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«In attesa di una rivoluzione energetica il Mediterraneo rimane al centro dei grandi conflitti per il controllo del petrolio». Il manifesto, 16 giugno 2016 (m.p.r.)

Legambiente ha pubblicato un breve dossier intitolato Signori della guerra, signori del petrolio, gettando uno sguardo allo scacchiere siriano e mediorientale. Una lettura quanto mai netta e semplice, ma tristemente vera e difficile da contestare, di come da decenni, e forse nel corso dell’ultimo secolo in buona parte di esso, le guerre hanno trovato una loro principale motivazione nel controllo delle risorse dell’oro nero. E’ comunque legittima, e condivisibile, la domanda a cui l’associazione ambientalista cerca di rispondere. Perché da dopo le crisi petrolifere degli anni ’70, e soprattutto negli ultimi venti anni, abbiamo avuto una recrudescenza dei conflitti per il petrolio? La risposta guarda ad un paradosso, ossia che l’utilizzo di petrolio in realtà non sta aumentando significativamente come in passato: solo il 5 per cento in più al 2020 ed un altro aumento analogo fino al 2040, anno in cui le rinnovabili secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia potrebbero superarlo. Quindi, se si vuole, il significativo spostamento verso le rinnovabili negli ultimi anni sta diminuendo l’importanza relativa del petrolio, che finalmente volgerebbe al termine. Allo stesso tempo, però, dopo la sbornia di investimenti in fonti non convenzionali di petrolio e gas, il prezzo del greggio è tornato molto basso e probabilmente rimarrà tale per un po’. Perciò pochi saranno i nuovi investimenti.

Uno sguardo più attento sul conflitto multiplo in Siria ci dice che proprio petrolio e gas creano e disfanno schieramenti, generando sempre più entropia geopolitica e conflitti nella regione. Sin dal 2011, diversi studi hanno esplicitato il potenziale di idrocarburi di tre giacimenti al largo delle coste siriane. Nel 2014 l’esercito Usa ha affermato che tali risorse sono parte di un sistema più ampio di giacimenti nel Mediterraneo orientale, che rappresenta un’opportunità per ridurre la dipendenza europea dal gas russo e rafforzare l’autonomia energetica di Israele. «Una volta risolto il conflitto siriano, le prospettive per la produzione offshore siriana sono molto alte», a scriverlo è Mohammed El-Katiri, consigliere del ministero della difesa degli Emirati Arabi Uniti ed ex capo ricercatore dell’Advanced Research and Assessment Group (ARAG) del ministero della difesa britannico.
Ma il progetto occidentale va in rotta di collisione con l’obiettivo di Assad e dei suoi due principali sostenitori, Russia ed Iran, secondo cui la Siria dovrebbe divenire «un centro di trasbordo tra la Russia e l’Iran da un lato e l’Europa dall’altro» - nelle parole di Nafeez Ahmed, Direttore esecutivo dello Institute for Policy Research and Development. Da cui la proposta del gasdotto «sciita», Islamic Gas Pipeline, che collegherebbe Iran, Iraq e Siria per poi essere esportato in Europa escludendo la Turchia, da cui transita invece il gas azero e del Caspio. La Russia ha quindi ottenuto licenze esplorative offshore al largo della Siria per la Soyuz Nefte Gas nel 2013 e poi recentemente sospeso l’idea del Turkish Stream che avrebbe portato il gas russo in Europa - dopo che i governi europei avevano boicottato il progetto South Stream dalla Russia alla Bulgaria, come rappresaglia contro l’occupazione della Crimea. Come se non bastasse un terzo progetto “sunnita” di gasdotto è stato avanzato dal Qatar, passando per Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia - con il beneplacito di Washington.
Dentro uno scenario così intricato si definiscono gli schieramenti: gli sciiti con il gasdotto dall’Iran, i sunniti con il gasdotto dal Qatar, gli occidentali e la Russia alla ricerca di spazi per i giacimenti già individuati. In un quadro del genere, tutt’altro che stabile e duraturo, si capisce bene perché a un certo punto l’Occidente ha appoggiato i ribelli, senza mai però premere l’acceleratore fino in fondo, ha attaccato l’Isis solo per contenerne l’espansione e lo stesso sul fronte opposto ha fatto la Russia, come se ci fosse un disegno che punta alla disgregazione territoriale della Siria e dell’Iraq in aree di influenza ben distinte.
E fin qui, qualcuno dirà che il grande gioco del petrolio continua come in passato, seppur con un maggior numero di pretendenti. Ma se poi si guarda a come l’Isis si è inserito con astuzia in questo gioco tramite un sistematico contrabbando di petrolio permesso dalla Turchia in una logica di controllo sunnita delle vie del petrolio e dei giacimenti, allora emerge con chiarezza imbarazzante che nessuno ha davvero interesse a distruggere l’Isis fino in fondo. In fin dei conti gli Usa ed i suoi alleati lo vogliono contenere - anche Obama ha usato in passato queste parole - e la stessa Russia lo vede utile per impedire alle forze occidentali di sbarazzarsi di Assad. E poi vi sono i paesi arabi che lo finanziano, da cui la guerra sul prezzo del petrolio tra l’Opec dominato da questi paesi per «affamare» la Russia e contenere, invano però fino ad oggi, la nuova autonomia energetica statunitense basata sullo shale gas e oil.
In attesa di una rivoluzione energetica - che si spera non riproduca una simile geopolitica anche nel settore delle energie rinnovabili - il Mediterraneo rimane ancora il centro della grande guerra per il petrolio, quasi inesorabilmente fino all’ultimo barile.

«Gli altoatesini bocciano il progetto di ampliamento della giunta provinciale a guida Svp. Il ministro Boschi aveva sostenuto il sì: "Pensarsi piccoli è miope" ». Il Fatto quotidiano online, 13 giugno 2016 (c.m.c.)

Quasi un plebiscito a Bolzano contro il nuovo aeroporto. Alla fine hanno vinto le considerazioni ambientali su quelle economiche e anche il timore che l’ampliamento della struttura, sotto la mano pubblica della Provincia Autonoma, potesse diventare l’inizio di uno spreco senza fine. Dopo che negli ultimi anni lo scalo si è già ingoiato, secondo stime dei Verdi, qualcosa come 120 milioni di euro.

Al referendum popolare ha partecipato il 46,7 per cento degli aventi diritto, abbondantemente sopra il quorum del 40 per cento. Hanno detto “no” il 70,7% degli altoatesini, sulla scia della posizione espressa da ambientalisti, parte della Svp e partiti di minoranza. La linea a favore, che era stata sponsorizzata dal presidente della Provincia Autonoma, Arno Kompatscher, parte del Svp e soprattutto dalle catgorie economiche, a cominciare da Confindustria, ha raggiunto solo il 29,3 per cento. Un risultato che non lascia dubbi: l’Alto Adige, pur consapevole delle esigenze di sviluppo del turismo, preferisce la tutela dell’ambiente che un aumento del traffico aereo avrebbe sicuramente compromesso.

Mentre davanti al palazzo della Provincia i comitati del “no” facevano festa, il presidente Kompatscher ha preso atto del risultato: «Ora metteremo in pratica quanto i cittadini hanno deciso». Di conseguenza, la pista non sarà allungata, come una norma già in vigore consentirebbe. E la mano pubblica farà un passo indietro: la società di gestione Abd (che è al 100 per cento della Provincia) cesserà di avere il suo ruolo e la concessione sarà messa a gara.
Per i Verdi non è solo una questione ambientale. “L’Alto Adige ha parlato chiaro: il progetto per l’ampliamento dell’aeroporto di Bolzano non ha convinto. Vent’anni di investimenti fallimentari non possono essere compensati da un nuovo rilancio”. Poi snocciolano i numeri, ribaditi durante la campagna pre-referendum. “Finora già 120 milioni di euro sono stati gettati nello scalo e nei relativi servizi. Dal 2017 verranno aggiunti 2,5 milioni (e 2,5 milioni di contributo della Camera di Commercio) fino al 2022, per raggiungere l’obiettivo di 170mila passeggeri. Non è tutto: oltre ai contributi diretti occorrerà coprire le perdite previste, e a ciò direttamente o indirettamente dovrà pensare la mano pubblica nei prossimi 20 anni, visto che il pareggio è previsto solo al 2035 a patto che si superino i 500mila passeggeri”.
Sulla stessa linea l’ex senatore della Svp, Oskar Peterlini, che se la prende con i vertici del suo partito: «Una vittoria politica del popolo contro una giunta prepotente e una leadership Svp arrogante”. La delusione sull’altra barricata. “Restiamo tuttora convinti, che un aeroporto gestito dalla mano pubblica sarebbe importante per l’economia dell’Alto Adige» ha detto Manfred Pinzger, presidente dell’Unione Albergatori e Pubblici Esercenti.
Già un referendum si era tenuto nel 2009, quando presidente era Durnwalder, e ne aveva bloccato anche allora l’espansione. Il nuovo piano approvato nell’ottobre 2015 prevedeva il prolungamento della pista di atterraggio, l’utilizzo di aerei più grandi, dai 6 agli 8 voli all’ora, con una attività fra le 12 e le 14 ore al giorno, maggiori finanziamenti pubblici e finanziamenti provinciali per investimenti in aeroporto, negozi e parcheggi.
E pensare che una settimana fa, intervenendo all’assemblea di Assoimprenditori a Bolzano, il ministro Maria Elena Boschi, riferendosi a chi “si oppone al semplice ampliamento di una pista di aeroporto”, aveva detto che “immaginarsi più piccoli è miope”

Esperimenti disastrosi nell'ambiente di cui si ignoravano e continuano a ignorarsi le conseguenze. Internazionale, 12 giugno 2016 (c.m.c.)

L’isola di Bikini è ancora radioattiva, più di quanto previsto. È quindi difficile che gli sfollati possano tornare a casa. L’isola fa parte di un atollo delle Isole Marshall, nel Pacifico. Su questo atollo e su quello di Enewetak gli Stati Uniti hanno condotto tra il 1946 e il 1958 alcuni test nucleari. Dopo aver spostato la popolazione su altre isole, hanno fatto esplodere 67 bombe nucleari. A causa di questi test anche i vicini atolli Rongelap e Utirik, che erano abitati, sono stati contaminati. Gli sfollati hanno provato a tornare a Rongelap in 1957 e a Bikini nel 1968, ma la radioattività era troppo alta.

Un team della Columbia University di New York ha misurato l’effettiva radioattività su sei isole. Sono state studiate Enewetak, Medren e Runit, dell’atollo Enewetak, Bikini e Nam, dell’atollo Bikini, e Rongelap, dell’atollo omonimo. In precedenza ci si affidava a proiezioni basate su dati storici.

Emlyn Hughes e colleghi hanno scoperto che a Bikini la radioattività è superiore a quanto previsto dagli accordi tra Stati Uniti e la repubblica delle Isole Marshall. L’isola non può quindi essere abitata.

Su altre isole la radioattività è invece molto più bassa, sotto le soglie stabilite. In questo caso, secondo i ricercatori, andrebbe calcolata anche l’esposizione dovuta al consumo di alimenti prodotti localmente, come le noci di cocco, prima di autorizzare il ritorno degli sfollati. Due isole probabilmente non saranno più abitabili: quella di Nam, distrutta da un’esplosione nucleare, e quella di Runit, dove è stato costruito un deposito di scorie.

Lo studio, pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, ha considerato la radioattività dovuta al cesio, ma in alcuni casi è presente anche il plutonio.

«Negli ultimi giorni infuria il dibattito sull’Inceneritore di Firenze e fra i vari argomenti portati avanti dalle amministrazioni comunali interessate quello dell’impossibilità di tornare indietro nel percorso decisionale intrapreso. Ma è davvero così?». La città invisibile, 8 giugno 2016 (c.m.c.)

Quello dei rifiuti è uno dei servizi che fa emergere le contraddizioni del sistema Italia, dove, a fronte del mancato raggiungimento degli standard stabiliti dalle direttive europee – il 65% di R.D. – vengono confermate le strategie di raccolta che non portano a raggiungere l’obiettivo: “una sana gestione imprenditoriale, sottolinea il Presidente Merletti di Confartigianato, “vale anche per le amministrazioni pubbliche”, il che significa che le tariffe sostenute dai cittadini devono tradursi in qualità del servizio.

E’ un problema di organizzazione e quindi di management, le gestioni dei rifiuti alternative all’incenerimento, ossia porta a porta con tariffazione puntuale e impiantistica a freddo con recupero di materia, non solo sono concretamente realizzabili, ma portano a una diminuzione dei costi, con aumento dell’occupazione, come ci insegnano le esperienze già in atto.

Ma veniamo esplicitamente ai costi di realizzazione per impiantistica di trattamento e smaltimento di supporto alla discarica. Situazione con inceneritore di Firenze-Sesto Fiorentino: costo pari a circa 170 milioni di Euro, da PEF Piano Economico Finanziario di Qthermo, per smaltire 200.000 tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati annui.

La situazione invece prospettabile con impianto di Trattamento Meccanico Biologico (TMB) finalizzato a recupero materiali è questa: circa 40 milioni di Euro per trattare una analoga quantità di rifiuti indifferenziati in ingresso (200.000 tonnellate). Una quantità sovradimensionata rispetto al fabbisogno, infatti, con una gestione di raccolta PAYT (porta a porta con tariffazione puntuale), l’esperienza mostra che sia arriva non solo a percentuali intorno all’85% di differenziata, ma anche a una riduzione significativa del rifiuti.

Sarebbe dunque più che sufficiente andare a ristrutturare (revamping) l’impianto TMB (trattamento meccanico biologico) di Case Passerini, autorizzato per 130.000 tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati annui; in tal caso il costo di revamping è stimato sui 5 milioni di Euro, come da costo previsionale di analogo impianto a Pioppogatto-Massarosa (Lucca).

Il rifiuto solido, da inviare a discarica, prodotto in uscita dai 2 sistemi a confronto (raccolta integrata+inceneritore e raccolta porta a porta PAYT+fabbrica recupero materiali) è comparabile; è però diversa la natura e la classificazione di tale rifiuto solido, tossico e pericoloso nel primo caso, non tossico e non pericoloso nel secondo caso. Non tenendo conto delle sostanze emesse al camino dall’eventuale inceneritore, veicolati all’interno di una massa di fumi pari a 170.000 m3/h per 8.000 ore/anno.

Evidenziamo inoltre che i dati italiani riportati dall’Ansa il 28 maggio scorso rilevano un calo di produzione di rifiuti (negli ultimi 5 anni sono diminuiti del 10,1%) rispetto a tariffe di raccolta che continuano a galoppare, lievitate del 22,7% dal 2011, spesso a fronte di strade e quartieri invasi da sporcizia.

Confartigianato riferisce che soltanto un terzo (34%) degli italiani è soddisfatto della pulizia della propria città, un valore inferiore di ben 29 punti percentuali rispetto al 62% della media europea e che ci colloca all’ultimo posto in Europa per il livello di soddisfazione dei servizi di igiene urbana.

In Toscana si pagano mediamente 210, 3 euro ad abitante, ma cosa accadrebbe se il nuovo impianto di incenerimento venisse realizzato? Qthermo sostiene che non ci saranno rincari, ma facciamo delle stime e mettiamo a confronto le due diverse modalità di smaltimento dei rifiuti, nello schema allegato.

Proprio questa settimana è intervenuto sulla stampa, contestualmente al Dottor Giannotti, AD di Quadrifoglio, il Professor Themelis , della Columbia University, uno dei maggiori sostenitori dei termovalorizzatori in ambito americano come si legge nelle sue note biografiche, Presidente e fondatore di WTERT (Waste to energy Research and Technology Council).

Quando interviene un tecnico ci si deve sempre chiedere se c’è un conflitto di interessi, si nota ad esempio che tra nella lista di sponsors di WTERT si trova COVANTA, che gestisce 42 inceneritori negli Stati Uniti. Non dimentichiamo che le interpretazioni dei dati possono essere molto diverse.

Ad esempio Themelis cita la Danimarca come ottimo esempio per quanto riguarda la raccolta differenziata e in generale per la gestione dei rifiuti. Ma i dati dimostrano invece che inceneritori ed economia circolare non possono andare a braccetto. La percentuale di raccolta differenziata in Danimarca è inferiore al 50%, come a Brescia e a Parigi, quando le direttive europee stabiliscono un minimo del 65%, dal 2012, che se non raggiunto viene sanzionato.

Inoltre la Danimarca è uno dei maggiori produttori di rifiuti in Europa. Sappiamo bene come nelle realtà, come Empoli e la provincia trevigiana, dove si attua una gestione virtuosa, non solo si hanno percentuali di raccolta differenziata attorno all’85%, ma vi è una diminuzione molto significativa dei rifiuti. Per finire il governo danese ha adottato un programma “Recycle more, Incinerate less” proprio per cambiare direzione.

Esce inoltre oggi un articolo sui monitoraggi ambientali entro 5 km dal futuro impianto. Se aveva lo scopo di tranquillizzare i cittadini li mette ancor più di fronte alla certezza del rischio incombente, come noi ben sappiamo. Monitoraggio previsto su animali e prodotti agricoli, tempestivo e coordinato fra più centri, ma la domanda resta sempre la stessa: in presenza di danno ambientale che facciamo?

