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L’Expo 2015, la grande esposizione universale, attesa a Milano per l’anno venturo, ha due temi.....>>>

L’Expo 2015, la grande esposizione universale, attesa a Milano per l’anno venturo, ha due temi: “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”. “Energia per la vita” può essere intesa sotto molti aspetti, ciascuno dei quali merita approfondimenti di carattere storico, ambientale, economico. Innanzitutto “la vita” per definizione, coinvolge un flusso di energia che comincia sempre con il Sole; anzi la vita, come noi la conosciamo, è comparsa quando la radiazione solare ha trovato sulla Terra le condizioni chimiche (acqua liquida, presenza di sali nei mari e sulle terre emerse, presenza di ossigeno, azoto e anidride carbonica nell’atmosfera) e fisiche (temperatura vicino a quella attuale), per avviare le prime reazioni chimiche che hanno portato alla formazione di esseri capaci di riprodursi.

Dapprima i vegetali che trasformano l’anidride carbonica in molecole organiche, poi gli animali capaci di nutrirsi di vegetali, poi gli organismi capaci di riciclare le spoglie e le scorie dei vegetali e degli animali e di rimettere in circolazione sostanze chimiche come “nutrimento” per gli altri esseri viventi. Vegetali, animali, decompositori, tutti tenuti in moto dall’energia solare, erano, da oltre un miliardo di anni, i protagonisti della vita quando alcuni animali si sono evoluti diventando i nostri antichi predecessori del genere Homo, poi evolutisi ancora nella specie Homo sapiens a cui apparteniamo noi.

A mano a mano che è aumentata la popolazione degli umani è aumentata la richiesta di alimenti ricavabili da vegetali e animali, la cui produzione ha richiesto a sua volta quantità crescente di energia, fino a quando è stato necessario integrare l’apporto dell’energia solare con l’energia muscolare del lavoro umano o degli animali e poi con l’energia dei combustibili fossili, carbone, petrolio, gas naturale, estratti dalle viscere della terra.

L’energia ha quindi un ruolo centrale per la vita e per l’alimentazione; occorre infatti altra energia per conservare i prodotti agricoli, per spostarli dai campi alle fabbriche, per trasformali in alimenti commerciali, per trasportarli nei negozi e infine per consumare il cibo nella vita familiare e collettiva. Per ciascun alimento si parla infatti di un “costo energetico” (alcuni lo chiamano “impronta energetica”), definito come la quantità di energia necessaria per ottenere gli alimenti che entrano nella nostra dieta; una grandezza difficile da calcolare, tanto che i diversi studiosi propongono risultati molto differenti per lo stesso alimento.

Prendiamo il costo energetico di un uovo; un uovo pesa circa 60 grammi ed è costituito da circa 6 grammi di guscio, da circa 18 grammi di tuorlo e da circa 36 grammi di albume. Un uovo fornisce, a chi lo mangia, circa 300 chilojoule (circa 80 chilocalorie, come si diceva una volta) di energia vitale e circa 8 grammi di proteine, le due componenti principali dal punto di vista nutritivo, insieme a piccole ma essenziali quantità di vitamine. L’uovo è il risultato di un lungo ciclo vitale che cominciato con l’alimentazione di una gallina ovaiola che “consuma” ogni giorno circa 100 grammi di mangime, il cui costo energetico è di circa 400 chilojoule.

Supponendo che nel corso di una giornata la gallina deponga un uovo, si potrebbe dire che sia questo il “costo energetico” dell’uovo. Ma l’uovo deve fare ancora molta strada prima di arrivare a casa nostra; dall’allevamento alle operazioni di lavaggio, poi di timbratura e di imballaggio, poi di trasporto al negozio, poi di trasporto dal negozio a casa. Si può quindi stimare che il costo energetico di un uovo ammonti a circa 2000 chilojoule, in parte sotto forma di prodotti agricoli, i mangimi per la gallina, in parte sotto forma di elettricità o gasolio per il funzionamento delle macchine, per la fabbricazione dell’imballaggio e per il trasporto. Se si considera che in Italia si “consumano” circa 13 miliardi di uova all’anno, si fa presto a vedere che il costo energetico delle uova corrisponde, nello stesso periodo, a quello di oltre mezzo miliardo di litri di gasolio.

Si può calcolare che l’energia necessaria, nei campi e negli allevamenti e per azionare macchine e mezzi di trasporto, solo per soddisfare i bisogni alimentari italiani in un anno, rappresenti circa la metà di tutta l’energia usata nel nostro paese. Circa la stessa proporzione vale se si calcola il costo energetico di tutti gli alimenti, più o meno due miliardi di tonnellate all’anno, usati per nutrire i settemila milioni di abitanti del nostro pianeta. L’intreccio fra energia e alimentazione è ancora più stretto perché gli alimenti rappresentano soltanto una piccola frazione, circa un quarto, della grandissima biomassa di prodotti agricoli e zootecnici che vengono trasformati in pane, pasta, carne, latte, conserva di pomodoro, zucchero, verdura, eccetera, cioè negli alimenti che arrivano ai consumatori finali.

I tre quarti di tale biomassa, quella “perduta” negli scarti e nei residui agricoli e industriali, e l’altra materia presente negli scarti e negli sprechi dei consumi finali, “contengono” a loro volta una grande quantità di energia che potrebbe, almeno in parte, essere recuperata sotto forma di sostanze combustibili e quindi come energia utile per le attività umane. Una sfida per quella merceologia e tecnologia agricola e alimentare da cui almeno un miliardo di persone nel mondo aspetta una risposta alla propria fame di energia oltre che di cibo.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a
La Gazzetta del Mezzogiorno

Il DDL Delrio è legge dello Stato: una legge improvvisata, inadeguata,...>>>

Il DDL Delrio è legge dello Stato (Legge 7 aprile 2014, n. 56): una legge improvvisata, inadeguata, scaturita da obiettivi incongrui, potenzialmente dannosa che potrebbe comunque essere reinterpretata a livello locale in una dimensione di vera coesione territoriale. Come si sta attrezzando la istituendo Città Metropolitana milanese? Si sta lavorando a uno Statuto metropolitano ambizioso che, come obiettivo strategico di fondo, dovrebbe aspirare a correggere il pernicioso modello di deregolazione che ha prodotto sul territorio milanese frutti così avvelenati? Non sembra proprio.

Il DDL n. 1542 “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni” è stato definitivamente approvato ed è oggi legge dello Stato (Legge 7 aprile 2014, n. 56) . Come numerose riflessioni critiche pubblicate su eddyburg hanno già evidenziato, si tratta di una legge inadeguata, scaturita da obiettivi incongrui, potenzialmente dannosa.

Una delle sue principali debolezze risiede nelle modeste competenze trasferite dai comuni alle CM. Nella pianificazione territoriale non si innova rispetto alla pianificazione di coordinamento territoriale provinciale, già debole quando si trattava di enti elettivi e che risulterà ulteriormente indebolita dal passaggio a ente di secondo grado. Le altre nuove competenze previste nel disegno di legge sono asfittiche. Ad esempio, i compiti di promozione dello sviluppo economico con risorse nulle appaiono una mera retorica; sulla pianificazione strategica, uno strumento assai vago per di più se di durata triennale e aggiornabile annualmente, non pare necessario legiferare: si tratta infatti di un processo che, per essere realizzato al meglio e, di nuovo, non in una dimensione meramente retorica e di pura produzione di immagini di mercato, non può che svilupparsi per iniziativa dal basso e su una dimensione temporale che abbracci il medio-lungo periodo[1]. La legge avrebbe inoltre potuto ragionare su un modello di attribuzione delle competenze a geometria variabile, considerando che le istituende CM si confronteranno con sfide e, soprattutto, con problemi sedimentati nel corso del tempo, molto differenti e che richiederebbero ricette d’intervento su misura.

Ma ora i tempi sono strettissimi: la conferenza statutaria presieduta dal sindaco del comune capoluogo dovrà terminare i suoi lavori trasmettendo al consiglio metropolitano la proposta di statuto entro il 30 settembre 2014 (!). E il Consiglio metropolitano, nel frattempo eletto, dovrà approvare lo Statuto entro il 31 dicembre 2014. Ed è proprio nella elaborazione degli Statuti metropolitani che si potrebbero introdurre elementi di innovazione a partire dalle specificità e criticità locali.

A che punto è Milano? In preoccupante ritardo. Ad oggi l’amministrazione del capoluogo ha prodotto una serie di accurate analisi specifiche sul territorio metropolitano, curate dal Centro Studi PIM; e ha ragionato, suggerendo diverse alternative possibili, sullo scorporo del comune capoluogo, previsto dalla legge 1542 come condizione per passare al suffragio universale nelle CM con popolazione superiore a 3 milioni di abitanti - un tema comunque poco urgente, dati i tempi lunghi relativi alla definizione, con successiva legge statale, del sistema elettorale e l’obbligo di referendum popolare.

Ma se si visita il sito web predisposto dal Comune di Milano[2], la preoccupazione che ho espresso appare del tutto giustificata: il link “Appuntamenti, iniziative, incontri, eventi sulla città metropolitana” segnala inesorabilmente da lungo tempo: “nessun evento in programma”. Si sta insomma manifestando da parte dell’amministrazione milanese una preoccupante inerzia nel promuovere iniziative di concertazione con i comuni dell’hinterland e di confronto serrato con i principali attori economici e sociali. Progettualità e concertazione stentano a decollare anche se lo Statuto costituirà l’unica vera occasione, da cogliere con tempestività, per riempire di contenuti innovativi una legge modesta.

Quali temi dovrebbero essere immediatamente posti al centro di una riflessione lungimirante sulla futura ‘Grande Milano’? Ne propongo un ambizioso anche se sintetico elenco, che ho meglio approfondito in un articolo per la rivista Meridiana che dedicherà al tema delle CM il numero in uscita prima dell’estate: un elenco su cui avrebbero già da tempo dovuto impegnarsi le amministrazioni locali a tutti i livelli, a partire da quello regionale e che, come questione di fondo, dovrebbe aspirare a correggere il pernicioso modello di deregolazione che ha prodotto sul territorio milanese frutti così avvelenati.

Lo Statuto potrebbe attribuire alla CM:
- competenze in materia di elaborazione di una vero e proprio piano strutturale[3] con precisi elementi prescrittivi in ambiti che si legittimano per la rilevanza etica di lungo periodo in termini di sostenibilità e di solidarietà; fra questi, prioritario il compito di regia strategica e messa in coerenza dei progetti di riuso/rigenerazione urbana proposti dai singoli Comuni, o da reti di Comuni: la CM dovrebbe poter esprimere su di essi un parere dirimente di compatibilità

- competenze per la amministrazione e gestione avveduta delle risorse territoriali agricole e delle risorse ambientali, in particolare applicando un principio di azzeramento del consumo di suolo in aree esterne al territorio urbanizzato per quanto riguarda le destinazioni residenziali quale è quello recentemente introdotto dalla proposta di legge 282 dell’8/10/2013 “Norme per il governo del territorio” della Regione Toscana, per ora approvata dalla giunta regionale (e naturalmente osteggiata dai comuni e dall’ANCI)[4];
- competenze in materia di fiscalità urbanistica ordinaria e di fiscalità orientata alla realizzazione di un buon mercato: definizione unificata degli oneri urbanistici e degli oneri aggiuntivi per sotto-densità, al fine non soltanto di elevarli sensibilmente, ma anche di tutelare il territorio da competizioni egoistiche fra comuni;
- compiti di regia strategica, in stretta interazione con i comuni dell’area metropolitana, in materia di associazionismo intercomunale. Sulla intercomunalità, che costituisce una formidabile opportunità per fare pianificazione urbanistica locale alla scala pertinente, la legge Delrio appare di nuovo asfittica e punitiva nei confronti dei piccoli comuni[5]. L’esempio della istituenda Métropole di Parigi con i suoi Territoires[6], dovrebbe essere presa in seria considerazione nella elaborazione dello Statuto della CM milanese: naturalmente ascoltando il territorio;

- promuovere una “fiscalità di agglomerazione” alla francese destinando alla CM parte degli oneri di urbanizzazione: ad esempio, almeno una quota di quelli relativi a funzioni/progetti di rilevanza metropolitana. E occorrerebbe utilizzare una quota delle risorse così accumulate per promuovere e incentivare i comuni virtuosi che realizzino progetti integrati e sostenibili di scala intercomunale.

- garantire la comunicazione continua e trasparente nei confronti dei ‘cittadini metropolitani’.

In ultimo, tutto il capitolo della fiscalità straordinaria associata ai progetti privati di trasformazione urbana dovrebbe essere affidato a una regia strategica metropolitana. Solo così la “mostruosa fratellanza” fra rendita, speculazione immobiliare, finanza e pubblica amministrazione potrebbe essere contrastata alla scala pertinente: ad esempio, attraverso un protocollo metropolitano sui grandi progetti negoziati di trasformazione urbana che potrebbe definire, sia pure con margini di flessibilità, le quote medie rispettive di vantaggio pubblico e privato estraibili dall’incremento di valore realizzato. Tutto questo è strettamente collegato a un problema cruciale per l’area milanese, quello della trasparenza degli accordi pubblico/privato: certificazione ex ante delle rendite e dei costi per tutti i progetti di rilevanza metropolitana e monitoraggio continuo e trasparente delle realizzazioni dovrebbero essere affidati al governo metropolitano.

A fronte dell’inerzia del comune capoluogo, è importante rilevare che le (per ora poche) iniziative che stanno configurandosi sono ad oggi ‘dal basso’: in particolare da parte di alcuni comuni dell’hinterland che si stanno organizzando per rispondere al disegno punitivo di intercomunalità contenuto nella legge con un approccio di più ampio respiro, che apra su alleanze di rete su territori pertinenti. E’ il caso del Coordinamento dei Sindaci di 23 Comuni dell’Adda-Martesana, localizzati nell’Est milanese, che già nel luglio 2013 hanno inviato una lettera aperta al sindaco di Milano sollecitandolo a convocare immediatamente l’Assemblea dei Sindaci della Provincia di Milano per la costituzione di una cabina di regia; a istituire gruppi di lavoro sui temi della pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali, del coordinamento della gestione dei servizi pubblici locali, della mobilità e viabilità, della promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale, ma anche del welfare locale; a istituire un gruppo ristretto tecnico/politico per mettere a fuoco le problematiche del nuovo Statuto.

Nessuna risposta è finora arrivata da Milano alle lettera dei sindaci. Ma a livello locale si sta continuando a riflettere sulla possibilità di costituire Unioni di Comuni di dimensione ampia per affrontare in maniera cooperativa e integrata le problematiche del territorio. E altre iniziative analoghe si stanno annunciando in altri territori dell’hinterland, proprio guardando al dinamismo propositivo dell’Est milanese.

Sul fronte delle rappresentanze degli interessi economici, perplessità sulla legge sono state espresse dal Presidente della Confindustria che, in un recente convegno organizzato sul tema a Firenze[7], ha criticato la modestia delle competenze delegate. Mentre Assolombarda, in attesa dell’EXPO e della Città Metropolitana, si è data un piano strategico 2014-2016 articolato in 50 progetti affidato allo slogan “Far volare Milano per far volare l’Italia” e appare in prima linea fra le associazioni imprenditoriali metropolitane nel considerare l’occasione delle CM cruciale per il paese.

Riuscirà la metropoli milanese a uscire dal circolo vizioso dell’incrementalismo e dell’adattatività attraverso una nuova visione e strategie al passo con le altre aree metropolitane europee?

Anche se la considerazione sembra ovvia, occorrerebbe in primo luogo ri-legittimare in ambito politico e culturale la pianificazione urbanistica e di area vasta. Occorrerebbe in particolare porre argine alle procedure perequative ‘estese’; porre argine alla flessibilità delle destinazioni d’uso e, sopratutto, porre argine alla inarrestabile concessione da parte dei comuni di diritti edificatori amplissimi e indifferenti a qualsiasi stima sulla domanda effettiva; occorrerebbe, anzi, revocarne molti elargiti in passato, come è nei poteri delle amministrazioni locali.

Sono tutti aspetti che richiederebbero, come ho sottolineato, un adeguato inquadramento territoriale; che dovrebbero costituire competenza cruciale della istituenda CM, in termini di definizione di regole di area vasta e di esercizio di compiti di controllo, valutazione, monitoraggio; e in termini più ampi di elaborazione di visioni strategiche di lungo periodo a cui ancorare direttive coerenti e conseguenti.

Sono tutti aspetti che richiederebbero altresì di ripensare gli hinterland metropolitani come luoghi di innovazione nella governance; in cui Unioni di Comuni costruite su territori davvero pertinenti siano incentivate a elaborare piani integrati, utilizzando lo strumento della perequazione territoriale per garantire vantaggi equi a tutte le comunità insediate.

A brevissimo termine comunque, una condizione necessaria sarà il cambiamento di passo del comune capoluogo: se la risposta della maggioranza che regge Milano, e soprattutto del Sindaco, e futuro Sindaco della Grande Milano, sarà di nuovo “rimediale”, come è avvenuto con il Piano di Governo del Territorio, si sarà persa una ulteriore occasione di affrancare la metropoli lombarda e il suo territorio dal torpore, ma forse meglio sarebbe dire dai sintomi di decadenza che ne stanno compromettendo il futuro.

Potrebbero essere i Comuni dell’hinterland i protagonisti di una nuova stagione di innovazione nel governo del territorio? Sembra una proposta controintuitiva, ma potrebbe costituire una grande occasione di riscossa: da cogliere, da parte delle amministrazioni locali, allargando lo sguardo e soprattutto guardando lontano.

E tutti abbandonando definitivamente, nell’interesse comune, l’idea che il mercato costituisca l’unico principio ordinatore e generatore dello spazio.

[1] R. Camagni, Città metropolitane? No, solo province indebolite, in “lavoce.info”, 2014, 18 febbraio.
[2] www.milanocittàmetropolitana.org.
[3] Nel caso lombardo occorrerebbe por mano alla riforma della legge di governo del territorio; e alcuni segnali in questa direzione sembra si stiano manifestando, sia da parte delle opposizioni che della maggioranza in Regione.
[4] La legge prevede altresì che “limitati impegni di suolo per destinazioni diverse da quella residenziale siano in ogni caso assoggettati al parere obbligatorio della conferenza di copianificazione d'area vasta, chiamata a verificare puntualmente, oltre alla conformità al PIT (Piano di Indirizzo Territoriale), che non sussistano alternative di riutilizzazione o riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture esistenti”. V. A. Marson, Newsletter, 2013, n.3 in regione toscana.it.
[5] P. Dallasta, S. Righini, La cooperazione intercomunale nella legge Delrio. Grandi speranze e attese deluse, in eddyburg.it, 2014, 31 marzo.
[6] Saranno i territori della concertazione intercomunale e ospiteranno almeno 300.000 abitanti. I Presidenti dei Territoires saranno di diritto Vicepresidenti nel Consiglio metropolitano. Non saranno quindi i singoli comuni, ma associazioni intercomunali di dimensione demografica cospicua su territori integrati gli attori locali di riferimento delle più complessive strategie e politiche metropolitane.
[7] Confindustria, Convegno Le Città Metropolitane: una riforma per il rilancio del Paese, Firenze, 2014, 6 febbraio.

In un comunicato di inaudita violenza il Coordinamento delle attività estrattive lapidee del Parco delle Apuane chiede al Tar... >>>

In un comunicato di inaudita violenza il Coordinamento delle attività estrattive lapidee del Parco delle Apuane chiede al Tar l'annullamento della delibera con cui la Giunta della Regione Toscana ha approvato il nuovo Pit con valenza di Piano paesaggistico, nonché del Piano stesso "pieno zeppo di errori procedurali, istruttori e legislativi" e - sempre secondo il Coordinamento - in violazione della Costituzione e di diritti incoercibili della proprietà privata. Al centro del fuoco Anna Marson, accusata di ogni nefandezza, "responsabile di un’azione violenta, illegittima, ....volta unicamente a ledere l’identità del territorio, della sua attuale realtà produttiva e del suo futuro". L'Assessore Marson di cui le "aziende tutte, e i lavoratori, chiedono le dimissioni per i gravi danni che già sta provocando ad una realtà territoriale salda e solida da centinaia di anni". E ce ne è anche per Italia Nostra, Legambiente e le associazioni ambientaliste, cui "qualora queste non interrompessero le loro azioni delatorie (sic), le imprese ...domanderanno in sede giudiziaria risarcimenti per il danno economico e di immagine".

