Dopo avere perseguito a lungo una visione che vede nell'aumento della produzione di cibo la condizione per alleviare la fame, la Fao affronta un necessario rinnovamento. Seguendo forse, finalmente, le indicazioni di studiosi come Wolfgang Sachs o Annette Desmarais
Ai vari organismi internazionali che si occupano di politiche agricole e alimentari Silvia Pérez-Vitoria nel suo Il ritorno dei contadini, non aveva risparmiato critiche anche molto aspre. Ma tra questi, la Fao (l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura) si era meritata l'attacco più duro, perché ancorata a quella visione produttivista contestata aspramente anche nell'ultimo saggio dell'economista franco-spagnola, La risposta dei contadini (vedi articolo in basso).
Se le critiche alla Fao non sono dunque una novità, più recente è invece la piena e diffusa consapevolezza che questo organismo, istituito formalmente il 16 ottobre 1945 in Québec, abbia bisogno di una profonda rifondazione. Ne è consapevole il brasiliano José Graziano da Silva, che dal prossimo gennaio assumerà la carica di direttore generale, e che, appena eletto, ha sostenuto di voler «condurre a una conclusione soddisfacente» il processo di riforma della Fao. E ne sono consapevoli tutti i suoi dipendenti, soprattutto dopo la pubblicazione, nell'ottobre 2007, del rapporto Fao. The Challenge of Renewal («Fao. La sfida del rinnovamento»), commissionato due anni prima dalla Conferenza della Fao (il più alto organo politico dell'organizzazione) a un'agenzia di valutazione esterna e indipendente.
Prospettive obsolete
Primo di questo genere, il rapporto riconosce apertamente i limiti di un'organizzazione «in profonda crisi finanziaria e programmatica», viziata da «una burocrazia pesante e costosa», che la rende «conservatrice e lenta ad adattarsi e a distinguere le aree di genuina priorità da quelle che sono le ultime tendenze», e invoca una nuova cornice strategica per un ente ridotto «a una forma istituzionale di vita assistita».
Anche il più recente rapporto redatto dal Britain's Department for International Development non risparmia critiche a un organismo che, per essere trasformato in «una istituzione moderna trasparente e responsiva, particolarmente al livello nazionale», avrebbe «bisogno di un profondo cambiamento culturale...». In effetti, prima ancora che alla vulnerabilità istituzionale e finanziaria e alla difficoltà di agire all'interno di un'architettura internazionale tutt'altro che sistemica, i limiti della Fao sembrano rimandare innanzitutto alla sclerotizzazione culturale denunciata da Silvia Pérez-Vitoria: la Fao ha perseguito a lungo, e continua a perseguire, una visione che è stata definita econometrica e tecnologica, basata su una concezione quantitativa dello sviluppo, che si è tradotta nell'invito ad abbandonare «le tecniche agricole tradizionali giudicate arcaiche e poco produttive» in favore della modernizzazione agricola.
False equivalenze
È, questa, una prospettiva analizzata criticamente già da Soulaïmane Soudjay nel suo La Fao (L'Harmattan 1996) e più di recente, nel saggio La Via Campesina (Jaca Book 2009), da Annette Desmarais, che critica l'idea di «estendere i benefici dello sviluppo mediante programmi di miglioramento tecnologico e attraverso l'aumento della produttività e della produzione». Un'idea - quella che «aumentare la produzione di cibo sia una condizione sufficiente per ottenere la sicurezza alimentare», giudicata parziale persino nel già citato rapporto interno commissionato dalla Conferenza della Fao.
Sta proprio qui, dunque, il vizio di fondo, ideologico, delle politiche della Fao: l'incapacità di sottrarsi al paradigma «sviluppista», quel veicolo concettuale della monocultura economicistica che, ci ha insegnato Wolfgang Sachs con il suo Dizionario dello sviluppo (Gruppo Abele 1998), pur avendo subito nel tempo una tornata di inflazione concettuale, non ha smesso di orientare politiche pubbliche e immaginari simbolico-culturali, da quando il presidente americano Henry Truman se ne fece portavoce, nel discorso inaugurale al Congresso degli Stati Uniti del 20 gennaio 1949.
Si tratta di quel paradigma che per tutto il Novecento ha contribuito a naturalizzare l'equivalenza tra crescita economica e giustizia sociale, in base all'assunto che il progresso e la crescita potessero di per sé risolvere le disuguaglianze sociali, sostituendo o rendendo meno rilevanti le politiche redistributive. In questi termini, così come in ambito economico è prevalsa l'idea - quasi monopolistica nel secolo scorso - che «l'espansione della torta economica (crescita del Pil) rappresentasse il modo migliore per alleviare i confitti economici distributivi tra gruppi sociali» (J. Martinez Alier, L'ecologia dei poveri Jaca Book 2009), allo stesso modo, nell'ambito delle politiche agro-alimentari elaborate dal principale organismo delle Nazioni Unite in materia, è prevalso quel modello culturale che «percepisce ancora l'industrializzazione come progresso associandolo ai falsi concetti della produttività e dell'efficienza» (Vandana Shiva, Il ritorno della terra, Fazi 2009).
La morte in vita
La Fao ha sposato la logica economica prevalente, anche quando se ne è dissociata apertamente, senza accorgersi - ha sostenuto Jean Ziegler, già special rapporteur delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, in Dalla parte dei deboli, Marco Tropea 2004 - che «puntare in modo circoscritto sull'aumento della produzione non può alleviare la fame perché non altera la distribuzione di potere economico - altamente concentrata - che determina chi può comprare cibo in eccesso». Senza riconoscere quindi la tautologia che sta a fondamento del sistema alimentare moderno, un sistema che «crea la povertà proprio mentre favorisce l'abbondanza di cibo, determina fame e malattie tramite i suoi meccanismi di produzione e distribuzione», come scrive Raj Patel ne I padroni del cibo (Feltrinelli).
I problemi del cibo, la fame, non derivano dalla scarsa produttività dei contadini e dei piccoli agricoltori, dal loro presunto «ritardo» rispetto ai «progressi» dell'agricoltura industrializzata, ma sono l'esito di processi di esclusione, come autorevolmente segnalava già diversi anni fa il medico e attivista brasiliano Josué de Castro, tra i fondatori della Fao e suo direttore dal 1951 al 1955, in Geografia della fame: «Fame significa esclusione. Esclusione dalla terra, dal lavoro, dalla paga, dal reddito, dalla vita e dalla cittadinanza. Se una persona arriva al punto di non aver nulla da mangiare, è perché tutto il resto le è stato negato. È una forma moderna di esilio. Di morte durante la vita».
Titolo originale: The Not-So-Green Mountains – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Le ruspe sono arrivate un paio di settimane fa qui vicino, alle falde delle Lowell Mountains, e hanno cominciato a squarciasi la strada attraverso i boschi sino al crinale, dove la Green Mountain Power ha in progetto di realizzare 21 turbine, alte complessivamente più di centocinquanta metri ciascuna all’estremità della pala.
Un sacrilegio, nel nome dell’energia “verde” che avviene qui in Vermont, nel Northeast Kingdom, in una delle principali aree boscose naturali di proprietà privata di tutto lo stato. Dove come accade in altri luoghi — per esempio in Maine o al largo di Cape Cod — il potere dell’energia eolica minaccia di distruggere paesaggi molto delicati.
Costruire turbine per uno sviluppo di cinque chilometri di crinale, richiede strade — su un crinale, con alcuni tratti larghi quanto un’autostrada — in posti dove di solito le corsie per spostarsi le segnano l’orso, l’alce, il gatto selvatico o i cervi.
Si devono modificare i profili della montagna perché ci si possano far arrivare le gru e i veicoli di servizio. Lo stanno facendo usando più o meno trecento chili di esplosivo, che ridurranno parti di queste cime a mucchi di sassi, da usare poi nelle strade di accesso.
Si devono anche disboscare più di cinquanta ettari di pendii alberati, oggi accesi con magnifici colori dell’autunno. Ci sono ricerche che piegano come disboscare voglia dire più erosione, peggioramento della qualità delle acque sorgive, con meno vita nei torrenti, e acque meno buone per tutti a vale, umani e non.
L’elettricità prodotta dal progetto non ridurrà di molto le emissioni di gas serra in Vermont. Che dipendono solo per il 4% dalla produzione energetica (quasi la metà viene invece da auto e camion, un altro terzo dal gasolio per il riscaldamento).
Il vento non soffia sempre, e non lo fa a velocità ottimale, così la produzione di quelle turbine — il “fattore capacità” — è di circa un terzo dei 63 megawatt teorici. Al meglio, si produrrà a sufficienza per alimentare 24.000 abitazioni per un anno, secondo gli stessi proponenti.
Ma il vento soffia sui crinali delVermont. Secondo il Public Interest Research Group, ad esempio, con l’energia eolia si potrebbe arrivare a coprire sino al 25% del fabbisogno di tutto lo stato, naturalmente estendendosi con le turbine su una cinquantina di chilometri di crinali. Altri sostenitori del vento, come David Blittersdorf, massimo esponente di una impresa privata del settore a Williston, arrivano a proporre addirittura di metterne su trecento chilometri di crinale.
Queste sono le stesse Green Mountain che sono state visitate da quasi 14 milioni di persone venute qui in Vermont solo nel 2009, a spendere un miliardo e mezzo di dollari nel turismo. Montagna che fanno parte della nostra identità, non a caso siamo lo Stato delle Montagne Verdi, che ci danno aria e acqua pura, flora e fauna.
Il Vermont ha una gloriosa storia di efficace tutela dell’ambiente naturale, che oggi viene accantonata. Questo progetto è on orribile precedente, che devasta un sistema perfettamente sano e intatto, con la scusa di intervenire contro il cambiamento climatico. In cambio, la Green Mountain Power ci guadagna 44 milioni di dollari in crediti fiscali federali su 10 anni.
Proprio strano che i gruppi ambientalisti dello stato non abbiano preso posizione su questo progetto ecologicamente devastante. A quanto pare, non vogliono intralciare lo sviluppo delle energie “verdi”, e non importa quanta distruzione incomba così quanto in Vermont conta di più: il paesaggio che fa di noi ciò che siamo.
Inseguire così progetti altamente impattanti è un terribile errore di prospettiva e programmazione, un equivoco su come dovrebbe agire una società responsabile che vuole rallentare il riscaldamento del pianeta. É anche non voler proprio capire il valore del paesaggio, per l’identità e l’economia futura del Vermont.
Dopo tre mesi di intenso lavoro, durante il quale sono stati consultati esperti di differenti discipline economiche, giuridiche, aziendali, oltre ad esponenti della società civile e delle associazioni ambientaliste, la giunta di Napoli ha approvato la trasformazione della società per azioni Arin che gestisce il servizio idrico a Napoli in azienda speciale. Si tratta della prima giunta in Italia che attua la volontà referendaria del 12-13 giugno 2011.
L'azienda speciale Acqua Bene Comune Napoli, ente di diritto pubblico, nasce dalla consapevolezza che in tutto il mondo le più recenti trasformazioni del diritto hanno prodotto l'emersione a livello costituzionale, normativo, giurisprudenziale e di politica del diritto della categoria dei beni comuni, ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona e che vanno preservate anche nell'interesse delle generazioni future. E in questo senso ieri il consiglio comunale di Napoli ha approvato una modifica del suo stesso statuto, con la quale si inserisce tra valori e finalità dello Statuto il riconoscimento e la garanzie dei beni comuni, quali beni direttamente riconducibili al soddisfacimento di diritti fondamentali.
I beni comuni, in primis l'acqua, sono dunque adesso direttamente legati a valori che trovano collocazione costituzionale e che informano lo statuto del Comune di Napoli. Essi vanno collocati fuori commercio perché appartengono a tutti e non possono in nessun caso essere privatizzati. L'acqua bene comune è radicalmente incompatibile con l'interesse privato al profitto e alla vendita. Al tempo stesso è ormai del tutto chiaro nell'esperienza italiana che le privatizzazioni hanno determinato forti incrementi delle tariffe e nessun beneficio per i cittadini in termini di qualità del servizio. Acqua Bene Comune Napoli, chiamata a governare il bene comune acqua della città di Napoli, vuole interpretare, attraverso una buona pratica di democrazia partecipata dal basso, il suo dovere fondamentale di difendere il bene acqua. L'azienda speciale, com'è noto, è un ente pubblico economico strumentale del comune che non persegue finalità di profitto. L'azienda speciale ha l'obbligo del pareggio di bilancio e del suo equilibrio finanziario con una autosufficienza gestionale. La sua attività si svolge secondo gli obiettivi e i programmi dell'ente territoriale, cioè del comune e dei suoi cittadini. Tant'è che la strumentalità dell'azienda speciale comporta l'approvazione degli atti fondamentali e la copertura dei costi sociali da parte del Comune, il quale potrà pianificare la sua politica relativa al servizio idrico integrato in base alle proprie disponibilità finanziarie e agli obiettivi di investimento. La qualità del servizio e la sua sostenibilità con l'azienda speciale assume maggiore rilievo, rispetto alle scelte quantitative che nella gestione privatizzata possono venire comunicate o rappresentate al di fuori di essa in modo più opaco. Acqua Bene Comune Napoli, per come congeniata statutariamente - attraverso un consiglio di amministrazione rappresentativo con voto deliberativo delle associazioni ambientaliste e un comitato di sorveglianza rappresentativo oltre che della cittadinanza attiva anche dei dipendenti dell'azienda - consente di affrontare, o meglio valutare, le conflittualità delle politiche idriche e dell'utenza, anche in termini di trasparenza ed accessibilità agli atti.
Governo pubblico partecipato significa proprio un coinvolgimento attivo dei cittadini alla gestione dei beni comuni, un principio fondamentale, che era originariamente previsto anche in Puglia nel processo normativo di trasformazione dell'Aqp spa in azienda pubblica. Inoltre, lo Statuto prevede che qualora l'amministrazione comunale, per ragioni di carattere ecologico o sociale, ed in relazione ai propri fini istituzionali disponga che l'azienda effettui un servizio o svolga un'attività il cui costo non sia recuperabile deve in ogni caso essere assicurata la copertura del costo medesimo. In questa dimensione ecologica e sociale vanno letti anche gli artt. 27 e 28 dello Statuto che rispettivamente disciplinano e garantiscono il quantitativo minimo giornaliero e il fondo di solidarietà internazionale. L'auspicio è che parta da Napoli un nuovo vento che sappia concretamente reagire alla manovra di ferragosto che ha calpestato la volontà referendaria e soprattutto il principio della sovranità popolare.
* Gli autori sono assessori rispettivamente ai beni comuni e alle società partecipate del Comune di Napoli
Caro Presidente Vendola, siamo i due giuristi che, dopo aver elaborato insieme ad altri colleghi i quesiti per i referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali (referendum n. 1) e contro la possibilità di trarre profitto dal servizio idrico integrato (referendum n. 2), abbiamo patrocinato con successo di fronte alla Corte Costituzionale, il 12 gennaio 2011, la questione della rilevanza costituzionale ed europea dei beni comuni.
Oggi ci troviamo di fronte ad un attacco senza precedenti ai beni comuni, portato avanti sul piano politico, giuridico e costituzionale, che cerca di azzerare i risultati fin qui raggiunti attraverso la battaglia referendaria. Ci permettiamo perciò di scriverLe in quanto Lei è fra i pochissimi leaders politici sensibili alla questione dei beni comuni e del necessario ripensamento del rapporto fra pubblico e privato (vogliamo ricordare Luigi de Magistris che ha voluto un assessorato specifico ai beni comuni e la cui giunta sta provvedendo in questi giorni alla ripubblicizzazione del servizio idrico) a essersi conquistato una posizione istituzionale tale da poterci consentire l'accesso, in via diretta, alla Corte Costituzionale. Come ben sa, avendo già sperimentato questa via proprio a proposito dell'abrogato Decreto Ronchi, nel nostro ordinamento una Regione, e non il Comune, può impugnare una legge o atto avente forza di legge di fronte alla Corte Costituzionale entro sessanta giorni dalla sua entrata in vigore. Abbiamo perciò un po' di tempo, ma non moltissimo, per preparare una memoria stringente, capace di porre anche le più alte istituzioni del paese di fronte ai loro ineludibili obblighi costituzionali.
Le scriviamo questa Lettera aperta anche a nome delle 5000 persone, amministratori, associazioni e gruppi politici sensibili alla questione dei beni comuni che in pochi giorni hanno sottoscritto l'appello che, insieme ad altri giuristi estensori dei referendum, abbiamo lanciato dalle colonne di questo giornale (www.siacquapubblica.it) e intendiamo raccogliere le firme durante tutto l'iter di conversione del Decreto per presentarle infine al Presidente Napolitano.
A nostro avviso infatti non solo l'art. 4 del decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011, beffardamente rubricato "Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa europea", ma l'intero impianto della "manovra" di ferragosto è profondamente incostituzionale, violando fra l'altro prerogative di autonomia degli enti locali, precedenti decisioni della Corte Costituzionale, nonché lo spirito di quel nuovo diritto pubblico europeo dell'economia, che faticosamente tenta di affermarsi. La manovra di ferragosto infatti è testimone del clima da shock economy che è stato creato in Europa e che sta condizionando la politica del governo italiano e l'atteggiamento "responsabile" delle opposizioni. Una complessa rete di poteri forti, economici e finanziari ha costruito un dispositivo politico e mediatico che fonda su una presunta improcrastinabile urgenza l'evidente tentativo del neoliberismo di ristrutturare la propria egemonia che la grande crisi ha reso progressivamente meno persuasiva. L'esito di questa politica altro non può essere che un nuovo saccheggio.
In Italia i referendum di giugno e le vicende elettorali di Milano con Pisapia e di Napoli con de Magistris hanno inflitto una netta sconfitta al blocco bipartisan che negli ultimi vent'anni ha portato avanti una politica economica e culturale del tutto coerente con il dispositivo ideologico neoliberista. Prodromica alla "primavera italiana" è stata la Sua conferma come Presidente della Puglia, voluta dal popolo pugliese sconfiggendo proprio Massimo D'Alema, probabilmente il politico italiano che maggiormente incarna l'essenza bipartisan del neoliberismo. In sintesi, tale concezione ci pare essere l'idea che "il privato" sia la soluzione per ogni problema di organizzazione sociale complessa, il solo motore che rende possibile sviluppo e "crescita". Questa concezione produce un susseguirsi di mosse politiche volte a trasferire sempre nuovi spazi e soprattutto nuove risorse pubbliche al privato, sotto diverse forme, siano esse liberalizzazioni, privatizzazioni, dismissioni, grandi appalti, (e naturalmente guerre). Incredibilmente tale politica reazionaria ha preso il nome di riformismo!
Negli ultimi anni, a livello globale e poi anche locale, un pensiero ed una narrazione alternativa, di cui Lei è uno dei più autorevoli esponenti, si è fatto strada dapprima in modo carsico e poi , finalmente, con i referendum del giugno scorso, in modo politicamente maggioritario. Oltre 27 milioni di italiani, la maggioranza assoluta degli elettori, ha dichiarato inequivocabilmente, tramite uno strumento complicatissimo quale il referendum abrogativo, ex art. 75 Costituzione, che occorreva "invertire la rotta", che il privato non è necessariamente "la soluzione" ma molto più sovente "il problema", che occorre immaginare una ristrutturazione fondativa del settore pubblico, capace di renderlo aperto, partecipato e in grado di portare avanti l'interesse pubblico e non soltanto quello privato dei poteri forti che sempre più spesso controllano le istituzioni di politica rappresentativa.
La virulenza costituzionale di questo attacco impressiona e travolge i capisaldi più profondi della nostra costituzione economica, in primis gli articoli 41 (iniziativa economica privata), 81 (bilancio) e 53 (progressività della contribuzione fiscale). Colpisce in particolare la disinvoltura eversiva con cui si maneggia una materia tanto delicata e fondativa di un ordine giuridico legittimo quanto quella della gerarchia delle fonti del diritto. La manovra mette in moto una sorta di processo costituente emergenziale de facto, che anticipa gli effetti di una riforma costituzionale destinata a travolgere i soggetti più deboli ed i beni comuni e che struttura (complice la Lega) un centralismo autoritario che distrugge il pluralismo politico e costituzionale di cui al Titolo V della nostra Costituzione, nonché i principii europei della sussidiarietà e della coesione sociale e territoriale.
Sul piano politico, la retorica della responsabilità e della condivisione interclasse necessaria per superare la crisi sta travolgendo i tratti fondativi del nostro ordine democratico e prelude ad un dopo-Berlusconi segnato dalla discesa in campo di Montezemolo, portavoce accreditato del modello Marchionne. Siamo convinti che sul piano del diritto costituzionale vigente non possano essere riproposte né la privatizzazione\liberalizzazione dei servizi pubblici locali né brutali operazioni di centralizzazione, né provvedimenti lesivi della dignità delle persone e dei lavoratori quali quelli che conseguono all'art. 3 del decreto di Ferragosto secondo cui: «In attesa della revisione dell'art. 41 della Costituzione, comuni, provincie, regioni e Stato, entro un anno dalla data di entrata in vigore della Legge di conversione del presente decreto, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto quello che non è espressamente vietato dalla legge».
Dal punto di vista dell'accettabilità politica, riteniamo inoltre che non possano essere riproposte dismissioni del patrimonio pubblico (che può invece rendere molto se ben governato), ulteriori precarizzazioni e grandi opere inutili o dannose a loro volta espressamente respinte dal voto popolare a proposito delle centrali nucleari. Le alternative e le possibilità di risparmio esistono. Diverse fra queste sono indicate dallo stesso fraseggio costituzionale nel ripudio della guerra, nella cura del territorio, nell'investimento sulla ricerca e nella progressività fiscale seria. Sta alla buona politica, per la quale Lei certamente è un punto di riferimento, elaborarle meglio nel tempo necessario e metterle in bella copia, senza cadere nella trappola dell'eccessiva urgenza.
Di fronte allo scempio morale, politico e costituzionale che il decreto pone in essere è necessaria piuttosto una reazione forte e seria che va condotta tanto con gli strumenti della politica quanto con quelli del diritto. Mentre dal primo punto di vista compete a Lei e agli altri leaders più sensibili a queste istanze proporre finalmente, in un rinnovato rapporto con i movimenti e con i cittadini, un'alternativa autentica al blocco bipartisan dominante, dal punto di vista giuridico e costituzionale siamo consapevoli che compete a noi, in quanto tecnici portatori della sensibilità e della storia politica necessaria per configurare istituzionalmente la difesa dei beni comuni, presentare nuovamente di fronte alla Corte Costituzionale le ragioni dei 27 milioni di cittadini che vogliono invertire la rotta. Insieme, nel tempo necessario, politica e diritto possono restituire ad un rinnovato settore pubblico gli spazi e l'autorevolezza necessari per governare la crisi. A breve occorre adire le vie costituzionalmente rimaste aperte sempre che il Presidente Napolitano, accogliendo l'appello di tanti cittadini, non intenda intervenire in fase di promulgazione.