Sappiamo che l’impianto non verrà spento, come succede a Montale e come successo per l’inceneritore di San Donnino, chiuso di urgenza nel 1986 per disastro ambientale accertato dall’Istituto Superiore di Sanità e che ha regalato un’impennata di morti per tumore negli abitanti dell’area, e non solo. Morti su cui non si è mai avuta alcuna indagine istituzionale. Uno degli slogan della grande manifestazione del 14 maggio era: nessun rischio evitabile è accettabile. A maggior ragione se esistono delle alternative praticabili.

Il 14 maggio un corteo di quasi 20.000 persone ha invaso Firenze affinché anche a Firenze si cambi direzione, verso la modernità. Ignorare questa volontà di partecipazione, ignorare la richiesta forte di voler decidere del proprio territorio e della tutela della propria salute è una grande responsabilità politica. Le amministrazioni devono scegliere se vogliono lavorare contro la cittadinanza, aprendo una stagione di conflittualità sociale, o se vogliono lavorare insieme alla cittadinanza, fermando il progetto e aprendo un vero confronto partecipato sulle alternative alla costruzione dell’impianto.

« Ciò che rende la climate fiction diversa dalla fantascienza è che inventa scenari che potrebbero veramente verificarsi.»Qualcosa, là fuori" di Bruno Arpaia. La Repubblica, 8 giugno 2016 (c.m.c.)

L’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore è forse l’unico uomo al mondo al quale è riuscita una difficile impresa: vincere il premio Oscar e il premio Nobel, e per uno stesso motivo. Cioè, il suo lungometraggio “Una scomoda verità”, che è stato premiato a Hollywood come miglior documentario nel 2006, e a Oslo per la pace nel 2007.

Quel film registra una delle innumerevoli lezioni che Gore ha tenuto in giro per il mondo, per diffondere l’allarme sull’emergenza ecologica che deriva al pianeta dall’uso indiscriminato del petrolio, dai trasporti al riscaldamento, e dal suo impatto sul cambiamento climatico e sul riscaldamento globale.

Il premio Nobel per la pace Gore l’ha condiviso con Rajendra Pachauri, presidente dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, “Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico”), un’istituzione delle Nazioni Unite che monitorizza appunto i cambiamenti climatici. In particolare, come Pachauri ha ricordato nel suo discorso a Oslo, quelli dovuti all’antiecologico consumo di carne, che richiede di tagliare foreste, creare pascoli, allevare animali, spedire il macellato in posti lontani, e refrigerarlo nelle navi, sui camion, nei supermercati e in casa.

Come se non bastasse, anche l’emissione di metano prodotta dalla digestione delle mucche e la decomposizione dei rifiuti solidi urbani contribuiscono all’effetto serra.Più in generale, gli interventi che la nostra specie sta sistematicamente effettuando sul pianeta comportano la distruzione delle foreste e degli ecosistemi a esse collegati, l’estinzione delle specie animali cacciate o pescate selvaggiamente, la cementificazione sistematica della superficie terrestre, l’aumento della temperatura atmosferica dovuta all’effetto serra, la diminuzione della fascia di ozono che ci protegge dai raggi ultravioletti, l’emissione di sostanze che provocano piogge acide, l’inquinamento generalizzato delle risorse acquifere, il depauperamento della produttività del suolo e delle riserve di combustibile, lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento del livello degli oceani, la desertificazione.

In base ai dati della Convenzione Internazionale per le Biodiversità, il ritmo di estinzione delle specie negli ultimi quattrocento anni sembra essere cento volte superiore a quello delle epoche storiche passate. Il che potrebbe portare, come nelle precedenti grandi estinzioni, alla sparizione di una gran parte delle forme di vita attuali, e alla loro sostituzione con altre nuove. E ai mammiferi, uomini compresi, potrebbe toccare la triste fine dei dinosauri e della maggior parte delle specie viventi comparse finora sulla Terra: il che, viste le prove che l’umanità e i suoi leader stanno dando, non è detto che non sia un buon affare per il pianeta.

Tutti questi bei (anzi, brutti) discorsi rischiano però di rimanere astrattamente relegati in rapporti e dibatti per specialisti. Solo i film e i romanzi riescono a toccare concretamente la sensibilità dell’uomo comune, anche se il rischio è che essi tendano a seguire le linee di minima resistenza del racconto apocalittico condito di scienziaggini, alla maniera di produzioni hollywoodiane quali The day after tomorrow. L’alba del giorno dopo(2004) o Snowpiercer (2013).

Per divulgare letterariamente la problematica del riscaldamento globale ci vuole infatti, oltre a una capacità affabulatoria, anche una sensibilità scientifica: cosa improbabile e rara tra gli scrittori in generale, e tra quelli italiani in particolare. Ma non impossibile, né introvabile, come prova il caso di Bruno Arpaia, che già con L’energia del vuoto (Guanda, 2011) aveva dimostrato di sapersi muovere con destrezza nel mondo della scienza: in quel caso, coniugando la fisica delle particelle al thriller politico.

Il suo nuovo romanzo Qualcosa, là fuori (Guanda, 2016) affronta appunto il problema del riscaldamento globale, immaginando come sarà (o, speriamo, sarebbe) il mondo tra una settantina d’anni, quando ormai i tanti segnali d’allarme che continuano a suonare minacciosi attorno a noi si saranno rivelati essere altrettante inascoltate profezie di Cassandra sulla caduta non di Troia, ma della Terra stessa.

A seconda del luogo di provenienza del lettore, la descrizione del mondo surriscaldato che Arpaia propone gli apparirà angosciante o allettante. L’effetto dell’innalzamento della temperatura sarebbe infatti una ridefinizione delle zone geografiche del pianeta: quelle costiere verrebbero sommerse, quelle desertiche diventerebbero impossibili da abitare, quelle temperate si desertificherebbero e quelle fredde si tempererebbero. Così le spiagge del Mediterraneo verrebbero inghiottite dai flutti insieme ai loro stabilimenti balneari e l’Europa continentale sarebbe ridotta a un Sahara, ma la Scandinavia e la Russia verrebbero liberate dai loro inverni glaciali e conoscerebbero la piacevolezza delle primavere e degli autunni.

Quanto ai flussi migratori, non sarebbero più costituiti da africani e messicani che invadono l’Europa e gli Stati Uniti, ma da europei e americani che scappano verso un Nord ormai senza ghiacci, in una palingenesi di giustizia cosmica e di rimescolamento delle carte geopolitiche. Inutile dire che nel romanzo, prima che questo avvenga, gli Stati Uniti avevano cercato inutilmente di reagire, eleggendo più o meno nei nostri anni un presidente che assomiglia come una goccia d’acqua a Trump, anche se il romanzo è stato scritto prima dell’inizio dell’attuale campagna elettorale americana: a dimostrazioni che certe politiche e certi candidati sono ampiamente prevedibili, semplicemente sulla base della stupidità e dell’ignoranza umane.

Arpaia, che da studente di scienze politiche si era specializzato in Storia Americana, ambienta parte del suo romanzo proprio negli Stati Uniti, alternando ai capitoli sull’Europa ormai surriscaldata di fine secolo i capitoli sul Nuovo Mondo che balla sul Titanic, ignaro di essere in procinto di affondare nella miseria e nella disperazione. Il suo protagonista è uno scienziato italiano che da giovane emigra in California nell’odierno periodo della fuga dei cervelli, testimonia l’avvento di un regime fascio-leghista che potrebbe essere inaugurato nella realtà a novembre di quest’anno, è costretto a rientrare dalle disposizioni anti-immigrati, e dopo qualche anno si unisce a un gruppo di profughi del Sud Europa che cercano di raggiungere la neoschiavista Svezia.

I tempi delle due storie intrecciate confluiscono al termine del romanzo, dove la fine della prima voce si unisce idealmente all’inizio della seconda, in una sorta di polifonia contrappuntistica. Quanto al messaggio del libro, lo stesso Arpaia ha dichiarato in un’intervista che ciò che rende la climate fiction diversa dalla fantascienza è che inventa scenari che potrebbero veramente verificarsi.

*( Guanda, pagg. 220, euro 16)

«Abbiamo un solo pianeta da abitare e condividiamo tutti un destino comune, per questo anche la risposta non può che essere comune». La Repubblica, 6 giugno 2016 (c.m.c.)

In un momento in cui la produzione di cibo per nutrire un’umanità affamata ha un impatto fortissimo sugli ecosistemi naturali e in generale sul sistema planetario, è necessario non dimenticarci che la Terra può essere sia madre generosa che, sotto la pressione di un uso sconsiderato delle sue risorse, matrigna insidiosa.

Ecco allora che il titolo, apparentemente insensato e ovviamente provocatoriodell’incontro di oggi a Repubblica delle idee “Riusciremo a non mangiarci la Terra?” apre importanti riflessioni. La principale ci pone di fronte a una domanda: come stiamo abitando la nostra casa comune e che cosa resterà dopo il nostro passaggio?

Sembra una domanda velleitaria, eppure oggi la sopravvivenza della specie umana non può più essere data per scontata. Il modello di produzione con cui stiamo rispondendo ai nostri bisogni primari mette a rischio, per la prima volta nella storia dell’umanità, la possibilità di soddisfare quegli stessi bisogni in futuro. Il tutto mentre ci stiamo avvicinando a un’umanità che, nel 2050, raggiungerà i nove miliardi di viventi.

Gli sviluppi tecnologici e produttivi degli ultimi due secoli ci hanno liberato da una grande quantità di urgenze, specialmente quelle primarie. Accanto a questo, però, un modello turbocapitalista basato su un utilizzo massiccio di input esterni (si pensi che dal 1985 al 2005 abbiamo immesso nella Terra la stessa quantità di chimica che prima era stata prodotta e impiegata in un secolo) ha generato uno sfruttamento sconsiderato di risorse quali acqua, suoli fertili ed energia da fonti non rinnovabili che ha messo in crisi l’intero sistema.

Oggi siamo al dunque: se non cambiamo paradigma il nostro futuro è a rischio. Il cambiamento climatico è una realtà incontrovertibile e ufficialmente riconosciuta da tutta la comunità scientifica internazionale, l’utilizzo massiccio di fertilizzanti, pesticidi e antiparassitari sta impoverendo i suoli, le falde acquifere accumulano metalli pesanti diventando pericolose esse stesse e sempre più scarse, il patrimonio di biodiversità genetica della Terra si assottiglia pericolosamente.

Una situazione che ha spinto una delle più grandi autorità morali e politiche del nostro tempo, Papa Francesco, a esprimersi con forza su questi temi con un’enciclica che rappresenta un documento dirompente. Il Pontefice non ha usato mezzi termini parlando di un’economia che uccide e che penalizza in ogni parte del mondo le comunità locali, le produzioni di piccola scala e i mercati di territorio.

È evidente allora che occorre un deciso cambio di marcia e con esso nuovi modi di produrre, di distribuire, di commercializzare e di consumare il cibo, così come nuovi modi di convivere su un pianeta sempre più sotto la pressione di eventi drammatici come crisi ambientali, conflitti e migrazioni che ci obbligano a ripensare un futuro differente. E tuttavia siamo ancora in tempo. Bisogna raccogliere le migliori energie, i giovani, le donne, gli anziani, per disegnare un mondo nuovo, basato su valori che sostituiscano termini come competitività, mercato, efficienza e crescita con altri come reciprocità, cooperazione, comunità, condivisione.

Mi sento di dire che i cittadini sono pronti, che le nuove generazioni hanno già pienamente fatto propri questi valori e che in ogni parte del mondo si vedono segnali convincenti che questa sensibilità è già a tutti gli effetti una realtà viva e tangibile. Nascono reti, crescono movimenti di tutela ambientale, fioriscono comitati auto organizzati per prendersi cura dei beni comuni. Esiste un ritorno alla terra, un’attenzione crescente alle produzioni locali, un sistema di solidarietà e accoglienza che si batte per i diritti e l’accoglienza delle persone che scappano da guerre e calamità naturali.

Abbiamo un solo pianeta da abitare e condividiamo tutti un destino comune, per questo anche la risposta non può che essere comune. Possiamo solo guardarci in volto e unire gli sforzi, il futuro nostro e dei nostri figli si gioca oggi, nelle nostre case, nelle nostre città. Non possiamo, e non vogliamo, mangiarci la Terra.

«Nella Giornata Internazionale dell’Ambiente è bene chiedersi qual è lo stato di salute della giustizia ambientale nel mondo. Ecco la mappa delle tante guerre silenziate che veicolano anche proposte di trasformazione socio-economica e delle relazioni di potere». Il manifesto, 5 giugno 2016


È difficile dire quanti conflitti ambientali ci siano nel mondo; eppure mentre si proclama la Giornata Internazionale dell’Ambiente è bene chiedersi qual è il suo stato di salute partendo dalle frontiere dell’estrazione dei materiali e energia che alimentano l’attuale economia industriale. Tante guerre silenziate ma da cui nascono anche proposte di trasformazione socio-economica e delle relazioni di potere.

Un primo tentativo di mappatura a livello globale è stata fatta nel progetto EJAtlas, l’Atlante Globale di Giustizia ambientale. Il progetto è codiretto da Leah Temper e Joan Martinez Alier e coordinato da ormai 5 anni dall’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale – Università Autonoma di Barcellona, in collaborazione con molte altre organizzazioni e singoli cittadini da circa 100 paesi. Ad oggi ha mappato più di 1700 casi di conflitto relazionati a attività estrattive, produttive e di smaltimento dei rifiuti, e continuerà nei prossimi anni per includere aree e casi ancora poco conosciute.

Qui sotto presentiamo dieci conflitti emblematici di ingiustizia socioambientale per i meccanismi che li scatenano: distribuzione diseguale dei benefici e degli impatti, mancata partecipazione da parte della comunità locale, violazione delle leggi, accesso alla giustizia, impunità delle imprese, inquinamento, corruzione. Casi in cui l’incremento dell’uso e abuso di risorse dell’economia industriale si unisce in uno spietato cocktail al crescente divario fra arricchiti e impoveriti, alla violazione di diritti umani ed ambientali e alla sistematica impunità delle grandi imprese e apparati statali complici. Essi toccano differenti aree geografiche e tematiche, dal petrolio alle energie rinnovabili.

Si incontrano frequentemente nei paesi del Sud del mondo ma stanno strettamente relazionati con l’alto “metabolismo sociale”, l’uso di materiali e energia che l’economia industriale consuma. Paesi di limitata industrializzazione, come molti andini o centroamericani, soffrono per fenomeni di land grabbing per piantagioni di olio di palma e altri prodotti agricoli per l’esportazione, paesi di attuale industrializzazione come Cina, India, Brasile registrano conflitti sia in centri urbani e produttivi per l’elevato inquinamento ma anche per un “colonialismo interno”. Zone come l’Amazzonia viene sacrificata per l’oligarchia brasiliana, le comunità Adivasi della cintura mineraria dell’Orissa, Chattisgarh e Jharkhand subiscono una violenta militarizzazione per garantire l’accesso alla bauxite e al carbone dell’India, i fiumi della regione himalayana sono deviati nei tunnel delle centrali idroelettriche per fornire elettricità e profitto alle imprese indiane.

Ma conflitti si registrano anche nei Paesi industrializzati, dove particolarmente critici sono i processi di privatizzazione di servizi pubblici, l’apertura di nuove “frontiere estrattive” come le miniere in Grecia o Romania, il fracking in Spagna o Polonia, e i grandi progetti infrastrutturali di trasporto o energia. L’Italia ha contato su una rete di collaboratori e un lavoro di coordinamento di Cdca- A Sud per la produzione di una mappatura nazionale, con oltre 80 casi di conflitti e resistenza nel nostro Paese.

Ma ogni conflitto registrato nell’EJAtlas ha qualcuno che lo denuncia. Spesso sono membri di organizzazioni di base o reti internazionali, che raccolgono testimonianze delle comunità locali e di ricercatori accademici per creare nuovi contro-argomenti. Reclamando una giustizia ambientale, lottano anche per un’economia diversa e per un vivere comune sano. Nonostante repressioni e criminalizzazioni, difendono anche un altro sapere, nato dalle radici profonde della memoria e dal rispetto della sacralità dei territori. Esperienze come l’epidemiologia popolare in Brasile su siti inquinati hanno contribuito a identificare malattie e disturbi non riconosciuti da parte delle autorità. La rilevazione di tracce di petrolio nel bestiame nell’Amazzonia peruviana da parte di abitanti della selva, affiancati da scienziati, ha dimostrato impatti dell’estrazione altrimenti nascosti e ignorati.

Dal conflitto spesso nasce una nuova consapevolezza, si mette in discussione lo status quo e si riconosce che “giustizia” non è solo una compensazione monetaria ma richiede una ridefinizione di relazioni di potere e processi decisionali. Movimenti come i No Tav in Italia, Zad in Francia, gli abitanti di Rosia Montana in Romania, non chiedono solo di fermare un progetto; rappresentano la ricerca e la costruzione quotidiana di una nuova sovranità popolare. Nella resistenza nascono concetti nuovi per denunciare ingiustizie, come la biopirateria o il colonialismo tossico, ma anche un vocabolario che rivendica un futuro con dignità e allegria, come «decrescita», «transition towns», «sumak kawsay» (buen vivir), «sovranità alimentaria» e «energetica».