La furia vendicatrice del Coordinamento, sia pure espressa in modo sintatticamente sgangherato e giuridicamente inconsistente, trova una spiegazione nella situazione di rendita super privilegiata in cui si trovano le imprese lapidee che dalle Apuane estraggono blocchi o, per lo più, detriti di marmo: canoni concessori minimi, il 13% di un valore del marmo generalmente sottostimato, e praticamente nulli dove - come nel territorio del comune di Massa - ancora vigono le leggi estensi del diciottesimo secolo. Concessioni perpetue (sempre secondo il diritto estense) e negli altri casi aggiudicate senza gara per un tempo lunghissimo e rinnovabili automaticamente. Una vera pacchia! A fronte sta un'occupazione ridotta al minimo (circa mille addetti e non cinquemila come il Coordinamento aveva millantato in un primo comunicato), la gran parte del materiale esportato, l'indotto locale sempre più esiguo. I costi tutti scaricati sul territorio, mentre il tunnel in costruzione, che migliorerà la situazione di inquinamento aereo nel centro di Carrara, sarà pagato dai cittadini a tutto vantaggio delle imprese che usufruiranno di una consistente riduzione dei costi di trasporto.

Naturalmente il Coordinamento dimentica di dar conto delle inadempienze sistematiche delle aziende impegnate nelle attività estrattive: la mancanza di raccolta delle acque a piè di taglio, l’assenza o il mancato utilizzo degli impianti di depurazione spesso esistenti solo sulla carta, i rifiuti abbandonati nelle cave dismesse, la mancata attuazione dei piani di ripristino, una diffusa e impunita inosservanza di regolamenti e prescrizioni. Si dimentica, altresì, il Coordinamento dell'inquinamento delle falde, delle sorgenti e dei torrenti, della diffusione di polveri sottili, degli innumerevoli danni ambientale e paesaggistici; considerazioni già contenute nell'articolo "Le Apuane e lo scandalo del Piano Paesaggistico", ospitato da eddyburg.

Ma quale è il peccato mortale del Piano? La colpa è di cercare di frenare il taglio delle vette al di sopra dei 1200 metri e di limitare l'estrazione all'interno del Parco delle Apuane, facendo salve le concessioni esistenti, ciò che ha provocato la netta contrarietà del Presidente del Parco, (vicepresidente uscente, già segretario del Pd di Fivizzano), evidentemente più sensibile agli interessi dei cavatori che a quelli dell'ente da lui presieduto.

L'attacco forsennato del Coordinamento, contro tutto e contro tutti, rivela una concezione di rapina del territorio e tutto sommato la miopia di chi non capisce che sarebbe saggio accettare una contenuta riduzione dei profitti a fronte del vantaggio di essere coprotagonisti di uno sviluppo economico più equilibrato, diffuso, capace di valorizzare le risorse dell'intero contesto territoriale e di migliorare la qualità di vita delle popolazioni. Una miopia e una resistenza che annoverano il Coordinamento come socio onorario del movimento dei forconi, in un metaforico rogo di leggi, piani, regole e buon senso. In attesa che qualcuno spieghi ai cavatori che la tutela del paesaggio secondo la Costituzione (da loro impropriamente evocata) prevale sugli interessi economici e che , sempre secondo la Costituzione, la salute è un "fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività". Ma forse dietro ai forconi apuani vi è qualcuno che soffia sul fuoco: si bombardano le Apuane per fare fuori la nuova legge urbanistica e il piano paesaggistico con le loro assurde pretese di contenimento del consumo di suolo e di tutela del paesaggio.

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, l’impostazione, e, se non fosse ormai un termine quasi pornografico, l’ideologia, di un testo come Istruzioni per l’uso del futuro di Tomaso Montanari (minimum fax, 2014). Il sottotitolo, Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà, chiarisce l’ambito di applicazione di questo manuale sui generis, ma non lo restringe, anzi: per l'autore il patrimonio culturale altro non è che uno degli strumenti principali per costruire il futuro della nostra democrazia. Il volume è strutturato come un alfabeto i cui lemmi sono però profondamente interconnessi tanto da restituire, nel loro insieme, un quadro del tutto organico. Fin dal titolo, su cui si può provare a mimare questa struttura:

Istruzioni. Intenzione dichiarata dell’autore è affrontare il problema della pars construens della gestione del nostro patrimonio. Accanto, dopo e oltre la denuncia, che peraltro nessuno come Montanari ha saputo esprimere in questi anni, è arrivato il tempo di cominciare a pensare come ricostruire un sistema, quello della tutela e fruizione del patrimonio culturale, ormai al collasso. Proprio per questo ogni capitolo contiene, accanto all’analisi, proposte o esempi di esperienze positive, che tutte si riconnettono alle idee forti su cui si incardina la trama del discorso.

A partire dall'affermazione che lo Stato, non come entità astratta, ma come espressione di una comunità allargata, è l'unica difesa possibile perchè i beni di tutti, non siano sottratti, in tempi di arrembanti economie di rapina, al godimento collettivo a vantaggio e uso esclusivo di pochi. Ma neppure uno Stato al massimo dell'efficienza e dotato di ampie risorse potrà mai garantire la tutela di un patrimonio al quale la collettività che dovrebbe difenderlo non sa più attribuire una funzione se non ornamentale. Il degrado cui è abbandonato il nostro patrimonio è figlio di molte cause, ma soprattutto dalla perdita di senso civile che ha subito. Solo un'azione educativa la più ampia e urgente possibile, potrà arginare alla radice questo degrado. Educazione è quindi, non per caso, uno dei termini ricorrenti del volume, in senso biunivoco. Perchè se è vero che dobbiamo, ad ogni livello, essere educati a comprendere le funzioni del nostro patrimonio culturale, quest'ultimo potrà così diventare finalmente un fondamentale strumento di interpretazione della storia e quindi educarci a sua volta alla complessità del presente.

Uso: perché il futuro dobbiamo costruircelo, non solo attenderlo passivamente, ma divenirne attori consapevoli utilizzando, per questo fine, appunto, la cultura. E il patrimonio culturale assume pienamente il suo valore di bene comune solo quando, appunto, viene usato. Non la conservazione statica, ma la conoscenza e quindi lo sviluppo della persona ne sono il fine. Usiamolo quindi, senza abusarne, come è accaduto soprattutto negli ultimi anni attraverso una distorta applicazione del termine di valorizzazione, intesa come creazione di valore economico, e non sociale.

Futuro: il patrimonio culturale è una leva potente di reinvenzione del futuro. Non discorso sul passato come celebrazione acritica e parassitaria di glorie passate quindi, ma strumento di costruzione del nuovo perchè capace di insegnarci quello spirito critico che è il primo indispensabile strumento attraverso cui riusciamo a mettere in discussione il presente per creare un futuro diverso e migliore.

Patrimonio culturale: Montanari fa ricorso, programmaticamente, al termine patrimonio e non alla locuzione beni culturali, per sottolinearne quel carattere sistemico che assume nella nostra realtà, ben più complesso di quell'elenco di singole eccellenze, cui, per molti aspetti è tuttora ancorato l'attuale sistema della tutela. Patrimonio, poi, come eredità di cui siamo corresponsabili, tutti, come cittadini, nei confronti delle generazioni future e che, per questo, abbiamo il dovere di usare secondo principi di sostenibilità, reversibilità, gradualità.

Democrazia: è questo un punctum del discorso di Montanari. Sulla nostra capacità di investire risorse sul patrimonio culturale ci giochiamo non solo la possibilità di continuare a vivere in un contesto di armonia inarrivabile, ma quel "progresso spirituale della società" di cui parla la nostra Costituzione (art.5). L'articolo 9, quello che sancisce il dovere della Repubblica a tutelare il patrimonio storico artistico e il paesaggio, viene collocato al centro di quella rete sapiente - dall'art. 3 al 5, al 21, al 30, al 33 - che nella nostra carta fondativa disegna il perimetro della democrazia, come comunità di eguali, tollerante e inclusiva. E quindi aperta a nuovi cittadini che possono fondare i loro diritti di cittadinanza su uno ius soli interpretato come lo spazio comune della cultura.

Verrà: un tempo futuro, il nesso “la democrazia che verrà” è quindi un auspicio, a ribadire, come il lettore comprende bene fin dalle prime lettere di questo sillabario di civiltà, che quella attuale è per lo meno una democrazia incompiuta.
Ad una prima lettura quel tempo tradisce un velo di pessimismo. O forse lo tradisce nel lector in fabula che sta scrivendo queste note e che, per certi versi, questo pessimismo lo declina in modo ancora più ampio. La crisi che attanaglia il sistema che riguarda il patrimonio culturale non è circoscritta: se il Mibact va ripensato e rilanciato, ugualmente urgente sarebbe la riforma dell’Università ed è da dubitare profondamente che la soluzione possa miracolosamente derivare dalla giustapposizione di due crisi convergenti e che da queste strutture possano scaturire in tempi brevi quell’energia e quell’innovazione che sarebbero necessarie a costruire un programma di rilancio del senso e della funzione del nostro patrimonio culturale.

Il quadro non migliora se lo allarghiamo all’insieme degli enti locali: la declinazione del federalismo in ambito culturale ha avuto esiti complessivamente insufficienti e del tutto sproporzionati, in negativo, rispetto alle ingentissime risorse utilizzate (sperperate). Ma se questo è il bilancio, non esaltante, per quanto riguarda gli attori istituzionali, il panorama, se possibile, peggiora, se pensiamo all’intervento dei privati, dai concessionari dei servizi museali alle Fondazioni: non potrebbe essere diversamente, in fondo, visto che classe dirigente, classe intellettuale e classe imprenditoriale condividono da troppi anni il medesimo brodo di coltura attraverso prassi incestuose con le quali hanno stroncato, in radice, ogni tentativo di rinnovamento.

Lo stesso Montanari, per trovare esempi positivi, deve ricorrere a quella zona promiscua fra il volontariato di cittadinanza e l’eroismo delle seconde file che, nonostante tutto, non solo non ha deposto le armi, ma riesce perfino a costruire innovazione.
Basteranno queste forze, minoritarie nel numero e nelle risorse, ad innescare quella vera e propria rivoluzione di cui ci sarebbe bisogno? Il pessimismo della ragione, in tempi in cui velocità e semplificazione sembrano smantellare una dopo l'altra le conquiste della riflessione e della complessità, indurrebbe a dubitarne. Però leggendo alle lettere “s” (spazio pubblico) e “u” (uguaglianza) del parroco del rione Sanità o dei cittadini di Matera e di quanto hanno saputo inventarsi per riconquistare il loro patrimonio culturale e farlo diventare uno strumento per un presente e un futuro diverso, la voglia di crederci ritorna prepotente.
E l'obiettivo più profondo del libro, è raggiunto.

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma".

Il volume di Tomaso Montanari, Istruzioni per l'uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà, minimum fax, 2014, € 9, verrà presentato a Salerno il 9 aprile 2014, Museo Diocesano, h. 17.30, con la partecipazione dell'autore.

Da circa una dozzina d’anni incombe anche nel centro storico di Cagliari...>>>


Dacirca una dozzina d’anni incombe anche nel centro storico di Cagliari unprogetto di parcheggio interrato sotto le mura del bastione della Santa Croce. Moltecritiche, pochi sostenitori. Tra i sostenitori l’attuale Giunta della modernasinistra ecologica e avanzata. Una grande effusione di cemento nel centroantico della città, un progetto ereditato dalla vecchia Giunta sviluppista cheprudentemente lo abbandonò.


Itifosi del Parcheggio dentro la rocca di Castello - in crisi di argomenti cometutti i tifosi - raccontano che questoparcheggio incarna la modernità, che chi si oppone vuole mummificare la città,che la città si modifica di continuo e banalità del genere. I soliti argomentivuoti. Però dimenticano che il Piano Paesaggistico, oltre che il buon senso,vieta di sventrare un contrafforte sotto le mura antiche di un’acropoli. Dimenticanoi princìpi del trasportismo anche se un esperto di trasporti glieli ha ricordati.Dimenticano, soprattutto, il valore di quello che hanno ricevuto dal passato,credono di poterne disporre secondo capriccio e interessi.

Nullada fare, sono rinchiusi nel recinto ideologico del fare compulsivo, se neimpipano del “tempo grande scultore”, non hanno tempo da perdere. Anche a costodi contraddire se stessi, visto che molti di loro erano sino a qualche anno faferoci avversari del progetto. E oggi chiamano parco il parcheggio e raccontanoche con un parcheggio si ripopola il centro storico, un parcheggio fecondativo.

Eppurene abbiamo ricevuto lezioni dalla piccola storia recente della città. Ladistruzione della spiaggia del Poetto annientata in quindici giorni da un’ideadi matta modernità, la proliferazione di un intero quartiere di palazzacci aridosso di Tuvixeddu, soffocata e deturpata da una strada camionabile che lataglia in due, la gigantesca colata di asfalto, svincoli e rotonde e l’eruzionedi cemento pianeggiante sulle rive del lungomare (il cemento non è orribilesolo in verticale), e molte altre pazzie urbanistiche, non sono servite adadottare neppure la più elementare prudenza.

L’infeliceparcheggio dentro i contrafforti delle mura antiche è un vecchio progetto difine anni ’90 che nel frattempo ha perso pezzi ed è invecchiato sino ad essere vanoe illegittimo.Quello di oggi è ostinatamente uguale al vecchio progetto, salvoche per la cancellazione di tapis roulants e scale mobili da fumetto.

Sorvoliamosul calcolo bugiardo che prevede di eliminare 700 parcheggi in stradacostruendone 300 coperti dove rifugiare le auto sottratte alla strada. La matematica si ribella. Sorvoliamosulla balla che questo colossale versamento di cemento sotto le mura sarebbeinvisibile. Non esiste il cemento invisibile. Sorvoliamoperfino sull’idea tragicomica di chiamare parco il desolante tetto di cementodel parcheggio, pieno di bocche di areazione, senza alberi perché gli alberi siintestardiscono a non crescere sul cemento, senza ombra e con aree gioco digomma dove i bambini rimbalzano. Roba da prozac. Previste, come nel parco dellanecropoli di Tuvixeddu, papere a molla ecavalli a dondolo per allietare i bimbi che giocano giulivi tra gli scarichi.Là saltellavano tra le tombe, qua tra gli scarichi. Sorvoliamosulla panzana di un parcheggio per i residenti perché quel garage serve solo ainostri baristi-architetti della città alta e si ispira alla filosofia dellabirretta che regge una certa urbanistica alcolica locale. Sorvoliamoanche sull’espressione “parcheggio di scambio” visto che il codice della strada definisce parcheggio di scambio “un parcheggio situato in prossimità distazioni o fermate del trasporto pubblico locale o del trasporto ferroviarioper agevolare l’intermodalità”. Li chiamano anche Park and Ride, ossiaparcheggia e viaggia. Ma l’automobilista che parcheggia sotto le mura farebbesolo un tragitto alcolico sino ai long drink sopra le mura. E sorvoliamosul fatto inquietante che dall’altro lato del colle di Castello c’è ilparcheggio disabitato di Terrapieno (600 posti e 80 auto al giorno, usiamoquello) e il Terrapieno che frana, non certo per colpa di qualche pino segato brutalmentein nome di uno speciale odio indigeno per il verde. Anche qui un desolanteterrazzo di cemento.

E dopo tanti sorvoli, a proposito di parcheggio, ricordiamoquello di via Manzoni e il suo allagamento cronico. Sembrava un molo a causa diuna falda dispettosa che lo allagava. E questa falda proveniva da lontano, dallarocca di Castello. Oggi resta il “giardino” che l’ingegnere del Comune definivaun gioiello incastonato nel quartiere di San Benedetto. Quel giardino è unosquallido terrazzo di cemento, vietato agli esseri umani perché non si legge ilgiornale o si gioca respirando i gas di scappamento. Neppure queste esperienze sono servite, no.L’ingegnere è sempre lo stesso, appassionato, si vede, di “parcheggi gioiello”.

E allorariflettiamo sul sottosuolo del nostro centro storico. Soprattutto su quelloproblematico di Castello e dei quartieri vicini, poco conosciuto e per questomotivo trattato, per millenni, con rispetto da chi lo abitava. E’noto che Castello scarica acque sotterranee a valle, verso Villanova e Stampace.Ed è certo che quei tre quartieri, in stretta relazione, presentino aspettipreoccupanti per la stabilità dei suoli e delle case.
Perfortuna esiste il PAI, il piano di assetto idrogeologico, che classifica ilrischio di frane e alluvioni e si ispira al benedetto principio di precauzione.IlPAI ci è di aiuto per comprendere quanto folle sia l’idea di tre piani di parcheggiointerrato sotto le mura di Santa Croce. Aiuta soprattutto a comprendere come lapericolosità di un sito debba essere considerata non solo in sé ma anche inrapporto alle aree circostanti.

E principalmentestabilisce cosa non fare.

Qui, in allegato, potete scaricare il testo integrale dell'articolo che comprende, oltre al testo riportato sopra, anche un breve memorandum e le norme del PAI

Che il nostro paese sia messo su una china autoritaria lo prova non solo il contenuto delle riforme istituzionali proposte dal governo Renzi…>>>

Che il nostro paese sia messo su una china autoritaria lo prova non solo il contenuto delle riforme istituzionali proposte dal governo Renzi e approvate in Consiglio dei ministri. Su queste valga non solo l'appello lanciato da Zagrebelsky e Rodotà, ma anche le osservazioni e le riserve di tanti commentatori, perfino di esponenti e settori moderati della vita politica italiana. Quel che indica il senso di marcia, la direzione dei venti dominanti è il favore popolare di cui gode al momento l'iniziativa del governo, il consenso aperto della grande stampa, come Repubblica ( con l'eccezione del suo fondatore), l'ibrido e politicamente indistinto coro di approvazione che sale dai vari angoli del paese. E, segno dei tempi non poco significativo, è il concerto di voci ostili, la condanna corriva, il linguaggio scadente fino ad essere scurrile contro i critici del progetto di riforme. Costoro vengono bollati come parrucconi, definiti – con una semantica della derisione che capovolge il significato delle parole - « soliti intellettuali », quasi fossero la banda de I soliti ignoti del film di Monicelli. E' già accaduto che in momenti tristi e difficili della vita nazionale l'intelligenza sia stata derisa. In una trasmissione televisiva, Piazza pulita del 31 marzo, aizzato dal clima generale dello spettacolo in corso, Alessandro Sallustri è arrivato al punto da definire Gustavo Zagrebelsky, il noto giurista, mite e finissimo intellettuale, « un cancro del paese » . Il conduttore Corrado Formigli, in verità, ha difeso l'assente, anche contro gli sghignazzi di altri esponenti politici presenti in trasmissione, che non meritano di essere menzionati. Ora, che un giornalista, da tanto tempo a servizio di Silvio Berlusconi - l'uomo che più di ogni altro ha influito sul destino dell'Italia negli ultimi vent'anni - il dipendente di un criminale condannato dai tribunali della Repubblica, possa definire “cancro” un uomo che onora il nostro paese, è certo un segno grave di capovolgimento di ogni criterio di verità, la prova di una involuzione grave dello spirito pubblico.

Certo, questo favore confuso e indistinto che soffia nelle vele di Matteo Renzi, non è solo il risultato dell'abilità comunicativa del nostro presidente del Consiglio. A reggere il suo atteggiamento oggi apertamente ricattatorio c'è , come ha scritto Norma Rangeri su questo giornale( 1/4) « la forza d'urto dei fallimenti della classe dirigente, a cominciare da quelle forze intermedie, partiti e sindacati, che si riferiscono alla sinistra. » Come negarlo? Quali sono state le idee, le proposte, le iniziative mobilitanti che son venute dal PD in questi ultimi anni, così drammatici per tanti cittadini italiani? Nulla che non fosse l'applicazione dei dettami della politica di austerità imposta dalla UE, sia dall'opposizione (ultimo governo Berlusconi) sia nel governo Monti e non diversamente nel governo Letta. E qualcuno ha udito, in questi ultimi 4 anni di disoccupazione dilagante, una, una sola idea, una qualche iniziativa all'altezza dei tempi, venir fuori dalla CGIL di Susanna Camusso? Il più opaco e impiegatizio tran tran tran quotidiano ha scandito la vita del maggiore sindacato italiano nel corso di una della pagine socialmente più drammatiche nella storia della repubblica.