Caro Presidente Vendola, noi le abbiamo scritto per metterci a disposizione, nella nostra veste di avvocati abilitati al patrocinio di fronte alle supreme giurisdizioni, per ricevere mandato, naturalmente a titolo assolutamente gratuito, da soli o insieme ad altri legali di Sua fiducia, a rappresentare la Regione Puglia (ed incidentalmente la nuova egemonia dei beni comuni) di fronte alla Consulta in un ricorso diretto di incostituzionalità del Decreto 138\2011.
Riceva un saluto cordialissimo.
Qui per firmare l'appello dei giuristi
Mentre tutto va male nel mondo economico, ci siamo dimenticati che dai palazzi vaticani arriva la buona notizia che stiamo per diventare (in ottobre) 7 miliardi. Per di più, e meglio ancora, arriva anche una nuova previsione demografica. Finora si stimava che nel 2050 saremmo arrivati a 9 miliardi, per poi cominciare a decrescere. Ma oggi la stima è diventata che a fine secolo, nel 2100, saremo 10 miliardi. È anche perché l'Aids è diventato controllabile e non ucciderà più come prima. Ma è anche per merito (o per colpa) della Chiesa cattolica che si ostina – pressoché sola tra tutte le religioni – a proibire i contraccettivi e a demonizzare il controllo delle nascite.
Eppure la nuova proiezione dei dieci miliardi è terrorizzante. Anche perché il sovraccarico demografico colpirà soprattutto l'Africa. Per fortuna per fine secolo la popolazione cinese scenderà a quota 950 milioni, e anche se l'India dovrebbe salire da 1 miliardo e 200 milioni di oggi a più di un miliardo e 500 milioni, anche così il totale dei due colossi asiatici rimarrebbe invariato. Invece l'Africa è davvero votata al disastro. Quest'anno la zona in crisi di siccità e di cibo è il Corno d'Africa; ma lo è da parecchio, si tratta di una crisi ricorrente. Che ricorre un po' dappertutto. Ma la proiezione che più spaventa è quella della Nigeria, che dai 150 milioni di oggi dovrebbe addirittura salire a 730 milioni. Follia suicida? Certo. Ma la stessa follia è diffusa in tutta l'area, fino al Sud Africa.
Aggiungi che i dati demografici non dicono tutto. Di tanto un Paese povero si sviluppa davvero, di altrettanto aumentano i consumi pro capite: consumi di cibo ma anche di comodità di vita. Chi non ha mai visto la luce elettrica, ora la vuole; chi ha sofferto il freddo dell'inverno e il caldo dell'estate ora vuole riscaldamento e condizionatori; chi va in bicicletta aspira a una motocicletta; chi mangiava solo riso ora vuole anche carne. Quindi l'aumento demografico comporta aumenti moltiplicati di cibo e di comodità. È giusto. Ma il «carico ecologico» diventa così sempre più insostenibile. L'altra faccia del problema è che la sovrappopolazione fa salire l'inquinamento e anche il riscaldamento dell'aria. Per il 2100 l'aumento dovrebbe essere di 4 gradi con effetti sconvolgenti sul clima e anche sul livello del mare.
E mentre l'acqua salata cresce, l'acqua dolce diminuisce. Ovunque le falde acquifere che alimentano l'agricoltura si assottigliano (scendono) da decenni. Cina e India possono ancora contare sui fiumi alimentati dai ghiacciai dell'Himalaya; ma il granaio del mondo, gli Stati Uniti, dipende in buona parte dalle falde acquifere di Ogallala, che oramai si abbassano tra i trenta e i novanta centimetri l'anno.
Che fare? Io dico che la crescita demografica va fermata ad ogni costo. Ma nessuno osa dirlo; l'argomento è proibito. Tutti o quasi tutti invocano la tecnologia e le sue scoperte. Ma non c'è tecnologia che basti e che ci salvi con dieci miliardi di viventi.
e se ci potesse mettere una piccola grande pezza (anche) una intelligente politica urbana? Non solo da lustri la povera sottofinanziata e decadente scienza occidentale ci spiega che la città correttamente pianificata (non lo slum globale in fondo amato dai finanzieri) ha una impronta ecologica e un consumo energetico proporzionalmente inferiore a quella di insediamenti tradizionali. Non solo anche le attività agricole che oggi degradano il territorio troverebbero spazio qualificato e ruolo virtuoso nei contesti urbani post-moderni. Ma soprattutto, come ci insegna la storia, la società urbana fabbrica automaticamente meno figli, paternità e maternità cosiddette responsabili, ovvero meno automaticamente legate all’atavico istinto dell’accoppiamento (se mi si consente di semplificare così la faccenduola), e meno legate alla pure atavica idea della famiglia autoritaria e patriarcale, della progenie come braccia per i campi, del brulicare di sudditi come simbolo di potere. Paiono sciocchezze, ma sarebbero sciocchezze storicamente confermate, no? (f.b.)
Kiruna, Svezia, 150 chilometri a nord del circolo polare artico, sede di una delle più grandi miniere di ferro del mondo, il cui sfruttamento intensivo cominciò già nell’Ottocento. Le 22 mila persone che vivono a Kiruna ora si trovano di fronte a un dilemma: spostare la città verso la collina oppure trasferirsi tutti nella vallata? E le renne? E già le renne dei lapponi, che da quelle parti preferiscono essere chiamati con il nome di Sami, che ne sarà delle renne e dei loro tradizionali percorsi migratori?
SPOSTAMENTO- Il problema diKiruna– se così si può chiamarlo, per altri invece è una benedizione – si chiama Cina. Con l’esplosione industriale del gigante asiatico, in perenne ricerca di materie prime per alimentare i suoi altoforni, Kiruna al debutto del nuovo millennio ha conosciuto una nuova rinascita dopo decenni di lento ma inesorabile declino, seguendo le sorti di molte città minerarie che, con la fine delle attività estrattive, sono a poco a poco diventate città fantasma divorate dalla ruggine e dall’oblio. A Kiruna questo destino è stato risparmiato: laLuossavaara-Kiirunavaara (Lkab), la società statale proprietaria della miniera, nel 2004 iniziò a sondare le autorità cittadine in merito a un progetto di spostamento della città. Passi per la demolizione di alcune abitazioni per questioni di sicurezza per promuovere lo scavo di nuove gallerie della miniera, come già avvenuto in passato, ma spostare l’intera città… Le commesse che vengono dall’altra parte del mondo ci sono, risposero i dirigenti della Lkab, se la miniera, e con lei Kiruna, vuole sopravvivere si deve allargare. E il giacimento passa proprio sotto la città. Non preoccupatevi: paghiamo tutto noi, come chiede la legge svedese.
«NON AVEVAMO SCELTA» - «Sapevamo di non avere scelta», ammette alWall Street Journal, che si è occupato della vicenda, Ann Catrin Fredriksson, assessore all’Urbanistica e all’ambiente di Kiruna. «La nostra città è legata a doppio filo alla Lkab, quindi non c’è stata opposizione. Abbiamo lavorato insieme per trovare le soluzioni migliori, per esempio la compagnia ha accettato di smontare e ricostruire una dozzina di edifici storici». Tra questi il municipio, realizzato in stile modernista agli inizi del Novecento. La società ha investito 460 milioni di dollari (325 milioni di euro) per acquistare terreni, demolire e ricostruire le abitazioni, traslocare le persone e i loro beni. Il programma di trasferimento non avverrà in un colpo solo, ma seguirà l’avanzamento della miniera. Nei prossimi vent’anni si sposteranno circa 3 mila persone. «Per completare l’opera ci vorranno forse cento anni», spiega Johanna Fogman, portavoce della Lkab. Intanto Patrick Stalnache, 45 anni, che nelle gallerie della miniera ci lavora, in aprile ha dovuto lasciare insieme ad altre trenta famiglie la sua abitazione nel centro della città e trasferirsi in periferia. «Senza la miniera, prima o poi Kiruna sarebbe morta», ammette.
LE RENNE - La demolizione degli edifici storici, di alcune case e la costruzione dei nuovi quartieri inizierà il prossimo anno. Il problema maggiore al momento sono le renne. I binari delle ferrovia che trasporta il minerale sono già stati spostati da una parte all’altra della miniera, ma ora tagliano in due i sentieri che le renne dei Sami percorrono da tempi immemorabili per la transumanza, che in primavera avviene verso i pascoli delle colline e, con la caduta delle prime nevi, all’inverso verso i recinti dove ricevono il foraggio dagli allevatori. La Lkab, insieme al municipio e al ministero dei Trasporti, lo scorso ottobre ha costruito un ponte ricoperto di terra ed erba per consentire alle renne di oltrepassare i binari. Ma l’inverno scorso iniziò in anticipo (a Kiruna d’inverno la temperatura può scendere a 40 gradi sottozero), il terreno gelò e le renne non erano in grado di passare sul ponte. I Sami dovettero andare sulle colline con camion e furgoni per salvare le loro renne dall’inverno artico.
A VALLE- A parte le renne dei Sami, il dibattito in città ora è concentrato su dove spostare la chiesa luterana, realizzata tutta in legno nel 1912, che nel 2001 fu votata edificio più popolare di tutta la Svezia. Il municipio ha indicato un terreno vicino all’aeroporto, ma non tutti sono d’accordo. Su una cosa invece si è arrivati a una decisione definitiva: niente colline, Kiruna si sposterà nella vallata a est, vicino al villaggio di Tuolluvaara. Il terreno da quelle parti offre condizioni migliori.
Coltivare i campi o trasformarli in centrali eoliche e fotovoltaiche? Seminare per produrre cibo o per generare biomasse e quindi elettricità? È la nuova battaglia della terra. Tra chi teme la scomparsa definitiva degli agricoltori e chi sostiene che alle energie rinnovabili non si può più rinunciare.
Il boom delle energie rinnovabili spinge molti agricoltori a cambiare mestiere. E i campi diventano centrali per fotovoltaico e biogas
di Carlo Petrini
Agricoltura industriale. Riflettiamo sull´ossimoro. In suo nome, l´uomo ha pensato di poter produrre il cibo senza contadini, finendo con l´estrometterli dalle campagne. Oggi siamo addirittura arrivati all´idea che possano esserci campi coltivati senza produrre alimenti: agricoltura senza cibo. Agricoltura che, se si basa soltanto sul profitto e sulle speculazioni, riesce a rendere cattivo tutto ciò che può essere buono: il cibo, i terreni fertili (che sono sempre meno), ma anche l´energia pulita e rinnovabile. Come il fotovoltaico, come il biogas.
S´è già parlato di come l´energia fotovoltaica possa diventare una macchina mangia-terreni e mangia-cibo. Se i pannelli fotovoltaici sono posati direttamente a terra e per grandi estensioni essi tolgono spazi alla produzione alimentare e desertificano i suoli fino a renderli inservibili. Allora bisogna dirlo chiaro: sì al fotovoltaico, ma sui tetti, nelle cave dismesse, lungo le strade. No a quello sul terreno libero.
Adesso poi è il momento delle centrali a biogas che sfruttano le biomasse, vale a dire liquami zootecnici, sfalci e altri vegetali. Questi materiali si mettono in un digestore, qui si genera gas che serve a produrre energia elettrica e ciò che avanza – il "digestato" - adeguatamente trattato poi può essere utilizzato come ammendante per i terreni. Questi impianti sarebbero ideali per smaltire liquami (problema annoso di chi fa allevamento) e altri rifiuti biologici, integrando il reddito con una produzione di energia che può essere utilizzata in azienda o venduta. Se sono piccoli o ben calibrati rispetto al sistema chiuso dell´azienda agricola funzionano e sono una benedizione - esattamente come può fare il fotovoltaico sul tetto di un capannone o di una stalla. Ma se c´è di mezzo il business, se si fanno sotto gli investitori che fiutano affari e a cui non importa che l´agricoltura produca cibo e che lo faccia bene, allora il biogas può diventare una maledizione. Sta già succedendo in molte zone della Pianura Padana, soprattutto laddove ci sono forti concentrazioni di allevamenti intensivi. È una cosa che stanno denunciando alcune associazioni ambientaliste a livello locale e per esempio da Slow Food Cremona mi segnalano che nella loro provincia ormai la situazione è sfuggita al controllo. Tant´è vero che hanno chiesto alla Provincia una moratoria sull´installazione e autorizzazione di nuove centrali a biogas.
Che succede? Molti agricoltori, stremati dalla crisi generalizzata del settore, si trasformano in produttori di energia, smettendo di fare cibo. In pratica, si limitano a coltivare mais in maniera intensiva per farlo "digerire" dagli impianti a biogas. C´è anche chi lo fa solo in parte, ma sta di fatto che tutto quel mais non sarà mangiato dagli animali e quindi indirettamente neanche dagli umani. Gli investitori li aiutano, a volte li sfruttano. Esistono soccide in cui gli agricoltori sono pagati da chi ha costruito l´impianto per coltivare mais: sono diventati degli operai del settore energia, altro che contadini. Tutto è cominciato nel 2008 con la finanziaria che prevedeva un nuovo certificato verde "agricolo" per la produzione di energia elettrica con impianti di biogas alimentati da biomasse. Impianti "piccoli", di potenza elettrica non superiore a 1 Megawatt. Ma 1 Mw è tanto: ciò ha incentivato il business, perché a chi produce viene riconosciuta una tariffa di 28 cent/kWh, circa tre volte quanto si paga per l´energia prodotta "normalmente".
Ecco allora che il sistema degli incentivi, cui si uniscono quelli europei per la produzione di mais, ha fatto sì che convenga costruire impianti grandi e costosi (anche 4 milioni di Euro), che possono essere ammortizzati in pochi anni. Soltanto nel cremonese nel 2007 c´erano 5 impianti autorizzati, oggi sono 130. E lì oggi si stima che il 25% delle terre coltivate sia a mais per biogas. In tutta la Lombardia si prevede che entro il 2013 dovrebbero esserci 500 impianti. Ci sarebbe da riflettere su quante volte un cittadino che versa anche le tasse arrivi a pagare quest´energia "pulita", ma l´emergenza è di altro tipo: così si minacciano l´ambiente e l´agricoltura stessa.
Primo e lapalissiano: si smette di produrre cibo per produrre energia. Secondo: la monocoltura intensiva del mais è deleteria per i terreni perché deve fare largo uso di concimi chimici e consuma tantissima acqua, prelevata da falde acquifere sempre più povere e inquinate. Senza rotazioni sui terreni si compromette la loro fertilità e si favorisce la diffusione di parassiti come la diabrotica, da eliminare con un´ulteriore aggiunta di antiparassitari. Se il mais non è per uso alimentare, poi, sarà più facile mettere due dosi di tutto invece di una, senza farsi tanti scrupoli. Terzo: chi produce energia coltivando mais può permettersi di pagare affitti dei terreni molto più alti, anche fino a 1500 euro per ettaro, il che crea una concorrenza sleale nei confronti di chi invece ne ha bisogno per l´allevamento. È lo stesso fenomeno che si è creato con i parchi fotovoltaici, dunque sta piovendo sul bagnato. A chi alleva servono terreni soprattutto per rientrare nella "direttiva nitrati", che dovrebbe regolare lo smaltimento dei liquami in maniera sostenibile. Chiedete ai contadini e agli allevatori: i terreni non sono mai stati così costosi come oggi, e per un´azienda che già subisce i danni di un mercato drogato da speculazioni e imposizioni di prezzi bassi da parte del sistema distributivo può voler dire soltanto una cosa, la chiusura.
Ma andiamo avanti. Quarto: gli impianti stessi, quelli da 1 Mw, sono grandi strutture e per costruirle si consuma terreno agricolo sacrificandolo per sempre. Quinto: ci sono già le prime voci sulla nascita di un mercato nero di rifiuti biologici, come gli scarti dei macelli, venduti illegalmente per fare biogas. Non andrebbero mai utilizzati come biomasse, perché ciò che avanza dalla "digestione" poi viene sparso per i campi come ammendante e in questi casi oltre a inquinare potrebbe anche diffondere malattie.
Il problema è la scala. Diciamo chiaramente che in sé il biogas da biomasse non avrebbe nessun difetto. Ma se è realizzato a fini speculativi ed è sovradimensionato, se fa produrre mais al solo scopo di metterlo nell´impianto, se fa alzare i prezzi del terreno, lo consuma e lo inquina, allora bisogna dire no, forte e chiaro. Da questo punto di vista sarà bene che le amministrazioni (comunali per impianti piccoli, provinciali per quelli più grandi) comincino a valutare i fini reali degli impianti prima di concedere autorizzazioni, e sicuramente questi problemi andranno affrontati e debellati con la nuova PAC, la politica agricola comune, che si è iniziata a discutere a Bruxelles.
Da un punto di vista umano capisco gli agricoltori che hanno intravisto con il biogas un modo per risalire la china di un´agricoltura industriale sempre più in crisi. Ma sono sicuro che ci sono altri modi di fare agricoltura, più puliti, diversificati, che puntano alla vera qualità. Questa agricoltura può essere molto remunerativa e dare futuro ai giovani, mentre è soprattutto quella di stampo industriale che sta collassando. Inoltre, prima o poi gli incentivi finiranno. Il biogas con grandi impianti è una pezza sporca che alcuni stanno mettendo alla nostra agricoltura malata, ottenendo l´effetto di darle così il colpo di grazia. Sarà molto difficile tornare indietro: i terreni fertili non si recuperano, le falde s´inquinano, la salubrità sparisce, chi fa buona agricoltura è costretto a smettere a causa di una concorrenza spietata e insostenibile. Agricoltura industriale, che ossimoro.
Ma la conversione alle rinnovabili resta l´unica strada
di Giovanni Valentini
La consumiamo e la sprechiamo. Possiamo già produrne più di quanta ce ne serve. Eppure, continuiamo a importare energia dall´estero per circa il 14 per cento del nostro fabbisogno, più di qualsiasi altro Paese europeo. Come si spiega? Che cosa c´è dietro? E soprattutto, qual è l´alternativa?
All´inizio della stagione più calda dell´anno, e perciò anche più critica per i consumi di elettricità, il paradosso energetico italiano rivela una trama di interessi e di grandi affari che potrebbe ispirare un film di James Bond in lotta contro la Spectre, sullo sfondo di un traffico intercontinentale di petrolio, gas e uranio. Tanto più che, come attestano diverse analisi di enti o istituti internazionali, entro qualche decennio il mondo – e quindi anche il Belpaese – potrebbe essere alimentato soltanto da fonti rinnovabili: cioè sole, vento, biomasse e quant´altro.
Dietro la cortina fumogena del terrorismo mediatico che imperversa dopo il referendum e lo stop al nucleare, la verità è racchiusa in poche cifre. Secondo gli ultimi dati ufficiali diffusi da Terna, la società che è il principale proprietario della rete di trasmissione nazionale dell´energia elettrica, gli impianti installati in Italia hanno una capacità di produzione potenziale di oltre 106 gigawatt (l´unità di misura pari a un miliardo di watt): contro una richiesta che ha toccato il picco storico di 56,8 GW nell´estate 2007 e una potenza media disponibile stimata in 67 GW. Per di più, negli ultimi due anni, la crisi economica ha ridotto ulteriormente la domanda (51,8 GW nel 2009).
In altre parole, come sostengono gli esperti del Wwf, la potenza di cui disponiamo corrisponde al doppio di quella che occorre. E perciò, dice Gaetano Benedetto, direttore delle Politiche ambientali dell´associazione, «non abbiamo bisogno di nuova energia, ma di un´energia diversa, capace di diminuire la nostra dipendenza dalle risorse fossili e di inquinare di meno».
La maggior parte di questa energia (intorno all´86%) è "made in Italy". Per il resto, pur disponendo di impianti in grado di soddisfare l´intera richiesta, la importiamo dall´estero per un motivo di convenienza economica: l´acquisto del surplus non utilizzato che viene prodotto soprattutto in Francia, ma non solo, attraverso le centrali nucleari. I reattori, infatti, non possono essere mai spenti e perciò di notte, quando i consumi sono al minimo, l´energia viene fornita e "svenduta" sotto costo.
Al momento, la nostra produzione deriva dalle centrali termoelettriche per circa la metà ed è garantita dal gas naturale. Ma intanto la quota di carbone (11,9%) cresce in misura preoccupante sia per le emissioni nocive sia per le conseguenze sui cambiamenti climatici. Sta di fatto che ormai in campo energetico abbiamo sostituito la nostra dipendenza dal petrolio con quella dal gas: su circa 80 miliardi di metri cubi utilizzati all´anno, solo un decimo viene prodotto in Italia, oltre il 50% è importato dalla Russia dell´"amico Putin" (23 miliardi) e dall´Algeria (22 miliardi).
Se tutto ciò servisse a fare dell´Italia un hub nella distribuzione del gas, cioè un terminale nel bacino del Mediterraneo, potrebbe anche avere un senso. Ma è evidente che - per interesse o convenienza - molti hanno cavalcato una presunta crisi energetica per favorire la realizzazione di servizi e strutture con una finalità ben diversa dall´approvvigionamento nazionale.
In linea con un trend mondiale e con le stesse direttive dell´Unione europea che entro il 2020 intende ridurre del 20% le emissioni di gas serra, abbassare del 20% i consumi energetici e raggiungere il 20% di produzione da fonti rinnovabili, l´alternativa è proprio lo sviluppo dell´energia verde, naturale, pulita. Finora, però, in Italia questa s´è aggiunta all´energia fossile e non l´ha effettivamente sostituita, fino a rappresentare una quota complessiva di circa 30 GW con un mix di potenza idrica (17,8 gigawatt), termica a biocombustibili (2,4), geotermica (0,7), eolica (5,8) e fotovoltaica (2,9).
«È chiaro – riconosce lo stesso Benedetto – che, in una fase di transizione, per noi il gas resta essenziale». Ma, per arrivare in prospettiva al 100% di energia rinnovabile, occorre avviare subito una svolta radicale, a cominciare dalla riduzione dei consumi inutili e da una maggiore efficienza. In questa ottica, le fonti alternative diventano perciò il perno di un nuovo modello di sviluppo. È perciò che il Wwf ha costituito recentemente "Officinae Verdi", la prima società in Europa che integra la cultura di un´associazione ambientalista, un partner finanziario come Unicredit e uno tecnologico come Solon, leader continentale nelle tecnologie fotovoltaiche, con una partecipazione di 1/3 per ciascuno dei tre soggetti. Spiega il presidente Benedetto: «Abbiamo costruito un modello innovativo, capace di incidere realmente sullo sviluppo della green economy e sulla lotta ai cambiamenti climatici, non solo in perfetta sintonia con gli obiettivi e le politiche comunitarie, ma anche come alternativa possibile alla dipendenza dall´energia fossile e dalle mega centrali».
