economiche provocate da frane e alluvioni, la "cultura delle acque" avrebbe un valore politico e civile, mostrando come la popolazione di ciascuna valle è unita, nel bene e nel male, dalle acque che scorrono nella valle stessa, mostrando le forme di violenza che opere sconsiderate a monte esercitano sugli abitanti a valle.


Intervenire sulle alluvioni che ogni anno provocano disastri ambientali e morti in qualche angolo della Penisola fa sentire come i sacerdoti che celebrano uno stanco e inutile rito, cultori di una religione ormai spenta. L'Italia impone ai suoi osservatori l'”eterno ritorno dell'eguale”. Eppure corre sempre l'obbligo di ripetere, di tenere vive le armi della critica, di ricordare. La lotta è fatta anche di ripetizioni e di repliche. E in questo caso sono più che mai necessarie. Com'è noto, quello che è accaduto in questi giorni nel Grossetano e nell'Umbria meridionale è infatti il nuovo capitolo di uno spettacolo a puntate che si ripete ormai puntuale in ogni autunno e inverno. E occorre anche aggiungere che questa volta l'esito sarebbe potuto essere ben più tragico, se la pioggia avesse continuato a cadere per un altro giorno. Pochi sanno, infatti, che la diga di Corbara che sbarra il Tevere – poco distante dallo scalo di Orvieto, dove è tracimato il fiume Paglia – era minacciosamente colma, mentre i caseggiati di Ciconia e dintorni erano già allagati.

Se il maltempo avesse continuato il suo corso, si sarebbe reso necessario aprire la diga con conseguenze imprevedibili , ma sicuramente devastanti, per tutti i centri abitati lungo la Valle del Tevere fino a Roma. Il ritorno del bel tempo ci ha risparmiati, lo spuntare del sole ha evitato una catastrofe. Ma fino a quando dovremo affidarci al caso, alla buona sorte, alla cessazione benigna di un temporale per evitare alluvioni, frane, morti, devastazione di case e imprese, distruzione di strade e ponti? Non è evidente ormai a tutti che l'intero territorio nazionale è in pericolo? Che bastano pochi giorni di pioggia intensa, concentrati in una qualunque area, per determinare danni ingenti alle popolazioni e agli habitat, imponendo poi costosissime ricostruzioni?
Appare evidente che oggi paghiamo a caro prezzo una urbanizzazione selvaggia, la quale ha coperto disordinatamente di costruzioni e infrastrutture un territorio che è fra i più vulnerabili dell'intero bacino del Mediterraneo. L'acqua che scende dalle Alpi o dall'Appennino è sempre meno assorbita dai campi agricoli o incolti delle colline e delle pianure, ormai non più abitate dai contadini, ed è al contrario resa più vorticosa nel suo corso dall'asfalto e dal cemento che incontra. Un paese, tra i pochi in Europa, privo di una legge urbanistica , che ha assistito con poche resistenze a una svolta inaudita. Alla consueta attitudine illegale di classi dirigenti e popolazioni a occupare il territorio con costruzioni abusive ( che hanno sfigurato tante nostre città ) è venuta in sostegno la versione italiana del neoliberismo: il verbo che ha fatto dei nostri habitat delicati materia di “libero mercato”. Oggi, dopo tre decenni di “furia liberale”, il territorio nazionale mostra le stimmate della sua trasformazione mercantile, riplasmato, com'è dalle spinte caotiche delle convenienze private: terre d'altura e aree interne in stato di abbandono, valli e pianure - la polpa ricca - intasate di popolazione, edifici, strutture produttive, vie di comunicazione. Qui l'acqua piovana non ha più spazio, come era accaduto in tutti i secoli passati, e perciò appare come il grande nemico. Come e quanto può durare tale conflitto tra le forze imprevedibili della natura e i nostri abitati?
Ebbene, questa drammatica novità storica impone oggi un nuovo atteggiamento della pubblica opinione nei confronti delle classi dirigenti italiane e del ceto politico nazionale. Sappiamo da studi decennali che all'Italia è toccato in sorte un paradossale destino. Il paese fisicamente più fragile d'Europa (insieme all'Olanda) è stato governato da classi dirigenti privi di ogni cultura territoriale, sguarniti anche delle più elementari forme di consapevolezza, di memoria storica dei caratteri dei vari habitat locali e dei loro delicati equilibri. Tale carattere originale della nostra cultura, il suo sradicamento metafisico dalle condizioni materiali della vita, oggi rappresenta una minaccia per la collettività nazionale. A questa incultura originaria, infatti, si aggiunge oggi la religione della crescita che alimenta nuovi e disordinati appetiti speculativi nei confronti del nostro territorio. Ancora oggi il suolo nazionale non appare come un habitat da proteggere, per tutelare i beni, la ricchezza storica del paese dagli eventi atmosferici, ma come la materia prima per “continuare a crescere”, come recita la superstizione contemporanea. E' altamente esemplare che un paese, il quale ha i problemi drammatici che osserviamo puntualmente ad ogni inverno, si ostini a progettare il Tav in Val di Susa. I nostri governanti sono pronti a sperperare svariati miliardi per un' opera inutile e non trovano tempo, energia, risorse per mettere in campo un progetto assai meno costoso e generatore di nuove economie finalizzato a proteggere il nostro territorio in pericolo.