Si capisce, dunque, il favore, l'impazienza, la fretta, con cui tanta parte del paese guarda al « fare » di Renzi. Dopo tanta inerzia e inconcludenza ( ma anche, dovremmo ricordare, dopo tante scelte ferocemente antipopolari) finalmente qualcuno che passa all'azione. All'azione qualunque essa sia. In verità occorre aggiungere anche una considerazione di più generale portata. Un'altra e più vasta corrente sotterranea alimenta gli spiriti animali del presente “decisionismo”. E' la crescente velocità con cui il capitalismo si muove sulla scena mondiale. E' la rapidità delle decisioni e delle scelte, di investimenti, di speculazioni con cui multinazionali e gruppi finanziari spostano fortune da un capo all'altro del mondo, condizionando la vita degli stati. E' una nuova dimensione temporale ( e spaziale) dell'economia che spiazza le antiche cronologie della politica. Di fronte alla celerità degli scambi, degli accordi commerciali, della manovre finanziarie, propria del capitalismo attuale, la politica appare, nelle sue più connaturate forme, come lenta, dilatoria, inconcludente. E la democrazia, che è dialogo, discussione, ponderazione delle scelte, ascolto delle diverse voci, procedura formale, appare un rituale vecchio e obsoleto, incapace di ricadute positive sulla vita dei cittadini. E qui sta il nodo su cui occorre riflettere. E' vero, ci sono rituali nella vita parlamentare italiana che oggi non sono più accettabili e occorrerebbe dare all'intera macchina legislativa una maggiore snellezza ed efficienza. Qui la sinistra dovrebbe mostrare maggiore convinzione e originalità di proposta. Ma occorre avere sguardo storico per capire il nodo che ci si para davanti, per non replicare gli errori che ci hanno portato alla situazione presente. La politica appare lenta e inefficiente soprattutto perché essa, per propria scelta, negli ultimi 30 anni ha ceduto moltissimi dei suoi poteri all'economia capitalistico-finanziaria. Dalla Thatcher a Reagan, da Clinton a Mitterand per arrivare ai nostri vari governi, essa si è privata di tanti controlli sulle banche, sui movimenti dei capitali, sui vari strumenti della politica economica. Al tempo stesso, e conseguentemente, ha indebolito i suoi tradizionali legami con le masse popolari, ponendosi così in una condizione di subalternità progressiva nei confronti del potere economico. E' la politica che ha favorito il disfrenamento della potenza anonima del mercato. Ciò che oggi appare come una condizione data, quasi naturale, spingendo i commentatori odierni ad accettarla come uno stato ineludibile, un principio di realtà, è di fatto il risultato di una scelta di un'autolimitazione della sovranità statuale. Anche autorevoli osservatori oggi ricorrono alla parola magica globalizzazione, come se si riferissero alla siccità o al maltempo. Ma un più sorvegliato uso delle parole consiglierebbe il ricorso a un altro termine, ora fuori moda: deregulation. Perché questa globalizzazione non è che una forma mondiale di dominio, privato di molti freni e regole da parte dei governi nazionali. Non è – come si vorrebbe far credere – il normale avanzare della storia del mondo.

L'attuale impotenza dei governi, la loro incapacità di mettere sotto controllo le iniziative delle potenze infernali lasciate libere di condizionare la vita delle nazioni, li spinge a restringere il campo del comando, a concentrarsi sulla macchina pubblica, sull'efficienza e la rapidità delle decisioni. E' la surrogazione di un potere perduto, che cerca un risarcimento limitando gli spazi della democrazia, strappando margini di manovra alla rappresentanza, restringendo il protagonismo delle masse popolari. E cosi riproducendo le cause storiche della propria subalternità. Ma la china autoritaria del governo Renzi si coglie appieno non solo mettendo assieme la riforma elettorale con la proposta di rafforzamento della figura del premier e l'abolizione del Senato. Anche il job act rientra in piena coerenza con la tendenza. Nel momento in cui non si riesce a ottenere da Bruxelles il via libera a una politica economica espansiva, si ricalca con proterva ostinazione il vecchio sentiero. Non si punta su investimenti e sul ruolo decisivo che il potere pubblico potrebbe svolgere in una fase di depressione, ma si cerca di far leva sulla piena disponibilità della forza lavoro alle convenienze delle imprese. E' la politica fallimentare degli ultimi decenni. Essa ha creato lavoro sempre più precario, generato bassi salari, indebolito la domanda interna, spinto gli imprenditori a contare sullo sfruttamento della forza lavoro più che sull'innovazione, contribuito a ingigantire la scala della sovrapproduzione capitalistica mondiale alla base della crisi di questi anni. Gli oltre 3 milioni di disoccupati appena censiti dall'Istat sono il seguito naturale di tale storia, nazionale e mondiale.

In Italia questa via contribuirà ad allargare l'area del “sottomondo” in cui vivono ormai milioni di persone, con lavori saltuari e mal pagati, privi di certezze, di identità e di speranze: uno solco ancor più profondo fra società e ceto politico. Quando, tra meno di due anni, occorrerà togliere dal bilancio pubblico intorno ai 40-50 miliardi di euro all'anno per onorare il rientro dal debito, come vuole il fiscal compact, occorrerà aver pronto uno stato forte per controllare l' esplosione di conflitti che seguirà alla distruzione definitiva del nostro welfare. Come si fa a non vedere già oggi la curvatura autoritaria che sta prendendo il nostro Stato?

Questo articolo è inviato contemporaneamnente al manifesto

Navigano lentamente in Parlamento varie iniziative legislative... >>>

Navigano lentamente in Parlamento varie iniziative legislative che mirano a limitare il “consumo di suolo”, cioè a rallentare o fermare la continua perdita di superfici agricole che ogni anno sono occupate da costruzioni e ricoperte da cemento e asfalto. Per dirla con parole chiare, i proprietari di terre agricole che rendono pochi soldi cercano di venderle ad alto prezzo a chi cerca superfici su cui costruire edifici o strade, con molto maggiori profitti. Ne conseguono non solo la perdita di attività e produzioni agricole, ma soprattutto profonde alterazioni sia del paesaggio, sia della circolazione delle acque e della ricarica delle falde idriche sotterranee. Per forza chi costruisce edifici o strade o parcheggi deve impermeabilizzare il suolo e deve livellare i terreni, distruggendo quelle spontanee vie di flusso delle acque che così, ad ogni pioggia intensa, allagano il territorio, spesso distruggendo le stesse opere costruite nei posti sbagliati.

C’è un altro volto del “consumo di suolo”; l’abbandono di spazi che sono importanti dal punto di vista ambientale e paesaggistico, ma che hanno basso valore per i proprietari. Mentre sulla utilizzazione errata e speculativa dei terreni agricoli esiste un vasto dibattito alimentato dai potenti interessi economici dell’edilizia e delle opere pubbliche e private, si parla meno del danno che l’Italia subisce per l’abbandono delle terre interne, specialmente delle colline e montagne e dei relativi paesini e piccole città che si stanno spopolando. C’è stata, nei decenni passati, una continua migrazione dalle parti interne, per lo più collinari e montuose, alle grandi città dove esistono, o si suppone che esistano, migliori condizioni di vita: scuole, ospedali, occasioni di lavoro.

Ancora più grave è lo spopolamento dei piccoli “borghi”, comunità che vivevano spesso di vita quasi autonoma utilizzando le risorse naturali e agricole, ma anche sociali e culturali, locali, che gli abitanti hanno abbandonato lasciando terre incolte, un vero e proprio spreco di suolo. Questa tendenza, umanamente comprensibile perché le persone, soprattutto giovani, cercano di “vivere meglio”, ha contribuito a quell’espandersi delle città e al “consumo di suolo” delle terre agricole di pianura. Si calcola che il 35 percento del territorio italiano sia occupato dal 15 percento della popolazione; in molte zone la densità della popolazione è bassissima, per lo più di anziani, benché esistano abitazioni inutilizzate e facilmente recuperabili.

Stanno aumentando, inascoltate, le voci di chi propone che i disegni di legge contro il “consumo di suolo” comprendano anche iniziative per ridare vita e speranza ai borghi e alle piccole città. Il problema riguarda anche il Mezzogiorno in cui l’abbandono delle zone interne e dei piccoli paesi, lasciati con scadenti servizi, è accompagnato di pari passo dalla congestione violenta delle città e da dissesti territoriali. Eppure proprio i borghi potrebbero diventare sedi di attività economiche e produttive con molti vantaggi; una parte degli abitanti, degli attuali o dei nuovi, potrebbe trovare lavoro, utilizzando e migliorando edifici e abitazioni esistenti, dedicandosi ad attività economiche come artigianato o la stessa agricoltura.

Adriano Olivetti (1901-1960), che era un imprenditore illuminato, lo aveva capito; la crescita dell’offerta di lavoro a Ivrea, dove esisteva la grande fabbrica di macchine per scrivere e di apparecchiature di calcolo ed elettroniche, portava lo spopolamento dei piccoli borghi vicini o costringeva i lavoratori ad un faticoso pendolarismo con la città. Ebbe allora l’idea di creare delle piccole attività industriali, specializzate nella produzione di parti degli oggetti richiesti dalla sua fabbrica di Ivrea, proprio nei vicini piccoli paesi del Canadese; l’obiettivo era quello di non far muovere i lavoratori, ma gli oggetti da loro fabbricati nei propri paesi, in stabilimenti in cui era previsto un orario flessibile, per cui gli operai in alcune ore della giornata potevano dedicarsi ai loro campi o alle loro stalle; il reddito veniva così investito nel miglioramento delle abitazioni e delle condizioni di vita locali. Purtroppo la morte prematura di Adriano Olivetti vanificò queste iniziative di vera e propria rinascita delle zone interne.

Oggi le nuove forme di produzione e lavoro in settori di avanguardia, come la microelettronica, che “vende” i suoi prodotti per telefono, potrebbe attrarre occupazione proprio nell’Italia minore, ricca di spazi e edifici spesso inutilizzati, spesso di grande bellezza, con una qualità della vita migliore di quella dei grandi agglomerati urbani. Paesi in cui spesso esistono scuole e licei di alta e antica tradizione, biblioteche con patrimoni sconosciuti e dimenticati, servizi sanitari spesso meno affollati e più “umani” di quelli delle metropoli.

Un decentramento e un recupero dell’Italia minore potrebbe creare ricchezza attraverso il riassetto del territorio; la regolazione del corso dei torrenti e fiumi eviterebbe futuri danni a valle e potrebbe fornire energia idroelettrica in piccoli impianti, potrebbe dar vita a coltivazioni di piante economiche per fibre tessili “ecologiche”, essenze aromatiche, per alcune delle quali esisteva già una tradizione poi abbandonata. La rinascita e valorizzazione del territorio “perduto”, restituito a funzioni economiche ed ambientali, consentirebbe di creare benessere oggi e di evitare costi collettivi futuri.

L'articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Ora che la zuffa nella litigiosa famiglia sorta a sostegno de l' Altra Europa con Tsipras pare sopita, si può dire pacatamente...>>>

Ora che la zuffa nella litigiosa famiglia sorta a sostegno de l' Altra Europa con Tsipras pare sopita, si può dire pacatamente qualcosa. Si può intervenire senza timore di gettare altro veleno nei pozzi già inquinati. E non si può non partire da uno degli episodi che ha scatenato le maggiori tensioni e le più vistose lacerazioni dentro il Comitato dei garanti, promotore della lista. Anche se non amo dare troppo rilievo alle singole persone ( né, tanto meno, metterle sotto accusa) è inevitabile partire dal singolo caso per svolgere poi delle considerazioni generali. Dunque, Antonia Battaglia ha abbandonato la lista Tsipras per incompatibilità con altri esponenti, provenienti dalla Sel pugliese. Ci si può interrogare un istante sull'arroganza settaria e l'irresponsabilità politica di tale gesto? Si può abbandonare un campo di impegno, costruito su difficili equilibri, ma importantissimo per tentare una svolta di possibile salvezza per il nostro paese, perché alcuni membri del collettivo non hanno il sangue perfettamente blu? Si va via perché tra i candidati nella lista ci sono degli appestati? Eppure i compagni di cui si chiedeva l'ostracismo non provenivano dalle truppe berlusconiane o dall' eterno ceto politico trasformista e nemmeno dal PD. Sono esponenti di Sel, un partito che , insieme a Rifondazione comunista, ha rinunciato al proprio simbolo e ha dato un contributo forse decisivo alla riuscita di tutta l'operazione. Se Sel non avesse appoggiato, al suo congresso nazionale la candidatura Tsipras, l'Altra europa sarebbe partita come un'anatra zoppa.

Si giustifica il gesto del gran rifiuto da parte della Battaglia con l'argomentazione della cattiva condotta politica di Sel nei confronti della ILVA di Taranto. Ora, non è certo questa la sede per discutere una questione così gigantesca come il disastro ambientale dell'Italsider. Ma si può fare di Sel – pur non sottovalutando errori, ritardi, sottovalutazioni, incidenti imbarazzanti di Vendola, ecc – il capro espiatorio di tutta quella vicenda? Con quanta superficialità si dimentica che per decenni nessuna attenzione è stata prestata al mostro siderurgico da parte dei governi nazionali, dal ceto politico – di tutti gli schieramenti - storicamente sordo in Italia a ogni problema ambientale? E che dire del sindacato, vale a dire dell' istituzione più vicina alla condizione quotidiana di inquinamento dei lavoratori, costretti a esporre i propri corpi a veleni di ogni tipo? Neppure la magistratura, nei passati decenni, è stata cosi vigile come oggi appare. Ed essa, anzi, continua a dormire in troppi angoli devastati del nostro Paese. E' evidente che gravano sull'intera vicenda responsabilità multiple e collettive che non possono essere sottaciute. Ma quello che assai gravemente si dimentica, esemplificando con superficialità il complesso nodo dei problemi, è che Taranto non incarna solo un acutissimo problema di ambiente e di salute pubblica, ma anche una drammatica questione sociale. E' noto a chi sa vedere. La degradazione ambientale prodotta dall'ILVA è arrivata a un punto tale da mettere in forse l'occupazione della gran parte degli operai, il reddito di migliaia di famiglie. Una minaccia di disoccupazione di massa in una città del Sud che ha fondato tutto sull'industria e in una fase storica in cui il nostro Mezzogiorno ha conosciuto arretramenti economici gravissimi Il tutto dentro una crisi di cui non si vede la fine. Come si fa a dimenticare il ricatto cui i Riva sottoponevano le masse operaie, l'intera città? Non a caso la popolazione di Taranto si è divisa in due schieramenti contrapposti. Poteva un partito come Sel disinteressarsi di una questione occupazionale di così vasta portata? Non ci si rende conto che astrarre da tale condizione dilemmatica il comportamento di quel partito si compie un'operazione di esemplificazione concettuale che porta al cortocircuito settario? Su questa strada si compie anche una operazione politica ingiusta e auto-distruttiva. Messi su tale china, Vendola e Sel diventano i complici dei Riva, si trasformano nei nemici da cui allontanarsi. Ma davvero non ci si accorge dell'ingiustizia enorme che si compie nei confronti delle persone e del loro passato? Non si capisce che gettiamo nell'inferno una parte importante della nostra stessa storia? La nostra stessa storia: e io non ho in tasca tessere di partito.

La scelta di Antonia Battaglia, com'è noto, ha investito anche il comitato dei garanti. Paolo Flores D'Arcais e Andrea Camilleri – di cui non cesso di ammirare la disponibilità con cui presta la sua operosa vecchiaia e il suo illustre nome a tante buone cause civili e politiche – hanno abbandonato il Comitato dei garanti. Ovviamente, non entro nel merito dei torti e delle ragioni. Nulla mi autorizza a improvvisarmi quale moralistico Catone. Ma una riflessione politica si rende necessaria. Possibile che l' offesa alla dignità dei due autorevoli membri del Comitato fosse così grave e irreparabile da non consentire un chiarimento e un aggiustamento informale? Possibile che le questioni di principio siano state ritenute più rilevanti del danno politico generale che verosimilmente si sarebbe prodotto, in termini di immagine, a tutta l'operazione ancora in fieri? Possibile che la fierezza personale venga prima di ogni altra cosa e sia comunque ritenuta più rilevante, nelle proprie scelte, dello scoramento, della sfiducia, della disillusione che esse vengono a creare in migliaia e migliaia di militanti, di cittadini, gettati nella più grave crisi e perdita di orizzonti politici degli ultimi 6o anni? Ci possiamo chiedere che come sarebbe andata la campagna referendaria contro la privatizzazione dell'acqua, senza il vincolo unitario che l'ha sorretto?

Hegel ha elaborato una figura filosofica per rappresentare questo tipo di umana soggettività innamorata della propria purezza e coerenza: la figura dell'”anima bella”. La sinistra conta non poche anime belle al proprio interno, che rifuggono dall'aspra contraddittorietà del reale, e anelano a conservare l'incorruttibilità adamantina della propria coscienza. Certo, fare politica, nel campo della sinistra è un'arte dannatamente più difficile che negli altri schieramenti. Per la destra e per gran parte del ceto politico di tutti gli schieramenti il compito è molto più agevole. Si tratta di aderire alle pieghe e alle gerarchie dei poteri dominanti, guidati dall'infallibile fiuto dell'interesse personale, e il successo diventa abbastanza agevole, pur se in mezzo a una feroce competizione. La sinistra si pone il problema gigantesco di cambiare il mondo, o quanto meno di rovesciare le intollerabili ingiustizie che lo lacerano. Deve perseguire un grande obiettivo, ubbidire a principi irrinunciabili, mettere d'accordo analisi radicale e pratica politica nella più opaca delle realtà quotidiane. E oggi, nella devastazione morale prodotta da vent'anni di neoliberismo berlusconiano, la navigazione somiglia alla barchetta di Caronte che affronta i marosi di una fetida cloaca.

E tuttavia non si possono concludere queste osservazioni senza mettere tutta, indistintamente, la costellazione della sinistra radicale e popolare di fronte a questa evidente ed esplosiva contraddizione. Noi siamo i portatori di una analisi senza misericordia delle condizioni del capitalismo mondiale e andiamo smascherando da anni il carattere pubblicitario e ingannevole delle promesse “uscite dal tunnel” dei nostri governanti. Noi sappiamo che i pannicelli caldi delle solite “riforme” non porteranno l'Italia da nessuna parte e che anzi, senza una radicale messa in discussione dei trattati dell'Unione, l'abisso si spalancherà davanti alle nostre porte. Ma proprio l'enormità del compito che consegue alle nostre terribili e fondatissime analisi dovrebbe indurci a comportamenti personali coerenti con una prospettiva così drammaticamente impegnativa. Se il compito che abbiamo davanti è così arduo, il nostro primo istinto dovrebbe essere quello di accostarci personalmente sempre di più, rinserrare le fila, serrare i ranghi, smussare le differenze, sanare le divisioni, fare della ricerca dell'unità della nostra parte la condizione fondativa della lotta. Ma questo richiede la dismissione degli abiti settari, del camice bianco da gabinetto scientifico e la capacità di guardare anche il mondo imperfetto che sta intorno a noi, mettere in uso le vecchie armi della tattica, con cui accompagnare l'astrazione, spesso troppo pura, della strategia. Se non si incomincia a guardare dentro la soggettività di tutti noi, a vedere che in essa c'è anche la radice della divisione e frantumazione del nostro campo, della nostra permanente minorità, con ogni probabilità, nei prossimi anni la sinistra radicale potrà solo contemplare, Cassandra inascoltata e impotente, l'avverarsi dei propri funesti vaticini.

Che l'ennesimo "ultimo" concerto degli archeologici Rolling Stones si svolga o meno all'interno del Circo Massimo >>>

Che l'ennesimo "ultimo" concerto degli archeologici Rolling Stones si svolga o meno all'interno del Circo Massimo, questa vicenda ha già provocato parecchie ferite, istituzionali e culturali.
Alla credibilità dell'amministrazione capitolina e degli organi di tutela, innanzi tutto. Nei giorni scorsi sono difatti state diffuse notizie sull'andamento del tavolo OSP: quell'organismo cui partecipano i rappresentanti delle istituzioni coinvolte per decidere degli usi dello spazio pubblico di Roma. In pratica, di fronte alle obiezioni sul piano della tutela della sola Soprintendenza Archeologica, la Direzione Regionale dei beni culturali e paesaggistici del Lazio ha deciso, stante il nulla osta delle altre Soprintendenze presenti, di accordare il permesso per lo svolgimento del concerto che radunerà, ai margini dell'area archeologica centrale, una folla presumibile di circa 65.000- 70.000 attempati fans.