DIECI CONFLITTI
CONTRO NATURA

Guatemala, Olio di palma e zucchero di canna
violenze nella Valle del Polochic

Dopo la firma degli accordi di pace nel 1996, due famiglie di origine tedesca presero il controllo di piantagioni avviando il business di palma da olio nel 1998 e zucchero di canna nel 2005, occupando un terzo della terra di Polochic. Il Polochic è una valle di territorio fertile, situata nel nordest del Guatemala, ma che ha vissuto un processo di accaparramento di terre sotto il controllo di pochi proprietari terrieri dal 1888, mentre la maggior parte della popolazione indigena Q’eqchi’ non ne ha avuto accesso. La popolazione locale denuncia la contaminazione del suolo e la deviazione dei fiumi, la deforestazione per entrambe le coltivazioni, intossicazioni e malattie dovute agli antiparassitari per la canna da zucchero.

Questo caso fu conosciuto internazionalmente quando furono evacuate 800 famiglie di 13 comunità Q’eqchi’ che occupavano parte delle terre del Polochic che erano state coltivate a canna da zucchero, e sarebbero tornati ad essere seminati da una famiglia del Nicaragua. Nel 2010 alcune famiglie occupano 13 tenute messe all’asta per il fallimento economico del zuccherificio e ne reclamano allo Stato l’acquisto. Le negoziazioni si interruppero con violenti sfratti, durante i quali si bruciarono le coltivazioni e le case degli abitanti locali ed un contadino fu assassinato. Mesi dopo vennero uccisi altri due contadini e la sicurezza privata dell’impresa ferì con proiettili donne e bambini. Questo è uno dei 450 casi di conflitti di accaparramento di terre identificati nell’EJAtlas e sta dentro il 12% dei casi dove si sono registrati omicidi.

Rischi no border:
la centrale nucleare di Almaraz in Spagna

In Spagna si prolunga la vita utile delle centrali nucleari, il che genera allarmanti effetti ambientali e sociali che per loro natura non conoscono confini tra stati e apparati normativi. Uno dei casi più emblematici si trova nella provincia di Càceres, dove l’attività della vecchia centrale di Almaraz costituisce un importante rischio per la regione transfrontaliera con il Portogallo.

Questa centrale è stata costruita nel Campo Arañuelo all’inizio degli anni ’80, nonostante l’opposizione del movimento antinucleare sorto nella decade anteriore, che si opponeva anche a un progetto in Valdecaballeros (anche questo in Extremadura). Almaraz è dotata di due reattori da 1.000 Mw ciascuno che per il raffreddamento utilizzano l’acqua della diga di Arrocampo, sul fiume transfrontaliero Tajo. Secondo l’ong spagnola Ecologistas en Acciòn, tra il 2007 e il 2010, si sono registrati almeno 75 incidenti nella centrale. Anche l’opposizione locale ha confermato incidenti, errori da parte dell’impresa manutentrice, interruzioni non programmate che hanno violato protocolli di sicurezza.

A oggi si è formata una rete di gruppi sociali transfrontalieri, uniti nel Movimiento ibèrico antinuclear, che non solo esige la chiusura della centrale, ma lancia l’allarme di potenziali conflitti tra i due Stati – Spagna e Portogallo – per l’acqua. La centrale infatti pone a rischio la salubrità delle acque del fiume Tajo e un incidente potrebbe diventare fonte di contaminazione radioattiva lungo tutto il bacino, come già è successo nel 1970. Il prossimo 11 giugno è convocata una protesta transfrontaliera nelle strade di Càceres sotto lo slogan: «Fechar Almaraz. Descanse em paz» (Chiudere Almaraz. Riposa in Pace)

La violenza del petrolio
nel Delta del Niger in Nigeria

Il delta del fiume Niger è uno dei luoghi sul pianeta che più ha subito le conseguenze dell’estrazione di greggio. L’attività estrattiva iniziata negli anni ’50 con la anglo-olandese Shell ha causato impatti ambientali e sociali irreparabili, e un altissimo livello di violenza, anche armata, esecuzioni sommarie, torture e detenzioni illegali. Le comunità locali denunciano pratiche illegali come la combustione del gas residuo che si produce nel processo di estrazione e lavorazione del petrolio, per i suoi grandi impatti sull’ambiente e la salute. La vegetazione e i raccolti soffrono degli effetti della pioggia acida, responsabile anche dell’aumento degli aborti, deformazioni congenite, malattie respiratorie e cancro. Il caso del Delta del Niger raggiunse un punto critico nel 1995 quando il poeta e leader comunitario, Ken Saro Wiva, fu assassinato. Nonostante il conflitto abbia raggiunto il pubblico internazionale, l’accesso alla giustizia per le comunità danneggiate richiede uno grande sforzo che, frequentemente, cade nella deprecabile impunità.

Attualmente ci sono processi aperti in differenti paesi come Olanda, Ecuador e Ue per indagare sulla responsabilità delle imprese che operano nel Delta; incluse la anglo-olandese Shell, la statunitense Chevron e l’italiana Eni. L’organizzazione locale Era (Environmental Rights Action/Amici della Terra Nigeria), partner del progetto, ha denunciato un gran numero di perdite di greggio provenienti da tubature carenti di manutenzione, e la grave mancanza di bonifica e riparazione dei danni da parte delle imprese responsabili.

Oltre agli indennizzi, Era e molte comunità locali chiedono anche misure più radicali, fino a quella di lasciare nel sottosuolo le riserve rimanenti («Leave Oil in the Soil»). L’appello dalla Nigeria si unisce ad altre campagne, come in Ecuador con l’iniziativa cittadina per il parco Yasunì, e rapidamente trova nuove alleanze come in occasione della ultima Cop di Parigi, con leader indigeni della Turtle Island (America del Nord).

Brasile, il disastro della diga
dove lo Stato si accorda con i responsabili

Il 5 novembre 2015, la rottura della diga di Fundão nella città di Mariana (miniera Gerais) lanciò 34 millioni di metri cubi di fanghi sul paese Bento Rodriguez, uccidendo 19 persone e lasciando più di 600 famiglie senza tetto. Si tratta probabilmente del maggior disastro ambientale accaduto in Brasile, per una grave negligenza dell’impresa miniera. La diga conteneva infatti i residui dell’attività mineraria e della produzione di ferro dell’impresa Samarco, gestita dal gigante minerario brasiliano Vale e di uno dei più grandi colossi mondiali, la Bhp Billiton. La miniera di Samarco era una delle più grandi miniere di ferro nel mondo fino a che l’incidente bloccò le sue attività. Dopo il disastro di Bento Rodriguez, il fango di Samarco arrivò al fiume Doce, dove viaggiò circa 700 km passando per più di 40 città, fino all’oceano.

In tutto questo cammino i fanghi inquinanti hanno contaminato le acque, sterminando fauna e flora. La attività e le fonti di vita di piccoli agricoltori, pescatori e comunità indigene hanno subito impatti irreversibili. Quest’anno l’impresa ha ricevuto una multa da parte dello Stato, la cui entità appare ridicola a fronte dei danni causati: appena 70 milioni di dollari. Nonostante questo, l’impresa ha avuto il coraggio di negoziare con i governi federale e statale un fondo di 5.500 milioni di dollari per recuperare il bacino del rio Doce in 15 anni. Lo scandalo di tale accordo ha portato più di 100 istituzioni e movimenti sociali di tutto il Brasile, come il movimento delle vittime a causa delle dighe nel paese Mab, a opporsi alla sua firma. La società civile esige una vera azione, partecipativa e trasparente, per ripulire l’area e accollare alle imprese responsabili i danni causati.

Villaggi-cancro,
i veri costi del «made in China»

Un tempo il villaggio di Yongxing era una piccola comunità rurale, vicino alla città di Guangzhou. Vent’anni fa i campi erano irrigati con acqua limpida che scendeva dalle montagne per le piantagioni di riso, verdura e frutta. Nel 1991 la riserva naturale venne soppiantata da una discarica di rifiuti di 34.5 ettari, in cui venivano interrati ogni giorno circa 100 tonnellate di immondizia. Più tardi la stessa zona fu scelta per la costruzione di due inceneritori e uno stabilimento per lo stoccaggio dei rifiuti. La popolazione locale protestò contro la gravissima contaminazione; l’acqua dei loro pozzi risaliva densa, con un colore giallognolo e pellicole superficiali rosse.

Le proteste per le strade si conclusero con incarcerazioni di massa che durarono anni. Da allora gli abitanti di Yongxing sono costretti a comprare l’acqua potabile e ad abbandonare le attività agricole di sussistenza. I campi vengono affittati a prezzi irrisori a lavoratori migranti che non hanno altra scelta che coltivare terreno insalubre ma economico per vendere il raccolto alla città. Oltre all’ambiente seriamente contaminato, la maggiore preoccupazione è il repentino aumento dei casi di cancro nel paese, ma le autorità sanitarie locali fanno finta di non vedere.

L’Oms ha avvertito che lo smaltimento non a norma dei rifiuti negli inceneritipuò comportare l’emissione di diossine e furano, con impatti negativi sulla salute umana. Il villaggio di Yongxing è uno dei tanti casi conosciuti come i «villaggi-cancro» in Cina, dove le attività industriali e le enormi discariche operano con standard di sicurezza ridicoli nonostante i comprovati effetti nocivi per la popolazione umana e l’ecosistema.

Honduras, violenza e repressione
in nome dell’energia verde

Col colpo di Stato del 2009 si è intensificata la violenza in Honduras. Fra il 2009-2013, il Congresso nazionale ha approvato una serie di leggi a favore dello sfruttamento delle risorse naturali. Nel 2010 fu approvato il progetto idroelettrico «Acqua Azzurra» sul fiume Gualcarque, sacro per la popolazione indigena dei Lenca. La concessione fu data all’azienda honduregna Desarollos Energèticos (Desa) e finanziata dalla Banca di Sviluppo olandese (Fmo), dal fondo di cooperazione Finnfund (Finlandia) e dalla Banca centroamericana di integrazione economica.

La popolazione Lenca ha denunciato la violazione dell’accordo 169 della Oit per la mancanza di una consultazione preventiva, libera ed informata, della popolazione locale oltre alla presenza dell’esercito a sorvegliare le opere e le minacce ai leader Lenca. Per la popolazione locale non è il primo progetto estrattivo che percepisce come minaccia; i Lenca si sono già espressi contro progetti minerari, iniziative finanziate col meccanismo Redd+ e contro la costruzione delle cosiddette «città modello». Il caso del progetto «Acqua azzurra» ha raggiunto visibilità internazionale dopo l’assassinio, lo scorso 3 marzo, dell’attivista del Copinh, Berta Càceres, vincitrice del premio Goldman nel 2015, da parte di sicari di Desa. L’assassinio avvenne proprio durante un periodo in cui nei villaggi Lenca si prendeva in esame un nuovo modello energetico e comunitario.

Attualmente, organizzazioni e movimenti fanno pressioni affinché siano svolte indagini sull’omicidio e si proceda alla sospensione definitiva del finanziamento al progetto. Dopo l’assassinio dell’attivista e in seguito alla visita di una delegazione internazionale con membri del Parlamento europeo, è stata riconosciuta la violazione dei diritti umani che la centrale idroelettrica ha comportato.

Agua Zarca, assieme ad altri progetti come Barro Blanco a Panama, Barillas in Guatemala, Belo Monte in Brasile o La Parota in Messico delineano la violenza del modello energetico e la connivenza tra stato e imprese in America Latina.

Sudafrica, la scommessa popolare
per la fine del carbone

L’impresa di prospezione mineraria Ibhuto-Coal ha proposto di sviluppare una miniera di carbone a cielo aperto nella regione sudafricana KwaZulu-Natal. Il progetto Fuleni si trova al confine con il Hluhluwe-iMfolozi, il parco naturale più antico dell’Africa, patria del rinoceronte bianco. Due miniere già circondano il parco: Zululand Anthracite Colliery (proprietà dell’impresa Rìo Tinto) e Somkhele (proprietà di Petmin). Attualmente entrambe le miniere sono operative e stanno generando pesanti impatti sulle comunità locali: distruzione dei siti sacri e cimiteri, perdita di case, contaminazione dell’acqua, danni alle coltivazioni e alla biodiversità della regione.

Le comunità locali si oppongono al progetto Fuleni. Il 22 aprile 2016 un migliaio di abitanti hanno fatto pressione sul comitato dello Sviluppo minerario e ambientale (Rmdec) per annullare la supervisione nella zona del progetto e togliere così legittimità alla proposta. Gli attivisti si sollevano con lo slogan «Leave coal in the hole» (Lasciamo il carbone nel sottosuolo) con l’obiettivo di fermare la vorace economia estrattiva. In alternativa propongono soluzioni strutturali per fermare il riscaldamento globale. L’idea di mettere fine allo sfruttamento del carbone e sviluppare alternative energetiche a livello locale si incontra anche nel villaggio di Sompeta in Andhra Pradesh, India, e si somma alle molte richieste di lasciare i combustibili fossili sotto terra (casi conosciuti anche come unburnable fuels).

India, l’energia eolica industriale
a scapito delle iniziative comunitarie

L’energia eolica viene ampiamente promossa come sostenibile e socialmente accettabile. Tuttavia, grandi progetti eolici nel mondo stanno portando con sé un crescente numero di conflitti, e mostrano così che gli impatti di questa industria vanno ben oltre il tema paesaggistico. In questi casi, emerge l’appropiazione dei benefit «verdi» da parte delle grandi imprese, mentre i sistemi sociali ed ecologici locali soffrono una profonda transformazione.

Un caso recente e di grande rilevanza si registra nello Stato dell’Andhra Pradesh, in India, dove un’interessante iniziativa comunitaria volta alla riforestazione e alla promozione di attività di sussistenza è stata cancellata dal progetto Nallakonda. Di proprietà della India Tadas Wind Energy, appare persino tra i progetti finanziati attraverso il Meccanismo di sviluppo pulito contro i cambiamenti climatici fortemente voluto dal governo centrale. L’installazione di più di 60 torri e turbine Enercon ha portato alla deforestazione dell’area, alla degradazione di aree produttive come pascoli e campi e di fonti d’acqua. Nel 2013 comunità locali e organizzazioni sociali hanno portato il caso al Tribunale verde nazionale, a cui spetta il parere.

Nell’EJAtlas, l’atlante internazionale dei conflitti ambientali, troviamo casi simili e di scala maggiore come i corridoi eolici: oltre 15 progetti in Oaxaca, Messico, o la privatizzazione di oltre 16.000 ettari di terreno nel Nord-est del Kenya. In questi casi, l’appropiazione della terra per l’energia rinnovabile di grande scala rappresenta una nuova frontiera per la giustizia ambientale.

Tav Italia-Francia,
l’Europa delle grandi opere militarizzate

La linea ferroviaria ad alta velocità che connetterebbe Torino e Lione lunga 220 km/h è divenuta uno dei simboli di conflitto ambientale più importanti in Europa. I lettori del manifesto conoscono bene questo caso. Aggiungiamo solo che il prossimo appuntamento internazionale della rete contro i mega progetti inutili e imposti, nata dall’incontro tra la comunità della Val Susa e altre comunità resistenti d’Europa, sarà a Bayonne, a metà luglio.

Somalia: scarichi illegali di residui, una lunga storia di colonialismo tossicoL’ 80% dei rifiuti urbani sono industriali, alle volte tossici come quelli elettronici. E nei Paesi Ue sono costosi da smaltire, soprattutto per via della legislazione che si è fatta più esigente negli ultimi decenni. Questo ha dato luogo a esportazioni, spesso illegali, di rifiuti, un fenomeno di «colonialismo tossico». Tonnellate di rifiuti tossici sono stati scaricati sulle coste della Somalia in barba alla convenzione di Basilea (1989). Nel 2004, uno tsunami fece apparire sulle spiagge somale recipienti che contenevano rifiuti pericolosi, anche nucleari. L’ong Common Community Care (2006) trovò rifiuti radioattivi e tossici in differenti luoghi della Somalia.

La stessa ong indicò che un numero non confermato di pescatori erano morti a causa delle contaminazioni. Investigazioni degli anni ’90 collegarono lo scarico dei rifiuti tossici con imprese di facciata europee associate alla mafia italiana. Nel ’94 la giornalista Ilaria Alpi fu assassinata con il suo collaboratore Miran Hrovatin mentre investigava sul commercio di rifiuti tossici in cambio di armi. L’investigazione sembrava aver portato alla luce che tanto l’esercito italiano come i servizi segreti erano coinvolti nel caso. Un anno prima era stato ucciso anche Vincenzo Li Causi, agente dei Servizi italiani e informatore della Alpi. Lo smaltimento illegale di rifiuti tossici, unito alla pesca illegale delle imbarcazioni straniere, ha compromesso gravemente i mezzi di sussistenza dei pescatori somali e favorito la loro trasformazione in pirati. Nel 2009 un’inchiesta di Wardheer News individuò che il 70% delle comunità costiere locali «sostengono la pirateria come forma di difesa delle acque territoriali».


Testi di Daniela Del Bene (coordinatrice dell’EJAtlas), Federico Demaria, Sara Mingorría, Sofia Avila, Beatriz Saes y Grettel Navas. Traduzione di Myriam Bertolucci e Daniela Del Bene.
L’atlas globale è consultabile su www.ejatlas.org; la piattaforma italiana su http://atlanteitaliano.cdca.it/

«Coniò la parola “biodiversità”, ed ha in tasca la ricetta per salvare il nostro pianeta. "L’unico modo che abbiamo perfar sì che la biosfera non venga distrutta: è la nostra casa vivente, distruggerla vuol dire condannare la nostra stessa specie all’estinzione”». La Repubblica,5 giugno 2016 (c.m.c.)

