«L’ampia selezione di notizie curata da Alberto Castagnola segnala come la percezione continua dei rischi nascosti in ogni prodotto chimico inventato negli ultimi decenni stia diventando una condizione di vita essenziale. Una percezione, pertanto, da diffondere al massimo grado e in ogni paese». Comune.info, 26 settembre 2016 (c.m.c.)
Questa rassegna fa emergere numerosi problemi vecchi e alcuni molto gravi che solo ora attirano l’attenzione degli organi di stampa, e tutti comportano gravi conseguenze per il pianeta e per la salute umana e animale. La complessità e la pervasività del sistema economico dominante, che riesce sempre ad imporre tempi lunghi e scadenze indefinite a ogni forma di controllo o anche solo di regolamentazione, continuano ad arrecare gravi danni agli esseri viventi che tentano di abitare il pianeta salvaguardando la loro salute ed evitando rischi prevedibili di origine umana.
Una percezione continua ed articolata dei rischi nascosti in ogni prodotto chimico inventato negli ultimi decenni sta diventando una condizione di vita essenziale, da diffondere al massimo grado in ogni paese. Questo sforzo di approfondimento e di denuncia deve diventare patrimonio di ogni persona che si sente responsabile anche verso la collettività nazionale e poi internazionale; non può essere trascurato o ritardato, pena danni crescenti e spesso irrimediabili.
Il sudest asiatico senz’acqua. A causa dei cambiamenti climatici e delle dighe sempre più numerose sul Mekong, la Cambogia e i paesi vicini sono colpiti dalla peggiore crisi idrica degli ultimi cinquant’anni. I mesi di siccità prima dell’arrivo delle piogge monsoniche sono spesso difficili per i pescatori e gli agricoltori cambogiani. Ma, con i fiumi che si prosciugano e l’acqua potabile sempre più scarsa, la situazione non è mai stata così critica.
La mancanza d’acqua che ha colpito il paese negli ultimi mesi negli ultimi mesi è legata al riscaldamento del Pacifico meridionale provocato dal fenomeno meteorologico del Nino, ma non solo, e gli esperti temono che la crisi attuale possa diventare la normalità per la Cambogia e i paesi vicini.(…). Secondo la direzione generale per gli aiuti umanitari e la protezione civile della Commissione Europea, in Cambogia 18 province su 25 soffrono per la penuria d’acqua e più di 93.500 famiglie povere delle aree rurali sono colpite dalla siccità. Come quelle che vivono nei villaggi galleggianti sul lago Tonlè Sap, alimentato dai tributari del Mekong. (…) La siccità colpisce duramente anche i paesi vicini.
In Thailandia i contadini lottano contro la mancanza d’acqua e 21 persone sono morte durante una ondata di caldo. In Vietnam circa due milioni di persone non hanno acqua potabile a sufficienza. A causa del basso livello del fiume (il più basso in un secolo), l’acqua salata risale più del solito nella regione del delta del Mekong e ha già distrutto il 10% delle risaie del paese. Una crisi che interessa i quasi sessanta milioni di persone che vivono nella regione del basso Mekong, l’80% delle quali dipende dal fiume per sopravvivere.
Questa situazione è causata dal clima, ma anche dall’aumento delle dighe sul fiume, che scorre attraverso la Cina, la Birmania, la Thailandia, il Laos, la Cambogia e il Vietnam. Nel tratto superiore del Mekong, in territorio cinese, ci sono già sei dighe e le comunità che vivono a valle ne hanno avvertito le conseguenze. Altre undici sono in fase di progettazione nel tratto basso del fiume, due in Cambogia e le altre in Laos, dove due sono in costruzione. (Internazionale n. 1156, 2 giugno 2016, pag. 30)
Legge contro l’obesità. Arriva dal Cile una delle leggi più drastiche per cercare di ridurre l’epidemia di persone sovrappeso o obese, che nel paese andino raggiungono un indice pari al 64,5 % degli abitanti. Qualcuno l’ha definita la norma anti Kinder sorpresa o anti Happy Meal, per citare due popolari prodotti destinati ai bambini che qui come in tutto il mondo sono citati tra le cause dell’obesità precoce.
In Cile più del 30% dei piccoli tra zero e sette anni soffrono di eccesso di peso. L’esigente legge 20.606 punta proprio sull’idea di informare i genitori per evitare problemi ai figli. Un primo aspetto della norma è legata all0informazione: i prodotti confezionati devono avere una etichetta che avverta sugli alti contenuti di zuccheri, sodio, grassi saturati e calorie. Se oltrepassano i limiti stabiliti dal ministero della sanità, è obbligatoria una etichetta speciale, nera con le lettere bianche, che già inizia a vedersi regolarmente nei super mercati.
Nessuno di questi prodotti, inoltre, potrà fare pubblicità destinata ai bambini e agli adolescenti, ed essi non potranno essere venduti o regalati nelle scuole. La dieta tipica dei cileni non è considerata salutare. Solo il 5% della popolazione si alimenta in forma adeguata e gli indici di obesità si concentrano nelle fasce più basse dal punto di vista socioeconomico. (SETTE n. 22, 3 giugno 2016, pag. 59)
Caccia all’oro e pericolo mercurio. Il governo di Lima, Perù, ha decretato lo stato di emergenza nella regione amazzonica di madre de Dios a causa degli alti indici di contaminazione di mercurio. Si stima che 50.000 persone, tra cui molti indios, possano entrare in contatto con il metallo e avere serie complicazioni di salute. La causa è la corsa all’oro nella regione. Estratto in forma illegale, l’oro viene separato dal terriccio lungo i fiumi grazie ad un procedimento nel quale è utilizzato il mercurio e i resti della lavorazione finiscono nelle acque.(SETTE n.22, 3 giugno 2016, pag.59)
Pillole e sciroppi: dove vanno a finire? Chi smaltisce pillole e sciroppi avanzati o scaduti in maniera corretta? Solo quattro cittadini su dieci, secondo l’Associazione persone con malattie reumatiche (apmar.it): i più li buttano nella pattumiera. «Eppure contaminano l’ambiente, soprattutto le acque; oltre a quelli che finiscono nella spazzatura , ci sono anche i medicinali che eliminiamo ancora attivi dall’organismo»,spiega Antonella Celano,presidente Apmar.«L’Osservatorio sull’impiego dei farmaci segnala un abuso, in particolare antinfiammatori e antibiotici. Inoltre il 70% degli italiani non controlla se ha già un farmaco in casa prima di farsene prescrivere uno nuovo: gli scarti aumentano e vengono smaltiti senza cautele, con alti rischi ambientali».
I principi attivi dispersi in suolo e acque possono ancora esercitare il loro effetto, con conseguenze per vegetali, animali e umani. Per questo Apmar, con Aifa, (agenzia farmaco.gov.it) lanca Green Health, campagna informativa per uso, conservazione e smaltimento consapevoli. «La regola è una: i medicinali vanno buttati solo nei contenitori davanti alle farmacie, dopo aver tolto confezioni di carta e blister di plastica o metallo. Nel dubbio, meglio chiedere al farmacista» (Io Donna, 4 giugno 2016, pag. 130)
Un elefante ucciso ogni 15 minuti. Gli USA vietano il commercio dell’avorio. Ma il bando non è ancora totale. In Africa i pachidermi erano 27 milioni, oggi sono 350mila. Dal 6 luglio negli Stati Uniti non sarà soltanto vietato importare le zanne degli elefanti (lo è da decenni) : si rischierà la galera anche commerciandole.
La differenza c’è. E pur non trattandosi d’un totale divieto – restano consentiti gli oggetti antichi più di un secolo, quelli che contengono meno di 200 grammi (i tasti dei pianoforti, varie armi da fuoco), i trofei dei cacciatori autorizzati (non più di due l’anno) e comunque si potrà commerciare l’avorio proveniente dagli elefanti asiatici che non siano a rischio estinzione, dai rinoceronti, dai trichechi e perfino dalle balene – però è un primo passo: una volta che l’oro bianco è entrato illegalmente negli Stati Uniti, perché di fatto entra, è poi impossibile capire se una palla di biliardo o il manico di un coltello siano fatti di materiale recente oppure vecchio, importato quando era permesso. (Corriere della Sera, 5 giugno 2016, pag. 25, con mappa dei traffici illegali).
I grandi conflitti di natura globale. (…) Un primo tentativo di mappatura a livello globale è stata fatta nel progetto Ejatlas, l’Atlante globale di giustizia ambientale. Il progetto è codiretto da Leah Temper e Joan Martinez Alier e coordinato da ormai 5 anni dall’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale dell’Università di Barcellona, in collaborazione con molte altre organizzazioni e singoli cittadini da circa 100 paesi. Ad oggi ha mappato più di 1700 casi di conflitti relazionati a attività estrattive, produttive e di smaltimento dei rifiuti e continuerà nei prossimi anni per includere aree e casi ancora poco conosciuti. (…).L’Italia ha contato su una rete di collaboratori e un lavoro di coordinamento di Cdca-A Sud per la produzione di una mappatura nazionale , con oltre 80 casi di conflitti e resistenza nel nostro paese (…) (Il Manifesto, 5 giugno 2016, pag. 6, con una mappa dell’Atlante)
Stallo sul glifosato, palla a Bruxelles. Il comitato di esperti dei 28 paesi rinvia per la terza volta il voto sull’erbicida. (Il Manifesto, 7 giugno 2016)
Il fallimento del glifosato. Le Monde, Francia. Il glifosato è un po’ come gli istituti finanziari statunitensi durante la crisi del 2008: too big to fail, troppo grande per fallire. Il principio attivo dell’erbicida Round Up è il pesticida più usato al mondo. Creato una quarantina di anni fa dalla Monsanto è diventato la base del modello agricolo dominante. Oggi se ne consumano 800mila tonnellate all’anno. Il glifosato è ovunque. E’ il prodotto chimico di sintesi più frequentemente rilevato nell’ambiente e il principale responsabile del declassamento delle fonti idriche in Francia. Ma anche se è too big to fail, il glifosato è comunque sull’orlo del fallimento.
Nel marzo del 2015 l’Agenzia Internazionale per la ricerca sul cancro lo ha classificato come «probabilmente cancerogeno» per gli esseri umani, proprio quando l’Unione europea voleva rinnovare l’autorizzazione alla sua commercializzazione. La reazione della società civile ha sorpreso tutto il mondo politico, a Bruxelles e nelle capitali europee. La Commissione europea pensava che per decidere il futuro del glifosato sarebbe bastato un semplice comitato tecnico. Non è andata così. Per tre volte non è stata raggiunta la maggioranza qualificata necessaria a rinnovare l’autorizzazione per 15 o 9 anni. Il 6 giugno è stata bocciata anche una prorha a 18 mesi. Francia Germania, Italia, Grecia e Portogallo si sono astenuti, sotto la spinta di un’opinione pubblica sempre più sensibile ai danni provocati dall’abuso di prodotti fitosanitari.
Ma c’è da dubitare che questi governi siano davvero preoccupati per l’ambiente e la salute. Per eliminare il glifosato senza sostituirlo con prodotti altrettanto dannosi serve un profondo rinnovamento del modello agricolo dominante, un progetto serio che permetta agli agricoltori di fare a meno di questo pesticida miracoloso. Invece i governi europei non hanno previsto nulla del genere e si aspettano che Bruxelles si assuma la responsabilità di una decisione che accetterebbero senza problemi. Così si rischia di rafforzare ulteriormente la sfiducia che circonda l’Unione e spinge i paesi europei a chiudersi in se stessi. (Internazionale n.1157, 10 giugno 2016, pag. 19).
Al via la super-mega diga. Alla fine, non c’è (ovviamente) polemica ambientalista che tenga: la nuova più grande diga del mondo si farà. Nella repubblica Democratica del Congo, i lavori di Inga 3 (dopo la 1 e la due) partiranno in pochi mesi. Delle 11 aziende in gara per i lavori, che varranno 12 miliardi di euro, ne sono rimaste tre: alle cascate Inga realizzeranno la diga e una centrale elettrica da 4800 megawatt, il doppio dell’attuale capacità produttiva. Una manna per le miniere della regione, sempre a corto di energia. Con le fasi successive, il progetto dovrebbe arrivare a produrre 50mila MW, il 40% del fabbisogno dell’intero continente. Certo, 35.000 persone dovranno essere spostate, per non parlare dell’impatto sulla natura del fiume Congo. Un conto pesante. (SETTE n.23, 10 giugno 2016, pag.59)
Così muore la barriera corallina. Il cambiamento climatico rischia di modificare per sempre la barriera. Da mesi gli esperti studiano lo sbiancamento delle barriere coralline che ha raggiunto il suo record negativo storico. Il fenomeno distruttivo colpisce l’intero ecosistema ed è legato all’aumento della temperatura dell’acqua. Un sondaggio aereo condotto dal National Coral Bleaching Taskforce sulla Grande Barriera Corallina , in Australia, ha preso in esame 520 barriere lungo oltre 600 miglia di costa, nella punta settentrionale del Qeensland, nel tratto di costa compreso tra Cairns e lo Stretto di Torres, rivelandone il peggior sbiancamento mai registrato delle scogliere, con la conseguente morte dei coralli.
E’ un fenomeno che cambierà la Grande barriera Corallina per sempre, ha spiegato il biologo marino Terry Hughes. Lo sbiancamento dei coralli colpisce le barriere coralline e i loro ecosistemi. Il colore caratteristico dei diversi coralli è prodotto da un alga e diventa più vivo a seconda della concentrazione del microorganismo. A fronte di una alterazione dell’ecosistema, i polipi del corallo espellono l’alga simbiotica, con il risultato di fornire alla struttura calcarea una colorazione sempre più pallida e sfumata sino ad arrivare, nei casi più gravi, allo sbiancamento vero e proprio. (SETTE n.23, 10 giugno 2016, pag. 110)
La pietra blu dei taliban. L’estrazione illegale dei lapislazzuli favorisce la presenza dei taliban nel Badakhshan, una regione tradizionalmente tranquilla al confine con il Tagikistan. La battaglia tra i signori locali, emersi durante la guerra contro i sovietici, negli anni ottanta, per il controllo dei giacimenti della pietra blu, ha creato un clima di insicurezza che i taliban sfruttano a loro vantaggio. E’ l’allarme lanciato dall’organizzazione britannica Global Witness nel rapporto pubblicato il 5 giugno dopo due anni di indagini. La promessa del governo di Kabul di controllare il traffico di lapislazzuli imponendo un embargo sull’estrazione e il trasporto ha avuto un effetto limitato. Invece di finire nelle casse vuote dello stato, le rendite dei lapislazzuli sono una nuova fonte di finanziamento per i taliban. (Internazionale 1157, 10 giugno 2016, pag. 34)
La chimica delle lobby. Gli interferenti endocrini si trovano nei cosmetici e nei pesticidi e possono provocare malattie gravi. Ma da anni la Commissione europea blocca la regolamentazione di queste sostanze. E’ uno dei segreti meglio conservati d’Europa. Ed è tenuto sotto chiave da qualche parte nei corridoi della Commissione europea, in una stanza sorvegliata dove possono entrare solo una quarantina di funzionari accreditati e muniti unicamente di carta e penna. I cellulari vengono confiscati. Sono misure di sicurezza ancora più rigide di quelle previste per consultare i documenti del trattato di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti (Ttip).
Questo segreto è un rapporto di circa 250 pagine, nel gergo della Commissione europea uno “studio d’impatto”. La ricerca valuta le conseguenze “socioeconomiche” della regolamentazione di una famiglia di inquinanti chimici. Gli interferenti endocrini possono interferire con gli ormoni delle specie animali, compreso l’essere umano, e sono sospettati di essere all’origine di molte malattie gravi: tumori ormono-dipendenti, infertilità, obesità, diabete, disturbi neurocomportamentali.
Queste sostanze si trovano in moltissimi oggetti di uso comune come cosmetici, pesticidi e sostanze plastiche, per esempio il bisfenolo A. Nel medio periodo la loro regolamentazione interesserà interi settori dell’industria. In gioco ci sono miliardi di euro. La prospettiva di eventuali restrizioni o divieti preoccupa il mondo dell’industria. Il settore dei pesticidi in particolare non ha mai nascosto la sua ostilità a determinate disposizioni del regolamento europeo sui «prodotti fitofarmaceutici».
Adottato nel 2009, il regolamento riserva un trattamento speciale ai pesticidi: quelli riconosciuti come interferenti endocrini non saranno più autorizzati sul mercato. Il problema è come individuarli. La Commissione doveva quindi trovare il modo per distinguere gli interferenti endocrini dalle altre sostanze chimiche e definire i criteri che avrebbero permesso di identificarli. Senza questi criteri la legge non può essere applicata. Le autorità sanitarie nazionali, le aziende e le ong aspettano una decisione una decisione imminente su questi criteri di identificazione , che permetteranno di ridurre l’uso degli interferenti endocrini o addirittura di vietarne alcuni. Ma a sette anni dall’approvazione del regolamento i criteri non sono stati ancora definiti. Il principale responsabile del ritardo è proprio lo studio d’impatto e le sue conclusioni apparentemente confidenziali.
Lo studio è stato espressamente richiesto dal settore industriale per rendere meno vincolante la regolamentazione ed è stato ottenuto grazie ad una offensiva congiunta della lobby delle industrie dei pesticidi e della chimica all’inizio dell’estate del 2013. Le principali protagoniste di questa iniziativa sono state le loro organizzazioni di lobbying aa Bruxelles . l’Associazione europea di protezione delle colture (Ecpa) e il Consiglio europeo dell’industria chimica (Cefic). Molto attivi sono stati anche i giganti dell’agrochimica , come le aziende tedesche Basf e Bayer e la multinazionale svizzera Syngenta. (Stèphane Horel, Le Monde, Francia, testo integrale in Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag.50) [Sugli effetti di queste sostanze in particolare, vedi Marie-Monique Robin, il veleno nel piatto, Feltrinelli, pag. 333-403, N.d.R]
Anatomia di un incendio. Cosa è accaduto a Fort McMurray in Canada nel mese di maggio. (testo integrale in Internazionale n.1157, 10 giugno 2016, pag.61-64)
Le larve del pesce persico ingeriscono la microplastica presente nell’acqua degli oceani. Secondo Science, questo ne rallenta lo sviluppo e ne altera il comportamento, rendendo le larve una facile preda. Inoltre, la microplastica riduce la percentuale di uova di persico che si schiude. (Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag. 108)
Secondo il Wwf, gli elefanti della riserva di Selous, in Tanzania, potrebbero estinguersi entro il 2022 se il bracconaggio continuerà ai ritmi attuali. (Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag.110)
Sei anni prima dell’abbandono totale del nucleare (previsto per il 2022), il governo tedesco ha adottato un progetto di legge che limita lo sviluppo delle energie rinnovabili modificando il sistema di incentivi. Le sovvenzioni sistematiche per chilowattora lasciano il posto a gare di appalto nei diversi land. La misura, che dovrà passare in parlamento, è stata varata per ridurre i costi transizione energetica, giudicando il settore pronto per una maggiore autonomia. (Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag. 110)
Airbag esplosivi. Takata, azienda giapponese leader mondiale nella produzione di airbag, è al centro di uno di più grandi casi mai registrati di ritiro di prodotti difettosi, scrive Bloomberg Businessweek. «Il caso riguarda più di sessanta milioni di airbag montati sulle autovetture di Bmw, Honda, Ford, tesla, Toyota e di altre dodici case automobilistiche, e comunque su un quinto delle auto in circolazione negli Stati Uniti. In tutto il mondo potrebbero essere coinvolti più di cento milioni di veicoli».