Accantonata dunque la pericolosa illusione del nucleare, adesso l´Italia ha l´opportunità di marciare verso la "nuova frontiera" dell´energia, all´insegna della sostenibilità e della compatibilità ambientale. Ormai non è più un problema di soluzioni tecnologiche, ma solo di investimenti e di scelte politiche.
Due riflessioni
1.- Valentini (come la maggioranza di quanti si occupano di energia) non si pone una domanda: quanta energia effettivamente serve per produrre le merci che sono necessarie al benessere dell’uomo? Una grandissima parte delle merci sono prodotte oggi per aumentare la produzione. É la questione della “società opulenta”, in cui tutta l’attenzione di chi detiene il potere è convincere le persone (naturalmente quelle dotate di capacità di spesa) a consumare di più. Su questo argomento esiste una vastissima letteratura, poco frequentata dai commentatori di oggi.
2.- Le aberrazioni e l’uso distorto delle innovazioni possibili, denunciato da Petrini, non sono altro che la conseguenza dei criteri di selezione delle opportunità proprie al sistema capitalistico, il cui obiettivo non è il maggior benessere del genere umano, ma il massimo guadagno ottenibile dai gestori dei mezzi di produzione. Se chi comanda sono questi (l’economia data), è evidente che si punterà ai grandi impianti e non agli impianti diffusi, e così via.
Titolo originale: Afghanistan’s Last Locavores - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Molti americani che vivono in città tendono a idealizzare le culture di una vita a basso impatto o dello “slow food”. Sono molto in pochi però a capire che fra i modelli più importanti di sostenibilità non ci siano tanto le loro colture biologiche degli Stati Uniti, ma l’Afghanistan. Dove una gran maggioranza dei 30 milioni di abitanti a tutt’oggi si coltiva e lavora da sé ciò che consuma. Sono i migliori localovori.
Nei dodici mesi che ho trascorso nella zona settentrionale del paese come consigliera del Dipartimento di Stato, ero esterrefatta nel vedere come, invece di sfruttare la tradizione afghana di agricoltura e edilizia a forte impiego di manodopera, gli Stati Uniti spendano invece gran parte delle risorse per trasformare questa fragile società agricola in una economia dei consumi, meccanizzata e dipendente dai combustibili di origine fossile.
Nel 2004, sull’Afghanistan ha condotto uno studio il Dipartimento dell’Energia. Ed è emerso come esistano in abbondanza fonti energetiche rinnovabili che si potrebbero usare, per piccole centrali a sole o vento a produrre elettricità, al solare termico per riscaldare l’acqua e cucinare.
Ma invece di concentrarsi su queste risorse il governo degli Stati Uniti ha speso centinaia di milioni di dollari in grossi generatori diesel, per sfruttare le riserve di petrolio e gas del paese. Magari nuovi pozzi di estrazione possono dare un po’ di lavoro a personale non qualificato, ma il grosso dei profitti se ne va all’estero, o finisce nelle tasche di qualche signore della guerra o funzionario governativo.
Si usano i soldi del contribuente americano anche per progetti di opera energeticamente inefficienti. Durante il mio anno in Afghanistan, spesso sono stata per ore in riunione con rappresentanti locali in montagna o nel deserto, sudando o battendo i denti – a seconda della stagione – dentro a scuole o posti di polizia in blocchi di cemento di bassa qualità, costruiti coi contributi americani. Progetti che devono corrispondere a criteri tecnici internazionali, dove non sono consentite strutture tradizionali in terra.
Strutture che si realizzano in cob: fango, sabbia, argilla e paglia modellati in forme eleganti, durature, ultra-isolate e resistenti ai terremoti. Con le loro spese pareti, le piccolo finestre e la ventilazione naturale, le abitazioni tradizionali afghane magari non rispondono ai requisiti costruttivi internazionali, ma sono molto più fresche d’estate e calde d’inverno delle scatole di prefabbricato. Durano anche molto tempo. Alcune delle più antiche, come le mura difensive vecchie di 2.000 anni attorno a Balkh, città sulla via della Seta, di cui restano in piedi alcuni tratti, sono di cob e terra compressa. In Gran Bretagna la gente abita ancora in case fatte con materiale di questo tipo, e realizzate prima ancora ce nascesse Shakespeare.
Energie rinnovabili e sostenibilità non sono solo temi che riguardano lo sviluppo. Interessano anche la sicurezza. Il 70% del bilancio energetico del Dipartimento della Difesa in Afghanistan se ne va in carburanti diesel per i convogli corazzati. In un assai opportuno tentativo di ridurre questa pericolosa e costosa dipendenza dai combustibili fossili, recentemente il Corpo dei Marines in due basi in Afghanistan lavora esclusivamente su energie rinnovabili.
Purtroppo è un po’ poco, e fatto troppo tardi. Se si fosse iniziato dieci anni fa con un programma di energie rinnovabili, quando gli Stati Uniti sono arrivati nel paese per rovesciare i Talebani, Washington poteva risparmiare miliardi di dollari in carburanti e, cosa più importante, risparmiare centinaia di vite perse nel trasporto e vigilanza alle scorte di benzina.
Oltre a sostenere la realizzazione di una condotta per il gas naturale dall’Asia Centrale, attraverso l’Afghanistan e fino al Pakistan, gli Usa contribuiscono a finanziare una rete di distribuzione elettrica che obbligherà poi gli afghani a comprare per decenni energia dalle vicine repubbliche ex sovietiche. Anche se la rete riuscisse a sopravvivere a instabilità e sabotaggi, fili e piloni scavalcheranno del tutto le zone rurali per convergere verso i grandi centri, nonostante si sia ufficialmente individuato proprio nell’arretratezza energetica delle campagne il principale ostacolo nella lotta contro gli insorti.
In Afghanistan lo sviluppo sostenibile è passato in seconda fila rispetto agli “obiettivi facili” che possono essere presentati al Congresso come segnali di successo: macchinari agricoli che in contadini non sono in grado di riparare, e che necessitano di carburante diesel troppo costoso; scuole costruite male; strade asfaltate con uno strato troppo sottile, che non sopporteranno mai il clima rigido dell’Afghanistan senza interventi costosi di manutenzione tutti gli anni.
Se le nazioni impegnate non iniziano a riconoscere l’accumulo di secoli di esperienza in termini di sostenibilità, continuando invece a sfruttare carburanti fossili e non energie rinnovabili, le generazioni future delle campagne potranno solo assistere in silenzio e impotenti alla devastazione della loro magnifica terra per farci oleodotti e linee dell’alta tensione, senza che le loro esistenze migliorino.
Dopo che gli americani se ne saranno andati, toccherà invece proprio a questi abitanti delle zone rurali, non certo alla minuscola popolazione delle città afghane, decidere se sostenere o meno rivoluzioni future.
Il progetto di trasformazione della centrale termoelettrica di Porto Tolle da olio combustibile a carbone sta vivendo fasi concitate degne di un thriller giudiziario ad altissima tensione. In questo caso, però, la posta in gioco non è virtuale, ma è la salute dei cittadini e la qualità ambientale di una delle zone di maggior rilievo naturalistico d’Europa. Parliamo del Parco del delta del Po, che già aveva dovuto subire, a partire dagli anni ’70, un disastroso impatto ambientale per la costruzione della centrale tuttora esistente.
Incuranti delle normative che prescrivono, per le centrali ubicate nei territori dei Comuni del Parco l’uso del metano o di altro combustile a minore impatto e per superare la sentenza del Consiglio di Stato che , su ricorso di Italia Nostra e di altre Associazioni, ha recentemente (23 maggio 2011) annullato una scandalosa valutazione di impatto ambientale sottoscritta dal Ministero dell’Ambiente e favorevole alla trasformazione, Enel e Regione Veneto propugnano ora un disegno di legge che dovrebbe modificare la LR istitutiva del Parco.
Ma non solo, da una verifica sul recentissimo testo del Decreto legge “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria” risultano, all’art. 35, due provvidenziali commi studiati appositamente per rendere possibile il progetto di trasformazione: siamo alla versione energetica delle leggi ad aziendam!
Italia Nostra si schiera contro questo progetto per difendere un’area ambientale preziosissima e fragile, riaffermare le ragioni di una politica energetica che si fondi su studi scientifici chiari e rigorosi e non sui pressapochismi ossimorici del carbone “pulito” e ribadire, con forza, la necessità di un ripristino della legalità.
Come ormai troppo spesso succede anche in altre situazioni analoghe, infatti, questa vicenda è accompagnata da palesi abusi normativi, da omissioni e da ripetuti tentativi di addomesticamento delle leggi: ogni attentato alla legalità è una ferita alla democrazia.
Ferita ribadita, peraltro, dalle distorsioni informative di questi mesi e, in particolare, di queste ultime settimane, operate da chi, per coprire gli interessi economici in gioco, non ha esitato ad oscurare le ragioni di chi come Italia Nostra si oppone al progetto e ad usare tutta la panoplia ricattatoria relativa alla perdita dei posti di lavoro in caso di annullamento della riconversione a carbone.
Eppure a fianco di Italia Nostra si sono schierati, da subito, gli operatori turistici, i pescatori, gli agricoltori, tutti i cittadini consapevoli che esistono modelli di sviluppo alternativi ed ecosostenibili in grado di garantire un grado di benessere e di qualità della vita e dell’ambiente incomparabilmente superiore e duraturo nel tempo rispetto a quello arcaico, ecologicamente e tecnologicamente, proposto da Enel.
Per illustrare le proprie ragioni assieme alle altre Associazioni (Legambiente, WWF, Greenpeace) e comitati che condivono questa battaglia, Italia Nostra organizza per martedì 12 luglio a Rovigo un incontro pubblico a cui sono invitati tutti i cittadini.
Sul sito nazionale di Italia Nostra, inoltre, è possibile consultare, con aggiornamenti costanti, documenti e la rassegna stampa relativa all’intera vicenda.
Lasciateci i vostri commenti: Porto Tolle rappresenta un caso esemplare di disinformazione e di prevaricazione dei nostri diritti ambientali e sociali, in questo senso ci riguarda tutti.
Siamo proprio certi che tocchi alla Puglia il ruolo di campo di battaglia post-referendario? E' Acquedotto pugliese e la sua ripubblicizzazione l'emblema del male che il referendum ha spazzato via? Più passano i giorni e più mi accorgo che in questa disputa contro la Puglia stanno godendo di un'insopportabile coltre di silenzio omissivo tutti i gestori idrici italiani, pubblici e privati, mai interpellati per adeguarsi ai tempi nuovi aperti con la consultazione elettorale. Accade quindi che i privatisti sconfitti stanno approfittando e consolandosi attraverso il fratricidio culturale che mi vuole colpire, e mentre ciò accade stiamo rischiando di far risvegliare gli italiani in un mondo che non cambia di una virgola.
Oggi decido per questo di tirare fuori dall'ombra e puntare un riflettore esigente su tutti gli ambiti idrici italiani, che ad oggi non paiono smuoversi per rivolgere una richiesta esigente nei confronti dei propri gestori (Acea, Arin, Publiacqua, Hera, ecc.), affinché valutino la possibilità di adeguarsi al risultato referendario. Per far questo ho quindi la necessità di declinare le mie generalità: il mio impegno e le mie decisioni per Acquedotto pugliese.
L'acqua che distribuiamo non sgorga in Puglia ma nelle regioni vicine, alle quali paghiamo il costo industriale della risorsa e il risarcimento ambientale. Ditemi se in giro esiste una dinamica idraulica simile. Il lungo percorso per giungere nelle case del pugliesi ha generato, nell'ultimo secolo, una rete di oltre 21.000 chilometri. Il mondo accademico studia in Puglia gli acquedotti interconnessi e unicursali. Ma non basta. La morfologia generalmente pianeggiante ha escluso dai testi di fisica letti in Puglia il concetto di spostamento per gravità e da quelli di idraulica il movimento a pelo libero. Ci tocca sollevare, spingere, cioè fare la felicità delle imprese elettriche. Il percorso dell'acqua non finisce all'imbocco dello scarico del lavandino: abbiamo il bisogno di depurarla e il nostro unico corpo idrico è il mare. Altre regioni possono beatamente usare i fiumi e i torrenti, come lavatrici naturali, noi no. Pensate a Milano: il primo impianto di trattamento è del 2005, prima scaricava i propri liquami nell'agonizzante fiume Lambro. Scaricare in mare? Apriti cielo. La balneazione, il turismo e quindi l'economia ne può soffrire. Ecco la risposta, originalità nell'originalità: l'affinamento. Si avvia il processo di affinamento dei reflui per il riutilizzo in agricoltura. In Puglia, con legge approvata durante il mio mandato, l'affinamento è misura di qualità e quantità del servizio idrico integrato, e su google alla voce affinamento emergono solo links pugliesi.
Questo è il contesto storico, idraulico e geomorfologico entro cui la Puglia è costretta ad operare, e vi prego di dirmi se ci sono altri casi che pur lontanamente possono somigliare, in termini di efficienza ed economicità da assicurare. In questo contesto mi ritrovavo ad operare quando i pugliesi mi elessero e nello stesso mi muovo oggi: con minori problemi, lasciatemelo dire, grazie ad una gestione oculata ed efficiente che ho imposto subito, e che però mi espone ingiustamente a dare risposte che ho già dato con le leggi e gli atti del mio mandato. E' un'ingiustizia per la storia tribolata della Puglia, la quale - e costi quel che deve - non diverrà mai lo scalpo per tacitare i privatisti, che così facendo, altrove e senza il fastidio del clamore, continueranno a favore i loro comodi, o far vincere la demagogia. Ho cominciato il mio mandato con Acquedotto pugliese che registrava perdite per mancata fatturazione, frutto di disorganizzazione e disimpegno, e perdite fisiche pur nella media italiana ma insopportabili per una regione che paga l'acqua alle regioni vicine. Oggi sono ridotte le une e le altre.
Il primo scoglio che ho dovuto superare quando sono arrivato era un bond che abbiamo rinegoziato al 6,92 % annui, eliminando dal paniere il pericoloso titolo (tra gli altri) General Motors. Se non l'avessimo fatto oggi Aqp sarebbe fallita.
La depurazione era affidata a società esterne, oggi è internalizzata. I fanghi della depurazione erano smaltiti con notevoli costi, oggi una sensibile percentuale è trasformata in concime dalla stessa Acquedotto. Gli investimenti erano al rango di una qualsiasi azienda idrica con poche centinaia di chilometri di rete, oggi si fanno nella misura di 200 milioni l'anno per corrispondere ad un piano d'investimenti di 1 miliardo e 500milioni fino al 2018, di cui 500 di contributo regionale ed 1 miliardo ottenuto dal credito bancario. Il credito bancario. Quando sono arrivato le banche non aprivano le loro porte con sollecitudine agli amministratori di Aqp, oggi il rating è maggiore di Fiat, Wind, Piaggio ed altri, e ci fanno trovare le porte aperte per invogliarci a diventare clienti. Con questa "rivoluzione" il mio governo e la mia maggioranza hanno approvato una legge per la ripublicizzazione, superando subito l'ostacolo di dover reperire 12.200.000 di euro per acquistare le azioni detenute dalla Basilicata. Senza questa operazione finanziaria non avremmo potuto fare alcuna ripublicizzazione, ed oggi mi addolora chi si manifesta perplesso sulla ripublicizzazione, pensando alla mia maggioranza ed ai funzionari regionali che hanno dato il meglio per resistere alle critiche e per fare in modo che la somma utilizzata potesse rientrare nel massacrato bilancio regionale attraverso le riserve straordinarie di Aqp. Mentre tutto ciò accadeva e nello spirito del referendum, mi accoglie una richiesta di eliminare il 7% della remunerazione dalla tariffa, con la mala fede di chi sa che questa richiesta va inoltrata all'autorità regolatrice, cioè ai sindaci pugliesi.
Questa richiesta non è tecnicamente perorabile perché in Puglia la remunerazione non è "profitto", serve a pagare gli interessi alle banche per accedere al miliardo di euro di investimenti già programmati e lo sciagurato bond su cui mi aspetto una class action nei confronti di chi se ne rese protagonista. Io non mi aspetto che i sindaci autorizzino una riduzione tariffaria del 7%, anche perché a ciò corrisponderebbe almeno la proporzionale riduzione degli investimenti: cioè l'acqua, la fogna e la salute per i pugliesi, ed in particolare per quelli più deboli.
L'unico motivo reale di dibattito, e me ne duole non aver potuto soddisfare la richiesta, attiene al quantitativo minimo vitale, che il bilancio regionale non è in grado di assicurare, perché il costo ammonterebbe a circa 70 milioni di euro. Non abbiamo la disponibilità di questa cifra anche grazie al governo nazionale che ha falcidiato le finanze delle regioni, e ciò nonostante stiamo per approvare in consiglio regionale un ordine del giorno per garantire il minimo vitale, attraverso una richiesta ai sindaci di rimodulazione tariffaria, incentrata sul pagamento gradualistico in base al reddito e al principio chi spreca paga, senza modificare il piano degli investimenti.
E' l'unica soluzione in questo momento, ed è l'unica a causa dei tagli del governo, quegli stessi che mi inducono a chiedere quando arriverà il giorno in cui capiremo che la battaglia generale contro il governo sui tagli appartiene anche ai sostenitori di battaglie settoriali? Quando capiterà che di fronte ad una battaglia settoriale di vitale importanza, come in questo caso, la voce dei sostenitori si leverà più forte, determinata e chiara? Devo aspettare ancora molto per vedermi accompagnato da un presidio permanente aperto sotto Palazzo Chigi?
Avrei potuto trincerarmi dietro la competenza dei sindaci sulla tariffa le sue modifiche, o magari mettermi alla testa di chi ha il diritto di reclamare anche l'impossibile nei confronti dell'autorità regolatrice delle tariffe (sempre i sindaci): vi prego di credermi, avrei saputo fare bene. Ma non è il mio costume. Ho promesso una stagione di riforme e le riforme non si raggiungono prendendo in giro, o eccitando l'orgoglio di una battaglia e così calpestando chi come me vuole soltanto raggiungere per davvero l'approdo comune.
Chi, per propria ammissione, fa una «porcata» è un porco (soprattutto se la porcata è una legge elettorale che priva il popolo della propria sovranità). Il ministro Calderoli sta dando attuazione al ruolo che si è autonomamente assunto bloccando il trasferimento dei rifiuti che ingombrano le strade di Napoli in altre regioni. Non tutte: mentre Toscana, Emilia e Puglia, che si sono dichiarate pronte ad accoglierli - temporaneamente, e per solidarietà - non possono riceverli, Padova, cioè il Veneto, che ovviamente è contrario, ma dove è in progetto, contro gli impegni dell'amministrazione e la volontà popolare, la costruzione di una quarta linea di un inceneritore che ne doveva avere solo due, accoglie e brucia da tempo parecchi rifiuti di provenienza campana a 200 euro la tonnellata.
Quello che il ministro Calderoli cerca di promuovere dal suo scranno romano, tenendo sotto tiro la mummia di Berlusconi, è il caos a Napoli e uno scacco del suo nuovo sindaco, per compensare gli smacchi subiti dalla Lega nei «territori» che considera suoi feudi. Non ci riuscirà. Intanto, i rifiuti bruciati nelle strade di Napoli sono a tutti gli effetti rifiuti «speciali»: quelli che possono viaggiare per tutta l'Italia senza accordi tra le regioni, come da tre decenni viaggiano i rifiuti industriali e ospedalieri con cui le regioni della «Padania» hanno riempito e devastato i suoli e i corsi d'acqua della Campania (e di molte altre regioni del Mezzogiorno). Qualcuno, al Tar del Lazio dovrà pur accorgersene. Poi De Magistris ha dalla sua, oltre a una straordinaria mobilitazione popolare, che lo aiuterà a venir a capo del problema, la voce di Napolitano.
Contro di lui ci sono, nell'immediato, Governo e camorra, impersonata, per l'occasione, dalle bande di ragazzi che impediscono la raccolta dei rifiuti e che li vanno a sparpagliare nelle strade e nelle piazze che sono state appena ripulite. Un po' più defilate, ci sono Regione e Provincia, che non fanno niente per trovare uno sfogo ai rifiuti raccolti, di cui hanno per legge la responsabilità; una responsabilità che il Comune di Napoli invece non ha e non può avere. Ma la fila dei beneficiari del caos è molto lunga, e non finisce né a Napoli né in Campania. Intanto c'è A2A, azienda di Milano e Brescia, che gestisce - controvoglia: glielo ha imposto Berlusconi - un ferravecchio: l'inceneritore di Acerra, che funziona a metà, e male, un giorno sì e l'altro no.
Poi c'è Impregilo - sede sociale a Sesto San Giovanni, provincia di Milano - che l'ha costruito e che ha riempito la Campagna con 8 o 10 milioni di tonnellate di ecoballe indistruttibili, con l'intento di lucrare sugli incentivi concessi all'incenerimento. Poi c'è la Protezione Civile del fu Bertolaso, che ha ereditato, insieme a quelle montagne di ecoballe e al «ferrovecchio», sette Stir (ex-Cdr) che avrebbero potuto liberare la regione dalla necessità di fare nuove discariche, più l'impegno a costruire altri tre - poi quattro - inceneritori oltre che undici discariche; e che ne ha realizzata invece una sola, quella di Chiaiano, controllata dalla camorra, dopo aver governato la regione per oltre due anni con l'aiuto dell'esercito e lasciato in eredità un disastro tre volte peggiore di quello che aveva trovato al suo arrivo. Ma permettendo per due anni - e ancora adesso - a Berlusconi di menar vanto di aver liberato la Campania dai rifiuti. Tutto questo Napoli e la Campania lo devono anche alla Lega.
Il programma di De Magistris non fa una piega. Se Salerno ha raggiunto il 75% di raccolta differenziata in meno di un anno, non si vede perché non lo possa fare anche Napoli, dove la nuova Giunta può contare su una straordinaria mobilitazione popolare, sul concorso di parrocchie, associazioni e comitati e sulla nausea per 16 anni di commissariamento trascorsi in mezzo ai rifiuti. Quanto agli inceneritori, se persino l'avv. Pecorella, Presidente della Commissione parlamentate sul crimine organizzato nel settore dei rifiuti, quando va in Germania scopre che gli inceneritori non si fanno più e sono una tecnologia del secolo scorso, i lamenti dei mille columnist che invocano nuovi inceneritori per risolvere un problema che è solo il frutto di una malagestione - che ha coinvolto, in misura gravissima, anche la società Asìa e la passata amministrazione comunale - sono un ennesimo esempio di ignoranza, disinformazione e malafede dei media italiani.
