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«I movimenti ambientalisti si sono appiattiti su valori e «leggi» dell’economia globalizzata. Poi Trump con le sue politiche ci ha ricordato che i problemi ambientali sono un nuovo volto della lotta di classe fra ricchi/inquinatori e poveri/inquinati». il manifesto, 29 giugno 2017 (c.m.c.)

Col suo brutale discorso del 1° giugno di quest’anno il presidente Trump ha dichiarato che gli Stati uniti non intendono più aderire agli impegni presi dal suo predecessore a Parigi nel dicembre 2015 sulle azioni per attenuare le cause dei cambiamenti climatici. Tali azioni, secondo Trump, limiterebbero certe attività importanti per l’economia e i lavoratori del suo paese (l’uso del carbone come combustibile), faciliterebbero le importazioni di autoveicoli meno inquinanti con danno per l’industria automobilistica americana e imporrebbero ai consumatori americani maggiori costi per merci alternative e maggiori tasse per risarcimenti finanziari ai paesi danneggiati.

Come è ben noto, i cambiamenti climatici sono dovuti a varie cause, tutte di carattere economico e merceologico, distribuite diversamente fra i vari paesi, come sono distribuiti diversamente i danni e i relativi costi. La principale causa è costituita dalla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera per la crescente immissione di «gas serra»: anidride carbonica proveniente dalla combustione dei combustibili fossili (in ordine decrescente di danno, carbone, prodotti petroliferi, gas naturale), metano proveniente dall’estrazione e trasporto del gas naturale e dalla zootecnia intensiva, e alcuni altri. In secondo luogo i cambiamenti climatici sono dovuti al taglio delle foreste praticato per «liberare» nuovi spazi da dedicare all’agricoltura e all’estrazione di minerali, soprattutto per ricavarne merci destinate all’esportazione, e alle modificazioni della struttura del suolo a causa delle coltivazioni intensive che assicurano maggiori profitti agli agricoltori e per l’espansione degli spazi urbanizzati.

I soggetti coinvolti sono approssimativamente due: gli inquinatori, soprattutto i paesi industriali tradizionali o di nuova industrializzazione (diciamo i ricchi), e gli inquinati, diciamo i poveri, quelli che sono esposti alla siccità, alla desertificazione, e, d’altra parte, ad alluvioni e allagamenti. Con varie contraddizioni: sono danneggiati anche i paesi inquinatori (le alluvioni e la siccità colpiscono anche Europa, Stati uniti e Cina, importanti inquinatori) e d’altra parte anche i paesi poveri, che subiscono maggiormente le conseguenze dei mutamenti climatici, ne sono anch’essi responsabili in parte, soprattutto per la distruzione delle foreste o le attività minerarie.

Gli accordi di Parigi, come è noto, vincolano i paesi inquinatori a limitare le attività responsabili dei mutamenti climatici (usare meno combustibili fossili, soprattutto carbone, ricorrere a energie rinnovabili, produrre merci, soprattutto autoveicoli, che inquinano meno a parità di servizio, per esempio di chilometri percorsi), e a risarcire i paesi poveri che subiscono maggiormente i danni dei mutamenti climatici.

Il più comune strumento è una imposta, pagata dagli inquinatori in proporzione alla quantità di gas serra emessi, destinata ad azioni di rimboschimento, ad aiuti ai popoli alluvionati o resi sterili dalla siccità. Meccanismi da regolare con accordi commerciali – si tratta di un vero e proprio commercio del diritto di inquinare, una specie di commercio delle indulgenze – abbastanza complicati. Per farla breve, si tratta di soldi che gli inquinatori devono tirare fuori, con tasse e perdita di posti di lavoro e modificazioni dei consumi — cose sgradevolissime per la società globalizzata basata sulla legge fondamentale del capitalismo: la crescita del prodotto interno lordo, alla quale devono ubbidire i governanti per compiacere gli elettori che pensano ai soldi e agli affari.

Si capisce bene, quindi, perché il presidente Trump, con la sua abituale brutalità, ha detto che lui «deve» pensare agli interessi dei lavoratori, dei cittadini e dei finanzieri americani e non al futuro del pianeta Terra e alla sorte dei paesi desertificati o alluvionati. A dire la verità, probabilmente tutti i paesi industriali inquinatori pensano la stessa cosa pur dichiarando a gran voce la fedeltà agli accordi di Parigi. In un certo senso coloro a cui stesse a cuore davvero il futuro del pianeta dovrebbero essere riconoscenti a Trump per aver ricordato con chiarezza i veri caratteri dei rapporti fra natura, società ed economia. Ai tempi dei primi movimenti di contestazione «ecologica», all’inizio degli anni settanta, nel nome dell’ecologia sembrava possibile fermare lo sfruttamento della natura, rallentare i consumi superflui e i relativi sprechi e rifiuti, attenuare le disuguaglianze fra ricchi e poveri. Poi, col passare degli anni, i movimenti ambientalisti si sono appiattiti sui valori e le «leggi» dell’economia globalizzata. Molti sono diventati collaboratori dei governi nelle imprese apparentemente verdi, sostenibili, sono diventati sostenitori delle merci biocompatibili, delle fonti di energia rinnovabili (solare e eolico), in realtà occasioni di nuovi affari e commerci.

Trump ci ha ricordato che i problemi ambientali sono un nuovo volto della lotta di classe fra ricchi/inquinatori e poveri/inquinati e la loro soluzione – e la salvezza del pianeta – sono ottenibili soltanto recuperando la voglia di lottare per superare il capitalismo, per una maggiore giustizia sociale, premessa anche per la liberazione dalla violenza fra le persone, i paesi, le generazioni – oltre che verso la natura.

Cambiamenti climatici, sprechi e infrastrutture colabrodo: la mancanza d'acqua investe nuove aree del paese ed è sempre più in anticipo. Articoli di Andrea Giambartolomei e Luca Mercalli. il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2017 (p.d.)

L’ITALIA ASSETATA
SPRECA E ORA E'
IN EMERGENZA
di Andrea Gianbartolomei
Dopo un inverno con poche precipitazioni c’era da aspettarlo. Fiumi e laghi hanno meno acqua del solito e, come se non bastasse, a mettere in ginocchio alcune aree e l’agricoltura si aggiungono i venti caldi che arrivano dal deserto africano. È allarme siccità in Italia e per questo ieri il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato di emergenza nelle province di Parma e Piacenza, che riceveranno 8,65 milioni di euro e avranno alcune deroghe alle norme per assicurare la fornitura di acqua potabile alla popolazione. Sulla stessa linea si muove la Regione Sardegna, che ieri ha chiesto al ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina di prendere provvedimenti anche per l’isola.
La siccità sta colpendo soprattutto “i bacini idrografici padano e delle Alpi orientali, nonché il lago di Bracciano nel Lazio e la Sardegna”, riferisce il ministero dell’Ambiente in una nota. Sarà monitorata la situazione del bacino dell’Adige, mentre sul bacino del Po i valori di portata sono nuovamente in calo. Sempre lungo il Po, all’altezza di Alessandria, i dati rivelano una situazione più grave. L’Arpa Piemonte, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale, ha calcolato che il volume di acqua che passa ogni secondo all’idrometro di Isola Sant’Antonio (Alessandria) è sotto della media storica, quasi il 65 per cento in meno rispetto la media mensile del periodo 1995-2015. Anche le riserve idriche disponibili invasate risultano essere inferiori del 60 per cento rispetto alla capacità massima teorica complessiva. Di conseguenza, a Est di Alessandria, nella zona di Piacenza (dove il Po è sotto il livello medio di 1,5 metri), e poi di Parma, la situazione suscita una grande preoccupazione al punto di arrivare allo stato di emergenza. Le autobotti stanno già rifornendo di acqua potabile alcune zone, mentre la Coldiretti – che ha già stimato un miliardo di euro di danni a livello nazionale – sottolinea i rischi per questa zona dell’Emilia in cui si realizza il 35 per cento della produzione agricola nazionale, un quarto dei pomodori da conserva e molte eccellenze agroalimentari.
Non è l’unica zona a essere in allerta. Nell’Italia centrale “la situazione più delicata è certamente quella che coinvolge la città di Roma e i Comuni limitrofi, collegata, in particolare, con la condizione del lago di Bracciano”, continua la nota del ministero dell’Ambiente. Così nella Capitale la sindaca Virginia Raggi ha ordinato di limitare l’utilizzo di acqua nei giardini, orti e piscine e nel lavaggio delle auto per evitare sprechi.
Nel Lazio, per far fronte alla sofferenza idrica in alcuni Comuni, la Regione ha autorizzato un maggiore prelievo idrico alle sorgenti Pertuso. In Toscana, invece, è soprattutto il Grossetano a soffrire: nella piana è stata persa quasi la metà del raccolto di grano e senza piogge saranno a rischio pomodori, foraggi, viti e ulivi. Nonostante le difficoltà di molte aree, il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti si auto-elogia: “La situazione idrica nazionale e la gestione pro attiva che della stessa stanno facendo gli Osservatori distrettuali ci conferma, ancora una volta, la lungimiranza dell’azione intrapresa da questo ministero, che ha creato, in tempi record, su tutta Italia, tali Organismi di gestione partecipata delle risorse idriche”.
Non sono d’accordo molti ambientalisti. Ad esempio il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli ricorda i mancati investimenti nel miglioramento delle reti idriche: “28 milioni di metri cubi di acqua potabile che si perdono quotidianamente a causa principalmente della fatiscenza di acquedotti che, sommati, portano all’incredibile somma di oltre un miliardo di metri cubi all’anno dispersi”. La rete degli acquedotti è un colabrodo: va perso circa il 40 per cento di acqua e le perdite maggiori si hanno al Sud, sostiene l’Istat in un rapporto di poche settimane fa. Per adeguare la rete idrica ci vorrebbero cinque miliardi,stimava nel maggio 2016 Utilitalia, federazione delle imprese di acqua, energia, ambiente. La media di investimento, ha osservato l’organizzazione, è di 34 euro per abitante all’anno, contro una media europea che viaggia tra gli 80 e i 130 euro.

“SERVE UN PATTO MONDIALE,
MA PER TRUMP SONO FROTTOLE”
Andrea Gianbartolomei intervista Luca Mercalli
«I casi di siccità degli ultimi anni sono qualcosa di inedito, mai verificato nel passato”. Il meteorologo Luca Mercalli non è sorpreso ma “la situazione è grave».
Era prevedibile?
Sicuramente perché non c’è stata pioggia e neve durante l’inverno almeno nelle due zone critiche del Nord, che sono il Veneto e l’Emilia. Da un paio di mesi venivano previsti questi problemi.
C’era qualche modo per prevenire i disagi?
L’acqua se non c’è non si può creare. Le autorità del bacino del Po, allertate da tempo, avranno fatto le loro conferenze per decidere gli usi prioritari dell’acqua. Al di là di fogli e carte bollate, se l’acqua non c’è non può essere inventata.
E i ghiacciai montani non possono aiutare?
Di solito ci danno acqua nella seconda metà dell’estate. In genere nella prima parte dell’estate sono coperti da neve, che con queste temperature sta andando via molto rapidamente e mette a repentaglio il contributo dei ghiacciai. Invece sulle Dolomiti non è nevicato nell’inverno e la situazione è peggiore. Lì i ghiacciai cominciano a scoprirsi.
Si ritireranno ancora?
Quello accade tutti gli anni e un’ondata di calore come questa accelera un pochino il fenomeno.
Secondo lei si sta facendo dell’allarmismo sui media?
Penso che manchi un collegamento tra le emergenze come questa e il cambiamento del paradigma economico. Quando passa l’emergenza nessuno si dà da fare per dei cambiamenti strutturali. Bisognerebbe seguire quanto scritto dal Papa nell’enciclica Laudato si’o seguire l’accordo di Parigi, che per Trump sono tutte frottole.
Con questo caldo dovremmo rinunciare a ventilatori e condizionatori per rispettare l’ambiente?
Con questo caldo il condizionatore diventa una necessità. Quello che si può fare è l’isolamento termico alla casa, qualcosa di strutturale.

Le città (e nelle città) sempre più alte differenza e disagio per i cambiamenti climatici. Come affrontare il problema: Legambiente propone la green economy, ci sono anche altre strade . il manifesto, 1 giugno 2017, con postilla

Non bisogna scrutare l’orizzonte con l’elmetto in testa per scorgere gli effetti dei cambiamenti climatici. Il clima è già cambiato e lo dicono i danni provocati in Italia dai cosiddetti fenomeni metereologici «estremi». Alluvioni, piogge, nevicate eccezionali, periodi di siccità e ondate di calore che rendono complicata, e in alcuni casi anche letale, la permanenza nelle città.

Si possono già contare i morti: dal 2010 al 2016 in Italia hanno perso la vita 145 persone a causa delle inondazioni. Solo l’ondata di calore del 2015 ha provocato 2.754 decessi tra la popolazione anziana di 21 città (over 65). Nello stesso periodo sono stati 126 i comuni italiani colpiti da 242 fenomeni metereologici che hanno provocato danni al territorio e – direttamente o indirettamente – alla salute dei cittadini. Questo è il quadro fotografato dal dossier Le città alla sfida del clima realizzato da Legambiente e presentato a Roma, insieme a un nuovo osservatorio on-line che dà la possibilità di raccogliere, mappare e informare sugli eventi climatici che mettono a rischio le città italiane (cittaclima.it).

Con lo sguardo rivolto agli ultimi sette anni, il rapporto registra già numeri importanti. 52 casi di allagamenti provocati da piogge intense, 98 episodi di danni provocati alle infrastrutture sempre dalle piogge, come i 56 giorni di stop a metropolitane e treni urbani nelle più grandi città (19 giorni a Roma, 15 a Milano, 10 a Genova, 7 a Napoli, 5 a Torino). Danni anche al patrimonio storico (8 episodi), 44 frane provocate da precipitazioni e trombe d’aria. E ancora: 40 esondazioni, 55 giorni di black-out elettrici (il più importante nel gennaio di quest’anno in Abruzzo, con più di 150mila abitazioni rimaste senza luce in seguito a una nevicata). Tra le regioni più coinvolte da «fenomeni estremi» c’è la Sicilia.

LE ONDATE DI CALORE, sottolinea Legambiente, sono un fenomeno sottovalutato che impatta non solo nei centri urbani (gli effetti nocivi per anziani e malati si verificano quando le temperature non scendono di giorno sotto i 35 gradi e di notte sotto i 25). La parola chiave a questo punto è adattamento ed è un messaggio rivolto alla politica, come sottolinea il vice presidente di Legambiente Edoardo Zanchini: «Questa è la vera grande sfida del tempo che viviamo, per vincerla dobbiamo rendere le nostre città più resilienti e sicure, cogliendo l’opportunità di farle diventare anche più vivibili e belle. L’esatta conoscenza delle zone urbane a maggior rischio sia rispetto alle piogge che alle ondate di calore è fondamentale per salvare vite umane e limitare i danni».

Per Edoardo Zanchini è arrivato il momento di rendersi conto che le città non possono più essere lasciate sole: «Non è più rinviabile l’approvazione del Piano nazionale di adattamento al clima, che deve diventare il riferimento per gli interventi di messa in sicurezza del territorio e dei finanziamenti nei prossimi anni, in modo da riuscire in ogni città a intensificare le attività di prevenzione, individuando le zone a maggior rischio, e a realizzare gli interventi di adattamento al clima e di protezione civile».

Il cambio di prospettiva si rende necessario per ribaltare una politica non più sostenibile e non solo economicamente, lo spiega bene un altro dato significativo: l’apertura di 56 stati di emergenza provocati da frane e alluvioni è servita ad accertare danni stimati per 7,6 miliardi di euro e a verificare che lo stato ha stanziato meno del 10% della cifra necessaria (738 milioni di euro). Oltre 1,1 miliardi di danni in Campania, 800 in Emilia Romagna e Abruzzo, 700 milioni in Toscana, più di 600 in Liguria e Marche, che sarebbero serviti per mettere in sicurezza il territorio e dare ossigeno alle attività produttive colpite.

Legambiente ha anche stilato una sorta di decalogo per avere città più resilienti. Oltre all’approvazione del Piano nazionale di adattamento al clima che deve porsi l’obiettivo di mettere in sicurezza le città più vulnerabili, servirebbe un monitoraggio degli impatti sanitari dei cambiamenti climatici sulle aree urbane. La messa in sicurezza dei fiumi che scorrono nelle vicinanze delle città, l’approvazione di linee guida per l’utilizzo di materiali progettati per ridurre l’impatto dei cambiamenti climatici nei quartieri più a rischio (per restare a Milano sono considerati isole di calore preoccupanti i quartieri Forlanini-Ortica, Corsica, Parco Lambro, Mecenate e Quarto Oggiaro). Poi delocalizzare gli edifici a rischio e tutelare le misure di vincolo per evitare la costruzione di nuove strutture in aree allagabili. Buone pratiche sono già presenti in alcune città – dice Legambiente citando il caso milanese di piazza Gae Aulenti – dunque si tratterebbe solo di replicarle per migliorare la vita dei cittadini. Con quali soldi e con quale governo, sarà l’oggetto del prossimo dossier. Forse.

postilla

Ci sono due modi per contrastare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici sull’habitat dell’uomo. L’uno è quello tipico dell’ideologia della “green economy” È quello che mira a ridurre gli effetti adoperando gli stessi strumenti che li hanno causati: nuove tecnologie, nuovi prodotti che sostituiscano sempre di più quelli naturali, regolazione artificiale della temperatura nelle abitazioni, negli uffici, nelle automobili e negli altri luoghi ove vivono i benestanti.

L’altro modo è quello di contrastare le cause dei cambiamenti climatici, a tutte le scale: alla scala planetaria, territoriale, urbana. Affrontando il problema sia nella dimensione globale che in quella locale: a livello sia delle intese interstatali (come quelle che Trump, e non solo lui, energicamente rifiuta), sia nelle politiche locali. In particolare, quelle territoriale e urbanistiche. Su questo piano sarebbe necessario e possibile realizzare un pesante riequilibrio tra suolo libero, verde, prati cespugli alberi acque correnti e ferme da una parte, e cemento, asfalto, ghiaia e ghiaietto, laterizio, lamiere dall’altra parte.

Ma la seconda strada è molto più difficile: impedisce di fare affari, di accrescere privatizzazioni e conseguenti rendite. E potrebbe perfino (udite, utile) impedire la crescita del PIL. Ecco perché gli imbroglioni e gli sfruttatori si affannano a seguire la prima strada (con il loro largo seguito di ingenui un po’ tonti) e così pochi insistono per seguire la strada giusta. (e.s.)

«Un’abbondanza seriale ha cancellato la sapienza del vocabolario agricolo. Anticipiamo il testo di una delle relazioni previste per il Festival dei sensi ( Valle d’Itria, in Puglia)». il manifesto, 25 maggio 2017 (c.m.c.)

Viviamo certamente e da spettatori spesso impotenti, nell’epoca dei paradossi. Se ne potrebbe stilare un elenco esemplare. Uno di questi, davvero clamoroso, è la foga di accumulazione di nuovi beni da parte dei contemporanei. Una bulimia consumistica che crede di acquisire, di impossessarsi, di conquistare, e invece non si accorge di quante perdite va accumulando nel suo vorace avanzare.

L’agricoltura del nostro tempo è un ambito eccellente per scorgere il vasto continente di beni perduti mentre ci si schiude al presente un’abbondanza da sovrapproduzione. Ricade nell’esperienza di tutti. Mai, in nessuna epoca del passato, i banchi dei mercati, al chiuso e all’aperto, erano stati così traboccanti di verdure, di legumi, di frutta. Un’abbondanza abbagliante. Eppure essa maschera un grave processo di impoverimento generale. L’abbondanza in bella mostra è solo di quantità, non di qualità e soprattutto non di varietà. Pensiamo alla frutta, che è il bene agricolo più familiare ai consumatori.

Certo, oggi la velocità dei vettori di trasporto e la rete del commercio internazionale ci mettono a disposizione anche i frutti tropicali che non crescono nei climi delle nostre campagne. Ma le mele e le pere che mangiamo correntemente, quelle che dominano il mercato, si esauriscono in quattro, cinque varietà, come le Golden, le Gala, l’Annurca, le Renette e, per le pere, l’Abate Fetel, le Decane, le William, le Kaiser e poche altre. Da tempo vivaisti e amatori hanno rimesso in circolazione un po’ di varietà antiche.

Quel che qui si vuol ricordare è che fino a poco più di mezzo secolo fa, le varietà sia di mele che di pere, susine, ciliegie, ecc, erano centinaia e centinaia, non solo sui banchi del mercato, ma nel paesaggio delle nostre campagne. Costituivano il frutto secolare della straordinaria produttività biologica della natura modellata dalla creatività e dal genio di infinite generazioni di contadini.

La perdita, però, non è solo di ordine materiale. Non è solo un vasto patrimonio genetico, accumulato in millenni di storia, che è stato rovinosamente intaccato per far posto a un’abbondanza seriale e senza qualità. Non meno grave è la mutilazione estetica e culturale che abbiamo subito. La varietà della piante coltivate costituiva anche la condizione della varietà e ricchezza del nostro territorio.

Sotto il profilo del paesaggio agrario il Bel paese – quello oggi in gran parte cancellato dalle uniformi e monotone piantagioni industriali – si identificava con l’agricoltura promiscua della società contadina. Un paesaggio vario e multiforme, in cui si alternavano i seminativi al frutteto, il pascolo all’uliveto, l’orto alla macchia. La varietà era componente intrinseca della bellezza.
In Italia la fuoriuscita dalla penuria e dalle fatiche della società contadina – mai abbastanza lodata per le sue componenti di umana liberazione – ha reso tuttavia insensibili i contemporanei di fronte alle gravi perdite di beni immateriali che si andavano nel frattempo accumulando.