A ottantasette anni Edward O. Wilson , il decano dei biologi americani, ha ancora voglia di combattere per difendere il Pianeta. E di avanzare teorie controcorrente. Lo fece nel 1975, con Sociobiologia: la nuova sintesi, libro in cui proponeva che ogni comportamento sociale umano può avere basi biologiche.

Torna a farlo ora con Metà della Terra (Codice edizioni-Le Scienze, traduzione di Simonetta Frediani, dal 9 nelle librerie): per salvare la vita, sostiene Wilson, dobbiamo trasformare metà della Terra in una riserva naturale. Anche i due Pulitzer vinti raccontano di uno scienziato che ha sempre fatto la spola tra biologia animale e società: nel 1979 fu premiato per il saggio Sulla natura umana, nel 1991, insieme a Bert Hölldobler, per Formiche: storia di un’esplorazione scientifica.

Nato in Alabama, Wilson ha passato la maggior parte della sua vita a studiare quei piccoli insetti. «Sono creature meravigliose, da cui ho imparato tantissimo. All’inizio ho lavorato per decifrare il codice “chimico” con cui comunicano all’interno delle colonie. Come molti insetti e altri piccoli organismi, lo fanno con segnali a base di feromone. Dimostrai che era possibile programmare una colonia per creare caste con diverse specializzazioni, per esempio l’accudimento dei piccoli, l’assistenza alla regina o la costruzione del nido».

Professor Wilson, lei ha avuto una carriera rapida e brillante: a ventinove anni era già professore ad Harvard, per oltre mezzo secolo ha girato il mondo studiando animali ed ecosistemi. Quando ha capito che l’essere umano rappresentava ormai una minaccia per la biodiversità?
«Bastò la mia prima settimana nelle foreste tropicali del Messico e dell’America centrale: mi resi subito conto dei danni arrecati dall’uomo. All’epoca, però, avevo pochissime informazioni su come tali danni possano innescare estinzioni delle specie e favorire la diminuzione di biodiversità. Nel 1963, con Robert MacArthur dell’Università di Princeton, descrivemmo per la prima volta in modo chiaro la relazione tra la perdita di habitat e il tasso di estinzione delle specie. Solo a cominciare dal 1986, quando con altri scienziati introducemmo il termine biodiversità, si iniziò a valutare più esattamente i danni».

E perché ha scritto “Metà della Terra” soltanto ora?
«Studi recenti hanno mostrato che un quinto dei vertebrati, gli animali meglio studiati (uccelli, mammiferi, pesci, anfibi, rettili), è ormai a rischio estinzione, anche se con sfumature diverse (da “vulnerabile” a “minacciato” a “seriamente minacciato”). Tutti i nostri sforzi di conservazione hanno avuto come risultato un rallentamento del tasso di estinzione, ma solo per un quinto di questo gruppo a rischio. La causa principale dell’estinzione delle specie è la distruzione degli habitat. Se un habitat si riduce, il numero di specie che quell’habitat può sostenere diminuisce approssimativamente con la radice quarta dell’area: se si vuole salvare l’80 per cento delle specie si deve preservare il 50 per cento dell’area originale».

Questo dunque spiega la tesi del suo ultimo libro: traformare metà della Terra in una riserva naturale totale.
«Sì, è l’unico modo che abbiamo per salvare la maggior parte delle dieci milioni di specie che costituiscono la biosfera, la nostra casa vivente».

Davvero pensa che sia praticabile? E quale metà della Terra andrebbe protetta? Le aree più selvagge o il 50 per cento di ogni Paese?
«Non solo è possibile, ma anche più facile di quanto si immagini. In tutto il mondo oggi sono protetti il 15% delle terre emerse e il 3 per cento dei mari. Ma rimangono molti altri territori ricchi dal punto di vista biologico che se trasformati in riserve ci permetterebbero di raggiungere il 50 per cento. Per il mare è più facile: molti studi dimostrano che si vietasse la pesca in mare aperto, la produttività delle acque costiere finirebbe per aumentare».

Alla fine del secolo la popolazione umana potrebbe raggiungere quota dieci miliardi. Le persone dovranno concentrarsi nel restante 50 per cento della Terra?
«Gli esseri umani possono rimanere dove sono. L’esperienza ha dimostrato che quando le aree più ricche di biodiversità sono preservate dall’urbanizzazione e dall’aumento di popolazione, uomini e natura sanno coesistere. Inoltre, è sempre più forte in tutto il mondo l’abbandono di territori poco popolati a favore delle città».

Lei è ottimista sul futuro demografico del pianeta.
«Sì, e dovrebbero esserlo anche gli altri. Ovunque nel mondo, dove le donne hanno ottenuto un qualche grado di indipendenza economica, il numero di figli per donna scende a picco. Se la tendenza attuale continuerà, la popolazione umana mondiale raggiungerà probabilmente un picco di undici miliardi per poi iniziare a diminuire».

Ma i consumi procapite continuano a crescere. Come faremo a preservare il 50 per cento del pianeta se la nostra impronta ecologica diverrà sempre più grande?
«In realtà, anche il consumo pro capite è destinato a diminuire. L’impronta ecologica (e cioé l’ammontare di territorio richiesto per soddisfare le esigenze di ogni individuo) ora vale in media circa due ettari, ma probabilmetne nei prossimi anni si restringerà anziché ampliarsi. Grazie ai progressi di biologia, robotica, nanotecnologie e alla rivoluzione digitale le persone vorranno prodotti più piccoli, che consumano meno energia, che richiedono meno riparazioni e che hanno un impatto meno distruttivo sulla natura».

I governi hanno hanno fatto molta fatica a trovare un accordo sul taglio delle emissioni di CO2. Come pensa che possano decidere in tempi brevi di “chiudere” metà della Terra?
«Ci credo perché i benefici saranno enormi: per la qualità della vita, per la sopravvivenza delle generazioni future e anche per il controllo del cambiamento climatico».

Ma politici e opinione pubblica ne sono consapevoli?
«Ora il cambiamento climatico è visto come un problema di vita o di morte per gli esseri umani. Presto anche il salvataggio del resto delle specie viventi sarà percepito allo stesso modo. La mia esperienza è che ovunque nel mondo, se ci sono educazione e opportunità, le persone percepiscono la natura come importante per la propria vita quotidiana, ma addirittura cruciale per l’esistenza umana a lungo termine».

Narratore di storie, creatore di miti, e distruttore del mondo vivente: così lei definisce l’Uomo. In “Metà della Terra” scrive che se continueremo a eliminare specie viventi al tasso attuale, presto la nostra era, che qualcuno chiama Antropocene visto l’impatto sul pianeta, sarà seguita dall’Eremocene, l’era della solitudine, in cui l’essere umano sarà circondato solo da specie allevate o coltivate per la propria sopravvivenza. Ma se invece dovessimo ruscire a fermare la distruzione, come potremmo chiamare il futuro?
«Continueremo a chiamarlo Olocene, così come si definisce il periodo alla fine delle ere glaciali, quando la nostra specie si diffuse su un pianeta pieno di promesse e di bellezza».

Il Wwf scelse il panda. Molti indicano il gorilla di montagna. Se lei, professor Wilson, dovesse suggerire un animale simbolo della perdita di biodiversità, quale indicherebbe?
«Homo sapiens. Alla fine saremo noi a soffrire e a tramontare come specie per l’incosciente distruzione della biosfera: ha impiegato tre miliardi e mezzo di anni per evolvere, è da lei che dipende la nostra sopravvivenza».

Per meglio comprendere come gira il mondo è assolutamente necessario cambiare il nostro punto di vista, così da traguardare nuovi orizzonti. Comune-info, 27 maggio 2016 (p.d.)

Ad un certo punto della storia, attorno al XVIII secolo, il mappamondo ha smesso di girare liberamente. Fissato l’asse di rotazione, il Nord è stato posto su e il Sud giù: in alto l’emisfero settentrionale e in basso quello meridionale. Da allora argentini, australiani, sudafricani… devono sempre chinare la testa per trovare le loro patrie nella parte “sotto” della Terra. Come se il globo terrestre non ruotasse intorno al Sole (oltre che vagare in giro per l’universo: “pianeta”, dal greco planao = vado errando).

Ma: “Hasta el mapa miente!” (“Questa mappa mente!”) – esclamò Edoardo Galeano nel suo scritto: 501 años cabeza abajo. “En el espacio no hay arriba ni abajo”. Quella del mappamondo, infatti, fornisce una visione di parte, arbitraria ed eurocentrica. È nato così nel Movimento di Cooperazione Educativa con la Sapienza di Roma, la Bicocca di Milano e la Plaza del cielo di Esquel in Argentina, un gruppo di docenti e insegnati che ha dato vita al “Movimento GloboLocal per la liberazione dei mappamondi dai loro supporti fissi universali, per diventare locali e democratici”.

Se vi salta in mente una qualche connessione di idee con il movimento per la liberazione dei nani da giardino siete fuori strada. Questo è un vero progetto scientifico e didattico che ha avuto riconoscimenti importanti e che permette di posizionare i mappamondi in modo omotetico (coerente e parallelo) rispetto a dove vi trovate sul pianeta. Le semplici istruzioni disponibili nel sito e una bussola sono sufficienti per auto-costruire un supporto al nostro mappamondo che rimette il piano d’orizzonte dove dovrebbe essere, esattamente sotto i nostri piedi, e orienta la Terra correttamente rispetto al sole di giorno e alle stelle di notte. Permette inoltre di comprendere facilmente l’alternarsi delle stagioni e il susseguirsi dei fusi orari.

Non sfugge il fatto che si tratta di un’operazione che restituisce non solo verità scientifica e storica a un oggetto molto comune nelle scuole e nelle case, ma anche giustizia ai popoli della Terra che abitano gli emisferi “inferiori”.

Incontriamo Nicoletta Lanciano, matematica, docente alla Sapienza, ad un laboratorio organizzato in un liceo. La professoressa pensa giustamente che vi sia una “pedagogia del cielo” capace di far comprendere “i diversi punti di vista locali e di valorizzare la connessioni tra cultura e democrazia, su scala globale”. GloboLocal ha organizzato eventi nel corso delle quattro giornate internazionali dedicate alla liberazione dei mappamondi che si svolgono nei giorni degli equinozi e nei solstizi. Ovviamente. I prossimi, quest’anno, sono: il 20 giugno, il 22 settembre il 21 dicembre. Per partecipare nelle scuole, nei parchi, nei musei… nei diversi posti del mondo si costruiscono “mappamondi paralleli”, li si fotografa e li si confronta. Avranno tutti inclinazioni diverse. Come gli esseri viventi che li popolano.

Nella lista di discussione "Officina dei saperi", aperta da Piero Bevilacqua si è aperta una interessante discussione sull'atteggiamento da tenere sulla questione degli OGM (organismi geneticamente modificati). Ci è sembrato utile offrire ai nostri frequentatori il documento che qui, col consenso dell'autore, pubblichiamo

Care amiche e cari amici,
scusate per l'insistenza sul tema, ma anch'io avevo scritto delle riflessioni sugli ogm, tenute nel computer per non essere troppo invadente. Dopo i due importanti contributi di Marcello e di Dario, che si muovono in ambiti specialistici diversi, vorrei cercare di mostrare, intervenendo sullo stesso tema, la necessità di un approccio multidisciplinare , di valutare il linguaggio e il ruolo dei media, di stabilire che cosa è per noi innovazione. Le riflessioni che seguono nascono a margine della trasmissione televisiva Ballarò del 19 aprile. Erano presenti vari esperti e c' era anche il ministro Martina, che per la verità si è difeso bene contro i fautori degli ogm.

«Allora, fanno male o non fanno male gli ogm?» andava chiedendo ai suoi ospiti il conduttore Massimo Giannini, con il tono penosamente banale di chi non ha letto neppure un rigo sull'argomento. Vediamo di seguito le questioni.

1° problema. Fanno Male? Marcello ha mostrato da par suo in che senso possono far male e non c'è molto da aggiungere. Io vorrei richiamare l'attenzione sulla banalizzazione del linguaggio giornalistico. Che senso ha dire fa male o non fa male? Gli ogm non sono certo prodotti tossici, non fanno venire il mal di pancia se ingeriti, altrimenti neppure circolerebbero. Ma questa mancanza di tossicità è sufficiente a dire che non fanno male? Se io respiro un pugno di polvere di amianto non farò neppure uno starnuto. Per questo aspetto rinvio al documento di Dario, che mostra i casi di fallimento della scienza in campo alimentare ( dagli oli idrogenati, al glifosato, alla diffusione della BSE tra gli uomini, ecc).Ma fra 10-15 anni ho una probabilità elevatissima di sviluppare un tumore mortale alla pleura o ai polmoni. Questo del “fa male non fa male” rivela una modalità di pensiero di devastante superficialità. Come se noi possedessimo davvero gli strumenti tecnologici per stabilire scientificamente se il mais bt ci fa male. E' evidente che, sotto tale profilo, il principio attivo del bacillo può, ad es., interagire con i batteri del mio intestino o di quello degli animali di allevamento che se ne nutrono, ma - a meno di disturbi acuti – come facciamo a sapere quel che succede nel nostro organismo, vista la grande varietà di cibi che mettiamo nel nostro stomaco ogni giorno? Come si fanno a vedere i risultati nel corso degli anni? Tale riflessione riguarda il rapporto tra il cibo e il cancro. Ci sono studi sui cancerogeni, certo, che dicono qualcosa sui singoli alimenti pericolosi. Ma il fatto è che nessun laboratorio scientifico è in grado di riprodurre il cocktail chimico che si crea nel nostro organismo, dove confluiscono non solo residui di pesticidi, di diserbanti, conservanti, coloranti, sostanze chimiche varie, ecc, ma anche le molecole dei gas di scarico delle nostre saluberrime città. Anche qui rinvio al testo di Dario. Solo la diffusa presunzione tecnologica ci fa supporre che la scienza sia in grado di stabilire la sicurezza di lungo periodo dei cibi industriali. Nessuno screening è in grado di stabilirlo. E' un fatto che tutte le popolazioni dei paesi in via di sviluppo appena assumono il modello alimentare dei paesi avanzati, nel giro di una generazione, acquisiscono la stessa predisposizione ad ammalarsi di cancro dei paesi avanzati. Esistono indagini epidemiologiche schiaccianti in proposito. Perciò i tumori aumentano in maniera esponenziale, ma nessuno è in grado di avventurarsi sulle piste delle loro cause. Il principio di precauzione ricordato da Dario è una soglia giuridica irrinunciabile se non si vuol capitolare del tutto alle ragioni del profitto.

2° problema. Gli ogm vanno accolti, perché la scienza deve andare avanti. Opporvisi è considerato un atteggiamento antiscientifico e irrazionale. Il medico Umberto Veronesi è un campione di questa campagna di discredito. Una ragione, apparentemente di buon senso , a supporto di tale posizione è: gli agricoltori hanno sempre modificato le piante, solo che oggi adoperiamo una tecnica diversa, modificando i geni. Una tale tesi, è stata sostenuta da autorevoli filosofi della scienza, come Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello. Ma è davvero così? Sono uno storico dell'agricoltura e so bene che i contadini hanno continuamente manipolato semi e piante per migliorarli. Ma in 10 mila anni di storia, mai avevano inserito materiate genetico del mondo animale in una pianta. Gli ogm non sono la continuità di una vecchia storia, ma una rottura genetica senza precedenti del mondo botanico.

3° problema. Altra superstizione camuffata da progressismo scientifico: la scienza comunque deve andare avanti, com'è sempre stato nella secolare storia umana. Essa, infatti, ha portato sempre benefici. Attenzione: qui incontriamo un travisamento concettuale ricorrente, soprattutto fra gli scienziati. Si confondono come sinonimi sapere e tecnologia. L'avanzamento del sapere è infatti sempre e universalmente utile all'umanità. Anche quando crea disincanto e dolore ( Leopardi non sarebbe d'accordo). La tecnologia non sempre lo è. La conoscenza dell'atomo è una conquista rilevante nell'esplorazione della materia. La bomba atomica, suo frutto tecnologico, è un'arma pensata per il genocidio. Le assegneremo comunque un'utilità sociale? La perorazione astratta dell'avanzamento della scienza non è altro che un pregiudizio fideistico. Pura superstizione, come credere nell'esistenza del Diavolo. Dunque non sempre la ricerca è utile e necessaria, ci sono strade diverse e non tutte conducono a un fine universalmente utile. Pensate se la fisica moderna non avesse preso la strada della ricerca atomica nella seconda metà del '900, impegnando le migliori menti del secolo e facendo investire ingenti risorse statali per fabbricare ordigni di morte. E pensate se invece avesse studiato le energie alternative, il solare, il vento.... Oggi forse avremmo scongiurato il riscaldamento climatico che incombe sul nostro immediato futuro. Questo punto, dunque, vale a dire quale tipo di strada prende la ricerca, è rilevantissimo per il nostro atteggiamento di fronte alla scienza contemporanea, che è in genere priva di una visione complessa del reale. Ancora oggi quanta ricerca si fa, in gran segreto, per rendere più devastanti bombe, armi e vari dispositivi bellici?