Ma come affrontare l'emergenza attuale? Dove sversare i rifiuti delle strade di Napoli in attesa che la raccolta differenziata li riduca di tre quarti e compostaggio, trattamento meccanico ed estrusione (un sistema che permette di recuperare fino all'ultimo grammo il residuo) realizzino un riciclo totale? In provincia di Caserta, a Parco Saurino, terreno riconducibile alla proprietà della famiglia Schiavone, c'è da anni - ne ha parlato anche Report - una discarica vuota da 300mila metri cubi (estensibile a 600mila) che nessuno osa toccare. Non l'ha fatto De Gennaro (ex capo della Polizia e futuro capo dei Servizi segreti, mandato a Napoli da Prodi), che ha preferito aprire due nuove discariche illegali, che stanno franando, nelle province di Benevento e di Avellino e trasformare in «depositi temporanei», ma perpetui come le ecoballe, numerosi edifici, tra cui un impianto di compostaggio nuovo di zecca nella vicina San Tammaro; che in questo modo è stato mandato in malora. Non lo ha fatto Bertolaso, che aveva a disposizione l'esercito, miliardi di euro, e che ha preferito aprire una nuova discarica - di 11 che ne aveva in programma - nel cuore di un'area urbana protetta, accanto a un ospedale e a un insediamento residenziale grande come una città. Non lo hanno fatto Bassolino, né Caldoro, né i quattro prefetti che si sono succeduti al comando del commissariato, né lo ha mai chiesto la Jervolino. Eppure, anche se la soluzione del decennale problema dei rifiuti campani non si risolve certo con una discarica, le molteplici «emergenze» che hanno tormentato la regione avrebbero potuto essere evitate utilizzandone una che esiste già. Perché nessuno ha mai proposto di usare quella discarica? E non è il caso che ora De Magistris ne chieda conto al Governo? E non è il caso di fare almeno una interrogazione parlamentare?
Due referendum hanno giustamente sepolto la pessima legge sull’acqua voluta a colpi di voti di fiducia dal governo Berlusconi nel 2009, che, fra l’altro, imponeva la privatizzazione obbligatoria delle aziende pubbliche di servizi locali in nome dell’Europa. Un falso. La Ue ha optato per una politica di liberalizzazioni volte a creare una concorrenza fra i vari gestori. Ma il centrodestra non ha liberalizzato, ha semplicemente fatto entrare i privati nelle aziende municipalizzate sostanzialmente per comandare (si pensi a Caltagirone nella più che centenaria Acea di Roma creata dalla Giunta Nathan con referendum). Anche perché quelle stesse imprese locali, un tempo gestite con rigore da un personale competente, sono state riempite – si pensi alla recente vicenda di Parentopoli a Roma – di dirigenti senza competenze specifiche, i quali si sono portati dietro gente ancor più mediocre.
Lo stesso centrodestra che ha teso a privatizzare le imprese pubbliche locali, ha accuratamente evitato di creare una vera concorrenza fra le grandi imprese nazionali e i loro servizi (si pensi soltanto alle ferrovie coi pendolari abbandonati a se stessi). I due referendum hanno quindi azzerato delle pessime regole e riportato l’acqua fra i beni pubblici da gestire in forma coerentemente pubblicistica e non privatistica. Come invece stavano facendo, in gran fretta, le prime aziende acquedottistiche privatizzate intascando dei bei sovraprofitti.
Ora però bisogna riscrivere accuratamente le regole e la sinistra deve concorrere con proposte chiare e responsabili, in ogni settore e in particolare per l’acqua. Dove la situazione italiana è tanto seria quanto anomala. Siamo infatti il Paese che consuma più acqua al mondo per abitante dopo Usa e Canada, il primo in Europa. Con una quota fortissima, il 65 %, in agricoltura, e in particolare al Nord (irrigazione e allevamenti), con consumi industriali almeno in apparenza più ridotti, ma con tanti, troppi prelievi (e scarichi) direttamente in falda, e con sprechi inaccettabili anche negli usi domestici. Si ricicla ancora poco l’acqua già utilizzata, rari sono gli acquedotti industriali e così via. Si dissipa insomma l’acqua potabile. Anche in forza delle tariffe troppo basse di numerose città italiane: il consumo più alto lo si registra a Torino con 291 litri/abitante al giorno i più bassi a Firenze e a Forlì (130 litri/abitante). A Torino, guarda caso, l’acqua la si paga pochissimo. A Firenze e a Forlì la si paga un bel po’ di più. E’ interessante osservare che dove l’acqua costa poco, la si spreca; dove costa, la si economizza. Succede lo stesso in Europa: ad Atene l’acqua costa il doppio di Torino e Milano e se ne consuma, per abitante, meno della metà. Analogamente a Bruxelles, a Zurigo o a Berlino.
Si obietterà: in quelle città straniere gli acquedotti non registrano le perdite sovente ingenti dei nostri. Per la verità le regioni italiane nelle quali si registrano, secondo stime di Lergambiente, le minori perdite e quindi alte efficienze sono quelle – Emilia-Romagna, Umbria e Marche – dove le tariffe non sono “stracciate”, da svendita. Voglio dire che, dove le tariffe remunerano in modo equo costi e investimenti consentendo ammortamenti e miglioramenti delle infrastrutture, la rete risulta più efficiente. Come deve essere in un’azienda di pubblici servizi che si rispetti. Certo, poi ci sono i disastri di Cosenza col 70% di acqua persa per strada, di Campobasso col 65%, di Latina col 66%, ma pure di Trieste, a Palermo, a Catania, a Messina o a Cagliari dove si arriva ad un 40%. Casi in cui, temo, occorrerà un piano straordinario di investimenti. Secondo il geologo Mario Tozzi, i Km di rete idrica da rifare sono almeno 50.000 sui 291.000. Ma è una balla del centrodestra che i 60 miliardi ritenuti necessari per questo adeguamento possano (o meglio, potessero) metterceli soltanto i privati. In generale, come ha scritto di recente l’economista Marco Causi, deputato del Pd, “andrà scritta nuovamente la norma tariffaria, riportandola ai parametri del costo dell’investimento e della remunerazione della gestione industriale” evitando così gli extraprofitti. Lo stesso cantiere riformatore va esteso ad altri servizi lasciati da anni nel limbo, probabilmente per favorire così speculazioni ed ecomafie: per esempio nel campo strategico dei rifiuti urbani e del loro corretto smaltimento. Insomma, dopo questi referendum c’è tanto da proporre e da fare per rimediare alle pessime leggi e alle prolungate inerzie dei governi Berlusconi mascherate con quei commissariamenti straordinari che hanno prodotto la “cricca” con relative speculazioni a danno delle nostre tasche. Ma ci vuole, credo, un nuovo governo, davvero “responsabile”.
Acquedotti
Le Regioni più “virtuose”: Emilia-Romagna, Umbria e Marche perdono meno di 3.000 mc/ Km
La meno “virtuosa”: Campania perde quasi 25.000 mc/km
Dati Legambiente
Tariffe e consumi
Forli’ 1,29 euro/mc 130 litri/giorno abitante
Milano 0,47 euro/mc 280 litri/giorno abitante
Dati 2002 Federgasacqua
Pozzi illegali
Italia 1,5 milioni (300.000 solo in Puglia)
Spagna 510.000
Dati Wwf Italia
Tariffe acqua potabile e ciclo idrico completo*
(in euro/mc calcolate su consumi medi di 200 mc/anno)
Amburgo 1,8 4,2
Bruxelles 1,4 1,8
Barcellona 0,6 1,4
Bologna 0,7 1,3
Brescia 0,5 0,8
Roma 0,4 0,7
Milano 0,2 0,5
* Comprensivo di spese per depurazione, fognature, ecc.
Dati Federgasacqua da SMAT Torino
Classifica mondiale consumi di acqua minerale
(litri a testa/anno)
Emirati Arabi 260
Messico 205
Italia 194
Postilla
E ricordiamo anche quanta parte dello spreco dell’acqua dipende dalla cattiva pianificazione del territorio, e dalle briglie sciolte che sono state lasciate, attraverso deroghe, abusivismo, illeggittimità e altre forme di deregulation (=sregolatezza) nell’uso del suolo. Accanto alle colpe di quanti erano stati eletti per garantire il bene comune e difenderlo dalle mani rapaci dei poteri economici e hanno tradito, ci sono quelle di quanti hanno sostenuto – con le parole o le opere – l’abbandono dell’”urbanistica regolativa” e incoraggiato lo spontaneismo nell’uso del suolo.
Tutto è cominciato poco più di un anno fa, quando la raccolta delle sottoscrizioni per i referendum sull´acqua come bene comune s´impennò fino a raggiungere il picco di un milione e quattrocentomila firme, record nella storia referendaria. Pochi si accorsero di quel che stava accadendo. Molti liquidarono quel fatto come una bizzarria di qualche professore e di uno di quei gruppi di "agitatori" che periodicamente compaiono sulla scena pubblica. O lo considerarono come un inciampo, un fastidio di cui bisognava liberarsi. Basta dare un´occhiata ai giornali di quei mesi.
E invece stava succedendo qualcosa di nuovo. Il travolgente successo nella raccolta delle firme era certamente il frutto di un lavoro da tempo cominciato da alcuni gruppi. In quel momento, però, incontrava una società che cambiava nel profondo, dove l´antipolitica cominciava a rovesciarsi in una rinnovata attenzione per la politica, per un´altra politica. Ai referendum sull´acqua si affiancarono quelli sul nucleare e sul legittimo impedimento. Nasceva così un´altra agenda politica, alla quale, di nuovo, non veniva riservata l´attenzione necessaria.
Mentre i referendari lavoravano per blindare giuridicamente i quesiti e farli dichiarare ammissibili dalla Corte costituzionale, le dinamiche sociali trovavano le loro strade, anzi le loro piazze. Sì, le piazze, perché tra l´autunno e l´inverno questi sono stati i luoghi dove i cittadini hanno ritrovato la loro voce e la loro presenza collettiva. Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri, nei quali si riconosceva un numero sempre maggiore di persone - il lavoro, la conoscenza, i beni comuni, i diritti fondamentali, la dignità di tutti, il rifiuto del mondo ridotto a merce.
Le piazze italiane prima di quelle che simboleggiano il cambiamento nel nord dell´Africa? Le reti sociali, Facebook e Twitter come motori delle mobilitazioni anche in Italia? Proprio questo è avvenuto, segno evidente di un rinnovamento dei modi della politica che non può essere inteso con le categorie tradizionali, che sfida le oligarchie, che rende inservibile la discussione da talk show televisivo. Forse è frettoloso parlare di un nuovo soggetto politico per una realtà frastagliata e mobile. Ma siamo sicuramente al di là di quei "ceti medi riflessivi" che segnarono un´altra stagione della società civile. Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società, prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla
Mentre tutto questo avveniva, le incomprensioni rimanevano tenaci. Patetici ci appaiono oggi i virtuosi appelli contro il "movimentismo", provenienti anche da persone e ambienti dell´opposizione, che oggi dovrebbe riflettere seriamente sulla realtà rivelata dalle elezioni amministrative e dai referendum invece di insistere nella ricerca di categorie astratte - il centro, i moderati. E se la maggioranza vuol cercare le radici della sua sconfitta, deve cercarle proprio nell´incapacità totale d´intendere il cambiamento, con un Presidente del consiglio che ci parlava di piazze piene di fannulloni, una ministra dell´Istruzione che non ha incontrato neppure uno studente, una maggioranza che pensava di domare il nuovo con la prepotente disinformazione del sistema televisivo.
Guardiamo alle novità, allora, e alle prospettive e ai problemi che abbiamo di fronte. Il voto di domenica e lunedì ha restituito agli italiani un istituto fondamentale della democrazia - il referendum, appunto. Ma ci dice anche che bisogna eliminare due anomalie che continuano a inquinarne il funzionamento. È indispensabile riscrivere la demagogica legge sul voto degli italiani all´estero, fonte di distorsioni, se non di vere e proprie manipolazione. È indispensabile ridurre almeno il quorum per la validità dei referendum. Pensato come strumento per evitare che l´abrogazione delle leggi finisse nelle mani di minoranze non rappresentative, il quorum ha finito con il divenire il mezzo attraverso il quale si cerca di utilizzare l´astensione per negare il diritto dei cittadini di agire come "legislatore negativo". Si svilisce così anche la virtù del referendum come promotore di discussione democratica su grandi questioni di interesse comune.
Ma il punto cruciale è rappresentato dal fatto che ai cittadini è stato chiesto di esprimersi su temi veri, che liberano la politica dallo sguardo corto, dal brevissimo periodo, e la obbligano finalmente a fare i conti con il futuro, con una idea di società, con il rinnovamento delle stesse categorie culturali. Un´altra agenda politica, dunque, che dà evidenza all´importanza dei principi, al rapporto nuovo e diverso tra le persone e il mondo che le circonda, all´uso dei beni necessari a garantire i diritti fondamentali di ognuno. La regressione culturale sembra arrestata, il risultati delle amministrative e dei referendum ci dicono che un´altra cultura politica è possibile.
Il voto sul nucleare non ipoteca negativamente il futuro dell´Italia. Al contrario, impone finalmente una seria discussione sul piano energetico, fino a ieri elusa proprio attraverso la cortina fumogena del ritorno alla costruzione di centrali nucleari. Il voto sul legittimo impedimento ci parla di legalità e di eguaglianza, esattamente il contrario della pratica politica di questi anni, fondata sul privilegio e il rifiuto delle regole. Il voto sull´acqua porta anche in Italia un tema che percorre l´intero mondo, quello dei beni comuni, e così parla di un´altra idea di "pubblico". Proprio intorno a quest´ultimo referendum si è registrato il massimo di disinformazione e di malafede. Si è ignorato quel che da decenni la cultura giuridica e quella economica mettono in evidenza, e cioè che la qualificazione di un bene come pubblico o privato non dipende dall´etichetta che gli viene appiccicata, ma da chi esercita il vero potere di gestione. Si sono imbrogliate le carte per quanto riguarda la gestione economica del bene, identificandola con il profitto. Si sono ignorate le dinamiche del controllo diffuso, garanzia contro pratiche clientelari, che possono essere sventate proprio dalla presenza dei nuovi soggetti collettivi emersi in questa fase.
Quell´agenda politica deve ora essere attuata ed integrata. È tempo di mettere mano ad una radicale riforma dei beni pubblici, per la quale già esistono in Parlamento proposte di legge. E bisogna guardare ad altre piazze. Quelle che affrontano il tema del lavoro partendo dal reddito universale di base. Quelle che ricordano che le persone omosessuale attendono almeno il riconoscimento delle loro unioni: un diritto fondamentale affermato nel 2009 dalla Corte costituzionale e che un Parlamento distratto e inadempiente non ha ancora tradotto in legge, com´è suo dovere.
La fuga dai referendum non è riuscita. Guai se, dopo un risultato così straordinario, qualcuno pensasse ad una fuga dai compiti e dalle responsabilità che milioni di elettori hanno indicato con assoluta chiarezza.
Il vento che ci ha portato all'esito delle elezioni amministrative e dei referendum continuerà a soffiare; bisogna cominciare a fare i conti con i problemi che ci troveremo di fronte a breve. A cominciare dai problemi economici. C'è ancora qualcuno che crede che la Grecia possa ripagare il suo debito (in gran parte nelle mani di banche francesi, tedesche e inglesi e ora anche della Bce) o anche solo rinegoziarlo a tassi accettabili mentre le politiche che le impone l'Unione Europea annientano qualsiasi possibilità di ripresa?
O c'è ancora qualcuno che crede che alla lunga possano sottrarsi a una sorte analoga gli altri paesi europei che si trovano più o meno nella stessa posizione della Grecia, a meno di una revisione radicale del "patto di stabilità"? E c'è ancora qualcuno che pensa che in un contesto simile l'economia italiana possa tornare a crescere, realizzando un avanzo primario sufficiente a riportare il suo debito al 60 per cento del Pil? E poi, di che crescita stiamo parlando? Di una crescita del Pil, cioè contabile, per soddisfare le società di rating, interamente controllate dai big della finanza internazionale.
Quella stessa finanza che - dopo aver mandato in rovina milioni di clienti irretiti da mutui fasulli, di risparmiatori ingannati da titoli di carta straccia, di imprese rimaste senza credito perché le banche continuano a investire sui derivati - sta ora scommettendo sul fallimento di quegli Stati che si sono svenati per salvarla, svenando a loro volta i propri cittadini.
E ancora, è forse possibile affrontare temi di ampio respiro - come il dibattito sul reddito di cittadinanza (su cui si appena svolto a Roma un incontro promosso dal Basic Income Network); o il finanziamento di scuola, università e ricerca; o un piano nazionale di lavori pubblici finalizzato alla manutenzione del territorio, degli edifici pubblici e di quelli dismessi (e non alle "grandi opere"), e molte altre cose ancora - ipotizzando un semplice spostamento da una posta di bilancio a un'altra di fondi in gran parte "virtuali", cioè inesistenti, e senza venir meno al patto di stabilità dell'Unione Europea (quello di cui si fa forte, e che rende forte, Tremonti)?
Il dibattito sul ritorno alla crescita, imperativo categorico di tutto l'establishment economico, politico e sindacale del paese - ma anche del resto del mondo - e che ha coinvolto anche, su questo giornale, Valentino Parlato e Pierluigi Ciocca, lascia perplessi.
Si parla, certo con approcci differenti e anche contrapposti, delle condizioni perché l'economia italiana torni a crescere: in due tempi, secondo alcuni; perché senza tagli di bilancio e "conti in ordine" non può esserci ripresa; con più ricerca, più investimenti, più occupazione, secondo altri; perché questa è la premessa per poter salvare i conti pubblici. Ma di quale ricerca, quali investimenti, quale occupazione, cioè di quale "crescita" non si parla mai.
Non sono un fautore della decrescita. Trovo questo concetto povero di contenuti; inutilizzabile, se non impresentabile, nelle situazioni di crisi (quando a essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro); ambiguo (in quanto speculare, anche se opposto, a quanto ci viene proposto dagli economisti mainstream). Non credo che le otto "R" di Latouche (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare) apportino al dibattito politico molto più di un chiarimento concettuale. Però, quando si scende - se mai si scende - sulle cose da fare o proporre è molto più facile ritrovarsi d'accordo al di là delle formulazioni dottrinarie. Ma questa diffidenza non significa certo accettazione del diktat della crescita.
Il problema è individuare prospettive e proposte praticabili secondo il principio "pensare globalmente e agire localmente"; dunque, in contesti in cui è possibile raccogliere le forze intorno a obiettivi condivisi. La campagna referendaria contro la privatizzazione dell'acqua, con tutti i significati di cui si è caricata nel corso del suo svolgimento, è l'esempio di un agire che da modeste dimensioni ha assunto un respiro generale. La costruzione di un Gas (gruppo di acquisto solidale) è l'esempio di una prassi che ha un valore paradigmatico, anche se effetti ancora circoscritti. In ogni caso, la "crescita" (un concetto largamente screditato: lo ricordo a Valentino Parlato) non può essere un obiettivo; e nemmeno lo "sviluppo"; lo è il governo o, meglio, l'autogoverno dei processi economici. La conversione ambientale (ecologica, diversificata, diffusa, solidale, partecipata, sostenuta dai saperi della cittadinanza attiva)nei settori decisivi dell'efficienza e dell'approvvigionamento energetico, dell'uso razionale delle risorse - di cui la gestione dei rifiuti è solo l'ultima fase - dell'agricoltura e dell'alimentazione, della gestione del territorio, edificato e non, dell'educazione e della ricerca, è una prima approssimazione al concetto di autogoverno. E qui ci si ferma; perché per le sue caratteristiche di processo che nasce dal basso e, pur armato di buone pratiche e dei saperi che scienza, cultura e tecnologia mettono a nostra disposizione, la conversione ecologica ha bisogno in ogni luogo della partecipazione e concorso degli organismi attraverso cui si esprime la cittadinanza attiva. Per questo ogni sua ulteriore definizione è in gran parte rimandata ai processi di auto organizzazione e di autogoverno.
Tuttavia, mano a mano che i processi molecolari si concretizzano, unificano e rafforzano, i movimenti vengono a confronto ed entrano in conflitto con il potere della finanza internazionale e dei governi che ne sono mandatari a livello statuale. La prima posta in gioco di questo confronto è il bilancio degli Stati. E lungo questo percorso, la strada della bancarotta della finanza statale, a meno di una revisione radicale del patto di stabilità, sembra essere una tappa obbligata. Si tratta solo di vedere chi e come la gestirà. Prendiamo la Grecia. Prima o poi farà default. Chi lo nega lo fa per scaramanzia; ma è come nascondere la testa sotto la sabbia. Il problema è se a questo passaggio obbligato si arriverà dopo aver spolpato lavoratori e popolo di tutto quello che hanno conquistato nel corso del secolo scorso, e dopo aver svenduto alla finanza internazionale tutto il vendibile (porti, utility, servizi pubblici, acqua, edifici, isole, spiagge,magari anche il Partenone); oppure se la dichiarazione di insolvibilità arriverà prima delle svendite, perché la mobilitazione popolare – e il timore della sua moltiplicazione in molti altri paesi - avrà imposto al governo greco o all'Unione europea un cambio di rotta. Il che ci ricollega alla mobilitazione in corso in Spagna, a un referente nelle rivolte dei popoli del Maghreb e del Medio Oriente e, finalmente, anche un po' al vento che ha preso a soffiare in Italia.
E da noi? Qualcuno ha cominciato a pensare come si governa l'economia di un paese insolvente? Magari in compagnia di altri paesi insolventi? Forse non è una prospettiva immediata, ma nemmeno una mera ipotesi di scuola; e meriterebbe qualche attenzione in più. Gli economisti che possono farlo non mancano. Gli esempi a cui rifarsi, nemmeno. L'ultimo in ordine di tempo è l'Argentina, che non ne è neanche uscita tanto male; anche grazie al fatto che lavoratori e comunità hanno presso in mano il destino di molte aziende altrimenti condannate alla chiusura.
Ma il secondo dopoguerra (quello del 1945) è ricco di Stati insolventi, e l'Italia è uno di questi. Il caso più interessante è forse la Germania, dove oltre al debito pubblico era stato azzerato anche il valore della moneta, distribuendo a tutti una piccola somma per "ripartire". Non che si debba ripercorrere strade già tracciate; oggi c'è l'euro e prima di affossarlo è probabile che si renda irrinunciabile l'azzeramento del patto di stabilità. Comunque, una maggiore apertura di spirito nel prospettare gli scenari di domani non farebbe male.