Gli airbag hanno un difetto che rischia di farli esplodere, lanciando schegge pericolose per l’incolumità dell’autista e dei passeggeri. «Finora questi airbag hanno provocato 13 morti, di cui 10 negli Stati Uniti, e il ferimento di cento persone». Una commissione d’inchiesta del sanato statunitense ha svelato dei documenti da cui risulta che i vertici della Takata hanno a lungo sottovalutato gli avvertimenti lanciati dai loro tecnici. L’azienda, inoltre, avrebbe nascosto il problema alla Honda, il suo cliente principale, e alle autorità statunitensi. Ora potrebbero volerci tre anni prima che gli airbag difettosi vengano sostituiti. (Internazionale n.1157, 10 giugno 2016, pag.117).
Quella tragica “partita” tra minatori e carbone. Settant’anni fa. Una partita di livello europeo, tra Italia e Belgio, venne inaugurata esattamente settant’anni fa , il 23 giugno 1946. Niente di sportivo, fu una partita tragica. Per la verità, si presentò come un accordo. Il nostro governo prometteva alle autorità di Bruxelles di inviare in Belgio, al ritmo di 2000 alla settimana, almeno 50.000 giovani (di età inferiore ai 35 anni), da destinare al lavoro sotterraneo nei distretti carboniferi della Vallonia e delle Fiandre.
Ogni 1000 minatori “trasferiti”, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Per favorire l’arruolamento dei figli della miseria contadina, i paesi e le città, da Nord a Sud, furono tappezzati di manifesti rosa che invitavano ad andare. La repubblica italiana fu fondata su uno scambio tra uomini e carbone. Nel giro di un decennio sarebbero partiti ben più dei 50.000 giovani: punto di raccolta piazza Sant’Ambrogio a Milano, visite mediche sotto la stazione centrale, viaggio in convogli organizzati ad hoc: e dal giorno dopo, senza formazione, quei ragazzi sarebbero sprofondati nel cuore della terra, anche oltre i mille metri, per picconare la roccia, strisciare dentro i cunicoli, guidare i muli nelle gallerie, caricare e scaricare, usare l’esplosivo.
Lavoro terribile su cui i manifesti rosa sorvolavano, mentendo sulle condizioni di vita (gli “appartamenti” erano le baracche degli ex prigionieri di guerra. Sorvolano anche sulla sicurezza e i rischi, anche se i minatori italiani constatarono subito la frequenza degli incidenti e delle vittime. Ma l’8 agosto 1956 fu una catastrofe e dei 262 minatori morti a Marcinelle oltre la metà, (156), erano italiani. Da quel giorno le cose cambiarono, : gli italiani non erano più i “macaronì” cui era vietato l’accesso nei locali pubblici, divennero uomini morti non solo per se stessi e per le proprie famiglie, ma anche per risollevare della patria, di un paese straniero la cui manodopera non aveva voglia di consegnarsi al macello della miniera, di un intero continente prostrato dalla guerra. Stasera, prima che l’arbitro fischi l’inizio di Italia –Belgio, l’Europa dovrebbe per un momento ancora tener fuori la testa dal pallone per ricordare quei morti che furono (che sono) di tutti. (Corriere della Sera, 13 giugno 2016, pag. 35)
Iberdrola vende i parchi eolici e lascia l’Italia. Il gigante spagnolo delle rinnovabili Iberdrola si appresta a lasciare il mercato italiano dell’energia. Il gruppo di Bilbao, assistito da Unicredit e dai legali di Chiomenti, ha infatti firmato ieri l’accordo per la cessione del 100% dell’ultimo asset che possedeva nella penisola. Si tratta della Ser, la società che controlla una diecina di parchi eolici tra Sicilia e Puglia, per una potenza installata di circa 245 megawatt che ne fanno uno dei presidi più importanti nella penisola. Compra il fondo inglese Glennmont che invece in Italia è al debutto e ha valorizzato le rinnovabili di Iberdrola circa 400 milioni, debito incluso.
La Ser, acronimo di Società energie rinnovabili, è quella stessa azienda che nove anni fa aveva fatto da cornice all’alleanza tra il gruppo catalano dell’energia verde e la Api della famiglia Brachetti Peretti, con il 50% a testa. La joint venture era nata per realizzare 300 megawatt di impianti nel Sud d’Italia ed è stata archiviataquattro mesi fa dagli industriali che hanno venduto il loro 50% alla stessa Iberdrola. L’operazione del valore di 190 milioni, aveva riportato al centro della strategia Api la lavorazione del greggio e la distribuzione di prodotti raffinati.
D’altronde la missione della Ser era compiuta. La decisione del gruppo presieduto da Ignacio Galan di lasciare l’Italia era coerente con la strategia di concentrare le forze in Spagna. Al momento dell’acquisto delle quote dalla Api, Iberdrola in realtà aveva già ricevuto la manifestazione di Glennmont e ha esercitato la prelazione sulla quota del 50% di Api che sul fronte delle rinnovabili mantiene comunque un presidio nel fotovoltaico e nelle biomasse. (Corriere della Sera, 15 giugno 2016, pag.37)
Il fiore salva api. I semi della “facelia” ceduti gratis e piantati dai contadini emiliani. In Emilia, a San Lazzaro di Savena, è partito un progetto salva api. Un fiore viola potrebbe contribuire a salvare le api dall’estinzione. E’ tutto italiano il progetto di Coldiretti, partito in questi giorni nella campagna di San lazzaro di Savena, alle porte di Bologna. La più grande azienda sementifera italiana, la Sis (Società Italiana Sementi), società al 100% italiana, controllata dai Consorzi Agrari regalerà a tutti i coltivatori di mais una partita di semi di facelia che loro si sono impegnati a far crescere. Perché proprio la facelia? Non solo perché è spettacolare per via della inflorescenza viola, ma perché è una pianta mellifera molto nutriente per le api che vanno ghiotte del suo polline (…). (Corriere della Sera, 17 giugno 2016, pag. 21)
Interferenti endocrini. Dopo più di due anni di attesa la Commissione europea ha reso noti i suoi criteri per identificare gli interferenti endocrini, sostanze chimiche presenti in molti prodotti, che possono fare male alla salute. Secondo la definizione della commissione, un interferente endocrino è un a sostanza che agendo sul sistema ormonale, ha effetti indesiderati sulla salute umana scientificamente provati. Il fatto che non siano considerati anche gli effetti sugli animali, in natura e in laboratorio, ha sollevato accese polemiche. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag.97).
L’atlante delle luci nella notte. Un terzo dell’umanità non riesce a vedere la Via Lattea di Notte, scrive Science Advances. Un nuovo atlante mondiale della luminosità artificiale del cielo notturno mette in evidenza quali sono le zone con più inquinamento luminoso. Il paese più colpito è Singapore, seguito da Kuwait e Qatar. Le notti sono ancora buie in Ciad, Repubblica Centrafricana e Madagascar. Tra i paesi del G20 l’Italia è il più inquinato. L’inquinamento luminoso può avere conseguenze sulla salute e sull’ambiente ed è spesso indice di sprechi energetici. (Internazionale n. 1157, 17 giugno 2016, pag.97) [Vedi anche Corriere della Sera del 15 giugno 2016, pag.23; N.d.R]
Il gas serra che si fa roccia. E’ stato sperimentato con successo un metodo per assorbire in modo permanente l’anidride carbonica presente nell’aria. L’aumento di questo gas nell’atmosfera provoca l’effetto serra e il riscaldamento del pianeta. Per ridurne la quantità, scrive Science, è possibile iniettare il gas all’interno di rocce basaltiche sotterranee, a una profondità tra i 400 e gli 800 metri. In meno di due anni, l’anidride carbonica si trasforma in roccia. A differenza di altre tecniche, non ci sono rischi di fughe di gas, perché le nuove rocce sono stabili. Il test è stato condotto in Islanda, ma le rocce basaltiche sono presenti in molti paesi. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag. 97).
Le autorità canadesi hanno annunciato che l’enorme incendio che ha devastato per sei settimane la provincia dell’Alberta, in Canada, è sotto controllo. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag. 98)
Barriere coralline. Per tre anni la Nasa terrà sotto stretta osservazione aerea le barriere coralline di Hawaii, Palau, isole Marianne e Australia. Con i dati raccolti dallo spettrometro Prism, montato su aerei che volano ad alta quota, verranno costruite delle mappe utili a studiare gli effetti sui coralli del riscaldamento globale e dell’inquinamento. Si stima che lo sbiancamento dei coralli causato dall’aumento delle temperature abbia già ucciso più di un terzo della Grande Barriera Corallina Australiana. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag.98)
Il valore dell’avorio. L’immissione, nel 2008, di tonnellate di avorio legale sul mercato internazionale ha incentivato il mercato nero, incoraggiato il bracconaggio e provocato la morte di migliaia di elefanti. Secondo il Washington Post, i dati dimostrano che un’altra vendita come quella sarebbe molto rischiosa.
Il commercio di avorio era stato proibito nel 1989, ma nl 2008, in via sperimentale, è stata permessa un’asta di avorio ottenuto legalmente. Cina e Giappone ne hanno comprato più di cento tonnellate da Zimbabwe, Namibia e Botswana, che avevano raccolto le zanne degli animali morti per cause naturali. Ora Zimbabwe e Namibia vorrebbero ripetere l’esperienza. Tuttavia, secondo uno studio, l’asta del 2008 è diventata una copertura per il commercio illegale: il bracconaggio è aumentato del 66% e il mercato nero del 71%. Non succede sempre così, ricorda il quotidiano.
Gli allevamenti di coccodrilli, per esempio, sono riusciti a soddisfare la domanda e ad abbassare i prezzi, così tanto da mettere fuori mercato i bracconieri. Per gli elefanti è diverso: non è possibile allevarli e la quantità d’avorio prodotta in modo naturale non soddisfa la domanda. Intanto su Nature il ricercatore Duan Biggs si chiede se la distruzione dell’avorio illegale sia davvero efficace contro il mercato nero. Di recente il governo del Kenya ne ha bruciato 105 tonnellate , che avevano un valore di 220 milioni di dollari. Non si rischia di far diventare l’avorio ancora più raro, facendo salire i prezzi? (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag. 98).
Il cambiamento climatico potrebbe aver causato la prima estinzione di una specie di mammiferi. Un’èquipe di ricerca non ha più trovato tracce del Melomys rubicola,un roditore che vive su un isola dello stretto di Torres, tra l’Australia e la Nuova Guinea. (Internazionale n.1158, 17 giugno 2016, pag.98)
Quei lapislazzuli sono come i “diamanti insanguinati”. Diecimila miniere fuori dal controllodel governo. E finanziatrici, con il loro tesoro, dei talebani. Così, secondo la ong Global Witness (che ha investigato per due anni), i lapislazzuli sono diventati come i “blood diamonds” : minerali insanguinati. In Afghanistan , e in particolare nella remota provincia del Badakhshan, ci sono le riserve più grandi del mondo del “tesoro blu”, fra uno e tre trilioni di euro di valore. È da qui che presero la strada della Mesopotamia, dell’Egitto e nel Medioevo anche dell’Europa. Ora i principali giacimenti sarebbero fuori dal controllo di Kabul, proprietario di tutte le risorse ; ad essersene appropriato da due anni è il “signore della guerra” Abdul Malik, che incassa una fortuna ma sua volta paga tangenti ai talebani per 20 milioni di euro all’anno. Per la ong londinese, la prima cosa da fare sarebbe di dichiarare i lapislazzuli afghani “conflict minerals”, in modo da cominciare a controllarne il commercio. (SETTE n.24, 17 giugno 2016, pag.57)
Obesità e carburante. Negli ultimi 40 anni il peso delle persone è cresciuto di circa sei chili a testa, per un totale di 44 milioni di tonnellate. Lo dice la rivista The Lancet: dal 1975 al 2014 le perone obese sono passate da 105 a 641 milioni. Secondo i calcoli di Sheldon Jacobson, ingegnere dell’Università dell’Illinois, ogni anno le auto private americane consumano 4,3 miliardi di litri di carburante in più a causa dell’aumento di peso di conducente e passeggeri dal 1960 a oggi. (SETTE n. 24, 17 giugno 2016, pag.33)
Fasce orarie per slot machine. Il gioco d’azzardo fa entrare nelle casse dello stato italiano circa 9 miliardi di euro ogni anno. Nel nostro paese ci sono più di 400mila slot machine. Nel 2015 è stato calcolato un volume di affari che sfiora gli 88 miliardi di euro, pari al 4% del Pil, il prodotto interno lordo: 46 miliardi arrivano dalle slot machine e dai videopoker, 26 dalle lotterie e 16 dal gioco on line. Ci sono migliaia di persone che, inseguendo il sogno di cambiare la propria esistenza con vincite milionarie, si sono rovinate. La passione si trasforma spesso in una vera e propria ossessione, fa passare in secondo piano il lavoro, la famigli gli amici.
Una vera e propria dipendenza patologica , che come dimostrano numerosi studi, si associa ad altre dipendenze come quelle dalle sostanze stupefacenti e dagli alcolici, ma anche a disturbi psichiatrici e dell’umore. Ecco perché sarebbe opportuno estendere a tutta l’Italia le norme approvate alla fine di maggio dalla giunta comunale di Bergamo. Si tratta di un vero e proprio “Regolamento per la prevenzione e il contrasto delle patologie e delle problematiche legate al gioco d’azzardo. (…). (Io Donna, 18 giugno 2016, pag.66)
Un milione di ettari di oceano protetti. Il nuovo Tun Mustapha Park è la più grande riserva marina della Malesia, all’interno del delicatissimo Coral Triangle, una delle zone di maggiore concentrazione di coralli del Borneo (oltre 250 specie). L’obiettivo? Salvare l’ecosistema di pesci, alghe e mangrovie. Ma anche le popolazioni che lo abitano. (Io Donna, 18 giugno 2016, pag. 130).
Tanto solare, ma mai collegato. L’energia solare in Cile è talmente abbondante ed efficiente che i prezzi sono rapidamente arrivati a zero in alcune regioni, dissuadendo dunque gli operatori da nuovi investimenti. E’ il caso del nord semidesertico del paese, dove la crescita economica e soprattutto la fame di energia del settore minerario avevano spinto alla costruzione di 29 parchi solari e a prevederne altri 15. E’ successo invece che il rallentamento dell’attività e l’efficienza del sistema hanno portato in breve tempo ad un eccesso di produzione e di offerta di energia.
Gli investitori stanno perdendo denaro ed è improbabile che si impegnino nel resto del paese, dove invece c’è ancora domanda di solare. Uno dei problemi principali del Cile, un paese lungo e stretto, è che le reti elettriche tra il nord e il resto del paese non sono interconnesse. Quindi il surplus di produzione di energia non può “viaggiare” . Il governo ha promesso di risolvere il problema nei prossimi anni con la costruzione di una linea di oltre 700 chilometri. (SETTE n.24, 17 giugno 2016, pag.55)
Perché piove così tanto in Italia? Nel mese in cui gli italiani si aspettano il sole e sognano il mare, il Nord ( e la Lombardia in particolare), è attraversato da nubifragi e temporali. Il lago di Como è esondato, con i turisti costretti a camminare nell’acqua nella centralissima Piazza Cavour. Piogge violente si sono abbattute su Monza, sulla Bergamasca, sul Lecchese. Giovedì a Venezia è tornata l’acqua alta: 117 centimetri sul livello medio del mare. Dal 1872 (quando sono iniziate le misurazioni), c’è un solo precedente simile a giugno, nel 2002. Infine le mareggiate: ieri hanno colpito la costa romagnola, tra Ravenna e Cervia, e quella ligure.E il maltempo è costato al litorale veneziano un calo intorno al 15% dei turisti di giugno. Intanto al Sud è scoppiata l’estate e la Sicilia brucia. Nel palermitano le temperature superano i 40 gradi.
I nubifragi. Tra le città più battute dalla pioggia tra maggio e questa prima metà di giugno c’è il capoluogo lombardo. “ Dal 21 marzo a giovedì la stazione di Corsico ha registrato 315 millimetri di precipitazioni – spiega Lorenzo Craveri, agrometeorologo dell’Agenzia regionale per l’ambiente della Lombardia – A Cinisello Balsamo 327, in quella del Parco Lambro addirittura 428. La media del quindicennio da 1990 al 2015, quindi già con gli effetti dei cambiamenti climatici in atto, era di circa 250 millimetri. E non devono trarre in inganno i due giorni di tregua apparente: nei prossimi giorni torneranno i temporali.(…)
Le anomalie.Eppure c’è qualcosa che non torna nel clima degli ultimi mesi. “L’anomalia c’è su un arco temporale più ampio, – prosegue Sanò, direttore del portale Ilmeteo.it – Da novembre dell’anno scorso abbiamo avuto un inverno praticamente inesistente, con temperature molto miti. Al Sud addirittura non è mai arrivato e anche al Nord le medie sono state più alte del normale di 5-6 gradi. Poi la primavera che ha zoppicato e oggi l’Italia è divisa in due. Il Sud registra un ondata di caldo intenso, mentre al Nord rimangono temporali e fresco, almeno fino all’inizio della prossima settimana. Infine la tendenza, che si è consolidata negli ultimi venti anni, al moltiplicarsi di fenomeni temporaleschi intensi e di breve durata, che una volta erano rari. Cambiamenti legati a ciò che i climatologi chiamano “estremizzazione del clima”.
Temporali tropicali. “Al di là della quantità totale di acqua caduta, conta il modo: i rovesci sono improvvisi, intensi e brevi. Assomigliano sempre di più a temporali tropicali – conferma Federico Antognazza, ingegnere ambientale dell’Italian Climate Network – il surriscaldamento globale porta cambiamenti specifici a livello locale ed eventi meteorologici tipici di zone più calde iniziano a verificarsi pure alle nostre latitudini. Anche il caldo che in queste settimane si è alternato alla pioggia si spiega così: sulle Alpi ghiacci e neve si sciolgono, diminuisce la superfice riflettente, e il calore della radiazione a terra sale in fretta: per questo le temperature tornano ad aumentare subito”. Se la pioggia raffredda la primavera, la febbre del Pianeta non accenna a guarire.. ( Elena Tebano, Corriere della Sera, 18 giugno 2016, pag.20, con foto)
Interferenti endocrini, la definizione di Bruxelles. Abbandonando il principio di precauzione, la Commissione europea chiede prove certe per vietare le sostanze che agiscono sul sistema ormonale Una scelta che fa discutere. Il 15 giugno la proposta finale della Commissione europea sulla regolamentazione degli interferenti endocrini ha sorpreso tutti. La commissione ha deciso che per poter definire una sostanza un “interferente endocrino” servono prove certe dei suoi effetti nocivi sulla salute umana, un livello di prova della pericolosità molto difficile da raggiungere , secondo alcuni addirittura impossibile. Le promesse di restrizioni e di divieto previste nel regolamento che disciplina la vendita di pesticidi in Europa potranno essere mantenute con il contagocce.
Negli ultimi 25 anni sono stati accumulati dati preoccupanti sui prodotti chimici che interferiscono con il sistema ormonale (endocrino) degli esseri viventi. Si tratta di sostanze presenti in molti prodotti di largo consumo (come plastiche, cosmetici, vernici) e si sospetta che contribuiscano all’aumento di diverse patologie, come l’infertilità o alcuni tumori, e che interferiscano con lo sviluppo cerebrale. Molti studi hanno cercato di quantificare il costo per la collettività delle malattie legate agli interferenti endocrini. Le stime oscillano tra i 157 e i 288 miliardi di euro all’anno in Europa.