4 problema. Qual'è la ricerca tecnologicamente più avanzata di cui media e politici si riempiono la bocca nel più totale e superficiale conformismo. Qui tocco un punto essenziale, legato agli ogm, ma di valore più generale e che implica una scelta etico-politica. La senatrice Elena Cattaneo, ostinata fautrice di questi nuovi prodotti, li sostiene come il risultato della ricerca scientifica più avanzata. E' una posizione che rivela in maniera cristallina come la scienza possa farsi fautrice di cattive cause. Che cosa c'é di più avanzato negli ogm, rispetto all'agricoltura convenzionale, se non la capacità tecnica di manipolare i geni delle piante come mai era accaduto in passato? Che cosa non la creazione di nuovi prodotti economicamente ( a quanto pare) più competitivi? Ma la Cattaneo e tutti gli altri sostenitori degli ogm non si accorgono di essere attestati su un fronte scientifico arretrato, di combattere non per una agricoltura più innovativa, ma più vecchia. Vecchia nel modo di produrre, anche se getta sul mercato prodotti tecnicamente nuovi. Il mais bt, la soia round up, ecc sono infatti prodotti pensati per diminuire i costi di coltivazione di queste piante ( e per far incassare ingenti profitti di royalties alle multinazionali produttrici, come ricorda Marcello), ma non cambiano in nulla la struttura produttiva dell'agricoltura industriale, anzi la marcano ulteriormente in senso antinaturale. Concimi chimici e diserbanti continuano a inquinare l'aria, la terra, l'acqua di falda, nelle grandi distese argentine, brasiliane, statunitensi in cui sono coltivate. E questa è la novità, il grande portato di tanta ricerca? Nuovi prodotti per il mercato secondo una vecchia logica che non guarda ad altro fine che al profitto? E' questa la frontiera più avanzata della scienza? Produrre di più e a meno costi (?) lasciando invariato il paradigma scientifico su cui si regge da un secolo l'agricoltura industriale?

No, non è questa. Per noi la frontiera più avanzata è' quella che affronta una grande sfida, una sfida che nasce da una visione complessa e olistica della realtà, in cui non ci sono solo i beni agricoli e il mercato, ma anche il mondo dei viventi, uomini e animali e la loro salute. La sfida scientifica vera è quella di produrre cibo in quantità, per una popolazione crescente, come in passato ha fatto l'agricoltura industriale, ma senza avvelenare gli habitat agricoli, rigenerando la fertilità del suolo oggi annichilito da un secolo di concimazioni chimiche, conservando la vita degli animali, producendo beni agricoli sani e di qualità. Ecco la nuova frontiera che tanti scienziati non sanno intravedere, prigionieri di un progressismo scientistico ingenuo e fallimentare. Alla base di tale indirizzo c'è un mutamento generale di paradigma: il suolo non è considerato un supporto neutro su cui far crescere le piante pompandole con concimi chimici, ma è un organismo vivente, un ecosistema che va rigenerato continuamente, come hanno fatto gli agricoltori per circa 10 mila anni nei vari angoli della Terra. L'agricoltura non è una qualsiasi macchina che produce merci, non è una fabbrica di manifatture. Si svolge entro habitat dotati di propri equilibri vitali – il suolo, l'acqua, l'aria, clima, l'umidità, gli insetti, gli uccelli, ecc - con cui fare i conti, da riprodurre e da valorizzare. L'agricoltura convenzionale ha trasformato l'agricoltura elaborata in millenni di storia in una pratica industriale come le altre.

E' dunque qui la novità rappresentata dall'agricoltura biodinamica e biologica. La ricerca scientifica su cui queste si reggono non è orientata a fabbricare qualche nuovo prodotto patentato (ogm) da gettare sul mercato , ma studia le piante nel loro ambiente, per scoprire strategie di difesa, ad es. contro gli attacchi dei parassiti, le muffe, ecc. Tutti gli insetti utili presenti nell'agricoltura biologica esistono oggi grazie agli studi dell'entomologia. La scienza più avanzata ha scoperto che se non si avvelena l'ambiente delle campagne, se non si alterano con la chimica gli equilibri complessi della natura, gli insetti utili fanno il loro lavoro senza alcun intervento umano. Naturalmente , il fronte dell'innovazione passa anche attraverso il miglioramento genetico delle piante, grazie a una ricerca che mira a rafforzare, contro funghi e parassiti, l'immenso patrimonio di biodiversità agricola della nostra tradizione. Ma non puntando a tirar fuori dai laboratori il singolo prodotto Frankenstein, come fosse l'ultimo gadget elettronico di successo. La ricerca deve puntare a rafforzare le piante senza ridurre la biodiversità genetica e tenendo presente il grande obiettivo di ripristinare la salubrità degli habitat naturali compromessa dall'agricoltura industriale, di ricostruire l'equilibrio del mondo vivente in cui tutti siamo immersi, come produttori e consumatori.

5° problema. C'è un lato della discussione sugli ogm che ci mostra come gli scienziati abbiano un approccio unilaterale, risultando molto sguarniti sul piano del sapere economico e del sapere storico. La senatrice Cattaneo e altri come lei, lamentano di non poter costruire in Italia il mais bt per poter competere con l'analogo organismo g.m. prodotto nelle Americhe. Sotto il profilo economico, diciamo benevolmente, che si tratta di una ingenuità. In Argentina, Brasile, in Usa, ecc si coltivano piante ogm su immense superfici, con pochissimi coltivatori, ecc, ecc. Già ne ha parlato Marcello. Come facciamo a competere con queste realtà produttive a costi bassissimi? E dobbiamo poi competere? Dobbiamo riempire le nostre limitate pianure di concimi chimici e diserbanti, affidando tutto alle macchine?

Sotto il profilo storico – e qui perdonate l'enfasi – l'ignoranza degli scienziati assume vette intoccabili, in cui l'aria si fa rarefatta. Dobbiamo correre dietro gli ogm? Ma noi abbiamo una agricoltura che per ricchezza e varietà botanica non ha uguali al mondo. Frutto di una geografia e di una storia che non ha termini di confronto. La geografia dice che nei 1200 km che vanno dalle Alpi al canale di Sicilia, l'Italia possiede una varietà di habitat, di climi, di terre, che nessun paese al mondo ospita in così limitato spazio (L. Gambi) La storia ci dice che già nella Roma imperiale si è realizzata la prima globalizzazione agricola, e sulla nostra Penisola sono state acclimatate piante provenienti da ogni angolo dell' economia-mondo imperiale. Le piante orientali introdotte dagli Arabi nel Medioevo hanno trovato in Sicilia e in Andalusia una nuova patria, prima di emigrare nei restanti territori peninsulari. E l'ultima globalizzazione agricola, dopo la scoperta dell'America, ha portato in ogni angolo della Penisola, pressoché tutte le piante americane, dalla patata al peperoncino, dal pomodoro al fico d'India.

E infine...un aspetto incredibilmente trascurato. L'immensa biodiversità agricola rielaborata per secoli sulle nostre terre, non si è svolta nel vuoto, ma sui territori, in habitat particolari, e ha dato vita a un patrimonio impareggiabile, che solo la stolta ignoranza di tanti scienziati può sottovalutare: il paesaggio. Agricoltura, modellamento del territorio naturale, creazione di forme estetiche originali, sono state un processo unico. Non solo beni agricoli, ma eleganza delle forme di plasmazione della natura. Come si fa a parlare di agricoltura italiana ignorando la ricchezza di questa storia millenaria fatta di biodiversità, qualità e bellezza, che nessun miracolo tecnologico è in grado di riprodurre? E noi dovremmo inseguire il modello dell'agricoltura ogm? Ma, almeno una volta tanto, ricordiamo che il Modello siamo noi.

«Storica vittoria ambientalista nella cittadina dell'Oregon grazie a un referendum contro la costruzione di uno stabilimento industriale pronto a sfruttare le fonti di acqua locali. Un esempio per altri Stati dove la battaglia contro la vendita dell'acqua ai privati è solo agli inizi». La Repubblica online, 24 maggio 2016

E' LA PRIMA contea americana ad aver vietato a una multinazionale di imbottigliare l'acqua delle proprie fonti. Se il caso della cittadina dell'Oregon schieratasi contro il gigante Nestlé dovesse fare scuola, potrebbe aprirsi una fase difficile per l'industria dell'acqua. La piccola comunità rurale di Cascade Locks, 1200 abitanti a 70 km da Portland, nella contea di Hood River, il 17 maggio scorso ha bocciato con una votazione popolare l'apertura di una centrale della company svizzera che avrebbe dovuto imbottigliare 450 milioni di litri d'acqua l'anno, pari al 10% dei consumi totali della cittadina. Una battaglia senza esclusione di colpi, iniziata otto anni fa con la Nestlé alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, e che ha visto fronteggiarsi da un lato i sostenitori del "Provvedimento 14-55", decisi a vietare la vendita dell'acqua ai privati, dall'altro la multinazionale, che prometteva di rimpinguare le casse del municipio (135mila dollari l'anno in tasse) e dare lavoro a 50 persone, "in un paese con una disoccupazione al 18,8%", ha detto più volte il sindaco Gordon Zimmerman.

A prevalere, alla fine, è stato il no allo stabilimento con lo stop al progetto. Tra le argomentazioni degli ambientalisti, il pericolo di una drastica diminuzione di acqua disponibile alla fonte se i piani della multinazionale fossero andati in porto. Hood River County, denunciano gli attivisti di "Local Water Alliance" è un'area a rischio siccità e l'acqua un bene comune troppo importante "per permettere ai privati di sottrarlo alla comunità". "Se oggi l'acqua è una risorsa critica, ancor di più lo sarà negli anni a venire, quando aumenterà la popolazione e diminuiranno le risorse disponibili", scrivono sul proprio sito i difensori dell'acqua pubblica. "Venderla significa consegnare il nostro futuro nelle mani di altri".

La Nestlé, intanto, prende atto della decisione. "Rispettiamo il processo democratico, pur nella convinzione che la decisione presa non vada nell'interesse di Cascade Locks", ha commentato Dave Palais, manager delle risorse naturali per la company. Se il voto del 17 maggio frena l'espansione della multinazionale in Oregon, si teme ora l'effetto contagio. Incoraggiate dalla vittoria di Hood River, altre città che ospitano i giganti dell'acqua sul proprio territorio potrebbero decidere di "ribellarsi". I primi segnali, in effetti, non mancano: a Flathead County, in Montana, gli abitanti hanno manifestato contro l'apertura di un possibile impianto di imbottigliamento, mentre lo scorso marzo, sulle montagne di San Bernardino, le autorità ambientali californiane hanno proposto un'analisi dell'impatto della fabbrica di imbottigliamento di Nestlé Waters North America. Recentemente, nel Maine, sempre alla multinazionale svizzera è stata revocata la concessione per usare la fonte di Fryeburg in seguito alle proteste degli attivisti.

"L'acqua non dovrebbe essere una commodity", sostiene Julia De Graw di Food and Water Watch, associazione ambientalista con sede a Washington che coordina l'opposizione ai piani industriali di privatizzazione dell'acqua in Usa. Sebbene il mercato sia in crescita, con la vendita di bottiglie d'acqua che l'anno scorso ha sfiorato i 14,2 miliardi di dollari (+8,4% rispetto al 2014), lo stop arrivato dal piccolo paese dell'Oregon potrebbe non essere privo di conseguenze. "Utilizziamo l'acqua non più di quanto facciano altre industrie, come l'agroalimentare o il beverage", si è difesa Jane Lazgin, portavoce di Nestlé Waters North America, interpellata dal Washington Post. "Il caso di Hood River County pone un precedente. In futuro si potrà vietare l'utilizzo dell'acqua anche per l'agricoltura e l'industria".

«L’esperienza degli ultimi decenni dimostra che quando la scambio avviene tra contraenti diversi per peso contrattuale come le multinazionali e i lavoratori, solo uno dei due contraenti ci guadagna, mentre l’altro ci perde». Il Fatto Quotidiano online, 22 maggio 2016 (c.m.c.)

Il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) è il più grande accordo di libero scambio della storia, che riguarda quasi un miliardo di persone e metà del Prodotto interno lordo mondiale. Le trattative sono andate avanti per tre anni (dal 2013) e tredici round tra esperti del Ministero del Commercio estero degli Usa ed esperti della Commissione europea, senza che se ne sapesse niente di preciso, a parte la promessa che l’accordo avrebbe creato più ricchezza, più reddito, più consumi e più posti di lavoro – la stessa promessa di tutti gli accordi di globalizzazione degli ultimi trent’anni, puntualmente smentita dai fatti.

Uno squarcio di luce si è aperto agli inizi di questo mese di maggio, quando Greenpeace ha reso nota una parte consistente dei testi negoziali trafugati (248 pagine, due terzi circa), confermando le peggiori previsioni della società civile europea.

Le ragioni del No sono molte: primo, la segretezza orwelliana con cui l’accordo è stato concepito come se i diretti interessati non avessero il diritto di dire la loro prima della sua stesura definitiva. E questo è tanto più grave perché – come risulta dalle carte rese note da Greenpeace – all’industria invece questo diritto è stato ampiamente riconosciuto.

Secondo, l’azzeramento e/o l’ammorbidimento degli standard sanitari e ambientali europei, più elevati di quegli esistenti negli Usa, che su questo terreno sono meno esigenti dei paesi europei.

Terzo, la violazione del principio di precauzione riconosciuto dall’Unione europea, sostituito dalla richiesta statunitense di un approccio “basato sui rischi”, per gestire le sostanze pericolose piuttosto che di eliminarle.

Quarto, l’istituzione di comitati arbitrali per la soluzione delle controversie, che sono tribunali privati, privi di qualsiasi legittimità democratica. Quinto, le pesanti ricadute che tutto questo avrebbe sui diritti dei lavoratori. “Avevamo ragione noi e la società civile – dice Greenpeace – a essere preoccupati: con questi negoziati segreti rischiamo di perdere i progressi acquisiti con grandi sacrifici nella tutela ambientale e nella salute pubblica”.

E’ forse maturo il tempo per chiedersi se è ancora vero che la “legge” della specializzazione produttiva di un paese – sottostante la logica del commercio internazionale – accresce la produttività di quel paese, o se provoca invece la devastazione di intere aree e la miseria delle popolazioni che le abitano. E se è ancora vero che lo sviluppo del commercio estero è un fattore di crescita per tutti i partner dello scambio: l’esperienza degli ultimi decenni dimostra invece che quando la scambio avviene tra contraenti diversi per peso contrattuale come le multinazionali e i lavoratori, solo uno dei due contraenti ci guadagna, mentre l’altro ci perde.

Le trattative sull’accordo sono ancora aperte ma in uno stadio avanzato, ed è dunque urgente mobilitarsi per bloccarne la conclusione, o introdurvi modifiche sostanziali come chiede la società civile in tutti i paesi europei.

«Firenze. 15 mila persone in piazza contro il maxi termovalorizzatore di Case Passerini sono solo l’ultima tegola per il Pd, che fa il tifo per le grandi opere ma non ha ancora capito come rendere compatibile l’impianto con il progetto di un nuovo aeroporto intercontinentale nella già martoriata Piana fiorentina». Il manifesto, 17 maggio 2016 (c.m.c.)

Quel festoso corteo lungo tre chilometri, popolato da attivisti ed ecologisti ma anche da famiglie e studenti, nonni genitori e nipotini stretti nel loro «no» al maxi inceneritore di Case Passerini, è stato un brutto colpo per l’egemone Pd fiorentino. Costretto ancora, dopo quindici anni di ok amministrativi – fra le polemiche degli amministrati – a difendere l’impianto progettato nel comune di Sesto Fiorentino, dove ha sede operativa la municipalizzata dei rifiuti Quadrifoglio. Anche all’ingresso della città per chi arriva dalla Firenze-Mare, cioè da Prato, Pistoia, Montecatini, Lucca e Versilia. Un anacronistico e discutibile biglietto da visita per una delle capitali italiane dell’arte e della cultura.

«Abbiamo deciso di decidere». Enfatico già all’epoca, così rispondeva al manifesto, nell’ormai lontano 2006, l’allora pingue e inciuffettato neo presidente provinciale Matteo Renzi, nelle pieghe del via libera del consiglio all’impianto di incenerimento. Non ha cambiato idea, almeno a giudicare dallo Sblocca Italia che ha messo in cantiere sette nuovi inceneritori nella penisola. Fra cui Case Passerini.

Eppure c’è stato un momento in cui Renzi, già diventato sindaco di Firenze, ha pensato che il gioco non valesse la candela. Ma solo perché il grande impianto di incenerimento, con la sua torre alta poco meno di cento metri e un bosco artificiale per lenire le emissioni, finirebbe nel cono del nuovo aeroporto intercontinentale, anch’esso progettato nella già martoriata Piana fiorentina. Il piano alternativo, studiato da Palazzo Vecchio, prevedeva di sbolognare i rifiuti urbani a Livorno, al suo inceneritore dell’Aamps al Picchianti. Ma la contrarietà della municipalizzata, già in accordi con il colosso Hera per una gestione congiunta dell’affare, si tradusse in una soffiata alla stampa e nella levata di scudi della città labronica, che pure all’epoca era ancora del Pd.

Da allora si è andati avanti nelle procedure amministrative, nonostante che la contrarietà di parte della popolazione si fosse tradotta in almeno mezza dozzina di manifestazioni di protesta, dal 2006 ad oggi. Con Rossano Ercolini e Paul Connett, pionieri della strategia «rifiuti zero», invitati di volta in volta dai combattivi Comitati della Piana e da Rifondazione, Verdi e Perunaltracittà. E con Gian Luca Garetti dei Medici per l’Ambiente a denunciare, dati scientifici alla mano, l’intrinseca pericolosità di simili impianti. Fino all’ultimo sintetico dossier, appena pubblicato sul periodico La città invisibile, esaustivo per chi volesse conoscere le zone d’ombra nascoste dietro i cosiddetti «termovalorizzatori».