Chi non ricorda la solitaria lamentazione di Pier Paolo Pasolini per la «scomparsa delle lucciole»? Oggi la rammentiamo soprattutto perché quella scomparsa era un segnale dell’inquinamento provocato dall’avanzare della chimica nelle nostre campagne. Ma Pasolini recriminava però una perdita più grande e struggente: la scomparsa di una visione del mondo notturno, il buio formicolante di migliaia di lumi che parlava alla fantasia di chi osservava, che aveva popolato per millenni l’immaginario delle popolazioni contadine.

Non costituiva una perdita rilevante la privazione di quella umana esperienza fatta di fascino, fantasticheria, incanto, poesia, che si dileguava per sempre?
Ma l’avanzare dell’agricoltura industriale ha prodotto una perdita culturale gigantesca e assai meno visibile di quella del paesaggio. Nel 1983 un autorevole storico inglese, Keith Thomas nel suo Man and the natural world (Einaudi, 1994) rivelò , e forse fu il primo storico a farlo, la mirabolante conoscenza che i contadini inglesi ed europei avevano della infinita varietà delle piante presenti nelle campagne in età moderna.

Prima della classificazione tassonomica operata da Linneo nel XVIII secolo, che esemplificava l’intricata foresta di nomi di piante e animali, designati con nomi locali, gli agricoltori possedevano una sapienza vernacolare delle piante che noi oggi stentiamo a percepire. Col tempo la riduzione della biodiversità naturale e di quella agricola si è accompagnata alla perdita del patrimonio di cognizioni e di parole che l’accompagnava e l’aveva trasmesso nel corso di millenni.

Insieme alle varietà della flora e della fauna si sono a poco a poco estinte anche le parole, il ricchissimo dizionario che aveva tessuto la lingua geniale che le aveva catalogate e che le faceva quotidianamente vivere nelle comunità. Un processo di perdita giunto fino ai nostri giorni, che non è stato solo di parole, ma come al solito anche di immaginario, di senso, di emozioni, di rapporto della mente con le cose, di relazione tra il corpo umano e le altre creature viventi.

Una vicenda di desertificazione del sopramondo fantastico che accompagnava la vita quotidiana che oggi possiamo certificare in tutta la sua ampiezza. Gian Luigi Beccaria, in un libro prezioso, un archivio della nostra memoria linguistica (I nomi del mondo. Santi, demoni folletti e le parole perdute, Einaudi 1995) ha ricordato che «Il mondo totalmente profano, il Cosmo completamente desacralizzato è una invenzione recente dello spirito umano. Sono cadute da pochissimo dalla memoria collettiva, insieme alle parole, le leggende di un ieri non lontano, radicate in una Europa cristiana fittamente gremita di racconti, con ogni momento della giornata, ogni data dell’anno che traeva con sé una folla di credenze e di parole che vi alludevano».

Di fronte alla sbornia consumistica, che fa da battistrada al nichilismo contemporaneo, non è oggi tempo di guardare, non con nostalgia a un passato non tutto da rimpiangere, ma alla ricchezza dello spettro dell’umana spiritualità, di cui dobbiamo sempre più tener conto in un’epoca unidimensionale di abbondanza e di sperpero? Se pensiamo che l’uomo possa tornare a essere non il centro o il padrone ma «la misura di tutte le cose».

« L'associazione ambientalista per la sua campagna a difesa delle foreste boreali, un ecosistema che offre casa a 20 mila specie animali e vegetali, compreso il caribù, rischia la chiusura». la Repubblica, 17 maggio 2017 (p.s.)


ROMA - Quanto valgono le foreste boreali che costituiscono il secondo ecosistema terrestre del mondo come ampiezza, aiutano a difendere la stabilità climatica, offrono una casa a 20 mila specie animali e vegetali, compreso il caribù? E' una stima difficile perché il valore che rappresentano è legato alla sopravvivenza della nostra specie. Più facile è indicare il costo che viene chiesto a chi si batte per la loro difesa: 200 milioni di euro. Greenpeace è stata citata davanti a un tribunale degli Stati Uniti con questa richiesta di indennizzo da Resolute Forest Products, una multinazionale che ha deciso di rispondere così alla richiesta degli ambientalisti di adottare politiche sostenibili di taglio della foresta in Canada.

La cifra è ovviamente simbolica perché l'associazione ambientalista non è in grado di pagarla. In sostanza il colosso del legname chiede la chiusura di una voce storica dell'ambientalismo. E lo fa utilizzando una norma ideata per combattere la mafia. Greenpeace è stata accusata presso la Corte distrettuale della Georgia del Sud di diffamazione e di violazione della Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act, la legge Rico, una norma promulgata da Nixon nel 1970 per combattere il crimine organizzato.

La decisione della Resolute segna dunque una svolta dei rapporti tra mondo produttivo e ambientalismo che ha il segno dell'era Trump. Fino a oggi le aziende chiamate in causa per la loro azione inquinante avevano intavolato una trattativa con la controparte che nella maggior parte dei casi si era conclusa con un vantaggio reciproco: gli ambientalisti avevano incassato il miglioramento delle politiche, le aziende avevano ottenuto un ritorno di immagine e spesso un aumento di efficienza. Adesso si è arrivati al muro contro muro. Vale dunque la pena ricostruire le ragioni dello scontro.

Resolute Forest Products è la principale società canadese del settore del legno e della carta. Ha sede in Canada, a Montreal, e fornisce carta per la produzione di libri, riviste, giornali, cataloghi, volantini, elenchi telefonici. Per farlo, però - accusa Greenpeace - gestisce in maniera non sostenibile vaste aree della foresta boreale canadese, violando i diritti delle popolazioni indigene che la abitano da sempre, devastando l'habitat e mettendo in pericolo specie, come il caribù, già minacciate.

La società sotto accusa ribatte provando a capovolgere lo scenario. Greenpeace è accusata di frode perché "per anni ha indotto a donare milioni di dollari" per cause sbagliate. Resolute - afferma l'azienda nel suo ricorso legale - ha piantato un miliardo di alberi nelle aree boreali. Dunque non ha diminuito la capacità delle foreste di catturare anidride carbonica ma l'ha addirittura migliorata tagliando boschi e ripiantando alberi. Se le foreste boreali indietreggiano - continua Resolute - è colpa dell'urbanizzazione, delle centrali elettriche, delle strade, non delle motoseghe che tagliano gli alberi.

Finora questa tesi non ha ottenuto il sostegno della magistratura. Già nel 2013 Resolute aveva citato per diffamazione Greenpeace Canada davanti alla Corte superiore dell'Ontario chiedendo un indennizzo di 5 milioni di euro. La causa è ancora in corso, ma gli attacchi legali di Resolute hanno subito una battuta d'arresto il 9 marzo 2017, quando la Corte d'appello dell'Ontario ha definito "scandalose e vessatorie" le accuse di Resolute nei confronti di Greenpeace Canada. Resolute ha reagito rilanciando con un'accusa che mette sullo stesso piano Greenpeace e i clan mafiosi.

L'associazione ambientalista ha reagito parlando di Strategic Lawsuit Against Public Participation (cause strategiche contro la pubblica partecipazione): cause civili basate su accuse infondate che hanno come obiettivo l'intimidazione, il tentativo di soffocare le voci libere. E ricorda che la foresta boreale è la corona verde del pianeta: si estende per 16 milioni di chilometri quadrati - circa il doppio della foresta amazzonica - dall'Alaska alla Russia, passando per il Canada e la Scandinavia. Rappresenta oltre un quarto delle foreste rimaste sulla Terra e occupa più della metà del territorio canadese. Nonostante ciò, attualmente solo l'8 per cento della superficie forestale del Canada è protetto e molte aree sono minacciate.

Un rapporto appena reso noto dall'associazione ambientalista indica come importanti case editrici internazionali, tra cui Penguin Random House, HarperCollins, Simon & Schuster e Hachette acquistino carta da Resolute. Greenpeace invita queste case editrici internazionali a unirsi alla richiesta di tutelare la libertà di espressione e il diritto ad associarsi per la difesa di temi di interesse pubblico, come la conservazione delle foreste.

«Abbiamo sia le tecnologie che le risorse finanziarie per prevenire le peggiori conseguenze del cambiamento climatico: quello che non abbiamo è tempo da perdere», commenta Jennifer Morgan, direttrice di Greenpeace International. «Bisogna agire subito e molte aziende hanno accolto le nostre richieste per arginare il global warming e l'inquinamento: da quelle della moda a quelle che producono olio di palma. Noi abbiamo 55 milioni di persone che ci danno online il loro supporto. Non credo che sia una buona politica sfidare il peso dell'opinione pubblica».

«Da 12 giorni sta facendo lo sciopero della fame e della sete per protestare contro la costruzione del maxi gasdotto Tap in Salento. Altri nove militanti hanno iniziato a imitare il suo esempio». la Repubblica, 8 maggio 2017 (c.m.c)


Dodici giorni senza mangiare né bere per protestare contro la realizzazione del gasdotto Tap a Melendugno: l’oncologo di Casarano Giuseppe Serravezza diventa l’uomo simbolo della resistenza del Salento.

Sessantasei anni, 12 chili in meno da quando ha iniziato lo sciopero della fame e della sete, la sua funzionalità renale è alterata, i medici temono che il cuore ceda ma lui non vuole sentire ragioni. «Dopo cinque anni non c’è altra strada: il governo deve ascoltare la voce del territorio — ripete a coloro che lo pregano di smettere — Il Salento non può permettersi di pagare altro in termini ambientali».

La richiesta è chiara, veicolata nella lettera che il governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano, il 5 maggio ha indirizzato al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni: «Il governo riapra un confronto sulla possibilità di spostare l’approdo dell’opera da Melendugno ». Ancora più accorato l’appello alla politica nazionale della famiglia di Serravezza, i figli Flavia e Antonio e la moglie Enza: «Mettete da parte i veleni, le beghe politiche, i risentimenti personali. C’è un uomo che rischia la vita per dare voce a una terra che vuole decidere il proprio futuro».

Proprio per aiutare la sua gente, Giuseppe Serravezza molti anni fa scelse di mettersi al servizio dei malati di cancro del Basso Salento, fino a diventare primario del Polo oncologico Casarano-Gallipoli, e lì cominciò a rendersi conto che in quei luoghi da cartolina alcune patologie tumorali erano più frequenti che in altre zone della Puglia. Neoplasie al polmone e alla vescica, in particolare, apparivano presenti in maniera preoccupante e per cercare di capirne il motivo, il professore portò avanti una serie di studi insieme alla Lilt (di cui è stato presidente e oggi è responsabile scientifico).

Nel 2014 il medico si diceva convinto che «le emergenze ambientali di alcune zone del Sud, Puglia, Campania e Basilicata, sono la causa del preoccupante incremento della mortalità per cancro ». Il riferimento era alle industrie che da Taranto e Brindisi mandano le emissioni nocive verso Lecce, grazie ai venti che spirano quasi sempre da nord, alle mille discariche abusive, ai rifiuti interrati. Proprio la richiesta di verità sui veleni sepolti nelle campagne del Capo di Leuca è stata una delle battaglie di Serravezza degli ultimi anni, insieme a quella per evitare la realizzazione della centrale a Biomasse a Casarano. «Anche in quella circostanza dicevano che era già tutto deciso — ha ricordato — ma l’opposizione popolare è riuscita a bloccare i progetti».

Poi arrivò la Tap. In Salento e nella vita di tante persone, tra cui l’oncologo, che nel 2012 aiutò il Comune di Melendugno a scrivere le osservazioni per bloccare la Valutazione di impatto ambientale poi concessa dal ministero dell’Ambiente. I suoi dubbi riguardavano le emissioni prodotte dal terminale di ricezione, che sorgerà vicino all’abitato di Melendugno, ovvero la possibilità che vengano introdotti in atmosfera Pm10, monossido di carbonio, ossido e biossido di azoto. Eventualità che Trans Adriatic Pipeline ha smentito carte alla mano e che la viceministra allo Sviluppo Teresa Bellanova ha chiesto all’Istituto superiore di sanità di verificare.

Il problema che Serravezza evidenzia, però, non riguarda le emissioni in sé ma il cumulo di inquinanti in una realtà che già nel 2014 Arpa Puglia definì tale «da non potersi permettere ulteriori pressioni». Per questo ha trasformato il suo corpo nel mezzo della protesta estrema e indotto altri nove attivisti No Tap a seguire il suo esempio, iniziando lo sciopero della fame, mentre i sindaci salentini organizzano una manifestazione sotto Palazzo Chigi per i prossimi giorni.


«Il parere legale ha confermato ciò che i movimenti, i cittadini, gli agricoltori denunciano da almeno 30 anni, conducendo una dura battaglia sul campo». la città invisibile, 24 aprile 2017 (c.m.c.)


«La Monsanto deve essere ritenuta responsabile per crimini contro l’umanità, violazione dei diritti umani, libertà di informazione e Ecocidio».

I cinque giudici internazionali del tribunale Monsanto hanno presentato, oggi [18 aprile 2017, NdR] a L’Aia, il loro parere legale dopo aver analizzato per 6 mesi le testimonianze di oltre 30 testimoni, avvocati ed esperti sui danni causati dalle attività della Monsanto. I giudici hanno concluso che la Monsanto ha condotto azioni che hanno negativamente pregiudicato il diritto ad un ambiente sano, il diritto al cibo e il diritto alla salute. I giudici hanno infine incoraggiato gli organi di controllo a proteggere l’ambiente e i diritti umani internazionali contro la condotta delle multinazionali che stanno, inoltre, violando il diritto alla libertà di ricerca scientifica.

Il parere legale ha confermato ciò che i movimenti, i cittadini, gli agricoltori denunciano da almeno 30 anni, conducendo una dura battaglia sul campo. Il modello di un’agricoltura basata su monocolture, sull’ampio uso di prodotti chimici e di sementi geneticamente modificate, e il modello economico industriale, basato a sua volta su politiche neoliberiste di libero scambio e sulla liberalizzazione del commercio, stanno avvelenando milioni di persone e stanno espellendo i piccoli agricoltori dalla terra, consentendo alle aziende di stabilire monopoli e ottenere il controllo dei nostri semi e del nostro cibo. Pur avendo distrutto buona parte del nostro suolo, inquinato l’acqua e messo a rischio la biodiversità, pur avendo contribuito massicciamente al cambiamento climatico, il modello di agricoltura industriale produce solo una minima parte del cibo disponibile a livello globale basandosi sulla falsa asserzione che abbiamo bisogno di veleni per produrre cibo.

I produttori reali sono i nostri impollinatori, gli organismi del suolo e della biodiversità e i piccoli agricoltori che, come co-creatori e co-produttori con la natura, forniscono la maggior parte del cibo che è nutriente per il pianeta e per la gente e in grado di offrire una soluzione alla povertà, alla crisi agraria, all’emergenza della salute e alla malnutrizione.

Il parere consultivo dei giudici internazionali del tribunale Monsanto rappresenta quindi un colpo consistente al potere del big business e un supporto rilevante per il lavoro di migliaia di attivisti, agricoltori, consumatori e cittadini di tutto il mondo. I giudici hanno considerato come, durante l’ultimo mezzo secolo, le aziende abbiano creato miti e propaganda su sostanze chimiche velenose «necessarie per sfamare il mondo».

Per l’industria si trattava di aumentare le loro fonti di utili dopo la fine della guerra, ma per il pianeta e i suoi abitanti, i costi sono stati molto alti: invece di nutrirci, il cibo di origine industriale è diventato una delle principali cause di malattia e povertà. Il parere consultivo del Tribunale Monsanto non solo esprime preoccupazione sui risultati delle attività delle multinazionali in tutto il mondo, ma mette in guardia la società civile e le istituzioni sui pericoli futuri.

Nonostante tutti i loro crimini, le grandi aziende stanno, infatti, cercando di ingrandirsi, reclamando potere assoluto, diritti assoluti, immunità assoluta, mettendo in campo strumenti ancora più violenti contro la natura e le persone. Fusioni, acquisizioni e accordi, come quelli tra la Monsanto-Bayer, fra la Dow-Dupont, fra la Syngenta-ChemChina, risulteranno in un cartello di 3 aziende giganti di semi e prodotti chimici in grado di controllare il nostro cibo e la nostra agricoltura, con un forte impatto sui diritti degli agricoltori e dei consumatori. Mentre la concorrenza è la retorica degli accordi di libero scambio, il monopolio è il vero risultato. E’ questo il modo con cui le multinazionali stanno distruggendo la diversità, il pluralismo e la democrazia, cercando di sbarazzarsi delle normative che proteggono il nostro cibo, la nostra salute e i nostri mezzi di sussistenza.

I movimenti di tutto il mondo hanno denunciato ogni tentativo delle multinazionali di estendere il loro controllo sulla nostra vita, sui nostri semi, e sulle conoscenze indigene attraverso i diritti di proprietà intellettuale, utilizzando lo strumento di brevetti sui semi e sulla vita. La porta ai brevetti è stata aperta attraverso la chiave dell’ingegneria genetica, dichiarando che i semi sono un’invenzione aziendale e quindi di proprietà delle multinazionali.

Attraverso la creazione di monopoli, le multinazionali raccolgono royalties e negano agli agricoltori il diritto di condividere e conservare i semi derubando così i cittadini dei loro diritti alla sovranità alimentare. Oltre ai problemi di sicurezza, tra cui la modificazione genetica, la biologia sintetica e la modifica dei geni legata agli OGM, la questione principale appare essere quella dell’obiettivo delle multinazionali di ottenere il possesso della vita sulla terra.

Il Tribunale Monsanto ha confermato la pericolosità di prodotti e di sostanze chimiche tossiche come Round Up (glifosato) e Basta (glufosinato), neonicotinoidi, atrazina, e altri pesticidi velenosi che hanno causato distruzione dei suoli, desertificazione, sterminio di api, aumento di epidemie come cancro e difetti congeniti.

Queste multinazionali stanno contaminando la popolazione inquinando il suolo e avvelenando i nostri sistemi alimentari. La relazione pubblicata di recente da Hilal Elver, relatore ONU per il diritto al cibo, presenta una chiara analisi relativa all’uso di pesticidi in agricoltura e agli impatti sui diritti umani. Lo scorso settembre, la Corte Penale Internazionale ha dichiarato di voler dare la priorità ai reati connessi alla “distruzione dell’ambiente”, allo “sfruttamento delle risorse naturali” e alla “espropriazione illegale” di terra prendendo in considerazione molti crimini tradizionalmente sottovalutati. La CPI non sta estendendo formalmente la sua giurisdizione, ma ha specificato di voler valutare reati esistenti, come i crimini contro l’umanità, in un contesto più ampio.

Il parere consultivo reso pubblico dai giudici del Tribunale Monsanto ha un forte valore morale e conferma la necessità di affermare il primato dei diritti umani e ambientali all’interno di un quadro giuridico internazionale. Il diritto internazionale dovrebbe ora riconoscere, con precisione e con chiarezza, i diritti dell’ambiente e il reato di Ecocidio. Il Tribunale conclude che, se il reato di Ecocidio fosse riconosciuto nel diritto penale internazionale, le attività della Monsanto potrebbero, con tutta probabilità, costituire un crimine. I movimenti della società civile possono ora contare su nuovi strumenti e su un parere consultivo legale eminente per rafforzare la loro azione in difesa dei diritti della terra e dei suoi abitanti.

Storia pregressa e prossime attività in programma

Il procedimento che ha condotto il “Cartello dei Veleni” a prendere atto dei propri crimini e che ha portato all’organizzazione del Tribunale Monsanto, è frutto di 30 anni di lavoro in campo scientifico, legale, sociale e politico da parte di movimenti, scienziati e cittadini coscienziosi.

Mentre i tribunali si occupano dei crimini del Cartello di Veleni, che è molto importante affinché si affermi la giustizia, le persone detengono il potere di cambiare le modalità di produzione del loro cibo.

Contemporaneamente al Tribunale Monsanto, lo scorso ottobre si è svolta a L’Aia anche un’Assemblea Popolare. E’ stato un incontro di movimenti ed attivisti che lavorano per difendere il nostro ecosistema e la nostra sovranità alimentare, che studiano gli effetti delle sostanze chimiche usate in agricoltura sulle nostre vite, sul nostro suolo, sulla nostra atmosfera e sul clima. L’Assemblea Popolare ha rappresentato un’occasione per individuare insieme la giusta strada per reclamare un futuro basato sulla Libertà dei Semi e del Cibo, sull’agro-ecologia e sui diritti degli agricoltori, sui nostri beni comuni, su economie di condivisione e sulla Democrazia della Terra.

Negli stessi giorni, si sono svolte Assemblee Popolari auto-organizzate da comunità locali di tutto il mondo che hanno dato vita ad una rete globale di cooperazione al fine di garantire un futuro più salutare sia dal punto di vista della genuinità del cibo sia da quello del rispetto dell’ambiente.

Il 16 ottobre 2016, Giornata Internazionale dell’Alimentazione, l’Assemblea Popolare ha emesso il suo verdetto: la Monsanto e il Cartello dei Veleni sono colpevoli di crimini contro in nostro pianeta e contro l’umanità. L’industria che fabbrica i veleni sta distruggendo la vita sulla terra, la nostra salute e le nostre democrazie. L’Assemblea Popolare ha quindi deciso che è tempo di mettere fine ad un secolo di ecocidio e genocidio.

Nel momento in cui le multinazionali si compattano per mezzo di fusioni ed aumentano di dimensioni e potere, i movimenti che hanno preso parte all’Assemblea Popolare hanno deciso di unire le forze per reclamare i diritti delle persone ad un’alimentazione sana e a un ambiente altrettanto sano e sicuro, come anche per difendere le tutele esistenti, in materia di diritti umani e ambientali conquistate nel corso di decenni di lotte sociali.