Il vento sta cambiando e bisogna attrezzarsi e mettersi al passo. Cambiare il mondo si può. Quando gli Stati Uniti sono entrati nella seconda guerra mondiale, in pochi mesi hanno convertito l'intero loro apparato produttivo (il più potente del mondo) per fare fronte alle esigenze della produzione bellica. Poi lo hanno di nuovo convertito (in poco tempo, e solo parzialmente) per fare fronte alle aspettative della pace. Oggi siamo in guerra contro una minaccia altrettanto se non più mortale: quella dei cambiamenti climatici. Molti governi - tra cui il nostro - non se ne curano affatto; quelli che se ne curano lo fanno in misura insufficiente. Ma la resa dei conti sta per arrivare e chi si sarà attrezzato per tempo si troverà meglio; o meno peggio. Ma una conversione ecologica del sistema produttivo e dei modelli di consumo dominanti non può avvenire senza liberarsi anche dalla cappa che la finanza internazionale ha steso sull'economia mondiale e sulla vita di tutti.
Si vota! Sembra incredibile ma siamo riusciti a far esprimere il popolo sovrano su questioni fondamentali per il nostro futuro, senza la mediazione dei partiti e delle burocrazie politiche. Siamo riusciti ad aprire un dibattito serio nel paese e a proporre politicamente strumenti di azione ed un linguaggio nuovo, quello dei beni comuni, che esce dalle stanze degli addetti ai lavori.
Non è un traguardo da poco, né era scontato che saremmo riusciti a raggiungerlo. Un voto popolare per invertire la rotta rispetto ad un modello di sviluppo fondato sull'ideologia della privatizzazione e su un rapporto fra l'interesse pubblico e quello privato sempre più spostato a favore di quest'ultimo, non poteva che dar fastidio a molti. E i suoi esiti possono essere politicamente dirompenti, forse perfino costituenti di una fase nuova finalmente capace di superare in Italia il blocco del pensiero unico che paralizza ogni possibilità di uscita dalla crisi. Comunque, siamo riusciti a fermare il folle banchetto nucleare che pareva già imbandito quando, poco più di un anno fa, si siglavano gli accordi italo-francesi fra Edison ed Edf. Questo pactum sceleris poteva esser presentato, senza pudore, come un passo verso la modernizzazione sulle pagine dei giornali.
Adesso la Confindustria, che già aveva l'acquolina in bocca per i ricchi trasferimenti dal settore pubblico a quello privato, si agita vieppiù nervosamente perché rischia di veder sfumare anche il business dell'acqua, dei trasporti e della spazzatura. Infatti, se dovessimo vincere il referendum, organizzeremmo la gestione dell'acqua in modo coerente con la sua natura di bene comune: ne affideremmo la gestione ad un settore pubblico ristrutturato e democratico seguendo una logica ecologica e di lungo periodo. Troveremmo gli investimenti per un grande di intervento pubblico sul territorio, per ristrutturare le infrastrutture e prevenirne il degrado. Creeremmo così posti di lavoro garantiti come quelli che, sembra un secolo fa, avevano i cantonieri prima che Anas si trasformasse in un una agenzia di gestione di gare d'appalto. Perché il privato dovrebbe investire sul lungo periodo? Perché le gare dovrebbero essere trasparenti e meritocratiche? Perché non dovrebbero esserci soldi pubblici per una riconversione ecologica del nostro modello di sviluppo mentre ci sono (200 milioni al mese) per massacrare civili in Libia e Afghanistan, in brutale violazione della Costituzione?
Porre queste domande non è stato facile. Il governo ha iniziato inserendo addirittura nel preambolo del decreto Ronchi la grande menzogna per cui la dismissione a favore del privato del servizio idrico e degli altri servizi di interesse economico generale (trasporti e spazzatura) sarebbe stato obbligatoria sul piano europeo e quindi non sottoponibile a referendum. Questo argomento è stato il mantra ripetuto dai nostri oppositori (bipartisan) mentre noi raccoglievamo milioni di firme e iniziavamo un grande processo dal basso di alfabetizzazione idrica, ecologica ed istituzionale che, già da solo, ha reso l'Italia un luogo migliore. Poi la Corte Costituzionale ha accolto per due terzi il nostro impianto referendario, sbugiardando sul punto il governo, mettendo in chiaro i limiti culturali dell'impostazione dell'Avvocatura dello Stato, e riconoscendo l'importanza anche giuridica della nozione di beni comuni (poco dopo la nozione è stata elaborata anche dalle Sezioni Unite della Cassazione).
Da quel momento il governo avrebbe dovuto divenire "amministrazione", rispettando la Costituzione. Lungi dal farlo, il governo ha innanzitutto dilapidato 350 milioni (di quel denaro pubblico impossibile da trovare per riparare gli acquedotti) rifiutando l' "election day". Abbiamo puntualmente presentato ricorso contro questa autentica vergogna, ma né il Tar Lazio né la Corte Costituzionale hanno avuto il coraggio di opporvisi. Dal 4 aprile poi è scattata la par condicio, che ha reso tabù la discussione sui beni comuni mentre, nel frattempo, la maggioranza faceva melina in Commissione di Vigilanza per impedire che si emanassero i decreti necessari per assegnare gli spazi ai promotori.
Quando la terribile tragedia di Fukushima rende impossibile non parlare di questione nucleare, il governo, come un bambino beccato dalla mamma con le mani nella marmellata, mette a segno l'autogol per far saltare i referendum. Con l'approssimazione giuridica che contraddistingue una maggioranza che a furia di disprezzare la legge non sa più utilizzarla, il decreto omnibus, cerca di cancellare il voto sul nucleare.
Se per qualche settimana la confusione prodotta nell'opinione pubblica è stata totale, il tentativo di scippo goffo e maldestro dell' ultimo minuto ha scatenato nel corpo elettorale gli anticorpi dell' indignazione. La nostra energia si è moltiplicata, nuovi appoggi, fino a quel momento impensati, sono arrivati alla nostra compagine. Mentre il legame culturale fra il nucleare e l'acqua, declinato nella riflessione sui beni comuni faceva crescere lo spessore politico delle nostre analisi ed il significato del referendum, il mondo cattolico, mobilitato da quel grande campione di visione politica di lungo periodo che è Alex Zanotelli scendeva apertamente in campo.
In questo scenario sociale i referendum, con la rete di diverse decine di migliaia di attivisti per gran parte estranei ai partiti, paiono proprio il corrispondente italiano delle primavere arabe e degli indignados spagnoli. Fra poche ore sapremo se il nostro disegno di conferire forza politica costituente a un grande ripensamento dei rapporti fra pubblico e privato attraverso lo strumento dei quesiti referendari abrogativi sui beni comuni, sarà condiviso dalla maggioranza del popolo italiano. In caso affermativo, l'avidità per l'oro blu avrà sciacquato via, almeno in Italia, la fine della storia ed il pensiero unico.
Anticipiamo il testo dell'introduzione di Tommaso Fattori all'edizione italiana dello studio di David Hall ed Emanuele Lobina – ricercatori del PSIRU (Public Services International Research Unit) dell'Università di Greenwich – Da un passato privato ad un futuro pubblico. La privatizzazione del servizio idrico in Inghilterra e nel Galles, edizioni Aracne (di prossima uscita).
Questo rigoroso studio sugli effetti della “più grande rapina legalizzata” della storia britannica – definizione del quotidiano conservatore Daily Mail – contiene elementi importanti per il dibattito sulla privatizzazione del servizio idrico che sta attraversando il nostro paese, grazie all’iniziativa referendaria "2 sì per l’acqua bene comune" promossa da una vastissima coalizione sociale.
Un dibattito nel quale colpisce l’astrattezza ideologica delle tesi dei privatizzatori, aggrappati a modelli economici irreali, talvolta per l’ingenuità tipica di chi vive asserragliato nell’accademia senza contatto con il mondo esterno, più frequentemente per i forti interessi materiali connessi ai processi di privatizzazione. L’astrattezza di queste argomentazioni, spesso comicamente ammantate di pragmatismo, rifiuta con ostinazione di confrontarsi con i dati di fatto e con l’esperienza empirica, là dove i processi di privatizzazione del servizio idrico integrato siano avanzati e consolidati da anni. Anzi, sono proprio alcune esperienze di privatizzazione “riuscita”, come quella inglese o gallese, ad essere portate ad esempio da chi evidentemente non ha idea di ciò di cui sta discettando o confida nell’ignoranza di chi ascolta. Non è un mistero che in Italia il modello inglese venga portato ad esempio tanto dal governo di centro-destra che da parte dell’ opposizione, soprattutto perché consente di pronunciare una parola magica di gran moda: authority. L’authority, intesa come autorità indipendente di regolazione e controllo, appare alle menti neoliberiste un’entità quasi metafisica, che tutto dovrebbe risolvere all’interno di un mercato monopolistico privatizzato, coniugando armoniosamente il profitto di pochi e l’interesse generale. David Hall ed Emanuele Lobina mostrano invece, con dati incontrovertibili, come la mitica authority dell’acqua –più precisamente si tratta dell’Office of Water Service (Ofwat)- non sia affatto in grado di regolare o controllare alcunché, per limiti strutturali ed insuperabili di questo meccanismo, lasciando alle società private la possibilità di ricavare immensi profitti e di distribuire agli azionisti lauti dividendi attraverso la gestione monopolistica dell’acqua. Il servizio idrico è a domanda anelastica (la stessa quantità vitale d’acqua è necessaria ad una famiglia in tempi prosperi e in tempi di crisi, ai ricchi e ai poveri) ed è un servizio fondamentale perchè permette concretamente l’accesso ad un bene comune essenziale ed insostituibile per la vita. Un bene che dovrebbe riguardare la sfera dei diritti fondamentali è così consegnato al dominio dei profitti. L’authority finisce per essere una mera foglia di fico, che copre e legittima questo processo di spoliazione.
Hall e Lobina evidenziano come l’ente regolatore Ofwat sia stato continuamente raggirato dai gestori privati, che, nel migliore dei casi, hanno intascato extraprofitti riducendo gli investimenti programmati (ossia già pagati in tariffa dai cittadini). I casi più gravi non sono però emersi grazie al controllo di Ofwat ma perchè denunciati, a posteriori, dagli stessi autori dei misfatti, pentiti e decisi a svelare i meccanismi messi in piedi a danno dell’interesse generale. Negli scandali che hanno coinvolto Severn Trent, ad esempio, “l’informatore” è stato un ex manager che ha ammesso d’aver ricevuto l’ordine di alterare dati rilevanti al fine d’ottenere dal regolatore un aumento delle tariffe. Una vicenda che ha poi permesso di scoprire, attraverso successive confessioni, come una gran mole di dati forniti dalle società private ad Ofwat fossero falsi o gonfiati: dai dati sulle perdite di rete fino a quelli sulla consistenza reale delle morosità. Tutto ciò non fa che corroborare la tesi dell’impossibile governo e controllo pubblico delle gestioni privatizzate, avvolte nel guscio del diritto privato e regolate dal diritto societario. Un’impossibilità, aggiungerei, che non dipende tanto dalla cattiva volontà di singoli individui o da limiti organizzativi contingenti ma da fenomeni strutturali, come le “asimmetrie informative”: le conoscenze rilevanti si trovano tutte in mano al gestore (il gestore “sa” perché “fa”) ed è il gestore privatizzato che trasmette le informazioni sensibili al controllore, il quale non può che dipendere, nella sua attività di regolazione e controllo, da questi dati. Altrimenti detto, il gestore ha strutturalmente maggiori informazioni rispetto al regolatore e cerca di trarre il massimo vantaggio da questa asimmetria conoscitiva, a discapito del pubblico interesse. “Fare” significa “sapere” e sapere significa “potere”: nessun ente regolatore potrà mai recuperare quel cumulo di conoscenze legate alla gestione diretta che migra inevitabilmente dalla sfera del pubblico alla sfera del privato nel momento stesso in cui viene privatizzato un servizio essenziale. Il pubblico perde le conoscenze necessarie per esercitare il proprio controllo nel momento in cui è all'impresa che passa tanto il "fare" che il "saper fare" (know how), che gli è inscindibilmente connesso. Un soggetto regolatore esterno, per esempio, non può essere in grado di avere perfetta conoscenza dei processi produttivi e delle tecnologie impiegate, dati necessari per stabilire con precisione i costi di produzione del gestore privato. Ecco perché al fenomeno delle asimmetrie informative segue automaticamente la “cattura del regolatore”: se l’autonomia conoscitiva del regolatore è limitata, anche la capacità di giudizio e intervento viene impedita, così l’ente che dovrebbe regolare e controllare tende piuttosto ad adeguare le sue analisi alle interpretazioni offerte dai gestori, perdendo ogni neutralità e schiacciando il proprio punto di vista su quello dei soggetti controllati. Oltretutto, gli enti regolatori si devono solitamente rapportare a società privatizzate la cui governance effettiva è in mano a grandi soggetti multinazionali, che entro la società hanno il reale potere decisionale. Il caso inglese gallese trova quindi un perfetto pendant nell’esperienza italiana, dove le Aato, ossia le autorità di ambito che dovrebbero regolare e controllare i gestori, non sono affatto riuscite a regolare le società privatizzate, adeguandosi sostanzialmente alle richieste e alle esigenze dei controllati, a partire da quelle relative alla definizione delle tariffe. Agli albori della privatizzazione in Italia vi è il caso dell’Ato aretino, in Toscana, dove alla fine degli anni ’90 la gestione fu affidata tramite gara ad una società mista, con all’interno una cordata di privati guidati dalla multinazionale francese Suez. Proprio ad Arezzo il presidente dell’autorità di controllo si dimise dal suo incarico denunciando l’impossibilità di regolare la società privatizzata e rilevando la "debolezza endemica del rapporto pubblico-privato" [1] all’interno di una società mista, per quanto formalmente a maggioranza pubblica. In Italia il governo s’appresta nel 2011 a sostituire le autorità d’ambito territoriali con un’authority regolatrice nazionale sul modello inglese, ma si tratta di uno specchietto per le allodole: privatizzare il servizio idrico significa consegnare di fatto saperi e poteri alle gestioni privatizzate, come l’esperienza d’oltremanica mostra in modo limpido.
Qualcuno potrebbe ottimisticamente sostenere che in Italia la nuova ondata di privatizzazione dell’acqua offrirà maggiori garanzie perché intende muovere da premesse diverse: a differenza del modello inglese e gallese analizzato da Hall e Lobina, il modello di privatizzazione italiano dovrebbe prevedere, in origine, l’affidamento della gestione ad operatori privati tramite gara (o, in alternativa, l’ingresso di soci privati nelle Spa in house almeno con il 40% di partecipazione nel pacchetto azionario, soci da individuare sempre tramite procedura ad evidenza pubblica). Le gare potrebbero pur esser vinte da società di capitali interamente pubbliche, si aggiunge, come per velare ed occultare la logica privatrizzatrice del provvedimento [2], il cui obiettivo immediato è spazzar via proprio le gestioni in house. Lo si sarà facilmente intuito, in questo caso la nuova parola magica è gara: come se la gara potesse mutare d’incanto un pervicace “monopolio naturale” – in ogni territorio passa un solo acquedotto e c’è un solo fornitore possibile - in un mercato concorrenziale. Invece il monopolio naturale si trasforma così in un solido monopolio privato, con vita peraltro assai lunga, solitamente ventennale o trentennale (addirittura 50 anni in Inghilterra e Galles, dove sono state privatizzate persino le infrastrutture). Per sua natura il servizio idrico non può essere liberalizzato ma solo privatizzato e l’esperienza, ancora una volta, dimostra come la “concorrenza per il mercato” (il meccanismo di gara), che nella teoria dovrebbe compensare e risarcire l’assenza di un’impossibile “concorrenza nel mercato”, si riveli solo l’evanescente copertura per l’ingresso di soggetti privati a caccia di rendite garantite in un mercato monopolistico. Lo dimostra l’esperienza internazionale ma anche italiana, dato che le offerte presentate in occasione di gare effettuate nel nostro paese sono state una o due al massimo: il mercato dell’acqua privatizzata è dominato da oligopoli e questi pochi attori si mettono d’accordo fra loro per spartirsi rendite monopolistiche, come accaduto fra le presunte “concorrenti” Acea e Suez nelle gare realizzate in Italia nel decennio passato. L’Autorità antitrust, nel 2007, multò le due multinazionali “per aver posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza (…), che ha avuto per oggetto e per effetto un coordinamento delle rispettive strategie commerciali nell’ambito del mercato nazionale della gestione dei servizi idrici”. Più precisamente “l’istruttoria ha consentito di verificare che Acea e Se (Suez ndr) hanno raggiunto sin dal 2001 un accordo di massima sul coordinamento delle rispettive attività nel settore dei servizi idrici. In particolare, le parti hanno concordato la partecipazione congiunta a numerose gare relative a gestioni idriche in Italia – a partire da quelle bandite in Toscana, dove la forma operativa del PPP è stata adottata per la prima volta in maniera estesa (…) – ovvero combinazioni con soggetti terzi al fine di condizionare gli esiti di procedure ad evidenza pubblica (gare, ndr)”. Né sarebbe stato difficile immaginarlo, dal momento che la quota di capitale azionario di Acea in mano alla “concorrente” Suez è sempre stata consistente (nella primavera del 2011 la partecipazione è salita addirittura dal 10 all’11,5%). Il fine di questa alleanza era evidente: “un simile accordo di cooperazione (…) è stato volto a mantenere ed aumentare il rispettivo potere di mercato secondo criteri di mera strategia imprenditoriale e non di maggior efficienza industriale”. Suez non intendeva “lasciare Acea ad approfittare da sola dei margini realizzabili nel settore non regolamentato”: “obiettivo: utilizzare Acea come ‘braccio armato’ di Suez per l’acqua in Italia.” [3]
Per un altro verso, non esiste un solo economista (in grado di separarsi, anche per un istante, dagli amatissimi modelli astratti), che non conosca la banale verità: nel servizio idrico, dove gli affidamenti durano decenni, non sono mai possibili gare che permettano di valutare con attendibilità quale sia la migliore offerta economica, perché i termini fondamentali del contratto dovranno essere necessariamente rivisti nel tempo e ha ben poca importanza l’offerta avanzata in origine. In altre parole, tutti gli elementi economicamente determinanti su cui basare la scelta -a partire dagli investimenti e dalle tariffe- dovranno essere rinegoziati svariate volte dopo la gara, nel corso del lungo periodo d’affidamento del servizio. In gare di questa natura conta l’arbitrarietà e la discrezionalità di chi sceglie ma ancor più conta la forza ed il potere dei soggetti economici privati che si propongono per la gestione del servizio. Sarà poi il gestore che avrà ottenuto l’affidamento ad essere, nel corso delle successive rinegoziazioni, in posizione dominante (detenendo sapere e potere), anche se trovasse di fronte a sé il miglior regolatore al mondo. Insomma, la pragmatica Thatcher, nel demolire i servizi pubblici, ha almeno evitato ai poveri inglesi la ridicola pantomima della gara.
I privatizzatori sostengono inoltre che l’arrivo dei privati porti di per sé un aumento degli investimenti nel settore, per la ristrutturazione degli impianti e per la realizzazione di nuove infrastrutture (in Italia soprattutto per la depurazione delle acque reflue). Per innescare un simile meccanismo virtuoso, si dice, basta legare i profitti agli investimenti: se il privato tanto più investe quanto più guadagna, sarà spinto ad investire moltissimo, perseguendo il proprio interesse che si tradurrà anche in beneficio per tutti. Certo, le bollette si alzerebbero, sia perché gli investimenti vanno pagati interamente in tariffa (in base al sistema del full cost recovery), sia perché è giusto “premiare”, con i legittimi profitti, l’investitore privato; ma se il gestore privato risultasse efficiente, s’aggiunge, potrebbe diminuire i costi operativi e così i cittadini quasi non s’accorgerebbero del profitto e dei dividendi privati caricati sulle tariffe. Il caso inglese e gallese dimostrerebbero bene la realizzabilità di un simile miracolo, viene spesso ribadito. Se invece dal magico mondo dei modelli astratti torniamo all’esperienza del mondo reale, vediamo che le cose non stanno così, né mai potrebbero stare così. Innanzitutto, a proposito di profitti occorre una premessa: chiunque abbia dimestichezza con i processi di privatizzazione sa bene quali e quanti modi vengano utilizzati normalmente dai privati dell’acqua per ottenere profitti ed extra-profitti, fra cui, ad esempio, il travestire da investimenti spese che nelle gestioni pubbliche figuravano più onestamente in bilancio come voci per normalissimi costi di gestione ordinaria; spacciare per consulenze e trasferimento di know-how quelli che invece sono “utili anticipati” per i soci privati; affidare appalti a società direttamente o indirettamente controllate o collegate, senza passare da gara (spezzettando l’appalto in più parti quando si tratti di lavori superiori ai 4,8 milioni di euro). Ma è necessario porci la domanda di fondo: davvero sono i privati a far partire gli investimenti? Cosa ci insegna, in proposito, il famoso caso inglese-gallese? Hall e Lobina mostrano chiaramente due cose. La prima è che il motore degli investimenti in Inghilterra e Galles è stata più semplicemente la necessità esogena di rispettare le nuove direttive UE, specialmente in materia di qualità delle acque. In altre parole, qualunque gestore, pubblico o privato, avrebbe dovuto realizzare le opere e programmare nuovi investimenti. La seconda, che negli ultimi anni di gestione pubblica (dalla metà degli anni ’80), dopo un periodo precedente di stallo, il ciclo d’investimenti era già ripartito ad un tasso di crescita medio persino superiore a quello riscontrato nei successivi anni di gestione privata.
Ma gli elementi importanti che Hall e Lobina evidenziano sono molteplici. Prima di tutto mostrano come nei primi dieci anni di privatizzazione un terzo degli investimenti siano stati in realtà finanziati da un insieme di “sussidi pubblici”. Anche in Italia le associazioni di categoria che riuniscono le Spa dell’acqua continuano a chiedere finanziamenti pubblici a fondo perduto –quindi denaro della fiscalità - a favore dei gestori privati per effettuare investimenti straordinari, in violazione della normativa europea e del meccanismo del full cost recovery (implicita ammissione, fra l’altro, che il meccanismo della privatizzazione della fonte di finanziamento e della gestione non sta funzionando) [4]. Insomma, socializzare i costi e privatizzare gli utili.