Il Circo Massimo ospita da anni manifestazioni di tutti i tipi, solo in pochissimi casi etichettabili come eventi culturali. Già in altre occasioni, queste iniziative si sono rivelate lesive dell'integrità delle strutture e l'area nel suo complesso ha mostrato le sue fragilità quanto a carenze infrastrutturali. In altri casi, invece, la cornice del Circo Massimo si è rivelata perfettamente adeguata alle attività ospitate.
Insomma, il caso in questione non si poteva definire certo nuovo e privo di precedenti e quindi di elementi di giudizio circostanziati.

Eppure, gli organismi coinvolti, tutti senza eccezioni, hanno dato prova di un sostanziale dilettantismo istituzionale: perché nel 2014 sia l'amministrazione capitolina e in particolare quell'appendice di dubitabile utilità che ne è la Sovrintendenza ai beni culturali, sia gli organi di tutela statali non possono dimostrare di ignorare gli standards di sicurezza dei singoli monumenti o spazi di così rilevante importanza per la vita della città.
Si tratta di elementi oggettivi (condizione delle strutture e loro resistenza a vulnerabilità di diversa tipologia, criticità infrastrutturali, ecc.) che rappresentano una condicio sine qua non per un uso sostenibile degli spazi pubblici.
Elementi che non sono passibili di contrattazione, tanto meno su base "democratica": per un'incredibile decisione della Direzione Regionale, al tavolo OSP le decisioni vengono prese a maggioranza, dove la maggioranza finisce quasi sempre per coincidere con la convenienza di chi rappresenta il potere politico prevalente in quel momento.
A questo bel risultato si è aggiunta la consueta estraneità ai criteri di trasparenza: l'andamento della discussione è 'filtrato' con ritardo, con successive chiarificazioni, suscitando una discussione forse tardiva e su basi distorte.

In realtà, oltre che su di un piano tecnico e di adeguamento delle conoscenze agli obiettivi pubblici che perseguono, le istituzioni in questione hanno dimostrato un deficit, ancora più grave e profondo, sul piano della politica culturale.
Fatte salve le prescrizioni oggettive di tutela fisica dei monumenti, da monitorare nel tempo, infatti, l'uso di monumenti di simile rilevanza dovrebbe essere inserito in un piano complessivo sugli spazi pubblici che tenga conto delle criticità urbanistiche, ma soprattutto si ponga degli obiettivi di fruizione del patrimonio culturale non dettati dalle esigenze del momento.
A Roma specialmente, dove questo patrimonio è così importante e diffuso, una programmazione di questo genere, del tutto opposta dall'attuale, ma non nuova, gestione estemporanea, irrazionale e contraddittoria e, in ultima analisi, fallimentare non solo sul piano della tutela, non può latitare oltre.

Solo se torneranno ad essere parte integrante della vita cittadina, pur con modalità diversificate e regole precise e determinate su criteri espliciti, questi monumenti sapranno garantirsi un futuro meno incerto di quello che è loro assicurato da organismi troppo deboli per imporre le sacrosante ragioni della tutela. Ragioni che riusciranno a prevalere in maniera non casuale soltanto quando chi è chiamato a difenderle saprà sostenerle non solo come spazio difensivo, perennemente assediato da irresistibili pulsioni alla mediazione, ma come primo passo, imprescindibile ma non sufficiente, per la costruzione di un progetto di città diverso.

Anche di questo si parlerà nel convegno dell'Associazione Bianchi Bandinelli di domani, 21 marzo 2014 "Archeologia e città: dal Progetto Fori all'Appia antica".

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"

Nell’agenda del presidente del consiglio Renzi la questione urbana e territoriale appare drammaticamente assente. .>>>

Nell’agenda del presidente del consiglio Renzi la questione urbana e territoriale appare drammaticamente assente. Uniche occasioni conosciute: a breve, il Senato potrebbe approvare il DDL Delrio sui limiti del quale, se non verrà drasticamente emendato in Senato, eddyburg ha già ampiamente ragionato criticamente, in particolare durante l’ultima scuola estiva tenutasi a Sezano nel settembre 2013[1]; sul controllo del consumo di suolo giace in Parlamento un disegno di legge per molti aspetti modesto e forse condannato all’oblio. Su altre questioni rilevanti, ad esempio sulla drammatica emergenza abitativa, soprattutto nelle maggiori aree urbane; sul controllo della rendita; su possibili innovazioni amministrative ‘dal basso’ (ad esempio in materia di un rafforzamento, vero e non punitivo, dell’intercomunalità come dimensione appropriata per un rilancio della pianificazione di area vasta) e, da non dimenticare anche se scomparsa dal dibattito politico, tecnico e culturale, sulla riforma delle legge urbanistica nazionale, non si annuncia alcuna iniziativa di ampio respiro.

A titolo di sconfortante paragone, può essere utile aggiornare i lettori di eddyburg sulle leggi in materia di riforma della pianificazione urbanistica e del più complessivo sistema di governance territoriale che il Parlamento francese sta approvando a ritmi incessanti: sotto la presidenza di Hollande.Sono tre le leggi (due già approvate e una in fase avanzata di discussione) che evidenziano lo iato, apparentemente incolmabile, fra il programma di riforme avviato in Francia e l’inerzia dei governi italiani dopo Berlusconi (sia del governo Monti che di quelli successivi; incluso il governo Renzi, attivissimo sul piano comunicativo, ma totalmente afasico sulle questioni urbane e territoriali).

La prima legge, già da me brevemente commentata alla Scuola di eddyburg del 2013, ha istituito i governi metropolitani. Si tratta della “Loi de modernisation de l’action publique territoriale et d’affirmation des métropoles”: presentata al Consiglio dei Ministri il 10 aprile 2013, dopo due passaggi davvero rapidi rispetto ai tempi italiani all’ Assemblée nationale e al Senato, e dopo aver superato con parere favorevole il ricorso alla Corte Costituzionale presentato da alcuni deputati, è già entrata in vigore nel gennaio scorso.

una legge molto complessa e articolata i cui contenuti sono ben lontani dal ‘modello Delrio’. Nei primi Capitoli si è compiuta una svolta rilevantissima: la legge restituisce infatti a Dipartimenti e Regioni le competenze loro sottratte dalla legge 2010-1563[2] approvata sotto la Presidenza Sarkozy che si configurava come un vero e proprio atto di ‘macelleria istituzionale’ – una legge paragonabile negli intenti alla abolizione delle nostre Province, anche se ancora più distruttiva; istituisce inoltre soltanto 3 Métropoles (Métropole de Paris, Métropole de Lyon, Métropole d’Aix-Marseille-Provence); delinea infine le condizioni per il passaggio futuro, e volontario, allo statuto di Métropole delle altre agglomerazioni metropolitane.

La legge dunque dà il via a Métropoles a statuto particolare, anziché proporre un modello unico per aree metropolitane tutt’affatto differenti; è flessibile, poiché consente, nel rispetto di precise condizioni, un ampliamento dei perimetri statuiti dalla legge (che sono nel caso di Parigi la Proche Couronne, nel caso delle altre due metropoli i perimetri delle Communautés Urbaines/CU), confermando l’approccio a ‘geometria variabile’ già ben consolidato nella tradizione francese di intercomunalità volontaria. Anche sul tema della rappresentanza, il modello è differenziato: elezione di secondo grado nel caso di Parigi, dove il sindaco è anche Presidente della Métropole; mentre a Lione, che vanta una consolidata ed eccellente tradizione di governance di area vasta, per la prima volta si sperimenterà la grande innovazione (auspicata per decenni da Delouvrier e anche dall’ ex-sindaco stratega di Lione Raymond Barre per le CU): il Consiglio metropolitano sarà eletto a suffragio universale e il Presidente a scrutinio segreto e a maggioranza assoluta dal Consiglio. Alle Métropoles spettano estese competenze esclusive (nel caso di Lione, anche il piano d’uso dei suoli) sotratte ai Comuni e risorse finanziarie adeguate: proprio l’opposto delle nostre Città Metropolitane).

La seconda legge, promulgata il 21 febbraio 2014, è altrettanto importante. Si tratta della « Loi de programmation pour la ville et la cohésion urbaine” che rappresenta una nuova tappa della “Politique de la ville” avviata dal 1990 in Francia con l’istituzione del Ministère de la Ville. Nata per ridurre la doppia velocità urbana intervenendo sui tessuti più degradati, la Politique de la ville ha destinato negli anni cospicui fondi statali per la riqualificazione dei quartieri con alto disagio economico e sociale (le cosiddette ZUS/Zones Urbaines Sensibles) attraverso i contratti Stato/città[3]. La legge stabilisce criteri rinnovati per l’identificazione dei “quartieri prioritari” che sostituiranno le ZUS correggendone alcuni difetti, sintetizzabili nella locuzione, in Italia peraltro abusata, di ‘eccesso di centralismo e assistenzialismo’. Si introducono infatti disposizioni atte a favorire un maggiore coinvolgimento delle amministrazioni locali nella analisi e nell’individuazione dei quartieri di intervento prioritario; si introduce una riforma fiscale che obbliga le associazioni intercomunali firmatarie di contrats de ville a istituire un fondo di perequazione per il rafforzamento della solidarietà alla scala territoriale pertinente - la firma del contratto sarà condizionata dalla presenza di questo patto di solidarietà; infine, la legge sancisce l’estinzione, entro il 2014, delle Zone Franche Urbane: i quartieri più in crisi ai quali sono stati dedicati incentivi fiscali ed economici straordinari al fine di attrarre imprese e ridurre la disoccupazione.

Di nuovo, come nel primo caso, la legge, nel suo ampio articolato, entra molto in dettaglio anche nel merito di questioni sociali (e urbanistiche) rilevanti: ad esempio, in materia di non discriminazione di cittadini extracomunitari per quanto attiene all’accesso agli alloggi sociali realizzati con i Contratti finanziati dallo Stato; di non discriminazione relativa agli orientamenti sessuali; di ridefinizione ancora più articolata e fine del significato (e degli specifici contenuti funzionali) di mixité nei progetti di riqualificazione che riguarderanno i “quartieri prioritari”.

Infine, la terza legge, attualmente ancora in discussione, “Projet de loi pour l'accès au logement et un urbanisme rénové”, affronta il problema del disagio abitativo e della crisi degli alloggi con l’intento di “favoriser l'accès de tous à un logement abordable”. Essa prevede in estrema sintesi misure di regolazione degli affitti al fine di proteggere i locatari, e misure per indennizzare i proprietari privati nel caso di inquilini morosi, al fine di prevenire gli sfratti; misure per garantire l’alloggio ai senza casa; e una riforma del sistema di accesso all’edilizia economico popolare, più trasparente ed equo.
Sembrerebbe una legge ‘di settore’ dunque, relativa all’emergenza casa: ma estremamente interessante è il Titolo IV (articoli dal 58 all’84), dove la questione abitativa viene contestualizzata nel tema più generale del miglioramento della città pubblica e del controllo del consumo di risorse territoriali. Come recita anche il titolo della legge, l’obiettivo della ‘casa per tutti’ si inserisce in un disegno ben più ampio di rinnovamento dell’urbanistica - “urbanisme rénové”- e si propone inoltre una “transizione ecologica dei territori” da realizzare attraverso misure importanti e prescrittive: l’obbligo alla copertura del territorio nazionale con i piani di area vasta intercomunali (Schéma de Cohérence Territoriale/SCOT), ancora non pienamente realizzata; il trasferimento alle associazioni intercomunali delle competenze, oggi comunali, in materia di elaborazione dei piani urbanistici d’uso dei suoli: (Plan Local d’Urbanisme/PLU) (sic!); il rafforzamento della lotta al consumo di suolo attraverso nuovi strumenti di politica fondiaria affidati alle collettività locali; e infine l’obbligo al coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni in materia urbanistica.

Anche senza entrare in dettagli, siamo molto lontani, per capacità di visione e per coerenza, dalle poche, e modestissime, proposte di legge che nel nostro paese, da più di un ventennio, sono sempre settoriali ; non incrociano mai i temi del territorio, della città e della giustizia sociale; sono appiattite sulle dimensione, asfittica e di breve periodo, del risparmio di spesa, della semplificazione, del rilancio dell’edilizia privata; sono sempre alla ricerca di capri espiatori cui attribuire le responsabilità di un dissesto delle pubbliche finanze che dipende invece da inefficienze, disprezzo dei beni comuni, sfiducia nella pianificazione, fiducia pressochè esclusiva nel mercato: tutti elementi che spiegano anche la dilagante, incoercibile corruzione pubblica.

Restiamo in attesa di rapide proposte e decisioni, paragonabili a quelle del governo francese sotto Hollande, da parte del nuovo presidente del consiglio. Ma nell’alluvione di parole e promesse di Renzi non vi è traccia di consapevolezza della necessità di fermare l’assalto ai beni comuni consentito, e anzi promosso, a partire dagli anni ’80 dello scorso secolo dalle ‘riforme’ urbanistiche nazionali e di molte regioni, né il suo passato di sindaco di Firenze autorizza alcun ottimismo.

[1]

Anche il prossimo numero di Meridiana sarà dedicato al tema delle Città Metropolitane e, in particolare, ospiterà anche alcune riflessioni più mirate sui casi di Milano, Napoli e Roma.

[2] Si tratta della “Loi de réforme des collectivités territoriales” del 16 dicembre 2010, i cui previsti tempi lunghi di attuazione ne hanno scongiurato l’attuazione prima della sconfitta elettorale di Sarkozy.

[3] Il Plan National de Renovation Urbaine (2004-2013) promosso e finanziato dal Ministère de la Ville ha stanziato 14 miliardi di euro, realizzato 375 progetti di riqualificazione, coinvolto 3 milioni di abitanti . Fonte: Comité d’évaluation et de suivi de l’Agence Nationale de la Rénovation Urbaine (ANRU), La rénovation urbaine à l’épreuve des faits. Rapport 2009 d’évaluation, La documentationa francaise, Paris, 2010.

Se i crolli di Pompei, con la loro inaudita ripetitività, ci consegnano una devastante conferma >>>
Se i crolli di Pompei, con la loro inaudita ripetitività, ci consegnano una devastante conferma dell’impotenza e dell’incapacità degli organi di tutela del nostro patrimonio a garantirne persino la sopravvivenza, altri episodi ormai fin troppo diffusi sottolineano fenomeni di degrado diversi solo all’apparenza.

In questi ultimi giorni si è riaccesa una discussione sull’uso – o meglio abuso – del nostro patrimonio architettonico scatenata dalle notizie relative a Palazzo Spada. L’edificio è una grandiosa costruzione manieristico-barocca nel centro storico di Roma, voluta dal cardinal Girolamo Capodiferro come propria residenza, poi acquistata dal cardinal Spada che la fece modificare dal Borromini il quale creò, nell’androne di accesso al cortile, la famosissima prospettiva trompe-l’oeil.Il Palazzo fu acquisito dallo Stato in epoca fascista e divenne da quel momento sede del Consiglio di Stato: dal 1927, quindi, un capolavoro dell’architettura romana, è inaccessibile al pubblico, tranne che per gli spazi della Galleria d’arte antica che ripropone ciò che è sopravvissuto della collezione di Bernardino Spada.

Non paghi del privilegio, i signori Consiglieri si sono attivati, già da moltissimi anni, per dotare l’edificio di un parcheggio interrato a loro uso e consumo. Agli organi di tutela tale richiesta – ci troviamo nel cuore del centro storico a due passi da Piazza Farnese e via Giulia - è parsa perfettamente plausibile: sono quindi stati eseguiti gli scavi che hanno portato alla luce – ma guarda un po’ – importanti resti di due domus. Nonostante questi ritrovamenti i lavori sono proseguiti e, terminata la sezione archeologica, interessano ora il giardino storico interno che, a quanto appare dalla documentazione, ha nel frattempo subito uno sconvolgimento totale: anche in questo caso gli organi di tutela non hanno sollevato obiezioni di sorta.A questo punto, di fronte allo scandalo provocato dai video che testimoniavano l’impatto delle ruspe nel giardino, i Consiglieri hanno provato a giustificare l’episodio sostenendo che comunque le spese dei lavori e dei restauri dell'edificio erano a carico del Consiglio di Stato e che il giardino sarebbe stato ripristinato nello stato quo antea (risultato peraltro quasi impossibile).In tutto questo non si è comunque sentita l’esigenza da parte di nessuna delle amministrazioni coinvolte, tutte pubbliche, - Consiglio di Stato, Soprintendenza Archeologica, Soprintendenza ai beni architettonici, Direzione Regionale – di un doveroso atto di trasparenza nei confronti dei cittadini che protestavano, ovvero sia la divulgazione sia dei risultati degli scavi che del progetto del parcheggio nel suo insieme (rampe e griglie comprese, ancora da costruire e inevitabilmente di forte impatto sul contesto urbano e architettonico).

Nella conferenza stampa tenuta dal Segretario Generale del Consiglio di Stato Forlenza due giorni fa, solo dopo la denuncia di Associazioni (fra le quali eddyburg) e comitati, non è minimamente messa in discussione l’opportunità di un’operazione di questo tipo, pagata con i soldi pubblici (tale è, a tutti gli effetti, il budget del Consiglio di Stato), con l’impiego di risorse pubbliche (tempo e personale delle Soprintendenze, entrambi estremamente scarsi) per soddisfare le esigenze private di pochi, per di più non connesse all’espletamento delle loro funzioni. Caso gemello rispetto a quello del Circolo ufficiali che per decenni ha paralizzato la costruzione di una Galleria d’Arte Antica degna di una capitale a Palazzo Barberini, l’episodio di Palazzo Spada ripropone il tema dell’abuso del nostro patrimonio culturale a vantaggio di pochi privilegiati. Si tratta di un atteggiamento ormai così connaturato da non suscitare più remore nemmeno in rappresentanti della legge, quali i Consiglieri di Stato, del resto ben noti alle cronache per i benefit particolarmente vantaggiosi connessi ai loro incarichi.

Così come per altri beni comuni, dal territorio all’acqua, il patrimonio culturale viene percepito come res nullius di cui può impadronirsi, con piena legittimità, scarsa trasparenza ed evidente danno alla collettività, chi si trova in posizione di potere.
Con arrogante ipocrisia la costruzione del parcheggio è stata definita "restyling sotterraneo" e si cerca di far passare come atto di liberalità il pagamento di alcuni restauri, tacendo che si tratta - comunque, sempre, ad ogni livello - di risorse dello Stato, quindi della collettività: anche in questo caso, alla fine dei conti, paga Pantalone.
Che poi siano uomini di legge a dimostrare questa sprezzante indifferenza nei confronti degli interessi dei cittadini è ulteriore sintomo della spirale di decadenza in cui si è avvitata, forse irrimediabilmente, la classe dirigente di questo paese.

I Comunicati di denuncia di Comitato della Bellezza, Associazione Bianchi Bandinelli, eddyburg:
1 marzo 2014
7 marzo 2014

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"

Il Coordinamento delle attività estrattive lapidee del Parco delle Apuane, a fronte delle prescrizioni del nuovo Piano paesaggistico ... >>>

IIl Coordinamento delle attività estrattive lapidee del Parcodelle Apuane (d'ora in poi Coordinamento), a fronte delle prescrizioni del nuovoPiano Paesaggistico che ha avuto una prima approvazione dalla Giunta regionale,in un comunicato alla stampa (Repubblica, Firenze, 20/2/2014) si è addiritturaappellato al Presidente della Repubblica.: "invitiamo Giorgio Napolitano.. a recarsi a verificare e a conoscere le ragioni delle famiglie dei 5000lavoratori, senza contare l'indotto, e delle imprese tutte, affinché sulla basedella Costituzione della Repubblica Italiana 'fondata sul lavoro' vengapreservato il lavoro della comunità dell'Apuo-Versiliese". Dall'altraparte, vi è chi sostiene che l'occupazione legata alle attività estrattive e dilavorazione del marmo sia di circa un migliaio di addetti e anche su questecifre - importanti - bisognerà trovarsi d'accordo. Il Piano Paesaggistico proibiscel'apertura di nuove cave o l'ampliamento di quelle esistenti in tuttol'Appennino al di sopra di 1200 metri elimita l'apertura di nuove cave sulla dorsale carbonatica delle Apuane.