Nel 2016 si sono svolte più di 1100 Assemblee Popolari in 28 paesi diversi, nelle quali i partecipanti hanno preso l’impegno di difendere collettivamente la Libertà dei Semi, del Cibo e i nostri diritti democratici per far sì che il nostro sistema alimentare del futuro protegga la vita sulla terra ed il benessere di tutte le creature viventi.

Questa mobilizzazione a livello globale continua a crescere: movimenti da ogni parte del mondo continuano a incontrarsi con il comune intento di mettere fine ad un secolo di ecocidio e genocidio.

In risposta alla serie di preannunciate fusioni tra i giganti dell’industria agro-chimica, l’ultima delle quali l’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer, Navdanya sta organizzando diversi eventi ed attività per i prossimi mesi:

Recentemente, Navdanya è entrata a far parte di un vasto movimento di opposizione contro i veleni presenti nel nostro sistema alimentare e ha invitato la cittadinanza a firmare l’Iniziativa dei Cittadini Europei per vietare il glifosato e per riformare le politiche di approvazione dei pesticidi nell’Unione Europea. In relazione agli effetti dei pesticidi contenenti glifosato sulla salute umana, molti testimoni da Europa, Stati Uniti e Argentina hanno partecipato al Tribunale Monsanto, condividendo la loro esperienza relativa ai danni associati ai prodotti chimici utilizzati in agricoltura.

In India, Navdanya è molto attiva nel contrastare il processo locale di approvazione delle fusioni tra multinazionali e sta mettendo in guardia il governo indiano sui conflitti d’interesse esistenti e sul pericolo derivante dalla troppa concentrazione di potere. Allo stesso tempo, Navdanya ha riunito vari movimenti per intraprendere un Satyagraha Yatra, un pellegrinaggio per la Libertà dei Semi e del Cibo, programmato nel mese di aprile 2017.

In Grecia, dal 20 al 22 aprile, Navdanya si unirà a Peliti per il Festival Olimpico per la Libertà dei Semi insieme a movimenti e organizzazioni provenienti da tutto il mondo.

In Germania dal 25 al 29 aprile, insieme a CBG (Coalition against Bayer Dangers), IFOAM Organics International, Colabora e molti altri movimenti di cittadini ed organizzazioni, Navdanya ha organizzato una serie di eventi che culmineranno in una manifestazione, il 28 aprile a Bonn, di fronte al World Conference Center dove, lo stesso giorno, è in programma l’incontro annuale di Bayer con gli azionisti.

Mai come ora è stato più importante per la popolazione organizzarsi per fermare la presa di potere delle multinazionali sul nostro cibo e sul nostro pianeta.

Vi invitiamo ad unirvi alle comunità di tutto il mondo in questa nuova “Chiamata all’azione contro la presa di potere delle multinazionali sul nostro cibo e sulla nostra salute”. Vi invitiamo inoltre ad organizzare un’Assemblea Popolare, ovunque voi siate per creare un futuro migliore per il nostro sistema alimentare ed il nostro pianeta.

In ogni luogo, assumiamo l’impegno per creare un futuro più salutare per il nostro cibo e per il nostro pianeta. Dalle Assemblee Popolari lanceremo una campagna di boicottaggio, per proteggere i cittadini dai veleni e dalle imposizioni del Cartello dei Veleni, e per liberare i nostri semi e la nostra terra, le nostre comunità e società, il nostro pianeta e noi stessi.

«International Earth Day. Da Silicon Valley alle università californiane, centinaia di migliaia in piazza contro il "maccartismo climatico"». il manifesto, 23 aprile 2017 (c.m.c.)

«Una nazione che distrugge le proprie terre distrugge se stessa. Le foreste sono i polmoni della nostra terra, purificatrici dell’aria e fonte di forza per la nostra gente». Sul sito della associazione Earth Day della California campeggia questa frase di Franklin Roosevelt, quasi a dare una ulteriore misura di quanto sia rimossa questa America etnonazionalista, populista e oligarchica da quella che all’inizio del secolo scorso costruì lo Stato sociale.

Prima ancora un altro Roosevelt – il cugino guerrafondaio Teddy – era stato paladino dei parchi nazionali, tutelando quasi un milione di km quadrati di territorio federale. Il movimento «conservazionista» era nato qualche anno prima, soprattutto nella California esplorata da John Muir, padrino dei parchi della Sierra Nevada e di Yosemite.

Il naturalista scozzese veicolava la riverenza per la natura precedentemente espresso da Thoreau e Walt Whitman, un misticismo contemplativo in perenne tensione, nella storia americana, con l’impulso opposto a sottomettere la natura al «destino manifesto» dello sviluppo e del capitale. Dal lavoro californiano di Muir discende il moderno movimento ambientalista che dai conservatori del Sierra Club si evolverà alla moderna militanza di Greenpeace e agli eco-guastatori di Earth First con le loro azioni contro le dighe e a favore delle antiche foreste dell’Ovest.

La prima mobilitazione della Giornata della Terra avviene attorno ad una perdita di petrolio da una piattaforma nella baia di Santa Barbara. Culla del ambientalismo moderno la California ha tradotto 50 anni di istanze «verdi» in normative ambientali e politiche energetiche all’avanguardia che oggi mettono lo Stato in antitetica controtendenza rispetto alla rottamazione ambientale del governo Trump.

Dal polo solare, eolico e high tech californiano dove fioriscono new company come la Tesla e dove perfino Marchionne è tenuto, controvoglia, a commercializzare Fiat 500 elettriche, l’azzeramento delle norme di consumo sulle auto di Detroit e il «ritorno al carbone» continuamente perorato da Trump appaiono ancora più paradossali. Un atto, tra l’altro, di volontario autolesionismo economico che cede il primato tecnico scientifico ancorato in gran parte proprio qui.

Non sorprendono dunque le dichiarazioni del governatore Jerry Brown, reduce personale delle prime battaglie ambientaliste di 40 anni fa: «Qualunque cosa facciano a Washington, non possono cambiare i fatti… la scienza parla chiaro». Un attacco esplicito al tentativo «di costruire un universo alternativo basato su non-fatti di nostro gradimento. La California – ha assicurato Brown, che gode di ampio consenso elettorale – non tornerà indietro. Né ora né mai!».

Al di là della minaccia retrograda al complesso ambientale-industriale supportato dalla grande rete scientifico-universitaria del suo Stato, Brown ha inquadrato la natura epistemologica dello scontro politico in atto. Il neo oscurantismo trumpista vuole ampliare l’offuscamento già operato dalle fake news alla confutazione dell’indagine scientifica se questa non serve agli interessi industriali.

E la resistenza, col movimento ambientalista in prima linea, si trova oggi a dover difendere la natura stessa dei fatti e le fondamenta della conoscenza. Fra le motivazioni delle centinaia di marce per la scienza di ieri c’era quindi la resistenza al negazionismo climatico, al creazionismo e all’antivaccinismo dilganti con l’appoggio implicito ed esplicito di un potere esecutivo che ha elevato ignoranza e l’approssimazione a valori politici. Una resistenza ontologica al tempo delle bufale.

Le ragioni alla base delle marce per la scienza hanno suscitato molto dibattito. C’è stata, diffusa, la preoccupazione di cadere nella trappola della parte che da sempre cerca di dipingere scienza, educazione, ambientalismo come «ideologie politiche» per elevare simultaneamente oscurantismo e integralismo a legittima «opposizione», meritoria di par condicio. Alla fine è prevalso il consenso sull’urgenza di farsi contare pubblicamente come scienziati nel momento in cui il governo americano sferra un attacco senza precedenti contro la scienza e l’ambiente.

Un attacco che comprende la nomina a direttore dell’Epa (l’agenzia federale per l’ambiente) di Scott Pruitt, un avvocato di petrolieri che da attorney general dell’Oklahoma aveva copia-incollato su carta intestata un comunicato della Devon Energy per denunciare i tentativi della stessa Epa di limitare le emissioni nel suo Stato.

Pruitt ha ripetutamente citato in tribunale la stessa agenzia che ora dirige e intende rottamare. Appena assurto alla direzione ha intimato ai 15.000 scienziati Epa di cessare ogni iniziativa contro il mutamento climatico. Il «maccartismo climatico» dell’amministrazione Trump è tale che brigate di hacker operano oggi per copiare e salvaguardare i dati delle agenzie ambientali prima che i nuovi dirigenti le possano cancellare. Intanto i trumpisti annullano i satelliti per i rilevamenti di Noaa e Nasa.

La scienza è quindi di fatto diventata l’oggetto di una contesa politica a cui le centinaia di migliaia di partecipanti ai cortei hanno valutato di non potersi sottrarre.

Così ieri sono scesi in piazza tecnici, professori, ricercatori e scienziati, hanno lasciato per un giorno i laboratori di Caltech, Berkeley, Jpl, Salk institute, Scripps e da migliaia di altri in tutta America e scesi in prima linea contro l’involuzione autarchica, antitetica alla curiosità e all’intelligenza scientifica che rappresenta oggi una minaccia senza precedenti al nostro pianeta.

Finalmente Carlo Petrini, intervistato da Angelo Mastrandrea, "la butta in politica": ha compreso dove stanno le radici dei disastri in atto e lo dice. La sua è una critica radicale al neoliberismo e ai colonialismi vecchi nuovi. il manifesto 23 aprile 2017

Guardiamo alla salute del pianeta, ma pure a quella di chi lo abita, sembra dire Carlo Petrini, un una singolare sintonia con papa Francesco. Solo se si guarda al problema da questa prospettiva si potrà avere uno sguardo più ampio che consenta di connettere questioni che nell’agenda politica sono rigorosamente separate: i cambiamenti climatici, la produzione alimentare e le migrazioni, ad esempio.

L’ideatore di Slow Food è convinto che non si può affrontare la febbre che rischia di portare la Terra al capolinea pensando solo di alleviarne i sintomi. A suo parere è necessario affrontare il malessere alla radice, combattendo «il folle sistema economico» che lo produce e proponendo un «cambio di paradigma» radicale. Socialista e umanitario, verrebbe da dire.

La sua ricetta teorica per salvare il pianeta si compone di due ingredienti fondamentali: la decolonizzazione del pensiero e la creazione di un nuovo modello socio-economico. Quella pratica si risolve nella proposta di un Piano Marshall per i paesi più poveri. «Due giorni fa il nostro primo ministro Paolo Gentiloni ha detto che bisogna aumentare gli aiuti ai paesi di partenza dei migranti per creare lavoro a casa loro. Giusto, però la verità è che l’Ue non fa nulla. Se volesse intervenire davvero, dovrebbe inventarsi una sorta di Piano Marshall, ma ancora più forte», dice.

Vorrebbe dire abbandonare l’austerity, proprio quello che l’Unione europea non vuole.
«Sarebbero tanti soldi, certo. In ogni caso, se non si fa nulla quei costi li pagheremo ugualmente, perché non ci saranno muri che terranno di fronte all’ondata migratoria. È questa la battaglia politica più importante oggi in Europa, l’unico modo per far fronte all’avanzata dei Salvini e delle Le Pen».

Oggi si celebra la Giornata mondiale della terra, ma a nessuno è venuto in mente di legarla alle migrazioni come fa lei.
«Se non vediamo la connessione tra distruzione degli ecosistemi e migrazioni non capiamo nulla di quello che sta accadendo. La maggior parte delle persone non fugge per le guerre, ma perché le loro prospettive di vita sono nulle. I giovani africani si vedono negato il diritto alla terra, che un tempo era consuetudinario, perché i nuovi colonizzatori arrivano ad acquistarla legalmente, accaparrandosela a prezzi ridicoli grazie ai governi-canaglia figli della decolonizzazione».

Chi intende per nuovi colonizzatori?
«Penso ai cinesi e agli indiani, che comprano milioni di ettari di terreni in Africa per produrre cibo che non finisce agli africani, o ai fondi sovrani che fanno lo stesso per produrre biocarburanti. Questo causa la perdita di biodiversità e di fertilità dei terreni, e provoca le migrazioni di massa.

Poi ci sono i vecchi colonizzatori. Molti investimenti europei in Africa sono legati alla sostenibilità ambientale.
«Anche questo è un terreno minato. Le faccio un esempio: in Uganda il governo locale ha messo a disposizione della Norvegia una grande superficie di terreno per la riforestazione. Di per sé sarebbe una cosa positiva, se non fosse che 10 mila pastori sono rimasti senza lavoro. Bisogna imparare a decodificare le nuove forme di colonialismo che si nascondono dietro questi progetti, che possono essere sostenibili dal punto di vista ambientale ma non da quello sociale. Soprattutto in Africa, è necessario un processo di decolonizzazione del pensiero, anche perché la storia comincia a presentarci il conto. Dopo lo schiavismo, il colonialismo becero e quello mascherato degli accordi con i governi post-coloniali, ora le popolazioni cominciano a ribellarsi. Intere aree si stanno desertificando a causa dei cambiamenti climatici, masse di diseredati non possono più vivere su quelle terre. Questa situazione non regge.

Lo sfruttamento delle risorse però non si ferma.
«Il comportamento dell’umanità negli ultimi cinquant’anni è stato senza dubbio irresponsabile. Basta pensare a quello che è stato fatto con le deforestazioni e con le estrazioni minerarie e petrolifere, dove le maggiori penalizzate sono state le comunità locali. Se adottiamo questo punto di vista, avere un’attenzione per i più deboli ci porta a pensare a una visione di ecologia integrale simile a quella prospettata da papa Francesco nell’enciclica Laudato sii: è necessario pensare non solo alla terra ma pure a chi la abita. Ci sono forme di egoismo e di insensibilità che la comunità internazionale tollera da troppo tempo, quasi che le risorse siano infinite. La sofferenza degli ecosistemi si somma a quella delle comunità».

La sua è una critica radicale al neoliberismo.
«Bisogna risalire alla fonte di questi comportamenti irresponsabili. Io credo che la ragione principale sia una logica economica perversa che mette di fronte a tutto il profitto e non guarda in faccia a nessuno. Si tratta di un iperliberismo sfrenato che sta distruggendo il pianeta a beneficio di pochi. Per questo è necessario un cambio di paradigma. Se non si pensa alla costruzione di un’economia di comunità, che guardi ai bisogni a livello locale, non ne usciremo.

Poi c’è la questione del cibo, che è stato tra i primi a sollevare con Slow Food e Terra Madre.
«La questione alimentare è uno dei punti chiave, ma la comunità internazionale non l’ha mai messa in evidenza. Si parla di cambiamenti climatici e della perdita di fertilità dei suoli e non si mette in discussione la pratica più invasiva, che è la produzione di cibo. Si parla delle tonnellate di plastica in mare, ma si tace sulla pesca a strascico per la produzione di mangimi animali, che depreda la biodiversità. O i governi cominciano a riflettere su queste cose o andiamo verso il disastro. Purtroppo, le cose non stanno andando in questa direzione: Trump non dimostra quella sensibilità che dovrebbe avere una delle potenze mondiali che hanno più responsabilità nel disastro ecologico. Siamo a un crocevia decisivo».

«Domani si celebra la Giornata della Terra “E noi scienziati saremo in piazza contro Trump” spiega Marco Tedesco, glaciologo a New York», intervistato da Federico Rampini. la Repubblica, 21 aprile 2017

FRA noi c’è chi reagisce mobilitandosi. Chi cerca nuovi canali di comunicazione con l’opinione pubblica. E chi rimane paralizzato». Così lo scienziato italiano Marco Tedesco riassume i tanti impatti di Donald Trump sui ricercatori che si occupano di cambiamento climatico. Esperto della Nasa, docente alla Columbia University di New York nello Earth Institute (uno dei più importanti poli mondiali di scienze ambientali), Tedesco ha acquisito la sua fama negli Stati Uniti per esplorazioni e ricerche che spaziano dalla Groenlandia all’Antartide all’Himalaya. Tutte hanno in comune lo stesso tema: il cambiamento climatico. Sabato sfilerà nella manifestazione di New York, con partenza a Central Park.

Questo è il primo Earth Day nell’èra Trump, il presidente che nega la scienza dell’ambiente. Come reagisce la comunità scientifica?
«Molti fra noi si danno da fare per proteggere dati preziosi che sono minacciati, per difendere la ricerca, e i diritti civili degli scienziati. C’è una corrente che esplora anche nuove strategie di comunicazione con l’opinione pubblica: per far capire che facciamo davvero scienza, e su questa base vogliamo dialogare anche con chi ha posizioni politiche o culturali ostili. Tra i più impauriti ci sono tanti giovani, per esempio dottorandi: nell’attesa di ciò che può succedere temono di vedersi chiudere le prospettive, i progetti su cui volevano costruire una vita di ricerche».
Quanto pesa l’aspetto economico, il taglio dei fondi?
«Il problema maggiore è l’incertezza. E non mi riferisco all’incertezza nei modelli matematici sul cambiamento climatico: con quella siamo attrezzati a misurarci… Di fronte alla mannaia dei tagli alla ricerca è come se fossimo su una spiaggia dove sta arrivando lo tsunami, ma senza vie di fuga e senza conoscere l’altezza dell’onda. È bloccata la National Science Foundation, la più grossa agenzia federale che finanzia la ricerca pura, non può selezionare progetti perché non sa quali risorse avrà. Dalla Nasa all’Ente oceanografico e atmosferico, si tagliano anche i satelliti del meteo. Vuol dire creare dei buchi di conoscenza, generare lacune, interrompere la copertura satellitare del pianeta da cui dipendono le serie temporali sul clima. Possono essere rovinati 40 anni di dati sulle emissioni carboniche ».
In America c’è una robusta tradizione di mecenatismo privato, non potrebbero intervenire gli imprenditori ambientalisti, rimediare di tasca loro?
«Possibile ma poco probabile. Il pubblico e il privato hanno ruoli diversi: è lo Stato che sostiene la ricerca di base, mentre le imprese preferiscono quella applicata che ha ricadute commerciali. E la comunità scientifica che seleziona i progetti a cui dare finanziamenti federali, ha i criteri più rigorosi».
Quanto danno può fare l’Amministrazione Trump all’ambiente in cui viviamo?
«Tanto, troppo. Anche l’aggiunta di una quantità relativamente limitata di CO2 rispetto agli scenari precedenti, può scatenare reazioni del clima i cui effetti si sentiranno molto a lungo. I processi di cambiamento climatico oltre una certa soglia raggiungono il punto di non ritorno, diventano incontrollabili. E lui sta accumulando decisioni dannose: dal via libera agli oleodotti, alla deregulation che elimina restrizioni sulle emissioni di centrali elettriche o automobili. Tutto questo aumenterà il fattore di stress sul pianeta. Va ricordato che con Barack Obama eravamo sulla buona strada, sì, ma non sulla strada ottimale. Vedo anche un altro attacco alla scienza: il tentativo di creare delle task-force cosiddette indipendenti, per mettere sotto controllo la comunità dei ricercatori. È un progetto che vuole spostare i finanziamenti verso think tank legate alle lobby del petrolio. Un’altra minaccia: la fuga in avanti verso la geo-ingegneria, il tentativo di manipolare il clima, con progetti controversi come il lancio di solfati che raffreddino l’atmosfera. Esperimenti pieni d’incognite, di pericoli, di conseguenze inattese».
Le sue ricerche sul campo la portano a vivere per mesi ogni anno alle latitudini più estreme, le zone ghiacciate del pianeta dove spesso gli effetti del cambiamento climatico sono allo stadio più esacerbato. Che conclusioni ne trae?
«È un susseguirsi di campanelli d’allarme, dall’Artico alla Groenlandia continuano ad esserci record battuti. Il permafrost, lo scioglimento delle nevi, i ghiacciai marini, le correnti nei fiordi, è tutto un sistema che ci sta dicendo quanto è avanzato l’impatto del cambiamento climatico ».

Il governo si appresta a esentare dai tributi tutte le costruzioni ubicate nel mare territoriale" e per estensione a porti (Venezia), impianti eolici, alberghi col pontile, ristoranti su palafitte. il FattoQuotidiano online 19 aprile 2017 (p.s.)

Con l’ennesimo favore all’industria delle trivelle il governo rischia di esentare dai tributi locali interi porti e qualsiasi altra costruzione offshore sarà mai realizzata direttamente nei mari italiani. A beneficio di futuribili resort col pontile modello Dubai o di improvvisati palafittari della ristorazione lungo la costa lucana che non pagherebbero alcuna imposta. Nelle bozze della manovrina correttiva, di cui ancora si attende il testo definitivo (il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan mercoledì si è “scusato per il ritardo” annunciando che “dovrebbe arrivare domani”), c’è infatti un articolo che entra a gamba tesa nella querelle tributaria e legale che contrappone da anni i colossi dell’energia ai sindaci delle località costiere dalle cui acque estraggono idrocarburi.

Nella parte dedicata allo sviluppo c’è un articolo, il 35, che determina uno stop retroattivo per le società proprietarie delle 119 piattaforme censite nel mare italiano dal pagamento Ici, Imu e Tasi. Si impoveriranno, quindi, i bilanci dei comuni costieri e dei loro cittadini che non beneficeranno dei tributi che tre recenti sentenze della Cassazione avevano indicato come dovuti.

Così, a meno di modifiche dell’ultimo minuto, una misura che doveva recuperare risorse per rispettare i parametri europei assesta invece il colpo di spugna su cartelle di accertamento ormai decennali per un valore di oltre 100 milioni di euro. Se già questo è un problema per gli amministratori locali dei comuni litoranei interessati dalle trivelle, più ancora lo sono gli effetti collaterali della norma che impatta in modo imprevedibile sull’imponibilità di qualsiasi costruzione a mare, compresi alberghi e porti galleggianti come il terminal container di Venezia o le centrali eoliche in fase di realizzazione a Taranto e di progettazione in Molise.