Ma questi dati non sembrano aver avuto molta importanza nello studio di impatto socioeconomico della commissione. Per regolamentare gli interferenti endocrini la commissione propone infatti di adattare la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2002. Questa scelta implica non solo che gli effetti nocivi di una sostanza devono essere dimostrati e devono coinvolgere il sistema ormonale, ma devono anche essere “pertinenti” rispetto alla salute umana. Il problema è che alcuni segnali di allarme vengono dal mondo animale e non sono tutti necessariamente “pertinenti” nel senso voluto dalla commissione. L’imposex, per esempio, è un disturbo endocrino che provoca lo sviluppo del pene nelle femmine di buccino (un tipo di mollusco). E anche se non è stato osservato finora nessun problema equivalente negli esseri umani, è stato comunque lanciato l’allarme sugli interferenti endocrini della famiglia degli stannani (composti metallorganici)., che sono all’origine della malformazione.
«La Commissione europea ha messo la barra così in alto che sarà difficile arrivarci, anche se le prove scientifiche dei danni ci sono», ha osservato in un comunicato l’Endocrine Society, la società scientifica degli endocrinologi, che ha 18mila iscritti in 120 paesi, e che parla di un “fallimento per la salute pubblica”. Anche le ong sono critiche: «Il livello di prova della pericolosità è così elevato che ci vorranno anni di problemi della salute prima di poter ritirare dal mercato» un interferente endocrino, osserva Lisette van Vilet dell’Associazione Heal, che rappresenta più di 70 ong nel settore della sanità e dell’ambiente in Europa. (…) (Stéphane Horel, Le Monde, Francia; Internazionale n. 1159, 24 giugno 2016, pag.102). [La proposta sarà ora sottoposta al vaglio dei 27 paesi membri, prima di tornare al parlamento europeo per l’approvazione, N.d.R.]

«Agrochimica. La tedesca Bayer compra la statunitense Monsanto per 66 miliardi di dollari. Agricoltori e ambientalisti: "Biodiversità a rischio". Cia e Coldiretti: con il monopolio i prezzi potrebbero salire. Greenpeace mette in guardia sulla diffusione del glifosato». Il manifesto, 15 settembre 2016
Il matrimonio alla fine è andato in porto: la tedesca Bayer ha acquisito la statunitense Monsanto per 66 miliardi di dollari. Nasce così un colosso dell’agrochimica che secondo le associazioni dei coltivatori e gli ambientalisti minaccia di costituire un oligopolio, se non in alcuni casi un vero e proprio monopolio, nel campo delle sementi, dei fitofarmaci e degli Ogm. Già Bayer controllava il mercato dei pesticidi, mentre Monsanto quello delle sementi: la fusione porterà il nuovo gigante al 24% e al 29%dei due rispettivi comparti. Settori chiave non solo per l’agricoltura, ma anche per la sicurezza del nostro cibo.
Si tratta della maggiore acquisizione aziendale da parte di una società tedesca all’estero. Bayer prevede che l’operazione inciderà in positivo sugli utili a partire dal primo anno pieno dopo la chiusura, prevista entro la fine del 2017, e ritiene di realizzare sinergie su costi e vendite per 1,5 miliardi di dollari a partire dal terzo anno. La convenienza finanziaria e industriale è insomma evidente, agendo le due multinazionali in mercati perfettamente integrabili. Più preoccupati appaiono, al contrario, gli operatori del settore agricolo, che a questo punto temono ad esempio il rialzo dei prezzi.
«La fusione tra i due colossi sposterà sicuramente gli equilibri di mercato – commenta il presidente della Cia-agricoltori italiani, Dino Scanavino – Noi monitoriamo con occhio vigile su quello che più ci interessa, ovvero che non sussistano elementi per la creazione di un vero e proprio monopolio di mercato delle sementi, della chimica e dei mezzi tecnici necessari ai produttori».
Secondo Coldiretti, «Monsanto è stata spinta a vendere dallo storico flop delle semine Ogm, crollate del 18% in Europa nel 2015 e per la prima volta arretrate a livello mondiale, con 1,8 milioni di ettari coltivati in meno. È la conferma della crescente diffidenza dei produttori nei confronti di una tecnologia che non rispetta le promesse miracolistiche».
Il matrimonio tra i due colossi della chimica «genera – prosegue Coldiretti – una posizione di oligopolio che aumenta anche lo squilibrio di potere contrattuale nei confronti degli agricoltori. È evidente la necessità per l’Italia di salvaguardare il patrimonio unico di biodiversità di cui dispone con un maggiore impegno nel presidio di un settore determinante per la difesa dell’ambiente ma anche per la competitività del made in Italy».
«C’è il rischio di un possibile incremento dei prezzi delle sementi per gli agricoltori, ma non nell’immediato», conferma Felice Adinolfi, docente di Economia e politica agraria all’Università di Bologna. Adinolfi aggiunge che c’è però «ancora un’incognita per il via libera definitivo»: nel contratto, le cui trattative erano iniziate a maggio scorso, è stata concordata una penale di 2 miliardi di dollari nel caso in cui arrivasse lo stop dell’Antitrust Usa.
Il timore, quindi, non riguarda solo gli operatori economici – preoccupati dalla restrizione della concorrenza e costretti di fatto a rivolgersi a un fornitore unico – ma anche le associazioni ambientaliste e dei consumatori. Il nodo della biodiversità, infatti, impatta direttamente su quello che mettiamo in tavola, sulla nostra dieta.
Allarme anche da Greenpeace: la responsabile campagna Agricoltura sostenibile Federica Ferrario, proprio sul manifesto, aveva già in maggio evidenziato diversi pericoli: «Monsanto commercializza un erbicida, il glifosato, con il nome di Roundup: dopo una valutazione dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) è sospettato di provocare il cancro negli esseri umani, oltre che rappresentare un rischio grave per la biodiversità».
«L’esperienza – conclude Greenpeace – ci mostra che una maggiore concentrazione porta a: focalizzarsi e sviluppare solo poche colture e varietà (pericolo per la biodiversità); un probabile aumento del costo delle sementi; una maggiore pressione sugli agricoltori».
«Il comitato per il sì: "Se passerà la riforma costituzionale sarà più semplice cercare ed estrarre gas e petrolio"». Rifondazione.it, 13 settembre 2016 (c.m.c.)
«Il Comitato per il sì» fa sapere che, se passerà la riforma costituzionale, sarà finalmente possibile rilanciare le attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio nel nostro Paese.
Per fare questo, afferma il Comitato, occorre riportare la competenza legislativa sull’energia nelle mani dello Stato; in questo modo, si «delinea un quadro chiaro e preciso delle competenze esclusive dello Stato e delle Regioni» e si riduce, per conseguenza, anche il contenzioso davanti alla Corte costituzionale.
Un indisturbato rilancio delle attività petrolifere produrrebbe, inoltre, immediati benefici per i cittadini italiani, in quanto alleggerirebbe il costo delle bollette del gas e della luce e ci farebbe stare, in generale, più tranquilli: «senza petrolio e derivati» – dichiara il Comitato – «le nostre macchine non circolerebbero, e con esse la gran parte dei beni (anche di prima necessità) che nel nostro paese viaggiano su gomma». Per il Comitato, infine, tra i progetti strategici da realizzare vi è anzitutto quello della TAP (il megagasdotto che dalla Puglia attraverserà l’Italia intera).
Alcune osservazioni:
1) Ricordo che nei mesi che hanno preceduto la celebrazione del referendum NO Triv, Renzi dichiarava che nessuno volesse autorizzare nuove ricerche e nuove estrazioni, ma che fosse necessario “risparmiare energia”, e cioè consentire che si continuasse solo a spremere il giacimento fino in fondo. Evidentemente ora avranno cambiato idea.
2) Vero: l’energia, collegandosi strettamente alla politica economica del nostro Paese, non può essere materia di competenza legislativa concorrente Stato-Regioni.
E infatti non lo è mai stato: la legge n. 239 del 2004 l’ha attribuita allo Stato, nonostante la Costituzione dicesse il contrario. E la Corte ha detto che questa attribuzione fosse legittima, a patto che lo Stato consentisse alle Regioni (e agli Enti locali) di partecipare alle decisioni da assumere.
Quindi, quello che, in realtà, cambia con la riforma è questo: se passerà il «sì» sarà sempre possibile cancellare il diritto dei territori di poter decidere assieme allo Stato. E se passerà il «sì», le modifiche accolte nella legge di stabilità – con le quali il Parlamento ha stabilito che la partecipazione delle Regioni non dovesse essere solo di facciata – si andranno a far benedire.
3) La riforma non riduce il contenzioso; al contrario, lo inasprisce. Per più motivi (non è questa la sede per approfondire la questione) e per una ragione semplice, ovvia: è fisiologico che decidendo di modificare i confini tra ciò che spetta a me e ciò che spetta a te occorrerà fare nuovamente chiarezza. E a questo ci penserà appunto la Corte costituzionale.
Le lungaggini di cui parla il Comitato non sono dovute ai ricorsi pendenti dinanzi alla Corte costituzionale, ma, semmai, ai giudizi pendenti dinanzi al TAR. Ma, anche in questo caso, non sono tantissimi. E comunque raramente – anzi, direi: quasi mai – il TAR ha concesso la sospensiva del provvedimento.
Il Comitato discorre di «oltre 8200 leggi regionali esaminate dal Consiglio dei Ministri». Cosa c’entra questo con le lungaggini dei procedimenti amministrativi? Tutte le leggi regionali – nessuna esclusa – vengono esaminate dal Consiglio dei Ministri. Se poi ci si vuol dolere del fatto che le Regioni legiferino e che ricorrano alla Corte costituzionale per tutelare le proprie competenze, allora sopprimiamole direttamente: sarebbe meno ipocrita, credo.
4) Chi ha scritto l’articolo è un grande ignorante, in quanto ignora che la TAP non porterà gas nelle case degli italiani: si limiterà ad attraversare il nostro Paese per portare gas in Europa. Quindi non si vede in che modo le bollette dei cittadini sarebbero più leggere!
La Sardegna terra di conquista: per ottenere contributi pubblici e produrre energia da vendere altrove si distruggono risorse dell'agricoltura locale con l'intimidazione e l'esproprio. Resisterà la Regione autonoma? La Nuova Sardegna, 10 settembre 2016
È normale che la Sardegna possa sembrare la terra promessa ai nuovi speculatori dell'energia. Ai quali bastano quelle dei cacciatori di energia due o tre informazioni sull'isola ricattabile: spopolata, povera, in vendita: prezzi stracciati a qualche km dal mare. Ampia scelta di aree e in caso di difficoltà nell'acquisizione, una legge dello Stato (2003) per consentire agli acquirenti di alzare la voce. Pure nella Regione Autonoma. Bentornato Feudalesimo, avrà pensato EnergoGreen. La società decisa a provarci nell'isola, con un nome più domestico – Flumini Mannu –, rassicurante per i sardi notoriamente più indulgenti verso chi esibisce una parentela da queste parti (avranno saputo del successo strepitoso della birra con il marchio QuattroMori ?). Un ufficio a Macomer e via. Dal 2012 a caccia di terre tra le proteste delle comunità locali. Provarci. Come a Decimoputzu ( e non solo) dov'è grande lo sconcerto per l'iniziativa di Flumini Mannu: quando dici “non è possibile!”. Perché non è possibile quella distesa di specchi acchiappasole, circa 270 ettari coinvolti in piena campagna (tre volte i quartieri storici di Cagliari). Quanto basta per sconvolgere un paesaggio e pure il clima dei dintorni.
Ma la vera sorpresa non è un'azienda che fa il suo mestiere, quanto i risvolti della legislazione nazionale: accondiscendente verso questi impianti al punto di consentirne la realizzazione dovunque. Anche nelle zone dove non sono ammessi - in Sardegna come in altre regioni - usi diversi da quelli agricoli. Per cui non conterebbe nulla la pianificazione locale; e neppure il buon senso: la disponibilità di zone industriali dismesse, adatte ad accogliere con qualche accorgimento quelle attrezzature.
Ma c'è di più. Gli impianti alimentati da fonti rinnovabili sono per legge “di pubblica utilità”. E non per il bene dei cittadini preoccupati per i blackout – come verrebbe da pensare. Ma a tutela degli investitori nel caso trovassero resistenze ad acquisire le aree indispensabili per gli insediamenti progettati.
La legge in sintonia con un'altra (del 2001) ammette, e questo è il punto, l' esproprio, pure di suoli agricoli in produzione. A garanzia di un interesse privato e a scapito di un altro ben più conveniente alla comunità. Nel nome di un bisogno fittizio (alla Sardegna non serve altra energia); e per soddisfare una domanda esterna e il business dei contributi statali. Come quando le foreste dell'isola erano combustibile gratuito per alimentare le macchine a vapore in Continente nel clima del lungo Medioevo sardo.
La tecnologia è cambiata ma agli speculatori postmoderni si concedono privilegi da antico regime, quando persa “sa passienzia” si invocava “sa gherra contra de sa prepotenzia”.
Sta in questo solco la minaccia pendente sull'attività di Giovanni Cualbu allevatore, proprietario di parte delle terre ambite, indisponibile a venderle. E tuttavia espropriabili a richiesta di Flumuni Mannu. Una prepotenza autorizzata, denunciano da un po' i comitati per la difesa del territorio. E solo l'idea che possa accadere, sta provocando disorientamento e sfiducia verso le istituzioni nella fase delicata di esame del progetto. D'altra parte le contraddizioni sono nella norma che assegna alla Regione la valutazione d'impatto per impianti fino a 300kw, e allo Stato per gli impianti sopra questa soglia. Per cui Flumini Mannu può tentarci e ritentarci. E sarebbe clamoroso se il giudizio negativo già espresso dagli organi tecnici della Regione – per una centrale sotto i 300kw –, fosse contraddetto dal Ministero dello Sviluppo Economico (nell'indifferenza agli aspetti ambientali?) con un verdetto favorevole allo stesso impianto: riproposto lì e con un po' più di potenza. Ci sarebbe molto da ridire ovviamente, e confidiamo che eventualmente la Regione tenga la schiena dritta, fino in fondo nel confronto con lo Stato – come ha promesso la Giunta regionale. Un valore simbolico la difesa di Giovanni Cualbu. Un messaggio atteso dai comuni che non vogliono restare soli nella lotta contro le nuove e vecchie forme di land grabbing. Le storture si possono correggere. A questo, in fondo, serve la politica.
«G20. Al summit di Hangzhou Obama e Xi Jinping consegnano a Ban Ki-moon la storica ratifica sul clima. L’accordo Usa-Cina dà una spinta a Russia e Ue per ratificare Cop21 ». Il manifesto, 4 settembre 2016 (c.m.c.)
La ratifica di Stati uniti e Cina dell’Accordo di Parigi sul clima globale, alla vigilia del G20, è un segnale forte per tutto il mondo e in particolare per i Paesi più industrializzati. Perché entri in vigore legale l’Accordo firmato lo scorso dicembre a Parigi deve essere ratificato da Paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas serra. Finora lo avevano ratificato una ventina di Paesi che rappresentano però l’1% circa delle emissioni globali.
Cina e Usa – i primi due emettitori di gas serra del pianeta – «pesano» il 38% delle emissioni globali. La ratifica dell’Ue – che rappresenta circa il 12% delle emissioni – ha un percorso più complesso – va ratificata anche dagli Stati membri – e ci aspettiamo l’esempio sino-americano aiuti l’Ue a sveltire il processo.
Se il segnale politico è forte e dunque un messaggio positivo per la salvaguardia del clima globale, va visto come un punto di inizio – necessario per dare valore legalmente vincolante ai contenuti dell’Accordo – ma non sufficiente di per sé. Infatti, com’è noto, gli «impegni volontari» presentati a Parigi non consentono in alcun modo di raggiungere gli obiettivi fissati – mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C e meglio entro il 1,5°C.
L’accelerazione impressa da Cina e Usa, se da una parte può velocizzare l’entrata in vigore legale dell’accordo implica anche una seria revisione degli obiettivi di riduzione, che vanno rafforzati e non poco per tenere il pianeta sotto la soglia dei 2°C per non parlare dell’obiettivo più rigoroso del 1,5°C.
Se le emissioni globali di CO2 hanno smesso di crescere negli ultimi due anni – grazie soprattutto alla riduzione dei consumi di carbone registrata in Cina – è necessario che presto inizino a diminuire e rapidamente. Gli investimenti in fonti rinnovabili sono per fortuna cresciuti, ma non sono ancora sufficienti, secondo le stime di Greenpeace, dovrebbero quadruplicare nel prossimo decennio rispetto a oggi. Inoltre molti dei Paesi del G20 continuano a pianificare la costruzione di nuove centrali a carbone che invece vanno progressivamente chiuse.
La «grande trasformazione» energetica che è necessaria a salvare il clima globale è oggi più praticabile di quanto si creda o di quanto lo fosse anche solo fino a pochi anni fa. In questi giorni una gara d’appalto in Cile per la costruzione di una centrale da 120 MW è stata vinta con un prezzo dell’elettricità pari alla metà del costo dell’elettricità da carbone. Una cosa impensabile solo 5 anni fa e che oggi si va ripetendo in diversi Paesi.
Nel rapporto Brown to Green di Climate Transparency – preparato per valutare il comportamento dei Paesi del G20 sul clima globale – se da una parte si riconosce lo sforzo sulle rinnovabili che vede tra i Paesi con le quote maggiori Brasile, Canada, India, Sudafrica, l’Eu e l’Italia – dall’altro valuta tra i peggiori Paesi per le politiche del clima a scala nazionale proprio Italia, assieme a Giappone e Turchia, mentre dà atto alla Francia di aver condotto in porto l’Accordo di Parigi e alla Germania di aver posto il tema della decarbonizzazione nell’agenda del G7.
La serietà dell’impegno cinese è corroborata da alcuni fatti precisi avvenuti nel 2015: la produzione da eolico (31GW) e solare (15GW) è cresciuta più della domanda di elettricità, il consumo di carbone è diminuito per il terzo anno consecutivo. Inoltre, i nuovi obiettivi rinnovabili per la Cina equivalgono ad aggiungere in 5 anni elettricità verde pari all’intera produzione della Gran Bretagna.
La pochezza delle politiche in Italia la si vede nella flessione nel settore delle rinnovabili, come anche nella totale mancanza di interlocuzione del governo con il settore e le misure per bloccare l’autoconsumo da rinnovabili.
Come evidenziato dal rapporto di Greenpeace Rinnovabili nel mirino, siamo passati dai 150 mila impianti solari entrati in esercizio nel 2012 ai 722 del 2015; il settore eolico – che in uno scenario di crescita moderata potrebbe portare a oltre 60mila occupati – nel 2014 ne ha invece persi 4000. Allo stesso tempo, secondo il Fmi, i sussidi alle fossili in Italia sono in aumento.
All’indomani del referendum sulle trivelle, il presidente del consiglio ha tenuto una conferenza stampa con Eni ed Enel per riproporre cose già decise o già nei piani industriali, oltre che per annunciare gli investimenti solari di Eni. Alcune centinaia di MW solari sono una cosa in sé positiva ma che rimane del tutto marginale rispetto agli investimenti dell’azienda e che soprattutto non ne modifica la logica industriale.
Un messaggio sostanzialmente di greenwashing, peraltro fortemente sostenuto dalla campagna pubblicitaria dell’azienda petrolifera in queste settimane.In piena campagna referendaria, il presidente del consiglio ribadì sui social nella diretta #matteorisponde l’obiettivo di portare al 50% la produzione da rinnovabili di elettricità entro la legislatura. È così scandaloso chiedere se e come questo obiettivo concreto proclamato da Renzi – obiettivo in linea con la grande trasformazione necessaria per dar seguito agli Accordi di Parigi – verrà messo in pratica? Attendiamo da tempo risposta.
«È necessariouno sforzo duplice: un grande impegno di ricostruzione nel breve periodo, la programmazione strategica della difesa del suolo, insediato e non, nel periodo medio lungo. I due aspettio sono intrecciati: ricostruire è necessario e urgente; ma deve avvenire in modo che gli accidenti non si debbano ripetere». Il manifesto, 4 settembre 2016 (p.d.)