Il Coordinamento, oltread appellarsi al Presidente della Repubblica che ha onorato con la croce dicavaliere 12 uomini della Cooperativa Condomini di Levigliani come ci ricordail comunicato, ma che si trova lontano, dovrebbe preoccuparsi di quello chesuccede in casa propria, a cominciare dalle criticità segnalate nella relazione"Le attività di ARPAT nei processi di coltivazione deimarmi e dei materiali lapidei" presentata da Gigliola Ciacchini,responsabile del Dipartimento ARPAT di Massa Carrara in un convegno del7/12/2013 svoltosi a Campiglia Marittima: "Già la gestione delle acque dilavorazione porta spesso a segnalare irregolarità per la mancanza di raccoltadelle acque a piè di taglio, per l’assenza o il mancato utilizzo degli impiantidi depurazione, che spesso sono descritti solo sulla carta, per la presenza difango in tutta l’area di cava in inverno o di polvere in estate"... "Lagestione dei rifiuti è critica, normalmente si trovano rifiuti abbandonati incave dismesse, senza che nessuno abbia provveduto a far attuare i piani diripristino, almeno nella parte minima dell’allontanamento dei rifiutipresenti"...." Lo smaltimento del fango di depurazione delle acque(detto localmente marmettola) come rifiuto è ancora una eccezione,."(Relazione p. 5) ecc., ecc.

Ciò che emergedalla relazione è una diffusa e impunita inosservanza di regolamenti eprescrizioni. E, in aggiunta, dovrebbe il Comitato leggere attentamente la Lettera aperta del 9/2/2013di Franca Leverotti - consigliere nazionale di Italia Nostra- al Presidentedella Regione Toscana in cui sono esposte puntualmente le criticità - per usareun eufemismo - connesse a processi di estrazione e lavorazione su cui la stessaARPAT ammette di non potere esercitare alcun controllo preventivo. Fra tuttequelle che compromettono l'acqua, il bene più prezioso: l'inquinamento dellafalda dovuto sia alle attività estrattive, sia allo sversamento dai piazzalicontaminato con sostanze di ogni tipo; l'inquinamento dei corsi d'acqua; l'esaurimentoe l'inquinamento di sorgenti. Senza contare un diffuso deterioramentoambientale, (anche nelle zone di specifica protezione) che pregiudica lacrescita di attività alternative nel Parco.

Chi ha ragione? Il coordinamento delle attivitàestrattive, il Piano Paesaggistico o il combattivo comitato "Salviamo leApuane"? Come ho accennato, sarebbe necessario mettersi d'accordo sualcuni dati verificabili senza eccessiva difficoltà. Prima di tutto su quantisono gli occupati (direttamente o indirettamente) nelle attività di estrazionee lavorazione del marmo. Il ricatto occupazionale, tanto più efficace inmomenti di crisi, deve essere smontato sia sul piano dei dati reali, sia,soprattutto, nel fornire alternative di sviluppo e di occupazione. Ed è qui cheuna critica o comunque una stimolo, non tanto al Piano Paesaggistico, maall'intera politica regionale coglierebbe nel segno. La Regione in casi in cuisi oppongono diverse posizioni legittime (non mi riferisco tanto alle prese diposizione del Coordinamento, quanto alle preoccupazioni delle piccole imprese),dovrebbe farsi carico di attivare processi di partecipazione, ampi, coordinatie coinvolgenti le vere comunità locali, cominciando col fornire le informazioninecessarie e farsi garante della loro qualità. Molto meglio di quanto sipresume possa avvenire in un'azione di lobbying condotta a livello politico,soprattutto come pressione su assessori e consiglieri regionali e su un Presidente noncertamente rafforzato dal fatto di dover prendere decisioni e, si spera,mantenere ferma la barra, quando già si respira aria preelettorale.

L'area apuana èattualmente interessata da 662 ravaneti che coprono unasuperficie di più di 10 milioni di mq e da 785 cave attive, inattive oabbandonate, mentre la produzione di marmo statuario o ornamentale è stata ingran parte sostituita da quella del carbonato di calcio, utilizzato comemateria prima per fare plastiche, gomme, pneumatici, isolanti, vernici, colle,carta, prodotti chimici, farmaceutici, cosmetici. LeApuane, un monumento paesaggistico unico al mondo, un patrimonio che appartieneall'intera collettività, non può essere abbandonato alle rendite diposizione delle imprese concessionarie, agli interessi egoistici delleassociazioni di categoria e alla cattiva tutela di amministratori compiacenti.uanti sono gli occupati nelle attività estrattive e di alvorazione delmarmo, quani nell'indotto. Cinquemila lavoratori (escludendo l'indotto) senmbrauan cifra da ve555
Il parallelo mediatico fra il successo de "La Grande Bellezza" e gli ennesimi crolli pompeiani ha incontrato facile successo >>>

Il parallelo mediatico fra il successo de "La Grande Bellezza" e gli ennesimi crolli pompeiani ha incontrato facile successo, veicolato dalla contemporaneità dei due eventi. In effetti gli elementi di assimilazione sono più d'uno.Entrambi - film e sito archeologico - ci mostrano, spietatamente, il degrado di un paese incapace di usare il proprio passato in senso innovativo e proiettato verso il futuro. Bloccati in una paralisi etica e culturale, che impedisce qualsiasi costruzione positiva: Jep Gambardella non riesce più a scrivere nulla da quarant'anni e forse da altrettanto tempo abbiamo smarrito il senso del nostro patrimonio culturale e la capacità di farne uno strumento - forse il più potente - di progresso civile e sociale.

Anche per Pompei, come è stato notato, si usano, da un paio d'anni a questa parte le maiuscole, a nascondere attraverso l'innalzamento del tono verbale, il contemporaneo sfilacciarsi di una visione metodologicamente coerente e di largo respiro.Il Grande Progetto Pompei, lanciato in pompa magna nell'aprile 2012 e attraverso il quale si doveva procedere al restauro complessivo del sito con i soldi della comunità europea dopo i rovinosi crolli avvenuti a partire dal novembre 2010, è ormai entrato in un vicolo cieco. A distanza di 2 anni, dei 105 milioni complessivi, sono state spese poche centinaia di migliaia di euro e risultano banditi meno di 20 milioni complessivi, per di più seguendo un cronoprogramma di cui i fatti di questi mesi, di questi giorni hanno dimostrato la sostanziale irrazionalità: invece che concentrarsi, in prima battuta, su di una ricognizione speditiva ma esaustiva dell'intera area scavata e procedere ad una messa in sicurezza, anche provvisoria, delle situazioni a maggiore rischio per poi affrontare e rimuovere le cause di degrado principali, a partire dal rischio idrogeologico, ci si è dedicati al restauro integrale di pochissime domus. Per di più, a causa di incapacità gestionali oltre che di obiettive difficoltà di contesto, queste operazioni sono state caratterizzate da lentezze e criticità, quali ad esempio gli eccessivi ribassi (oltre il 50%) delle gare d'appalto. Risultato: le cause endemiche di degrado hanno continuato ad agire, provocando danni diffusi (i crolli riguardano tutta l'area del sito) e i primissimi esiti delle operazioni di restauro, inaugurate appena qualche giorno fa per quanto riguarda la casa del Criptoportico, provocano più di un dubbio. Dalla documentazione visionabile sul sito del Mibact la qualità architettonica appare molto bassa e discutibili le tecniche di integrazione del sito e il loro impatto sul contesto.

Di fronte al fallimento complessivo del Grande Progetto Pompei, ormai evidente, nell'agosto scorso, l'allora ministro Bray aveva cercato di porre un rimedio, evitando contemporaneamente l'ennesimo commissariamento di Protezione Civile auspicato invece dal premier, attraverso la costituzione di un gruppo di intervento articolato: Direttore di Progetto, task force di una ventina di tecnici Mibact e 5 consulenti in materie urbanistiche, economiche, giuridiche. ll tentativo, concretizzatosi, pur con sfilacciature, nel così detto Decreto Valore Cultura è diventato legge dello Stato il 7 ottobre 2013. A distanza di 5 mesi quella struttura non si è ancora insediata pienamente, a causa di conflitti e guerriglie interne al governo e al Mibact che ne hanno ritardato l'operatività oltre ogni limite di buon senso.Anche per questo, del resto, Pompei si riconferma simbolo spietato della profondità della crisi che interessa la gestione del nostro patrimonio culturale.

In tale crisi, l'accademia ha responsabilità non meno gravi: presenti per molti anni e fino a tempi recenti con propri cantieri di ricerca all'interno del sito, le università non hanno mai collaborato ad una strategia complessiva finalizzata al primo degli obiettivi, anche scientifici, ovvero sia la tutela di un'area fragilissima sottoposta a rischi innumerevoli, antropici e non. Ogni ricerca, ogni sforzo, andava indirizzato a costruire un modello innovativo di tutela e fruizione non di un sito qualsiasi, ma di un'intera città, affrontando collegialmente una sfida complessa, ma non impossibile, se iniziata per tempo e con convergenza di intenti. Al contrario, soprintendenza, enti locali, università hanno proceduto come disiecta membra, ciascuno per proprio conto quando addirittura non in contrapposizione. Uno degli effetti di questa suicida incapacità di coordinamento è stato appunto il Grande Progetto Pompei, compromesso incoerente, nato per giustapposizione di differenti tattiche di intervento, esito inevitabile e al ribasso dell'italico "un colpo al cerchio e uno alla botte".

Se quasi impossibile è, ormai, il mantenimento dei tempi richiesti da Bruxelles che prevedevano la fine dei lavori, rendicontazione inclusa, entro il 31 dicembre 2015, la partita di Pompei non può essere abbandonata o gestita per mero "galleggiamento". Occorre, da subito, un cambio di indirizzo radicale e metodologico del "Grande Progetto": moltissimo può essere fatto, anche in poco tempo, a partire da una strategia complessiva di medio- lungo termine che, intervenendo rapidamente a tamponare le emergenze, riesca però ad inserire attività e sforzi in un disegno organico che preveda soluzioni non temporanee, ma sostenibili nel lungo periodo. Occorre reimpiantare una metodologia di conservazione programmata affidandola, nel quotidiano, a quelle competenze e specializzazioni tecniche che almeno fino agli anni '70 operavano a Pompei: così come, del resto, ci avevano suggerito gli esperti -veri- inviati dall'Unesco in ispezione dopo i crolli del novembre 2010, i cui preziosi report, per colpevole arroganza, sono stati sostanzialmente ignorati dai tecnici e dirigenti del Mibact.Pompei può e deve tornare ad essere il laboratorio su cui sperimentare una nuova gestione del nostro patrimonio culturale, ma non c'è più un minuto da perdere.

Il testo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"

“Tua per sempre”. E’ il messaggio che ci arriva da ciascuna delle conseguenze negative, durature, di tante violenze ambientali cui sono esposte ...>>>

“Tua per sempre”. E’ il messaggio che ci arriva da ciascuna delle conseguenze negative, durature, di tante violenze ambientali cui sono esposte la nostra, e molte future generazioni. Molti anni fa negli Stati Uniti un gruppo di studiosi pubblicò un libro intitolato: ”Il ruolo dell’uomo nel cambiare la faccia della Terra”, una storia delle modificazioni a lungo termine provocate dalle attività umane sulla natura, e quindi sulla salute e sul benessere umano. Diecimila anni fa gran parte della superficie del pianeta era coperta da foreste; i nostri antenati hanno imparato presto a trarre dal bosco legna per scaldarsi o per ricavare metalli dai minerali, per costruire solidi edifici o navi con cui solcare i mari e estendere i commerci.

L’impoverimento delle risorse forestali è stato tuttavia lento; ancora nel Medioevo era possibile andare da Roma a Parigi senza uscire mai dalle foreste; Federico II poteva andare a caccia nei boschi della Puglia. L’industrializzazione e l’aumento della popolazione e dei bisogni materiali hanno accelerato la distruzione di crescenti superfici dei boschi per conquistare campi coltivabili e per costruire grandi città; spazi di suolo sempre più grandi sono rimasti nudi, esposti alle piogge e all’erosione. Queste azioni sono la causa delle frane e alluvioni e dei relativi costi e dolori della nostra e delle future generazioni, eredità lasciataci da centinaia di generazioni del passato.

Peraltro non possiamo prendercela con i nostri predecessori perché (eccetto pochi filosofi o naturalisti inascoltati) non potevano prevedere la violenza a cui avrebbero condannato noi. Noi invece oggi sappiamo bene che molte nostre azioni avranno effetti negativi duraturi su quelli che verranno in futuro, eppure non smettiamo di compierle e anzi di aggravarle. Un breve elenco di queste violenze è contenuto in un recente numero della rivista “Resources”. Intanto continuiamo anche noi nella distruzione delle foreste per accedere ai preziosi minerali nascosti nel loro sottosuolo, o per avere spazi liberi da coltivare con una agricoltura intensiva, pur sapendo che questo modo di produrre piante economiche alimentari, o destinate alla trasformazione in carburanti “biologici”, provoca altre alluvioni, e sapendo che molti dei terreni strappati alle foreste, dopo poco tempo, diventano inadatti alla coltivazione di qualsiasi cosa da parte nostra e di chi verrà dopo di noi.

Altre modificazioni, durature nel futuro, della Terra sono provocate dall’inquinamento dell’atmosfera, dovuto al consumo di combustibili fossili e a molti processi industriali e responsabile del lento inarrestabile riscaldamento globale; è questa la causa delle improvvise tempeste, dei periodi di freddi intensi, dell’avanzata dei deserti e di mesi di siccità, spesso nelle stesse zone che poco prima erano state afflitte da devastanti piogge. I governanti dei vari paesi del mondo si affannano nel proporre di rallentare tale inquinamento, cioè di inquinare ogni anno un po’ meno dell’anno precedente, facendo finta di dimenticare che i disastri climatici sono dovuti alla continua aggiunta di nuove masse di gas a quelli ormai esistenti e permanenti per secoli futuri.

Altri effetti e pericoli duraturi sono dovuti ai rifiuti solidi e liquidi che vengono immessi nell’ambiente; ci si scandalizza, giustamente, per quelli che bruciano all’aria aperta, ma si dimentica che altrettanto grave e inarrestabile è il danno potenziale anche di tutti i rifiuti che sono sepolti nel sottosuolo in innumerevoli luoghi sconosciuti, in Italia e in tutti i paesi; gli agenti chimici presenti, di cui nessuno conosce natura o composizione o quantità, lentamente si disperdono nelle acque sotterranee e finiscono nei fiumi e nelle falde idriche che forniscono acqua per l’irrigazione e per le città. Anche in questo caso i governi, dopo breve indignazione, propongono bonifiche che non vengono portate a termine, o neanche avviate, sia perché costano, sia perché richiederebbero analisi e trattamenti a cui le Università e le industrie sono impreparati. Si pensi soltanto che la mortale “diossina”, oggi sulla bocca di tutti benché presente da secoli nell’ambiente, quarant’anni fa era quasi sconosciuta.

E fra i rifiuti una posizione specialissima, per i duraturi pericoli e danni futuri, hanno quelli radioattivi, i residui delle attività di preparazione dell’uranio e del plutonio impiegati nelle bombe nucleari e nelle centrali nucleari commerciali. Le oltre quattrocento centrali nucleari che nel mondo ogni anno producono 2600 miliardi di chilowattore, il 12 % dell’elettricità totale, generano ogni anno come sottoprodotti centinaia di migliaia di tonnellate di elementi, radioattivi per secoli, che lasciamo come eredità a centinaia di future generazioni. Senza contare che sulle nostre teste il cielo è affollato da “spazzatura” costituita da pezzi dei satelliti artificiali che non funzionano più, e che spazzatura spaziale eterna, fino a quando non ci cascherà sulla testa, diventeranno in pochi decenni le migliaia di satelliti che oggi ci rendono felici con le trasmissioni televisive, o i collegamenti telefonici, o ci spiano anche quando andiamo a fare la spesa.

Voi direte che questo è il progresso, ma si potrà ben pensare un “progresso”, una “civiltà”, meno violenti per coloro che verranno. Se esiste (si fa per dire) una etica che impone rispetto del prossimo, vicino e contemporaneo, non sarà il caso di elaborare una etica che induca a rispettare il “prossimo del futuro” ?

Ma Silvio Berusconi non era stato condannato in via definitiva per frode fiscale l'1 agosto del 2013 , vale a dire ben 6 mesi fa? Non era stato dichiarato...>>>

Ma Silvio Berlusconi non era stato condannato in via definitiva per frode fiscale l'1 agosto del 2013 , vale a dire ben 6 mesi fa? Non era stato dichiarato decaduto dal suo seggio di senatore il 27 novembre dello stesso anno? Ebbene, a giudicare dal suo insonne attivismo sulla scena pubblica italiana, sembrerebbe che quelle decisioni, gravi e solenni, siano stati pura finzione, una recita teatrale da lasciare alla memoria di un tabellone di cartapesta. E non mi riferisco qui alla vera e propria resurrezione che il personaggio ha vissuto ( per un unto del signore non fa specie) nelle ultime settimane, grazie all' iniziativa di Matteo Renzi, poi coronata dall'apoteosi del sua salita al Quirinale. Quelle che osserviamo in questi giorni sono le sequenze ultime di un film che non ha mai cessato di svolgersi sui teleschermi nazionali. Per la TV italiana Silvio Berlusconi non è mai stato condannato, né mai cacciato dal Senato della Repubblica. Chiunque abbia seguito i telegiornali dopo l'1 agosto scorso ha potuto osservare, tutte le sere, che Berlusconi era attivissimo e presente nei luoghi più disparati d'Italia. Come se nulla fosse accaduto, nonostante la voce fuori campo ricordasse di tanto in tanto le sue recenti vicissitudini giudiziarie. Anche quando non c'erano nuovi eventi da raccontare, le immagini di repertorio ci restituivano il leader sempre aitante e sorridente. La solita maschera da teatro dell'arte della nostra tradizione, ora vituperata da quest'ultima incarnazione politica. In tutti i telegiornali della TV pubblica, anche nel TG3 di Bianca Berlinguer, si è svolta come una gara a ridare vitalità politica a un leader ormai fuori gioco. Attraverso le immagini del corpo in movimento, esibendo il viso mascelluto e volitivo del leader ( già triste icona della tronfia virilità del Capo in un'altra Italia), le immagini televisive si sono sostituite alla realtà politica e giuridica, l'hanno di fatto rimossa, tolta via dalla pubblica percezione. Berlusconi era ed è sempre lì, presentissimo e attivo, nonostante tutto. Con una modalità davvero degna di studio, la TV ha creato la realtà politica effettiva, cancellando nell'immaginario collettivo le decisioni dei pubblici ordinamenti.

Ora, si impongono alcune considerazioni. La prima riguarda le varie velocità della giustizia italiana. Perché si impiega così tanto tempo ad applicare a un leader politico la pena che gli è stata comminata? Ricordo che per reati di gran lunga più lievi – anzi creati da leggi liberticide e incostituzionali – la tempestività della carcerazione è da efficienza americana. Gli sventurati che dal Nord Africa o dal Medio Oriente giungono ai nostri agognati lidi vengono rinchiusi nei lager chiamati CIE, solo per aver profanato il suolo patrio con la loro presenza non richiesta. Mentre l'autorità giudiziaria è prontissima a riempire le nostre affollate carceri di piccoli spacciatori e fumatori di hashish. Rivestono, i casi di costoro, una così elevata pericolosità da giustificare tanta prontezza e durezza di pena?