I due autori ricordano anche come, dopo il picco raggiunto nel 1992, gli investimenti delle gestioni privatizzate abbiano iniziato a calare costantemente, mentre non scendono affatto le tariffe pagate dai cittadini che anzi continuano a lievitare, malgrado il loro andamento debba essere teoricamente legato agli investimenti. Nelle tariffe i cittadini inglesi e gallesi pagano per decenni investimenti in gran parte mai realizzati. Gli operatori privati ottengono continuamente da Ofwat l’applicazione di tariffe più salate, gonfiando con regolarità le spese per investimento previste, salvo poi ridistribuire agli azionisti, sotto forma di dividendi, la differenza fra investimenti programmati e investimenti effettivamente realizzati. Un furto scandalosamente spacciato per capacità dei privati di risparmiare sulle spese previste migliorando in corso d’opera l’“efficienza del capitale” (fulgido esempio di cosa s’ intenda per “efficienza” della gestione privata). Di fatto, si tratta di milioni di extra-profitti che passano dalle tasche dei cittadini a quelle degli azionisti privati delle società di gestione, malgrado l’esistenza della mitica Authority a regolare e vigilare, con aplomb britannico. Hall e Lobina portano dati precisi su questa impennata di profitti ed extra-dividendi distribuiti dalle società privatizzate dell’acqua: nel 2005-6 l’ammontare del “risparmio” tocca il miliardo di sterline (il 22% di spesa in meno rispetto alla stima degli investimenti su cui Ofwat aveva stabilito la tariffa).
Così i privati hanno continuato ad intascare dividendi da favola mentre le tariffe dei cittadini hanno continuato a crescere senza sosta. Gli studi citati concordano nel rilevare una relazione diretta fra aumenti delle tariffe ed incremento dei profitti per i gestori. Nei primi 10 anni di privatizzazione i profitti delle principali dieci società idriche inglesi sono cresciuti del 147%: circa il 30% della bolletta pagata dal cittadino è intascata dagli azionisti privati sotto forma di dividendi. Nelle Spa dell’acqua italiane, quel 7% di “adeguata remunerazione del capitale investito” contro cui si è rivolta l’iniziativa referendaria [5] incide mediamente, nel 2011, per il 15% sul totale della bolletta pagata (senza mettere in conto extra-profitti e utili indiretti che i soci privati sono in grado di realizzare a danno dei cittadini). In Inghilterra e Galles all’impennata del 245% delle tariffe dal 1989 al 2006 (39% oltre il tasso d’inflazione), non è corrisposto nessun miglioramento del servizio, nessuna “efficienza” magicamente infusa nel sistema dai privati. L’analisi dei dati mostra come, in termini reali, i costi operativi siano rimasti gli stessi mentre l’aumento costante delle tariffe sia da imputare principalmente “a vari elementi associati al capitale – i costi del capitale, l’interesse, i profitti- che sono quasi raddoppiati in termini reali”. Vale la pena ricordare come vi sia universale accordo fra gli studiosi del settore sul fatto che un aumento dell’1% della remunerazione del capitale investito equivale a oltre il 10% di riduzione dei costi di gestione: il maggiore costo del capitale divora facilmente eventuali margini di efficienza, intesi come riduzione dei costi operativi. Le gestioni privatizzate costano di più e sono nella maggior parte dei casi tutt’altro che efficienti. Il mantra ideologico della maggior efficienza del privato rispetto al pubblico, ossessivamente ripetuto negli anni ’80 e ’90, ormai non è più intonato neppure da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, che pure avevano puntato molto sulla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, acqua in primis. Tutti gli studi sui servizi idrici ribadiscono che non esiste alcuna superiore efficienza delle gestioni private rispetto a quelle pubbliche, come ammette la stessa analisi pubblicata dalla Banca Mondiale nel 2005, opportunamente citata da Hall e Lobina: statisticamente “non c’è una differenza significativa fra l’andamento dell’efficienza degli operatori pubblici e quello dei privati”. A parità d’efficienza gestionale, però, l’ottimo privato costerà necessariamente alla collettività molto più dell’ottimo pubblico, data l’intrinseca necessità del privato di produrre profitti e remunerare i capitali investiti: l’obiettivo di una gestione privatistica del servizio idrico è, innanzi tutto, la creazione di valore per gli azionisti (non la garanzia del diritto d’accesso universale al bene acqua). Maggiori profitti si possono ottenere aumentando le tariffe, tagliando il costo del lavoro, riducendo la qualità del servizio. I profitti si possono incrementare anche aumentando i volumi d’acqua venduti (anziché incoraggiare il risparmio e la tutela della risorsa), riducendo gli investimenti effettivi rispetto a quelli programmati (e perciò pagati in tariffa), spacciando interventi d’ordinaria manutenzione per investimenti.
I dati e gli studi raccolti da Hall e Lobina compongono un quadro preoccupante- per quanto non inaspettato - degli effetti della privatizzazione, che va ben al di là degli impressionanti aumenti tariffari che hanno colpito i cittadini e in particolare le famiglie più povere (costrette a spendere il 4% del loro reddito per pagarsi l’acqua, se non a subire il “distacco” dal servizio per morosità). Mostrano gli impatti negativi sul lavoro e sui lavoratori, diminuiti nel settore del 21%, anche se le gestioni private hanno fatto in seguito massiccio ricorso ad esternalizzazioni e lavoro precario (meno pagato e meno qualificato), a danno della qualità del servizio. Mostrano il gran numero d’incidenti ambientali causati dalle società privatizzate, Suez ed Enron in testa. Mostrano infine come le reti idriche siano peggiorate e si siano deteriorate ad una velocità superiore alla capacità dei gestori di rinnovarle e come, a dieci anni dalla privatizzazione, la qualità dell’acqua potabile risultasse ormai al di sotto degli standard minimi, presentando quasi ovunque valori oltre i limiti consentiti rispetto a numerose sostanze dannose per la salute.
Scorrendo i dati raccolti si scopre come casi d’acqua razionata e di fornitura interrotta non riguardino solo alcune realtà del sud Italia (dove sono gli interessi mafiosi a condizionare il “governo” dell’acqua e la sua fornitura) ma, in occasioni di siccità, abbiano colpito persino aree dell’est inglese, a causa di incapacità gestionali delle società private dell’acqua, che in precedenza avevano preferito distribuire maggiori dividendi anziché realizzare importanti investimenti. A proposito delle perdite di rete (terreno su cui avrebbe dovuto misurarsi la capacità d’investimento privato), difficile non notare come la città più grande della Gran Bretagna, Londra - gestita dalla privatissima Thames Water - abbia perdite del 40%. Volendo fare un paragone con realtà comparabili del nostro paese, ossia con le città italiane più grandi, si osserverà come a Roma, gestita dalla Spa mista e quotata in borsa Acea (nel cui capitale sociale vi sono Suez, banche private e l’imprenditore delle costruzioni Caltagirone) si registrino perdite di rete del 35%. A Milano, dove si ha una gestione ancora a totale capitale pubblico che ha ereditato strutture e saperi dell’azienda municipalizzata, si registrano a tutt’oggi perdite del 10%, fra le più basse di tutta Europa. A Milano si registrano anche tariffe fra le più basse del continente, tra l’altro. Pure a Napoli l’acqua è gestita da una società a totale capitale pubblico: le tariffe sono basse e le perdite di rete sono del 18%, il miglior dato del paese subito dopo Milano, sempre secondo i dati dell’indagine Civicum-Mediobanca del 2010.
Il caso inglese-gallese impone dunque una riflessione complessiva sul capitolo degli investimenti. In Italia per anni è stato ripetuto che l’ingresso dei privati all’interno di Spa miste sarebbe stato indispensabile per ottenere i capitali freschi necessari per gli investimenti. In verità, ora che i soci privati fanno parte già da molti anni di un numero considerevole di Spa, l’esperienza indica alcune evidenze. La prima è che i privati sono entrati ottenendo, in cambio di basse capitalizzazioni (i capitali vengono conferiti per poter entrare nella compagine azionaria), la governance effettiva della società, a partire dalla nomina dell’amministratore delegato. La seconda è che i capitali utilizzati per gli investimenti derivano dall’autofinanziamento - la liquidità messa a disposizione dai cittadini attraverso le tariffe - ma soprattutto sono il frutto dei prestiti ottenuti a caro prezzo dalle banche (capitale di debito conseguito attraverso mutui o project financing), che saranno a loro volta ripagati dalle future bollette. Le banche che prestano il denaro alle società, a tassi d’interesse di mercato, sono a loro volta socie delle medesime Spa. Anche in Inghilterra e Galles la dinamica è stata la medesima: privatizzato il servizio, ben presto le principali fonti dei capitali per le società private sono state le banche. Il livello dell’indebitamento delle società con gli istituti di credito è cresciuto da un valore pressoché nullo ad un valore medio del 60% con punte del 75%.
Il costo del capitale privato è notoriamente molto più alto del costo del capitale ottenibile tramite finanza pubblica. Il modo in assoluto più costoso per finanziare gli investimenti è quello di ricorrere al capitale privato, vuoi che si tratti di capitale equity (azioni), vuoi che si tratti di capitale di debito (indebitamento con le banche). A maggior ragione ciò vale in un servizio come quello idrico, che necessita di notevoli quantità di denaro per realizzare gli investimenti e dove quindi il costo del capitale incide enormemente sul costo complessivo del servizio. Questa semplice verità è confermata ancora una volta dal caso inglese e gallese: quando si debba trovare denaro per far funzionare un servizio -mostrano le cifre e i grafici raccolti da Hall e Lobina- il finanziamento tramite capitale azionario si è rivelato il più costoso in assoluto (dividendi da pagare agli azionisti). Segue il finanziamento degli investimenti tramite prestito bancario, che è più conveniente dell’equity ma pur sempre costoso (interessi sul capitale prestato). Il modo in assoluto più conveniente per ottenere capitale per gli investimenti è, ovviamente, il ricorso a forme di finanza pubblica. In altre parole, se invece di finanziarsi attraverso l’equity, se invece di ricorrere alla borsa o di prendere prestiti in banca vi fossero aziende pubbliche dell’acqua, il passaggio a forme di finanziamento privo di rischi (titoli di debito pubblici) permetterebbe di risparmiare ogni anno cifre colossali.
Per gli stessi motivi anche in Italia la proposta alternativa di finanziamento del servizio idrico avanzata dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua prevede, al posto della costosissima combinazione di capitale equity e capitale di terzi che la privatizzazione porta con sè, un insieme di strumenti di finanza pubblica e di fiscalità generale, nel contesto di una gestione del servizio tramite soggetti di diritto pubblico [6]. Ciò permette di fuoriuscire dalla morsa stritolante del grande capitale finanziario, che, per far funzionare servizi d’interesse generale, obbliga a ricorrere all’equity e al costosissimo mercato privato del credito, con l’unico fine di far fruttare il capitale. La tariffa dell’acqua si trasforma in “prezzo” e il cittadino si trasforma in consumatore, obbligato a finanziare la creazione di ricchezza per i detentori di capitale privato per poter accedere ad un bene vitale come l’acqua. E’ questo il senso profondo della trasformazione di un bene comune in “merce”.
Gli strumenti di finanza pubblica in grado di mettere a disposizione risorse per gli investimenti ad un costo notevolmente più basso sono molteplici, dai titoli di debito classici a quelli più innovativi, dai “Bot di scopo” di lunga o lunghissima scadenza ai bond irredimibili (che possono esser emessi anche localmente). Il “prestito irredimibile” non prevede la restituzione del capitale -non incide quindi sul debito pubblico- e in cambio garantisce al prestatore una rendita perpetua ad un tasso d’interesse congruo. Questo strumento, il cui costo sarebbe pagato attraverso le tariffe, potrebbe esser utilizzato per coprire gli investimenti necessari a ristrutturare le reti. Allo stesso tempo occorre quantomeno ripensare la funzione delle banche pubbliche, o di ciò che ne resta (Cassa depositi e prestiti), se non proporsi di progettare una nuova generazione d’istituti di credito pubblici, che potrebbe contemplare anche l’istituzione di una specifica banca dell’acqua, sul modello dell’olandese Nederlandse Waterschapsbank.
La logica autentica del servizio pubblico si sposa in modo naturale e automatico con gli strumenti della finanza pubblica perché rifiuta ogni finalità speculativa: non è orientata alla distribuzione di dividendi e di profitti, ossia alla remunerazione dei capitali, bensì alla copertura dei costi attraverso i ricavi e alla necessità di reinvestire nel servizio tutti gli “avanzi di bilancio” (che per questo non possono essere definiti “utili”). In altre parole, la logica pubblica si pone il problema del costo del capitale ma non quello della sua remunerazione in termini speculativi. In tal senso sono pensati gli strumenti della finanza pubblica per reperire fondi per gli investimenti al minor costo possibile. Affinché si dia questo cambio di paradigma, però, occorre uscire definitivamente dal quadro delle società di capitali, che sono per loro natura costrette a ricorrere al mercato privato del credito per finanziarsi.
Ma è ineludibile un altro nodo. E’ necessario anche il parziale ricorso alla fiscalità generale per finanziare l’accesso al minimo vitale d’acqua cui ha diritto ciascuna persona (indipendentemente dalla sua condizione sociale) e per effettuare gli investimenti in nuove infrastrutture. Il full cost recovery, viceversa, è il meccanismo che pretende di caricare sulle tariffe tutti gli investimenti, oltre ai consumi, ai costi di gestione del servizio, ai profitti e ai dividendi per gli azionisti. Un meccanismo che, peraltro, non sta funzionando: in Italia, da quando è stato adottato circa a metà degli anni ’90, gli investimenti sono crollati di due terzi ed oggi vengono realizzate poco più della metà delle opere programmate. La domanda di fondo è: chi deve pagare gli investimenti per nuove infrastrutture, solo il cliente-utente o anche il cittadino-contribuente? I costi di una nuova infrastruttura acquedottistica o di un nuovo depuratore (esattamente come un nuovo ospedale o una nuova scuola) se costruiti grazie a fondi provenienti dalla fiscalità generale saranno pagati, in proporzione, in misura maggiore dai contribuenti più ricchi. In altri termini, le aree più avanzate di un paese o di una regione sosterranno quelle più povere e i cittadini più facoltosi parteciperanno alla realizzazione dei diritti dei concittadini meno abbienti, dato che l’imposizione fiscale è progressiva. All’opposto, caricare tutti i costi infrastrutturali in tariffa significa costruire un meccanismo di finanziamento fortemente regressivo dal punto di vista distributivo. Insomma, quando un bene essenziale come l’acqua viene interamente finanziato tramite tariffa, compresi gli investimenti infrastrutturali straordinari, ricchi e poveri si trovano a pagare l’investimento senza nessuna proporzione al reddito percepito e senza alcun meccanismo di solidarietà sociale. Inoltre -dato che ricchi e poveri hanno bisogno della stessa quantità d’acqua per bere, cucinare, lavarsi- tariffe più salate incideranno in misura molto diversa sui redditi, come ben mostra il capitolo che Hall e Lobina dedicano all’impatto della privatizzazioni sulle fasce deboli.
C’è chi taglia corto e sostiene che privatizzare interamente la fonte di finanziamento del servizio attraverso il full cost recovery, pur con i suoi effetti socialmente regressivi, è una necessità dei tempi: i soldi pubblici sono scarsi ed è inevitabile scegliere fra sanità e acquedotti, fra scuole e depuratori, come se si potesse vivere senza diritto alla salute o senza accesso all’acqua potabile, come se qualcuno ci chiedesse di scegliere se preferiamo smettere di dormire o smettere di respirare. Certamente se oggi vi è un problema di priorità di spesa questo non si pone fra acquedotti e ospedali bensì, più probabilmente, fra servizi essenziali e spese per armamenti, ad esempio. Se gli italiani potessero scegliere direttamente se considerano prioritaria l’acqua o l’acquisto dei nuovi caccia F35, la cui spesa assorbirà nei prossimi anni circa 13,5 miliardi di euro, l’esito della consultazione sarebbe scontato. Insomma, altre sarebbero le priorità o le alternative su cui dovremmo interrogarci come cittadini, dato che la fiscalità generale viene impiegata direttamente o indirettamente per cofinanziare tante delle inutili “grandi opere” previste nella così detta legge obiettivo. Senza aerei da guerra o senza nuove autostrade si può vivere, persino meglio, ma non senz’acqua. Se poi venisse rafforzata la lotta all’evasione fiscale, al contrario incoraggiata dai governi attraverso condoni di ogni genere, e se si studiassero specifiche “tasse di scopo” (ad esempio una tassa sulle bottiglie in plastica per le acque minerali) sarebbe possibile ricostruire a perfezione l’intero sistema idrico integrato del paese, grande opera utile e necessaria, senza incidere sul debito e sul deficit pubblico.
Infine, la vera vittima della privatizzazione è la democrazia. I nodi sono l’assenza di qualsiasi controllo democratico sul bene acqua una volta che ne sia stata privatizzata la gestione e la perdita di ogni potere decisionale da parte dei cittadini. Amministrazioni locali, consigli elettivi e cittadini sono allontanati dal governo del bene e le scelte si trasferiscono nelle società di gestione private e nei loro consigli d’amministrazione. Persino la proprietà del bene acqua, che formalmente resta bene demaniale e pubblico (tanto in Inghilterra quanto in Italia) passa sostanzialmente nelle mani di chi gestisce il servizio idrico: si tratta della differenza fra proprietà formale e sostanziale del bene. Il reale proprietario del bene diviene il soggetto che gestisce ed eroga il servizio. Hall e Lobina mostrano come in Inghilterra e Galles il deficit democratico investa tanto le società di gestione quanto l’ente regolatore, l’Ofwat: né le prime né quest’ultimo sono responsabili davanti agli organi rappresentativi, locali o nazionali. L’ Ofwat è talmente indipendente da essere indipendente persino dai cittadini, si potrebbe dire. Pur in un quadro differente, anche in Italia la privatizzazione ha necessariamente condotto allo stesso esito: le Spa che gestiscono il servizio idrico integrato sono divenute vere e proprie istituzioni post-democratiche, arene decisionali chiuse e opache in cui si è spostato il governo del territorio. Le Spa, guidate dalla logica della massimizzazione del valore per gli azionisti, rappresentano il nuovo luogo d’elaborazione e definizione delle politiche territoriali. Gestiscono beni comuni fondamentali come l’acqua, spesso assieme ad altri servizi pubblici locali (Multiutilities). La Spa mista pubblico-privata, declinazione su scala territoriale delle forme post-democratiche della governance globale, è in Italia il modello prevalente di privatizzazione: la Spa mista è un tavolo di concertazione a-democratico cui siedono cordate di soggetti privati (fra cui multinazionali italiane e straniere, banche, imprenditori del cemento) e personale nominato dai sindaci, senza alcun legame con i consigli elettivi. Ricostruire le catene di responsabilità all’interno dei meccanismi decisionali delle Spa è impossibile, la privatizzazione delle decisioni e delle scelte è definitiva: non vi è più nulla di pubblico nè di democratico in questo sistema di governance locale.
Sarebbe lungo ripercorrere come si sia giunti fin qui. Certo è che all’origine di questi processi di privatizzazione e “de-democratizzazione” vi sono precise scelte politiche, in buona parte legate ai cicli di riforma della pubblica amministrazione avviati negli anni ’90. In Italia le responsabilità della politica nell’erosione del pubblico sono spesso anche precedenti: non di rado élites politiche si sono surrettiziamente appropriate dei beni di tutti, considerando i beni comuni come loro beni privati e trasformando la gestione pubblica in una gestione clientelare o lottizzata. Le Spa miste – le partnership pubblico-private – rappresentano l’esito finale e il perfetto connubio di questa doppia forma di privatizzazione del bene comune: emancipatesi dal diritto pubblico per abbracciare il diritto privato, allontanatesi da ogni partecipazione e controllo dei cittadini, élites politiche e cordate di soggetti privati hanno dato vita ad un nuovo luogo di governance opaco e a-democratico. A queste istituzioni viene consegnato il governo dell’acqua e dei beni comuni, ossia de facto il governo del territorio e l’elaborazione concreta delle politiche pubbliche locali. Queste istituzioni sono fortezze senza porte né finestre, in cui privatezza e segretezza si fondono nell’opposto di ciò che dovrebbe essere una gestione pubblica, trasparente e democraticamente partecipata dei beni comuni.
Hall e Lobina ricordano come alla fine degli anni ’80 fu Margareth Thatcher, dunque ancora una volta la politica, a decidere la privatizzazione di servizi e beni che, essendo “comuni”, non avrebbero dovuto essere alienabili, in quanto non a disposizione delle maggioranze politiche e del princeps di turno. In quell’epoca le aziende private furono persino fatte entrare nella governance dello stato, ottenendo voce in capitolo nella stesura di alcune leggi (attraverso la creazione delle istituzioni così dette “quasi governative”, spiegano Hall e Lobina). Uno studio sul peso delle Spa privatizzate nella definizione delle leggi nazionali e regionali sui servizi pubblici probabilmente rivelerebbe elementi interessanti anche sul potere effettivo assunto in Italia – nella definizione del quadro giuridico – da soggetti privati e dalle loro organizzazioni di categoria. Potenti amministratori delegati si sono vantati, in alcune occasioni pubbliche, di avere “ispirato”, se non direttamente scritto, questo o quel determinato articolo di legge relativo alle privatizzazioni.
Nel passato remoto, in Italia come in gran parte dei paesi europei, le prime strutture e le prime gestioni del servizio idrico erano private. Gestioni la cui inefficienza, il cui costo e la cui incapacità di assicurare l’universalità del servizio – e di conseguenza di garantire la salute pubblica – spinsero a compiere una scelta di civiltà: all’inizio del ‘900 un’ondata di municipalizzazioni condusse alla gestione pubblica dell’acqua, per garantire a tutti l’accesso a questo bene fondamentale. Chi pensa alla privatizzazione come ad un sinonimo di “modernizzazione” ha un concetto molto antico e regressivo di modernità. I nuovi cicli di privatizzazione costituiscono un ritorno al passato, a logiche di profitto e d’esclusione, non certo un passo avanti. Il futuro deve essere certamente “pubblico”, come ricorda il titolo del saggio di Hall e Lobina, ma il pubblico deve essere ripubblicizzato. Se infatti la gestione pubblica è una condizione necessaria, perché consente di escludere i profitti di pochi da un bene di tutti, non è però una condizione di per sé sufficiente. Il nuovo pubblico deve essere trasparente e partecipato democraticamente dai cittadini, non espropriato da oligarchie politiche. Clientelismi, lottizzazioni, degenerazioni burocratiche e tecnocratiche sono state il primo stadio della “privatizzazione” e del sequestro dei beni di tutti da parte degli interessi di pochi. In futuro la gestione dell’acqua e dei beni comuni dovrà essere “comune”: gli esempi in questo senso si stanno moltiplicando, da Siviglia a Parigi. Beni comuni e ripubblicizzazione del pubblico sono la sostanza di una nuova politica per il XXI secolo, come insegnano i movimenti per l’acqua di tutto il pianeta.