L’articolo della manovra, stando alla bozza, è titolato Costruzioni ubicate nel mare territoriale e fornisce l’interpretazione autentica e definitiva di norme precedenti: «Non rientrano nel presupposto impositivo dell’imposta comunale sugli immobili (ICI), dell’imposta municipale propria (IMU) e del tributo per i servizi indivisibili (TASI), le costruzioni ubicate nel mare territoriale, in quanto non costituiscono fabbricati iscritti o iscrivibili nel catasto fabbricati». E che cosa vuol dire? Che se non c’è l’iscrizione al catasto non c’è rendita, se non c’è rendita non c’è neppure tributo che possa essere preteso. Né oggi né mai. Un intervento a gamba tesa nella querelle che si accoda ai precedenti, culminati nel 2016 con la cosiddetta “norma sugli imbullonati” contenuta in Legge di Stabilità che ha parzialmente escluso gli impianti dal pagamento delle imposte correnti.

Il passato degli accertamenti Ici però non era coperto da questi “scudi” e una decina di sindaci di comuni litoranei si sono impuntati su quelli, attraverso le commissioni tributarie. Mossi non solo dal principio ma soprattutto dal valore del gettito, stimato tra i 100 e i 200 milioni di euro. Una benedizione per i bilanci degli enti locali che convivono con le trivelle lungo la costa come Termoli (Campobasso), dove il tributo da corrispondere per Edison era di un milione e mezzo di euro per ciascuna annualità (quelle accertate vanno dal 1999 a 2009) o Pineto (Teramo) con oltre 33 milioni per gli anni 1993-1998, con interessi e sanzioni a carico di Eni. Tre sentenze della Cassazione hanno poi dato ragione ai sindaci stabilendo che le trivelle, ieri come oggi, vanno iscritte al catasto e assoggettate all’imposta.

Sembrava cosa fatta ma ecco che – prima ancora di andare all’incasso – la manovra correttiva 2017 riapre la partita dalla parte dei petrolieri. “Certo che questa norma rischia di impattare sugli accordi stragiudiziali in corso”, spiega Ferdinando D’Amari, il legale che sta seguendo i contenziosi con le compagnie. «La Cassazione ha accolto le ragioni dei comuni stabilendo l’obbligo dell’imposizione a prescindere dall’accatastamento e ha indicato il sistema di determinazione delle imposte dovute da desumere attraverso le scritture contabili. Proprio mentre è in corso la definizione degli importi arriva questa norma che scardina tutto e va contro il giudicato della Suprema Corte». Il testo del governo, fa notare, non cita assolutamente le trivelle o gli “opifici industriali” ma parla genericamente delle “costruzioni nel mare territoriale”.

Così facendo, la norma che vanifica le speranze dei sindaci a favor di petrolieri rischia di inaugurare anche in Italia una stagione di “far west a mare” dalle conseguenze ambientali imprevedibili. «Se costruisco un ristorante o un albergo entro le 12 miglia marine quella struttura, secondo le nuove norme, sarebbe esente dalle imposte. Mi sembra a dir poco pericoloso». Si vedrà come e se questa vicenda troverà un muro prima che gli imprenditori più avventurosi si mettano a progettare i loro. La stessa Eni, del resto, dal 2010 lavora all’ipotesi di conversione delle piattaforme arrivate al termine del ciclo produttivo in strutture ricettive (Temporary Islands). Di fatto scatena immediate polemiche politiche, soprattutto ad opera dei Cinque Stelle che sull’imposizione delle trivelle hanno sempre dato battaglia.

«Il governo conferma l’amicizia con le compagnie petrolifere modificando le carte in tavola per salvarle dal pagamento dell’Imu, onere che invece pagano attività produttive e cittadini», attacca il senatore Gianni Girotto. «La giurisprudenza ha da poco confermato l’interpretazione in favore di alcuni enti locali attribuendo alle compagnie petrolifere l’onere del pagamento. Ci batteremo con forte impegno affinché le disposizioni sulle esenzioni siano stralciate e le compagnie paghino quanto dovuto».

Lo chiamano "sviluppo bloccato" quello "sviluppo insensato che sta portando alla catstrofe il nostro pianeta. Gli industriali, vigili solo sui loro interessi, si lamentano, noi guardiamo con speranza ai "bloccatori". il Sole 24ore, 25 marzo 2017
L'ultimo caso è freschissimo. Risale a ieri. La multinazionale britannica Rockhopper, ha avviato le procedure per rivalersi economicamente nei confronti dell’Italia. Motivo: l’impossibilità di sfruttare il giacimento di Ombrina Mare, in Abruzzo, di cui era titolare. Un giacimento a 6 km dalla costa, finito nel mirino dei “no triv” e del provvedimento del governo di fine 2015 che vietava lo sfruttamento di giacimenti entro le 12 miglia marine.

Ora la compagnia Rockhopper presenta il conto: la richiesta di risarcimento contro il Governo italiano, per violazione del trattato Energy Charter Treaty, potrebbe essere di molti milioni di dollari (si veda il Sole 24 Ore di ieri).

Il caso Ombrina Mare fa parte dei 342 casi di sviluppo bloccato censiti dal rapporto annuale 2016 (a valere sul 2015) dell’Osservatorio Nimby forum. La multinazionale Rockhopper è in buona compagnia, con la Tap (Trans adriatic pipeline) tornata agli onori delle cronache in questi giorni, o la Tav Torino-Lione, o ancora la rete ad alta tensione in Val Formazza (Verbano Cusio Ossola) per l’interconnessione con la Svizzera: un’altra opera strategica che coinvolge anche le province di Novara e Milano.

I progetti bloccati
Numero di impianti per settore industriale (Fonte: Nimby Forum)

Questi tre progetti sono tra i più osteggiati, secondo il monitoraggio del Nimby Forum, insieme all’impianto di co-incenerimento di rifiuti non pericolosi Terni Biomassa, di Terni, e al permesso di ricerca per idrocarburi liquidi e gassosi denominato “Monte Cavallo”, di Shell Italia, in un’area che ricade tra Campania e Basilicata.

L’ultimo Osservatorio Nimby Forum ha censito 13 casi di sviluppo bloccato in meno rispetto al rapporto precedente. Ma non c’è da rallegrarsi.

Innanzitutto perché «il calo riscontrato è del tutto risibile» spiega Alessandro Beulcke, presidente dell’Osservatorio. E poi perché il calo è probabilmente ascrivibile «al progressivo abbandono dei progetti da parte delle imprese proponenti, che dirottano investimenti e risorse verso altre iniziative industriali, spesso fuori dai confini italiani» si legge nel rapporto.

LA RICERCA #N02.0
28 Aprile 2015
Se la sindrome «nimby» diventa virale

Del resto lo scenario è disarmante, come sottolinea Beulcke. «Ricordo il caso della Shell a Priolo: solo per la presentazione del progetto e le procedure sull’impatto ambientale la multinazionale spese una trentina di milioni». Insieme a Shell anche Erg lancia la spugna e sfuma così un piano di investimenti di circa mezzo miliardo. E quello di Priolo non è neppure il caso più clamoroso: cinque anni fa, nel marzo 2012, proprio al Sole 24 Ore British Gas annuncia l’addio all’Italia e al progetto di rigassificatore a Brindisi. Troppi undici anni di lungaggini e una spesa di 250 milioni per nulla. Addio a un progetto da 800 milioni e a 1.100 occupati.

«Altrove, come in Francia ad esempio, le procedure durano 6-8 mesi, da noi invece servono anni – conferma Alessandro Beulcke –: un’azienda pensa di ottenere risposte sulle valutazioni ambientali entro 180 giorni (come dovrebbe essere), invece l’iter diventa spesso di 360 o più. E poi sono quasi automatici i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato da parte degli oppositori». Ricorsi che spesso finiscono in niente – come le decine contro le richieste di ricerche sugli idrocarburi, rigettate nei mesi scorsi –: «Si tratta sovente – sottolinea il presidente dell’Osservatorio – di ricorsi temerari che, però, non vengono sanzionati».

INFRASTRUTTURE
21 marzo 2016
Per la Torino Lione 400 milioni di sovra costi contro i No Tav

A sollevare le maggiori opposizioni sono soprattutto i progetti energetici (196 casi), poi la gestione dei rifiuti (130 tra discariche e termovalorizzatori), quindi le infrastrutture (strade e ferrovie). Un primato tutto italiano frutto di «lungaggini buracratiche, complicazioni politiche e un uso distorto delle informazioni, con una critica che raramente è costruttiva» spiega Beulcke. Il risultato di questo mix è che la politica spesso sceglie, soprattutto sui territori, di «assecondare la protesta. Mentre sulle opere strategiche dovrebbe decidere solamente il governo centrale. Il caso Tap è emblematico e oltretutto si parla di lavori di una banalità ingegneristica sconvolgente. Dall’effetto Nimby – sottolinea Alessandro Belcke – si sta passato al Nimto: not in my terms of office, non nel mio mandato».

Anche il grande giurista raccoglie la crescente preoccupazione di quanti vedono i poteri dominati da un'idea deforme ed inumana dello "sviluppo" proseguire della folle dissipazione del patrimonio essenziale dell'umanità: la Terra. la Repubblica, 20 marzo 2017

Le generazioni future hanno fatto il loro ingresso nel dibattito pubblico. Ciò, perché la condizione dei viventi è oggi inedita. La Terra (intesa come ambiente fisico e sociale), per millenni, si è pacificamente considerata la base di perpetua riproducibilità nel tempo della vita degli esseri umani, quali che fossero le offese che i suoi figli potevano infliggerle. Oggi non è più così. Le odierne capacità distruttive, di gran lunga superiori alle capacità rigenerative delle risorse della natura fisica e dei legami sociali, fanno dubitare circa la sensatezza della formula di Thomas Jefferson al tempo della Rivoluzione americana: «La terra appartiene ai viventi». Era, in origine, una formula polemica verso un passato opprimente, che esprimeva l’ansia di liberazione da un peso, per permettere l’espansione della creatività della generazione attuale.

Oggi, quella formula significherebbe cecità di fronte alle esigenze di futuro. Un tempo ci si poteva concedere il lusso d’essere ciechi; non più oggi. Le capacità di consumo e di distruzione delle risorse vitali, associate all’egoismo dei viventi protetto dall’ideologia dei diritti appropriativi e distruttivi di risorse comuni, sono tali da minacciare la riproduzione della vita. (...) Il discorso sui «diritti delle generazioni future» è un tentativo, se non di colmare la distanza, almeno di tematizzare la minaccia incombente su un pianeta le cui forze vitali, lo stock energetico e le sue capacità di rinnovamento sono in declino, insidia

te da un consumo quantitativo e qualitativo crescente. È stato detto che per millenni la Terra si è presa cura dei suoi figli, fornendo loro in abbondanza ciò di cui necessitavano; oggi — segno di senescenza del nostro habitat — sono i figli a doversi prendere cura della loro madre-Terra.

Le buone intenzioni si scontrano e soccombono di fronte agli interessi immediati. Le «generazioni future» chiedono moderazione nell’uso delle risorse alla generazione presente e dunque propongono un conflitto tra ciò che esiste e ciò che non esiste, appartenendo esse, per l’appunto, al mondo che deve ancora venire e nemmeno è certo che verrà. Così, gli inquinamenti, la produzione di anidride carbonica e di sostanze chimiche letali, la distruzione delle risorse ambientali ed energetiche, la tecnologia non solo di vita ma anche di morte, i mezzi di riduzione dell’autonomia personale procedono senza sosta per la forza della realtà, malgrado gli allarmi sempre crescenti e per lo più impotenti. Ciò fa temere che vi sia un’incoercibile forza interna al sistema di relazioni economiche e sociali entro il quale viviamo, una forza a sua volta nemica dei nostri figli e dei figli dei nostri figli.

Le questioni così sollevate interpellano la nostra stessa visione costituzionale della vita. Il costituzionalismo può ignorarle? Se il suo nucleo minimo essenziale e la sua ragion d’essere sono la protezione del diritto di tutti all’uguale rispetto, la risposta, risolutamente, è no, non può ignorarle. Fino alle soglie del tempo nostro non c’era ragione di affrontarle. Ogni generazione compariva sulla scena della storia in un ambiente naturale e umano che, se pure non era stato migliorato dai padri, certamente non ne era peggiorato fino a comprometterlo. Il costituzionalismo non ha avuto, fino agli anni recenti, ragioni per preoccuparsi delle prevaricazioni intergenerazionali. Ma, molti motivi ne ha oggi, e drammatici.

Per quale ragione la cerchia de «i tutti» che hanno il diritto all’uguale rispetto dovrebbe essere limitata ai viventi e non comprendere anche i nascituri? Basta porre la domanda per rispondere che non c’è alcuna ragione: gli uomini di oggi e di domani hanno lo stesso diritto all’uguale rispetto, perché uguale è la loro dignità, quale che sia il loro momento. Al tempo nostro, le parole di Thomas Jefferson dovrebbero essere sostituite con «la Terra appartiene ai già viventi, tanto quanto appartiene ai non ancora viventi». «La Terra appartiene ai viventi», invece, spezza ogni legame di debito e credito tra ogni generazione e autorizza ciascuna di esse a sfruttare «la Terra» fino in fondo. Oggi sappiamo che, se fosse davvero così, correremmo il rischio di non poter parlare di «ogni generazione». In tal modo, il discorso sulle generazioni future ristabilisce il legame di debiti e crediti che per secoli si teorizzava esistere tra viventi e non viventi, cambiando però direzione: per secoli, i figli sono stati considerati debitori nei confronti dei padri; oggi, i padri si devono sentire debitori nei confronti dei figli.

I diritti di credito dei figli nei confronti dei padri possono essere considerati il risvolto al futuro di quello che Hans Jonas, in un testo fondativo di questa tematica, Il principio responsabilità, ha considerato essere la pretesa, fondamentale quanto altra mai, dei nostri successori di trovare un mondo in condizioni almeno non peggiori di quelle che noi stessi abbiamo trovato. È sua la formulazione del cosiddetto «imperativo ecologico»: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di un’autentica vita umana sulla terra».

Questa norma etica fondamentale rappresenta un’estensione nel tempo a venire dell’imperativo kantiano circa la necessaria idoneità a valere in generale della massima, cioè del criterio, d’ogni azione morale. Tale imperativo, nella versione di Kant, contiene un nucleo totalizzante, incompatibile con la pluralità degli universi culturali che caratterizzano le società umane. È un «imperativo imperialistico » e, come tale, svolse la sua funzione nel tempo dell’Europa-centro-del-mondo. Può funzionare senza minaccia d’intolleranza solo quando tutti si riconoscano pacificamente nel medesimo universo etico. Altrimenti, esso contiene una implicita, seppur inespressa, valenza aggressiva, colonizzatrice. Ma, l’anzidetto imperativo ecologico sfugge a tale difficoltà, in quanto si basa su un principio universale che non può non unire tutti gli esseri viventi: possiamo sì mettere a repentaglio la nostra vita, ma non quella dell’umanità; (…) Achille aveva sì il diritto di scegliere per sé una vita breve di imprese gloriose piuttosto che una lunga vita di sicurezza oscura (…); ma (…) noi non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo rischiare il non-essere delle generazioni future in vista dell’essere di quelle attuali.Perché non abbiamo questo diritto e perché abbiamo invece un dovere rispetto a ciò che non esiste ancora né «in sé» ha bisogno di esistere, e comunque in quanto non esistente non ne avanza la pretesa? Non è affatto facile dare una fondazione teorica a questi perché. Jonas suggerisce il dubbio che sia impossibile senza la fede in una religione, quantomeno nel senso della religiosità di un Thomas Mann, dichiarata in una lettera al filologo e studioso del mito Károly Kerény : religione «come contrapposizione alla trascuratezza e all’incuria, religione come attenzione, ponderazione, riflessione, coscienziosità, contegno prudente e sollecito, perfino come metus e, per finire, attenta sensibilità verso i moti dello spirito universale».

Tuttavia, a onta delle difficoltà, chi oserebbe proclamare un assioma contrario, cioè che qualcuno abbia, o che tutti insieme abbiamo il diritto di distruggere il mondo o di preparare per i nostri posteri una condizione di vita disumana in vista dell’egoismo della generazione alla quale apparteniamo o, ancor peggio, in vista dell’egoismo dei potenti che godono della loro potenza nella generazione alla quale appartengono?

Sarebbe, questa, una massima generalizzabile? Non c’è alcuna ragione per restringere alla sola contemporaneità il criterio morale di giustizia di cui parla la massima kantiana.

Anticipiamo un brano dal nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky, Diritti per forza ( Einaudi, pagg. 144, euro 12). Il volume sarà in libreria da domani

«Indiani d’America accampati con le loro tende a pochi passi dalla Casa Bianca. Ma il megaprogetto Dakota Pipeline non si ferma». la Repubblica, 12 marzo 2017 (c.m.c.)

Washington. Alla fine di un lungo sentiero delle lacrime, a duemila e cinquecento chilometri dalla loro terra all’altro capo del tempo e dell’America, Lakota Sioux, Cheyenne, Arapaho, Corvi, Cherokee hanno portato a Washington la loro invincibile sconfitta. Nel gelo di un weekend che li aveva accompagnati dalla tundra delle Grandi Pianure del Nord, hanno tentato l’ultima battaglia contro l’ennesimo stupro che il “Uasìchu”, l’Uomo Bianco, “colui che si prende il grasso e lascia le ossa agli altri” in lingua Lakota, sta compiendo nel corpo della loro terra. Ma sanno che il tubo di acciaio che il nuovo oleodotto pomperà dai giacimenti del Nord Dakota fino a Chicago sotto la terra, i laghi, i ruscelli delle loro riserve si farà, si sta facendo, perché così ha ordinato il Viso Pallido dai Capelli color di Carota che vive nella grande tenda bianca.

Per due giorni, anche sotto un improvviso nevischio che ha stroncato le prime fioriture dei ciliegi giapponesi nel centro della città, gli indiani, guidati dai Lakota Sioux della Standing Rock Reservation in South Dakota, hanno alzato i loro tipì di tela, prima davanti al massiccio palazzo della Posta divenuto oggi un Hotel Trump e poi attorno all’obelisco di marmo dedicato a George Washington. Hanno portato in corteo, nei canyon di cemento e vetro delle strade dei lobbysti, serpentoni di gomma per rappresentare l’oleodotto e per gridare “L’acqua è vita”, quell’acqua che le inevitabili fughe di greggio intossicheranno con foto di paperelle incatramate e di volpi stecchite.

Si sono accampati e hanno danzato con i piumaggi d’onore, lance e tomahawk, a torso nudo davanti alla Casa Bianca, cantando “Trump must go”, se ne deve andare e si sono concessi qualche amara ironia, come Jobeth Brownotter, Lontra Bruna. Indossava uno dei cappellini distribuiti a milioni dalla campagna elettorale di Trump con la scritta “Make America Great Again”, rifacciamo grande l’America, ma trapassato da una freccia, come nei vecchi film western.Ma che cosa può una tenda di tela contro grattacieli di acciaio e cemento? Niente. La Dakota Access Pipeline, che porterà mezzo milione di barili di greggio al giorno dai giacimenti di Bakken ai dintorni di Chicago per mille e 500 chilometri è stata sbloccata immediatamente dopo l’insediamento di Grande Capo Pel di Carota.

Obama ne aveva fermato l’ultimo tratto, quello che perfora la terra della Riserva della Roccia Eretta, ma sapeva che sarebbe stato solo un gesto. Per ordine del nuovo Presidente, il Genio Militare ha rinnovato l’autorizzazione. I bulldozer sono tornati a rivoltare la terra che conserva le ossa degli antenati e lo spirito della loro anima. La Guardia Nazionale e gli sceriffi hanno sloggiato l’ultimo accampamento di Lakota che erano rimasti appesi ai loro stracci nel gelo di febbraio. E la talpa ha ripreso a scavare.

Hanno danzato, ma che cosa può una danza contro un governo che ha scelto, per il secondo, più importante ministero dell’Amministrazione, Rex Tillerson, il boss della Exxon Mobil, un grande sciamano del liquido nero. I leader della marcia, molti dei quali erano donne, si aggrappano a uno dei tanti, effimeri trattati che il governo dei soldati blu firmarono con le nazioni della Grande Prateria a Fort Laramie, nel 1851 e che garantiva anche ai Sioux il controllo delle loro terre in cambio del diritto di passaggio delle carovane dei pionieri e di pochi dollari mai versati, Ma nel 1924, dopo guerre, violazioni spudorate, semi-estinzione dei bisonti che erano la vita delle nazioni di cacciatori nomadi, e rotaie, i diritti territoriali dei nativi furono cancellati in cambio del riconoscimento della cittadinanza americana degli indiani e i tribunali da allora dibattono e decidono che cosa ancora resti di quei trattati ottocenteschi.

Hanno speso duecento mila dollari per organizzare la marcia sulla capitale, partita dai Lakota della Roccia Eretta che sono appena 8 mila, ma che cosa possono quei soldi contro i 3,78 miliardi di dollari investiti da società petrolifere e prestati dalle maggiori banche del mondo, dalla Citi alla Paribas, dalla Wells Fargo alla Société Générale, per costruire l’oleodotto. Per loro si è mossa soltanto la senatrice Democratica del Massachusetts, Elizabeth Warren, che vanta lontane origini Cherokee, ma nei chilometri di cammino fra la stazione di Washington e la Casa Bianca, i pochi turisti dissuasi dal freddo, e i pochissimi washingtoniani, incalliti da ben altre manifestazioni, li guardavano come una curiosità folcloristica.

Hanno pregato, ma che cosa possono le preghiere di qualche superstite del genocidio indiano contro la sete inestinguibile di petrolio che noi abbiamo? Il sogno è l’autonomia energetica, la benzina a poco prezzo, la liberazione degli Stati Uniti dal ricatto dei Paesi produttori, e che importa se qualche Lakota Sioux saltella, se una donna Cheyenne canta contro la Casa Bianca e 131 geologi, ambientalisti, ingegneri avvertono che sicuramente quelle tubature avranno perdite e fughe? Certo non importa a Donald Trump, il Presidente che invoca l’America First, ma si dimentica dei First Americans. Dei primi americani.