Ma il problema centrale è la TV, sono i telegiornali a cui continuiamo ad assistere costernati tutte le sere. Conosciamo la replica dei giornalisti e la anticipiamo. I media devono riflettere la realtà politica effettiva e Berlusconi resta il capo indiscusso di un grande partito, che gode del consenso di milioni di elettori e dunque non si può non dargli rilievo, ecc. All'apparente buon senso di questa rivendicazione si può rispondere con due distinte considerazioni. C'è modo e modo di fare informazione. Si possono dare notizie di un leader, quando egli è protagonista effettivo di eventi rilevanti, che meritano di essere illustrati, senza per questo ricorrere a minuti e minuti di immagini, che hanno un evidente potere di creare realtà fittizia. E qui, naturalmente, occorrerebbe avviare una qualche discussione critica sul formato dei nostri TG. Ogni sera essi allestiscono la messinscena di un teatro sempre più insensato, dove si succedono, in una passerella iterativa e stucchevole, i teatranti di una politica che ormai sembra fare il verso a se stessa. E' vero, mostrare il volto effettivo del potere – e il ceto politico è potere, anche se oggi decaduto – giova alla democrazia. I cittadini possono così vedere da vicino i personaggi mediocri che li governano, togliendo sacralità agli arcana imperii del comando. Ma è evidente che quando si oltrepassa una certa misura, quando la mediocrità dei recitanti si accompagna a una lunga storia di inettitudine e corruzione, le loro esibizioni quotidiane servono ad accrescere il disincanto di massa nei confronti della politica e della democrazia. Senza dire che l'onnipresenza del ceto politico italiano nel nostro quotidiano immaginario immiserisce lo sguardo, rattrappisce l'orizzonte verso il vasto mondo che gira intorno a noi.

Ma la seconda considerazione da fare nel caso di Berlusconi non è di minor rilievo. Ma come si fa a considerare come un qualunque leader di partito questo personaggio? Com'è noto, a parte la grave condanna definitiva della Cassazione, egli ha comprato i giudici nel processo Imi-Sir, ha subito una prima condanna per sfruttamento della prostituzione minorile, è indagato per l”acquisto” di senatori e per vari altri reati infamanti, ha oltraggiato il Parlamento italiano con la storia della nipote di Mubarak, ha utilizzato il governo della Repubblica a fini personali e aziendali come mai era accaduto nella storia d'Italia. Insomma, ha il pedigree di un gangster e soprattutto ha fatto strame del nostro patrimonio più fragile: la moralità civile. La sua rivalutazione “in immagine”, da parte della TV, ricorda molto da vicino quella che ha graziato a suo tempo Giulio Andreotti. Si ricorderà: una sentenza della Cassazione del 2 maggio 2004, che lo assolveva da vari reati, riconosceva, tuttavia, che egli aveva avuto rapporti con la mafia sino al 1980. Cronologia misericordiosa delle sentenze italiane! L'uomo più potente d'Italia aveva avuto dunque rapporti con i criminali che avevano ucciso e uccideranno Boris Giuliano e Cesare Terranova, il giovane Livatino, Dalla Chiesa e Rocco Chinnici, Falcone e Borsellino e tanti funzionari dello stato prima e dopo il 1980. Ebbene, Andreotti venne allora accolto come un eroe e conteso dalle TV nelle più varie trasmissioni di intrattenimento. Una capovolgimento della realtà inimmaginabile in qualunque paese del mondo dove l' umana decenza vale qualcosa. Ho già scritto queste cose quando Andreotti era in vita.

Da uomo del Sud, che ha studiato il mondo meridionale, ho nutrito l'aspettativa razionale, oltre che la speranza, di vedere la parte indenne da mafie del nostro Paese, le ragioni del Centro-Nord, sconfiggere e sradicare dal Sud le sue criminalità storiche. Com'è noto, la storia ha seguito il corso inverso. Sono state le mafie del Sud a colonizzare il Nord, a radicarsi nei territori e nelle economie di quelle ragioni. Un approdo storico spaventoso, che non ha turbato più di tanto il nostro ceto politico. E di sicuro una delle cause sistemiche di questo percorso risiede nella fragilità dello spirito pubblico nazionale, nella illegalità come principio di comportamento individuale e collettivo, nella difficoltà secolare degli italiani di sentirsi nazione, comunità di uguali tenuta insieme da pari diritti e doveri. Berlusconi, che è figlio di questa perversa antropologia, le ha fornito una forma politica di massa, dandole dignità e potenza di governo. Noi siamo ancora immersi in questa devastazione di guerra dell'etica pubblica nazionale, che è causa di innumerevoli danni al nostro Paese. Forse costituisce la ragione fondamentale del nostro declino. Che milioni di italiani diano ancora il loro consenso a un noto criminale, non dovrebbe indurre i giornalisti televisivi a inseguire la loro audience, dando loro in pasto , ogni giorno, il corpo glorioso del capo. Dovrebbe al contrario farli riflettere sull'enormità della cosa e sul compito civile cui sarebbero obbligati. In un paese come il nostro, dove la grande maggioranza dei cittadini non legge né libri né giornali, che si forma un'opinione politica ascoltando la TV, mentre pranza o bighellona in casa, la verità dei fatti rischia costantemente l'esilio. La maggiore azienda culturale italiana, la TV pubblica, ha contribuito non poco e continua a contribuire a rendere incerto il confine tra verità e menzogna, a rendere opinabile il diritto, a far diventare evanescente la sanzione delle leggi, a capovolgere i principi stessi della moralità. In una parola, anch'essa lavora per rendere scadente l'etica civile dell'Italia.

Esiste il machismo politico, una forma di esibizionismo che raggiunge i vertici in campagna elettorale. Un esempio di scuola è rappresentato dall’annuncio del Presidente della Regione Sardegna...>>>

Esiste il machismo politico, una forma di esibizionismo che raggiunge i vertici in campagna elettorale. Un esempio di scuola è rappresentato dall’annuncio del Presidente della Regione Sardegna il quale giunge al traguardo dei cinque anni di legislatura e tenta di approvare con il coltello tra i denti il nuovo Piano paesaggistico detto dei sardi. E di farlo a tre giorni dalle elezioni.

Un tentativo disperato, visto che se il nostro Presidente fosse certo della vittoria aspetterebbe pazientemente la sua nuova Giunta e realizzerebbe il sogno dei metri cubi in paillettes, i boschi al mentolo, gli stagni deodorati, le spiagge finte, le case rosa, gli emiri in berritta, le vigne del nonno, le campagne edificate ogni ettaro, il sogno del sì a tutto. Quella visione del mondo che ha causato la distruzione il 18 novembre e le vittime dell’alluvione.

Il nuovo Piano, si sa, è illegittimo e, semmai venisse approvato, sarebbe annullato per un’interminabile serie di motivi, ciascuno sufficiente a cancellarlo. Il terribile Piano dei sardi, neppure ancora approvato, è stato impugnato. Ma le digestioni dei giudici costituzionali sono lente. Questa illegittima approvazione annunciata ha il pregio di rendere più rapido l’annullamento, senza dispepsie giuridiche, grazie all’irregolarità di un atto fondamentale racchiuso in un acronimo gentile detto VAS, che significa Valutazione Ambientale Strategica.

Il doping politico consiste, in questo caso, nell’illusione che l’azione muscolare di approvare il nuovo Piano possa cancellare procedure e regole. La rimasticazione di un fritto misto di giuridico piegato al politico. E quando si mischiano brutalmente le due sostanze - la politica e le leggi - decadono insieme lo spirito della politica e lo spirito delle leggi.

La VAS è uno strumento che garantisce la concreta partecipazione della comunità locali sempre invocate da tutti come stella polare di ogni azione politica, ma puntualmente maltrattate. E obbliga le Amministrazioni pubbliche a coinvolgere le associazioni, i movimenti e i cittadini, tutti quelli che sono interessati all’elaborazione del Piano paesaggistico.

Un coinvolgimento ancora più necessario se la valutazione riguarda beni protetti dalla Costituzione: l’ambiente e il paesaggio. Uno strumento, la VAS, che tocca il campo del reale, il mondo in cui viviamo, la terra sulla quale camminiamo, l’acqua che beviamo, l’aria e il mondo che vediamo.

Insomma, un Piano paesaggistico senza una VAS adeguata - quello che vogliono propinarci come la medicina di Pinocchio - verrà annullato in ogni sede, da ogni tribunale e sarà cancellato dalla storia e dalla memoria locali. E che mondo sarebbe quello nel quale ci raccontano che ci difendono, ci tutelano, pensano alla comunità” e poi deformano a piacimento proprio lo strumento che ci difende e ci tutela?

Con un nervoso atto d’imperio locale e una crosta di finto autonomismo questo Piano paesaggistico ci viene comunicato a tempo scaduto, a cose avvenute. Il Presidente e i suoi Uffici, l’Assessorato all’Urbanistica e il suo Direttore generale, hanno raccontato, durante memorabili riunioni, meraviglie del nuovo Piano e sempre coinvolgendo, solo con le parole, le disgraziate comunità locali , perfino Uras, Olbia, Terralba e molte altre che, invece, sono le più abbandonate e addolorate. E non si potrà chiedere a un Ufficio dell’Assessorato all’Ambiente di sottoscrivere un desolante procedimento monco, ostile all’Ambiente e ai cittadini. Mentre la “partecipazione” è consistita solo nella simulata partecipazione di “Sardegna Nuove Idee”, una trovata della facoltà di architettura di Alghero.

Non c’è in tutta la valutazione ambientale di questo Piano la voce di un cittadino, di un’associazione, di un movimento. Assenti, del tutto le comunità locali, spesso volutamente confuse con i sindaci. Sarebbe una VAS postuma, ad Ambiente e paesaggio morti. Dice che viviamo in un sistema bipolare e, in effetti, ci pare di vivere in un sistema ciclotimico.

Ogni volta che qualche paese meno noto si affaccia nelle pagine dei giornali e nelle cronache televisive potete stare certi che “dietro” c’è qualche materia che i grandi paesi industriali ...>>>

Ogni volta che qualche paese meno noto si affaccia nelle pagine dei giornali e nelle cronache televisive potete stare certi che “dietro” c’è qualche materia che i grandi paesi industriali vogliono controllare.

Le guerre per le materie prime non sono certo nuove; gli antichi mercanti, quando trovavano dei venditori riottosi o avidi, non hanno mai esitato a conquistare con la forza le merci o le materie desiderate. La distruzione di Sodoma e Gomorra, le città divenute ricche per il loro monopolio nella produzione e nel commercio del sale, corrisponde probabilmente a un episodio di una delle tante guerre per le materie prime nell'antichità.

E' tutta da scrivere una storia dell'umanità basata sulla violenza per conquiste geografiche: soprattutto con l'inizio della rivoluzione industriale del 1800 è facile riconoscere le guerre per la conquista dei giacimenti di nitrati nel Cile (la lunga guerra fra Cile, Bolivia e Perù, sobillata dagli europei); per la conquista della parte dell'Amazzonia ricca di alberi della gomma; quelle per mettere fine al monopolio siciliano dello zolfo; per i giacimenti dei fosfati, eccetera. Molte manifestazioni dell'imperialismo hanno le loro radici nella conquista di giacimenti di materiali preziosi: la guerra per i giacimenti di ferro della Lorena, la spinta nazista alla conquista del petrolio russo, la spinta giapponese alla conquista della gomma in Malesia, eccetera.

La seconda guerra mondiale, combattuta fra i paesi industriali, aveva mostrato che una guerra moderna si poteva vincere soltanto con il possesso di materiali strategici, in gran parte presenti nei paesi coloniali: ai vecchi materiali --- petrolio, gomma, ferro --- se ne aggiunsero altri come cromo, vanadio, uranio, semi oleosi, ecc. I paesi coloniali, a mano a mano che si sono resi conto dell'importanza dei rispettivi territori e delle loro risorse, hanno cominciato a esigere la liberazione dalla condizione coloniale, considerata non soltanto una oppressione dei diritti umani fondamentali, ma anche come una occasione per rapinare gratis i materiali indispensabili per i vecchi e nuovi imperi.
Con l'indipendenza, molti nuovi stati si sono trovati padroni, finalmente delle "proprie" materie prime strategiche, in grado di chiedere per esse prezzi equi. I paesi industriali, da parte loro, hanno incoraggiato guerre locali --- si pensi alla guerra del Congo/Zaire/Katanga --- per assicurarsi cromo, cobalto, uranio. Ma la conquista delle materie prime non richiedeva, necessariamente, delle guerre: ai paesi industriali bastava insediare dei governi fantoccio, assicurarsi il monopolio della vendita di macchinari, capitali, armi, infrastrutture, bastava "educare" i cittadini dei paesi ex-coloniali nelle scuole e università occidentali per farne degli amici. Questi rapporti cripto-coloniali assicuravano comunque ai due imperi --- capitalistico e comunista --- merci e materie a basso prezzo. Fino a quando i paesi del "terzo mondo", come li aveva chiamati il geografo Sauvy, non hanno cominciato a organizzarsi per attenuare le molte iniquità.

Le guerre recenti delle materie prime sono cominciate, dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1951 quando Mossadeq in Iran depose lo shah e procedette alla nazionalizzazione del petrolio, un pessimo segno per le multinazionali che risposero col colpo di stato del 1953. Il governo fantoccio dello shah tornò al potere, rimettendo "ordine imperiale" nei rapporti fra l'Iran e le multinazionali petrolifere, le "sette sorelle", senza contare che quel gesto di prepotenza avrebbe innescato un irreversibile processo di crisi del potere economico dell’Occidente. Infatti come risposta il 19 luglio 1955, Nasser, Nehru, Chu En-Lai e Sukarno si riunirono a Bandung gettando le basi di un accordo fra paesi non allineati, ormai in numero sufficiente per poter contare nell'assemblea delle Nazioni Unite.

Nel 1956, nell'ambito di questo ordine mondiale alternativo, fu nazionalizzato il Canale di Suez, un altro segno della ribellione dei paesi in via di sviluppo; un intervento armato di Francia e Inghilterra fu evitato per l'intervento del presidente degli Stati Uniti Eisenhower che ristabilì l'ordine, apparentemente in modo così saldo da indurre le multinazionali addirittura a imporre una diminuzione del prezzo del petrolio greggio. A questa iniziativa i paesi esportatori di petrolio risposero creando, nel 1960, una organizzazione, l'OPEC, col proposito di regolare produzione e prezzi in modo da attenuare lo strapotere delle "sette sorelle" del petrolio.

Per cercare di mettere ordine in una situazione turbolenta, e non solo nel mercato del petrolio, le Nazioni Unite decisero di creare, nel 1964, una "conferenza" permanente per il commercio e lo sviluppo, UNCTAD secondo l'acronimo inglese, con l'obiettivo di stabilire accordi sui prezzi delle materie prime tali da non danneggiare i mercati ricchi e da assicurare un qualche flusso, verso i paesi poveri, di almeno un po' dei soldi necessari al loro sviluppo. La nuova agenzia ha tenuto una serie di riunioni in cui i paesi sottosviluppati hanno fatto sentire in modo crescente la propria voce.

Altre cose intanto stavano cambiando: nel 1964 il democristiano Frei fu eletto presidente del Cile, il principale produttore di rame, le cui miniere e raffinerie di rame erano nelle mani di poche grandi compagnie americane e occidentali. Frei avviò un processo di "cilenizzazione" delle miniere che venivano sottratte alle compagnie straniere; queste per estrarre rame dovevano pagare dei diritti, non molto elevati, dato che il governo cileno assicurò degli indennizzi per gli investimenti che esse avevano fatto nel corso dei decenni precedenti.

La fine degli anni sessanta del Novecento vede il mondo attraversato da una ventata di nuove aspirazioni, da quelle degli operai e degli studenti e quelle dei paesi del sud del mondo, anche alla luce della sconfitta che si stava delineando per gli Stati Uniti nel Vietnam. Il 1 novembre 1969 Gheddafi salì al potere, con un governo militare, in Libia, col programma di assicurare al suo paese maggiori guadagni dalla vendita del petrolio fino allora estratto dalle sette sorelle e pagato prezzi bassissimi. Il 14 settembre 1970 la Libia aumentò il prezzo del petrolio di 50 centesimi di dollaro al barile; alla fine del 1970 il prezzo del petrolio era salito da due a tre dollari al barile.

Intanto il 3 novembre 1970 fu eletto nel Cile il governo socialista di Salvador Allende, con un programma di sviluppo economico e sociale e di "nazionalizzazione" delle attività del rame. Le compagnie straniere si erano ripagate in abbondanza degli investimenti fatti fino allora e Allende annullò gli indennizzi assicurati anni prima da Frei: le miniere di rame venivano "nazionalizzate” e restituite al popolo cileno. Le compagnie avrebbero potuto comprare il rame come qualsiasi altro cliente.

Le due ribellioni, della Libia e del Cile, ebbero un effetto devastante nei rapporti internazionali. I paesi del terzo mondo si resero conto che potevano, se solo lo avessero voluto, trattare da pari a pari con i due imperi --- americano e sovietico e con i loro satelliti industriali europei e asiatici --- imponendo prezzi più equi. I profitti dei paesi poveri avrebbero potuto essere utilmente impiegati per avviare un processo di istruzione, miglioramento delle condizioni igieniche, costruzione di nuove città --- in una parola per uno "sviluppo" umano.

Non a caso la terza "Conferenza delle Nazioni Unite su Commercio e Sviluppo" (UNCTAD III) si tenne nel maggio 1972 a Santiago del Cile e si concluse con una serie di dichiarazioni in cui i paesi del terzo mondo chiedevano più equi prezzi, un contenimento della concorrenza che i paesi industriali potevano fare, con le fibre e la gomma sintetiche, alle materie naturali dei paesi sottosviluppati, eccetera.

La sfida non poteva essere tollerata e gli Stati Uniti, il paese guida delle economie capitalistiche, decisero di "punire" il governo socialista di Allende con il colpo di stato (11 settembre 1973) durante il quale Allende fu "suicidato" e fu insediato il governo fascista di Pinochet, che riaprì le porte alle multinazionali americane. Si trattava di un segnale per i paesi del terzo mondo: migliori condizioni commerciali si sarebbero potute avere non con le buone, ma con gli strumenti del mercato e con la lotta. Il 6 ottobre 1973 scoppiò la breve quarta guerra arabo-israeliana; il successivo 8 ottobre i paesi aderenti all'OPEC --- paesi non solo arabi, si badi bene --- decisero di aumentare il prezzo del petrolio aumentando il prelievo fiscale. Il maggior prezzo avrebbe così fatto affluire nei paesi petroliferi ingenti quantità di denaro, investito per migliorare le condizioni dei paesi petroliferi stessi e per consentire a questi ultimi di aiutare i paesi sottosviluppati nel loro processo di sviluppo.

Dal 1973 al 1980 si ebbe un continuo aumento del prezzo del petrolio e una profonda crisi economica in occidente. Avrebbe potuto essere l'occasione per avviare dei processi di modernizzazione, di risparmio energetico, di più giusti rapporti con i paesi poveri, anche per attuare una politica di minore inquinamento e sfruttamento dell'ambiente. Il mondo industriale riuscì a soffocare altri focolai di ribellione, come il colpo di stato in Katanga nel giugno 1977 che aveva fatto aumentare temporaneamente il prezzo del rame e del cobalto. Nel marzo 1979 Khomeini abbattè il governo dello shah in Iran, e ne seguì un nuovo aumento del prezzo del petrolio, l'ultimo perché il mondo occidentale alimentò la lunga guerra fra Iran e Iraq, fra il 1980 e il 1988, che spaccò il blocco dei paesi sottosviluppati in due tronconi, fece rallentare il processo di sviluppo unitario e fece crollare --- e questo era lo scopo del mondo occidentale --- il prezzo del petrolio e delle altre materie prime.

Gli anni ottanta del Novecento furono quelli dello spreco, dello sfruttamento delle risorse naturale, dell'aumento del divario fra paesi industriali e paesi sottosviluppati e delle guerre. nell'Angola (diamanti e minerali), in Somalia (petrolio), nel territorio dei Sarawi (fosfati), destinate a rendere ancora più poveri i paesi già poveri.

Le guerre delle materie prime fin qui elencate possono insegnare qualche cosa ? A varie riprese gli studiosi hanno indicato che le materie prime --- alimentari, energetiche, minerarie --- ottenibili dal pianeta sono tutt'altro che illimitate, hanno raccomandato di rallentare gli sprechi per non dover affrontare un giorno problemi di scarsità e di conseguenti aumenti dei prezzi.