Agli occhi dei fan dell’incenerimento, e soprattutto della potente Cispel Confervizi che raggruppa le aziende legate alle public utilities, è arrivata per giunta la tegola dell’inceneritore pistoiese di Montale, fermato la scorsa estate a furor di popolo dopo la scoperta di ripetute, pesanti emissioni di diossine &c. L’apertura di un’inchiesta penale a Pistoia ha costretto i sindaci dell’area a promettere solennemente ai concittadini che l’inceneritore di Montale sarà chiuso. Ma solo quando sarà in funzione Case Passerini. Di più: in parallelo si sono addensate altre nubi sugli impianti toscani, dopo che un recentissimo studio sull’inceneritore di San Zeno ad Arezzo ha dimostrato scientificamente la sua pericolosità. Di qui l’ulteriore necessità, per gli inceneritoristi, di realizzare Case Passerini.

Il piano dei rifiuti urbani, approvato dalla Regione Toscana nel novembre 2014, prevedeva comunque che ai cinque impianti in funzione – Ospedaletto a Pisa, Picchianti a Livorno, Poggibonsi nel senese, San Zeno ad Arezzo e Montale a Pistoia – si aggiungesse appunto Case Passerini. L’assessora all’ambiente dell’epoca, Anna Rita Bramerini ricordava nell’occasione che l’obiettivo era addirittura il 70% di raccolta differenziata nel 2020, con solo il 20% da destinare alla «termovalorizzazione».
Ma in una regione come la Toscana, i cui abitanti (3 milioni e 700mila) sono pari a quelli dell’area vasta milanese, una simile dotazione “inceneritorista” è apparsa incongrua ai più, non solo all’opposizione di Toscana a Sinistra e M5S.

Al riguardo, Monica Sgherri di Rifondazione segnalava: «Sulla produzione dei rifiuti, in Toscana si parte da dati di gran lunga superiori a quelli che già oggi registrano regioni come la Lombardia, il Veneto e altre ancora. Ma quel che balza all’occhio è che le previsioni al 2020 contenute nel piano sono di circa 100, 150 chili annui per abitante superiori ai dati del 2012, forniti dall’Ispra, di queste regioni. In altre parole il piano si pone formalmente obiettivi anche ambizioni, quelli del 70% di differenziata e del solo 10% da destinare alla discarica. Poi però li svuota, in primis a causa del sovradimensionamento della produzione dei rifiuti indicata. Tutto quanto è naturalmente funzionale alla realizzazione, e all’attività, degli impianti di incenerimento».

L’iter autorizzativo per Case Passerini è concluso da mesi. Risale al 23 novembre scorso l’atto della Città metropolitana che ha rilasciato l’autorizzazione integrata ambientale per la realizzazione e gestione dell’inceneritore, come richiesto da Q.Thermo (Quadrifoglio al 60% e gruppo Hera al 40%). Ma le proteste sono andate avanti, fino alla manifestazione di sabato organizzata dalle «Mamme no inceneritore» e dell’Assemblea per la Piana contro le nocività, insieme all’associazione Zero Waste Italia e ai Medici per l’Ambiente. E con l’adesione di più di 200 realtà politiche e sociali, non solo toscane.

Di fronte a circa 15mila persone in corteo iperpacifico fino al centro storico, con Bobo Rondelli, Bandabardò e Malasuerte Fi-Sud per il concerto finale in piazza della Repubblica, il Pd si è innervosito. Dal Giappone, il ministro dell’ambiente Galletti, al G7 ambientale dove c’è anche il sindaco Nardella, ha dettato la linea governativa: «Utilizzare l’ambiente contro le grandi opere, o contro lo sviluppo economico in generale, fa male al paese e anche alla protezione ambientale». A seguire Galletti ha difeso il progetto di aeroporto intercontinentale di Peretola, il sottoattraversamento Tav e, appunto, l’inceneritore di Case Passerini.

Dal canto suo l’ad di Quadrifoglio, Livio Giannotti ha anticipato: «Contiamo di aprire il cantiere entro l’estate, per poi concludere l’opera in 700 giorni. Entro tre anni l’impianto sarà a regime, con emissioni nell’atmosfera che saranno, per ogni parametro, inferiori del 50-80% ai limiti di legge». Quanto a un possibile, teorico stop, Giannotti ha testualmente aggiunto: «È una decisione della Regione. Che dovrebbe però contraddire il ministero, e pagare i costi di tutti gli investimenti già fatti, circa 10 milioni di euro».

Oltre a lasciare il cerino in mano ad altri (Enrico Rossi), sono parole che sembrano nascondere un ulteriore problema: il ricorso al Tar di Campi Bisenzio, comune confinante con Sesto Fiorentino, che ai giudici amministrativi denuncia: «Per il termovalorizzatore, su cui eravamo d’accordo, dovevano però essere realizzate le opere di mitigazione e compensazione previste nel protocollo d’intesa del 2005. Queste opere non sono state realizzate». Per forza: sono quelle che farebbero cadere una pietra tombale sull’aeroporto intercontinentale di Carrai & Renzi.

«Segnaliamo la risposta di Antonio Fiorentino di perUnaltracittà a un chimico amico degli inceneritori che interviene sul Corriere fiorentino del 15 maggio. “L’inceneritore è l’unico destino che ci può essere”… “l’inceneritore è un altro passo verso la modernità». perUnaltracittà, 15 maggio 2016 (c.m.c.)


Queste sono alcune delle amenità apparse sul Corriere Fiorentino (15 maggio) dopo la grande manifestazione del 14 maggio ad opera un docente di chimica dell’università di Firenze. Dispiace constatare come in queste affermazioni ci sia tanta ideologia e scarsa rispondenza alla realtà delle cose.

Vorrei ricordare al professore che la pratica dell’incenerimento dei rifiuti è una pratica barbara, propria di una società che non è in grado di affrontare in maniera moderna ed equilibrata la gestione del ciclo dei rifiuti. Gli inceneritori sono una contraddizione in termini rispetto alla raccolta differenziata e al riciclaggio dei rifiuti. Hanno bisogno dei rifiuti, sono un limite oggettivo al loro riutilizzo.

Non è un caso che l’etimologia della parola “letame” derivi dal latino “laetare”, allietare, perché rendeva lieti coloro che utilizzavano la parte terminale di un ciclo biologico e, contemporaneamente, potevano utilizzare le stesse sostanze, i rifiuti, per impostarne un altro, e così via. Il compito di noi “moderni” non è quello di distruggere tanta ricchezza ma di renderla nuovamente disponibile. I tanto vituperati premoderni lo avevano capito! Chi ragiona in termini ideologici non ancora.

In secondo luogo con gli inceneritori le discariche non sono eliminate perché il 30% circa dei rifiuti da bruciare viene trasformato in ceneri, la cui concentrazione di inquinanti è molto elevata e fortemente tossica. Queste devono essere poi smaltite in una discarica, ergo: le discariche ci saranno ancora con il loro spaventoso carico di veleni. Come dire che delle 180.000 tonnellate di rifiuti che l’inceneritore di Case Passerini potrà trattare, ben 60.000 tonnellate di ceneri dovranno essere mandate in discarica. Scusate se è poco!

In terzo luogo, e non per ordine di importanza, il professore di chimica conoscerà bene il Principio di conservazione della massa di Lavoisier, in base al quale, lo dice anche il normale buon senso, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Ossia, se non dovesse essere chiaro, che le 180.000 tonnellate dell’inceneritore fiorentino si trasformeranno in 60.000 tonnellate di ceneri e in 120.000 tonnellate, se non di più, di gas che attraverso il camino galleggeranno sulle nostre teste, si diffonderanno sulla Piana Fiorentina.

E’ questa modernità? E’ questo il senso di responsabilità che anima politici, investitori e dotti accademici?La manifestazione di ieri 14 maggio 2016 resterà nella storia della Piana e di Firenze.Più di 15.000 persone hanno ribadito che “senza la gente non si fa niente!”.

«"I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi" dall'omelia per il solenne inizio del ministero petrino». Il manifesto, 29aprile 2016 (c.m.c.)

Mi soffermo su tre paragrafi del sesto ed ultimo capitolo della Enciclica Laudato si’ dove Francesco ragiona di «conversione ecologica». «Desidero proporre ai cristiani alcune linee di spiritualità ecologica che nascono dalle convinzioni della nostra fede, perché ciò che il Vangelo ci insegna ha conseguenze sul nostro modo di pensare, di sentire e di vivere».

Si rifà ad un punto del magistero di Benedetto XVI che nella Caritas in veritate riflette sulle implicazioni morali d’ogni atto economico quando, considerato che «il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi» (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace), constata che «i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» (Omelia per il solenne inizio del ministero petrino). Ne consegue, dice Francesco, che «la crisi ecologica è un appello a una profonda conversione interiore».

Un mutamento spirituale che «comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo» che ci circonda. L’enciclica esorta i cristiani far tesoro del «modello di san Francesco d’Assisi, per proporre una sana relazione col creato come una dimensione della conversione integrale della persona». È nello spirito della più autentica ispirazione di san Francesco che la evocazione evangelica trovi il suo riscontro nel «creato». Creato e parola divina di salvazione coincidono. Francesco riconosce in ogni luogo la presenza divina sì che interiorità ed esteriorità si riflettono l’una nell’altra, si compenetrano, si sciolgono a farsi uno.

Rammentiamo il capitale passo delle Considerazioni sulle stimmate. Nel sito della Verna è registrata, una volta per sempre, la permanenza dell’ora della passione e morte di Cristo che imprime tutt’attorno, nella natura, il segno del suo accadere e del sempre nuovo suo persistere. Leggiamo, per esteso, la celebre pagina: «Ivi a pochi dì, standosi santo Francesco allato alla detta cella e considerando la disposizione del monte e maravigliandosi delle grandi fessure e de’ sassi grandissimi, si pose in orazione; e allora gli fu rivelato da Dio che quelle fessure così meravigliose erano state fatte miracolosamente nell’ora della passione di Cristo, quando, secondo che dice il Vangelista, le pietre si spezzarono. E questo volle Iddio che singolarmente apparisse in su quel monte della Verna, a significare che in esso monte si dovea rinnovare la passione di Gesù Cristo, nell’anima sua per amore e compassione, e nel corpo suo per impressione delle Stimmate».

Impressione, ovvero impronta e segno, tale nel corpo di Francesco quale nel luogo che lo accoglie, ove dimora, a significare una armonia, una reciprocità, una pienezza di «spiritualità ecologica». Là dove il mistico e il contemplativo si convertono in una operante e attiva interrelazione uomo-natura. Oggi agisce una poderosa demolizione dell’ambiente. Essa risponde a imposizioni d’ordine economico, ma è condotta per colmare di scorie e detriti che illudono benessere un vuoto interiore alimentato da «l’ossessione per uno stile di vita consumistico».

I «deserti interiori» che ci annullano esigono il rifiuto di ogni moderazione e negano il riconoscimento d’un qualsiasi limite, mentre accolgono ed esaltano l’esercizio permanente della violenza mettendo in opera distruzioni continue. Dice Francesco: «La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo».

«Ambiente. Alla Cop21 riconosciuta solo ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani». Il manifesto, 27 aprile 2016

Il marzo scorso è stato il più caldo da quando si è iniziato a misurare la temperatura. Se ciò non bastasse nel trentennale del disastro di Cernobyl e a poche ore dalla cerimonia di firma dell’Accordo di Parigi, avvenuta il 22 aprile scorso, la Nasa ha informato che le emissioni di gas serra provocheranno un aumento della temperatura oltre i 1,5 gradi, soglia più o meno definita nell’Accordo adottato alla Cop 21 del dicembre scorso.

Benvenuti nell’era dell’Antropocene, una realtà di siccità, sconvolgimenti dei cicli della Terra, perdita di terra, biodiversità, cibo, acqua e rifugio. Una situazione che imporrebbe – attraverso una visione «decolonizzata» non certo «catastrofista» – di mettersi dalla parte di chi subisce gli effetti del climate change, considerando queste comunità e popoli non come vittime, ma come portatori di diritti fondamentali, alla sopravvivenza ed alla vita.

Tuttavia a Parigi i governi hanno solo riconosciuto ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani lasciando aperto un fronte di lavoro ed iniziativa urgente per evitare che gli ingenti flussi di risorse finanziarie che verranno stanziati per programmi di adattamento e mitigazione non finiscano per aggravare ulteriormente la già tragica situazione di milioni di persone. Basti pensare all’espansione della palma da olio per biodiesel. O al Beccs (Bioenergy Energy Carbon Capture and Storage), «escamotage» per aumentare la capacità di assorbimento di carbonio della Terra coltivando biomasse per la produzione di bioenergia con capacità di stoccaggio e cattura di carbonio. Il Beccs aprirebbe una nuova ondata di landgrabbing su almeno 700 milioni di ettari di terra. Il paradigma economico di mercato entra così nuovamente in collisione con quello basato sui diritti umani, delle comunità e della Madre Terra.

Un’incompatibilità che caratterizzerà i prossimi anni fino al 2020 quando l’Accordo di Parigi entrerà in vigore. Eppoi, chi implementerà gli accordi , e come? Parigi ha sancito il ruolo centrale del Fondo Verde per il Clima (Green Climate Fund) istituzione che assicura un ruolo cardine per imprese, banche pubbliche e private nell’attuazione delle politiche climatiche. E tra queste, banche quali l’Hsbc (che dal 2010 ha erogato almeno 5.4 miliardi di dollari solo nel settore carbonifero) o istituzioni come la Banca Mondiale. Ai paesi ed alle comunità resta il compito di disegnare la cornice nella quale spendere tali fondi, o accontentarsi delle briciole.

Per dare un’iniezione di fiducia alla comunità internazionale, quest’anno il Fondo spenderà circa 2,5 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale rispetto allo scorso anno, senza disporre di strutture adeguate per la valutazione del possibile impatto socio-ambientale dei progetti, né di politiche vincolanti sui diritti umani o sul diritto alla terra. Per chi conosce la storia di una delle più grandi Banche Multilaterali di Sviluppo, la Banca mondiale, questa «pressione all’esborso» è stata foriera di grandi disastri e di un altrettanto grave perdita di credibilità. Tra i prossimi progetti a rischio del Fondo molti saranno nelle foreste tropicali o in aree contigue. Non è un caso, visto che Parigi ha sottolineato con enfasi il ruolo delle foreste nella mitigazione ai cambiamenti climatici, e l’urgenza di rilanciare programmi di riduzione di emissioni da deforestazione, e immissione nei mercati globali di certificati di carbonio.

Così il Fondo Verde, su pressione di alcuni tra i principali donatori quali la Norvegia, ansiosa di poter neutralizzare le proprie emissioni da combustibili fossili, potrebbe finanziare prima della Cop22 di Marrakech del dicembre prossimo – progetti forestali al fine di produrre certificati di carbonio per compensare le emissioni altrui. Evidente il rischio di alimentare nuove bolle speculative sui mercati di carbonio, proprio quando arriva la notizia di una nuova imminente bolla speculativa collegata alle attività di fracking e la produzione di gas e petrolio di scisto.

È questo il lato oscuro che la vulgata mainstream sul cambiamento climatico decide di occultare o sfumare secondo convenienza, e che i movimenti globali per la giustizia climatica intendono portare alla luce del sole, non solo opponendosi all’estrazione di gas e petrolio, ma anche denunciando forme di nuovo colonialismo. Quello del carbonio, che ridisegna geografie di inclusione ed esclusione, decide che territori e comunità già impattate dai cambiamenti climatici vengano subordinate agli interessi delle imprese e dei vari Nord del mondo. La strada verso la giustizia climatica e l’equità, il riconoscimento dei diritti dei popoli e della Madre Terra resta lunga. L’altra, quella delle ipotetiche buone intenzioni, rischia di portarci dritto all’inferno.

«Summit Onu. A poche ore dalla cerimonia ufficiale di New York in cui 170 Stati hanno ratificato l'accordo di Parigi per la riduzione dei gas serra, l'Europa ammette che i 28 paesi dell'Unione non hanno ancora stabilito politiche condivise per abbattere le sostanze inquinanti». Il manifesto, 24 aprile 2016

L’intesa, sulla carta, rappresenta una svolta che la retorica in mondo visione ha già salutato come epocale. Abbiamo sentito dire che le firme dei 170 paesi che all’Onu si impegnano a far entrare in vigore l’accordo globale sul clima di Parigi potrebbero essere un risultato storico (obiettivo: limitare la temperatura media globale entro i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali). Sicuramente c’è del vero. Ma per passare dalle parole ai fatti bisogna fare in fretta perché il tempo è già scaduto. Di più, subito. E qui rischiano di essere problemi grossi proprio per il vecchio continente, disarticolato e litigioso con le sue 28 membra stanche (spesso in disaccordo tra loro) che saranno chiamate a ratificare l’accordo sulla base di intese comuni e politiche condivise.

Tanto che, a poche ore dalla cerimonia ufficiale della firma di New York, gli osservatori sanno bene che mentre Usa, Cina e India stanno correndo verso l’obiettivo l’anello debole della catena è proprio l’Europa, ancora ferma in attesa di definire i target nazionali di riduzione della C02 previsti per 2030. Il processo “prenderà del tempo”, ha ammesso il commissario europeo al Clima Miguel Arias Canete durante il discorso alle nazioni unite.