Ebbene, credo che sia tempo di rendere evidente il carattere drammatico che ormai occorre dare alla nostra opposizione. Abbiamo mostrato in altre occasioni che il nostro territorio può essere messo in salvo solo attraverso una vasta opera di ripopolamento e valorizzazione delle aree interne. Ma oggi occorre agire anche con misure di urgenza. E' necessario chiarire che tutte le nuove costruzioni, tutte le manipolazioni dell'habitat che si progettano e si realizzano in Italia sono contro l'interesse collettivo, minacciano il bene comune della sicurezza nazionale. Ogni metro quadrato di nuovo asfalto o cemento sottrae spazio alle acque, accresce la vulnerabilità dei nostri abitati e delle nostre vite. Non possiamo più tollerarlo. Io credo che ormai bisogna incominciare a considerare sotto il profilo penale gli interventi che consumano suolo. Questo bene non è infinito, esso è la spugna che assorbe l'acqua, è dunque un bene di tutti che ci protegge , chi lo cementifica rende più pericolosi i nostri abitati, rende più insicura la nostra incolumità, le nostre case, i nostri beni, i nostri animali. E' perciò necessaria una iniziativa legislativa che dia nuovi strumenti all 'interesse collettivo oggi così gravemente minacciato. Occorre rendere possibile, alle associazioni impegnate nella difesa del territorio e del paesaggio, di costituirsi parte civile nei vari luoghi dove si progetta il consumo di verde, da configurare, com'è ormai drammaticamente necessario, quale fattispecie criminale. Privati, amministratori locali, imprenditori non possono più utilizzare come bene privato ciò che con tutta evidenza appare un bene comune intangibile e irrinunciabile.

C'è una contraddizione troppo grande ed estesa allabase del terremoto che sta investendo i partiti politici italiani alla provadelle recenti elezioni siciliane e delle campagne elettorali in corso.Terremoto, va ricordato, che dirigenti politici e commentatori con la testagirata all'indietro, tentano di esorcizzare con vecchi rituali, definendolo frutto del populismo, dell'antipolitica, della demagogia,ecc. Un vecchio e impotente armamentario propagandistico.Troppo estesa, infatti, è diventatal'informazione, lo spirito critico, la consapevolezza dei cittadini a fronte della opacitàcrescente del potere, della chiusura oligarchica del ceto politico, delrestringimento generale della democrazia. E' un fenomeno generale che haportato cospicue avanguardie cittadine nelle strade e nelle piazze di Roma, diMadrid, Londra, New York. E il montante disagio sociale rende sempre menosostenibile tale contraddizione, perché appare sempre più evidente la preminenteresponsabilità del ceto politico nell'esplosione della Grande Crisi e il suotentativo di uscirne indenne, cavalcando la politica del rigore antipopolarechiesta dai grandi poteri capitalistici. In Italia essa appare poiintollerabile mano a mano che i privilegi castali che i partiti si sonoritagliati all'interno dello spazio pubblico appaiono immodificabili, mentreintorno milioni di persone, interi ceti sociali precipitano all'indietro, nellecondizioni di alcuni decenni fa.