NOTE
(1) Rimando a Tommaso Fattori, Impero Spa: i mercanti d’acqua, 2008 disponibile all’indirizzo http://www.perunaltracitta.org/images/quaderni/fattori.pdf
(2) Si tratta del “Decreto Ronchi”, oggetto del primo dei due quesiti referendari del 12/13 giugno 2011 (abrogazione dell’art.23 bis della legge 133/08 e successive modifiche, appunto quelle introdotte da Ronchi nel 2009).
(3) E’ possibile scaricare qui la delibera del 22 novembre del 2007 dell’autorità garante della concorrenza e del mercato: http://www.acquabenecomunetoscana.it/IMG/pdf/Sentenza_antitrust_Acea-Suez_Nov_2007.pdf
(4) Nella primavera del 2010 Federutility ha scritto al governo chiedendo senza giri di parole lo stanziamento di “fondi pubblici di accompagnamento e sostegno per cofinanziare gli interventi previsti” nel settore idrico. Nella stessa direzione anche le richieste di Cispel alla regione Toscana, regione in cui il servizio idrico integrato in 5 Ato su 6 è gestito da Spa miste.
(5) Si tratta del secondo quesito sottoposto a referendum popolare il 12/13 giugno 2011: abrogazione parziale dell’art. 154 del D.lgs 152/06 (decreto ambientale)
(6) La proposta è consultabile all’indirizzo http://www.acquabenecomune.org/investimenti.pdf
La battaglia dell'acqua in corso da alcuni anni nel nostro Paese ha già prodotto due risultati di grande importanza storica sul piano politico-culturale. Il primo riguarda l'affermazione in seno alla società italiana di milioni di persone che pensano che le nostre società, per funzionare in maniera giusta e corretta, devono essere fondate su una reale partecipazione dei cittadini al governo della res publica. Il notevole successo popolare, spontaneo, della campagna di raccolta delle firme per la legge regionale toscana sull'acqua di iniziativa popolare, poi per la legge nazionale e infine per i referendum, insieme alle lotte dei No Tav, contro il nucleare, del movimento viola, del movimento 5 stelle, dei Gas, di Altraeconomia, Altrafinanza, dei Comuni virtuosi, dimostrano che i cittadini italiani vogliono cessare di essere trattati come dei sudditi da mantenere tali grazie a un sistema nazionale di media asserviti e di proprietà dei potenti. Non vogliono più essere ridotti a consumatori beati, a degli indivualisti profittatori (evasori, abusivi...), ma vogliono (ri)diventare cittadini nel pieno senso della parola.
La battaglia per l'acqua pubblica rivela che gli italiani non desiderano affatto ritornare allo Stato di prima, ma vogliono partecipare alla costruzione di un altro Stato, di una maniera differente di vivere e far funzionare i comuni, le province, le regioni. Vogliono un altro pubblico, giusto, efficace, trasparente, dove i cittadini sono partecipanti attivi. Quel che nei referendum (nucleare ed impedimento inclusi, ovviamente) è fonte di paura per i gruppi al potere (anche della sinistra autodefinitasi moderata) è proprio questo gran desiderio di voler essere cittadini.
Dopo quarant'anni di politiche che hanno deliberatamente distrutto il welfare non clientelare, in Italia soprattutto, il senso dello Stato e della comunità «cittadina»; dopo quasi tre generazioni di giovani educati a considerare le istituzioni pubbliche - i comuni, le regioni, lo Stato - come degli enti inutili, dilapidatori delle risorse pubbliche; e dopo l'enorme propaganda ideologica che per anni ha fatto credere che solo l'impresa privata possiede le competenze e i saperi adeguati per gestire tutti i servizi pubblici detti «locali» e che solo la finanza privata dispone delle risorse per fare gli investimenti necessari, la voglia di essere cittadini rappresenta un fatto notevole, esplosivo. Si può dire che i referendum rappresentano il momento simbolico di una «rivoluzione dei cittadini» dal basso, come è accaduto nel mondo arabo, in Spagna, in America latina.
Negli ultimi anni, a partire dalla difesa dell'acqua pubblica, centinaia di migliaia di italiani sono scesi nelle strade e nelle piazze di centinaia di città con i loro banchetti, le marce, gli spettacoli, i dibattiti per dire «non vogliamo né più Stato, né più Stato corrotto, né più privato , né più privato corrotto e predatore (prendi e scappa), né potentati finanziari, partitici o sindacali, né istituzioni politiche inefficaci, né parlamenti composti da persone che non meritano di essere rappresentanti dei cittadini. L'acqua pubblica significa non solo l'acqua dei cittadini , ma anzitutto l'acqua ai cittadini, per i cittadini e dai cittadini». L'acqua pubblica diventa uno degli strumenti più importanti per ricittadinare la città del vivere insieme.
Centralità dei beni comuni
Il secondo risultato non è da meno. Concerne la (ri)scoperta della centralità dei beni comuni in una società che pretende di essere efficace, di ottimizzare il vivere insieme in termini di «progresso» economico, sociale e civile. Chi mai l'avrebbe detto solo pochi anni orsono che i «beni comuni» sarebbero diventati un'idea cosi popolare nel nostro Paese? Una moda? Un fuoco di paglia? Per il momento, la realtà è che si contano a centinaia, in tutte le regioni d'Italia, i gruppi territoriali «acqua bene comune» nati spontaneamente.
Senza alcun dubbio, l'acqua è all'origine del fenomeno. Chi dice «beni comuni» dice beni essenziali ed insostituibili per la vita, dice beni cui corrispondono intrinsecamente diritti (e doveri) individuali e collettivi, beni che esprimono la ricchezza comune messa al servizio del diritto ad una vita decente per tutti, beni che richiedono la responsabilità di tutti i cittadini. Quando si parla di beni comuni ci si inserisce in un visione del mondo e della società profondamente diversa da quella imposta negli ultimi quarant'anni. Con i beni comuni si afferma il primato del vivere insieme sulla logica di sopravvivenza individuale, dei più forti, dei più prepotenti, dei più furbi. In Italia la battaglia per l'acqua bene comune ha largamente contribuito a (ri)dare il loro titolo di nobiltà di bene comune anche al sole, all'aria, alla conoscenza, alla terra, all'informazione, all'educazione, alla salute, la cui mercificazione e privatizzazione si sono affermate con forza, e con la condiscendenza di tutte le classi dirigenti, a partire dagli anni '80. Molto verosimilmente è grazie all'acqua che i beni ora menzionati sono nuovamente, in quanto beni comuni, all'ordine del giorno dei dibattiti e dell'agenda politica concreta nazionale e soprattutto delle collettività locali.
Una spallata al liberismo
Per concludere, il vivere insieme è diventato un nodo centrale della politica italiana tout court. In questo senso i referendum rivelano problemi, sfide e scelte non imprigionabili in sacchetti per uso immediato. Leggere i referendum nei termini di una nuova spallata contro il governo Berlusconi è una tendenza facile cui molti non hanno resistito. In realtà essi debbono essere letti contemporaneamente come simbolo e sintomo di un rigetto, sempre più diffuso in Italia, del sistema economico capitalista di mercato, che ha condotto alla mercificazione di ogni forma di vita, alla privatizzazione del potere politico e alla confisca del ruolo di cittadini.
Voler (ri)diventare cittadini per la propria dignità e anche per vivere insieme agli altri nel contesto di una umanità da inventare è il secondo risultato della battaglia per l'acqua in Italia. La vita è un diritto per tutti. L'acqua, in quanto elemento essenziale e insostituibile per la vita, è anch'essa un diritto per tutti. È tempo di concretizzare i principi. La vittoria aprirà le vie a nuovi percorsi di rinnovamento, d'innovazione e di sviluppo di nuove «città».
L’Autore è fondatore del Comitato italiano per il Contratto mondiale dell'acqua, Presidente dell'Institut européen de recherche sur la politique de l'eau (Ierpe) a Bruxelles
Il National Ecosystem Assessment col suo rapporto del giugno 2011 conferma se necessario quanto sia importante per le economie investire nella tutela delle risorse naturali, non solo intese come “materie prime” per produrre e vivere, ma anche nell’accezione di solito trascurata di qualità ambientale, spazi aperti, flora, fauna ecc.
Qualcuno pensa che la tutela dell’ambiente sia un peso economico che in un modo o nell’altro rallenta lo “sviluppo”, mentre esistono invece concreti motivi economici per proteggere la natura, non ultimi quelli legati alla salute e benessere generale della popolazione, con immediate ripercussioni ad esempio sui costi dei servizi sanitari.
Più in dettaglio per il caso britannico:
Il valore economico delle zone umide in termini di qualità delle acque si può calcolare sino a 1.700.000.000 di euro l’anno
Quello degli insetti e uccelli impollinatori per l’agricoltura in quasi 500 miliardi di euro
I vantaggi dell’abitare vicino a fiumi e altri corpi d’acqua sino a 14 miliardi di euro l’anno per il paese, e quelli sanitari della prossimità di spazi verdi sino a 350 euro l’anno a persona.
Col cambiamento climatico globale e l’incremento di popolazione la natura sarà sottoposta a pressioni crescenti ed è importante iniziare a considerarla nel suo piano valore, oggi e per il futuro.
Questa è una breve sintesi del comunicato stampa ministeriale. Sul sito del Ministero il testo integraledel comunicato e il link alla pubblicazione - Oppure si può scaricare direttamente da QUI (con molta pazienza) una sintesi del rapporto (f.b.)
George Soros liquida i suoi investimenti in oro e compra fattorie in Sudamerica investendo nella Adecoagro, una conglomerata agricola con proprietà in Argentina, Brasile e Uruguay. Non è il solo: da un po’ di tempo gli hedge fund si contendono le terre coltivabili che possono essere acquistate in giro per il mondo. Se ne cercano ovunque, dalla Russia all’Africa, ma alla fine le più appetibili restano quelle negli Usa e in America Latina: più produttive, più facili da proteggere e senza troppi vincoli sulla proprietà. Un tempo chi voleva diventare ricco in fretta cercava di trasformare i terreni agricoli in aree fabbricabili.
Ma oggi negli Stati Uniti, mentre il mercato dell’edilizia residenziale vive il suo 57esimo mese consecutivo di recessione, un altro mercato immobiliare — quello delle aree coltivabili — ha raggiunto i massimi degli ultimi 32 anni: più 16 per cento dall’inizio del 2010, certifica la Federal Reserve di Chicago. Certo, c’è da restare interdetti davanti a queste sofisticate finanziarie di Wall Street che, dopo aver puntato sulle aree più avanzate e innovative dell’economia, cambiano cavallo e riscoprono un settore tenuto ai margini da quasi un secolo. Come può essere?
«Nel 2011 torna di moda un settore che aveva smesso di attrarre l’attenzione nel 1911» , si scandalizza il New York Observer. Ma Robert Shiller, celebre economista di Yale — uno dei pochi ad aver previsto non solo la «grande recessione» del 2008, ma anche la prolungata crisi del mercato immobiliare — ha appena spiegato a un pubblico di duemila operatori finanziari che, con la domanda di derrate alimentari che esplode nei Paesi emergenti e l’offerta che fatica a tenere il passo, quello in fattorie è uno degli investimenti più sicuri, visto che «i campi non si possono fabbricare» . Gli scettici sono molti: da un lato quelli che vedono nella corsa all’agricoltura il segno dell’involuzione di un mondo che ha paura del futuro, che si arrocca, teme di dover affrontare scarsità che sembravano ormai relegate nel retrobottega della storia.
Dall’altro gli analisti che invitano alla cautela: dopo la bolla dell’alta tecnologia e quella dei valori delle case, gonfiati dai mutui a go-go, adesso ne rischiamo una terza, alimentata dall’impennata dei prezzi delle derrate agricole. È normale che, in parallelo, cresca anche il valore dei terreni. Ma in Kansas e Nebraska, ai ritmi attuali, i prezzi raddoppieranno in quattro anni: insostenibile. Gli hedge, però, non vedono grossi rischi. Alcuni pensano addirittura di potersi arricchire in caso di distruzione dei raccolti per inquinamento, catastrofi ambientali o attacchi terroristici. E Larry Fink, il capo di BlackRock, che con 3.500 miliardi di dollari amministrati è il maggior gestore mondiale di patrimoni, taglia corto beffardo: «Investite sull’agricoltura e sull’acqua e poi andatevene in spiaggia» .
Nota: a questo link un po' di informazini ulteriori a proposito del fenomeno del Land Grabbing (f.b.)
Senza nulla togliere al merito grandissimo dei comitati per il referendum sull' acqua pubblica, credo che tanto il successo nella raccolta( di 1 milione e 400 mila firme) che la rapidità con cui essa è stata realizzata, nasconda ragioni prepolitiche che non ci devono sfuggire. C'è nel fondo della nostra cultura, e per così dire ancestralmente legata alla nostra esistenza, la convinzione che l'acqua, prima ancora di manifestarsi come “bene”, una risorsa economica, ci appartenga come esseri umani, che essa è nell'aria, sulla terra, nel nostro corpo. É dunque un elemento del mondo vivente, inseparabile da esso. Non solo il suo regime economico e giuridico, come ricordava nel XIX secolo il giurista Giandomenico Romagnosi, «non può essere regolato intieramente coi principi coi quali si dispone di un pezzo di podere o dell'area di una casa». Ma essa mostra altresì una universalità originaria nel processo della sua formazione che la distingue da gran parte delle altre le altre risorse naturali, rendendola moralmente incompatibile con la sua mercificazione. Il suo ciclo è un'opera gigantesca e completamente gratuita, realizzata dal sole, che solleva le acque degli oceani e quelle sparse nel pianeta e le redistribuisce purificate in forma di pioggia. Senza alcun intervento umano. Solo il momento terminale del convogliamento e della loro ripartizione necessita di un intervento tecnico e comporta dei costi. E solo questi costi dovrebbero essere sostenuti dagli utenti, equamente distibuiti, per avere a casa un bene che viene gratuitamente dal cielo. Mentre oggi, com’è noto, le grandi corporations dell'acqua pretendono e riescono a lucrarci profitti ingenti.
Non stupisce, dunque, il fatto che i cittadini boliviani di Cochabamba siano esplosi in una rivolta, nel 1999, quando la statunitense Bechtel (e altre multinazionali) imposero loro speciali licenze per potere accedere addirittura all'uso dell' acqua piovana. Perfino l'acqua senza costi, piovuta per l'appunto dal cielo, doveva entrare nel processo di valorizzazione del capitale, secondo la nuova furia predatrice che oggi anima questo modo di produzione.
Ma l'idea della mercificazione dell'acqua, anche quella distribuita dalle condotte, ripugna anche a noi italiani in quanto cittadini, abitatori da secoli di spazi urbani. Ci si fa poco caso, tanto fa parte della nostra consuetudine e del nostro sguardo quotidiano. Ma le nostre città sono disseminate di fontane pubbliche, dove l'acqua scorre liberamente, a disposizione del passante. In alcune delle nostre città – si pensi a Roma – le fontane si ammirano oggi per l'originalità e la bellezza delle fogge architettoniche, ma se ne dimentica la funzione originaria. Le fontane, l'acqua corrente per tutti, facevano parte non solo dell'arredo estetico e sociale delle città, ma ne incarnavano una funzione fondamentale: quella dell'accoglienza, del ristoro al viandante, dell'ospitalità pubblica data a tutti. Ricordo ancora, dei miei vecchi studi su Venezia, una ordinanza del Comitato di Sanità della città, del 22 giugno 1797, la quale faceva obbligo a «tutti i Cittadini aventi Botteghe» di tenere «tutto il giorno in un sito esposto sulla pubblica Strada una Mastella di Acqua dolce e netta», per dissetare i numerosi cani randagi che giravano per le vie cittadine. Anche le città piccole e medie del Sud si sono storicamente fornite di fontane pubbliche, che nelle estati torride di quelle terre svolgevano una funzione sociale importante. Nella memoria della mia infanzia, al centro del quartiere di Sant'angelo, a Catanzaro, campeggia una fontana dove le sere d'estate le famiglie che abitavano nei bassi mettevano a fresco il cocomero.
Questo carattere di bene comune dell'acqua, inscritto per così dire nella storia secolare delle nostre città, sta nel fondo del nostro immaginario, come il nostro rapporto con il cibo, con il sole mediterraneo. Ebbene, io credo che nella lotta per promuovere il referendum sino al 12 giugno .a dispetto di tutte le incertezze che gravano sulla sua celebrazione - bisogna avere la consapevolezza di questo prerequisito antropologico che lega il comune sentire degli italiani nei confronti di questo bene primario. É una base di partenza da valorizzare nello sforzo di raggiungere il quorum. Ma è anche la base per fare della campagna referendaria l'occasione di uno sforzo pedagogico di massa su che cosa sono i beni comuni. Lo stesso referendum contro il nucleare si inscriverebbe in questa prospettiva, perché volto a difendere la salubrità dell'aria e della terra dalla radioattività, a promuove l'utilizzo del sole e del vento, beni comuni illimitati. É questo il terreno solido e dischiuso sino all'orizzonte, su cui si può impostare la critica più popolare ed egemonica al capitalismo del nostro tempo, abbozzando al tempo stesso i lineamenti concreti di un diverso modo di produrre consumare, disporre delle cose. É una pedagogia che può ricorrere anche a solidi argomenti economici, che tutti noi dovremmo sforzarci di porre in evidenza nelle prossime settimane. É facilmente prevedibile, ad esempio, che la privatizzazione dell'acqua farà aumentare le tariffe. Ora, questo avverrà in un contesto economico che, come tutti sanno, è di feroce pressione sui redditi delle famiglie. Mentre la politica dell'UE si modella su una cieca politica deflattiva, con tagli sempre più dolorosi allo stato sociale, le tariffe dei servizi essenziali aumentano (luce e gas) insieme a tanti altri servizi comunali e nazionali, fatti lievitare dall'inflazione. Gli aumenti tariffari piovano sulla testa dei cittadini, senza che essi possano opporsi in alcun modo. Il referendum è in questo caso l'unico strumento a portata dei cittadini per impedire che un ulteriore aggravio si abbatta ben presto sulle loro limitate economie.
All'ampiezza di queste ragioni e motivazioni dovrebbe oggi corrispondere uno sforzo collettivo dell'intera sinistra per vincere questa grande partita. Molti hanno già sottolineato quale svolta politica e culturale potrebbe determinare una conclusione vittoriosa dei referendum. Ma vista la posta in palio, io credo che lo sforzo organizzativo necessiti non solo di uno impegno straordinario di mobilitazione. Spesso la nostra debolezza politica è anche il risultato delle mille cause che quotidianamente sposiamo, disperdendo le nostre energie. In questo mese dovremo essere più freddi e selettivi. Sarà allora necessario inventare forme di protesta originali, come quelle ideate da precari e studenti, già lo scorso anno, in grado di richiamare l'attenzione dei media, di obbligarli a parlare di eventi vendibili al loro pubblico di consumatori. Occorre che i nostri giovani volontari siano presenti con cartelli semplici davanti ai supermercati, ai mercatini e ai luoghi di maggiore concentrazione. E, a mio avviso, non dovrebbero mancare, nei vari angoli delle città, i banchetti dell'acqua: quelli stessi dove si sono raccolte le firme, che siano forniti di acqua da offrire ai passanti, con cui intrattenersi sui temi dei referendum. L'acqua pubblica della solidarietà, della nostra civiltà urbana. E gli studenti protagonisti delle lotte degli ultimi mesi dovrebbe organizzare simili presidi nelle scuole e nelle Università.
Io credo, che il raggiungimento del quorum può essere il risultato di una mobilitazione speciale, quale fu quella contro la guerra in Iraq nell'inverno-primavera del 2003. Ricordiamo tutti i drappi multicolori appesi alle nostre finestre e ai nostri balconi. Bisogna fare altrettanto per i referendum, lenzuola e drappi bianchi che invitino a votare si. Si può fare perché come allora la pace – non oggi, purtroppo - anche l'acqua pubblica accomuna, ricuce le nostre eterne divisioni, e la stessa mobilitazione può costituire l'occasione per fare prove di unità tra le forze della sinistra. Quell'unità che ci darebbe tante possibilità di vittoria, se fosse davvero seriamente ricercata. Quell'unità che nasce dall’adesione agli effettivi bisogni popolari, al reale interesse generale.
Www.amigi.org
La bocciatura da parte del Consiglio di Stato della Valutazione d'impatto ambientale che approvava la conversione a carbone della centrale di Porto Tolle ha sollevato le solite bordate antiambientali da parte industriale. Vale la pena di fare alcune puntualizzazioni. Fare una centrale da quasi 2 mila Megawatt in un delta di un fiume, nell'ambito di uno dei parchi ambientalmente più significativi del Paese, era già assai discutibile. Il vecchio impianto a olio combustibile, condannato per disastro ambientale e accusato di danno biologico, era stato un colossale errore di pianificazione. La conversione a carbone, oltre a produrre l'emissione di oltre 10 milioni di tonnellate l'anno di anidride carbonica, CO2, avrebbe comportato la movimentazione nell'area di 5 milioni di tonnellate di carbone all'anno e di un altro milione di tonnellate tra calcare, gessi e ceneri.
Un punto critico è stato quello del confronto con le alternative: oltre all'alternativa «zero» (cioè non far nulla in un'area già interessata da un rigassificatore) c'era l'alternativa di fare un impianto a gas invece di quello a carbone. Enel ha sostenuto la tesi che, essendo i gruppi a carbone più grandi di quelli usualmente impiegati per gli impianti a gas a ciclo combinato, i camini più alti avrebbero garantito maggiore diluizione degli inquinanti e dunque implicato un minore impattosull'ambiente. Questa tesi non ha alcuna base scientifica. Gli inquinanti, infatti, viaggiano, si trasformano chimicamente e interessano un'area vasta (dell'ordine delle centinaia di km). Dunque le preoccupazioni ambientali su quell'impianto non sono di tipo «nimby», ma riguardano invece l'impatto su gran parte della pianura padana, come si è sostenuto nel ricorso sostenuto da Greenpeace, Wwf, Italia Nostra e dalle associazioni locali del settore turismo e pesca.
In particolare, le circa sette mila tonnellate annue di ossidi di zolfo e azoto emesse dalla centrale a carbone - contro le poco più di mille di una centrale a gas a parità di energia prodotta - comportano la genesi di grandi quantità particolato fine «secondario» attraverso gli ossidi di zolfo e di azoto, che, oltre che acidificare l'atmosfera, ne sono i «precursori». Basti pensare che in una città come Bologna oltre un terzo del particolato ultrafine (inferiore ai 2,5 micron di diametro) è costituito da nitrati e solfati provenienti da sorgenti lontane. Ed è noto che si tratta della frazione del PM10 più pericolosa dal punto di vista sanitario.