Perché non rimanga lettera morta, l’accordo mondiale per la riduzione di gas serra deve essere ratificato da 55 paesi che coprono almeno il 55% delle emissioni globali. E non è improbabile che questo possa avvenire anche senza il contributo dei 28 paesi europei, un fatto clamoroso che potrebbe escludere l’Europa dalle prime decisioni fondamentali per abbattere gli inquinanti e invertire la rotta delle politiche energetiche. “Dopo Parigi tutto il mondo si sta muovendo tranne l’Ue”, ha detto Bas Eickhout, vicepresidente del gruppo dei Verdi europei.

Usa e Cina (il paese che più di tutti sta investendo sulle energie pulite) hanno dichiarato di voler ratificare l’accordo entro la fine di quest’anno, forse già a settembre quando si terrà l’assemblea generale dell’Onu. Se così fosse, è la matematica a dire che l’Europa potrebbe diventare irrilevante anche sul piano della lotta al riscaldamento globale. “Questi due paesi – ha precisato Eickhout – insieme contano circa il 40% delle emissioni, che con l’India diventano il 45%. Se si dovesse aggiungere anche il Giappone, dietro pressione degli Usa, l’entrata in vigore nel 2016 o 2017 diventa probabile senza l’Unione europea”. Eppure Giovanni La Via (Ppe), presidente della Commissione ambiente dell’Europarlamento, non sembra molto preoccupato: “Siamo 28 paesi, è normale che il processo di ratifica sia più complesso, non è una gara e quello che conta è l’obiettivo”.

L’opinione comune, al di là dei riflessi appannati dell’Europa, è che l’accordo di Parigi dovrà ancora superare molti ostacoli prima di diventare operativo, e non solo in Europa (l’organizzazione mondiale marittima e quella dell’aviazione civile, per esempio, non hanno ancora stabilito misure per abbattere le emissioni). E che ormai il tempo è scaduto. Il “rapidamente” non basta più, spiega il Wwf in una nota, perché oltre al trattato di Parigi “anche le temperature planetarie e gli impatti climatici stanno già scrivendo un pezzo di storia del pianeta”. E questa è cronaca: è appena trascorso anche il marzo più caldo di sempre (dopo undici di mesi di record analoghi), l’Africa orientale e meridionale è colpita da una delle peggiori siccità di sempre, la quasi totalità della barriera corallina ormai è sbiancata per le acque calde e in Groenlandia ci sono temperature record attorno ai 20 gradi sopra la media. Ce n’è di che per convocare un bel vertice europeo?

«Quel che sta accadendo a Genova, con la perdita dell’oleodotto è il paradigma di un’incuria che viene da lontano. Causata dal disinteresse e dalla mancata consapevolezza, dall’assenza di politiche di prevenzione e di una cultura del bene comune». La Repubblica, 24 aprile 2016

Le immagini di ciò che sta accadendo a Genova mi portano ad una riflessione: che cosa ci sembra pericoloso, oggi? Ho la sensazione che non sia chiaro cosa davvero mette a rischio la nostra esistenza. Ci spaventano i pericoli diretti, quelli che possono uccidere in poco tempo una persona (e solo se si tratta di qualcuno che conosciamo), mentre ci fanno meno paura i pericoli a lunga scadenza, quelli, per intenderci, che non mettono a rischio immediato la vita di prossimità (la nostra o quella dei nostri cari) ma “solo” la vita di qualcuno che è lontano, in termini di spazio e di tempo (le future generazioni) o in termini biologici (i viventi non umani, dai microrganismi ai grandi mammiferi).

E il mare? Cosa pensiamo del mare? Quanto e come ci ricordiamo ancora che è - in sé - un organismo vivente? Diciamoci la verità, non ce lo ricordiamo quasi mai. Solo in qualche poesia o fiaba ci riferiamo al mare come a qualcosa che respira, si muove, mangia, si arrabbia o si calma. Per il resto del tempo pensiamo che il mare sia né più né meno che un mezzo, o - a seconda dell’esigenza - un contenitore. Un mezzo per spostarsi o un contenitore in cui buttare quel che non sappiamo dove mettere. Se da un’idea astratta e generica di mare passiamo all’idea concreta e precisa di Mediterraneo, forse ci sarà più facile vedere quel che di solito non riusciamo a cogliere.
Il Mediterraneo è un mare piccolo (circa l’8 per cento della superficie acquea planetaria), chiuso, caldo, altamente diversificato, popolatissimo (di uomini e di specie ittiche) e trafficatissimo (circa il 30 per cento del traffico di navi petroliere). Una specie di bacinella tiepida e straordinariamente bella, intorno alla quale si affollano le attività produttive ed economiche di 26 Paesi. Che non dialogano tra loro, che non sono tenuti a rispettare le medesime regole e che, in alcuni casi, non sono tenuti a rispettarne alcuna. Una specie di aiuola pubblica, intorno alla quale tutti passano, sulla quale tutti vantano qualche diritto, ma della quale nessuno si prende cura.
È uno snodo fondamentale per attività di carattere politico, economico e produttivo, ma viene visto e vissuto come fosse un materiale inerte qualsiasi. E periodicamente riceve colpi ferali, dai quali si riprende sempre in modo parziale perché prima che la ripresa sia completa ne arriva qualche altro.
Ecco, quel che sta accadendo a Genova, con la perdita dell’oleodotto che sta mettendo a rischio il mar Ligure e il Mediterraneo, è il paradigma di un’incuria che viene da lontano. Causata dal disinteresse e dalla mancata consapevolezza, dall’assenza di politiche di prevenzione e di una cultura del bene comune.
Dalla piccola pesca che non ha tutele, ai depuratori che non esistono o non funzionano, dallo scandalo degli sprechi in mare alla mancanza di una commissione nazionale per le valutazioni di impatto ambientale, fino all’irrisione continua delle normative europee a protezione della biodiversità. L’elenco potrebbe continuare, è un rosario lunghissimo.
Molto breve invece è l’elenco di quel che viene sempre e sicuramente tutelato: il profitto di qualcuno, e non importa se per raggiungerlo si spalmano i danni su tutti, e quando dico tutti intendo i miliardi di uomini e donne del pianeta più i biliardi di esseri viventi, acquatici e no.
Alla fine, a forza di contemplare inermi il lungo elenco dei guai e la brevissima lista dei vantaggi, verrà il momento in cui bisognerà fermarsi e decidere quale modello di sviluppo si intende seguire: se quello basato sulla rapina, la distruzione e il danno (a lungo termine) di tutti a vantaggio del bene materiale (a breve termine) di pochi; o se vogliamo che la politica torni a fare la politica, che la democrazia torni ad essere un meccanismo a vantaggio dei molti e che dunque si dia la cautela come elemento principe delle sue decisioni.
Non sto dicendo che tutto dipende da chi ci governa. Anzi, probabilmente l’input principale di un urgentissimo cambiamento di stile sta nelle mani dei cittadini prima di tutto. Occorre ricostruire la cultura con la quale dobbiamo guardare alle risorse naturali, beni ai quali abbiamo diritto di accesso perché senza di esse non possiamo vivere, ma che ci conferiscono allo stesso tempo doveri di tutela perché non abbiamo il diritto di privarne gli altri. Ripartiamo da qui, ogni giorno, dagli asili nido alle aule sovranazionali, il dibattito sul bene comune non resti chiuso nelle stanze dei giuristi. Parliamone di più, sempre, e su ogni mezzo disponibile, dalle osterie ai social media. Quell’oleodotto che perde sta sporcando casa nostra.

«Per uscire dall’era dei fossili non bastano i proclami ma occorre dotarsi di un piano rigoroso di transizione che punti celermente verso le energie rinnovabili». Il manifesto, 24aprile 2016 (c.m.c.)

I torrenti della città di Genova sono nuovamente al centro dell’attenzione nazionale. Questa volta non sono il dissesto idrogeologico e l’ennesima alluvione a ferire la città ma il petrolio che si è riversato nel piccolo rio Penego, sotto il quale passa l’intricata rete dell’oleodotto di collegamento tra il Porto petroli della città, lo stabilimento di stoccaggio e trasferimento di oli minerali di Fegino e la raffineria Iplom di Busalla, comune alle spalle di Genova.

Un intero ecosistema completamente distrutto perché l’ondata di petrolio che ha attraversato quelle acque ha già raso al suolo la biodiversità presente. «Quanto mi secca avere sempre ragione» esclamava ad un certo punto uno dei protagonisti del primo Jurassic Park inseguito da un tirannosauro. Ecco, quanto ci secca aver avuto ragione quando, nel corso dell’ultima campagna referendaria, denunciavamo i rischi legati alle attività petrolifere. Quanto ci secca che nel nostro Paese non si riesca ad uscire rapidamente dall’era dei fossili poiché la classe politica e quella industriale pensano con arroganza di controllare la situazione e di poter navigare a vista tra proclami e leggi ad aziendam.

Ma cosa c’entra, qualcuno chiede, quanto sta accadendo a Genova con il referendum dello scorso 17 aprile sulle trivelle? La domanda è di per sé disarmante: è una provocazione oppure davvero a qualcuno non è chiaro neanche ora quanto la filiera petrolifera sia rischiosa, inquinante, opaca e soprattutto potenzialmente distruttiva delle attività connesse a pesca, turismo e agricoltura? È quanto in queste settimane abbiamo cercato di spiegare agli italiani confusi da una martellante campagna di disinformazione che puntava sulla difesa dei posti di lavoro (centinaia) legati alle estrazioni petrolifere. Gli Ottimisti e Razionali (il comitato che invitava a votare no o ad astenersi) sin dal loro nome irridevano le preoccupazioni legate all’inquinamento e all’impatto delle estrazioni petrolifere. Ora tacciono.

Estrazioni, trasporto, raffinazione sono tutte attività rischiose e che a questo punto della storia comportano più costi che benefici. Costi per la comunità, benefici per poche compagnie petrolifere che a fronte di royalties irrisorie, scarsi controlli, concessioni illimitate (alle quali si intendeva mettere un termine temporale votando sì) e sgravi fiscali trovano davvero nel nostro Paese l’Eldorado. Ma il prezzo, come stiamo vedendo a Genova e come vedremo nelle prossime settimane, con la stagione turistica alle porte, è altissimo.

C’è poi da aggiungere che gli intensi traffici marittimi legati alla filiera petrolifera rendono il Mediterraneo, un mare chiuso e delicatissimo, una delle aree maggiormente esposte al rischio di inquinamento da idrocarburi. Nelle acque del Mediterraneo transita, infatti, il 18% di tutto il traffico mondiale di prodotti petroliferi: circa 360 milioni di tonnellate all’anno. Secondo uno studio del 2008 dello Iucn sugli effetti del traffico marittimo sul Mediterraneo, nel solo 2006 sono stati conteggiati oltre 9000 viaggi di petroliere attraverso il bacino, per una movimentazione complessiva di più di 400 milioni di tonnellate di idrocarburi.

Sembra incredibile ma nelle stesse ore in cui il nostro Premier davanti alle Nazioni Unite sottoscriveva gli accordi sul clima dichiarando la volontà di puntare sulle rinnovabili, il nostro mare davanti a Genova si tingeva di nero. Sì perché per uscire dall’era dei fossili non bastano i proclami ma occorre dotarsi di un piano rigoroso di transizione che punti celermente verso le energie rinnovabili. Non bastano slogan, servono decreti che bilancino rapidamente l’attacco subito dall’energia pulita nel nostro paese negli ultimi due anni.

«Intervista. Il presidente del Consiglio, nella sede dell'Onu per ratificare gli impegni presi alla Cop21 di Parigi, con il solito discorso ispirato e visionario dipinge l'Italia come un paese all'avanguardia negli investimenti per le energie rinnovabili. Per Loredana De Petris si tratta della solita propaganda: "Il suo governo sta andando nella direzione opposta"». Il manifesto, 23 aprile 2016 (p.d.)

Ha dato spettacolo anche a New York. A chiacchiere, nonc’è dubbio: è lui, Matteo Renzi, il più green tra i 171 leader del mondo cheieri all’Onu hanno ratificato in pompa magna gli impegni presi alla Cop21 diParigi. Il discorso visionario, la retorica sui “nostri figli”, l’orgoglioall’italiana e la vanteria per i “risultati ottenuti”. Poi, come da copione, lapromessa che non costa niente: il suo governo sarà addirittura l’alfiere di unanuova politica ecologica (tracce non se ne vedono). "Continueremo aimplementare gli accordi di Parigi e consideriamo questo punto una priorità,sia per le nostre politiche interne che per la presidenza del G7 del prossimoanno”, ha dichiarato il presidente del Consiglio.
Per la senatrice di Sinistra Italiana Loredana De Petrissiamo alle solite: “Propaganda”.
Non è credibile? Ha anche detto di voler portare al 50%la quota di energia da fonti rinnovabili entro la fine della legislatura.
Purtroppo la realtà nel nostro paese è un’altra, abbiamovisto le indicazioni che ha dato al referendum di domenica scorsa. Si possonoanche sparare cifre a caso, poi però bisogna essere in grado prendereprovvedimenti per dare una svolta alla strategia energetica investendo risorseimportanti sulle energie pulite. E poi la deve piantare di vantarsi perrisultati non suoi.
Quali risultati?
Se oggi l’Italia è prima al mondo per produzione da fontirinnovabili sicuramente non è per merito del suo governo, questi risultati sonostati raggiunti grazie agli stanziamenti fatti nel biennio 2007-2008. Dovrebbedire, per esempio, che questa crescita record nel 2015 si è fermata provocandoil dimezzamento degli impianti fotovoltaici installati. Anzi, con il cosiddettodecreto Spalma incentivi il suo governo è andato nella direzione opposta: ha tagliatogli incentivi per l’energia solare e ha aumentato dai 12,8 miliardi di dollaridel 2013 ai 13,2 miliardi del 2014 gli incentivi ai combustibili fossili. Hannoaddirittura cambiato gli incentivi in corsa in modo retroattivo, penalizzandochi aveva già fatto investimenti. Servono fatti, non parole. Potrei fare altriesempi di provvedimenti che complicano la vita a chi investe nelle rinnovabili.
Prego.
Sono questioni tecniche ma significative. Le tariffeenergetiche, per esempio, prima premiavano le fasce che consumavano di menomentre adesso con la nuova riforma gli incentivi non sono più legati alconsumo, questo è un modo per premiare i grandi consumatori. Hanno vietato isistemi di distribuzione chiusi, cioè non è permesso il consumo in loco dell’energiache un singolo cittadino produce sul tetto. L’energia bisogna rivenderla inrete, anche in questo caso vengono favoriti i grandi produttori. Bisognasburocratizzare l’installazione degli impianti e dare la possibilità anche allepiccole imprese di fare investimenti, per esempio stabilizzando l’Ecobonusinvece che rinnovarlo di anno in anno.
Da qui la vostra definizione di “governo fossile”?
Il punto è che in Italia non ci sono investimentisufficienti, lo ha capito anche la Cina che per garantirsi un futuro, ancheindustriale, bisogna investire miliardi di dollari per i sistemi di energierinnovabili. In Italia li ritengono incentivi troppo costosi, e non parlano delsostegno dato all’autotrasporto o alle trivellazioni. Le facilitazionieconomiche e le strategie politiche di fatto sono rivolte solo alle energiefossili, non esiste una road map che indichi in che modo sarà possibilerispettare gli impegni presi a Parigi. Sulla chiusura delle centrali a carbonesi stanno facendo dei passi in avanti, è vero, ma l’obiettivo si puòraggiungere in un anno. Poi serve una moratoria alle trivellazioni, dobbiamodire entro quanti anni saremo in grado di farne a meno. La realtà è che lapolitica energetica in Italiala la fa l’Eni e non abbiamo un ministero dell’ambienteall’altezza.
Matteo Renzi direbbe che questo è il solito“ambientalismo ideologico” da respingere. Cosa gli risponde?
Sarà pure giovane, ma è lui che vive in un’ ideologiaottocentesca. Il nostro è un ambientalismo concreto che punta sull’innovazione,probabilmente adesso parla così perché si è accorto del peso politico che hannoquei milioni di cittadini che sono andati a votare il referendum. Ci auguriamoche ne tenga conto invece di declamare una politica energetica virtuosa mentrenei fatti continua a puntare sulle energie fossili.

«La metà della spazzatura finisce in discarica o all'inceneritore, investimenti per bruciare oggetti realizzati con plastiche non "rinnovabili", mancati incentivi. Così accade che alcuni riciclatori siano costretti a importare imballaggi in Pet da Francia e Spagna». Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2016 (p.d.)

Nel 2014, secondo l’Ispra, il 42 per cento dei rifiuti urbani è stato riciclato o, nel caso dell’organico, avviato ad impianti di compostaggio. Dall’altra parte, il 31 per cento è andato in discarica e il 17 all’inceneritore, per un totale del 48 per cento: quasi la metà di quello che buttiamo, insomma, continua a non essere riutilizzato, rappresentando un’occasione mancata per l’industria del riciclo, fiore all’occhiello dell’economia italiana. L’esempio delle bottiglie di acqua minerale che abbiamo tutti i giorni sulle nostre tavole può dare l’idea. Secondo Assorimap, l’associazione di riciclatori e rigeneratori delle materie plastiche, nel 2015 “le tonnellate immesse a consumo, cioè tutte le bottiglie ed i flaconi di plastica, sono state circa 400mila, di cui il 50 per cento è stato raccolto ed avviato a riciclo. Manca all’appello l’altro 50 per cento, circa 200mila tonnellate che hanno destini diversi: dalla discarica al termovalorizzatore o dispersi nell’ambiente”. Tutto questo mentre, spiega Alberto Frache, esperto di polimeri del Politecnico di Torino, “alcuni riciclatori piemontesi sono costretti ad acquistare imballaggi in Pet da Francia e Spagna, perché in Italia, dove oggi le percentuali di raccolta in molte aree sono basse, non c’è abbastanza materiale da avviare a una seconda vita”.