Le prime dichiarazioni del governo circa l’urgenza, la necessità e l’importanza tanto di una rapida ricostruzione di quanto distrutto dal terremoto, «dov’era e com’era», quanto dell’avvio di un massiccio programma di risanamento del territorio, sembrano dettate – una tantum – da un minimo di razionalità economica, ecologica e sociale (si parla addirittura di partecipazione dal basso): speriamo non si tratti di annunci opportunistici.
È bene che sia chiara all’inizio l’esigenza di uno sforzo duplice: un grande impegno di ricostruzione nel breve periodo, la programmazione strategica della difesa del suolo, insediato e non, nel periodo medio lungo. I due aspetti peraltro sono intrecciati: ricostruire è certo necessario e urgente; ma deve avvenire in modo che gli accidenti non si debbano ripetere. E acquista maggiore senso se – come hanno già detto tra gli altri Guido Viale, Salvatore Settis, Piero Bevilacqua, Tomaso Montanari – si inserisce in un quadro di tutela e valorizzazione dei contesti e dei paesaggi interni, spesso abbandonati a se stessi. Di cui sorprende addirittura la capacità di attrarre turismo sociale legato alla qualità identitaria del territorio e dell’ambiente, al di là dei «ritorni estivi al paesello».
Va detto tuttavia che, a fronte dello straordinario impegno da profondere nelle ricostruzioni e nella difesa del territorio, le operazioni da fare devono caratterizzarsi, più che per «eccezionali trovate progettuali» (comode forse per il consenso politico e il richiamo mediatico suscitabili dall’eventuale presenza di archistar) per «ordinarie» operazioni di pianificazione contingenti e strategiche. Capaci di contestualizzare i modelli ricostruttivi idonei nel caso dell’Appennino marchigiano-laziale, nonché di attualizzare e risignificare i programmi di difesa, di messa in sicurezza del territorio e degli insediamenti, già contenuti in molta recente pianificazione paesaggistica e territoriale.
È bene soffermarsi brevemente su ciascuno dei momenti che costituiscono il processo di gestione dell’emergenza-ricostruzione-preservazione-valorizzazione del territorio.
1) Per quanto riguarda il primo momento, ovvero il ricovero dei senza casa da inagibilità, è positivo che si siano scartate le soluzioni – no town più che new town – tipo il berlusconiano Progetto Case per L’Aquila. E si tenti invece di andare incontro alle esigenze degli abitanti di restare il più vicino possibile alle residenze distrutte; anche come pressione per un ripristino ricostruttivo rapido. Tra le risorse utilizzabili per questo, oltre e più che sulle «casette in legno tipo Map» ai prefabbricati, ai container, si può puntare sull’utilizzo delle case integre e vuote, presenti nei quartieri e soprattutto nei comuni viciniori a quelli più colpiti.
Il processo di ricostruzione può così integrarsi con quello di valorizzazione dei nuclei urbani e dell’ambiente: anche iniziando a riusare quell’enorme monumento allo spreco costituito dall’ingente quota di case vuote. Con processi che potrebbero interessare oltre che i terremotati anche gli altri disastrati, ovvero i migranti disponibili a diventare operatori dei territori interni per azioni di tutela e valorizzazione sostenibile.
Con azioni analoghe a quelle promosse, piuttosto in sordina, per la prima accoglienza, dalle prefetture per conto dei ministeri degli Interni e delle Infrastrutture, i sindaci potrebbero chiedere ai titolari di case vuote – anche privati – la disponibilità all’utilizzo, a canone sociale provvisto dai fondi emergenziali, per il ricovero temporaneo dei senza casa. Oltre che più in generale per qualsiasi tipo di accoglienza.
A questo proposito è utile ricordare che gli edifici vuoti o sottoutilizzati ammontano secondo l’Istat a 5.550 circa in provincia di Rieti, 5.650 in quella di Teramo, 21.100 a L’Aquila, 1.970 a Terni, 2.190 nel territorio provinciale di Ascoli Piceno. Laddove gli alloggi non utilizzati da residenti sono pari nelle stesse province rispettivamente a 59.000 (Ri), 25.100 (Tr), 48.650 (Tm), 95.000 (Aq), 27.000 circa (Ap).
2) La ricostruzione delle strutture abitative, di servizi, storico-culturali, distrutte o danneggiate, sembra, per volontà corale, dover seguire il modello del ripristino urbanistico e architettonico («dov’erano, com’erano», appunto). Qui va fatta attenzione perché la medesima tipologia architettonica può perseguirsi anche con diverse, più attuali e sicure, tipologie costruttive. È importante mantenere la «coerenza interna» delle strutture portanti degli edifici: puntellare parti di essi con elementi di consolidamento parziale può rivelarsi anche un grave errore; specie allorché c’è stata attenzione relativa alla compatibilità con la consistenza strutturale. Ciò che emerge talora drammaticamente in caso di eventi sismici o idrogeologici rilevanti.
3)La prevenzione degli eventi sismici costituisce problematica fondamentale; sempre evocata al momento di catastrofi da terremoti, frane o alluvioni. Ma mai realmente perseguita. Come peraltro è quasi ovvio in questa fase caratterizzata da «una politica istituzionale assai mediatizzata» e spesso subalterna agli interessi finanziari.
Gli stessi che privilegiano i «grandi eventi» o le «grandi opere» che infatti muovono grandi flussi di capitali; e spesso vedono gli operatori pubblici impegnatissimi ad acquisire da banche o agenzie di settore quelle risorse finanziarie che non ci sono. La prevenzione nella difesa del territorio deve invece essere unitaria (difesa da tutti i rischi, in primis frane e terremoti), pianificata.
E costa molto, per prefigurare, disegnare, integrare e realizzare sistemi di piccole opere coordinate (in cui i grandi operatori finanziari si muovono a disagio e che quindi avversano). La stessa denominazione che il governo ha attribuito a questa fase operativa – «Piano Casa Italia» laddove serve un grande programma territoriale – dimostra di non, o non aver voluto, cogliere la vera essenza della tutela. Ovvio sottolineare infatti come prevenzione antisismica e idrogeologica si completano a vicenda, in un modello che tende al ripristino dei caratteri di consistenza e di resilienza ecosistemica dei territori.
La prevenzione sismica e idrogeologica e da altri rischi (es. incendi) deve essere quindi integrata, unificando le competenze oggi frammentate di Protezione Civile e ministeri delle Infrastrutture, Ambiente, Beni Culturali. Sarebbe ora di promuovere il ministero del Territorio che integri le diverse azioni gestionali e coordini le varie strategie.
Le risorse che servono sono ingenti: è corretta l’idea del programma pluriennale, anzi pluridecennale, ma basta sommare le cifre ufficiali fornite dagli stessi uffici ministeriali per capire che 1,5- 2 miliardi di euro annui, anche per 10 o 20 anni, costituiscono solo una piccola parte del necessario. Stime ufficiali del MISE per la Programmazione Regionale parlano di 65 miliardi per la sola messa in sicurezza antisismica delle attrezzature pubbliche, oltre 40 miliardi per quelle private, 55 miliardi per il riassetto idrogeologico e 15 per fronteggiare gli altri rischi: siamo circa a 180 miliardi di euro – peraltro meno delle risorse previste per le grandi opere della Legge Obiettivo.
Va bene l’idea di piano ventennale: purché la finanziaria – altro che stabilità – preveda per questo un portafoglio di almeno 10 miliardi di euro annui. È la prima, più grande e estremamente urgente, opera di cui necessita quello che era il Bel Paese.

«Ultima versione del manifesto di Trevico,il testo è stato elaborato durante la festa d’inverno della paesologia.» comunità provvisorie blog di Franco Armino, 2 settembre 2016 (c.m.c.)
Viviamo in un’epoca volante, ma è il volo dentro una pozzanghera.
Stiamo morendo e stiamo guarendo, stanno accadendo tutte e due le cose assieme.
Noi proponiamo l’intreccio di poesia e impegno civile. Abbiamo bisogno di poeti e contadini. Amiamo Pasolini e Scotellaro, amiamo chi sa fare il formaggio, chi mette insieme il computer e il pero selvatico.
Crediamo che bisogna unire le varie esperienze che si vanno opponendo alla deriva finanziaria e totalitaria dell’intero pianeta. Non basta, ad esempio, parlare di decrescita. Non basta la premura di avere prodotti alimentari buoni e sani. Non bastano le battaglie per la difesa del paesaggio e dei beni comuni. E non bastano i partiti che ci sono o quelli che si vorrebbero costruire.
Noi crediamo alle Comunità Provvisorie che uniscono queste esperienze diverse e altre ancora, annidate sui margini. Parliamo di Italia Interna, parliano di paesi e montagne. Il loro svuotamento in atto da qualche decennio ha effetti che generano nello stesso tempo desolazione e beatitudine.
Non dobbiamo redimere nessuno, pensiamo che in fondo ognuno fa quello che sa fare, però è necessario svolgere qualche serena obiezione all’esistente.
Non stiamo riproponendo la questione meridionale. Ragioniamo su ogni lembo di Occidente che non è stato annientato dal mito del Progresso. C’è un fuoco centrale, una geografia commossa del nostro agire che si muove tra Trevico e Aliano e che si allarga a frammenti urbani e costieri dell’Italia e del Mediterraneo.
Vogliamo che si dia finalmente forza alla Strategia Nazionale dell’Italia Interna.
Per fermare l’anoressia demografica bisogna mettere al centro di tutte le politiche il lavoro giovanile e bisogna trasformare i piccoli paesi da musei delle porte chiuse e degli anziani soli, a luoghi di accoglienza per i migranti, per i nuovi agricoltori e gli artisti: noi crediamo che la musica e il canto siano preziosi per riattivare le Comunità.
Crediamo sia ora di finirla col discredito verso la politica e gli interventi pubblici. C’è bisogno di un grande investimento dello Stato per mettere in sicurezza le case fragili delle zone altamente sismiche.
Chiediamo che l’articolo 42 della costituzione sia intenso sempre più nel senso di garantire la funzione sociale della proprietà. In altri termini i palazzi dell’Italia interna non utilizzati dai proprietari devono diventare beni comuni.
Vogliamo l’istituzione di un grande Parco Rurale che parta dall’Appennino ligure e arrivi fino alle montagne della Sicilia.
Vogliamo una legge sui Piccoli Comuni che favorisca con investimenti importanti il riequilibro delle popolazioni sui territori. Una legge molto più coraggiosa di quella in discussione da anni in Parlamento.
Vogliamo lo stop al consumo di suolo e una politica che sostenga con decisione l’inserimento dei giovani nell’agricoltura.
Vogliamo che non venga più installata nessuna pala eolica che non sia patrimonio comune: crediamo che le pale già installate debbano portare benefici ben maggiori alle casse dei comuni che le ospitano. Siamo contrari a ulteriori trivellazioni petrolifere e allo sfruttamentto delle risorse naturali da parte di colonizzatori vecchi e nuovi.
Consideriamo inaccettabile il divario economico e sui servizi che esiste tra il Nord e il Sud dell’Italia. Il divario comunque non va considerato sempre a favore del Nord. Per esempio, dal punto di vista della qualità dell’aria e delle falde acquifere, il Sud ha delle zone malate, ma la pianura padana è quasi un cimitero. Il Sud è una meraviglia con grandi problemi. Il Nord del mondo è un grande problema con qualche residua meraviglia. Da una parte un’utopia che ha bisogno di scrupoli, dall’altra scrupolo ed efficienza senza utopia.
Dunque, la Casa della Paesologia propone un ribaltamento delle solite logiche con cui guardiamo ai luoghi. I territori che nella percezione comune sono arretrati e marginali, in realtà possono essere considerati centrali e all’avanguardia.
Noi sappiamo che proprio nell’Italia Interna qualcosa è rimasto incolume alla pressione globalizzante. E allora lo nostra lotta si fa gioiosa, perché abbiamo tanti luoghi belli e tante persone che non considerano il liberismo la loro religione.
Noi non pensiamo che la soluzione sia da una parte sola: la moneta, Dio, l’agricoltura, l’amore, la poesia, la resa, la rivoluzione.
Siamo in fuga da saperi separati, dagli specialismi, dai professionismi. Crediamo che un brutto successo sia peggiore di un buon fallimento.
La vicenda umana ci sembra commovente quando è capace di alzarsi e abbassarsi nello stesso tempo, quando riusciamo a tenere assieme l’infimo e l’immenso, quello che accade nei palazzi della politica e nelle tane delle formiche. Ci interessa la salute delle persone e quella delle api. Ci interessa la democrazia, la gioia e il dolore. Occuparsi della tutela di un paesaggio ha poco senso se poi non ci accorgiamo dei paesaggi dolenti che appaiono sui volti di troppe persone.
La casa della paesologia non è nata per risolvere i nostri problemi e neppure quelli degli altri. Noi stiamo nel tempo che passa e sappiamo che di questo tempo alla fine rimane qualche attimo di bene che siamo riusciti a darci.
Crediamo che l’arcaico non vada cancellato da nuovismi affaristici. Dobbiamo provare a credere di più a queste nostre verità provvisorie e a farle conoscere con le nostre parole, coi nostri abbracci. Sogno e ragione, paesi e città non più come cose separate, ma luoghi diversi dello stesso amore.
«Si può ricostruire con cura ed efficacia come è già successo in molti casi in Italia, ma spesso si preferisce sottolineare scandali e sprechi, come se il nostro fosse un Paese popolato unicamente da ladroni, cialtroni e incapaci». Quotidiani del gruppo L'Espresso,
31 agosto 2016 (c.m.c.)
I forti terremoti con vittime umane sono stati, dal 1940 ad oggi più di trenta con migliaia di morti (soltanto in Friuli quasi mille e in Irpinia poco meno di tremila), decine di migliaia di feriti o infortunati a vita, centinaia di migliaia di sfollati.
Secondo il Sole 24 Ore i miliardi di euro spesi dallo Stato dal terremoto del Belice (1968) a ieri ammontano – attualizzando gli stanziamenti – a 121,6 miliardi di ieri. Almeno il doppio o il triplo di quanto costerebbe oggi mettere in sicurezza sul piano antisismico quel 70 % dell’Italia che in sicurezza non è. Un affare. Bisogna però connettere la messa in sicurezza antisismica con quella idrogeologica: se infatti tutta la dorsale appenninica è ad alto rischio terremoti, il 98 % dei Comuni laziali e il 99 % di quelli marchigiani (nessuno di pianura) risulta a rischio idrogeologico. Un territorio quanto mai fragile che la natura sismica esalta e devasta con facilità.
La tragedia di Amatrice e di altri Comuni fra Lazio e Marche ha per lo meno prodotto una riflessione critica su prevenzione e ricostruzione. Non abbiamo dovuto riascoltare i tromboni della retorica del post-terremoto aquilano con il duo Berlusconi-Bertolaso unti dal Signore per salvare quelle terre martoriate con una loro ricetta che prescindeva totalmente (l’abbiamo scritto inutilmente) dalle esperienze positive di altre ricostruzioni. Il modello-Aquila viene infatti considerato oggi come uno di quelli da cui rifuggire. Mentre si riparla di “ricostruire com’era e dov’era” (ministro Del Rio) che fu il motto vincente del Friuli, di non disperdere le piccole comunità locali sfollandole lontano per anni, di non creare assurde new towns senza un minimo disegno urbanistico.
Anche la grande stampa tuttavia indugia molto in generiche denunce degli sprechi del passato facendo di tutta l’erba un solo fascio ovviamente deprimente. Mentre nella storia tribolatissima di questo Paese geologicamente “giovane” squassato da frequenti forti terremoti esistono anche esempi di saggia, informata e filologica ricostruzione.
A questo punto vorrei dire sommessamente che la richiesta di Matteo Renzi all’archistar Renzo Piano di occuparsi di questa ricostruzione fra Lazio e Marche ancora una volta profuma di trovata mediatica. Piano, geniale, generoso e attrezzato, non figura fra gli esperti dei post-terremoti italiani.
Ho citato il Friuli 1976-77: qui furono le comunità locali a volere – soprattutto a Venzone come documenta il prezioso libro Le pietre dello scandalo uscito da Einaudi nel 1980 a cura di Marisa Dalai, Remo Cacitti, Maria Teresa Binaghi Olivari e altri nella collana diretta da Corrado Stajano – una ricostruzione “pietra su pietra”.
Ma ci fu la più stretta collaborazione interdisciplinare fra Soprintendenze statali, Comuni, Regione, Curie vescovili, uffici tecnici locali, ecc. Come quella messa in campo nel 1997 dal governo Prodi (ministro Veltroni, direttore generale ai Beni Culturali il mai abbastanza rimpianto Mario Serio) nominando commissario straordinario per l’Umbria Antonio Paolucci affiancato dallo storico dell’arte umbro Bruno Toscano e per le Marche l’ex soprintendente e allora direttore del Catalogo Maria Luisa Polichetti affiancata dalla storica dell’arte Marisa Dalai.
Una fruttuosa collaborazione sul campo fra Soprintendenze e Università, coi giovani impegnati (40 quelli della Sapienza) a catalogare le opere danneggiate. Per la Basilica Superiore di Assisi si rischiò lo slittamento a valle e una rovina totale, ma il pronto e coraggioso intervento di tecnici preparatissimi lo evitò e consentì il restauro integrale della Basilica grazie a Giuseppe Basile, specialista straordinario dell’Istituto Centrale per il Restauro, e di strutturisti di caratura internazionale quali Giorgio Croci e Paolo Rocchi (successivamente di restauratori come Sergio Fusetti e Carlo Giantomassi). In due anni e due mesi soltanto la Basilica Superiore fu riconsegnata splendente ai francescani. Più lungo il recupero di centri storici molto colpiti come Foligno, Nocera Umbra, Gualdo Tadino, Colfiorito, Tolentino, ecc.
Per gli sfollati si usarono prefabbricati in legno di ottima qualità che riprodussero di fatto le comunità locali, incluse scuole e altri servizi, senza allontanare la gente. In tal senso il lavoro di squadra posto in opera fra Umbria e Marche rimane per molti versi esemplare in senso positivo. In buona misura pure quello della Val Nerina dopo il 1979, come dimostra la buona tenuta antisismica di Norcia investita dal terremoto di Amatrice.
In senso negativo sono invece esemplari purtroppo le ricostruzioni della Valle del Belice dove ambizioni sbagliate hanno allungato enormemente i tempi e cancellato le identità locali e quella dell’Aquila. Negativa fu pure, per gran parte, la vicenda dell’Irpinia, non per i monumenti tuttavia il cui recupero fu diretto da un soprintendente di grande livello quale Mario De Cunzo che spese presto e bene i 300 miliardi di lire assegnatigli. Allo stesso modo i commissari per la casa di Napoli (colpita dal sisma) Maurizio Valenzi sindaco e l’urbanista Vezio De Lucia i quali riconsegnarono ben 20.000 alloggi recuperati in tempi rapidi senza l’ombra di un avviso di garanzia.
Valide furono pure due ricostruzioni post-terremoto di cui non si parla mai: quella di Tuscania semidistrutta con oltre trenta vittime dal sisma del 1971, che oltre quarant’anni più tardi regge benissimo, e l’altra di Ancona dove lo sciame sismico scosse il centro storico della città per undici mesi, senza fare vittime e però con danni profondi a tutta la città antica, dall’alto del colle fino al quartiere del Porto. Ma nessuno o quasi ne parla. Preferendo sottolineare sempre e soltanto scandali e sprechi, come se il nostro fosse un Paese popolato unicamente da ladroni, cialtroni e incapaci. Oppure rifacendosi miracolisticamente agli archistar.
«È un processo che va pianificato con attenzione, portato avanti con tenacia e organizzazione ferrea senza mai abbassare la guardia». Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2016 (p.d.)