«Il processo di smantellamento è solo all’inizio: è difficile trovare tecnici disposti a esporsi alle radiazioni, così alcune aziende appaltatrici, legate ai clan di yakuza, ricorrono a manodopera meno tutelata». Il Fatto Quotidiano online, blog China files, 11 marzo 2017

Oltre 21 mila miliardi di yen (circa 170 miliardi di euro): è questa la stima più recente del costo totale dei lavori di bonifica e smantellamento della centrale nucleare di Fukushima Daiichi (in giapponese “Numero 1”), per una durata dei lavori prevista tra i 30 e i 40 anni. Appena tre anni fa le stime dei costi — che comprendono anche gli indennizzi versati alle famiglie evacuate dalle aree limitrofe all’impianto — erano dimezzate. L’11 marzo di 6 anni fa un terremoto di magnitudo 9.0 colpiva la regione del Tohoku, nel nordest del Giappone, innescando uno tsunami alto fino a 40 metri che ha causato la morte di 19mila persone. L’evento provocava anche malfunzionamenti nell’alimentazione dei reattori alla centrale scatenando un triplo meltdown.

Circa 160mila persone residenti intorno all’impianto furono costrette a evacuare la zona a causa della fuoriuscita di materiali radioattivi. Oggi, mentre la regione del Nordest cerca, a fatica, di rialzarsi, la centrale di Daiichi è ancora un enigma. In superficie, come racconta il Guardian, i lavori di messa in sicurezza procedono: le strutture esterne dei reattori danneggiate dalle esplosioni verificatesi poche ore dopo il terremoto e lo tsunami sono state messe in sicurezza e il terreno è stato coperto da materiali impermeabili che tengono l’acqua piovana in superficie.

Sono state aggiunte alcune strutture per il relax dei lavoratori tra cui una mensa e, a un km dall’impianto un piccolo supermercato aperto dalle 6 del mattino. Tuttavia i problemi rimangono e la loro soluzione sembra sempre più complessa. A cominciare, appunto, dalla gestione dell’acqua contaminata, un mix di quella pompata da Tepco per raffreddare i reattori e di quella sotterranea che scorre dentro i reattori nel suo corso dalle colline intorno alla centrale verso l’oceano. Nemmeno il “muro di ghiaccio” – una serie di tubature con tecnologia refrigerante inserite nel terreno della centrale intorno ai quattro reattori danneggiati, un’opera da circa 200 milioni di euro – è servito a impedire all’acqua di entrare nei reattori e fuoriuscire poi nell’oceano.

Tepco ha dovuto aggiungere dei pozzi di “sottoscarico” per raccogliere l’acqua, drenarla negli impianti di filtraggio e scaricarla nell’oceano. La maggior parte dell’acqua contaminata viene raccolta in cisterne saldate, alte 10 metri per 12 metri di diametro, che hanno gradualmente sostituito quelle a flange. All’interno di queste sono contenute oltre 900mila tonnellate d’acqua contaminata. Secondo quanto riferito dal settimanale Sunday Mainichi, oggi la parte collinare dell’impianto si presenta come una vera e propria “foresta” di cisterne di stoccaggio.

La sfida più complessa è poi quella del ritrovamento — e della conseguente rimozione — del combustibile nucleare sciolto depositatosi al fondo dei recipienti in pressione dei tre reattori gravemente danneggiati durante il terremoto e tsunami dell’11 marzo 2011. A fine 2014 Tokyo Electric (Tepco), la utilty energetica più grande del Giappone che gestisce anche i lavori di smantellamento del sito, era riuscita a rimuovere oltre 1500 barre di combustibile nucleare dal reattore numero 4, dove la bassa radioattività permetteva maggiori margini di manovra. Discorso diverso per i reattori 1, 2 e 3.

A causa dell’alta radioattività, l’azienda ha scelto di operare a distanza inviando robot in grado di raccogliere immagini e informazioni utili. La strategia non ha finora avuto successo. L’ultimo tentativo è stato fatto a febbraio di quest’anno.

Scorpion, un robot lungo circa 60 cm e dotato di telecamere, una sulla “coda”, che può essere alzata rispetto al livello del corpo, e rilevatori di temperatura e radiazioni progettato da Toshiba, è stato inviato all’interno del reattore numero 2, dove, in precedenza, erano stati registrati alti picchi di radioattività. La sua missione, la cui durata era stata programmata in 10 ore, è stata annullata dopo appena due ore.

Il robot ha incontrato difficoltà di movimento dovute — secondo le dichiarazioni ufficiali di Tepco — probabilmente “alle radiazioni o a degli ostacoli”. La macchina è stata costruita per resistere a un’esposizione fino a mille sievert per ora, abbastanza da riuscire a resistere agli alti livelli di radioattività registrati — tra i 250 e i 650 sievert per ora — impossibili da sostenere per un essere umano e difficili anche per robot di ultima generazione.

Tepco ha fatto sapere di essere riuscita a raccogliere informazioni importanti e che ha in programma di cominciare con l’estrazione di altre 500 barre di combustibile dal reattore 3 a metà del prossimo anno. Ma sui lavori di bonifica aleggiano altre ombre, in particolare circa le forniture di forza lavoro. Oggi nella centrale lavorano circa 6mila tecnici e lavoratori, alcuni esposti a dosi di radiazioni superiori alla media.

Recenti resoconti dei media giapponesi hanno rivelato che in alcuni casi i lavoratori sono poco preparati e troppo anziani per resistere a lunghe ore di lavoro. Nessuno vuole oggi lavorare a Fukushima, anche perché una volta finito l’incarico il reinserimento sociale dei lavoratori è complicato da episodi di discriminazione e isolamento. Qualcuno, però, lo deve pur fare. Così per sopperire alle carenze di manodopera, alcune aziende appaltatrici — alcune delle quali legate ai clan di yakuza — hanno reclutato senzatetto e anche qualche straniero, in particolare brasiliani di origine giapponese.

«Siamo all’inizio della scalata a una montagna», ha dichiarato Naohiro Masuda, direttore dei lavori alla centrale, al settimanale economico Toyo Keizai. «Abbiamo capito che tipo di equipaggiamento ci serve». Più critico, invece, è stato un tecnico di Greenpeace raggiunto dal Guardian. Le operazioni di smantellamento di Fukushima Daiichi, ha detto, sono un’opera che va «al di là di ogni umana comprensione».

«Il testo approvato dal Senato, ora in discussione alla Camera, prevedeva che chi estrae dagli impianti nelle zone protette dovesse contribuire alle spese per il recupero ambientale». il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2017 (p.d.)

A volte la toppa è peggio del buco: è capitato in commissione Ambiente, ieri, alla Camera. Si discuteva la proposta di riforma dei parchi nazionali e delle aree protette (non si è conclusa, si continuerà a fine marzo) e, tra i 700 emendamenti arrivati e la fretta di chiudere una vicenda che va avanti da anni, è saltato proprio uno dei punti contestati dagli ambientalisti. Paradossalmente, però, si è trasformato in un regalo a petrolieri e impianti d’energia.

Nel dettaglio: la riforma della legge 394 del 1991, licenziata a novembre dal Senato, prevedeva che per le concessioni già esistenti rilasciate agli impianti di sfruttamento delle risorse naturali (da quelli idroelettrici a quelli estrattivi fino alle biomasse), agli “Enti parco” fosse versata una quota “per concorso alle spese per il recupero ambientale e della naturalità”. Tradotto: chi aveva già avuto l’autorizzazione a sfruttare le risorse del parco, poteva continuare a farlo purché pagasse. Per le concessioni petrolifere, ad esempio, doveva essere versato annualmente un terzo del canone di concessione. Ora, invece, si chiederà una tantum di cui, ammesso che la versino, il 70 per cento andrà a finanziare il Programma triennale dei parchi. In pratica, si rimanda al futuro l’applicazione di un articolo che era stato inserito nel Collegato ambientale – prima che il governo lo facesse decadere – che prevede l’istituzione dei cosiddetti “servizi ecosistemici”. In parole semplici: si valuterà di volta in volta la pressione degli impianti sul territorio e in che misura ci sia bisogno di un intervento riparatorio. Complicato: le pressioni dei portatori d’interesse continueranno anche quando la riforma passerà in commissione Bilancio, con il rischio che sia eliminata anche questa unica misura riparatoria.
Resistono, poi, molti punti critici, segnalati anche ieri dalle associazioni e, nei giorni scorsi, da ambientalisti e accademici. “Ci sembra una riforma senza una grande visione – spiega Dante Caserta, vicepresidente di Wwf Italia – La legge del 1991 aveva un’ispirazione. Questa fotografa la situazione e fa qualche aggiustamento”. Le polemiche riguardano soprattutto la governance dei parchi: “La scelta di presidente e direttori fa riferimento alle competenze – spiega Caserta – I parchi nazionali sono solo venti, comparabili ai nostri musei: ma non viene chiesto un concorso. Stessa cosa per il presidente, non si capisce perché non debba avere competenze specifiche. Alla fine conterà di più la carriera politica”.
Un punto sul quale la commissione ritiene di aver inserito i necessari accorgimenti. “Abbiamo rafforzato la sinergia nazionale – spiega Ermete Realacci, presidente Pd della commissione Ambiente – Il bando per la selezione dei direttori dovrà essere approvato dal ministero dell’Ambiente, si sceglierà da una terna di tre candidati e la commissione avrà al suo interno anche un membro del ministero. Poi, il consiglio del direttivo: sarà formato sempre da 8 membri, consentendoci di far entrare un rappresentante delle associazioni scientifiche”. Resta polemica sulla presenza, nei consigli, degli agricoltori: “Sono portatori di interessi economici specifici – dice Caserta – Allora perché non le altre attività imprenditoriali?”.
Confermato l’inserimento di un piano triennale per le aree protette (già previsto nella 394): prevede una politica di gestione nazionale e un finanziamento di dieci milioni di euro all’anno (oggi alle aree protette sono destinati circa 90 milioni all’anno). Nelle intenzioni, il piano dovrebbe garantire più sostegno anche ai parchi regionali (a cui è destinato il 50 per cento dei fondi, in cofinanziamento con le Regioni), ammesso che stiano alle regole previste dal piano. “I soldi? Per me ci vorrebbero almeno 200 milioni in più”, ammette lo stesso Realacci.

«Su 229 siti naturali riconosciuti dall’Unesco come eredità naturale dell’umanità, 145 luoghi, il 63%, sono stati danneggiati dall’impronta umana negli ultimi 20 anni». Altreconomia, 7 febbraio 2017, con postilla (c.m.c.)

Secondo una ricerca australiana pubblicata a inizio febbraio, il 63% dei Natural World Heritage Sites sono stati danneggiati da attività umane negli ultimi vent’anni. Il 91% di questi sono foreste e l’Asia è il continente più colpito. Intervista al responsabile dello studio «Che cosa fareste se il governo italiano buttasse giù il Colosseo per fare degli appartamenti?».

James Allan è il responsabile del team di ricercatori provenienti dalle università del Queensland in Australia e dalla North British Columbia: insieme alle associazioni Wildlife Conservation Society (Wcs) e all’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucne) ha pubblicato sulla rivista Biological Conservation, a inizio febbraio 2017, uno studio sull’espansione delle attività umane nei luoghi protetti dall’Unesco come patrimonio naturale dell’umanità. «I Natural World Heritage Sites -spiega- vanno considerati alla stregua dei grandi patrimoni culturali del Pianeta».

Il Parco di Yellowstone negli Usa, il Parco Nazionale del drago di Komodo in Indonesia, il Parco e Santuario Nazionale di Manas in India e anche il Chitwan National Park in Nepal, l’Area di Conservazione del Pantanal in Brasile o il Parco Nazionale delle Serengeti in Tanzania sono alcuni tra i siti naturali protetti dalla convenzione internazionale siglata 45 anni fa da più di 190 Paesi.

Su 229 siti naturali riconosciuti dall’Unesco come eredità naturale dell’umanità, 145 luoghi, il 63%, sono stati danneggiati dall’impronta umana negli ultimi 20 anni. Ogni sito ha perso mediamente dal 10 al 20% di superficie protetta dal 2000 ad oggi. «I danni sono causati maggiormente dalla agricoltura espansiva, dall’aumento della densità di popolazione, dall’aumento dei pascoli per l’allevamento all’interno dei confini protetti ed infine, certamente, dall’aumento delle infrastrutture», spiega James Allan ad Altreconomia.

Il 91% dei luoghi “colpiti” sono foreste, con l’Asia che spicca tra i continenti più colpiti, registrando in 16 anni un aumento di interventi umani nelle aree protette di quasi il 10%. Nel Santuario naturale del Manas l’impatto dell’uomo è passato dal 11,8% nel 1993 al 17% nel 2009, aumentando di più del 5%. Se consideriamo il consumo di foresta, il Parco internazionale della pace Waterton-Glacier in Canada è al primo posto con 540,7 chilometri quadrati in meno in 11 anni. Il Parco Nazionale del Grand Canyon (Usa) ha registrato una perdita di quasi il 10% con 38,2 chilometri quadrati sottratti e la Riserva della Biosfera del Rio Plátano (Honduras) ha perduto 365 chilometri quadrati in un decennio. Anche per il più famoso tra i parchi, il Parco di Yellowstone sono 217 i chilometri quadrati persi in una decina di anni.

Per quanto riguarda l’Europa, la ricerca ha ottenuto risultati parziali perché -come spiega Allan- «i siti sono stati molto modificati nel passato e adesso risultano già alterati». Rimane da considerare che «la pressione del turismo e il cambiamento climatico continuano oggi a minacciarli, ma nella ricerca non siamo riusciti a quantificare questi fenomeni perché i metodi per la raccolta dei dati devono essere globalmente uguali per poterli comparare tra loro».

«Le perdite -continua Allan- stanno aumentando. Portando problemi e gravi conseguenze ai Paesi, che avranno danni sia ambientali sia di prestigio culturale. Anche gli abitanti subiranno impatti, in particolare le comunità locali che vivono nei pressi dei siti». Una volta danneggiato, un luogo lo “è per sempre”, afferma Allan-. «Un sito naturale porta opportunità di crescita e turismo sostenibile per il Paese, che in questo modo andranno persi».

Davanti a questa situazione si aprono due scenari. Il primo è continuare senza intervenire: «I siti verranno danneggiati e compromessi, diventeranno sempre più piccoli e il loro valore andrà perso» spiega il ricercatore. Ma c’è un secondo scenario: «Agiamo immediatamente. Impieghiamo questo studio per richiamare alla lotta per i nostri patrimoni. Non lasciamoli costruire in un sito naturale. Se prendiamo una forte posizione possiamo salvare i nostri patrimoni naturali».

Il team di ricercatori lancia un appello all’Unesco con la speranza che la loro ricerca sia riconosciuta e inserita ufficialmente nel sistema di monitoraggio. «I satelliti per il rilevamento e la mappatura non mentono e ci mostrano una rappresentazione onesta di che cosa stia accadendo nei siti». La responsabilità, però, rimane in capo ai singoli Stati perché malgrado la Convenzione del 1972 che impegna gli stati a preservare il patrimonio naturale, l’Unesco «è solo una piattaforma» per coordinare le attività. «Il concetto di patrimonio mondiale è grande, ma abbiamo bisogno dei Paesi per farlo rispettare».

postilla
Nell'articolo vi si accenna, ma è utile precisare che l'Unesco, come tutte le agenzie dell'ONU, è un ente i cui organi decisionali sono costituiti dai rappresentanti dei governi nazionali. E' quindi estremamente difficile che l'Unesco si esprima contro la volontà dei governi (soprattutto di quelli che più contribuiscono al finanziamento dell'agenzia) . Per di più le raccomandazione dell'Unesco non prevedono alcuna sanzione nel caso che i governi le disattendano. Dire che è uno strumento assolutamente inefficace è dire molto poco.

«"Il mondo al tempo dei quanti” di Agostinelli e Rizzuto affronta il nodo cruciale del rapporto tra scienza, economia e politica. Tentando di rispondere a una domanda: è possibile, e in che modo, democratizzare oggi tecnica e capitalismo?». Sbilanciamoci.info, newsletter n 503, 7 febbraio 2017
Mario Agostinelli e Debora Rizzuto, Il mondo al tempo dei quanti. Perché il futuro non è più quello di una volta, Mimesis Edizioni, 2017, pp. 274, € 22.00


Trent’anni di ideologia neoliberista&ordoliberale e di utopie solo tecnologiche dovrebbero averci portato alla consapevolezza di essere a un bivio: decidere se proseguire sul piano inclinato deterministico del tecno-capitalismo e lentamente implodere (o peggio, esplodere); o provare a invertire la rotta o almeno deviarla, riprendendo i comandi della nave – o dell’aereo, secondo la metafora di Zygmunt Bauman, morto nelle scorse settimane, quando scriveva: «I passeggeri dell’aereo ‘capitalismo leggero’ scoprono con orrore che la cabina di pilotaggio è vuota e che non c’è verso di estrarre dalla misteriosa scatola con l’etichetta ‘pilota automatico’ alcuna informazione su dove si stia andando». In realtà, all’orrore ci stiamo abituando, posto che dopo dieci anni di crisi siamo ancora nella palude dell’austerità europea e alla deregolamentazione (e non alla ferrea ri-regolamentazione) dei mercati finanziari (Trump); e che l’unica reazione sembra essere quella di cercare l’uomo forte o il populista o il leader carismatico e visionario, barattando ancora una volta, come scriveva Freud, la possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.

Dunque, il problema vero di questi ultimi decenni è quello del rapporto tra democrazia ed economia&tecnica. Un rapporto che è sempre più un conflitto (una guerra, secondo i francesi Dardot e Laval), ma che il tecno-capitalismo sa tenere ben nascosto sotto le forme apparentemente libertarie dell’individualismo neoliberista, della rete come libera e democratica, del tecno-entusiasmo come immaginario collettivo dominante. Per cui, direbbe il ‘pessimismo della ragione’, ci stiamo lentamente abituando al disastro, senza neppure più l’orrore di Bauman, e per di più rimettendo nella cabina di comando i nuovi uomini forti – che però non portano visioni nuove ma alla democratura secondo Pedrag Matvejevic (anche lui scomparso da poco), o alla non-più-democrazia secondo noi.

E allora, posto che tecnica e capitalismo sono strutturalmente a-democratici e quindi programmaticamente o tendenzialmente anti-democratici, ogni riflessione su tecnico-scienza e capitalismo è benvenuta, soprattutto se dichiara da subito – come fanno Mario Agostinelli e Debora Rizzuto in questo loro Il mondo al tempo dei quanti (Mimesis Edizioni) – che «la comprensione e la gestione democratica e consapevole della scienza e della tecnologia devono essere la nuova frontiera della politica» (lasciando così spazio all’ottimismo della volontà); una democrazia «che non si può consumare alla velocità della luce» perché è una «prospettiva che necessita di un tempo umano e che non può essere predeterminata dall’accanimento dei tecnocrati». I due autori vengono dal mondo della scienza (cui Agostinelli ha aggiunto una lunga, intensa militanza sindacale, la partecipazione al Forum sociale mondiale e la presidenza dell’associazione Energiafelice) e provano allora a invitarci a modificare il nostro approccio, a pensare diversamente la scienza (che è cosa diversa dalla tecnica, anche se spesso amano con-fondersi tra loro), e la politica.

Partendo da un’idea di fondo: «questa crisi non può essere affrontata con gli strumenti e le ricette che ci hanno portato allo smarrimento attuale, con il fallimento o addirittura il dissolvimento dell’apparato culturale e istituzionale che ha fornito all’intero pianeta il mito dello sviluppo quantitativo come criterio salvifico e inderogabile per l’avvenire delle nuove generazioni. (…) Dallo schianto in corso sembra essersi invece preservata la scienza, anche perché ha cominciato a considerare la realtà e il mondo naturale in totale discontinuità rispetto al passato e alle regole che ancora apprendiamo a scuola. Era già accaduto, da Aristotele a Copernico e Newton che bisognasse riconnettere l’interpretazione del mondo a nuove visioni… Ciò non è invece ancora accaduto dopo la rivoluzione che relatività e quantistica hanno introdotto nella concezione dello spazio e del tempo…». Una nuova discontinuità di cui invece occorre prendere atto per agire conseguentemente. Che è cosa ovviamente diversa dall’immaginare gli scienziati come aspiranti redentori dell’umanità (ne aveva scritto, criticamente, Hans Magnus Enzensberger nel 2001), ma «il bisogno che le prove fornite dalle nuove teorie interpretative della realtà correggano pregiudizi e convinzioni che resistono in una società poco informata e che le politiche attuali continuano a incorporare nel processo decisionale. (…) Suggeriamo il metodo scientifico più aggiornato alla definizione e comprensione dei problemi sociali e di fornire per questa via strumenti di previsione economica meno labili, un facilitatore di decisioni alla politica e un metodo di rafforzamento del processo di partecipazione democratica».

Tornando a ripensare a quella natura reale che invece tecnica e capitalismo, tra new economy e realtà virtuale, ci hanno fatto dimenticare per oltre quarant’anni – analogamente al concetto di limite – e che presenta oggi il conto di un riscaldamento globale che molti (Trump, di nuovo) ancora negano. Non solo: «Nel quadro attuale, il prevalere della tecnocrazia nel controllo e nell’assegnazione dei tempi – di lavoro, di consumo, di riposo, di riproduzione, di ozio – accresce la disuguaglianza sociale, mentre la velocità imposta ai processi di produzione e di consumo demolisce i cicli naturali e intacca irreversibilmente la qualità della vita. In un frangente simile, una politica che ha passato la mano, prova a persuaderci di vivere in un eterno presente, che distoglie dal riprogrammare il futuro, indebolisce il ricorso alla memoria, disconnette la società dalle urgenze e dalle leggi che implacabilmente regolano la biosfera e le probabilità di riproduzione». Dobbiamo allora re-impadronirci del tempo. E soprattutto tornare a considerare la natura (l’ambiente) come entità che non possiamo più considerare come miniera da sfruttare – deterministicamente e a piacimento – perché considerata come illimitata dalla tecnica e dal capitalismo e dalle loro pedagogie. Il mondo naturale, ricordano Agostinelli e Rizzuto, ha invece una sua autonomia, delle ciclicità necessarie. E va conservato, per noi e per le generazioni future.

