Titolo originale: Thousands 'forcibly relocated' in Ethiopia, says HRW report – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il governo etiopico sta spostando forzosamente decine di migliaia di persone nella remota regione occidentale di Gambella, agli abitanti dei villaggi viene spiegato che questo si deve all’affitto di vaste superfici concesso a operatori agricoli privati, come riferisce una associazione per i diritti umani.
Secondo il rapporto Waiting for Death di Human Rights Watch i trasferimenti di persone nell’ambito del programma cosiddetto villagisation avvengono senza consenso e indennizzo. Le persone vengono spostate in luoghi privi di adeguato sostentamento, servizi sanitari, scuole. E non sono mancate minacce, aggressioni, arresti del tutto arbitrari, per chi oppone resistenza. Human Rights Watch l’anno scorso ha condotto fra maggio e giugno cento interviste in Etiopia, e fra abitanti di Gambella fuggiti nei campi profughi del Kenya, rilevando ripetute e “generalizzate” violazioni di diritti in ogni fase del programma.
“Il programma di villaggizzazione del governo etiopico non migliora certo la condizione dei servizi per le popolazioni indigene di Gambella, mettendone invece a repentaglio qualità della vita e sopravvivenza” spiega il direttore europeo dell’associazione Jan Egeland. “Si devono sospendere le operazioni fino alla predisposizione dei servizi indispensabili, adeguate consultazioni con gli abitanti e indennizzi per la perdita dei terreni”.
Gambella è grande come il Belgio, ha una popolazione di 307.000 persone, principalmente indigeni Anuak e Nuer. Il suolo fertile interessa gli investitori anche internazionali, che hanno affittato a prezzi convenienti ampie superfici. Complessivamente in Etiopia dal 2008 al gennaio 2011 si sono affittati così almeno 3,6 milioni di ettari.
Altri 2,1 milioni di ettari sono disponibili attraverso la governativa banca federale terreni per gli investimenti agricoli. In Gambella, ben il 42% della superficie secondo i dati del governo è stata già concessa o è disponibile agli investitori. E molti dei territori da cui vengono spostate le popolazioni si trovano all’interno dei queste zone destinate all’affitto commerciale.
Gli investitori sono come il miliardario saudita Mohammed al-Amoudi, che sta costruendo un canale di irrigazione da trenta chilometri per dare acqua a 10.000 ettari a risaia, o imprese etiopi che operano anche su meno di 200 ettari.
Secondo il rapporto il governo continua a negare il rapporto fra deportazioni a Gambella e affitti per l’agricoltura commerciale, però agli abitanti dei villaggi è stato detto dai funzionari che è proprio questo il motivo del trasferimento.
Un agricoltore racconta a Human Rights Watch che all’assemblea di villaggio convocata, il rappresentane del governo ha detto: “Ci sono investitori che possono far crescere prodotti meglio di voi, che non sapete sfruttare i terreni, lasciati incolti”.
Entro il 2013 secondo il governo dovranno essere spostate così un milione e mezzo di persone, in quattro regioni: Gambella, Afar, Somali, e Benishangul-Gumuz. Si è cominciato nel 2010 in Gambella, con circa 70.000 abitanti da trasferire entro il 2011. Secondo il programma dovrebbe trattarsi di spostamenti volontari, con assicurati nei nuovi villaggi infrastrutture e servizi per il sostentamento.
E invece, secondo il rapporto, nei nuovi villaggi non c’è nulla.
I primi trasferimenti si sono effettuati nel periodo peggiore dell’anno – l’inizio del raccolto - e i terreni agricoli delle nuove aree sono molto poco fertili e secchi. C’è da disboscare, senza alcun sostegno per sementi o fertilizzanti. L’assenza di sostegni anche solo alimentari ha determinato denutrizione e fame endemica, secondo Human Rights Watch.
Si chiede perciò che a livello internazionale si sospendano tutti gli aiuti per quella che è una deportazione forzata e una violazione dei diritti umani con la scusa dello sviluppo. L’Etiopia rappresenta una delle principali voci nella spesa mondiale sia per lo sviluppo che per l’assistenza alimentare. Solo nel 2010 ha ricevuto oltre 700.000 tonnellate di alimenti e più di due miliardi di euro. Fra i principali paesi donatori il Regno Unito, che dovrebbe dare 500 milioni di euro l’anno fino al 2015.