Di fronte ai disastri naturali, la nostra debolezza più grande è la mancanza di prevenzione. Lo scriviamo da decenni. Molte le chiacchiere e le promesse subito dopo ogni evento, sia esso un terremoto o un’alluvione, poi cade il silenzio. Eppure la prevenzione va fatta a bocce ferme, quando splende il sole e la terra non trema. È un processo che va pianificato con attenzione, portato avanti con tenacia e organizzazione ferrea senza mai abbassare la guardia. Sia sul piano delle infrastrutture, sia su quello dell’informazione ed educazione della gente, che ancora oggi in Italia preferisce toccarsi in mezzo alle gambe o appendere qua è là cornetti e santini invece che guardare in faccia la realtà.
Il settore aeronautico ha sviluppato un metodo molto efficace per la prevenzione degli incidenti, infatti è oggi tra i modi più sicuri di viaggiare. Ogni volta che – vuoi per errori di pilotaggio, vuoi per cause tecniche – c’è un problema o una sciagura (ormai rara), si attiva una procedura internazionale che analizza le cause, propone soluzioni e modifica strumenti e procedure. Nel frattempo, i velivoli difettosi vengono lasciati a terra fino a modifiche concluse. È un processo trasparente, che pur senza essere punitivo, mette in luce le responsabilità e spinge tutti a migliorare, approfittando insieme della lezione ricevuta o meglio, come lo chiamano i francesi, del retour d’experience. In tanti altri settori, e soprattutto in quello della gestione del territorio, non si analizzano mai i risultati a posteriori delle scelte precedenti, raramente si individuano i responsabili dei fallimenti, e mai si tesaurizza l’insegnamento ricevuto.
Ogni volta stesse considerazioni e stessi errori,una retorica del disastro che se togliete data e luogo è immutata fin dall’alluvione di Firenze di cinquant’anni fa. Ma la gente così continua a morire e i danni li paghiamo tutti. Ora si parla di ricostruzione rapida dopo-sisma. Ma non avevamo detto tutto ciò che c’era da dire già con L’Aquila 2009? Abbiamo ripetuto alla nausea che la ricetta razionale sta in una capillare ristrutturazione antisismica degli edifici,che li riqualifichi pure energeticamente, prendendo così due piccioni con una fava.E che accanto al rischio sismico investa pure sulla protezione idrogeologica: frane e alluvioni sono ancor più diffuse dei terremoti, dall’Alpi allo Ionio. E si occupi pure della strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, contro le future siccità, i futuri eventi estremi e l’aumento del livello dei mari, di realizzare casse di espansione per i fiumi e di turar le falle agli acquedotti. Si chiama resilienza.
Esiste pure un’associazione internazionale, Iclei.org, che riunisce le città che nel mondo si stanno attrezzando per la sostenibilità e la riduzione degli impatti degli eventi geoidrologici. In Italia, al di là di encomiabili esempi locali, questo progetto di resilienza nazionale, corale, condiviso, omogeneo, unitario, non c’è. Trionfa invece il sempreverde annuncio e la relativa cantierizzazione della grande opera cementizia, vista come unica azione salvifica. La nuova autostrada, la nuova pedemontana, il nuovo ponte sullo stretto, i nuovi trafori ferroviari,i nuovi eventi sportivi internazionali. L’importante è che siano grandi,costosi e vistosi. Non che servano a qualcosa e che funzionino. Se si applicasse il metodo aeronautico alle opere già fatte, si potrebbe facilmente verificare se i soldi sono stati spesi bene e i problemi risolti.
Invece le scuole ristrutturate sono crollate, l’autostrada Bre.Be.Mi giudicata indispensabile in fase di progetto, è vuota, il Mosedi Venezia è già inchiodato da sabbia e detriti prima di entrare in servizio, gli impianti sportivi delle Olimpiadi invernali della Val di Susa sono in via di smantellamento per eccessivi costi di manutenzione, ma la lista è lunga, distretti industriali, parchi divertimento, poli fieristici, sportivi e turistici... tutto annunciato sulla carta come necessario, apportatore di progresso, soldi e lavoro, ma alla prova dei fatti cadente, abbandonato e diroccato. Spesso la società civile di fronte a tali progetti ha protestato, ha lottato, ha mostrato e documentato scientificamente incongruenze e inadeguatezze. Ma niente, ruspe e betoniere sono state inesorabili. Poi tutto come previsto, miseramente fallito. Chi paga? Qual è il ritorno d’esperienza? Con il metodo aeronautico, il ritiro della candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024 sarebbe immediato, basta giudicare dai costi e dalle scomode eredità delle precedenti edizioni! Lasceremmo perdere il supertunnel Tav Torino-Lionee i nuovi sogni espansionistici delle reti autostradali. Mentre investiremmo subito i pochi denari che ci restano in manutenzione del territorio, sostenibilità e prevenzione dei rischi naturali, unico progetto sensato per il benessere del futuro.

Non sempre il mondo della finanza interviene utilizzando i suoi burattini: i governi. A volte preferisce cancellare le decisioni dei popoli direttamente«Dalla Calabria a Pisa, da Latina ad Arezzo: la finanza blocca la gestione statale del servizio». Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2016 (p.d.)
Carte segrete e acquedotti colabrodo; dighe iniziate e mai finite; un socio privato – la francese Veolia – che non vede l’ora di lasciare la Calabria, ma in cambio di un “condono”sul passato. E poi un finanziamento milionario della Depfa Bank, lo stesso istituto finanziario – controllato oggi dal governo tedesco – che sta bloccando per via legale il piano di riubblicizzazione dell’acqua a Latina. Tutto garantito da un contratto firmato 9 anni fa e ancora oggi secretato “per tutelare la banca, che non ha dato l’autorizzazione a divulgare il documento”, spiega al Fatto Quotidiano il direttore finanziario di Sorical, Simone Lo Piccolo, che nega l’accesso agli atti invocando la privacy.
Sorical Spa è uno dei tanti disastri della gestione mista pubblico-privata degli acquedotti: vende l’acqua ai Comuni della Calabria, gestisce le grandi infrastrutture e, con l’arrivo dei francesi, avrebbe dovuto incanalare con acquedotti moderni l’enorme quantità di acqua delle montagne calabresi. Dopo anni di pessima gestione, sono arrivati i commissari e il sistema idrico integrato è rimasto il grande sogno incompiuto. In pieno stile Salerno-Reggio.
Sorical, però, è anche uno dei principali clienti italiani di Depfa, la banca specializzata in derivati e finanziamenti degli enti pubblici europei, salvata nel 2014 da un fondo del governo tedesco, dopo essere finita nella bufera per via dei famigerati mutui subprime. Italia, Grecia, Spagna e Portogallo sono stati per anni il campo d’azione della banca, per un pacchetto di obbligazioni in mano a fondi internazionali che supera abbondantemente il miliardo di euro, garantito da una serie di complessi – e rischiosi – derivati. In Calabria e a Latina, Depfa ha avuto come partner principale Veolia; in Toscana i suoi compagni di avventura sono la romana Acea (al 51% del Campidoglio) e il Monte dei Paschi di Siena. Qui l’acqua, da tempo, è appannaggio del Giglio magico renziano. A partire da Publiacqua, il gestore della provincia di Firenze guidato negli anni passati da Erasmo D’Angelis, oggi direttore dell’Unità, e che nel cui cda è stata per diverso tempo Maria Elena Boschi.
I Comuni dell’ambito idrico della Provincia di Pisa, invece, nel 2002 hanno affidato la gestione del servizio alla Acque Spa, partecipata – come in gran parte della Regione – da Acea. Quando è il momento di mettere i soldi per gli investimenti previsti dalla concessione, però, la società romana contatta Depfa. Una sigla decisamente di moda nel nostro Paese all’epoca, quando il governo – attraverso il ministero delle Infrastrutture – promuoveva ovunque gli strumenti finanziari più sofisticati per realizzare gli acquedotti, senza però evidenziarne i rischi. La banca di Dublino – affiancata da Mps, da alcuni istituti locali e dalla Cassa depositi e prestiti – presenta ai sindaci della provincia di Pisa le stesse condizioni che applicherà poco dopo a Latina e di cui Il Fatto si è occupato nei giorni scorsi: in cambio dei soldi, i Comuni hanno dovuto firmare un contratto di pegno che prevede un potere totale per gli investitori. Una serie di clausole che consentono a Depfa, in caso di “evento rilevante”, di esautorare il potere d’indirizzo strategico dei sindaci sostituendosi ad amministrazioni elette dal popolo. I possibili casi di “evento rilevante” sono elencati con precisione e, tra questi, a Pisa, c’è anche la possibilità che la quota di Acea scenda sotto al 45%. Nessuna ri-pubblicizzazione, dunque, sarà mai possibile in quella zona. Eppure la volontà degli elettori di Pisa e dintorni al referendum del 2011 fu chiara: il 95,41% votò a favore dell’acqua pubblica, con un’affluenza al 65,08%. Una volontà popolare tradita l’ultima volta lo scorso anno, quando i Comuni presenti nella società Acque Spa hanno confermato, senza grande clamore, le regole del finanziamento. Incluso un complesso e voluminoso contratto in inglese con tanto di clausole riguardanti sofisticati strumenti finanziari e le norme che bloccano ogni possibilità di cambio di strategia.
Dove Depfa non è arrivata ha agito Mps, stretta alleata all’epoca sia di Acea sia della banca irlandese, insieme a un istituto finanziario ormai famoso, Popolare Etruria. È il caso di Arezzo, la provincia dove per la prima volta in Italia è stato privatizzato il sistema idrico integrato col modello, di origine francese, del partenariato pubblico-privato. Era il 1999, la gestione comunale passa nelle mani di Nuove Acque, partner privato la Suez e, poco dopo, l’immancabile Acea.
Come in praticamente tutte le esperienze simili in Italia, anche qui il privato mette i soldi per gli investimenti indebitando la società mista, attraverso lo schema del prestito in cambio di pegno delle azioni, comprese quelle dei Comuni. In questo caso entra in gioco un pool composto da BEI, Monte dei Paschi, Dexia e Etruria. È il 2005 e la gran parte dei Comuni approva: “Si consegna ai privati un potere assoluto. Con questa operazione la maggioranza pubblica di Nuove Acque diventa un guscio vuoto”, commentano i comitati locali in un documento che analizza l’operazione. Dunque anche qui, come a Latina, a Pisa e in altre province italiane, il voto per l’acqua pubblica si ferma davanti agli sportelli delle banche.
Nella Calabria degli accordi segreti, intanto, la giunta Oliverio annuncia di volersi riprendere la gestione idrica. “Io non sono stato nominato per liquidare la società, ma per rilanciarla”, spiega al Fatto Luigi Incarnato, commissario di Sorical. “Vuole sapere una cosa sul mutuo Depfa? Mi sono informato e questi asset il governo tedesco li ha acquisiti pagandoli 16% del valore nominale”. Tradotto: il credito vantato da Depfa nei confronti dei gestori degli acquedotti oggi vale assai meno. “Quindi ricontratteremo tutto – dice Incarnato – facendo entrare in società i Comuni appena Veolia se ne va. Manca solo un passaggio, vogliono una manleva sui debiti (l’esclusione di responsabilità sul passato, ndr) e il presidente ci sta pensando”. Ma di mostrare quel contratto di finanziamento che pesa sulla società per ora non se ne parla. Acqua pubblica forse, trasparente non tanto.
«Occorre tenere insieme il sapere virtuoso dei vecchi abitanti con l’esperienza di tecnici qualificati, con le esigenze dei sistemi ecologici di supporto alla vita, con l’uso delle risorse locali, con l’accoglienza dei migranti ». Il manifesto, 26 agosto 2016 (c.m.c.)
Anni fa mi colpì il racconto di Salvatore Veca L’ascia del nonno. Un vecchio signore mostrava a tutti i suoi ospiti che andavano a fargli visita, l’ascia che il proprio nonno aveva usato in passato. Era conservata gelosamente sotto una teca di vetro. «Vedete», spiegava il vecchio signore, «questa era l’ascia di mio nonno. La lama in ferro naturalmente è stata sostituita con una nuova lama perché corrosa dalla ruggine. E il manico dei legno è stato anch’esso sostituito perché roso dai tarli». Dunque, si chiedeva Salvatore Veca, «cosa è quell’ascia conservata?». Ebbene, la ricostruzione (speriamo che inizi quanto prima) dei paesi devastati dal sisma dovrebbe evitare che i nuovi paesi diventino come l’ascia del nonno ricostruita, cioè una semplice riesumazione del “vecchio” che non c’è più.
C’è un legame indissolubile tra comunità e luogo: non può esistere comunità senza luogo né tantomeno un luogo che è stato privato della sua comunità. Sarebbe bastata questa semplice considerazione a decretare il fallimento delle new town berlusconiane, ovvero di quei non-luoghi per non-comunità. Come evitare che la “ricostruzione” dei due vecchi paesi (Amatrice e Accumuli) non ripercorra questa strada fallimentare?
Tanti anni fa, erano gli anni Cinquanta, a seguito del libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, fu realizzata una delle più interessanti esperienze urbanistiche con la creazione del villaggio La Martella per tentare di risolvere l’annosa, e scandalosa, questione dei “Sassi” di Matera. Esso coinvolse una straordinaria schiera di architetti, urbanisti, antropologi, psicologi e perfino psichiatri, tra i quali figurava anche Adriano Olivetti. Considerate le pessime condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano, gli abitanti dei “Sassi”, essi furono mandati, con tutto il loro carico di storia millenaria, a vivere in questo piccolo villaggio rurale appena fuori Matera, progettato con un atteggiamento di massimo rispetto del patrimonio culturale degli abitanti e della loro comunità contadina.
Queste attenzioni (perfino nei dettagli architettonici e nei materiali di costruzioni), non furono sufficienti a realizzare completamente l’obiettivo di ricostituire la comunità originale: alcuni abitanti si rifiutarono di andarci, altri, qualche tempo dopo, tornarono ad occupare i “Sassi”, altri ancora andarono a vivere altrove.
Potremmo dire oggi che il “fallimento” (metto tra virgolette poiché fu comunque un’impresa straordinaria dal punto di vista culturale) scontava il prezzo di fare riferimento a standard e modelli di vita totalmente “incomprensibili” agli abitanti dei “Sassi” che, nel tempo, si erano adattati al loro rapporto con la natura rappresentata dagli stessi “Sassi” e dalle opportunità che essi offrivano (comprese le cattive condizioni igieniche).
Tutto questo per dire che ricostruire i luoghi fisici (piazze, campanili, chiese, strade e manufatti abitativi) è un conto, ricostituire la comunità dispersa è un altro e di assai più difficile soluzione. Questa sfida può però essere affrontata con una prospettiva diversa. La “ricostruzione” può allora diventare l’opportunità di insediare una “nuova” comunità pur formata in gran parte dagli stessi abitanti che, pur non rinunciando al proprio patrimonio passato (tradizioni, memoria, usi e costumi) si proietti in una dimensione futura evitando di diventare un esempio di modernità di cartapesta.
Costituire, ad esempio, un insediamento ecologico in armonia con il territorio e la natura, un esempio virtuoso di ritrovato equilibrio con i problemi che affliggono il nostro Appennino. Potrebbe costituire uno dei primi esempi di pianificazione non condizionato da esigenze speculative e con l’obiettivo di riavviare i processi di riqualificazione delle cosiddette “aree interne”.
In primis, nel progetto di ricostruzione dovrebbero entrare tutte le storie raccontate dai vecchi abitanti, le consuetudini locali, le attività produttive piccole e grandi che costituivano l’economia del paese, nuove economie inerenti il recupero e l’applicazione di norme sismiche. Servirebbero poi studi geologici rigorosi per scegliere i siti edificabili e scartare le aree più a rischio; realizzare spazi pubblici, piazze, limitare le privatizzazioni di suolo, progettare luoghi che favoriscano le produzione di socialità e convivialità, evitare, come è successo a L’Aquila, la militarizzazione del territorio, favorire dovunque l’incontro, la bellezza, il dialogo, la narrazione delle storie.
L’emergenza non deve essere cattiva consigliera. E quella straordinaria sapienza acquisita da tutti coloro che si stanno prodigando (volontari e non) per salvare vite e cose, dovrebbe anch’essa confluire nel progetto di ricostruzione. Guai, insomma, se a decidere come e dove ricostruire fosse una ristretta élites di tecnici preoccupati solo di collaudare qualche straordinaria invenzione tecnologica dell’ultimo grido o, peggio, qualche esempio di smart cities dopo il disastro delle new town.
Dobbiamo, al contrario, tenere insieme il sapere virtuoso dei vecchi abitanti con l’esperienza di tecnici qualificati, con le esigenze dei sistemi ecologici di supporto alla vita, con l’uso delle risorse locali, con l’accoglienza dei migranti che potrebbero contribuire alla formazione di una nuova, rinnovata e più moderna comunità urbana che, mai, per usare le parole di Erri De Luca, «dovrebbe insuperbirsi di nessun possesso».
Già a breve, passata la fase dei soccorsi, gli abitanti potrebbero ridiventare protagonisti delle loro storie partecipando al progetto di ricostruzione insieme al personale organizzato dal governo: non li escludete, altrimenti ricostruireste un paese fantasma: l’ascia del nonno, appunto.
«I terremoti italiani non sono una fatalità: sono la normalità con cui dobbiamo imparare a convivere. In Italia nessuno è al sicuro, in nessun luogo, mai. Se non investiamo in prevenzione i morti non li provoca il terremoto: li provochiamo noi». La Repubblica, 25 agosto 2016 (c.m.c.)
«Ci vogliono due impegni: il primo a ricostruire in fretta, e il secondo a cominciare a rifare il Paese in modo antisismico, perché i terremoti vengono casualmente, ma i morti no»: ieri è stata questa, di Romano Prodi, la sintesi più efficace. Davvero l’unico modo per dare un senso a queste morti e a queste distruzioni è che questi due impegni vengano presi, e onorati.
Il primo sembrerebbe facile: perfino ovvio in quella che è, nonostante tutto, una delle più potenti economie del mondo. E invece la ricostruzione dell’Aquila arranca ancora, dopo anni perduti e dopo errori che hanno forse distrutto per sempre il tessuto sociale di uno dei venti capoluoghi di regione del nostro Paese. Ma oggi il governo ha l’occasione di dimostrare che qualcosa è cambiato davvero: la ricostruzione di Amatrice e degli altri luoghi colpiti può — deve — diventare un esempio da manuale. Un esempio positivo.
Ma è il secondo impegno, quello a rifare antisismica l’Italia, la sfida vera: quella più carica di futuro.
I terremoti italiani non sono una fatalità: sono la normalità con cui dobbiamo imparare a convivere. La meno pericolosa delle quattro zone in cui la Mappa della classificazione del rischio sismico divide l’Italia è quella in cui i terremoti sono “rari”: non inesistenti, e non innocui, ma rari. Il che significa che nessuno è al sicuro, in nessun luogo, mai: nell’ultimo millennio l’Italia ha subito un terremoto dagli effetti catastrofici mediamente ogni dieci anni. E dunque, se non investiamo in prevenzione i morti non li provoca il terremoto: li provochiamo noi.
Sull’onda dell’emozione suscitata dal disastro dell’Aquila, una legge del 2009 ha previsto che siano finanziati interventi per la prevenzione del rischio sismico su tutto il territorio nazionale: un passo culturalmente importante, ma drammaticamente insufficiente nella sua attuazione pratica. La legge prevede, infatti, l’erogazione di un miliardo in dieci anni: «solo una minima percentuale, forse inferiore all’1%, del fabbisogno necessario per il completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni, pubbliche e private, e delle opere infrastrutturali strategiche» (così la Protezione Civile).