Finora l'invito al contenimento dei consumi, ad una più giusta ripartizione delle risorse --- materiali e finanziarie --- fra paesi ricchi e paesi poveri, ad uno sviluppo meno insostenibile, ad una cultura "planetaria", sono caduti inascoltati.E' cambiata la geopolitica planetaria: i "mondi" sono tornati ad essere tre, ma ben diversi da quelli di 60 anni fa: i paesi industrializzati, affamati di materie prime, i paesi di nuova industrializzazione, come Cina, India, Brasile, Indonesia, ancora più affamati di petrolio, gas, minerali, cereali, legname, e i paesi poveri e poverissimi che ”servono” soltanto come magazzini di materie prime rapinate dagli altri due mondi. E proprio fra i poveri e i poverissimi nascono movimenti di ribellione che tendono ancora più instabile la situazione mondiale. E se si diffondesse una geografia e una educazione della giustizia ?

« La caduta verso il basso di questi ceti – egli scrive - destabilizza il sistema perchè lo spaesamento per la perdita di una condizione spesso acquisita a fatica e con sacrifici, e i sentimenti di frustrazione e rabbia che ne derivano, spingono verso posizioni politiche estreme. » La curvatura del ragionamento di Ignazi, tuttavia, privilegia un aspetto limitato, anche se condivisibile, del problema: la necessità di dialogare con il movimento 5 Stelle per sbloccare l'impasse politica attuale ed evitare la formazione di più ampi poli di destra populista. Il problema andrebbe tuttavia declinato anche su altri versanti. In primo luogo occorrerebbe collegare i cosiddetti populismi ( termine non sempre condivisibile e che uso qui per brevità) non solo al gigantesco smottamento sociale che stanno subendo le classi medie, ma anche al fatto che molte di esse hanno perduto ogni riferimento politico nei partiti tradizionali, ogni legame e luogo di rappresentanza. L'organizzazione politica della volontà collettiva si è liquefatta. Non solo – e qui il riferimento specifico è alla sinistra italiana del recente passato e oggi al PD - i ceti medi e popolari che subiscono l'emarginazione non hanno ricevuto la protezione che si aspettavano. Essi sono stati privati dei loro tradizionali riferimenti culturali, del loro precedente orizzonte, di ogni senso di direzione. Il disagio sociale è un ingrediente formidabile di disarticolazione, ma lo smarrimento culturale e ideale non lo è di meno. La politica, per lo meno nella tradizione della sinistra, è non solo rappresentanza di interessi materiali, ma anche sentimento collettivo, visione, valori condivisi. La politica del PD degli ultimi tre, quattro anni costituisce una delle sorgenti principali di alimentazione del populismo grillino. E dunque l'analisi di quest'ultimo fenomeno dovrebbe guardare anche in tale direzione.

Occorre tuttavia alzare lo sguardo e osservare fenomeni più generali e più vasti. Io credo che la crisi abbia accelerato un fenomeno da tempo in atto, che non riguarda, ovviamente, solo l'Italia. Il ceto medio sta subendo colpi formidabili un po' in tutti i paesi di antica industrializzazione. La crescita mondiale delle diseguaglianze colpisce anche questa fascia, riducendo la stratificazione sociale creatasi a metà Novecento. Negli Usa da tempo cresce la saggistica sulla Crisis o sulla End della Middle Class. Chi ha studiato le causa del tracollo finanziario iniziato nel 2008 sa che il suo epicentro è nella stagnazione pluridecennale dei redditi della middle class negli USA, costretta a indebitarsi per sostenere la corsa ai consumi della macchina produttiva americana e mondiale .

Dunque, oggi appare in via di esaurimento un assetto di potere egemonico del capitalismo che si era affermato dal 1945 agli anni '70. Qualcuno ricorda la formulazione della “società dei due terzi” del sociologo socialdemocratico tedesco Peter Glotz nel 1987? Una ampia stratificazione di ceti medi e alti dominante su una fascia ristretta di gruppi subordinati. Così è stata controllata la classe operaia, mentre i partiti comunisti e socialdemocratici sono finiti col diventare elementi costitutivi della società capitalistica. Ma oggi la parte maggioritaria di quel due si va assottigliando e quella dell'uno si va allargando. Probabilmente ci troviamo di fronte a una gigantesca novità di scenario nella dislocazione e nel ruolo del capitalismo del nostro tempo. Un consolidato blocco sociale si va sgretolando. La crisi, infatti, ci impone questa domanda radicale: riuscirà più il capitalismo a offrire a miliardi di persone il livello di redditi e di benessere, l'orizzonte di emancipazione che ha garantito ai paesi dell'Occidente per diversi decenni? Riuscirà il capitalismo a ricostruire le condizioni della propria egemonia, (perché di egemonia, in senso gramsciano, si è trattato)mentre oggi sempre più brutalmente si regge sul puro dominio?

E' questa una delle domande fondamentali che il maggiore partito italiano di centro sinistra dovrebbe porsi, smettendo di esorcizzare la propria insormontabile impotenza con la critica al populismo. Il fenomeno della crisi dei ceti medi investe infatti in pieno il PD. Non c'è dubbio che il suo antico e fedele elettorato (ereditato dal PCI) con gli anni si è concentrato tra i ceti medi, parte dei quali provenienti dal mondo operaio: « una condizione spesso acquisita a fatica e con sacrifici » per dirla con le parole di Ignazi. Ma si pensi anche a un fenomeno sociale poco considerato nei suoi effetti politici: l'enorme disoccupazione giovanile. Essa coinvolge ormai la gran parte delle famiglie italiane, anche quelle dei ceti medio alti, che vedono eroso il loro reddito dall'obbligo di dover sostenere una intera generazione senza lavoro. Ma non è in gioco solo il reddito. Mentre le famiglie si impoveriscono, i giovani che vengono dalle loro fila perdono fiducia nei confronti dei partiti perché non trovano lavoro, o lo trovano precario, si imbattono in strade sbarrate per la loro stessa formazione ed emancipazione: numeri chiusi all'università, alte tasse di iscrizione, mancanza di borse di studio, scarsità di risorse per la ricerca, ostacoli innumerevoli disseminati in ogni ambito della vita sociale. E questi giovani formano l'opinione dominante nelle famiglie, costituiscono il punto di vista radicale sulla società che li emargina. Da tempo, tra i ceti medi e il PD si va verificando dunque una deriva dei continenti: da una parte le trasformazioni materiali radicalizzano i disagi sociali e il modo di viverli, e dunque dislocano vaste masse su territori sconosciuti, dall'altra quel partito si fa sempre di più custode delle compatibilità finanziarie del sistema e naviga perciò in altre direzioni. Ma certo lo sbocco nella pura protesta, nell'aggressione selvaggia e disperata a tutte le istituzioni e simboli della politica tradizionale, non sarebbe così automatico se il nuovo continente sociale che la crisi fa emergere venisse adeguatamente rappresentato e organizzato. Il cosiddetto populismo ha ragione di crescere e prosperare anche a causa di una sinistra radicale che non riesce a costituire un punto di riferimento unitario, capace di offrire per lo meno speranze e senso di marcia a un magma sociale che attende ancora una forma politica.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
La schizofrenia che caratterizza questo tornante della vita politica >>>;
La schizofrenia che caratterizza questo tornante della vita politica, in cui si assiste ad un pericoloso ribaltamento di mezzi e obiettivi, interessa, per una curiosa convergenza temporale, anche il sistema del nostro patrimonio culturale. Proprio in queste ore, infatti, sono montate le polemiche sul testo di riorganizzazione del Ministero dei beni e attività culturali, trapelato seppur in versione non definitiva. La riforma del Mibact, l'ennesima in pochi anni, si era resa necessaria a causa del processo di spending review che obbligava tutti i ministeri a tagli del proprio apparato.
Per cercare di collegare questo obbligo legislativo ad un tentativo di riforma dell'obsoleta macchina ministeriale, il ministro Bray aveva costituto una Commissione che in due mesi di lavoro (settembre-ottobre 2013) ha prodotto un documento articolato e della quale ho fatto parte.

Tutto può essere detto di quel documento, tranne che lo spirito ne sia rifluito nel testo di riforma ora circolante. Sotto questo punto di vista, ma non solo, questo testo rappresenta una drammatica occasione perduta.
Nei molteplici elementi di critica cui si presta, ne sottolineerò solo un paio di carattere generale, anche in considerazione del carattere non definitivo del testo stesso.
Innanzi tutto la totale mancanza di innovazione dell'impianto generale, percepibile fin dal lessico adottato: la struttura del Mibact vi appare addirittura appesantita a livello centrale e direzionale in senso lato. Scarsissime le aperture verso un riequilibrio di competenze a favore dei territori, fondato su di una maggiore collegialità che la Commissione aveva sollecitato. Insufficiente e non sistemica l'evoluzione verso una suddivisione per funzioni e non per temi.
Il compitino della riduzione di poltrone reso obbligatorio dalla spending review, è così ottenuto con il minimo sindacale dell'accorpamento di alcune delle Direzioni Regionali.

Ciò detto, però, appare per lo meno stupefacente lo spirito di molte delle critiche espresse in queste ore, in generale improntate al semplice mantenimento dello status quo antea, con forti accenti di autoconservazione corporativa.
Come se il problema non fosse quello di ripensare alle fondamenta una struttura e un sistema che evidentemente non funziona più, ma di tutelare ciascuno il proprio orticello. Senza cioè ripartire da un'analisi non più procrastinabile di quanto e perchè in questo sistema non sia più adeguato al mantenimento e alla gestione di una delle infrastrutture fondamentali dello Stato: il patrimonio culturale.
Nella difesa, totalmente autoreferenziale, di talune Direzioni Generali, oltre alla miopia, gravissima sul piano culturale, di non considerare l'intero sistema nel suo complesso e non solo, e come è stato sinora, come somma di corpi separati (e addirittura in competizione fra di loro), tale atteggiamento è figlio dell'incapacità di analisi e di visione su ciò che è avvenuto negli ultimi decenni. Il fallimento della pianificazione paesaggistica sul piano nazionale, le debolezze e gli errori sull'archeologia preventiva (siamo l'unico paese in Europa che la applica solo alle opere pubbliche, in ossequio ultraliberista al diritto di proprietà), l'inconsistenza e il clientelismo che connota le attività legate al contemporaneo "guidate" dal ministero, sono solo alcuni dei casi più eclatanti dell'incapacità di elaborazione di politiche culturali degne di questo nome da parte dell'apparato centrale del Mibac.

Lo sapevamo da tempo, ma questa vicenda ci restituisce un quadro spietato di un paese (e in particolare di un paio di generazioni di classi dirigenti) che semplicemente ha smarrito il senso della propria funzione: quella di mettere al servizio dell'innovazione culturale e dell'emancipazione sociale uno straordinario patrimonio, lasciandolo invece ostaggio, per colpa della propria inadeguatezza culturale, di logiche altre, prevalenti perchè ben più consapevoli e organizzate.
Dum Romae consulitur...

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on line, "nessundorma"

Illusi che basti chiudere le porte in faccia ai fatti per non averci a che fare, cancelliamo dalla disputa elettorale sarda temi nazionali cruciali. E riaffiorano nella discussione ... >>>

Illusi che basti chiudere le porte in faccia ai fatti per non averci a che fare, cancelliamo dalla disputa elettorale sarda temi nazionali cruciali. E riaffiorano nella discussione le bistrattate “comunità locali”. Entità indecifrabili ed elastiche, riserva aurea di voti, tirate qua e là con la promessa che saranno decisive.

Le “comunità locali” non coincidono, è chiaro, con i Comuni, né, tanto meno, con il Bene Comune, che è superiore alle singole comunità. E uno degli argomenti che più le attira è l’uso della terra, dell’aria e delle acque.

Noi sardi ci siamo dati nel 2006 un Piano paesaggistico universalmente apprezzato. Però, alla fine della legislatura, la Giunta che ci governa ne ha spremuto uno illegittimo, opposto a quello del 2006. Sostiene di averlo concepito in armonia con le “comunità locali” e ora, per dimostrare che in Sardegna si decide senza il Ministero, verrà approvato dalla Giunta prima delle elezioni.

Dalla poliedrica area indipendentista, Michela Murgia afferma che i due Piani paesaggistici sono uguali perché ambedue hanno prestato poca attenzione alle “comunità locali”. Il Ppr del 2006 rispose a circa 3.000 obiezioni, venne discusso in ogni sede, anche in giro per “comunità locali”, talvolta contestato, sottoposto a innumerevoli procedimenti dai quali uscì vittorioso.

Però anche il nuovo Piano, quello del “sì a tutto”, concepito da scaltri “ascoltatori di elettorato”, è condiviso da non poche “comunità locali” proprio perché dice sì a tutto e promette una valanga di milioni di metri cubi di cemento. E sfrutta il medesimo argomento indipendentista che solletica le “comunità locali”. Il cemento di Capo Malfatano era condiviso dalla “comunità locale”, ma i giudici del Tar e del Consiglio di Stato hanno stabilito che è illegittimo. E allora? Certo, con le “comunità locali” è indispensabile dialogare, ma è colpevole blandirle o, peggio, imbrogliarle con una falsa ubbidienza ai loro voleri.

Il Piano del 2006 è indigesto non perché macchinoso, ma perché contiene norme e regole mal tollerate. Vedi Terralba contro i vincoli idrogeologici, Olbia e la sua deregulation urbanistica, la Cagliari del cemento.

Secondo la religione delle “comunità locali” ridotte a serbatoio elettorale, ogni nuova maggioranza dovrebbe essere il decisore ultimo sul territorio a seconda di chi vince o perde. Insomma, a ogni elezione si cambiano le regole. Sarebbe questa la certezza evocata da certi indipendentisti e dai conservatori sviluppisti? L’indipendenza paesaggistica sottometterebbe il Bene Comune – che è molto più grande delle singole comunità – agli interessi locali. E sarebbe un drammatico regresso.

Ma per ora siamo salvi perché oggi le regole non sono locali e durano più delle amministrazioni di passaggio.,Sostenere che il Ppr è un “macroprogetto” imposto dall’alto, conduce all’idea che il paesaggio diventi vittima dei localismi, giù, sempre più giù, sino al preistorico “padrone in casa mia”. E sino al principio primordiale che codici e leggi ognuno se li possa fare da solo. Un codice per ogni comunità. Ma c’è qualcosa che vorremmo obiettare anche al candidato della sinistra, Francesco Pigliaru, il quale dice di voler “semplificare” il Ppr del 2006. Questa faccenda della “semplificazione” spaventa.

La parola “semplificazione” è arrischiata. E’ positiva, in sé, ma l’uso è degenerato e in Italia fregano milioni di persone con questa parola. Nessuno può affermare di ambire alla complicazione, ma la semplificazione, messa come la mettono i “semplificatori”, è stata un grimaldello per fare cose orribili, cancellando verifiche indispensabili e, in fin dei conti, regole.

Semplificazione è una parola che si è vuotata di significato come chimica verde (detta verde anche quando produce schifezze), sostenibilità, ecocompatibilità, green economy, termini dei quali qualcuno si è impadronito per confondere meglio tutti, comprese le tartassate “comunità locali”. E serve conoscerne il significato profondo ché troppa semplificazione complica le cose.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a La Nuova Sardegna

Da dove ho tratto la mezza paginetta qua sotto che parla di ‘mix funzionale libero’?>>>
Da dove ho tratto la mezza paginetta qua sotto che parla di ‘mix funzionale libero’?
Le risposte possibili sono:
A. è uno scherzo di Carnevale
B. è il sogno di un immobiliarista che lo ha subito scritto al risveglio, perché altrimenti se lo dimenticava
C. era la ricetta della signora Tatcher per le Enterprise Zones (destinate alle periferie più sfigate delle città di antica industrializzazione nell’epoca del loro drammatico declino): peraltro mai applicata in maniera così radicale
D. è un incubo: tutti li facciamo quando ‘abbiamo esagerato’; i miei hanno spesso a che vedere con città orrende e quartieri dormitorio in cui non si incontra nessuno o si fanno incontri spiacevoli (una Esselunga aperta di notte), o non si riesce a orientarsi….e ci si perde
E. oppure?

Ecco la mezza paginetta, in corsivo:
«Rispetto a altre esperienze (…) di piano che hanno sperimentato soluzioni diverse da quella presentata in questo volume (…) il superamento dello zoning (…) viene reso ancora più estremo con l’abolizione della disciplina funzionale su tutto il territorio urbano consolidato (TUC), condizionata esclusivamente al rispetto delle compatibilità igieniche e ambientali di contesto, nonché alla verifica delle qualità dei suoli su cui si determinano le trasformazioni. Un atteggiamento che, da una parte, presenta una netta presa di posizione rispetto alla inefficacia dei piani urbanistici (…) nel governare e regolare in modo appropriato l’assetto degli usi dei suoli e degli immobili; dall’altra, rendendo totalmente libera la potenziale localizzazione delle destinazioni d’uso, sembra auspicare la spontanea generazione di mix funzionali articolati, difficilmente prevedibili o generalizzabili ex ante.

«Attraverso il criterio generalizzato dell’indifferenza funzionale si intendono, così, assicurare larghe opportunità di intervento ai soggetti interessati allo sviluppo dei progetti di rigenerazione urbana, senza arbitrariamente prefigurarne i contenuti funzionali e ponendo come unica raccomandazione generale che i futuri piani urbanistici attuativi verifichino una significativa qualificazione del mix funzionale, non meglio identificata, né rapportata a precisi obiettivi di contesto. Questa flessibilità, definibile come mix funzionale libero, costituisce un aspetto che non trova applicazione solo ai progetti di trasformazione urbana riconosciuti strategici, ma viene esteso e generalizzato alla disciplina delle destinazioni d’uso di tutti gli immobili della città consolidata, la cui regolazione è affidata al Piano delle Regole (PDR). Infatti, in tutta la città disciplinata dal PDR, la scelta delle destinazioni d’uso viene liberalizzata e gli interventi possono valutare senza alcuna restrizione quale destinazione attribuire agli immobili oggetto di intervento.».

Siete pigri e volete subito la risposta al quiz? Scaricate e leggete la versione e-book del 'nuovo' PGT di Milano scritta dal "comitato tecnico-scientifico" che ha supportato la strategia 'rimediale' del nuovo PGT milanese...

Post scriptum: brevi citazioni dedicate agli “urbanisti con l’anima”:
Mixed-use mandatory inclusionary zoning:

«In urban design, diversity implies more mixed, inclusive, and integrated communities. Human scale in community design, means a walkable neighborhood focus and an environment that encourages everyday face-to-face interaction. In its most concrete expression, human scale is the stoop of a townhouse or the front porch of a home rather then the stairwell of an apartment or the garage door of a tract home; it is a walkable city block rather then autodominated superblock; it is local and decentralized services and nearby destinations rather then remote public and private institutions – it is the fine grain of great urban places» (Peter Calthorpe, 2011)

Mixité des usages et des activités:
«Cette notion se définit par la présence de plusieurs fonctions au sein d’un même espace : qu’il s’agisse d’un quartier, d’une rue ou d’un immeuble. C’est l’un des premiers facteurs de mise en place d’un urbanisme de proximité. Cet urbanisme des courtes distances favorise la marche à pied et le vélo, et réaffirme le sentiment du bien vivre ensemble. Il permet aussi de rendre les quartiers vivants à toute heure de la journée, à tout moment de la semaine. Malgré son intérêt, la mixité fonctionnelle est confrontée à une forte réticence de la part même des habitants qui craignent de subir des nuisances. S’il ne faut pas nier le risque de conflits d’usage, la mixité fonctionnelle peut s’organiser et faire consensus au regard des services qu’elle apporte.».