Il saggio è ampio e affronta molti temi all’ordine del giorno, dal potere degli algoritmi alla disoccupazione tecnologica, dall’energia al movimentismo sociale. Ma spazia anche in campi inconsueti, ad esempio la relazione tra arte e scienza. Le conclusioni sono nette. Il primo passo da compiere è quello di rivalutare la polis, «riconsegnando quindi alla politica e a un patto di democrazia sociale, il governo del cambio di fase». Il secondo «sta invece nel tematizzare e risolvere le attuali fratture ecologiche e sociali con una chiave di interpretazione, anche teorica, in continuo aggiornamento e in opposizione alla resa mistificatoria di un certo nuovismo usato al posto del cambiamento necessario». Mentre il terzo punto sarebbe una diffusione maggiore del pensiero scientifico, che «ridiscuta, potenzi e riaggiorni il metodo della rappresentanza e valorizzi (…) un apporto critico dal basso».

Ma allora, che fare? – nella classica domanda leniniana, ma anche tolstoiana. Lo riassumiamo, necessariamente per punti: cambiare l’immaginario politico; vincere la sfida climatica; cambiare il modello energetico; riappropriarci del tempo e ridurre gli orari di lavoro; mettere le briglie alla velocità; regolamentare la finanza. Su tutto c’è il tentativo – che condividiamo – di dare una risposta appunto alla questione di partenza: comedemocratizzare tecnica e capitalismo (ammesso che sia possibile), due sistemi che si credono (o che sono già oggi, se già vincono gli algoritmi e il machine learning) autopoietici e autoreferenziali; che sono forme di vita più che forme economiche e tecniche (cioè, mezzi). Complicando così ulteriormente la questione. E la sua soluzione.

Un film da vedere. «La pedagogia della catastrofe non funziona. Al contrario, le persone impaurite diventano facili prede delle false speranze prospettate dalle tecnoscienze e dalla green economy...» comune-info, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)

Demain è un bellissimo docufilm ideato da un gruppo di giovani cineasti francesi e diretto da Cyril Dion e Mélanie Laurent, attrice e regista, già disponibile in dvd ( Domani, 108 minuti). L’intento degli autori è ribaltare l’idea che non sia più possibile invertire la deriva del collasso ecologico globale in atto.La pedagogia della catastrofe non funziona. Al contrario, le persone impaurite diventano facili prede delle false speranze prospettate dalle tecnoscienze, dalla green economy, dall’industria 4.0 e via dicendo. Siamo giunti all’assurdo per cui, in nome della difesa della natura, si procede con una progressiva artificializzazione della vita.

Siamo pronti ad accettare ogni mostruosità (bistecche sintetiche, ingegnerizzazione del clima, esodi su Marte) pur di non mettere in discussione il nostro “stile di vita”. Il Domani diverso che il film ci mostra sotto la guida di personalità note come Robert Hokins, Vandana Shiva, Jeremy Rifkin, Pierre Rabhj, David Van Reybrouck e altri intellettuali di diverse discipline, è quello di un modello socioeconomico migliore, desiderabile, finanche fantastico, oltre che possibile. Ce lo dicono una infinità di belle esperienze raccolte in varie parti del mondo e raggruppate attorno a cinque assi: agricoltura, energia, economia, democrazia e istruzione.

Iniziative intraprese da “gente comune” che non è mossa da particolari intenti messianici se non quello di fare qualche cosa di utile, innanzitutto, per se stessi. Come a Detroit, la città fantasma dell’auto, dove sono sorte 1.600 fattorie urbane. O a Todmoren dove due donne hanno avuto l’idea di piantare commestibili in ogni spazio verde che chiunque può cogliere liberamente: Incredible Edible oggi coinvolge decine di volontari e la piantagione urbana coinvolge settanta aree.

In Normandia, invece, una impresa modello di permacultura sta dimostrando che i metodi agroecologici garantiscono una produttività (e una redditività) superiore fino a quattro volte rispetto a quelli convenzionali. Già oggi i piccoli coltivatori garantiscono i tre quarti del cibo del pianeta, mentre l’agricoltura industriale è sempre più orientata alla filiera della carne (mangimi) e ai biocombustibili.

Sul versante dell’energia le cose già si sanno. Copenaghen sarà totalmente fornita da energie rinnovabili entro il 2025. Ma non potrà mai avvenire la fuoriuscita dai combustibili fossili se non entreranno in funzione anche i “negawatt”: quantità di energia risparmiate grazie al contenimento dei consumi: mangiare bio e poca (niente) carne, acquistare in negozi locali, riciclare, riparare, condividere… A San Francisco l’amministrazione ha adottato la strategia Rifiuti zero. Altrove si lavora sulla mobilità dolce.

A Lille un’industria ha adottato da vent’anni il criterio dell’economia circolare. Ma bisogna cambiare anche banca. La Wir in Svizzera gestisce un sistema di scambi non monetari tra 60.000 aziende. Le monete complementari locali sono più di quattromila. Molti i casi di nuove forme di democrazia deliberativa e di rappresentanza popolare non (solo) attraverso elezioni.

«Da nord, al centro fino al sud: ovunque discariche, tonnellate interrate, quasi sempre tossiche, anche gettate alla luce del sole o coperte senza garanzie. È il disastro ambientale intorno a noi». il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2017 (p.d.)

FOGGIA, 250 MILA TONNELLATE

DI VERGOGNA
di Tommaso Rodano
L'accoglienza è da film splatter: sul lato della strada che sale fino alla discarica di Giardinetto c’è il corpo di un cane morto. Bianco, in putrefazione: dev’essere lì da giorni. Siamo a 20 chilometri da Foggia, tra le pianure della Capitanata. All’orizzonte si vedono le cime bianche dei Dauni; alle spalle, in lontananza, c’è il mare del Gargano. Ma il comune più vicino, Troia, non compare nei depliant turistici. Un territorio che pare anonimo, marginale, ma porta una dote tremenda: 250 mila tonnellate di rifiuti industriali, in buona parte tossici. Sono nascosti sotto terra e abbandonati in superficie, in due file di capannoni fatiscenti. Giardinetto è una terra dei fuochi in miniatura su uno spazio di 70 ettari. Lo scenario è immobile dal 1999: sono passati quasi 18 anni.
La strada sterrata che porta alla discarica è circondata da colline innaturali, opera dell’uomo: sono gonfie di laterizi e scarti di materiale edile. Nessuna sbarra, nessun cancello chiuso, nessun segnale di pericolo, si arriva senza impedimenti fino al piazzale su cui poggiano i fabbricati.Nel primo ci sono – letteralmente – montagne di rifiuti industriali in polvere. Il deposito è sommerso da una sostanza fangosa e scura, dalle sfumature verdastre e blu. Sulla superficie qualche impronta umana e quelle delle zampe di un animali; in cima al più alto dei colli neri c’è uno sgabello abbandonato, come se qualcuno l’avesse piazzato lì per riposarsi dopo il trekking tra i veleni.
Nella seconda rimessa ci sono centinaia di balle di rifiuti accatastate l’una sopra l’altra. La maggior parte dei sacchi sono sfibrati o squarciati. Sopra c’è la scritta “1000 kg”, su alcuni si legge “German”o“Korea”. Dentro, ancora sostanze granulose e scure. I vetri dei capannoni sono rotti, i soffitti sono a pezzi, le lastre d’amianto – per non farsi mancare nulla – sono spezzate sul pavimento, tra le pareti ci sono spazi aperti. In cima alla collina, poi, svettano le pale eoliche: nelle giornate di vento queste polveri volano dappertutto. Quando piove si mescolano all’acqua, i canali di scolo le portano a valle, scendono fino al fiume Cervaro.
Di cosa parliamo? Fanghi, ceneri di combustione, residui di lavorazione. Questo piccolo territorio ha accolto,a sua insaputa, i rifiuti velenosi delle industrie del Nord, e probabilmente anche estere. Il merito è della Iao srl, “Industria Ambientale Organizzata”. L’azienda apparteneva a una facoltosa famiglia di imprenditori locali, i Fantini, poi affiancata da un industriale vicentino, Giuseppe De Munari, considerato il deus ex machina del business immondizia.
Nel 1999, quando la fabbrica viene sequestrata per la prima volta, il risultato della loro attività è sotto gli occhi sbigottiti dei carabinieri di Bari: i materiali non venivano sottoposti ad alcun tipo di ciclo di recupero; erano semplicemente stoccati nei capannoni o adagiati all’aperto, sullo spiazzo. Qualche anno dopo si scoprirà che il peggio era invisibile agli occhi: la maggior parte dell’immondizia era stata nascosta sotto terra.
Nel 2010 il procuratore di Lucera (Fg), Pasquale De Luca – ascoltato dalla commissione parlamentare sul traffico illecito dei rifiuti – l’ha definita la “Gomorra” del foggiano: “la realtà supera ogni fantasia proprio come nel libro di Saviano e nel film: la quantità di rifiuti depositati nel sottosuolo è stata stimata dal nostro consulente tecnico (...) in circa 250 mila tonnellate. (...) Ogni camion trasporta due o tre tonnellate al massimo, quindi bisogna fare i calcoli di quante migliaia di mezzi sono passati e hanno trasportato questi rifiuti pericolosissimi, che sono fanghi, materiali misti a cemento, a benzene, a cromo esavalente, ad amianto, a vanadio, a idrocarburi e a metalli pesanti, tutti cancerogeni”.
Lo scempio è rimasto completamente impunito. Nel primo processo, anno 2004, De Munari e soci vengono condannati in primo grado, ma la sentenza è annullata in appello dalla corte di Bari. “Per un vizio di forma: – spiega De Luca – l’imputato principale era sempre malato”.
Il processo ricomincia da capo, ma gli imputati vengono salvati dalla prescrizione. Anche perché il tribunale di Lucera non ravvisa l’aggravante di “disastro ambientale”: “la barriera idraulica costituita da argille”, si legge nella sentenza del 2015, avrebbe protetto le falde acquifere. Risultato? Liberi tutti. L’azienda rientra in possesso dell’area, ma non ha le risorse per bonificarla. Il comune di Troia neppure. L’intervento potrebbe costare decine di milioni di euro.
È tutto immobile. Per le famiglie di Giardinetto è l’ultimo schiaffo. Il “disagio sanitario” e i “troppi tumori” hanno stimolato inchieste giornalistiche e interrogazioni parlamentari, ma nemmeno uno studio epidemiologico. In pochi chiedono ancora giustizia, come il comitato “Salute e Territorio” – stremato dalle battaglie perse – o il fotografo Giovanni Rinaldi, che gira come un cane sciolto con la sua reflex per testimoniare le violenze subìte dalla sua terra. Gli agricoltori preferiscono il silenzio, per paura di essere danneggiati. Quasi tutti si arrendono all’oblio.



LA POLVERE RADIOATTIVA
NELLA TOSCANA DEI FUOCHI
di Ferruccio Sansa
In questa terra qui ci puoi mettere le patate”, avrebbero detto agli agricoltori. Sì, era terra, ma radioattiva. Fino a 60 volte i livelli medi. Si chiama Polverino 500 mesh ed è lo scarto dei lavori di taglio e finitura dei metalli. Contiene piombo, rame, nichel e cromo, e proviene da rocce vulcaniche o effusive che hanno un’alta radioattività naturale. E adesso potrebbe essere finita nella terra dei campi, nei muri delle case, nella sabbia di torrenti e spiagge. Una storia lunga quella del Polverino che, secondo un investigatore, “rischia di svelare una terra dei fuochi nel cuore della Toscana”. Una vicenda dove, a leggere le intercettazioni, le strade dei rifiuti intrecciano quelle della politica. In particolare del Pd locale.
Adesso è in mano al pm Giovanni Arena della Direzione Distrettuale Antimafia di Genova. Ma la storia comincia altrove e incrocia indagini diverse, tra Aulla (ai confini tra Toscana e Liguria) e Vaglia, a nord di Firenze. Già, il centro della questione è la cava di calce di Paterno, a Vaglia, poi trasformata in discarica (sequestrata nell’estate scorsa). Qui dove, ha raccontato Franca Selvatici su Repubblica, negli anni sono confluiti i fanghi delle gallerie del Tav toscano, gli scarti tossici delle concerie di Santa Croce e quelli dello stabilimento Solvay di Rosignano. Poi pneumatici e scarti dell’edilizia contenenti amianto. Ma il guaio è soprattutto un altro: il polverino, che da Aulla sarebbe stato smaltito a Vaglia. E in giro per l’Italia.
Cominciamo appunto da Vaglia. Qui nel 2013 sono stati depositati anche 1.300 big bags (grandi sacchi, per dirla all’italiana) di questa sabbia finissima. “Quanta roba c’è costì?”, chiede il gestore della discarica al telefono. E da Aulla gli rispondono: “Cinquanta viaggi… 1.500 tonnellate”.
Ma di che cosa parlano i protagonisti dell’intercettazione? L’anno scorso è stata disposta un’analisi del contenuto dei sacchi che da Aulla sono arrivati a Vaglia. Gli esperti dell’Università di Pisa con quelli dell’Arpat hanno misurato una radioattività fino a 60 volte superiore alla media della discarica. Superiore perfino ai limiti fissati per le radiografie. L’inquinamento potrebbe essere finito nelle falde acquifere, il torrente Carzola scorre a pochi metri. Ecco allora le indagini epidemiologiche disposte sugli abitanti: le prime in linea con i livelli medi toscani (salvo per il tumore al seno), le seconde con livelli di mortalità doppi rispetto alla norma (ma bisogna considerare che le persone decedute erano anche fumatori). Ma c’è un altro punto essenziale: a Vaglia – secondo gli investigatori – i rifiuti come il polverino sarebbero stati mischiati con la calce destinata all’edilizia. Ha raccontato Salvatore Resia, dipendente della discarica: “Mi ricordo che venivano portati nel capannone o nello stabilimento della calce alcuni carichi di fanghi provenienti dalle concerie, che emanavano un odore nauseabondo. Questi fanghi venivano lavorati con la calce o il cemento… È andata avanti per circa un anno, poi i nostri clienti si sono lamentati perché i prodotti ottenuti con questo procedimento non erano di buona qualità e avevano un odore terribile. Abbiamo perso molti clienti”.
Ancora una volta le intercettazioni rivelano che cosa si voleva fare con il polverino. C’era un imprenditore che aveva in animo di utilizzarlo per i ripristini ambientali e addirittura confidava di averlo ceduto a un agricoltore: “Una parte dei sacconi di polverino – annotano gli investigatori – sono già stati allontanati, in quanto ceduti a una persona che li avrebbe utilizzati per spanderli su un terreno agricolo”. All’ignaro acquirente sarebbero state decantate le qualità della terra dicendo: “Questa qui puoi metterci le patate”. Ci sarebbe poi un’azienda piemontese dove il polverino veniva mescolato perprodurre la sabbia umida che poi veniva venduta. Per gli investigatori “diffondendo in maniera incontrollata il rifiuto sul territorio”. Non basta: c’era chi aveva in animo di rifilarlo a Libia, Iran e Iraq, di usarlo come zavorra per le navi o contrappeso per le gru.
Le intercettazioni delle inchieste rivelano anche la presenza della politica dietro all’affare polverino. Il 21 dicembre 2013 ecco al telefono Fabio Pieri (al tempo sindaco Pd di Vaglia, non coinvolto nell’inchiesta sul polverino) con l’imprenditore che gestiva la cava e l’ha trasformata in discarica. Parlano di Leonardo Borchi, ex comandante dei vigili urbani che ha intenzione di candidarsi alle primarie del centrosinistra. E che si è schierato contro la discarica. “Se passa lui, Vaglia può chiudere”, si lascia scappare il gestore della discarica. Pieri sbotta: “Bisogna lavorare perché nun lo faccia lui”. Ma nel 2014 Borchi diventa sindaco.
Sono diverse ormai le inchieste sulla discarica di Paterno. A novembre i gestori della ex cava ed ex fornace sono stati condannati in primo grado per abbandono di rifiuti e omessa bonifica. C’è poi un secondo fascicolo del pm fiorentino Luigi Bocciolini dove si parla di una discarica non autorizzata di rifiuti anche pericolosi. Ma soprattutto c’è l’inchiesta per traffico di rifiuti: è in mano ai pm genovesi perché lo stabilimento da cui è partito il polverino era ad Aulla.



PFAS, IL VELENO INVISIBILE
CHE FA AMMALARE IL VENETO
di Andrea Tornago
Non ha odore né colore. Si disperde nell’acqua senza lasciare traccia e una volta entrato nell’organismo agisce silenzioso per anni. Il veleno invisibile che ha contaminato il Veneto, dall’acronimo impronunciabile Pfas (sostanze perfluoro alchiliche), comincia a fare davvero paura.
Un recente studio della Regione Veneto sui composti chimici prodotti per decenni da una fabbrica vicentina, usati per impermeabilizzare il fondo delle pentole e i tessuti, ha dato corpo a uno dei peggiori incubi di ogni popolazione esposta: rischio aumentato di malattie per le donne in gravidanza, problemi per i nuovi nati, tra cui mutazioni cromosomiche. L’allarme è contenuto in un rapporto del 29 settembre scorso del registro nascita del Coordinamento malattie rare della Regione Veneto, reso noto solo pochi giorni fa dalle autorità sanitarie.
Nella "zona rossa" a maggior contaminazione, un’area di ventuno comuni in gran parte nella valle vicentina del Chiampo, i tecnici della Regione hanno riscontrato tra il 2003 e il 2015 “l’incremento della preeclampsia, del diabete gestazionale, dei nati con peso molto basso alla nascita, dei nati Sga (piccoli per l’età gestazionale, ndr) e di alcune malformazioni maggiori, tra cui anomalie del sistema nervoso, del sistema circolatorio e cromosomiche”. L’impatto elle sostanze che hanno contaminato più di 250 mila persone nelle province di Verona, Vicenza e Padova, di cui almeno 60 mila maggiormente esposte, arriva a toccare la salute delle nuove generazioni.
Il rischio aumentato di patologie come la preeclamspia, che provoca ipertensione ed altri gravi scompensi nel corso della gravidanza e può mettere a rischio la vita della madre e del bambino, e di anomalie nei neonati (in alcuni casi quasi doppio rispetto al resto della regione), ha fatto saltare sulla sedia il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia.
In una nervosa riunione di giunta, riportata dai giornali locali, Zaia si sarebbe infuriato per non aver ricevuto subito sul suo tavolo i risultati degli studi sanitari citati in una relazione del direttore generale della sanità veneta, Domenico Mantoan, che lo scorso 21 ottobre ha chiesto l’adozione di provvedimenti urgenti per la salute della popolazione “volti alla rimozione della fonte della contaminazione” ipotizzando addirittura “lo spostamento della sede produttiva della ditta”. In quel documento, Mantoan non faceva riferimento solo al rapporto sulle gravidanze. Un altro rapporto del servizio epidemiologico della Regione aveva riscontrato, nel giugno del 2016, un “moderato ma significativo eccesso di mortalità” per le cardiopatie ischemiche e cerebrovascolari, per il diabete mellito e per l’Alzheimer nelle donne. Confermando i risultati di un precedente studio dell’Enea e dell’Isde, l’Associazione medici per l’ambiente, secondo cui negli ultimi trent’anni in Veneto ci sarebbero stati “1260 morti in più” delle attese nelle aree contaminate.
Nellea aree inquinate c’è preoccupazione, ma nessuno parla. Al coordinamento dei comitati “Acqua libera dai Pfas”, da quando sono emersi i nuovi dati degli studi regionali, non si è rivolto nessuno: “Pensate che la gente sia informata? – spiega al Fatto Piergiorgio Boscagin, referente locale di Legambiente – Quella documentazione non era nota nemmeno ai sindaci”.
Il primo cittadino di Sarego, Roberto Castiglion (M5s), uno dei comuni dell’area rossa, ha subito scritto all ’assessore regionale alla Sanità Luca Coletto chiedendo “perché non siano stati immediatamente messi al corrente i sindaci” per poter tutelare al meglio la salute pubblica. Dopo aver chiesto la documentazione sanitaria integrale, Castiglion ha invitato gli assessori e il dirigente Mantoan a un incontro con la cittadinanza, ma i vertici politici e tecnici hanno deciso di non partecipare.
Nelle acque sotterranee nei pressi della fabbrica Miteni di Trìssino (ex Rimar, Ricerche Marzotto), che produce Pfas da più di cinquant’anni, secondo le rilevazioni effettuate dall’Arpav nel 2013 erano presenti concentrazioni elevatissime di composti perfluorurati, fino a 245 milioni di nanogrammi. E anche se dal 2011 l’azienda ha smesso di produrre i vecchi composti più dannosi (ora si occupa di Pfas a catena corta, in gergo “4C”, che nel maggio 2015 più di 200 scienziati hanno chiesto ugualmente di mettere al bando al pari dei vecchi), secondo la Regione la barriera idraulica per mettere in sicurezza il sito industriale “non sembra garantire il rispetto delle concentrazioni soglia” degli inquinanti.

«In una “comunicazione” del 26 gennaio, Bruxelles invita gli Stati a non investire risorse pubbliche per realizzare impianti inutili o aumentare una capacità di incenerimento già eccessiva». Altreconomia online, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)

Parla esplicitamente di “moratoria” per nuovi forni e “spegnimento” per quelli datati. Il caso della Lombardia «Le risorse pubbliche dovrebbero evitare di creare sovracapacità per il trattamento di rifiuti non riciclabili, come gli inceneritori». Non si tratta dell’appello di un’associazione ambientalista ma di un’indicazione forte che la Commissione europea ha fornito - il 26 gennaio scorso - nell’ambito di una “comunicazione” ufficiale dedicata all’economia circolare.