In questo 2016, per esempio, stiamo spendendo la cifra irrisoria di 44 milioni. E non perché le casse siano vuote: basta rammentare che lo Sblocca Italia varato dal governo Renzi ha assegnato 3,9 miliardi in cinque anni alle Grandi Opere, o ricordare che un’opera inutile e ambientalmente disastrosa come la autostrada Orte-Mestre (per ora fermata dalle inchieste) dovrebbe costare 10 miliardi (2,5 già stanziati).
È qua, di fronte a questi numeri, che occorre uno scatto: dobbiamo convincerci che la messa in sicurezza del nostro territorio è l’unica Grande Opera davvero sensata. Non l’ideologico e faraonico Ponte sullo Stretto, che si continua a vagheggiare, ma la prevenzione dei danni dei terremoti, e delle alluvioni: una Grande Opera che avrebbe un enorme impatto positivo sull’economia e sull’occupazione, senza distruggere, ma una volta tanto risanando il corpo dell’Italia.
Un capitolo di questa grande impresa dovrà riguardare il patrimonio culturale. Ancora non sappiamo cosa è successo ai monumenti delle zone colpite. È anzi un po’ sconcertante che gli italiani, e i ricercatori di tutto il mondo, provino ad intuirlo dalle foto (drammatiche quelle del campanile di Accumoli, e delle chiese di Amatrice) postate sui social, e non dalla voce del ministero per i Beni culturali, cha ha fissato solo a stamani la riunione della sua unità di crisi (mentre è noto che, per le opere d’arte proprio come per le persone, è nelle prime ore che si possono fare interventi decisivi).
In ogni caso, è chiaro che non possiamo continuare a sperare nella buona sorte: siamo ancora lontanissimi dalla redazione di quel Piano per la conservazione programmata del patrimonio culturale che già negli anni Settanta Giovanni Urbani cercò, invano, di far realizzare. In mancanza di un progetto generale, pochissimo si è fatto: mentre troppi palazzi e chiese antichi continuano ad essere riempiti di cemento, che invece di rafforzarli li rende espostissimi alle scosse.
È forse utopico pensare di contendere alla forza del terremoto ogni vita, ogni monumento: ma è certamente imperdonabile continuare a non provarci nemmeno.
«E’ davvero deprimente constatare che si ridicolizza il concetto di “rifiuti zero”, non si conosce il concetto di “economia circolare” e si dipinge l’incenerimento come soluzione del problema rifiuti». Il Fatto Quotidiano online, 23 agosto 2016 (p.d.)
L’antivigilia di ferragosto dall’agenzia
adnkronos è stato diffuso un comunicato della SItI (Società Italiana Igiene Medicina Preventiva e Sanità Pubblica) con 7 “verità” a supporto della presunta utilità e innocuità degli inceneritori di nuova generazione, posizione che sarebbe condivisa anche dall’Istituto Superiore di Sanità. Purtroppo sul sito ufficiale della SItI non è reperibile il comunicato originale e quindi ci si deve limitare a quanto diffuso da adnkronos e ampiamente ripreso dai media. C’è da rimanere profondamente sconcertati davanti alle “7 verità” perché non solo nessuna di esse è scientificamente supportata, ma addirittura alcune affermazioni sono in netto contrasto con ciò che emerge dalla letteratura scientifica. Non sono mancate pronte repliche sia da parte dell’Isde (l’Associazione dei Medici per l’Ambiente) che di Medicina Democratica, ma alcune considerazioni della SItI meritano di essere prese in esame.
Si afferma ad esempio che gli inceneritori “non provocano rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti” e che dallo studio epidemiologico Moniter “una delle più sofisticate ricerche al mondo sul rischio connesso alle emissioni di inceneritori […] si evidenzia chiaramente la assenza di rilevanti rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti”. Come già tante volte ho avuto modo di scrivere sono viceversa numerosi gli studi scientifici (anche recentissimi) che dimostrano esattamente il contrario e descrivono effetti sia a breve (esiti riproduttivi, malformazioni, esiti cardiovascolari, respiratori) che a lungo termine (soprattutto tumori). E’ vero che per la gran parte (ma non per la totalità) si tratta di studi che riguardano impianti di “vecchia generazione”, ma dove sono studi epidemiologici che valutano gli effetti a lungo termine degli inceneritori di “nuova” generazione?
Quanto poi al Moniter – condotto dopo gli allarmanti risultati per la salute femminile emersi dall’indagine sugli inceneritori di Forlì, e costato ben 3 milioni e 400.000 euro di soldi pubblici – si fa presente che sono solo 2 gli studi usciti da questo immane lavoro che sono stati pubblicati su riviste internazionali. Tali studi segnalano un incremento statisticamente significativo del rischio di nascite pre-termine e di abortività spontanea in relazione alle emissioni degli impianti. Abortività spontanea e prematurità sono quindi per la SItI inquadrabili come “assenza di rilevanti rischi sanitari”? Ancora si afferma che le discariche inquinano più degli inceneritori, dimenticando che gli inceneritori (anche di terza generazione) necessitano di discariche speciali per le ceneri leggere, quelle che residuano dai filtri e dai processi di lavaggio dei fumi, residui tossici che non ci sarebbero senza la combustione.
Ancora si parla di “un bilancio energetico complessivo positivo, con produzione di energia e sistemi di teleriscaldamento come accade virtuosamente da anni in città come Brescia, Lecco e Bolzano”. In realtà dal punto di vista energetico, anche con le migliori tecnologie disponibili, si raggiunge un rendimento pari al 40% dell’energia associata ai rifiuti in ingresso, risultato che si può ottenere solo attraverso un uso efficiente del teleriscaldamento e di fatto realizzato solo nelle 3 città citate. In realtà secondo i dati della Epa a parità di materiale l’energia risparmiata con il riciclo è da due a sei volte superiore a quella recuperata con l’incenerimento!
E’ davvero deprimente constatare che si ridicolizza il concetto di “rifiuti zero”, non si conosce il concetto di “economia circolare” e si dipinge l’incenerimento come soluzione del problema rifiuti. Sono invece proprio questi impianti che ostacolano la soluzione dell’“emergenza rifiuti” perché – una volta costruiti – devono essere alimentati per decine di anni con grandissime quantità di rifiuti, impedendo riduzione, riuso e riciclo dei materiali. C’è quindi una “caccia” ai rifiuti per ogni dove – con ovvio aggravio del traffico pesante – o addirittura si assimilano i rifiuti speciali non pericolosi (prodotti da utenze commerciali e produttive) ai rifiuti urbani (gli unici di cui dovrebbe farsi carico l’amministrazione pubblica) pur di avere quantità adeguate da bruciare.
La pratica della assimilazione è ampiamente diffusa in Emilia Romagna e Toscana e questo anche se la normativa comunitaria prevede che i rifiuti speciali siano gestiti a mercato libero, in quanto per la massima parte facilmente riciclabili. Si dimentica che gli inceneritori sono finanziati ogni anno con 500 milioni di euro pagati da tutti noi con la bolletta elettrica e questo trasforma l’incenerimento in un ottimo investimento per i gestori, ma non certo per la salute e l’occupazione. Non è certo da oggi che andiamo ribadendo questi concetti: se fossimo stati ascoltati e le risorse spese a favore degli inceneritori fossero state impiegate per raccolta domiciliare e centri di riciclo, quanti problemi avremmo risolto? Quanti ricoveri ospedalieri, sofferenze e morti avremmo risparmiato?
Davanti ad argomentazioni così banali e superficiali della SItI c’è solo da arrossire: come si può pretendere che i cittadini abbiano fiducia nella classe medica se una parte qualificata di essa si dimostra quanto meno così poco informata? Personalmente voglio ancora credere nel ruolo dei medici e della sanità pubblica e non rassegnarmi davanti a quella che vorrei fosse solo superficialità e incompetenza, ma non vorrei nascondesse intrecci con interessi che nulla hanno a che fare con la tutela della salute.

L'ennesima truffa , l'ennesimo favore ai padroni del governo, l'ennesimo sberleffo alla democrazia. Il dicastero di Galletti concede proroghe straordinarie alle compagnie per richiedere le autorizzazioni a cercare idrocarburi dalla Sardegna all’Emilia. Il Fatto quotidiano, 18 agosto 2016
Per mesi si è parlato di trivelle perché c’era il referendum. Ma mentre si discuteva di astensione e autorizzazioni entro le 12 miglia, il ministero dell’Ambiente concedeva proroghe a iter autorizzativi ormai scaduti da tempo. Parliamo di tre richieste per ottenere la Via, la Valutazione di impatto ambientale necessaria per cercare idrocarburi in terra e mare, in tre siti sensibili per l’impatto che questi interventi potrebbero avere proprio sull’ambiente. E di tre proroghe, concesse ben oltre i tempi stabiliti dal Testo unico ambientale. E di una frase, che circola da giorni: “I petrolieri tornano a caccia di concessioni”, ancora una volta grazie al decreto Sblocca Italia e alla decisione del ministero di resuscitare processi autorizzativi che sarebbero dovuti essere morti da mesi.
Il primo progetto è in Sardegna, 6mila chilometri quadrati di mare in cui la società norvegese Tgs -Nopec vuole fare prospezioni (indagini) dei fondali marini con l’airgun: un dispositivo che spara aria compressa in acqua, produce onde che si propagano nel fondale e che, riflesse dagli strati della crosta terrestre, forniscono informazioni sulla struttura e la presenza di gas o di liquidi. Inizialmente ritenuto illegale nel disegno di legge sugli ecoreati, visto che secondo gli esperti di tutto il mondo è dannoso per la fauna marina, è stato poi eliminato dal testo con una mossa che da molti è stata interpretata come il primo dei numerosi favori fatti ai petrolieri nei mesi scorsi.
Ed ecco un altro favore: l’istanza per ottenere la Via necessaria per le prospezioni nel Mare di Sardegna viene presentata il 5 febbraio del 2015. Il 10 agosto, sei mesi dopo, il ministero chiede all’azienda una documentazione integrativa perché quella fornita non contiene tutti i rapporti e le misurazioni necessari. Il 29 ottobre, però, le richieste del ministero non sono ancora state soddisfatte e viene concessa una proroga di 60 giorni.
Ancora una volta, il tempo pare non basti e così, con una nota del 14 marzo 2016, il ministero ne concede un’altra, di otto mesi (tanto che le integrazioni arriveranno a luglio). Eppure, gli stessi documenti per la richiesta di integrazioni parlano chiaro: devono pervenire entro 45 giorni durante i quali la società deve fornire informazioni come la durata e le modalità delle operazioni – anche in relazione a quelle già in atto nelle zone limitrofe -, dati relativi alla morfologia del luogo e quelli sulle tecniche che saranno utilizzate. Ma, soprattutto, in questo caso la Tgs – Nopec deve predisporre una dettagliata relazione sulla fauna “con specifico riferimento al vicino santuario dei cetacei Pelagos” e deve riferire sulla presenza di possibili impatti ambientali, che oltretutto il ministero comunque ritiene “scarsamente fondata”.
Inoltre, deve predisporre un progetto per il “biomonitoraggio acustico” dato che l’azienda intende usare l’airgun. Stessa storia per due siti a terra, in Emilia Romagna, per i quali sono stati concessi altri due mesi di tempo per l’integrazione documentale. Nel primo caso, la Valutazione d’impatto ambientale riguarda un territorio vicino Comacchio, prossimo al sito Unesco delle Valli: la richiesta è dell’Eni. L’altra, di Enel Longanesi Development, in provincia di Ferrara. Anche stavolta il ministero ha chiesto che le integrazioni tengano conto dell’eccezionalità del territorio in cui ricadranno le prospezioni, del rischio sismico e del fenomeno della subsidenza.
Il Fatto Quotidiano ha allora chiesto al ministero dell’Ambiente spiegazioni sul perché non ci sia stato il respingimento previsto, in questi casi, dal Testo Unico Ambientale. Le risposte ne hanno confermato l’eccezionalità.
“Sul fatto che alcuni progetti rappresentino ri-proposizioni di progetti depositati negli anni scorsi – spiegano dal ministero – i progetti di idrocarburi a terra sono di competenza statale dal mese di marzo 2015”. Il riferimento è al decreto Sblocca Italia che ha reso le prospezioni e le coltivazioni petrolifere “strategiche” per l’interesse nazionale e ha spostato la competenza per il rilascio della Via dalle Regioni al ministero di Gian Luca Galletti, di fatto ignorando pareri, vincoli e volere degli enti locali. “Quanto ai tempi del procedimento come indicati dal Codice dell’Ambiente – rispondono, se si fa loro notare che le proroghe concesse non sono previste dalla legge – si evidenzia che sono da intendersi di natura ordinatoria e che l’azione amministrativa deve essere conformata al principio di economicità ed efficacia”. Tutto pur di favorire i cercatori di petrolio.

«A Latina e provincia ri-volevano la gestione pubblica del servizio: grazie ad un contratto del 2007, ora decide tutto l’istituto finanziatore.»Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
Avviare un percorso di pubblicizzazione integrale della società di gestione dell’acqua”. Poche parole e le firme dei principali Comuni del Sud pontino, con in testa l’amministrazione di Latina, guidata da due mesi dal sindaco Damiano Coletta (lista civica). E un appello diretto alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, per fermare l’operazione di acquisizione da parte di Acea di Acqualatina, la spa partecipata per il 49% dalla multinazionale francese Veolia che dal 2002 gestisce il sistema idrico integrato della seconda provincia del Lazio.
Il documento– presentato nel corso dell’ultima assemblea dei soci del gestore degli acquedotti del sud pontino da 19 sindaci – ha un doppio obiettivo: fermare l’espansione di Acea – intenzionata a prendere il controllo degli acquedotti nell’intera regione Lazio – e ripartire dalla gestione pubblica dell’acqua. Tutto cambia dopo lo tsunami elettorale? Non è detto. Soprattutto viste le reazioni del mondo finanziario.
Pochi giorni dopo la presentazione del documento, la banca irlandese (ma con capitale tedesco) Depfa ha bloccato – per ora – il piano delle nuove amministrazioni comunali: l’annuncio dei sindaci è un “evento rilevante” per la società. Due parole prese direttamente dall’accordo di project financing del 2007, quando l’istituto finanziario specializzato in utilities (società che gestiscono servizi) concesse un mutuo di oltre 100 milioni – collegato a prodotti derivati – in cambio di garanzie in grado di incidere sulle scelte strategiche della società: se vi sono cambi di direzione ritenuti “rilevanti” dagli analisti finanziari, la Depfa Bank può sostituirsi nell’assemblea dei soci ai comuni che firmarono il pegno delle quote. Un potere dimezzato, con i sindaci sottoposti alla tutela diretta dei grandi fondi d’investimento.
La lettera della Depfa è partita da Dublino il 5 agosto, due giorni dopo l’approvazione di una delibera della conferenza dei sindaci della provincia di Latina che rimarcava l’intenzione di riprendere il controllo della gestione dell’acqua. «La situazione sopra descritta – si legge nella comunicazione dell’istituto irlandese – (…) può comportare, tra l’altro, la mancata approvazione del bilancio».
Poi, l’accordo firmato a Londra il 23 maggio del 2007: «In ragione di quanto sopra, ritenendo l’Agente (la banca, ndr) che già sussistano i presupposti per dichiarare l’Evento Rilevante Potenziale, (…) richiede alla società di inviare copia del documento denominato ‘Documento dei sindaci dell’Ato 4 sulla società Acqualatina’». Ovvero la decisione dei Comuni di gestire il servizio idrico integrato, fermando l’acquisizione da parte di Acea. Secondo il contratto di mutuo del 2007 ora la Depfa potrà arrivare a sostituirsi ai principali comuni – tra i quali Latina, che detiene la maggioranza delle quote – durante la prossima assemblea dei soci, prevista per settembre.
La lettera della Banca fa riferimento anche al duro scontro tra i privati di Veolia (rappresentati dalla srl Idrolatina) e i comuni più critici durante l’ultima assemblea dei soci, finita con l’abbandono del tavolo da parte dei rappresentanti dei francesi. In quella occasione i comuni avevano apertamente chiesto le dimissioni del management, annunciando il voto contrario all’approvazione del bilancio 2015.
Appena un assaggio di quella che potrebbe essere la prossima battaglia sulle municipalizzate e i gestori locali dei servizi pubblici, dove i cambi di gestione in amministrazioni chiave – come Roma e Torino – potrebbero scontrarsi con il sistema di regole e accordi, anche privati, consolidati nel tempo. Su acqua e rifiuti, prima di tutto. Acqualatina per anni è stata il simbolo della privatizzazione del sistema idrico: aumenti delle tariffe, taglio dei tubi per chi non poteva pagare e la presenza della politica, soprattutto di Forza Italia, rappresentata dal senatore di Fondi Claudio Fazzone. Quattordici anni da incubo per i cittadini, che oggi si trovano sulle spalle una società legata con il sistema bancario internazionale.
«Un solo albero può produrre ossigeno sufficiente per dieci persone assorbendo dai sette ai dodici chili di emissioni di CO2 all’anno, oltre che contribuire a ridurre l’inquinamento acustico».ytali online, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
Quanti comuni rispettano la legge, in vigore da tre anni, che impone di piantare un albero per ogni bambino nato o adottato nello stesso comune? L’interrogativo si pone per una ragione molto semplice e insieme allarmante: l’Italia registra una perdita di suolo alla velocità di circa otto metri quadrati al secondo. Un’involuzione inquietante per l’ecosistema che si impoverisce di alberi e piante, fondamentali per il sostegno della vita umana e animale.
Un solo albero è in grado di produrre ossigeno sufficiente per più persone, e di assorbire enormi quantità di CO2. Secondo l’Istituto superiore perla protezione e la ricerca ambientale (Ispra) negli ultimi anni i dati in perdite sono aumentati in modo catastrofico, con un picco negli Anni ’90 quando è stata sfiorata una perdita di suolo di quasi dieci metri quadrati al secondo.
Il rimedio c’è: sta nella legge n. 10 del 14 gennaio 2013, entrata in vigore un mese dopo, che impone appunto ai comuni sopra i 15mila abitanti di piantare un albero per ogni bambino nato. Un solo albero può produrre ossigeno sufficiente per dieci persone assorbendo dai sette ai dodici chili di emissioni di CO2 all’anno, oltre che contribuire a ridurre l’inquinamento acustico. In realtà la norma è tuttora ignorata dalla gran parte dei comuni. E dire che la legge è chiara e in qualche misura severa: se i comuni non ne rispettano le indicazioni, alla fine di ogni anno bisogna che le amministrazioni municipali dispongano delle varianti urbanistiche per assicurare che siano rispettate le quantità minime di spazi riservati al verde pubblico. In buona sostanza ogni comune dovrà individuare un’area nel proprio territorio da destinare a una nuova piccola forestazione urbana con posa di piante autoctone.
Il controllo del rispetto della legge e quindi dei relativi adempimenti spetta al Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, istituito presso il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio. In base a queste disposizioni ogni comune dovrà inviare al Comitato le informazioni relative al tipo di albero e al luogo della sua messa a dimora nell’ambito di un censimento annuale del nuovo verde urbano.
Ma quanti sono i comuni che rispettano quest’obbligo? Non esiste un dato, neppure approssimativo. Ma tutto lascia ritenere che siano poche, pochissime, le municipalità che hanno provveduto e provvedono in questo modo ad una sempre maggior tutela del verde pubblico, e al suo progressivo sviluppo. E dire che, per sollecitare l’applicazione della legge, è stata persino introdotta una “Giornata nazionale dell’albero” che si celebra ogni anno il 21 novembre con l’obiettivo di “perseguire, attraverso la valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio arboreo e boschivo, l’attuazione del protocollo di Kyoto” e di promuovere “attività formative in tutte le scuole”.