Anche Roma mostra oggi segni diinsofferenza democratica crescenti. Segni destinati a ingigantirsi nei prossimimesi, quando le politiche di austerità in corso getteranno altro sale sulleferite recenti e i problemi cronici della città – come quelli dei rifiuti –assumeranno forme incontenibili. Ho avuto una prova recente di tale sentimentodiffuso all'assemblea del 27 ottobre, tenutasi alla Facoltà di Ingegneria dellaSapienza, su cui è già intervenuto Antonio Castronovi ( Manifesto dell'1/11)E'bastato l'appello de La Roma che vogliamo per richiamare una massaconsiderevole di romani, rappresentanti di circoli, associazioni, comitati,tutti attratti non dalla notorietà dei proponenti, ma dal suo messaggiosemplice e dirompente: prima i problemi della città, i bisogni e le domande deiromani, dopo il nome del leader. Partiredal leader equivale a confermare la logica oligarchica dominante che asfissiala vita politica del nostro paese. Chi designa il leader, infatti, non fa checalare dall'alto un deus ex machina senza alcuna consultazione dei cittadini, iquali sono chiamati ad applaudire una scelta fatta nel chiuso di una qualchesegreteria. Com'è noto, e come si fa finta di non sapere, i partiti non sonopiù il luogo in cui si organizza ed esprimela volontà popolare. In questa visione i cittadini continuano ad essere passiviconsumatori di messaggi politici preconfezionati, il cui unico protagonismo siconsuma con un segno di matita apposto su una scheda. Ma la stessaossessione della ricerca del nome del candidato da incoronare, da indicare alleimprobabili folle osannanti, fa parte di una vecchia e ammuffita cultura di cuinon riusciamo a liberarci. Esso esprimeuna divinizzazione dell'individuo, la ricerca del capo, del comandante che dovrebbeda solo guidare le truppe, risolvere eroicamente i problemi di tutti. El'individuo deve avere le caratteristiche del grande comunicatore – adatto almezzo televisivo, che è il linguaggio della politica corrente – secondoi canoni consunti della società dello spettacolo. Si tratta di una concezioneantidemocratica, il distillato della cultura politica neoliberista affermatesinegli ultimi trent'anni, dilagata anche nella sinistra e diventata ormai senso comune dominante.
E' evidente che la popolarità delcandidato a sindaco costituisce un fattore importante per il successoelettorale. Ma io credo che sia necessario, per incominciare a capovolgerela logica oligarchica, porre in evidenza soprattutto le caratteristichedella” squadra possibile” destinata adaccompagnare l'azione del sindaco. Le competenze professionali, i saperi, ilprofilo intellettuale e morale di donne e uomini che di concerto si dovrebberomettere al lavoro per il governo della città, sono da mettereal primo posto, come segno di una inversione democratica dell'operare politico.Ricordo che i partiti di massa sorti nel dopoguerra erano retti non da un capo,ma da gruppi dirigenti. La politica è per eccellenza un'opera collettiva,altrimenti è tatticismo, tran tran, sopravvivenza da ceto politico,coltivazione di interessi individuali, affarismo.
Dunque, il ripristino el'allargamento della democrazia è uno dei punti programmatici e insieme dimetodo del gruppo che promuove La Roma che vogliamo. Credo che questocorrisponda a una esigenza sempre più avvertita dai cittadini romani. Ma per realizzarlo occorre essere consapevolidei deficit, delle manchevolezze della democrazia rappresentativa, oggi ridottaa un simulacro. Occorre prendere attoche non è più possibile affidare una delega così ampia e temporalmente così lunga agli eletti delpopolo. Perché tutti sappiamo che gli uomini e le donne elette, così presenti epieni di zelo durante le campagne elettorali, una volta eletti, scompaiono allavista per tutta la durata del loro mandato. Salvo a rendersi visibili incircostanze che costituiscono occasioni di visibilità mediatica, perrinfrescare la loro popolarità presso gli elettori dimentichi. Ebbene, io credoche questa esperienza non possa più essere replicata. Propongo di inserire nelprogramma de La Roma che vogliamo l'impegno di sindaco e giunta aincontrare ogni 