Undici pagine che segnano ancora una volta la distanza netta tra le strategie comunitarie e quelle intraprese dal nostro Paese, incardinate sul provvedimento “Sblocca-Italia” del 2014 e sul “fabbisogno” impiantistico dei forni stimato al rialzo. Neppure troppo tra le righe, quello che emerge è inoltre la condizione critica di alcune “zone” italiane, com’è oggi ad esempio quella della Lombardia e della sua eccessiva “capacità” di incenerimento installata.

Prevenzione, riuso e riciclo, scrive la Commissione, dovrebbero guidare la gerarchia della gestione dei rifiuti. E in quanto tale meritano l’assoluta priorità nella destinazione dei fondi per lo Sviluppo regionale e di Coesione. A proposito del “livello nazionale”, poi, Bruxelles chiarisce che i «i finanziamenti pubblici hanno giocato un ruolo chiave nello sviluppo di soluzioni più sostenibili nella gestione dei rifiuti».

Motivo per cui non ce ne si può servire per “eludere” l’agenda delle azioni da mettere in campo. Ed è in questo paragrafo che l’attenzione si rivolge alla necessità di non alimentare una crescita ingiustificata di impianti di incenerimento.Tra il 2010 e il 2014, riporta la “comunicazione”, la capacità di incenerimento nei 28 Paesi dell’Unione europea (considerando inoltre Svizzera e Norvegia) è cresciuta del 6% fino a raggiungere quota 81 milioni di tonnellate. Germania, Francia, Olanda, Svezia, Italia e Regno Unito ne coprono i tre quarti.

Ciascun cittadino di Svezia e Danimarca “gode” di una potenzialità di incenerimento pari rispettivamente a 591 e 587 chilogrammi di rifiuti pro-capite.nzo Favoino -che lavora presso il centro di ricerca della Scuola Agraria del Parco di Monza ed è il coordinatore scientifico della rete “Zero Waste Europe” (https://www.zerowasteeurope.eu/)- ha letto con attenzione il documento della Commissione.

«Vi è un forte mandato alla Banca europea per gli investimenti e ai Paesi membri di rivedere i loro finanziamenti per la realizzazione delle infrastrutture di settore -spiega-, riducendone la quota all’incenerimento (e comprimendone fortemente la possibilità) ed allineandoli invece con l’evoluzione prevista della politica di rifiuti: l’economia circolare. Penso che questo possa essere utilizzato da subito in quelle situazioni (ad esempio la Polonia) dove gli attuali piani per l’incenerimento eccedono la crescita prevista della raccolta differenziata nel medio termine. Ma anche per rimettere ancora una volta in discussione l’impianto complessivo dello Sblocca-Italia, e fornire argomenti sia alle Regioni che intendono opporsi alle previsioni di nuovi inceneritori in esso contenute, che a quelle (Lombardia) che hanno già messo in agenda il decommissioning, ossia lo spegnimento progressivo di quelli in eccesso (cosa che le ha messe in rotta di collisione con le previsioni dello Sblocca-Italia)».

A proposito delle aree ove già attualmente si registra sovracapacità, la Commissione parla esplicitamente di alzare le tasse di incenerimento, eliminare gradualmente i sussidi al comparto, prevedere una “moratoria” per i nuovi impianti e disporre lo spegnimento per quelli datati. La Lombardia, come evidenzia Favoino, è una “zona” interessata.

Nel 2015, dati del Rapporto Rifiuti urbani 2016 dell’Ispra alla mano, i tredici inceneritori che ricadono sul suo territorio hanno bruciato 2,39 milioni di tonnellate di rifiuti -compresa frazione secca, combustibile solido secondario e bioessiccato, e a fronte del fatto che i cittadini lombardi avessero prodotto indifferenziato per “soli” 1,9 milioni di tonnellate-.

Sta di fatto invece che la capacità autorizzata è tarata su 2,91 milioni, 600mila tonnellate in più. Gli impianti a quel punto devono “lavorare” a tutti i costi, anche importando “combustibile”. «L’incidenza percentuale più elevata dell’incenerimento rispetto alla produzione si rileva in Molise (56%) -segnala l’Ispra-. Ciò è, tuttavia, da attribuirsi quasi totalmente alle quote di rifiuti urbani di provenienza extraregionale, soprattutto dal Lazio. Seguono la Lombardia (45%) e l’Emilia Romagna (33%) dove, come già evidenziato, incidono anche le quote importate dalle altre regioni».

«La Commissione europea, come prevedibile, non ha fatto dichiarazioni nette contro l’incenerimento -riflette lucidamente Favoino-, ma il ruolo di questo in futuro è stato fortemente ristretto e compresso, rispetto alla situazione attuale, ai piani in essere e alle politiche di finanziamento».

Ora sta ai Paesi raccogliere la sfida.

«I due puntini rossi indicano il resort Rigopiano, all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio »Articoli di Marco Imarisio,corriere della sera, la Repubblica, il manifesto, 24 gennaio 2017 (c.m.c.)

corriere della sera
IL RESORT COSTRUITO SUI DETRITI
DELLA VALANGA DEL 1936
E SCATTA UNA NUOVA INDAGINE
SUI LAVORI DI AMPLIAMENTO.
di Marco Imarisio

Pescara. Carta canta. Per almeno due volte. Nel 1991 la Regione Abruzzo decide di dotarsi di una mappa che segnala eventuali criticità sul proprio territorio. Si tratta di un debutto, reso necessario dalle alluvioni e dallo sciame sismico del biennio precedente. La carta ufficiale mostra come l’hotel Rigopiano sia al centro di un’area con colate detritiche, dette conoidi. A farla breve, un lembo di terreno rialzato rispetto alla superficie intorno per via dell’accumulo di materiale caduto dall’alto. Nel dicembre del 2007 quel documento diventa una specie di Vangelo ambientale, perché viene adottato tale e quale com’era dalla Giunta che sulla base delle sue segnalazioni approva il nuovo Piano di assetto idrogeologico.

Con il senno di poi si può fare di tutto, ma è vero che quelli riportati sopra non sono giudizi, ma semplici dati rilevati dai documenti ufficiali presenti sul sito della Regione. Sono stati resi pubblici dal Forum H2O, filiazione diretta dei comitati per l’acqua pubblica. Attivisti, ingegneri e operatori ambientali militanti. I due puntini rossi che indicano il Rigopiano, ponendolo all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio di «anche precipitazione ambientale» sono il punto di partenza che ha portato la Procura di Pescara ad acquisire la loro denuncia.

«L’elemento conoscitivo non è stato trasformato in un vincolo che avrebbe obbligato a non costruire o a farlo seguendo direttive che avrebbero fatto impennare i costi». Da qui in poi ogni elemento diventa opinione, quindi confutabile. Come quella di Augusto De Sanctis, presidente del Forum, convinto che non sia stata sciatteria, ma una pura questione di soldi. L’hotel Rigopiano era una struttura preesistente, in una zona dove nel 1936 si era verificata una valanga di portata paragonabile a quella che mercoledì scorso ha fatto strage.

A quel tempo, nella valle sorgeva solo un rifugio. Secondo il Forum H2O questo non è importante, perché i tempi di ritorno di questi fenomeni estremi sono molto lunghi. Come per le piene dei fiumi, possono avere una ciclicità plurisecolare, raggiungendo aree che ai non addetti ai lavori sembravano tranquille. «È per questo» aggiunge De Sanctis «che esistono le carte del rischio, basate sugli eventi già noti ma soprattutto sulle caratteristiche specifiche del terreno in questione».

L’accusa esplicita è questa: l’ultima ristrutturazione, avvenuta tra il 2007 e il 2008, «ha ampliato le capacità ricettive della struttura e quindi il rischio intrinseco», quando invece c’erano tutti gli elementi per accorgersi dei problemi. Almeno una parte di colpa nel disastro sarebbe quindi da attribuire a quegli ultimi lavori, autorizzati da una delibera del comune di Farindola il 30 settembre 2008 che divenne oggetto di una inchiesta e di un processo per corruzione e abuso di ufficio, chiusi nell’aprile del 2016 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» di tutti gli imputati. Sindaco, assessore e consiglieri comunali.

I reati erano prescritti da tempo. «Ma la completezza dell’istruttoria impone il vaglio delle risultanze dibattimentali» scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza. La Del Rosso srl, titolare dell’hotel, aveva preso possesso di alcuni terreni limitrofi dei quali era proprietario il Comune, e li aveva utilizzati per espandere la ristrutturazione in corso. I magistrati ipotizzarono uno scambio di denaro in cambio della sanatoria, che si rivelò inesistente.

La valutazione dei giudici su quei lavori differisce non poco da quelle di Forum H2O. «Non soltanto non emerge alcun profilo di illegittimità nella delibera adottata, ma non può ravvisarsi neppure un esercizio dei pubblici poteri non improntato a imparzialità e buon andamento. Infatti, l’occupazione abusiva, che riguardava una porzione di terreno piuttosto esigua (1.700 metri quadrati), tenuto conto della collocazione geografica, un’area di montagna totalmente disabitata e destinata a pascolo, fu sanata e stabilito per la sua occupazione un canone ritenuto congruo».

Non è un precedente da poco. Le ultime modifiche del Rigopiano hanno superato indenni il verdetto dell’aula. Quelle meno recenti risalgono alla notte dei tempi. La nuova inchiesta della Procura su come e perché l’hotel Rigopiano sia stato costruito in un’area dove sono presenti colate di detriti, rischia di avere un valore esclusivamente storico.

la Repubblica
LA PREFETTURA NEL MIRINO ,GLI AMBIENTALISTI ACCUSANO «HOTEL COSTRUITO SUI DETRITI»
«I soccorsi partiti dopo ore. Ma anche i documenti sulla morfologia del territorio. L’indagine per “disastro colposo”»

Pescara. L’indagine punta verso la Prefettura di Pescara. Ovvero verso il luogo che tutto ha gestito, durante le giornate dell’emergenza prima, durante e dopo la valanga che ha sepolto l’hotel Rigopiano: il Ccs, il Centro di coordinamento del soccorso che il prefetto Francesco Provolo ha attivato nella mattinata di mercoledì, subito dopo la prima scossa di terremoto. La “situation room” che si trova al piano terra del palazzo di piazza Italia e dove sono rappresentate tutti gli enti e le forze dell’ordine, la protezione civile, i vigili del fuoco.

Del resto non poteva essere altrimenti. Qui sono arrivate le segnalazioni dei cittadini e dei comuni dell’intera provincia, sommersi dalla neve e terrorizzati dai quattro terremoti. Qui sono state raccolte le telefonate del superstite Giampaolo Parete e del suo datore di lavoro Marcello Quintina, sottovalutate e ritenute, nel caso di Quintina, una delle tante bufale che circolavano quel giorno. Tant’è che la polizia identificherà nelle prossime ore l’alta funzionaria della Prefettura che rispose al telefono.

Dal Ccs, infine, sono state gestite le turbine spazzaneve e sono stati coordinati i soccorsi all’hotel, una volta realizzato — con ritardo — la gravità di ciò che era successo a Ferindola. «Tutti i problemi e le interferenze nel flusso delle comunicazioni avvenuti nel post-valanga hanno provocato ritardi che verosimilmente ammontano a circa un’ora», spiega il procuratore aggiunto Cristina Tedeschini, titolare insieme al pm Andrea Papalia, del fascicolo aperto per “disastro colposo” e “omicidio colposo plurimo” al momento contro ignoti. Aggiungendo: «L’incidenza del ritardo non è di particolare rilievo». Come a dire: ciò su cui stiamo lavorando non è tanto il dopo, ma il prima. E infatti saranno sentiti funzionari e dirigenti della provincia e della Prefettura e sarà acquista tutta la documentazione relativa al Ccs.

Il prima, dicevamo. Il fascicolo d’indagine della procura di Pescara si arricchirà presto con la Mappa geomorfologica dei bacini idrici della regione Abruzzo, un documento che è stato reso noto dal Forum H20 Abruzzo e che testimonierebbe come l’hotel Rigopiano sia stato costruito sopra colate e accumuli di detriti preesistenti, compresi quelli da valanghe, all’imbocco di un vallone. Non esattamente la posizione ideale dove tirar su una struttura del genere, oltretutto aperta al pubblico. Altro filone d’indagine, quello relativo al piano valanghe: gli inquirenti si recheranno presto alla Regione Abruzzo all’Aquila per prendere il Piano, previsto da una legge del 1992. A Repubblica risulta che in 25 anni non sia stata fatta una mappatura completa a causa della scarsezza delle risorse economiche, e che tra le aree non coperte ci sia proprio il comune di Farindola.

Quindi il sindaco Ilario Lacchetta, che ha dichiarato di non aver mai ricevuto nemmeno il bollettino Meteomont relativo al mercoledì della tragedia, non poteva sapere se il suo territorio fosse ad alto rischio slavine o no. Ma è tutta la posizione “geologica” dell’albergo a interessare gli investigatori, che infatti vogliono rivedere le relazioni sulla ristrutturazione dell’hotel e le carte del processo per corruzione (conclusosi con una sentenza di assoluzione) su un episodio che risale al 2007. Si vuole capire, al di là della vicenda penale chiusa definitivamente, se la concessione edilizia ottenuta dai proprietari dell’hotel sia in regola e conforme ai vincoli imposti dal Parco del Gran Sasso.

Intanto si deve aggiornare, in negativo, il bilancio della strage. Col recupero di altri quattro corpi, il numero delle vittime sale a nove: tra loro Linda Salzetta, sorella di Fabio, il manutentore sopravvissuto. Non si placa nemmeno la rabbia dei familiari. «Quelli che sono morti sono stati uccisi, quelli che ancora non si trovano sono stati sequestrati contro il loro volere. Avevano le valigie pronte e volevano rientrare», si sfoga Alessio Feniello, papà di Stefano, il 28enne ancora tra i dispersi.

il manifesto
«L’HOTEL RIGOPIANO COSTRUITO SUI DETRITI DI FRANE PRECEDENTI»

«Cumuli di rabbia. Ritrovato il corpo del settima vittima. Oggi i primi funerali a Penne e Farindola Si indaga anche sulle comunicazioni tra l’albergo e le istituzioni comunali e provinciali»

«L’ipotesi operativa è che la slavina possa non aver raggiunto e saturato tutti i locali, che ci sia un cuore della struttura dove non sia arrivata. Se poi lì dentro possano esserci condizioni di vita, questo non lo sappiamo». Va avanti ininterrotto il lavoro dei soccorritori tra le macerie dell’Hotel Rigopiano a Farindola (Pescara). «Proseguiamo nell’esplorazione dei locali – dice Luca Cari, portavoce dei vigili del fuoco -, seguendo la speranza di trovare ancora superstiti, anche se non c’è alcuna certezza. Stiamo procedendo da stanza a stanza, stiamo aprendo varchi in muri anche da ottanta centimetri. Siamo riusciti a sfondare con un escavatore quella montagna di ghiaccio che ci impediva di far giungere i mezzi pesanti fino al complesso turistico».

Sepolta da 120.000 tonnellate di massi, pietre e neve, come 4.000 tir carichi. Il fronte di distacco della massa nevosa aveva una larghezza di 500 metri e una lunghezza di 250, con uno spessore di 2,5 metri. Questo evidenziano gli studi del servizio Meteomont dei carabinieri, che stanno esaminando dimensione e forza d’impatto della valanga che ha devastato l’albergo, sotto cui si trovano ancora in 22. Nelle scorse ore, infatti, sono stati trovati altri 2 corpi.

Attualmente sono 7 le vittime accertate (ieri è stato ritrovato il corpo di una donna), 11 sopravvissuti: tra questi ultimi 4 bambini, che stanno bene. Oggi si svolgeranno i primi funerali. Mentre ieri, nel vano caldaie, sono stati recuperati vivi tre splendidi cuccioli di pastore abruzzese. «E ciò rafforza ogni speranza…».

«Ma quel resort – denuncia il Forum Acqua Abruzzo – sorge su un letto di detriti di vecchie frane». «Per l’area del Rigopiano – spiega Augusto De Sanctis, Forum H2O – la prima mappa elaborata dalla Regione Abruzzo che segnalava criticità importanti è del periodo 1989-1991 ed è stata ripresa tal quale e, quindi, confermata dalla Giunta regionale con delibera numero 1383 del 27 dicembre 2007, con la quale è stato adottato il Piano di assetto idrogeologico. Le due carte ufficiali mostrano inequivocabilmente che l’hotel è costruito al centro di un’area con colate detritiche, dette conoidi. Sorge, cioè, su una zona rialzata formata proprio dai detriti che arrivano giù dal canalone a monte dell’albergo. Insomma al momento della ristrutturazione principale, avvenuta circa dieci anni fa, che ha ampliato le capacità ricettive e quindi il rischio intrinseco, c’erano tutti gli elementi, sia sul terreno, sia nelle carte, per accorgersi dei problemi». Che, dunque, erano noti da un pezzo».

Purtroppo, però, – fa ancora presente De Sanctis – «in questa circostanza risalta anche la gravissima omissione della Regione Abruzzo che ha elaborato una legge sulle valanghe 25 anni fa, la 47/1992, in cui si prevedeva l’inedificabilità per le aree a rischio potenziale di caduta e la chiusura invernale delle strutture in caso di pericolo. La mappa in 25 anni non è stata mai redatta».

Alcuni di questi aspetti saranno approfonditi dall’inchiesta della magistratura che ha aperto un fascicolo per omicidio plurimo e disastro colposo. Indagano il procuratore aggiunto di Pescara, Cristina Tedeschini, e il pubblico ministero Andrea Papalia. «Gli accertamenti – spiega Tedeschini – vertono sulle circostanze relative alle decisioni sull’apertura e lo stato di esercizio dell’hotel e sulla viabilità di accesso, la formazione e successiva caduta della valanga, l’allerta slavine lanciata da giorni. Siamo alle battute iniziali, non ci sono al momento scenari diversi da quelli che tutti possono immaginare».

Attenzione rivolta anche alle «comunicazioni telefoniche, via whatsapp e scritte» da e verso l’albergo. «Ci sono state interferenze – dichiara – inefficacia nei flussi comunicativi, ma al momento non tutto appare rilevante». Alla domanda sul ritardo con cui sarebbero stati attivati i soccorsi dopo l’allarme lanciato da Quintino Marcella, il magistrato risponde che «disfunzioni e magari ritardi da parte della sala operativa nel recepire l’importanza di una segnalazione sono un fatto registrato. Che questa incomprensione, sottovalutazione o ritardo possa aver avuto una qualunque conseguenza causale sulla efficacia dell’azione di soccorso, è da dimostrare. Al massimo sballa un’ora. Avete visto quanto tempo ci vuole per arrivare lì».

Nel mirino poi la mail, una sorta di sos, inviata dall’Hotel Rigopiano. E’ lo scorso 18 gennaio e, dopo il succedersi di forti scosse di terremoto e di intense nevicate, l’amministratore dell’Hotel Rigopiano, Bruno Di Tommaso, invia una mail al prefetto di Pescara, al presidente della Provincia, alla polizia provinciale e al sindaco di Farindola. «Vi comunichiamo – recita il messaggio – che a causa degli ultimi eventi la situazione è diventata preoccupante. In contrada Rigopiano ci sono circa 2 metri di neve e nella nostra struttura al momento 12 camere occupate (oltre al personale). Il gasolio per alimentare il gruppo elettrogeno dovrebbe bastare fino a domani, data in cui ci auguriamo che il fornitore possa effettuare la consegna. I telefoni invece sono fuori servizio. I clienti sono terrorizzati dalle scosse e hanno deciso di restare all’aperto.

Abbiamo cercato di fare il possibile per tranquillizzarli ma, non potendo ripartire a causa delle strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a pulire il viale d’accesso, dal cancello fino alla Ss42. Consapevoli delle difficoltà generali, chiediamo di predisporre un intervento al riguardo. Certi della vostra comprensione, restiamo in attesa di un cenno di riscontro». Appello ignorato da tutti.

Rottamazione dello Stato, eliminazione delle ferrovie secondarie, mancanza di regole: ecco i complici dei disastri nell'Italia più fragile. L'intervista di Davide Vecchi a Valdo Spini e gli articoli di Antonello Caporale e Andrea Gianbartolomei. Il Fatto quotidiano, 21 gennaio 2017



VALDO SPINI:
«DAI FORESTALI ALLE PROVINCE: TROPPISBAGLI»
intervista di Davide Vecchi"

Più chiaro non potrebbe essere: “Stiamovivendo in una parte importante del nostro Paese una situazione estrema edolorosa, da cui emerge la mancanza di un’organizzazione dello Stato”. ValdoSpini, da buon toscano, ha il dono della franchezza. Da politico di lungocorso, quello della sintesi. Delle ormai acclarate difficoltà organizzativenella fase iniziale dell'emergenza, l’ex sottosegretario agli Interni Spini hamaturato alcune convinzioni. E colpe. A partire dall'unificazione del Corpoforestale nei Carabinieri.

Perché ci si è arrivati?
Visto che non si riusciva o non eraconsigliabile, unificare polizia e carabinieri e poi finanza e carabinieri,alla fine si è pensato di annettere un corpo dalle originali caratteristichetecniche e professionali in campo ambientale come quello forestale in un corpodi polizia militare. Si è guardato alla “etichetta “e non alla sostanza delprovvedimento, con le conseguenze di oggi.

Viviamo in emergenza.
Sarebbe meglio avere un buon ministro dellaProtezione civile. Si ricorre invece a un Alto commissario per la ricostruzionequando c’era ancora un problema di difesa del territorio dalle scosse di terremotoe ora anche dalla neve, prevista e prevedibile anche se non in quelledimensioni.