In Parlamento sono state presentate interrogazioni, in più riprese e da più parti politiche, per conoscere dai ministeri dell’Ambiente e delle Politiche agricole che cosa intendano fare perché sia rispettata la legge del 2013; e perché non prendano iniziative perché sia piantato un albero per ogni nuovo nato. Ma c’è una terza questione sul tappeto: perché, al fine di prevenire e contenere le alluvioni e il dissesto idrogeologico, e di tutelare la salute di ogni cittadino, il governo non assume iniziative volte a investire risorse economiche per integrare l’opera di piantumazione di nuovi alberi con quella di recupero dei territori maggiormente esposti a frane? Nessuna risposta.
«Land Grabbing. Cento morti e arresti a migliaia tra chi non si piega all’esproprio di Addis Abeba mentre l’Italia festeggia la "sua" diga». Il manifesto, 10 agosto 2016 (p.d.)
È strage di oppositori in Etiopia, una strage che si è concentratta nei giorni tra il 6 e il 7 agosto scorsi quando almeno cento persone sono state uccise dalla polizia etiope durante le proteste antigovernative nelle regioni di Oromiya e Amhara.
Il numero di vittime si è registrato a Oromia nelle città di Ambo, Adama, Asassa, Aweday, Gimbi, Haromaya, Neqemte, Robe e Shashemene. Secondo Amnesty International almeno 30 persone sarebbero state uccise in un solo giorno a Bahir Dar il capoluogo regionale dell’Amhara, dove in diverse migliaia avevano preso parte a una manifestazione. «Le forze di sicurezza etiopi hanno sistematicamente fatto ricorso a un uso eccessivo della forza nei loro errati tentativi di mettere a tacere le voci di dissenso», ha dichiarato Michelle Kagari, vice direttore regionale di Amnesty per l’Africa Orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi.
In centinaia sono stati arrestati e rinchiusi nei centri di detenzione non ufficiali, tra cui le basi di addestramento dell’esercito e della polizia. «Siamo estremamente preoccupati che l’uso di strutture di detenzione non ufficiali possa esporre le vittime a ulteriori violazioni dei diritti umani, tra cui la tortura e altre forme di maltrattamento», ha detto Kagari.
A innescare le proteste a novembre dello scorso anno era stata la decisione del governo di implementare l’Integrated Development Master Plan, piano che prevedeva l’espansione urbana della capitale con la creazione di una zona industriale nella regione di Oromia e l’esproprio dei terreni agricoli dell’area interessata, con postamento forzato di molti Oromo). Benché il piano sia stato successivamente abbandonato, le proteste sono continuate per chiedere riforme politiche, uno stato di diritto e la liberazione dei detenuti politici.
Da anni i gruppi per la difesa dei diritti denunciano gli effetti delle politiche governative della cosiddetta villaggizzazione: vale a dire le violenze perpetrate dalle forze di sicurezza per costringere le comunità locali a trasferirsi da zone urbane sottopopolate, da destinare a investimenti privati, in villaggi governativi, rivelatisi privi dei servizi e infrastrutture di base promessi. D’altro canto il master plan per la crescita urbanistica di Addis Abeba prevede l’inglobamento amministrativo dei comuni circostanti attualmente sotto la giurisdizione dell’autorità regionale degli Oromo. Ciò significherebbe per le comunità indigene il passaggio sotto la giurisdizione del governo federale che comporterebbe l’adozione dell’aramaico come lingua ufficiale e l’abbandono della lingua oromo. Cambiamenti non da poco per il più grande gruppo etnico del paese – gli Oromo, appunto – da tempo in conflitto con il governo centrale per ragioni storiche, tra cui proprio la deportazione da quello che una volta era il territorio ancestrale del popolo e che ora è Addis Abeba.
La stragrande maggioranza della popolazione etiope vive ancora di un’agricoltura di sussistenza su piccoli appezzamenti di terreno che spesso è costretta ad abbandonare a causa di politiche di land-grabbing, accaparramenti da parte di privati che spesso significano l’acquisto di ettari ed ettari di terreni a prezzi stracciati da parte di multinazionali o governi stranieri, da destinare a monoculture intensive. Forme di investimento molto redditizio nell’ambito dell’agribusiness a danno delle popolazioni indigene vittime di devastanti disastri ambientali quali la distruzione di biodiversità, deforestazione, usurpazione di aree di pascolo e di terreni destinati all’agricoltura di sussistenza, con conseguente abbandono delle aree di origine.
Le comunità indigene della regione di Gambella sono entrate in conflitto con il governo proprio sui piani di esproprio e conversione di migliaia di ettari di terreno in piantagioni agricole su larga scala. E non è l’unico caso.
In questo scenario anche l’Italia può vantare responsabilità di sostanza. Lo scorso marzo l’ong Survival International ha presentato all’Ocse un’istanza contro l’italiana Salini-Impregilo per la costruzione della diga di Gibe III nella valle dell’Omo. Si tratta della più grande diga d’Africa e servirà per produrre energia elettrica e per irrigare le monocolture di canna da zucchero a scapito dell’autonomia alimentare di circa 500 mila persone, vittime di abusi e trasferimenti forzosi. La diga secondo Survival ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume Omo da cui dipendono direttamente e indirettamente più di 200 mila indigeni per abbeverare le loro mandrie e coltivare i campi. Proprio ieri, secondo quanto riportato dall’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (Ice), la centrale idroelettrica Gilgel Gibe III ha iniziato a produrre elettricità.
«Wwf. Un dossier lancia l’allarme sull’erosione del litorale e l’inquinamento che stanno distruggendo la costa e il mare. Solo 1.860 km i tratti di costa in buona salute. Tartarughe, uccelli e cetacei a rischio». Il manifesto, 6 agosto 2016 (c.m.c.)
Lo sviluppo urbanistico lungo il litorale italiano «ha divorato 10 km lineari di coste l’anno per 50 anni». Una «barriera di cemento e mattoni lunga 2000 km (un quarto delle nostre coste), l’inquinamento dovuto all’estrazione di idrocarburi, con «122 piattaforme offshore attive e 36 istanze per nuovi impianti», lo sversamento di rifiuti urbani, solidi e anche tossici (compresi radioattivi), l’iper sviluppo turistico che riversa sulle località costiere «il 45% dei turisti italiani e il 24% di quelli stranieri», l’impennata del trasporto via mare che fa «dell’Italia il Paese in Europa, dopo Olanda e Regno Unito, per quantità di merci containerizzate movimentate», e la caduta verticale dell’attività di pesca, con il «93% dei nostri stock ittici sovra sfruttato, e la proliferazione di impianti di acquacoltura (in 10 anni aumentati in Italia del 70%)».
Sono questi i fattori che stanno mettendo a serio rischio i nostri mari e le nostre coste. A lanciare l’allarme è il Wwf che nel suo dossier «Italia: l’ultima spiaggia» chiede subito di invertire le tendenze degli ultimi 50 anni.
«Non può che rassicurarci il fatto che questo nostro Paese abbia circa 700 km di costa (sugli 8 mila complessivi, ndr) e 228 mila ettari di mare tutelati da 27 aree marine protette e 2 parchi sommersi o che l’Italia sia tra le nazioni più ricche d’Europa per la biodiversità marina», scrive Donatella Bianchi, la presidente del Wwf Italia, in premessa del corposo dossier. Però non si può dimenticare che «i tratti di costa liberi dalla urbanizzazione pervasiva più lunghi di 5 km, ad un buon grado di naturalità, non siano più del 10% di tutto il nostro litorale nel versante tirrenico e del 13% in quello adriatico».
Il consumo del suolo infatti sembra inarrestabile: secondo il Wwf che ha usato anche gli studi dell’equipe dell’Università dell’Aquila, «la densità dell’urbanizzazione in una fascia di un km dalla linea di costa è passata nella Penisola dal 10 al 21%, mentre in Sicilia ha raggiunto il 33% e in Sardegna il 25%».
Secondo i dati Istat, prendendo in considerazione la fascia costiera di un km dalla battigia, tra il 2000 e il 2010 sono stati costruiti 13.500 edifici, «40 edifici per km quadrato nei versanti tirrenico e adriatico e più del doppio sulla costa jonica». Prevede l’associazione ambientalista che se le nuove edificazioni sorgessero allo stesso ritmo di quello registrato tra il 2000 e il 2010, «nei prossimi 30 anni avremmo su scala nazionale almeno altri 40.500 nuovi edifici nella fascia costiera».
L’erosione delle coste, l’inquinamento, l’ipersfruttamento turistico e l’elevato traffico di barche e mezzi acquatici di trasporto non solo modificano il paesaggio, distruggono la flora e la fauna marina, spazzano via sabbia, coralli, plancton, posedonia, spugne, e uccidono le specie rare, ma avvelenano anche i prodotti destinati al consumo umano.
Lo studio del Wwf però identifica quattro grandi aree strategiche per la biodiversità dove si concentra la maggior ricchezza dei nostri mari e da dove poter ricominciare per pianificare uno sviluppo sostenibile di tutto il litorale e l’ambiente marino italiano. Sono quattro zone «di forte interazione tra “crescita blu” sostenibile e siti di interesse conservazionisto».
Si tratta della zona tra il Mar Ligure ed il parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, del canale di Sicilia, del Mare Adriatico settentrionale e dell’area del canale di Otranto nell’Adriatico meridionale. Per capirne l’importanza, si pensi solo al fatto che, per esempio, nell’Arcipelago toscano sono stati osservati 12 specie di cetacei (balenottera comune, capodoglio, delfino comune, tursiope, stenella striata, globicefalo, grampo, zifio, balenottera minore, steno, orca, pseudorca). O che il Canale di Sicilia è «un’importante area di nursery per lo squalo bianco, una specie in via di estinzione», e «l’ultimo habitat importante per la razza Maltese, classificata in Pericolo critico». Mentre nel canale di Otranto vivono delfinoidi, foche monache e tartarughe.
Per tutelarli e tutelarci il Wwf chiede una moratoria all’edificazione nella fascia costiera, «sino a quando non saranno approvati i piani paesaggistici in tutte le Regioni», e il blocco dei rinnovi automatici di tutte le concessioni balneari, «come richiesto dalla Corte di Giustizia europea, sino a quando l’Italia non si doterà di una normativa che preveda l’obbligo di gara», e «uno stretto coordinamento operativo tra i ministeri, le regioni e i comuni».
«E' stato approvato il ddl 2290 sugli sprechi alimentari, prevede di “ridurre gli sprechi per ciascuna delle fasi di produzione, trasformazione, distribuzione e somministrazione di prodotti alimentari e farmaceutici”». Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 4 agosto 2016 (c.m.c.)
Il 2 agosto 2016, con 181 voti favorevoli, 2 contrari e 16 astenuti, il Senato ha approvato la legge contro gli sprechi alimentari. L’Italia è il secondo Paese ad avere, dopo la Francia, una normativa dedicata a evitare le eccedenze alimentari. Molto meno coraggioso della Francia, che ha reso obbligatoria la donazione, imponendo tasse e penali ai grandi supermercati che depositano la merce nelle discariche o presso gli inceneritori.
Il provvedimento italiano prevede incentivi, sgravi ed alleggerimenti burocratici, lasciando la facoltà di scegliere alla Grande distribuzione organizzata (Gdo). In poche parole, i supermercati e la Gdo italiani doneranno solo qualora tale scelta sarà più conveniente economicamente rispetto al macero della merce invenduta.
Sicuramente è meglio che niente. Sicuramente però, non risolverà il problema alla radice. 1,3 miliardi di tonnellate di cibo sono sprecate ogni anno nel mondo. Circa la metà della frutta raccolta viene buttata prima di raggiungere il supermercato perché non risponde ai criteri di vendita imposti dall’Unione Europea (misure, dimensioni).
Tanta frutta resta nel campo. Se il prezzo cala, se non conviene, non la si raccoglie. L’industria alimentare su larga scala e la Grande distribuzione organizzata sprecano e schiacciano sotto i loro ingranaggi tonnellate di cibo ancora buono da mangiare.
Ristoranti, mense, bar e famiglie, fanno la loro parte. Il benessere e l’abbondanza di cibo inducono a gettarlo, senza riguardo. Un tempo, quando le nonne facevano il pane in casa, quando il cibo era ancora legato alla terra e a chi lo aveva prodotto, nemmeno una briciola andava gettata. I bambini sapevano fare la “scarpetta”, leccare il piatto, e se qualcosa si gettava era alle galline. Ora il cibo è slegato dalla terra, non c’è amore né odore di terra, nel suo sapore industriale. Il cibo è spazzatura e viene trattato come tale. Ci si ingozza e una volta sazi lo si butta. Una sorta di bulimia collettiva. Se tornassimo a considerare il cibo come vita, frutto della terra, frutto delle mani di artigiani, prodotto localmente, anche i bambini lo amerebbero di più (e forse ci sarebbero meno disturbi alimentari).
Non c’è solo il cibo sprecato, come effetto perverso dell’industria alimentare. C’è inquinamento, deforestazione, spreco di materie prime destinate agli imballaggi usa e getta, ci sono i milioni esseri umani sfruttati, impiegati in condizioni di semischiavitù.
Mi diceva una donna che gestisce una casa-famiglia: «Qui da noi arrivano sempre merendine, patatine, wurstel, coca-cola, succhi di frutta, caramelle di grandi marche…. Non so cosa sia più etico: boicottare l’industria alimentare per il grave impatto ambientale, sociale e sanitario che provoca, oppure accettare gli scarti di un sistema ingiusto, altrimenti destinati alla discarica». Io non ho saputo cosa risponderle. La domanda resta aperta, e fa male.
Nel mondo 868 milioni di persone soffrono la fame. 1,5 miliardi di persone sono obese o in sovrappeso. E’ la prima volta nella storia che cresce l’obesità anche nei paesi poveri. Cibo scadente e poco costoso, junkfood, destinato ai più poveri. La globalizzazione del cibo spazzatura (unitamente alla vita sedentaria) stanno facendo disastri: l’obesità e il sovrappeso stanno uccidendo più della fame.
Sfamare i poveri con gli scarti dell’industria alimentare non scardina le vere cause della miseria e della malnutrizione. Mette invece in crisi la sovranità alimentare e la salute dei più deboli. Come diceva l’Abbé Pierre: « I poveri non hanno bisogno di beneficenza, ma di giustizia».
«"Non è attività di ricerca". Con questa motivazione i giudici amministrativi regionali del Lazio hanno detto no all'istanza della Provincia di Teramo, di 7 Comuni della costa teramana e di altri 2 Comuni marchigiani contro il decreto di Via rilasciato in favore della compagnia inglese Spectrum Geo Limited. Che quindi potrà cercare gas e petrolio in una zona che va da Rimini al Salento». Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 28 luglio 2016 (c.m.c.)
La Spectrum Geo Limited potrà cercare petrolio e gas in un’area dell’Adriatico vasta 30mila chilometri quadrati. Proprio mentre in Adriatico si smantella il pozzo esplorativo di Ombrina Mare - entrato in funzione nel 2008 al largo di San Vito, davanti alle coste abruzzesi -, con una sentenza il Tar del Lazio va in direzione opposta.
È stato bocciato, infatti, il ricorso presentato dalla Provincia di Teramo, da sette Comuni della costa teramana e da altri due Comuni marchigiani contro il decreto di Via (valutazione di impatto ambientale) rilasciato in favore della compagnia inglese. L’attività è quella di prospezione descritta da due istanze presentate il 26 gennaio 2011 per altrettante aree dell’Adriatico, la d1 BP SP (per 13.700 chilometri quadrati, da Rimini a Termoli) e la d1 FP SP (per 16.210 chilometri quadrati, da Rodi Garganico a Santa Cesarea Terme). Gli enti locali contestavano la procedura seguita dai ministeri competenti e che ha portato al decreto di Via: dal limite dell’area interessata, fino alla mancata Valutazione ambientale stragetica.
Per il Tar, invece, la Via è legittima, soprattutto perché non si tratta di attività di ricerca, ma di prospezione. Che vuol dire air-gun. Ora però il ministero non avrà nessuno ostacolo per il rilascio del permesso di ricerca. «Parlare di una nuova strategia energetica nazionale, come fa il governo, è l’ennesima presa in giro nei confronti dei quasi 14 milioni di italiani che il 17 aprile hanno chiesto di voltare pagina. Faremo pressioni su Regioni, Province e Comuni perché facciano ricorso al Consiglio di Stato» dice a ilfattoquotidiano.it Enrico Gagliano del Coordinamento nazionale No Triv.
L’area interessata
L’area complessiva, originariamente, era ancora più vasta (tant’è che nel ricorso si fa riferimento a 30.810 chilometri quadrati) ma alla luce del limite delle 12 miglia introdotto con la legge di Stabilità (e dopo la diffida presentata dagli enti che hanno fatto ricorso), il Ministero dello Sviluppo Economico ha riperimetrato l’area, come pubblicato sul Bollettino Ufficiale degli Idrocarburi di gennaio scorso.
Cinque le regioni interessate dalle attività di prospezione: Emilia Romagna, Marche, Abruzzo, Molise e Puglia. E proprio da quest’ultima regione era partito un altro ricorso ancora pendente, il cui esito a questo punto potrebbe andare nella stessa direzione di quello appena pronunciato dai giudici amministrativi del Lazio.
A proporre ricorso oltre alla Provincia di Teramo, sono stati i Comuni di Alba Adriatica, Cupra Marittima, Giulianova, Martinsicuro, Pedaso, Pineto, Roseto degli Abruzzi, Silvi e Tortoreto. Le amministrazioni chiedevano la sospensione, previo annullamento, del decreto del ministro dell’Ambiente, emanato di concerto con il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, del 3 giugno 2015, con il quale si certificava «la compatibilità ambientale relativa al programma dei lavori».
Il verdetto del TAR
Per il Tar il giudizio positivo di compatibilità ambientale è stato rilasciato in esito ad una adeguata istruttoria, atta a rivelare non solo una compiuta valutazione dei cosiddetti ‘effetti cumulativi’, ma anche ad assoggettare l’attività di cui si discute a misure di mitigazione e a continui controlli».
Si tratta di una sentenza che non convince neppure Enzo Di Salvatore, costituzionalista e autore dei quesiti del referendum sulle trivelle del 17 aprile: «I ricorrenti avevano denunciato il fatto che il provvedimento Via riguardasse aree poste entro le 12 miglia marine – spiega a ilfattoquotidiano.it – che gli enti locali non fossero stati coinvolti, che non fosse stata effettuata la Vas (Valutazione ambientale strategica) e che la richiesta di rilascio del permesso riguardi due aree di ben 30mila chilometri quadrati».
Se il Mise è intervenuto sul limite delle 12 miglia, era rimasto infatti il problema dell’estensione delle zone interessate dalle due istanze. La legge 625 del 1996 prevede che la zona del permesso di ricerca non possa superare l’estensione di 750 chilometri quadrati. Ed è proprio questo il fulcro del verdetto dei giudici amministrativi, secondo cui «l’attività di ricerca – scrivono nella sentenza – è connotata da ricadute sul territorio chiaramente più gravose ed invasive di quella di mera prospezione». Così il Tar esclude quel limite imposto per legge, ritenendo che la normativa non disciplini anche l’attività oggetto delle istanze della Spectrum Geo, che non riguardano «il rilascio di un permesso di ricerca».
Il costituzionalista :«sentenza contraddittoria».
Per Enzo Di Salvatore si tratta di «un divieto che, invece, non può che riguardare anche le attività di prospezione». Il Tar ritiene che il limite dell’estensione dell’area sia da collegare al minore o maggiore impatto delle attività di ricerca, e cioè che debba valere solo per la ricerca effettuata con il pozzo esplorativo e non per quella eseguita con altre tecniche.