Investimenti per bruciare

Se il Pet, polimero riciclabile per eccellenza, è l’esempio più eclatante, “nel 2014 in Italia circa 1,4 milioni di tonnellate, il 12 per cento degli imballaggi immessi al consumo ed il 15 per cento degli imballaggi recuperati, sono stati avviati a recupero energetico”, si legge nell’ultimo rapporto di sostenibilità di Conai, il Consorzio nazionale degli imballaggi. “Si tratta di un valore in forte crescita, +27,5 per cento tra 2012 e 2014”, con “la plastica che rappresenta il 66 per cento del totale degli imballaggi avviati a recupero energetico”.

Numeri che, di fronte alla costruzione degli 8 inceneritori previsti dallo Sblocca Italia (inizialmente erano addirittura 12), potrebbero aumentare ancora. Secondo Francesco Bertolini, esperto di politiche ambientali dell’università Bocconi, infatti, “nel momento in cui si decide di investire in un inceneritore che costa milioni di euro e ha bisogno di grosse quantità di rifiuti per funzionare e ripagare così l’investimento, c’è un allentamento più o meno consapevole nelle politiche a favore del riciclo. Se è vero che nella regola europea delle 4R – riduzione, riuso, riciclo e recupero – la termovalorizzazione è appunto all’ultimo posto, è ovvio che se si investono qui molte risorse, poi ce ne saranno meno per misure a favore del riciclo”.

Materiali difficili da riciclare

Non solo: delle circa 927mila tonnellate di imballaggi in plastica inceneriti nel 2014 su un totale di quasi 2,1 milioni di tonnellate immesse al consumo, una parte è rappresentata da bottiglie, vaschette e flaconi buttate dai cittadini tra i rifiuti indifferenziati, mentre dall’altra ci sono contenitori ancora difficili o impossibili da riciclare. “Gli alimenti confezionati in plastica con scadenza lunga spesso hanno imballaggi formati da più polimeri. Cibi e bevande di questo tipo devono essere isolati da luce e aria: ci sono quindi strati barriera di diversi materiali che hanno queste funzioni”, dice Frache.
Pensiamo ai bicchierini del tè freddo, ad alcuni tipi di vaschette per cibi confezionati, o ancora a packaging formati da un film di plastica e uno di alluminio, come il pacchetto del caffè o le bustine di cibo per animali. “In questi casi non è possibile oggi recuperare i vari film uno per uno. Gli imballaggi poliaccoppiati vengono sminuzzati e inviati principalmente alla termovalorizzazione, che al momento appare come l’unica soluzione possibile”. Se basta fare un giro al supermercato per rendersi conto di quanti sono gli imballaggi di questo tipo, per Frache sarebbe già importante concentrarsi sul raccogliere il più possibile i materiali riciclabili. Per Bertolini, invece, “è incredibile che si continuino a non considerare le alternative tecniche già esistenti per sostituire i polimeri di derivazione petrolifera con le bioplastiche, con un’incidenza molto limitata sul prezzo del prodotto finale. A quel punto, questi imballaggi potrebbero essere conferiti nella raccolta dell’umido”.

Differenziare il Cac

Da qualsiasi punto di vista la si guardi, tuttavia, il prezzo del petrolio ai minimi degli ultimi mesi non incentiva le aziende a cercare alternative ai loro imballaggi in plastica, né il sistema così com’è organizzato oggi incoraggia il passaggio ai biopolimeri. L’input a realizzare imballaggi a più basso impatto ambientale potrebbe arrivare finalmente da una differenziazione del Contributo ambientale Conai (il Cac), che tutti i produttori e utilizzatori pagano al Consorzio per “i maggiori oneri della raccolta differenziata, per il riciclaggio e per il recupero dei rifiuti di imballaggi”. Il sistema è già in vigore in diversi Paesi europei, mentre fino ad oggi in Italia l’importo cambiava solo in base al materiale, ma non all’impatto ecologico della confezione. A fine febbraio, Conai ha annunciato che il nuovo meccanismo entrerà in vigore “presumibilmente entro 12 mesi” e per il momento solo per le confezioni in plastica, “modulato sulla base di tre parametri fondamentali: la facilità di selezione degli imballaggi dopo il conferimento per il riciclo, l’effettiva riciclabilità – valutate sulla base delle tecnologie disponibili industrialmente note – e il circuito di destinazione (domestico o commercio/industria)”.

Se ci guadagnano tutti

L’altro anello debole della filiera, si diceva prima, sono i cittadini, non sempre attenti a conferire i rifiuti nel modo giusto. Su questo fronte, negli ultimi anni sono nati diversi sistemi incentivanti, che puntano a promuovere la raccolta differenziata anche con remunerazioni, spesso in collaborazione con la grande distribuzione. L’azienda veneta Eurven, per esempio, fabbrica macchine intelligenti capaci di restituire, in cambio degli imballaggi, uno sconto o dei punti fedeltà. Ha tra i suoi clienti grandi nomi come Conad, Leroy Merlin e Ikea, che attraverso queste promozioni puntano a fidelizzare i consumatori.

E c’è chi come Coripet, un consorzio volontario che raccoglie aziende di acque minerali e riciclatori, grazie anche agli incentivi ai consumatori è riuscito a creare un ciclo chiuso, con vantaggi per tutti. Spiega il presidente Giancarlo Longhi: “I supermercati fidelizzano, i clienti hanno uno sconto sulla spesa, i riciclatori possono contare su materiale che rispetta i requisiti Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare, ndr) per produrre scaglie idonee al contatto diretto con gli alimenti e le aziende di acque minerali chiudono il cerchio impiegando le scaglie per produrre le loro bottiglie”.

«A lanciare l'allerta il n° 1 del Goddard Institute for Space Studies della Nasa (Giss), Gavin Schmidt, che prevede "sulla base dei dati sulle temperature medie globali raccolti tra gennaio e marzo dal Giss della Nasa, una probabilità superiore al 99% di avere un 2016 da record"». Il Fatto Quotidiano online, 22 aprile 2016 (p.d.)

Le temperature superficiali della Terra già nel 2016 potrebbero avvicinarsi pericolosamente a 1,5 °C in più rispetto ai livelli pre-industriali. Un aumento che potrebbe, cioè, sfiorare proprio quel grado e mezzo in più fissato come soglia limite a dicembre dalla comunità internazionale nell’accordo sul clima di Parigi. A lanciare l’allerta il n°1 del Goddard Institute for Space Studies della Nasa (Giss), Gavin Schmidt, che prevede “sulla base dei dati sulle temperature medie globali raccolti tra gennaio e marzo dal Giss della Nasa, una probabilità superiore al 99% di avere un 2016 da record”. L’annuncio, ripreso dalla rivista New Scientist, arriva a ridosso dell’Earth Day, la Giornata della Terra scelta dalle Nazioni Unite ogni 22 aprile, a partire dal 1970, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità della conservazione delle risorse naturali del Pianeta.

Per approfondire questi dati l’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), il panel Onu sul clima, come riportato dalla rivista Nature, in un meeting che si è appena concluso a Nairobi si è impegnato a realizzare tre report nei prossimi anni. Le nuove indagini, la prima delle quali sarà completata entro il 2018, analizzeranno l’impatto sul Pianeta dei mutamenti climatici legati a un aumento delle temperature di 1,5 °C. “Finora abbiamo focalizzato la nostra attenzione su quel che potrebbe accadere con un aumento delle temperature di 4 gradi o più rispetto ai livelli pre-industriali – sottolinea su Nature Corinne Le Quéré, direttrice del Tyndall Centre for Climate Change Research di Norwich, e autrice di molti dei report Ipcc -. L’impatto di un riscaldamento relativamente più modesto, infatti, è molto meno studiato. E dobbiamo imparare a comprenderlo”, precisa l’esperta.

L’impegno a “portare avanti ogni sforzo per limitare l’aumento delle temperature a 1,5 °C”, come prevede l’accordo sul clima, è, infatti, uno dei punti salienti dell’intesa stipulata da 195 Paesi alla conferenza “Cop21″ di Parigi. Ma già all’indomani del summit, alcuni esperti avevano sollevato dubbi sull’efficacia dell’accordo, giudicato insuffficiente a limitare le emissioni di gas serra, e a contenere la febbre del Pianeta. I primi dati raccolti nel 2016 e le previsioni dell’esperto Nasa sembrano andare nella stessa direzione, confermando alcune perplessità iniziali.

Secondo quanto scrive la rivista New Scientist, per sapere se le temperature medie globali della superficie del Pianeta si manterranno elevate per tutto il 2016 bisognerà, tuttavia, guardare a El Niño, l’aumento delle temperature superficiali del Pacifico. Un’attenuazione di questo fenomeno tropicale, alla base del motore climatico terrestre, potrà infatti portare, secondo gli esperti, a una riduzione di questo trend di crescita. “È essenziale – conclude Jan Fuglestvedt, climatologo del Center for international climate and environmental research di Oslo, e vice presidente del gruppo di scienze fisiche dell’Ipcc – che i Governi sappiano come e quando è necessario agire, per mantenere il surriscaldamento al di sotto di 1,5 °C”.

Due promotrici e organizzatrici dello straordinario lavoro compiuto delle persone che si sono impegnate nella grande battaglia contro il consumismo energetico e a difesa dei patrimoni e delle risorse comuni sottolineano i risultati positivi raggiunti al di là del dato registrato dalle urne.

La sconfitta di Renzi: aver cercato di mortificare la democrazia, piegato l'informazione, favoritointeressi privati e illeciti facendosene un vanto
La vittoria dei “comitatini ambientalisti”: aver vinto a tavolino 3 su 6 referendum proposti,
aver dato uno stop alla “necessaria” strategicità del fossile in Italia; avere imposto al dibattito politico italiano il tema della conversione ecologica; aver riattivato una coesa opposizione sociale in Italia
Era dal 2011 (referendum Acqua, Nucleare e legittimo impedimento), che la politica e soprattutto la narcotizzata società italiana non veniva investita dal dibattito su un tema fondante per il futuro del Paese.

In appena un mese, quello concesso dal governo per informare i cittadini, e senza alcuna risorsa se non le nostre braccia, le nostre gambe e la nostra creatività, siamo riusciti ad ottenere l’attenzione ed il voto di un terzo degli italiani. Questo a testimonianza che la società reagisce quando stimolata e non narcotizzata dall’informazione o dalle forme autoreferenziali della politica.

Il successo dei referendum NO TRIV parte dall’aver convinto, da movimenti, ben 10 regioni a deliberare a maggioranza assoluta la loro proposta. Successo che prosegue con la resa del governo Renzi, che pur di non fare esprimere i cittadini sulle trivelle a mare e terra, ha assorbito in legge di stabilità tre dei sei quesiti. Sono state così rigettate dal MISE, Ministero dello Sviluppo Economico, 27 autorizzazioni a nuove trivellazioni entro le 12 miglia, tra cui Ombrina mare, segnando la seconda vittoria del fronte NO TRIV. La terza e più importante vittoria è stata quella di aver imposto al dibattito pubblico il tema del modello di sviluppo che l’Italia vuole perseguire alla luce degli accordi di Parigi sulla riduzione dei gas climalteranti che ha come unica via d’uscita un cambiamento delle politiche energetiche che conducono alla conversione ecologica, mettendo in luce al contempo la grave compromissione della politica con gli interessi economici delle multinazionali del petrolio e i poteri forti.

In appena un mese sono nati spontaneamente in tutt’Italia centinaia di comitati che hanno lavorato a testa bassa per informare e promuovere il SÌ, lottando contro la mistificazione, la disinformazione del governo e contro l’invito all’astensione.

È stata cosi disvelata una presa di posizione gravissima dell'esecutivo di governo che tradisce una insofferenza all'esercizio democratico popolare previsto dalla Costituzione, ed ancor più il desiderio di avere mani libere nelle decisioni assunte, non solo scavalcando regioni ed enti locali, ma prefigurando una volontà autoritaria che si concretizza nelle riforme costituzionali in combinato con la legge elettorale.

Infatti proprio sulla modifica costituzionale del Titolo V, con cui il governo vorrebbe accentrare al proprio esecutivo scavalcando lo stesso parlamento le competenze attribuite alle regioni in materia ambientale, si riaprirà presto la partita per la democrazia sostanziale e di prossimità.

Laddove si vorrebbe sanare attraverso le modifiche costituzionali quella che è diventata, di fatto, una democrazia solo formale trasformandola in “democratura”, si troveranno i cittadini, i comitati e le associazioni.

Il referendum NO TRIV ha aperto una strada, ha costretto la politica a schierarsi pro o contro, a dividersi facendone emergere le pesanti contraddizioni interne. Ha ridato voce ad un terzo degli cittadini, ha rivitalizzato ogni territorio con un mese di mobilitazioni dal basso che restituiscono linfa vitale alla Democrazia ed alla partecipazione.

Non è che l’inizio! Siamo partiti da tempo promuovendo un altro modello di sviluppo, sostenibile, solidale. Non ci fermeremo.

Un altro mondo è possibile e siamo qui per costruirlo!

(

«Incidenti come quelli di Genova sono il pedaggio che una società malata di petrolio deve pagare. Domenica abbiamo avuto almeno la possibilità di dire la nostra. Se ne avremo altre, di possibilità, vediamo di non sprecarle». Il manifesto, 20aprile 2016 (c.m.c.)

È difficile non leggere l’amara vicenda del disastro petrolifero del Polcevera alla luce dell’esperienza referendaria che è stata l’occasione per parlare dei rischi della droga petrolifera che circola nelle vene della nostra società. Le maree nere, gli oleodotti che esplodono, sono solo la cima dell’iceberg di un fiume di idrocarburi (e soldi) che inquinano mari, fiumi e laghi, terre e cielo. E, ovviamente, anche la politica: non solo in Italia.

Di guerre per il petrolio ne abbiamo viste fin troppe (dell’ultima «guerra promessa», in Libia non si sente più parlare… ) ma abbiamo appena assistito a un capitolo di una guerra oggi forse più importante: quella tra il petrolio (e gli idrocarburi in genere) e le nuove fonti energetiche. Meno sanguinosa, ma non meno spietata. Abbiamo infatti avuto il privilegio di assistere alla prima campagna referendaria astensionista di un governo della Repubblica che si adopra per mantenere in vigore un codicillo che è solo l’ennesimo favore ai petrolieri (preoccupati dal nuovo che avanza).

Il testo su cui ci siamo espressi è stato inserito lo scorso dicembre dal governo nella Legge di stabilità. È singolare che il medesimo governo non abbia avuto il coraggio di difendere il suo operato, invitando a votare No, preferendo raccontare un sacco di frottole. Ad esempio, sull’occupazione. Come poteva questo referendum mettere a rischio 11.000 posti di lavoro? Di questi allarmi non si era mai sentito parlare prima, quando (fino al Natale scorso…) vigevano le stesse regole che il referendum avrebbe, semplicemente, ripristinato. Forse, quei 74 posti di lavoro (tanti sono gli «occupati» sulle piattaforme oggetto del referendum) sono più a rischio adesso, vista la valanga di ricorsi annunciati alla Commissione Europea: rischiamo una multa salata.

Una concessione di suolo pubblico deve avere precisa scadenza. L’Ue ci ha bacchettato per aver concesso il «rinnovo automatico» delle concessioni ai balneari. Starebbe zitta su concessioni che possono durare «a piacere» per i petrolieri? La verità è che quei posti di lavoro (gli 11.000 e tutti gli altri del settore) sono a rischio comunque, visto che in tutto il mondo l’occupazione connessa alle attività «petrolifere» è in calo. Per il semplice motivo che gli investitori hanno capito che l’era del petrolio sta finendo e che è il momento di guardare altrove.

Negli scorsi anni, le rinnovabili hanno avuto una crescita tumultuosa in Italia, con errori, sprechi e (come sempre, dove ci sono soldi) intrusioni affaristiche e mafiose. Sarebbe stato saggio regolare e guidare questa crescita, non sabotarla come hanno fatto gli ultimi tre governi. Negli ultimi anni il settore ha perso decine di migliaia di posti di lavoro (secondo il Gse, dal 2008 al 2014 gli occupati (stabili e temporanei) sono passati da 195.000 a 75.000!). Che adesso il Primo Ministro ci ricordi che l’Italia ha un record nel settore fa un po’ strano. Ricorda quell’altro Premier che a L’Aquila, dopo il terremoto, inaugurava prefabbricati regalati da altri. La verità è che nel 2012 in Italia sono stati attivati oltre 150.000 impianti fotovoltaici; nel 2014, primo anno di vita di questo governo, solo 722.

Incidenti come quelli di Genova ce ne sono stati e, purtroppo, ce ne saranno ancora. Sono il pedaggio che una società malata di petrolio deve pagare (come i veleni nell’aria che respiriamo, mari inquinati, eccetera). Quanto a lungo dovremo pagare questo pedaggio, dipende anche da noi. Domenica abbiamo avuto almeno la possibilità di dire la nostra. Se ne avremo altre, di possibilità, vediamo di non sprecarle.

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