Si tratta solo dell’ultimo rapporto critico di Human Rights Watch sull’Etiopia. Nel 2010, un altro accusava il governo Meles Zenawi di usare gli aiuti allo sviluppo per reprimere il dissenso, condizionandone l’erogazione al sostegno per il partito di maggioranza, accusa sempre fermamente respinta.
Democrazia annacquata
di Guglielmo Ragozzino
Ieri, a metà giornata, la Camera dei deputati ha votato in segreto contro l'arresto, giusto o sbagliato che fosse, di Nicola Cosentino, un suo membro. Sei mesi orsono, 26 milioni di voti nel referendum sul «legittimo impedimento», avevano stabilito che tutte le persone sono uguali davanti alla legge. Per il Parlamento, Cosentino è dunque più uguale degli altri. Poche ore prima la Corte Costituzionale aveva reso noto la bocciatura della richiesta di referendum abrogativo sulla attuale legge elettorale, quella nota come «porcellum», sostenuta da 1,2 milioni di cittadini. Il giorno prima il governo autorevolmente rappresentato da Mario Monti aveva esposto «le norme generali sulle liberalizzazioni e tutela dei consumatori», a supporto della precedente manovra del 6 dicembre «Salva Italia». Lo aveva fatto a Berlino, ottenendo l'invocato plauso di Angela Merkel, la Cancelliera. Non una parola sui referendum sull'acqua.
Il senso di fastidio dei poteri sui referendum idrici si esprime in una frasetta: «Il presente articolo 18 non si applica al servizio idrico per il quale rimangono ferme le competenze dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas...» Ecco chiamata in causa una quarta Autorità centrale.
Camera, Corte, governo mostrano di non tenere in considerazione la volontà popolare, giusta o sbagliata che sia. Il referendum sull'acqua, preparato su migliaia di tavoli, in una discussione pubblica diffusa è malvisto da chi è convinto che l'acqua sia buona solo da vendere e che venderla sia un grande affare, il più grande del secolo, purché ritorni nella disponibilità dei gruppi multinazionali. I soliti 26 milioni - noi - sono folclore italico, non certo un modello per i popoli della Terra.
Nei decreti, quello di dicembre e quello di gennaio, sono esposti molti provvedimenti che, presi tutti insieme, trasformano il nostro paese in un modello diverso, nel quale la maggioranza dei cittadini, ancor di più gli stranieri che si sono uniti a noi, vivrà una vita più grama. Il motivo è la crisi, ora declinata nell'astrazione dello «spread», una spirale che potrebbe inghiottire tutto quello che abbiamo. Difendere il «porcellum» e Cosentino; disprezzare o deridere, a Berlino, la volontà popolare: in che paese siamo finiti?
Il governo ci vuol convincere a cedere pezzi di salario, di pensioni, di democrazia, di libertà: il Parlamento vota tutto. È una stretta implacabile, conseguenza della crisi; oppure è un veritiero caso di «Shock Economy». Naomi Klein potrebbe prendere in considerazione l'Italia se mai scrivesse una nuova edizione del suo libro. Travolti dalla crisi, terrorizzati dal gorgo spaventoso detto «spread», dovremmo accettare una democrazia a scartamento ridotto e soprattutto consentire che le libertà sindacali e sociali che l'articolo 18 della legge 300 del 1970 rappresenta per tutta la popolazione, vadano in fumo.
Da quarant'anni infatti, nel bene e nel male, la popolazione vi riconosce un principio generale di eguaglianza e giustizia. Per questo è affezionata a quel che è stato e significa ancora; sarà arduo scippare l'art 18.
Una barbarie giuridica incostituzionale
di Alberto Lucarelli
Nel testo della bozza di decreto legge sulle liberalizzazioni circolato in queste ore suscita particolare sconcerto la disposizione di cui all'art. 20. Tale disposizione, marginalizzando l'ambito di applicazione dell'azienda speciale ex art. 114 del testo unico sugli enti locali, rischia di vanificare di fatto il vittorioso esito dei referendum dello scorso giugno contro la privatizzazione dell'acqua, in attuazione del quale il Comune di Napoli ha (primo in Italia) provveduto a trasformare la natura giuridica del soggetto incaricato di erogare il servizio idrico integrato.