Il recente rapporto di Legambiente, Mal'aria 2011, conferma una situazione sconfortante e grave sui livelli di particolato fine nelle città italiane: 30 delle 48 città italiane fuorilegge per numero di superamenti annuali dei limiti di PM10 sono nella pianura padana (tra queste Rovigo, Ferrara, Padova, Bologna e Milano).
E' possibile una strategia alternativa per salvare il posto a circa 300 operai? A parte l'alternativa del gas - certo assai meno inquinante di quella del cosiddetto «carbone pulito» - le analisi del potenziale delle rinnovabili in Italia mostrano ampie possibilità, con un impatto occupazionale ben superiore rispetto alle fonti convenzionali. Senza parlare delle ricadute occupazionali che potrebbero avere le misure di efficienza energetica proposte recentemente, a livello nazionale, da Confindustria, e che una cauta proiezione per la Provincia di Rovigo fa ascendere a oltre 3.000 nuovi posti di lavoro. Dal punto di vista energetico poi, l'analisi del potenziale di efficienza nel settore elettrico, elaborato dal Politecnico di Milano per Greenpeace, mostra un potenziale energetico pari a quello di 10 centrali di Porto Tolle, ma economicamente assai più conveniente.
La protezione dell'ambiente e il fare fronte ai cambiamenti climatici rappresentano, oltre che una necessità, un'imperdibile occasione occupazionale: ma bisogna cambiare drasticamente le attuali politiche energetiche e industriali.
Dopo gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi di Fukushima c’è stato un po’ di ripensamento nei programmi nucleari del governo italiano; lo stesso governo si è affrettato a emanare un decreto che rimanda di un anno le procedure di localizzazione delle possibili centrali nucleari (ma non le procedure di localizzazione dei depositi delle scorie radioattive); vari paesi hanno deciso di rivedere le condizioni di sicurezza delle centrali esistenti, le quali (sono quasi 450 nel mondo) continuano a frantumare nuclei di uranio e di plutonio e a generare ogni anno tonnellate di rifiuti radioattivi.
Dopo Fukushima sono cambiate molte cose, oltre che di carattere ambientale, di carattere economico. Negli ultimi anni c’era stata una lenta ripresa, in vari paesi del mondo, dei programmi di costruzione delle centrali nucleari, pubblicizzate come la fonte di elettricità che evita l’effetto serra, del tutto sicura, e questo fermento aveva messo in moto l’unica cosa che conta per il potere finanziario, i soldi, da investire nell’industria meccanico-nucleare che fabbrica le centrali nucleari e nell’industria delle costruzioni. La costruzione di una grossa centrale nucleare richiede, a parte i materiali nucleari veri e propri, circa un milione di tonnellate di cemento e acciaio, e poi nuove strade e porti e infrastrutture. Poi richiede complesse procedure burocratiche che a loro volta richiedono studi di sicurezza, commissioni tecniche, appalti, tutti costosi.
Chi acquista centrali nucleari deve prendere i soldi in prestito dalle banche e questi soldi devono essere assicurati, il che significa altre speranze di profitti finanziari. Ci sono poi altri due settori economici la cui sopravvivenza è associata alla costruzione e al funzionamento delle centrali nucleari: una centrale nucleare ha bisogno di uranio, la materia prima di cui poco di parla ma che tiene in moto grossi affari industriali internazionali. Una centrale nucleare da 1600 megawatt (come una delle quattro che il governo italiano avrebbe voluto costruire, in collaborazione con la venditrice francese Areva), ha bisogno ogni anno di circa centomila tonnellate di roccia uranifera estratta in un numero limitato di paesi nel mondo: Kazakistan, Australia, Canada, Namibia. Un’importante industria chimica trasforma i minerali di queste rocce uranifere in ossido di uranio, poi l’ossido di uranio in fluoruro di uranio.
Poi intervengono altre industrie che trasformano, mediante centrifughe, l’uranio naturale in uranio “arricchito” al 4 % di uranio-235, la forma di uranio richiesta per le centrali; poi ci sono industrie metallurgiche che preparano le leghe per i tubi che rappresentano le “camicie” degli elementi di combustibile, e poi le “pastiglie” di uranio arricchito che saranno caricate nel nocciolo del reattore. Fa presto un governo a dire “ripensamento” sul nucleare, revisione delle norme di sicurezza, ma intanto il denaro delle imprese continua a uscire per pagare banche e assicurazioni, i cui prestiti si fanno più costosi davanti alla crescente incertezza del futuro delle centrali; intanto alle imprese non entra neanche un soldo fino a che le centrali sono ferme per ripensamenti e anzi altri soldi devono essere spesi per revisioni e controlli, e sale il costo finale dell’elettricità nucleare a livelli ancora più inaccettabili.
Dietro la catastrofe di Fukushima ci sono centinaia di persone, banchieri, dirigenti delle assicurazioni, manager di grandi imprese, presidenti, gli uomini del potere dei soldi, spaventati per il proprio futuro che, fino all’11 marzo, quando lo tsunami ha paralizzato le centrali nucleari giapponesi, sembrava così luminoso. Nelle ultime settimane il prezzo dell’uranio sta crollando, diminuito del 20 % in un mese, e così sta crollando il prezzo dell’uranio arricchito e delle relative tecnologie e calano i titoli in borsa delle società nucleari. Purtroppo la crisi coinvolge anche gli incolpevoli lavoratori di queste imprevidenti industrie, dai deserti dell’Asia ai poli tecnologici nucleari. Dopo Fukushima il mondo finanziario e industriale non sarà più come prima. I governi dovranno finalmente fare delle nuove corrette analisi dei reali fabbisogni di elettricità (perché solo elettricità sono capaci di dare le centrali nucleari) e dello stato reale delle tecnologie energetiche.
I posti di lavoro perduti abbandonando l’avventura delle centrali nucleari, potranno essere assorbiti dal gigantesco lavoro di sistemazione dei rifiuti radioattivi che si sono finora accumulati nel mondo e che continuano ad essere generati ogni giorno, fino a che restano in funzione le centrali esistenti. Tale lavoro richiede chimici, ingegneri, fisici, ma anche geologi e urbanisti e decenni di tempo, per cui più presto le centrali nucleari chiuderanno, più presto si smetterà di costruirne di nuove, meglio sarà. Una lezione che vale anche per l’Italia che stava imprudentemente per riprendere la via nucleare.
Questo articolo è stato inviato anche alla Gazzetta del Mezzogiorno
Il petrolio si è affacciato come importante fonte di energia negli ultimi decenni del l'Ottocento, con una produzione relativamente modesta; nel 1900 il consumo mondiale di petrolio era di 30 milioni di tonnellate rispetto a 600 milioni di tonnellate di carbone. Si tenga presente che una tonnellata di carbone produce energia come 0,7 tonnellate di petrolio. Il consumo di petrolio aumentò rapidamente con l'avvento dell'automobile e dell'aeroplano e con la prima guerra mondiale (1914-1919). Nel 1920 il consumo mondiale di petrolio era di circa 130 milioni di tonnellate rispetto ad un consumo di carbone di circa 1200 milioni di tonnellate. Nel 1950, lasciatosi alle spalle il grande massacro della seconda guerra mondiale (1939-1945), il consumo di petrolio era diventato di 700 milioni di tonnellate rispetto ad un consumo di circa 1500 milioni di tonnellate di carbone. A partire dal 1950 ai due giganti energetici si è affiancato, in modo sempre più aggressivo, il gas naturale.
Oggi i consumi mondiali vedono al primo posto il petrolio con circa 4200 milioni di tonnellate all'anno, seguito dal carbone con circa 5000 milioni di tonnellate all'anno (ma con un contenuto di energia equivalente a quello di appena 3500 milioni di tonnellate di petrolio), e al terzo posto il gas naturale con circa 3000 miliardi di metri cubi all'anno (con un contenuto di energia equivalente a quello di appena 2500 milioni di tonnellate di petrolio). I bilanci energetici si fanno con una unità di energia che si chiama tep (tonnellate equivalenti di petrolio).
Durante la conferenza del 1956 dell'Istituto Americano del Petrolio un geologo chiamato King Hubbert (1903-1989) affermò che, sulla base delle conoscenze delle riserve di petrolio esistenti nel mondo, si poteva prevedere che la produzione mondiale di petrolio avrebbe raggiunto un massimo, forse nei primi anni del 2000, e poi sarebbe diminuita. A conferma di questo ricordò che gli Stati Uniti, che erano stati esportatori di petrolio, erano diventati importatori di petrolio per il graduale esaurimento dei suoi pozzi. Nel 2010 il 70 % del petrolio consumato negli Stati Uniti è importato dai paesi del Golfo Persico, da Venezuela, eccetera e i favolosi pozzi della California e del Texas si stanno esaurendo progressivamente.
Il continuo aumento del prezzo del petrolio è influenzato da considerazioni politiche, dalla comparsa di nuovi giganti economici, come Cina e India, che succhiano petrolio dovunque, ma anche da un graduale impoverimento delle riserve. Poco conta se nel sottosuolo c'è petrolio ancora per 30 o per 60 anni; il suo esaurimento si farebbe sentire nel corso di una o due delle future generazioni. A puro titolo di esercizio di fanta-economia immaginiamo che cosa succederebbe se il petrolio scomparisse del tutto. Scomparirebbe la nostra "civiltà" ? No, perché la civiltà è basata su molti altri beni oltre alla pura e semplice energia. Comunque sarebbe un bello sconquasso e, per capire chi ne pagherebbe di più le conseguenze, cominciamo a vedere dove va a finire oggi il petrolio.
Circa un terzo del petrolio consumato nel mondo va nei trasporti terrestri, aerei, navali; i principali mezzi di trasporto terrestre sono, da decenni, gli autoveicoli azionati da motori a scoppio a ciclo Otto; la rotazione delle ruote è assicurata dall'energia liberata dalla combustione di un carburante liquido, la benzina o il gasolio, entrambi derivati dalla raffinazione del petrolio. Circolano autoveicoli che usano il metano del gas naturale, comincia ad affacciarsi qualche autoveicolo elettrico, ma l'elettricità è ancora prodotta in gran parte in centrali che bruciano derivati del petrolio. Se il petrolio improvvisamente scomparisse, ci resterebbero tre soluzioni: ottenere carburanti liquidi dal carbone; oppure usare carburanti liquidi ottenuti dalla biomassa vegetale, come l'alcol etilico o il biodiesel; o, infine, far muovere gli autoveicoli con motori elettrici ricaricati con l'elettricità prodotta dal carbone o dal Sole o dal vento. Quanto poco si possa contare sull'elettricità nucleare è dimostrato dalla catastrofe ai reattori giapponesi di Fukushima.
Il "re carbone" non è un combustibile comodo da usare, però può essere trasformato per reazioni chimiche in numerosissimi prodotti oggi ottenuti dal petrolio a cominciare dai carburanti liquidi per autotrasporti. Il carbone è costituito essenzialmente da carbonio, con piccole quantità di idrogeno e altri elementi. Trattando il carbone ad alta temperatura con vapore acqueo si ottiene una miscela di gas, principalmente idrogeno, ossido di carbonio, metano, che, per ulteriori trasformazioni, possono diventare carburanti liquidi simili alla benzina e al gasolio. Queste trasformazioni sono state rese possibili dalle ricerche condotte negli anni venti e trenta del secolo scorso dai chimici tedeschi Friedrich Bergius (1884-1949), Franz Fischer (1877-1947) e Hans Tropsch (1889-1935). Non c'è da meravigliarsi che si sia debitori alla chimica tedesca di queste innovazioni perché per tutta la prima metà del Novecento la Germania si è trovata priva di petrolio e ricca di carbone. Non consideriamo per ora quanto possano venire a costare questi carburanti dal carbone, perché la questione del prezzo sarebbe secondaria, se trovassimo i distributori di benzina vuoti.
Una parte del petrolio viene usato nel mondo nelle centrali termoelettriche nelle quali il carbone è già usato su larga scala; anche in Italia, zitte zitte, molte centrali termoelettriche funzionano a carbone. Le riserve di carbone sono molto grandi nel mondo, ma il suo uso come combustibile è certamente scomodo perché deve essere scavato nel sottosuolo e trasportato allo stato solido; durante la combustione genera vari gas inquinanti e lascia delle ceneri che pure sono fonti di danni ambientali. Ma se non ci fosse più petrolio, state sicuro che gli ingegneri e i chimici si metterebbero al lavoro per diminuire molti degli inconvenienti del carbone, con la gassificazione sotterranea, la depurazione dei fumi, con il recupero delle scorie oggi sepolte in discariche, eccetera. Una parte dei prodotti ottenuti dalla raffinazione del petrolio viene impiegata nell'industria chimica per fabbricare plastica, fibre tessili sintetiche, gomma sintetica e innumerevoli altri ingredienti di vernici, coloranti, medicinali, inchiostri.
Oggi; perché gran parte delle materie usate dall'industria chimica, etilene, propilene, butano, butilene, eccetera, in passato era ottenuta dal carbone anche grazie ai contributi di un altro chimico tedesco, Walter Reppe (1892-1969). Molte altre merci oggi ottenute dal petrolio sono state per secoli e decenni ottenute dal mondo vegetale e animale. Oltre un terzo delle fibre tessili usate nel mondo è costituito dal cotone offerto dalla natura; molti usi delle fibre oggi ottenute con sintesi chimiche dal petrolio erano soddisfatti in passato da lino, canapa, eccetera. In silenzio, in tutto il mondo, si sta verificando un "ritorno" alle fibre tessili naturali anche perché molte di esse sono prodotte nei paesi emergenti che sperano di trarne occasioni di lavoro e di sviluppo. Circa un terzo della gomma usata nel mondo è di origine vegetale e anzi la gomma naturale in certe applicazioni supera come qualità quella sintetica ottenuta dal petrolio. La natura offre innumerevoli materie nel regno vegetale e animale con cui ottenere coloranti e materie plastiche oggi derivate dal petrolio attraverso l'approfondimento delle conoscenze della biologia, della chimica, della merceologia.
Tranquillizzatevi, perciò, perché, se il petrolio scomparisse, la civiltà continuerebbe e anzi sarebbe probabilmente meno inquinata e più sicura.
Attenti. I tamburi delle acque libere rullano a Sud, nella penultima nocca del ditone calabro, sui monti chiamati "Le Serre". È la lotta di migliaia di abitanti stanchi di una privatizzazione zoppa che, in una terra benedetta dalle migliori sorgenti della Penisola, li obbliga a bere un liquido alla candeggina. Li vedi in processione tra i boschi, silenziosi e furenti, a caccia delle antiche fontane per riempirsi il cofano con le bottiglie di sopravvivenza. Tutta gente che promette sfracelli ai referendum di giugno. Una miccia che inquieta il Palazzo e i padroni delle acque.
Non la vogliono. Quella cosa che esce dai rubinetti è - dicono - iperclorata, sa di ruggine e ha il colore del fango. E viene dalla diga più malavitosa d’Italia, quella dell’Alaco, tra Badolato e Serra San Bruno, famosa per essere costata il decuplo del previsto. Sono anni che la gente ha paura di quell’invaso, ma negli ultimi mesi un balletto di ordinanze di non potabilità (quella di Vibo Valentia è durata 106 giorni!) poi revocate a macchia di leopardo, o reiterate all’interno della stessa rete, ha esasperato il problema, e ora il "tam-tam" corre anche sul web, contesta le rassicurazioni dei gestori, buca il silenzio di chi ha paura.
«Che venga, che venga a casa mia il sindaco di Vibo - urla una donna sui settanta accanto a una fontana sulla strada per Capistrano - venga che gli cucino gli spaghetti con l’acqua dell’Alaco... se li dovrà mangiare tutti!». In questi monti di alberi immensi, tornanti e nebbia, le donne sono le più determinate, il cuore della rivolta. «Figli di p..., scriva che siamo incazzati e non abbiamo più paura; questa è una guerra per la vita perché l’acqua è la vita», sibila un anziano ossuto dalla barba lunga, apparentemente mitissimo, e si fa il segno della Croce dopo la parola "vita" come se avesse chiamato in causa l’Altissimo in persona.
Assaggio l’acqua di Serra San Bruno: pessima. Cerco di capire, e subito mi perdo in un teorema bizantino. In Calabria funziona così: la raccolta e il pompaggio delle acque tocca a una società di diritto privato chiamata Sorical, mentre la distribuzione tramite le condutture spetta ai Comuni. E così, di fronte al vespaio scoppiato sulle Serre, nel Vibonese e dintorni, ecco l’inevitabile palleggiamento di responsabilità, con la Sorical che accusa i Comuni di avere reti colabrodo e la gente dei Comuni che accusa la Sorical di mettere in rete acqua malata. La fiaba del lupo e l’agnello.
Mettersi contro il sistema non è facile. Il giudice Luigi De Magistris che nel 2008 ha indagato sul business, s’è rotto le corna ed è stato trasferito. Diverso il destino dell’imprenditore Sergio Abramo che, dopo aver durissimamente attaccato la Sorical per certe irregolarità nel rapporto con una banca d’affari, è stato nominato presidente della Sorical medesima ed ora è assai più prudente nei giudizi.
Il fatto è che dietro la società c’è la francese Véolia, che di fatto comanda col 46,5 per cento delle azioni e gestisce pure il discusso inceneritore di Gioia Tauro, destinato al raddoppio. E’ questo il potere ed è qui la polpa: il privato (ma chiamiamolo per comodità "i francesi") che vende all’ingrosso ai Comuni la loro stessa acqua e lascia ad essi la rogna di gestire la rete. Col pubblico che si riduce a esattore per conto dei privati, anche a costo di indebitarsi.
A fronte di questo affare colossale, di canoni in forte rialzo e di investimenti tutto sommato relativi, scrive Luca Martinelli su "Altraeconomia", i francesi riconoscono alla Regione «un canone di 500 mila euro l’anno» per l’uso di tutti gli impianti calabresi. Un’inezia. L’affitto degli impianti di un’intera regione ricchissima d’acque equivale a un quarantesimo di quanto la società di gestione milanese paga per gli impianti di quella sola città. Ovvio che ai francesi piaccia la Calabria.
Ma con la diga dell’Alaco il meccanismo dell’oro blu si inceppa. La Sorical la eredita nel 2005 della Cassa del Mezzogiorno che l’ha appena messa in funzione. Una cattedrale nel deserto, costruita per spillare denaro pubblico in una zona umida con sabbie mobili e acque malariche. I fondali del lago artificiale non sono stati puliti e bonificati delle infiltrazioni di ferro e manganese contigue alle miniere borboniche di Mongiana. E quando, salutati dal plauso della politica, i francesi prendono in mano l’impianto dopo alcune migliorie, si ritrovano a mettere in rete un’acqua che grida vendetta rispetto alle fonti delle Serre. Una fornitura praticamente imposta dalla politica a 400 mila persone fino a quel momento agganciate a pozzi o condotte indipendenti, spesso - si asserisce - di buona qualità.
Nel 2010 persino la Regione Calabria, legata ai francesi, riconosce che qualcosa non va. L’Agenzia protezione ambiente dimostra che l’inquinamento viene dal lago, non dalla rete. Intervengono anche i Nas, che mettono sotto sequestro un serbatoio nel Vibonese. Nel gennaio di quest’anno il sindaco di Vibo dichiara l’acqua non potabile. Lo stesso accade in altri Comuni. Allora la gente chiede: riapriteci i vecchi pozzi che avevano acqua sicura. Ma non si può. Non sono più operativi. Qualcuno, veloce come il vento, li ha già disattivati.
«Macché pozzi buoni! - sbotta al telefono Sergio De Marco, responsabile tecnico della Sorical - questa dei sindaci è una bufala colossale. Li abbiamo chiusi perché erano di pessima qualità. Non bastavano, d’estate si svuotavano. E la storia della nostra acqua che sarebbe peggiore è un’invenzione dei Comuni che cercano un alibi per non pagarci le forniture. Possibile che per la stessa acqua altri Comuni non abbiano mai protestato? Centinaia di analisi dimostrano che l’acqua dell’Alaco è buona. Lo scriva, mi raccomando».
Per la politica, chi critica i francesi è "comunista" o propagatore di allarme. Alla Sorical si deve credere. Credere che l’acqua è buona, che il fondale del lago è pulito e che le analisi sono state fatte. Credere che un potabilizzatore da trecento litri al secondo è sufficiente per 400 mila persone. Così, per capire, bisogna andare lassù, oltre spettrali alberghi disabitati, fino al lago maledetto perso nella pioggia tra pale eoliche che paiono croci di un Golgota, in fondo a boschi così appetibili per "certi affari" che da gennaio vi sono morte già cinquanta persone per faide tra clan.
Strano, la rete che circonda l’invaso è aperta in più punti. Cancelli senza lucchetto. Nessuno pattuglia le sponde, tranne mandrie di vacche bianche che pascolano lasciando escrementi sulla battigia. Di chi sono? Sono le "vacche sacre", mi diranno a Serra San Bruno. Non hanno bisogno di pastori perché sono intoccabili. Sono della criminalità organizzata che così dimostra la sua onnipotenza e segna il territorio. Un simbolo, non un affare.
L’acqua sulle sponde è coperta di schiuma marrone quasi dorata. I ciottoli sono nerastri, hanno perso il colore originale. Cime di faggi nudi e abeti bianchi sbucano dalla superficie. Possibile siano cresciuti in acqua, dopo l’asserita ripulitura e impermeabilizzazione dei fondali? Vado a Serra San Bruno dove la resistenza, benedetta dal parroco, abita nella tana dell’associazione "I briganti", guidata da Sergio Gambino, figlio di un giornalista che ha dedicato la vita intera alla lotta contro la n’drangheta.
«Noi lo sappiamo» dice Gambino, capelli lunghi neri, occhi accesi e barbetta borbonica, «lo sanno i pastori, i boscaioli, i carbonai... Nessuno ha mai pulito quel lago... Altri sono venuti e ci hanno versato dentro non si sa cosa... La diga è in Comune di Brognaturo, retto da Cosma Damiano Tassoni, lo stesso sindaco che consentì quella diga demenziale... Credo che questi signori non abbiano idea di quanto siamo determinati a lottare per ciò che ci spetta». La sera, a Pizzo Calabro mi diranno: «Lo sa? Bossi ha ragione. Siamo una colonia francese. Ci hanno venduto. Acqua e nucleare. Ecco cos’è il patto Berlusconi-Sarkozy».