Mixofobia e mixofilia:

«… si può fare qualcosa per influire sulle proporzioni in cui mixofilia e mixofobia si combinano, in modo da ridurre il disorientante, ansioso-tormentoso impatto della mixofobia. In verità sembra che gli architetti e i pianificatori urbani possano far molto per favorire la crescita della mixofilia e ridurre le occasioni di reazioni mixofobiche alle sfide della vita urbana. Ma, a quanto sembra, possono far molto – e in realtà lo stanno facendo – anche per favorire l’effetto opposto». (Zygmunt Bauman, 2005)
“Economia” e “ecologia” sono parole che hanno la stessa radice, ”eco”, dal greco, che sta ad indicare la casa, il territorio... >>>
“Economia” e “ecologia” sono parole che hanno la stessa radice, ”eco”, dal greco, che sta ad indicare la casa, il territorio, la comunità. L’economia, un termine inventato dai filosofi greci, era nata per studiare e indicare le leggi, in greco nomos, appunto, le regole alla base dei rapporti e degli scambi umani nell’ambito di una casa, di una comunità. Poi, col passare del tempo, a partire dall’Ottocento il termine economia è stato impiegato per indicare i rapporti regolati dallo scambio del denaro, sulla base del principio che la massima felicità si ottiene aumentando la quantità del denaro disponibile perché con esso può aumentare la quantità delle merci prodotte e vendute e anche l’occupazione. La quantità del denaro scambiato in una comunità viene espressa con l’indicatore Prodotto Interno Lordo, la cui crescita è comunemente considerata una misura del benessere di tale comunità.
D’altra parte la parola ecologia, “inventata” dallo studioso tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) nel 1866, indica lo studio, la conoscenza, logos in greco, appunto, di quanto avviene in una casa, intesa questa volta come l’ambiente naturale, la grande “casa” in cui tutti i viventi svolgono le proprie funzioni di nascita, crescita, declino e morte, usando e trasformando le risorse naturali come le acque, l’aria, il suolo. Ma, per ragioni fisiche ben precise, l’aumento “economico” della produzione di beni materiali può avvenire soltanto impoverendo e sporcando le risorse e i beni “ecologici” della Terra, al punto da compromettere la stessa vita, il cui benessere sarebbe invece il fine delle attività economiche.
Questa contraddizione è stata, fin dagli anni sessanta del Novecento, denunciata dai movimenti ambientalisti che, nel nome della vita, chiedevano di limitare e controllare la base stessa della crescita economica, la produzione di beni materiali. Da parte loro gli economisti hanno ridicolizzato le obiezioni ecologiche sostenendo che la tecnologia è in grado di risolvere tutti i problemi di scarsità, purché ci siano soldi sufficienti. Alla diffusione della conoscenza e al superamento delle contraddizioni economia-ecologia-lavoro ha dedicato tutta la sua lunga vita Carla Ravaioli (1923-2014), morta nei giorni scorsi a Roma.

Laureata in lettere con una tesi in storia dell’arte, negli anni cinquanta e sessanta era stata una attivista dei diritti delle donne con alcuni libri (tradotti anche in tedesco e in altre lingue) che sono stati punto di riferimento per le lotte femministe. Si possono ricordare i suoi libri sulla condizione femminile, uno dei quali con una celebre “conversazione” con Moravia, l’intervista-confronto sul problema femminile con il Partito Comunista Italiano, un famoso libro sullo sfruttamento dell’immagine della donna nella pubblicità. Nel 1977 Carla Ravaioli fu eletta al Senato nel gruppo della Sinistra Indipendente, quel gruppo di intellettuali che il Partito Comunista Italiano candidava al Senato e poi alla Camera, pur non essendo iscritti al partito, un gruppo che aveva ospitato, nel corso degli anni, Lelio Basso, l’economista Claudio Napoleoni, Claudio Galante Garrone e tanti altri.

Erano gli anni della primavera dell’ecologia, la stagione in cui i disastri ambientali apparivano in tutta la loro drammatica evidenza in Italia e nel mondo. Gli anni dell‘incidente che aveva contaminato con la diossina la cittadina di Seveso, gli anni in cui le fabbriche come l’Acna di Cengio in Liguria, la SLOI di Trento, l’Enichem di Manfredonia, la Caffaro di Brescia, per citare solo alcune delle tante, stavano sversando le loro scorie tossiche nel sottosuolo e nei fiumi italiani. Le contraddizioni fra i due volti, apparentemente inconciliabili, dalla maniera di intendere la “eco”, avrebbero potuto essere superate con un aumento della cultura ecologica, come chiedeva un disegno di legge che la Ravaioli propose in Senato.

Per mettere in evidenza il bisogno di tale “nuova” cultura, la Ravaioli, nel libro “Bugie silenzi e grida”, esaminò criticamente gli articoli sull’ambiente apparsi in vari quotidiani italiani nel corso di un intero anno fra il 1987 e il 1988. Ma il suo principale impegno fu rivolto agli aspetti umani e sociali dell’”ecologia”, alle condizioni e all’ambiente di lavoro, ai rapporti fra sfruttamento della natura e guerra. Uno dei libri più recenti, pubblicato da una piccola casa editrice di Milano, aveva proprio il titolo “Ambiente e pace” per sottolineare che la vera pace può essere assicurata soltanto da più equi (la parola giustizia permea tutti gli scritti dell’autrice) rapporti fra i popoli e dal rispetto della natura e della vita.
Carla Ravaioli aveva scelto come missione del suo lavoro la necessità di convincere gli economisti e i sindacalisti che, nei programmi politici ed economici, occorre tenere conto dei vincoli imposti dall’ecologia. Gran parte dei suoi libri e numerosissimi articoli sono rivolti proprio alla ”conversione” dei responsabili delle scelte economiche; molto interessanti i suoi “colloqui” con economisti come Claudio Napoleoni, Guido Rossi, Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Massimo Livi Bacci, con sindacalisti come Mario Agostinelli e Bruno Trentin.

Carla Ravaioli ci mancherà e c’è da augurarsi che molti suoi scritti, sommersi in pubblicazioni poco accessibili, siano ripubblicati e meglio conosciuti a riprova del valore di questa grande intellettuale che resterà sempre viva nella storia del pensiero ecologico ed economico.

La trappola in cui si trova incastrata l'Italia è ormai evidente...>>>

La trappola in cui si trova incastrata l'Italia è ormai evidente non solo ai tecnici e ai politici che hanno contribuito a costruirla. Da una parte è vincolata ai ceppi della moneta unica e a una politica di austerità perfino costituzionalmente imposta, dall'altra ha una strada sbarrata: l'impossibilità di uscire dall'euro e di ritrovare la propria autonomia monetaria senza un collasso economico-finanziario di imprevedibili proporzioni.

Il nostro Paese, come altri dell'Unione, subisce oggi una doppia perdita di sovranità. Da una parte patisce quel che patiscono tutte le realtà nazionali: la crescente sottrazione di potere da parte delle nuove feudalità finanziarie internazionali. Come un tempo i baroni insidiavano il potere del re sul territorio, allo stesso modo grandi banche e finanza occulta – « gli ignoti sovrani », come li chiama Guido Rossi - condizionano la vita e la politica economica dei governi. Ma al tempo stesso noi, come gli altri stati d'Europa, abbiamo perduto lo strumento che da millenni, insieme alla forza militare, fonda la sovranità degli stati: la moneta.

Ora, qualunque uomo di stato – figura di cui in Italia si è persa traccia e temiamo anche la “semenza” - da tempo avrebbe indirizzato i propri sforzi a raccordare le forze europee interessate a combattere la guerra di distruzione sociale ingaggiata dalla Troika e dalla Germania contro l'Unione. I governanti italiani avrebbero dovuto mantenere contatti febbrili non solo con la Francia, ma anche con la Spagna, con la Grecia, con il Portogallo, con l'Irlanda E non solo con i loro governi, anche con i loro popoli, la loro gioventù, gettati nella disperazione dalla crisi e dalla politica di austerità. Avrebbero dovuto contrastare una pratica autoritaria di governo dell'Unione con la forza e la mobilitazione di una parte vasta di popoli che ne fanno parte.

Certo, ai politici nostrani questa sarebbe apparsa come una iniziativa populistica: ci si muove attraverso le istituzioni rappresentative, non si mobilita il popolo. Ma questo popolo, come ricorda Fitoussi nel Teorema del lampione, vede ormai da troppo tempo la politica economica dell'Unione « indipendente da ogni processo democratico ». E si può costruire un grande edificio sovranazionale senza mobilitare le grandi masse dei vari paesi? In realtà l'Unione sta cancellando la più grande pagina di emancipazione politica della seconda metà del '900: l'avvento della democrazia. Vale a dire la società democratica, quella avanzata forma di vita associata che nasce dopo la seconda guerra mondiale. Nasce allora, perché quelle precedenti, a parte fascismo e nazismo, anche in USA, erano solo società liberali.

Ma oggi in Italia l' inerzia e il vuoto tramestìo da parte delle forze del centro-sinistra e del governo in carica, si combinano con un atteggiamento attendista e con una inettitudine di manovra che sgomenta. Si crede di esorcizzare il sisma sociale che va sgretolando il paese annunciando riprese prossime venture, uscite dai tunnel, scatti, crescita, ecc. consumando 9 mesi per riformare l'Imu: con l'effetto di non cambiare nulla della pressione fiscale, e aggiungendo supplementari e frustranti difficoltà al cittadino contribuente. Un'altra bandierina pubblicitaria recente è il semestre europeo dell'Italia, che naturalmente non cambierà assolutamente nulla della nostra sorte, come nulla hanno cambiato i precedenti semestri per i paesi di turno. Pura politica degli annunci, la sola dimensione in cui pare essersi rifugiata la superstite creatività del ceto politico del nostro tempo. Ma nulla autorizza svolte e riprese senza un cambiamento radicale della politica dell'Unione. Usando prudentissimi condizionali, il Bollettino di gennaio della Banca d'Italia ricorda implacabile: « il miglioramento dell'economia si trasmetterebbe con i consueti ritardi alle condizioni del mercato del lavoro:l'occupazione potrebbe tornare a espandersi solo nel 2015». Il «2015»! «potrebbe»! E nel frattempo?

Sul piano politico non è chi non veda il grande pericolo che è davanti a noi. Oggi in Italia, a criticare in maniera radicale e convincente la politica autoritaria e antipopolare della UE è la destra e il movimento 5 Stelle. L'irresponsabile “senso di responsabilità” del centro sinistra sta consegnando alla destra la critica all'austerità, questo terreno irrinunciabile per salvare il nostro paese e la stessa Unione. Di questo passo il governo Letta prepara le condizione di un successo elettorale del centro destra dagli esiti imprevedibili.

Di fronte a questo scenario uno spiraglio importante si apre con le prossime elezioni europee. La candidatura a presidente del Parlamento di Alexis Tsipras - caldeggiato, su questo giornale, da molti compagni e promosso ora da un importante gruppo di intellettuali (Manifesto, 18.gennaio) - incarna una scelta politica densa di significati e di opportunità. Tsipras e non Martin Schulz – degna persona – perché il leader tedesco è il rappresentante di una partito, la SPD, che ha scambiato, entrando nel governo di coalizione, i vantaggi nazionali per il proprio elettorato con l'accettazione della politica di austerità sostenuta dalla CDU e dalla Merkel. Una scelta apertamente antieuropea, di egoismo nazionalistico simile (non nella gravità, ma nella condotta politica) a quella del 1914, che portò i socialisti tedeschi ad appoggiare l'entrata in guerra del loro paese. Come opportunamente ricordato da Gad Lerner (Repubblica, 4.1.2014)Una candidatura, aggiungiamo, calata dall'alto, senza nessuna contrattazione, assunzione di impegni, senza nessun sondaggio dell'opinione del popolo della sinistra.

Ma Tsipras merita il nostro appoggio anche per altre ragioni. Non solo perchè incarna una critica radicale ma costruttiva nei confronti dell'Unione. Egli è il leader di Syriza, un partito che ha conseguito il 16% dei consensi, grazie a una paziente politica di tessitura delle disperse forze della sinistra greca. Syriza è una lezione per tutti noi. Per noi che costituiamo, senza dubbio, una delle costellazioni politico-intellettuali fra le più variegate e creative dell'Occidente, ma non riusciamo a solidificare la nostra fluida vitalità in un organismo unitario e potente. Abbiamo sviluppato sino al parossismo il gusto della distinzione e della differenza e abbiamo perduto l'intelligenza strategica che ci consegnava la tradizione comunista italiana: la ricerca dell'unità. La ricomposizione delle diversità e dei conflitti interni come orizzonte imprescindibile per sconfiggere l'avversario. Qualcuno ricorda che Gramsci volle chiamare Unità il giornale del suo partito?

Ma c'è un' altra ragione, di grande portata, da aggiungere alle tante che nelle ultime settimane sono state espresse, per la quale dobbiamo sostenere Tsipras. Anche la campagna elettorale in suo favore deve essere un primo passo per riprendere il dialogo tra l'Europa e i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Oggi il Mare Nostrum, il cuore di una delle più fiorenti civiltà della storia, è diventato per questa “Europa carolingia” un focolaio di disordine migratorio, un problema di polizia frontaliera. Eppure, già dalla metà degli anni '8o del secolo passato, Francia e Spagna avevano avviato una timida politica di cooperazione con alcuni paesi africani. Le iniziative sono culminate nel 1995, dando corso al cosiddetto “processo di Barcellona”, che pur con molti limiti e parzialità, avviava un nuovo protagonismo mediterraneo dell'Europa. Tutto pare finito.
Oggi il mondo arabo viene percepito dall'opinione pubblica occidentale come una fucina ingovernabile di fondamentalismi. Si interpretano i suoi estremismi come la semplice evoluzione di una religione intollerante al cospetto della modernità. In realtà essi costituiscono in gran parte la reazione irrazionale e distruttiva alla violenza multiforme dell'Occidente. Alla oltraggiosa mercificazione della vita dei suoi modelli culturali, oltre che e ai vecchi e nuovi soprusi coloniali. Oggi l'Europa mediterranea deve elaborare la sua verità storica. Non possiamo continuare ad assecondare la vulgata americana sul Medioriente. Non possiamo dimenticare che lo stato di Israele ha violato le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU per oltre 70 volte , togliendo prestigio e legittimità a questo organismo, creando uno stato di illegalità permanente nelle relazioni internazionali del nostro tempo. Non possiamo sorvolare sulla disonestà sistemica dei governi USA, che per 60 anni hanno tenuto in piedi fantocci dittatoriali utili alla diplomazia imperiale ed “esportato democrazia”, quando è sembrato conveniente, con i bombardamenti aerei e il massacro delle popolazioni. Non è possibile pensare che tale politica non crei reazioni violente, rinfocolando divisioni interne, rivalità etniche, terrorismo. Non è possibile dialogare con popoli tenuti per secoli sotto lo scarpone coloniale con i vecchi schemi novecenteschi.
Oggi dobbiamo elaborare un nuovo dialogo con questi paesi, di cooperazione paritaria, di aiuti, di creazione di condizioni di benessere per le grandi masse popolari, di fondazione di nuove basi di pace. L'evoluzione di un grande continente, l'Africa, che peserà sul destino dell'Europa, dipende anche dalle nostre scelte. Perciò la sinistra che guarda al Mediterraneo può essere portatrice di nuovi ed esaltanti orizzonti di politica estera. Per questa via essa può rendere evidente sino al ridicolo la pochezza dei tecnocrati che ci governano, mostrare che la civiltà e l'avvenire del Continente è finita in mano ai sacerdoti di un culto defunto.
Sabato scorso si è svolta la manifestazione dei professionisti dei beni culturali>>>
Sabato scorso si è svolta la manifestazione dei professionisti dei beni culturali organizzata da alcune associazioni di categoria per protestare contro il bando del Mibact per 500 posti di tirocinio mirato alla “inventariazione e digitalizzazione del patrimonio culturale italiano”.
Proteste del tutto giustificabili, visto il testo del bando a dir poco infelice sia per impostazione complessiva che per le condizioni economiche offerte. 5000 euro lordi per un anno, per laureati fino ai 35 anni d’età sembrano davvero pochi, dal momento che in quella fascia anagrafica rientrano persone con specializzazioni, dottorati e anni di lavoro alle spalle.

Non per caso, in esordio, ho usato il termine “professionisti”, e non quello di “precari” comunemente adottato dai mezzi di informazione. Della precarietà questi (più o meno) giovani condividono in realtà molto, a partire dalle condizioni di lavoro, spesso ai limiti della dignità quanto a compensi e a tutele, così come hanno testimoniato recenti indagini.
Ma allo stesso tempo si tratta, quanto a competenze acquisite sul campo e a esperienze lavorative, di professionisti a tutti gli effetti, spesso plurispecializzati. In tutti i settori, dall’archeologia allo spettacolo, dagli archivi e biblioteche ai musei. E infatti, in piazza del Pantheon, sabato 11 gennaio, tante erano le professioni rappresentate, nella loro straordinaria diversità, per la prima volta riunite dall’evidenza della comunanza dei problemi.
Parlare di professionisti significa però anche cominciare ad uscire dalla prospettiva unica del concorso statale – posto fisso. Per quanto (e se) sarà possibile allargare le maglie del blocco del turn over imposto alla pubblica amministrazione, il Mibact non riuscirà ad assorbire, nei prossimi mesi (anni) se non qualche centinaio di nuovi addetti, per lo più in ruoli di basso livello: perché sono i custodi a mancare, soprattutto, e perchè le recenti graduatorie dei funzionari sono state esaurite da pochissime settimane (e forse non completamente).
Eppure, a tutti è evidente che il nostro patrimonio culturale abbia un immediato, urgentissimo bisogno di risorse umane. E di competenze nuove, capaci di superare i ritardi che un’amministrazione ormai tanto inceppata da avere elaborato un bando di quel genere non è più neppure in grado di scorgere.

Si pensi, ad esempio, alla situazione dell’archeologia preventiva, abbandonata da anni, fra ritardi e inerzie della dirigenza Mibac, a provvedimenti estemporanei quanto a impianto normativo e per di più ambigui e inadeguati nei contenuti, tanto da renderci, in questo settore, il paese europeo forse più arretrato, in un ambito in cui la ricchezza e la varietà del nostro patrimonio non hanno confronti a livello mondiale. Oppure al deficit, in termini di offerta didattica, informativa e di servizi in genere che caratterizza la grande maggioranza dei nostri musei. O ancora al limbo in cui si trova relegata la pianificazione paesaggistica e in generale le politiche di tutela del paesaggio.
Per questo ritardo il mondo della formazione, l’università in primis, ha colpe non meno gravi, basti pensare alla vicenda dei corsi di Conservazione in beni culturali nel loro complesso, pochissime eccezioni escluse, ormai da più parti definiti una vera e propria “truffa sociale”.

Nonostante questo deficit culturale delle massime istituzioni che si occupano di patrimonio, migliaia di giovani, a prezzo di sforzi e sacrifici personali, sono riusciti in questi anni ad acquisire competenze preziose e a ritagliarsi spazi di lavoro tali da arrivare a svolgere funzioni a tal punto essenziali da risultare insostituibili. In alcuni ambiti, se questi professionisti, improvvisamente e nel loro insieme, cessassero le loro attività, lo Stato non riuscirebbe a garantire un adeguato e capillare esercizio della tutela del patrimonio nazionale. Peccato che in cambio di queste funzioni essenziali, lo stesso Stato – e il Mibact nello specifico – si sia finora limitato a girare la testa di fronte a situazioni al limite dello sfruttamento.
La protesta dell’11 gennaio deve quindi servire sia a costringere Stato, e Mibact in particolare, ad assumersi responsabilità precise nei confronti di questi lavoratori, uscendo dalla logica – fallimentare non solo socialmente – per cui solo chi è all’interno dell’istituzione è garantito e al di fuori di questo recinto può esistere il far west. Tutti coloro che, a diverso titolo e in condizioni professionali molto diverse collaborano alla tutela del nostro patrimonio culturale e a produrre cultura devono godere delle stesse tutele: il progetto di legge sul riconoscimento delle professioni dei beni culturali ieri approvato alla camera è un primo, importante passo.

Ma oltre a questo, se vogliamo uscire dai ritardi che gravano sulla gestione del nostro patrimonio e gli impediscono di assumere quel ruolo di crescita sociale e civile che la nostra costituzione gli assegna, occorre ripensare a meccanismi di coinvolgimento di questi professionisti non più estemporanei e residuali. Si deve cioè creare, coordinare e sostenere uno spazio terzo fra lo Stato – Mibact e quel privato così tanto invocato su più fronti, ma che ha sinora offerto ben misere prove – basti pensare alla trentennale vicenda delle concessioni per i servizi aggiuntivi – sia sul piano culturale che di efficacia operativa.
Magari ripartendo proprio dal bando dei 500, che andrebbe riformulato non solo nelle condizioni offerte, ma anche e soprattutto negli obiettivi. Non è davvero pensabile che, ad esempio, dopo 40 anni di fallimenti, si continuino a proporre, per l’inventariazione e digitalizzazione del nostro patrimonio, modelli come quelli dell’ICCD o ci si riferisca ad esperienze altrettanto deludenti come quelle del portale CulturaItalia. Modelli e standards vanno ripensati, radicalmente: quale migliore occasione di “usare” (non sfruttare) energia e competenze giovani ed entusiaste?

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"

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