Insomma: pochi fatti e molte parole?
È quell’ideologia di interventi fatti percompiacere una moda piuttosto che risolvere i problemi. È quell’ideologia cheha portato a salutare l’atrofizzazione delle Province prima che intervenisse ladecisione sulla loro soppressione formale, senza gli interventi istituzionaliadeguati. È un’ideologia di smobilitazione che ha portato fino all’abolizionedel controllo capillare sulle strade da parte dei cantonieri che dovevanoprovvedere a spargere subito il sale.

Le Province prima. Le Regioni poi.
La mistica della regionalizzazione (odell’accentramento) deve trovare composizione in un sistema coordinato e regolatoin cui si sappia chi è responsabile di che cosa e lo stato non sia un elementoresiduale e viceversa le Regioni abbiano i mezzi per fare quanto è loro dovere,specie con il venir meno delle Province e con il taglio previsto di tantePrefetture. In tema di protezione civile è fondamentale è il coordinamento tra l’intervento nazionale equello locale. Non si tratta di smantellare, ma di agire insieme.

I Vigili del Fuoco hanno dovutodifendersi.
Un corpo fondamentale, che ha dovuto battersicontro i tentativi di regionalizzarlo, di trasformarlo in un’azienda, didepotenziarlo, quando invece l’Italia ha il dovere di assicurare omogeneicriteri di intervento e di assistenza tecnica in tutto il territorio nazionale.

Sta dicendo che chi gestisce ilPaese non lo conosce?
Oggi di fronte a tanta tragedia e a tantasofferenza, quello che si richiede è prendere fino in fondo atto dei pericoliin cui versa il nostro Paese e delle grandi esigenze di difesa del territorio edi protezione civile che ciò esige. Agire di conseguenza con una classe dirigenteche ne sia fino in fondo consapevole.


QUANDOC’ERANO I TRENI,
PIÙ FORTI DELLA NEVE

diAntonello Caporale

Ferrovie I locomotori viaggiavano comunque ma l’Italia ha eliminato le linee secondarie

Ieri, ai margini dellacronaca quotidiana, ha trovato un piccolo spazio la notizia di quattro corpi dipoveri cristi, due dei quali – padre e figlio – trovati ghiacciati ai marginidellastrada che dovevacondurli allaricerca di un po’ di cibo.Non sono morti che contanonell’Abruzzoincarcerato e isolato,costretto achiudersi in casae sperarechequalcuno ancoraoggi sene accor-ga e prenda cura.Sono ipaesi sommersi e sepolti più che dalla neve dall’incuria e dalla dabbenagginedello Stato che proprio qui, fino a pochi anni fa, vantava il miglior sistemadi mobilità esistente: il treno. La littorina prima, il locomotoreelettrico poi erano dotati di una lancia d’acciaio anteriore, il rovere, che bucavala neve, spalancava la strada ai vagoni e congiungeva paese a paese. Proprio aSulmona nasceva la tratta in quota più alta d’Italia, il collegamento lungo ilcrinale montuoso che legava l’Abruzzo al Molise: da Sulmona a Roccaraso, poiCastel di Sangro, Isernia e infine Carpineto. Paravalanghe a coprire i fianchi,il rostro sul muso della locomotiva ad aprire la strada e via. Era chiamata,infatti, la transiberiana d’Italia.
LA CATASTROFE di questigiorni è stata soprattutto una profonda, irreversibile crisi della mobilità.Dal 1990 in poi l’Italia ha smobilitato, liquidato e fatto arrugginire circa ottomilachilometri di tratte ferroviarie ritenute di serie b: i cosiddetti rami secchi.Nel quadrilatero della crisi i treni non esistono praticamente più. Resiste lalinea del mare, la cosiddetta Adriatica, e basta. L’attraversamento, se si puòdefinire tale, è solo lungo la via di Orte e punta su Ancona. L’Italia internaè fuori dalle linee ferroviarie, l’unico sistema di trasporto sicuro esoprattutto popolare. Il taglio dei “rami secchi” – il costo economico cheprocurava il mantenimento del servizio – è spesso servito da paravento, ottimomotivo per agevolare il business della gomma, naturalmente assistito daprovvidenze pubbliche. Così, semplicemente, i soldi si sono spostati dai treniai bus. A nord dell’area colpita, la Fano-Fossombrone è stata liquidata,malgrado fosse sempre ricca di viaggiatori e quella tratta congiungesse il mareall’interno con tempi di percorrenza di gran lunga inferiori a quelli che oggiimpegnano i bus sostitutivi.
Uguale, per modalità e tempidi disattivazione, le altre linee che collegavano l’Italia interna alle città:Pescara di qua, Roma di là. E così, paradosso nel paradosso, il governo italianosi prepara a spendere quattro miliardi di euro per far fronte all’emergenzaterremoto, pronto a impegnarne almeno altrettanti per l’enorme area devastatadalla catastrofe che è anche quella maggiormente colpita dall’abbandono, senzaimputarne uno solo per riattivare i collegamenti su ferrovia, linfa vitaledell’economia locale.
VOLTERRA, da quandoha perso il treno, ha perduto la metà dei suoi abitanti. “Abbiamo in mente diutilizzare i fondi europei”, ha detto il commissario Vasco Errani. Quindi tuttoda progettare, da definire, da programmare. Un domani, forse, chissà... ConRieti, dove ha sede il centro operativo dell’emergenza che da settant’annidiscute e aspetta il suo treno per Roma e Amatrice, il paese martire, chepatisce a uno spopolamento che l’aveva già aggredita e che ora rischia dimetterla al tappeto. Forse avremo le case, prime e seconde, ma chi le abiterà?


“DA 20 ANNI MANCA LA CARTA DELLE VALANGHE”
d
i Andrea Gianbartolomei


Mancano i piani, gli studi,la prevenzione. Per questoincidenti come quello di Farindola, con la valanga caduta sull’Hotel Rigopiano,provocano enormi danni. Poi, quando si fa qualcosa in materia, il lavoro siferma, mentre regolamenti e piani restano chiusi negli armadi. Come lavalutazione nazionale delle criticità delle valanghe, avviata dalla Protezionecivile dopo l’emergenza neve sugli Appennini nel 2012: “Il tavolo tecnico haprodotto una bozza non ancora approvata, rimasta in stand by”, spiega ValerioSegor, dirigente del servizio di “Assetto idrogeologico dei bacini montani”della Regione Valle d'Aosta, esperto di valanghe, mentre si prepara a partireper l’Abruzzo, dove collaborerà con la Protezione civile insieme a un team diesperti.
QUELLA valutazionesarebbe pronta ormai da tre anni, ma i cambi ai vertici della Protezione civilee le altre emergenze hanno rallentato la conclusione del lavoro e la suaattuazione. Eppure sarebbe stato lavoro che sarebbe stato molto utile per calcolarei rischi e migliorare la prevenzione, magari evacuando il resort prima dellaslavina. Ma in Abruzzo non c’è neanche un piano più specifico: “Manca la cartadelle valanghe spiega l’ingegnere dell’Aquila Dino Pignatelli, progettista diimpianti di risalita che ha studiato a fondo la questione -. È una procedurache permette di individuare con precisione i punti
in cui è possibile che siverifichino le slavine. Si studia la storia delle valanghe nelle zone negliultimi 30, 100 o 300 anni e le altre caratteristiche come il moto, la velocità,la pressione e l’altezza della neve”. Secondo l’ingegnere questa “carta” mancada almeno venti anni e la Regione Abruzzo ha avviato da poco il bando perredigere quella del Gran Sasso, una parte ancora piccola per una regione in cuiil 65 per cento del territorio è composto da sistemi montagnosi. Sono poi leamministrazioni comunali che devono tenere conto di questi studi nei loro pianiregolatori. Secondo l’ingegnere, l’Hotel Rigopiano era in una “zona rossa”: “Quella di mercoledì erauna valanga di versante incanalata: la neve distaccandosi si incanalava econfluiva verso una zona. Il bosco, poi, era nella zona di transito, per cui lamassa trascinava tronchi e detriti”.
INSOMMA, costruirela sotto è stato un gesto sconsiderato: “Non capisco come sia stato possibilefarlo. È un caso scolastico”. Una carta delle valanghe, quindi, avrebbe permessodi fare qualcosa: “Si poteva mitigare l’effetto delle valanghe spiega l’espertovaldostano Segor -, si potevano porre vincoli urbanistici e si potevano faredei piani specifici di protezione civile”.

Come ha potuto accadere che gli uomini, e non la natura o l'ira divina, abbiano distrutto un complesso edilizio e travolto una trentina di persone, uccidendone alcune. Articoli di Peppe Caridi e Federico de Wolanski, Meteoweb online e la Nuova Venezia, 19 e 21 gennaio 2017, con postilla



Meteoweb online, 19 gennaio 2017
LA SCONVOLGENTE VERITÀ:
“STRUTTURA ABUSIVA,
LÌ NON SI DOVEVA COSTRUIRE”
a cura di Peppe Caridi

Iniziamo subito chiarendo le cose: la catastrofe dell’Hotel “Rigopiano”, dove sono già stati recuperati tre cadaveri e risultano ancora disperse circa 30 persone, non è stata provocata dal terremoto. Le scosse che ieri hanno colpito la zona di Campotosto, Montereale e Capitigliano si sono verificate molte ore prima rispetto alla valanga, e in una zona molto distante dall’Hotel Rigopiano, al confine tra l’Abruzzo e il Lazio, in provincia di L’Aquila, mentre l’Hotel Rigopiano sorge a monte di Penne, in provincia di Pescara, sul versante Adriatico dell’Abruzzo. Non conosciamo ancora con precisione l’orario della valanga, ma sappiamo che il primo SMS con la richiesta di soccorso risale alle 17:40 di Mercoledì pomeriggio. Verosimilmente la valanga si era appena verificata, comunque dopo le 17:15/17:20. Le scosse di terremoto, invece, si erano verificate al mattino, la più forte di magnitudo 5.5 alle 11:14, poi quella di magnitudo 5.4 alle 11:25, infine l’ultima di elevata intensità (magnitudo 5.1) alle 14:33, circa tre ore prima della valanga-killer. E’ già difficile immaginare che un terremoto di questa magnitudo (forte, ma non fortissimo) possa innescare una valanga, ancor più improbabile che possa farlo a così tanti chilometri di distanza dall’epicentro. Scientificamente impossibile che ciò accada con svariate ore di ritardo. Invece valanghe di questo tipo rientrano nella relativa “normalità” di grandi nevicate come quelle delle ultime ore sull’Appennino.

A spiegare bene quanto accaduto è stato il geologo Gian Gabriele Ori, dell’università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti: l’hotel Rigopiano è stato investito da “un’enorme colata di detriti, un un fenomeno raro, che ha acquisito forza e velocità notevoli sotto la pressione della neve abbondante, dalla debolezza del terreno. Il terremoto lo ha innescato, come una miccia“. La forza della colata di detriti e’ stata tale da travolgere anche il bosco che si trovava dietro l’hotel. “Di solito – ha osservato l’esperto – i boschi resistono a slavine e valanghe“, ma quello che ha travolto l’hotel è stato qualcosa di molto più violento. Sotto la pressione di almeno tre metri di neve, accumulata nei giorni scorsi anche a causa del vento, il terreno indebolito dalle piogge ha ceduto e ha cominciato a scivolare portando con se’ rocce e detriti. “Il terremoto – ha osservato Ori – potrebbe essere stata solo la miccia che ha innescato il fenomeno“, anche se al momento non ci sono elementi per stabilire se una delle scosse avvenute al mattino possa avere un minimo collegamento con il disastro. “Probabilmente tutto è iniziato come una slavina“, ossia con il distacco di una massa di neve, che cadendo ha raccolto rocce e alberi, cominciando a scorrere su una superficie debole. Ad aumentare progressivamente la velocità ha contribuito la neve, che ha agito come un lubrificante. “In questo modo – ha spiegato ancora Ori – la slavina si e’ caricata di roccia, trasformandosi in un enorme flusso di detriti che, a grande velocità, ha travolto il bosco e poi l’albergo con una potenza distruttiva“.

I soccorritori che sono arrivati all’hotel Ricopiano hanno spiegato che “la situazione è drammatica, l’albergo è stato spazzato via, è rimasto in piedi solo un pezzetto. Ci sono tonnellate di neve, alberi sradicati e detriti che hanno sommerso l’area dove si trovava l’albergo. Ci sono materassi trascinati a centinaia di metri da quella che era la struttura“, ha riferito Luca Cari, responsabile della comunicazione in emergenza dei vigili del fuoco.

La valanga sull’Hotel “Rigopiano”, come tante altre valanghe che nelle ultime 48 ore stanno interessando l’Appennino centrale tra Marche, Abruzzo e Molise, è provocata dalle eccezionali nevicate che da giorni stanno colpendo l’Italia centro/meridionale, con accumuli di svariati metri (in alcune zone di montagna sono stati superati i 4 metri di neve). Ma in altre zone le valanghe non hanno colpito direttamente una struttura con persone dentro. Non è una novità delle grandi nevicate Appenniniche: in queste zone le grosse valanghe sono provocate proprio dall’emergenza neve, nella stessa zona dell’Hotel “Rigopiano”, storicamente denominata “Bocca di Lupo“, nel 1936 c’era stata un’analoga rovinosa valanga. Osservando le immagini orografiche della zona, possiamo notare come l’albergo sia stato costruito proprio a valle di un grande canalone di montagna, che si restringe pericolosamente proprio in prossimità della struttura. In questa situazione, un’eventuale valanga nel canalone diventa devastante perchè aumenta di energia e velocità proprio a ridosso della struttura. Esperti e geologi stanno già descrivendo questa situazione di estremo pericolo, parlando di “abuso edilizio” e sostenendo senza mezzi termini che “in quella zona non si doveva costruire“.

In effetti la storia dell’Hotel “Rigopiano” è caratterizzata da un processo per corruzione, che però si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati “perchè il fatto non sussiste“. Era stato il pm di Pescara Gennaro Varone nel 2008 ad aprire un’inchiesta sulla base delle intercettazioni telefoniche dell’indagine “Vestina“, ipotizzando il reato di corruzione per 7 persone. L’ipotesi accusatoria era di mazzette e posti di lavoro in cambio di un voto favorevole per sanare l’occupazione abusiva di suolo pubblico, relativamente all’ampliamento della struttura (che in origine era un vecchio casolare di montagna), per la realizzazione di un hotel a quattro stelle. L’Hotel Rigopiano aprì i battenti nel 1972 ma proprio nel 2007 assunse una veste completamente nuova, ristrutturato e dotato di tutti i confort, tra cui centro benessere e piscina.

In base a quanto riportano numerosi articoli dei giornali locali, secondo l’accusa, l’amministrazione comunale aveva votato a favore della delibera finalizzata a “sanare l’occupazione abusiva di suolo pubblico da parte della società Del Rosso“, in una zona fino ad allora adibita a pascolo del bestiame e compresa in un’area naturalistica protetta. Secondo le carte della Procura, “l’autorizzazione a sanatoria si basava sul presupposto che detta occupazione non costituisse abuso edilizio per mancata, definitiva trasformazione del suolo“. Ma secondo l’accusa, gli amministratori locali in cambio della delibera avrebbero incassato la “promessa di un versamento di denaro destinato al finanziamento del partito” di appartenenza (il Pd) e, in particolare, il secondo avrebbe ottenuto “il pagamento di 26.250 euro” che, dice ancora l’accusa, andava ad “adempimento parziale di un debito pregresso ma inquadrabile nel rapporto corruttivo“.

Il pm sosteneva anche che come merce di scambio per quella delibera favorevole, i consiglieri e gli assessori del tempo avessero ottenuto dai titolare della società anche “assunzioni preferenziali per i propri protetti“. L’ex sindaco di Farindola nel corso del processo ha sempre respinto l’accusa di corruzione, ottenendo ragione dal giudice che lo scorso novembre ha emesso la sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste“. Il processo, iniziato nel 2013, si è concluso nel 2016 e il reato era comunque prescritto già dallo scorso mese di aprile, quindi questa sentenza non potrà essere appellata. Le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. Ma adesso è probabile che nuove inchieste possano essere aperte per fare luce sull’accaduto.

A prescindere dalla vicenda giudiziaria, se davvero vogliamo fare prevenzione dobbiamo conoscere bene il nostro territorio e i suoi rischi. Come per i terremoti, dove a uccidere sono le costruzioni che non vengono realizzate rispettando i criteri antisismici, anche per frane, alluvioni e valanghe non è mai corretto parlare di “natura assassina” o fandonie simili. A uccidere è l’incoscienza umana. E quell’albergo, a valle di un canalone così pericoloso in una zona esposta a grandi nevicate e da sempre soggetta a pericolose valanghe, non doveva essere costruito. Non lì. Oggi paghiamo semplicemente le conseguenze delle nostre assurdità.

La Nuova Venezia, 21 gennaio 2017
IL RESORT DELLA TRAGEDIA
DI UNA SOCIETÀ TREVIGIANA
di Federico de Wolanski


Treviso. Prima di diventare un resort di lusso tra le montagne, l’hotel Rigopiano era un bellissimo casale di montagna, ma molto meno redditizio. La trasformazione finì sotto la lente d’ingradimento della procura che aprì un’indagine su un presunto abuso edilizio sanato grazie a favori economici, ma divenne anche l’occasione per un grande affare: sia in termini turistici che finanziari. A cogliere l’opportunità al volo è stata la società trevigiana A-Leasing, intermediario finanziario con capitale sociale nell’ordine delle decine di milioni di euro e oggi proprietario dell’immobile con una sua controllata, la A-Realestate. La società aveva sede lungo il Terraglio, proprio all’ingresso di Treviso, ora si è spostata nella Cittadella delle Istituzioni. Nel giardino della villetta riorganizzata a centro direzionale faceva bella mostra lo stemma giallo e nero della banca Raiffeissen, il gruppo svizzero diffusissimo in Austria che fa da scudo economico all’attività di A-leasing: offrire e gestire locazioni finanziarie in tutta Italia.

Una di queste era l’hotel Rigopiano di Farindola, una delle 70 proprietà di A-Leasing nella provincia di Pescara. “Era” perché il resort è stato sventrato dalla valanga, ma anche perché negli ultimi anni l’edificio era stato passato nei registri della società controllata – sede in via della Mostra a Bolzano – che si occupa di vendere gli immobili non più in leasing. L’alienazione pare fosse stata già avviata, l’avevano benedetta i tanti membri del consiglio di amministrazione che conta commercialisti e imprenditori austriaci, trevigiani come Sandro Casellato (già in Fortis), Francesco De Momi e Ivan Montagner, i coneglianesi Nicola De Zottis e Ivan Boscariol, ma anche un padovano (Matteo Marcon) e un professionista di Mantova, Matteo Artioli. «Al momento siamo a conoscenza dei soli fatti riportati dalle cronache» hanno commentato ieri i responsabili della A-Realestate, «non disponiamo di ulteriori informazioni.

La società intestataria del bene immobile oggetto del disastro manifesta la propria solidarietà a tutti coloro che risultano coinvolti nonché il proprio sostegno a chiunque stia prestando il proprio servizio nell’intento di prestare soccorso offrendo la massima disponibilità e collaborazione qualora se ne manifestasse il bisogno».
Il palazzo che ospitava l’hotel ora rischia di tornare nell’occhio del ciclone. Sotto accusa la già contestata conclusione con l’assoluzione del processo per il presunto abuso edilizio chiusosi due anni prima del fallimento della Del Rosso. La società che gestiva l’albergo e ne aveva lanciato la trasformazione in resort sette mesi prima di saltare riuscì «a disfarsi dell’unico ramo d’azienda operativo comprendente l’albergo sito in località Rigopiano di Farindola», come scriveva il tribunale di Pescara nel decreto di fallimento. Lo salvò dai creditori con una partita di giro che vide l’ingresso della A-Leasing come nuova proprietaria dell’immobile e quello della Gran Sasso Resort Spa (sempre legata a Del Rosso) come nuovo gestore. Era un business che funzionava, tanto da portare il fatturato della Gran Sasso a quota 1,6 milioni con guadagni in crescita. Piaceva, quel resort che contava anche sul via vai di personaggi noti. Piaceva il suo panorama con vista sulla vallata ma anche il riparo della grande montagna alle spalle. Quella stessa montagna da cui è partita la valanga che lo ha travolto. «Non poteva essere altrimenti» dicono oggi in molti, «il resort era in un posto dove non doveva stare», allo sbocco della ripida gola.

postilla

Abbiamo scelto due soli articoli tra i numerosissimi che hanno raccontato la tragedia del resort Rigopiano a Farindola. Il primo descrive minuziosamente le ragioni per cui la responsabilità non va attribuita agli eventi, ma agli uomini, che mai avrebbero dovuto scegliere quel sito per trasformare prima un casolare in un albergo, poi l'albergo in un gigantesco complesso. Il secondo, articolo, oltre a fornire qualche informazione aggiuntiva sui responsabili, si fa portatore di un errore grave che ha coinvolto quasi tutti che hanno scritto sull'aspetto abusivo della costruzione del grande complesso. Si informa che la magistratura aveva avviato un procedimento relativo al rilascio della concessione a trasformare un'area libera che avrebbe dovuto restare tale, ma che il procedimento si è concluso con l'assoluzione degli imputati. Si nasconde il fatto che il proscioglimento riguarda l'accusa di corruzione, non l'abuso territoriale. Un abuso, per la verità, sempre diffuso in Italia: temperato negli ultimi decenni del secolo scorso, con le leggi sulla difesa del suolo e quelle per la tutela dell'ambiente e del paesaggio, ma fortemente accentuati negli anni più recenti dai rottamatori non della vecchia politica, ma tel territorio, dei suoi valori e delle sue fragilità.

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