La pensa diversamente Di Salvatore secondo cui «se il legislatore avesse voluto, avrebbe potuto limitare il divieto di ricerca solo all’utilizzo del pozzo esplorativo, cosa che invece non ha fatto». Di più: «Il ragionamento del Tar è contraddittorio, perché se la ratio del divieto fosse quella di contenere gli impatti particolarmente invasivi di una data tecnica di ricerca, il divieto dovrebbe riguardare a maggior ragione (se non esclusivamente) le attività di prospezione».
Questo perché, secondo il costituzionalista «un conto è un pozzo esplorativo che ha sì un impatto, ma limitato a un’area geografica, un conto è una tecnica di prospezione come quella dell’air-gun», che consiste in scariche violente di aria compressa verso i fondali. «Una tecnica – conclude Di Salvatore – non solo invasiva, ma che viene effettuata a tappeto e che, in questo caso, riguarderebbe un’area molto vasta, con impatto su cinque regioni».
«I Cortocircuiti francesi sono esperienze simili ai Gas, che importano direttamente dai produttori italiani agrumi e altri prodotti non disponibili localmente». Comune.info, 28 luglio 2016 (c.m.c.)
Vi ho già raccontato in un mio precedente articolo di come una cassa di arance siciliane sia arrivata lunga su Torino, rimbalzata fino a Parigi e quindi esplosa spargendo semi in tutta la Francia. Oggi mi trovo vicino a Gap, sulle Alpi francesi, per osservare l’avanzamento di questa reazione a catena.
Qualche giorno fa ho scavallato le Alpi, ho oltrepassato il lago di Embrun, e sono arrivato allo specchio d’acqua di Veynes, nel dipartimento delle Hautes Alpes, dove si svolge la festa dei Cortocircuiti francesi. Qui ho ritrovato Brigitte e Rémi, che quando passeggiano per Embrun vengono riconosciuti come “Madame et Monsieur Orange”.
Questi Cortocircuiti sono associazioni di cittadini francesi nate per organizzare l’acquisto collettivo di arance ed altri prodotti del consorzio “Le Galline Felici”; a partire dalle arance, i Cortocircuiti si diffondono ed organizzano per acquistare sia prodotti locali che altri prodotti non disponibili localmente, coinvolgendo i mangiatori di arance nella organizzazione degli acquisti e in attività di informazione e cittadinanza attiva.
Le arance delle Galline Felici – grazie alla loro qualità e all’organizzazione logistica messa in piedi da entrambi i versanti delle Alpi – sono un’esca di attivazione; i francesi le assaggiano e rimangono un po’ alla volta coinvolti. A partire dall’associazione Court Jus di Embrun fondata da Brigitte e Rémi, nel dipartimento delle Hautes Alpes sono nate altre sei associazioni in diversi paesi e città. Nel periodo da novembre a maggio ogni mese due Tir di prodotti partono dalla Sicilia per consegnare in sette punti lungo la valle, qui i prodotti vengono divisi tra i vari gruppi raggiungendo in questo modo oltre 2.000 famiglie, circa il 5 per cento della popolazione del distretto che conta 174mila abitanti.
Negli ultimi anni queste sette associazioni sorelle hanno unito all’ordine delle Galline Felici anche ordini da produttori locali, consegnati inseme nell’acquisto mensile; in questo modo il cortocircuito cambia le abitudini di acquisto e facilita l’incontro diretto lungo le filiere sia locali che internazionali.
Questa prima festa raduna qui tra i monti molti di questi cortocircuiti francesi: l’associazione Corto che organizza gli acquisti per quaranta gruppi parigini con la distribuzione in sette punti della periferia, Agrumes Pastel di Tolosa collegata con l’esperienza delle Amap come molte altre di queste associazioni, Cort-circuit Ubayen di Barcelonette nel dipartimento delle Alpes de Haute Provence, Tutti Frutti nella zona di Lione, Givrés d’Orange a Lille ed altre in costruzione tra cui Grenoble, Rennes in Bretagna e Liège in Belgio.
I temi trattati sotto al tendone sono molto simili ai nostri: aspetti logistici e fiscali, scambio di esperienze, il ruolo della distribuzione, il rapporto con i produttori, la partecipazione. La differenza rispetto ai nostri incontri di economia solidale (Ines) sta nella grossa partecipazione degli italiani invitati a scambiare le esperienze in qualità di produttori consorziati del Sud e consumatori organizzati del Nord (Gas, Aequos e reti locali), oltre al gruppo “Lo faccio bene Cinefest”, Social Business World e la squadra di rugby dei Brigantini di Catania; è una festa bilingue, con tanto di interpreti.
Per completare il quadro devo ancora ricordare la spremuta di arance, il succo di mela, il tendone da circo installato per l’occasione, i film tra cui “Autrement, avec des légumes” e i corti del concorso “Lo faccio bene”, i banchetti delle associazioni, i concerti e le danze che favoriscono il clima di festa e lo scambio diretto di esperienze ed informazioni tra i partecipanti.
Queste reti basate sulla relazione diretta tra produttore e consumatore mostrano un modello di crescita interessante, anche se un po’ caotico, che si articola in diversi modi. Lo scopo è di trovare le forme organizzative che consentono di soddisfare i bisogni attraverso un’organizzazione della logistica che sia razionale e allo stesso tempo mantenga le relazioni, sia lungo le reti locali che attraverso le reti lunghe.
Questo processo di contaminazione dei Cortocircuiti, insieme alle esperienze dei produttori e delle Amap francesi che si sono presentati durante gli incontri, mostra quanto la strategia delle reti sia efficace nella pratica, con la capacità di migliorare la vita di chi consuma e di chi produce.
Durante l’incontro della domenica mattina i partecipanti si sono divisi in due parti: da un lato del tendone un gruppo si interroga su come integrare i migranti nel lavoro agricolo, dall’altra i Cortocircuiti discutono insieme alle Galline Felici di progetti di co-produzione per avviare insieme la conversione delle coltivazioni in base alle richieste dei consumatori.
Quello che è specifico di questo incontro è l’intreccio tra reti locali e reti lunghe, che rafforza la trasformazione sociale innescata dalle varie forme di cortocircuito. Per questo motivo, nella sessione finale è stata chiesto alle reti presenti cosa possono mettere a disposizione in termini di beni, servizi ed esperienze. Le reti si fortificano in questo modo, e la partecipazione a incontri come questi mostra come si tratti di una trasformazione sociale in corso.
Oramai è evidente che le prime casse degli ordini collettivi di Gastorino che hanno viaggiato sulla macchina di Julien da Torino a Parigi nel dicembre 2010 e sulla macchina di Brigitte e Rémi da Collegno a Embrun nell’inverno del 2011, oltre a qualche arancia hanno dato un passaggio anche ai germi di questa contaminazione insieme ad un pezzetto di storia contemporanea. Sulla piazza di Embrun, a fianco del monumento a Clovis Hugues, propongo di installare un altro monumento dedicato alle prime casse di arance, la miccia di questa rivoluzione gentile.
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«Abruzzo. Contro l’impianto petrolifero di fronte la Costa dei Trabocchi dal 2008 si battevano cittadini e comitati e Comuni». Il manifesto, 28 luglio 2016 (c.m.c.)
«E’ la testa di un pozzo esplorativo, a cinque chilometri dalle rive dell’Adriatico, e a vederlo adesso fa anche tenerezza. E’ una montagna verticale di ferri verdi e rossi, di un paio di metri o poco più, che esce quasi spaventata dal mare. Incubo Fpso (unità galleggiante utilizzata per la produzione, lo stoccaggio e lo scarico di idrocarburi off shore, ndr), gli oleodotti, le navi cisterna, l’inquinamento da petrolio sono svaniti. E presto non resteranno neanche quei ferrami a ricordarcelo».
Così la ricercatrice Maria Rita D’Orsogna, originaria di Lanciano (Chieti) e che lavora negli Usa, che delle battaglie ambientaliste ha fatto una ragione di vita, racconta, in maniera quasi romantica, lo smantellamento della piattaforma petrolifera «Ombrina Mare 2» al largo della ridente Costa dei Trabocchi, in provincia di Chieti. La battaglia, contro il progetto e contro il greggio «a chilometro zero», dopo otto anni, vede la vittoria dei cittadini, dei movimenti ecologisti, dei comitati, di coordinamenti e Comuni, di sindacati e di decine di associazioni, con la loro opera di informazione, sensibilizzazione e mobilitazione, coronata dallo smembramento e dalla rimozione della piattaforma. Che sono in pieno fervore.
L’ufficialità è arrivata dalla Capitaneria di porto di Ortona (Ch) il 6 luglio con l’ordinanza 42/2016 con la quale si annunciava la «chiusura mineraria», tra il 12 luglio e il 12 agosto, di «Ombrina mare» ricadente nel territorio tra San Vito Chietino e Rocca San Giovanni. Smontaggio della struttura chiesto dalla società Rockhopper Italia Spa; autorizzata il 27 aprile scorso dal ministero dello Sviluppo economico, Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse ed effettuato mediante «l’utilizzo dell’impianto di tipo Jack-Up “Antwood Beacon” e dell’unità di supporto Mimì Guidotti CS 913».In questo lasso di tempo, – è l’ordine della Capitaneria – è vietato navigare e sostare in zona, a imbarcazioni e natanti, che devono mantenersi «ad una distanza di almeno 500 metri dal pozzo e da eventuali mezzi operanti». E’ proibito «praticare balneazione e comunque accedervi, effettuare immersioni e svolgere attività di pesca». La società dovrà invece porre «in atto qualsiasi misura atta a prevenire inquinamento e danni ambientali».
Era il 30 luglio 2008 quando la titolare della concessione, la società Mediterranean Oil and Gas, fu autorizzata al «posizionamento di una testa di pozzo in cima ad una monotubolatura», che emerge per circa 13 metri dall’acqua e dal pozzo di perforazione “Ombrina Mare 2”.
Il 28 febbraio 2014 è subentrata la Rockhopper Italia. Quindi, dopo lotte, cortei con 60 mila manifestanti giunti da tutta Italia, ricorsi alla magistratura, ecco ora le operazioni di rimozione, avviate il 19 luglio. «Mi sono affacciato sul molo – riferisce Marco D’Ovidio, ristoratore a San Vito, con locale di fronte ad Ombrina, e presidente della rete di imprese InTour-Unione Turismo Abruzzo – e mi sono trovato davanti quei mezzi attorno al pozzo. Un colpo al cuore. Che stava accadendo? Poi ho compreso: una sensazione meravigliosa».
«La lotta ha pagato – affermano Alessandro Lanci, presidente di Nuovo Senso Civico e Augusto De Sanctis, del Forum Acqua Abruzzo -. Invece dei pozzi, dei fumi e della meganave raffineria, tra qualche settimana avremo solo mare, il nostro mare liberato. L’Abruzzo unito, insieme a tanti altri movimenti solidali dalle altre regioni, è riuscito a vincere uno scontro campale. L’impegno, però, è quello di non abbassare la guardia, visto che sono in agguato altri progetti deleteri. Dunque, festeggiamo lottando».
«Con la rimozione dell’impianto – evidenzia Fabrizia Arduini, Wwf, autrice di numerosi dossier sulla vicenda – cala il sipario, anche plasticamente, su una storia che, a livello burocratico e procedurale, si era chiusa lo scorso febbraio, quando il Mise, negando alla multinazionale Rockhopper il permesso di fare ulteriori prospezioni sulla base delle norme contenute nella legge di stabilità 2016 (che vietano sondaggi e ricerche entro le 12 miglia dalla costa), aveva scritto, di fatto, la parola fine all’affaire off shore».
«Con Ombrina – sottolinea Maria Rita D’Orsogna – vengono sepolti i sogni, color petrolio, di Sergio Morandi, di Chicco Testa, di Confindustria Abruzzo, di Paolo Primavera, di Sam Moody e dei loro azionisti inglesi. Quante avventure, quante notti a coordinare, quante conferenze, quante domande per capire, quante idee per pressare la Chiesa, che si è schierata contro, e i politici spesso sordi, che hanno contato ben poco». E’ stata messa ko un’azienda petrolifera e fatto sì – anche con il referendum, con l’opera del costituzionalista Enzo Di Salvatore e del coordinamento No Triv – «che il Governo passasse una legge di protezione dalle trivelle antro le 12 miglia dalla riva».
«Sul sito internet di Rockhopper – conclude D’Orsogna – il termine “Ombrina mare” non compare più, e credo che sia il segnale che è proprio finita, anche per loro. Si sono arresi. Scompaiono». Bye bye Ombrina. A non rivederci più.
«Le “Mamme No Inceneritore” di Firenze presentano il progetto di monitoraggio partecipato e diffuso della qualità dell’aria e della salute di chi vive nella piana fiorentina». Comune-info, 17 luglio 2016 (c.m.c.)
La zona della piana fiorentina, che comprende la parte nord della città, è considerata dall’agenzia europea per l’ambiente una delle più inquinate di tutta Europa. Inoltre in questa zona le amministrazioni locali hanno previsto la costruzione di opere altamente inquinanti e impattanti sulla qualità dell’aria come un inceneritore, un nuovo areoporto, la terza corsia dell’autostrada. Ciononostante nella piana fiorentina non sono state collocate, né lo saranno in futuro, stazioni di rilevamento della qualità dell’aria.
È per questo Le “Mamme No Inceneritore” hanno presentato il progetto di monitoraggio partecipato e diffuso della qualità dell’aria e della salute di chi vive nella piana fiorentina.
Le centraline analizzeranno inquinanti come PM 2.5 e PM10, CO e NO2, temperatura e umidità, così da avere una fotografia completa della qualità dell’aria e degli inquinanti presenti nell’area e provenienti da diverse fonti (traffico, fabbriche, riscaldamento, aeroporto). Sfruttando l’energia solare, la maggior parte delle centraline si renderanno autonome dal punto di vista energetico.
Il progetto verrà realizzato con partner autorevoli tecnici informatici, medici e ricercatori universitari che contribuiranno con la loro professionalità e competenza alla realizzazione di un progetto forte, anche dal punto di vista scientifico.
I dati raccolti saranno pubblicati su una piattaforma pubblica, che raccoglierà i dati anche di altre centraline, in modo da poterli confrontare. I dati inoltre saranno utilizzati per uno studio scientifico partecipato concernente sia il rilevamento dell’inquinamento atmosferico e sia gli effetti sulla salute umana.
Ben presto gli investitori realizzeranno che non è conveniente costruire un inceneritore dove la popolazione non dà tregua e ha gli strumenti per non delegare a nessuno la tutela della propria salute.
A questo progetto stanno collaborando reti e comunità di persone attive in diversi settori e con al centro del loro essere e operato la socialità, la formazione, la salvaguardia dei beni comuni, della salute e dell’ambiente. Quello che costruiremo sarà patrimonio di tutti, il progetto potrà essere replicato anche in altre zone della città, della Regione e di tutta Italia.
Per ringraziarvi del vostro sostegno abbiamo previsto anche delle ricompense, che sono diverse e variano in base al vostro supporto, come per esempio: una borraccia di acciaio, una maglietta, workshop su come autocostruire una centralina, urban tour tra città e oasi naturalistiche per visitare la parte di città interessata dal progetto dell’inceneritore, una copia di 1 dvd a scelta tra due film premiati a livello internazionale che parlano sui rifiuti e sugli inceneritori (Trashed e Sporchi da morire) e infine una copia di 1 libro per bambini a scelta tra due libri che trattano il problema dei rifiuti e dell’inceneritore (Ollip e il grande inceneritore e Chi è stato?). Per chi sostiene con cifre elevate, prevediamo delle ricompense stile pacchetto (1 borraccia + 1 dvd + indica una zona che secondo te meriterebbe essere monitorata o 1 libro + 1 dvd + dai il nome a una centralina).

L'impianto verrà chiuso in quanto la società che lo gestisce afferma di essere in grado di offrire "la stessa quantità di energia, a prezzi inferiori agli attuali, utilizzando esclusivamente fonti rinnovabili, eolico e solare" . The New York Times, 27 giugno 2016 (p.s.)
Double Canyon è l'ultimo impianto nucleare ancora in funzione in California. La sua costruzione fu fortemente contestata, 1900 attivisti vennero arrestati nel 1981 durante una manifestazione di protesta, ma solo dopo Fukushima il fronte dei contrari si è allargato. Ora la Pacific Gas & Electric ha comunicato che allo scadere delle licenze, nel 2024, chiuderà la centrale essendo in grado di offrire "la stessa quantità di energia, a prezzi inferiori agli attuali, utilizzando esclusivamente fonti rinnovabili, eolico e solare". Da un lato la conferma che si possono fare profitti anche senza distruggere il pianeta, dall'altro un precedente per altri stati che stanno valutando l'abbandono del nucleare.
GOOD NEWS FROM
DIABLO CANYON
Few nuclear power plants have been as contentious as Diablo Canyon. The plant, which went online in 1985 after years of ferocious opposition, sits on a gorgeous stretch of California coastline, surrounded by several earthquake faults and reliably producing enormous quantities of power - almost a tenth of California’s in-state generation. It also reliably kills enormous quantities of marine life with a cooling system that depends on huge intakes and discharges of seawater. David Brower, the executive director of the Sierra Club, got so angry with the organization when it refused to oppose the plant that he left to establish Friends of the Earth.
Mr. Brower, who died in 2000, would have been pleased with last week’s news. After long negotiations that involved, among others, Friends of the Earth and the Natural Resources Defense Council, the plant’s owner, Pacific Gas and Electric, announced that it would shut down Diablo Canyon when licenses for its two reactors expire in 2024 and 2025 and that it would replace the power with lower-cost, zero-carbon energy sources.
Approvals will be needed from two state agencies, the California State Lands Commission and the state’s Public Utilities Commission. Both should say yes; this is an event of potentially great significance for the future of energy generation in this country and for the health of the earth itself- and not just because a bunch of sometimes quarrelsome forces (unions, environmental groups, the power company) came together to make it happen.
First, the agreement is a recognition by PG&E, which generates a big chunk of its electrical output (and revenues) from Diablo Canyon, that it can provide the same amount of energy at lower costs by investing in wind and solar power and in energy efficiency improvements throughout the system, including its customers. As one negotiator put it, the deal is further evidence that “the age of renewables has arrived” - at least in California, which has long led the nation in energy innovation and last year passed a law requiring state-regulated utilities to get half their electricity from renewable sources by 2030.
Equally important, the agreement could serve as a positive example for other states and nations that may in time need to replace aging nuclear plants without increasing carbon emissions. However old and creaky some of them may be, America’s 99 nuclear reactors produce nearly a fifth of the nation’s power and two-thirds of its low-carbon energy; at a time of mounting fears about climate change, the country would be foolish to shut them down prematurely. When the time comes to retire them, it would be no less foolish to replace their power with anything other than zero-carbon sources like wind, or solar or energy efficiency.
One governor who understands this is New York’s Andrew Cuomo. Mr. Cuomo has proposed an ambitious clean-energy agenda that includes not only substantial investments in wind and solar power, but also subsidies to keep open several upstate nuclear plants that are at risk of closing because of low electricity prices driven by cheap natural gas.
Mr. Cuomo would be happy to close down the Indian Point plant, north of New York City. Indian Point has a terrible track record and last week was forced to shut down one reactor. But losing the upstate plants, he argues, would mean increased reliance on fossil fuels and the greenhouse gas emissions they generate until the day when renewables kick in. A similar drama is playing out in Illinois, where Exelon, a big power producer, has threatened to close down two money-losing nuclear plants unless it gets help from the Illinois legislature.
From a climate perspective, the smart strategy in such cases would be to hold on to the nuclear plants until a California-like transition to greenhouse-gas-free electricity is feasible. Not every state has California’s natural blessings, or its aggressive renewable energy mandates. But its commitment and imagination are worth emulating.