6 mesi i cittadiniromani, tramite le loro varie rappresentanze istituzionali e sociali, per darconto dell'attuazione del programma e delle questioni sul tappeto. Potrebberoprendervi parte associazioni, corpi intermedi, singoli rappresentanti – comegià avviene in alcuni comuni - e dar vita così alla fusione della democraziarappresentativa con quella deliberativa e associativa. I cittadini devonoessere informati sul governo cittadino, devono essere resi consapevoli del lorodiritto ad avere informazione da coloro i quali essi hanno mandato al governodella città. Democrazia è trasparenza, informazione, ma anche partecipazione.La partecipazione, tuttavia, non può essere costante e permanente – come spessosi illudono tanti generosi giovani e non giovani dei movimenti, in Italia efuori d'Italia – perché la società civile è assorbita nei propri ruoli dilavoro e di organizzazione familiare e sociale e solo occasionalmente puòimpegnare il suo tempo nell'esercizio della cittadinanza. Questo tempooccorrerà farlo crescere in futuro, dimezzando la giornata lavorativa diognuno, ma per il momento si può incrementare la partecipazione con una piùampia trasparenza e informazione, oggi resi possibili dallo sviluppo dellatecnologia informatica. Penso alla possibilità di trasmettere via rete e in qualche canale di TV locale leriunioni dei consigli comunali impegnati su questioni rilevanti e di far partecipare gruppi organizzati dicittadini tramite le piattaforme telematiche oggi a disposizione. Ma questo nonbasta. Occorre sottoporre i governanti alla vigilanza costante etecnicamente attrezzata dei governati.Io credo che si possa proporre la costituzione di un organismo esterno per ilcontrollo sistematico del bilancio municipale, da affidare a giudici contabili,che informino correntemente i cittadini dell'andamento dei flussi di entrata edi spesa. Su questo essi potrebbero intervenire tempestivamente. Far sentire laloro voce. La vigilanza della Corte dei Conti non è sufficiente, essa arriva tardi e nonpuò intervenire nel merito politico delle scelte. Questo dovrebbe esserecompito dell'opposizione politica, ormai sempre meno agguerrita. Oggi siamo al punto che i romani non sannoquale ammontare di debito l'indimenticabile giunta Alemanno lascia loro ineredità. D'altra parte, il bilancio di una grande città costituisce uncomplesso groviglio di voci a cui la grande maggioranza dei cittadini fatica adaccedere. Una esemplificazione comunicativa da parte dei tecnici, che sitrasforma in costante informazione viarete, coinvolge l'attenzione e la partecipazione generale, ma al tempo stessomette gli atti dei governanti sotto il grande faro del controllo pubblico.
Dunque, Roma potrebbe davverocostituire un laboratorio di nuova democrazia - utilizzando esperienze già incorso altrove - fornire un messaggioall'Italia intera. Perché una trasparenza così piena e istituzionalizzata degliatti di governo non rappresenta solo la via maestra per una moralizzazionedella condotta dei partiti, per farsoffiare un nuovo vento di pulizia nella vita pubblica. Essa costituirebbe una componente strategicaimportante per ridurre gli spazi di manovra dei gruppi affaristici e dellacriminalità vera e propria, che del potere politico ha bisogno come i pescidell'acqua. Ma c'è un altro nodoimportante, che tale modello di trasparenza viene a toccare. Una indicazione divalore più generale. Esso può incominciare a incidere i legami tra i partiti eil potere finanziario. E' qui, in effetti, che oggi si gioca la grande partitastrategica per la sinistra e le masse popolari. Debbo ricordare che il punto di vulnerabilità sistemica del capitaleè il controllo del potere politico? Spezzare i legami della politica con leforze economiche dominanti, significa restituirla alla sua autonomia esovranità, grazie non a prediche moraleggianti, ma a un più ampio e sistematico controllo delle massepopolari.
Roma può diventare laboratorioanche per altri contenuti del programma, ma di questo in altra occasione.
laromachevogliamo_@googlegroups.com. Questo articolo è invuato contemopraneamente anche a il manifesto.

Ci affidiamo al grafico e ai numeri pubblicati ieri da Repubblica, che riguardano l’intero quadro nazionale. Lo premetto perché a scala locale il rapporto fra biciclette e automobili evidenzierebbe probabilmente condizioni fra loro diverse. [il riferimento di questa Opinione è ai due articolisul tema ripresi da eddyburg.it - n.d.r] Anzi, un minimo di conoscenza della vita nelle città italiane, anche attraverso la cronaca oltre che grazie al soggiorno o alle visite, mostrerebbe differenze enormi. Per citarne qualcuna: tra una Ferrara, una Parma o una Modena (Augé) e città grandi emblematiche del pasticcio urbanistico edilizio, della deregulation anche socioeconomica. Ebbene, quel grafico e quel numero non dimostrano un aumento effettivo delle vendite di biciclette, che invece diminuiscono decisamente rispetto al vertice raggiunto nel 2007, 1.989.000; semmai una maggiore diminuzione delle immatricolazione delle auto a partire dal livello di 2.517.000 del 2007 (anno prima della crisi, nel 2008 si assiste a un subitaneo crollo riguardo alle une e alle altre).

Sicché all’ultima data indicata, 2011, notiamo quello “scarto minimo” ma “simbolico” (Tonacci) di sole 1.748.000 immatricolazioni di auto e però di modeste 1.750.000 vendite di bici. Insomma, non mi pare che si possa parlare, per l’intero territorio italiano, di riscoperta della vecchia tradizione ciclistica urbana e rurale, o comunque di grosse novità nell’impiego del silenzioso mezzo a due ruote. Queste ultime parole per ricordare che c’è un altro mezzo antagonista delle auto ma anche delle biciclette, il contrario che silenzioso, invadente e dominatore di cui sembra che pochi se ne accordano, se non i cittadini, pedoni e ciclisiti, di certe città che vi devono fare i conti ogni giorno.

Il mio punto di osservazione è Milano. Tutti conoscono l’attesa riforma del traffico attuata dall’amministrazione guidata dal sindaco Pisapia, proprio come era stata promessa nella campagna elettorale. Il centro della città all’interno della circonvallazione che siamo soliti denominare “spagnola” è accessibile alle quattroruote solo pagando un pedaggio (salvo eccezioni), cioè finalmente si è ricorsi a una congestion charge e non a una pollution harge relativa a troppo poche auto. Tuttavia ne sono esentate le motociclette. Intanto la giunta ha proseguito nella politica di sostegno all’uso della bicicletta, aumentando le postazioni di bike sharing e tracciando dove possibile ciclopiste. Tutto bene? Si vedono molte più persone in bicicletta. Che, insieme ai pedoni, devono subire il nuovo malanno (mi permetto di chiamarlo così) evidente da qualche anno e aggravatosi in maniera certamente sconosciuta in altre città, dell’invasione delle moto.

Questa la contropartita della notevole diminuzione delle auto. Il tema, ora, non è di disquisire se le motociclette nel centro della città sono più dannose delle auto, queste più invadenti diciamo dal punto di vista volumetrico (perché, per tremendo rumore e inquinamento le prime non la cedono alle seconde). Ma è di affermare regole di comportamento, ora mancanti o labili, e anche di assegnare equi spazi d’uso. Oggi, oltre agli sciami di decine di moto per volta che sfrecciano pericolosamente fra le auto e invadono le ciclopiste a raso, per esse il parcheggio è concesso dappertutto, compreso marciapiedi e portici, del resto piroettando senza spegnere il motore. E perché non sperimentare anche per questo mezzo niente affatto moderno come la bicicletta, ossia non conforme ai progetti per una vita migliore, più umana nelle città, un modesto pedaggio per entrare nel suo cuore?

Milano, 2 ottobre 2012

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