In primo luogo, nella fattispecie, si segnala un abuso dello strumento giuridico del decreto legge, con il quale si procede ad un riforma ex abrupto di interi settori dell'economia nazionale (servizi pubblici locali, commercio, trasporti, professioni), in assenza di adeguata meditazione, nonché dei requisiti previsti dall'articolo 77 Cost. Si realizza, in tal modo, per il tramite di un illegittimo ricorso alla decretazione d'urgenza, un tradimento della volontà popolare espressa a seguito dei referendum.
Il decreto in oggetto, così come già l'art. 4 del decreto di Ferragosto, ripropone la medesima disciplina contenuta nell'art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e successivamente abrogato tramite lo strumento offerto dall'art. 75 della Cost. La giurisprudenza costituzionale ha avuto più volte modo di affermare l'illegittimità della riproposizione sostanziale di normative abrogate con referendum. Lo stesso art. 18 della bozza di decreto ("Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali"), riaffermando di fatto una disciplina abrogata (e limitandosi semplicemente ad eliminare i riferimenti al servizio idrico), comporta un'indebita restrizione dell'ambito di applicazione del referendum (che ha avuto ad oggetto l'intero art. 23-bis e non certo il solo servizio idrico). Anche volendo ammettere la legittimità delle parti del decreto richiamate, la disciplina dei servizi pubblici locali che ne deriva appare decisamente sbilanciata in favore di modi di gestione privatistici, in assoluta violazione del diritto comunitario.
Infine, del tutto ambigua è la riconducibilità del servizio idrico integrato al novero dei servizi di interesse economico generale, attesa la peculiare natura del bene acqua, strettamente collegato a diritti fondamentali (si pensi al diritto alla salute). È evidente che ci troviamo di fronte ad un subdolo disegno eversivo di disarmo del diritto pubblico e delle garanzie ad esso collegate, concepito ad arte per neutralizzare l'imponente movimento politico e culturale sorto in questi mesi a tutela dei beni comuni.
Le grandi manovre dei privatizzatori
di Andrea Palladino
Obiettivo del decreto è quello di svuotare il referendum che, nel primo quesito, riguardava tutti i servizi pubblici locali Gli ecodem: «Non voteremo questo imbroglio. Serve una grande mobilitazione»
Sette mesi è durata la manovra che metterà la mani nella vita quotidiana degli italiani. Un tempo in definitiva breve per cambiare nel profondo il paese, con la più grande privatizzazione mai concepita in Europa dopo l'era Thatcher. Sette mesi, due governi, tre provvedimenti ed un certosino lavoro della più potente lobby economica, quella espressa dai giganti dei servizi pubblici. Sono loro, alla fine, i principali beneficiari del corposo decreto che il governo di Mario Monti sta preparando.
Speravano nel silenzio, cercavano di bloccare le prime indiscrezioni, inviando giovedì sera alle agenzie uno stringato comunicato che cercava di smentire quel testo arrivato nelle redazioni. Un tentativo goffo, che ieri non ha avuto replica, dopo la pubblicazione di ampi stralci del provvedimento..
Le grandi manovre dei privatizzatori hanno una data d'inizio chiara, il 14 giugno scorso. Ovvero il giorno del conteggio dei 27.637.943 voti espressi dagli italiani per abrogare due norme centrali sull'acqua e sulla gestione dei servizi pubblici locali. Un evento storico, ma in fondo facilmente spiegabile: in ballo c'era quello che le multinazionali chiamano «l'essenziale per la vita». Oltre ai servizi idrici quelle norme abrogate riguardavano la gestione dei rifiuti, il trasporto pubblico, gli asili nido, le farmacie comunali. Per questo il successo dei referendum è stato travolgente. Quasi ventotto milioni di persone hanno capito che in ballo c'era molto di più di un acquedotto o di una fontanella pubblica, si trattava in fondo della qualità della vita.
La prima mossa la compie il parlamento, approvando il 21 giugno l'istituzione dell'Agenzia regolatrice dei servizi idrici. Un'autority, ovvero lo strumento principe dei mercati liberalizzati. Già allora spunta la parola chiave, liberalizzazione: «Potete scegliere il servizio migliore», si poteva leggere tra le righe dei commenti usciti dalle bocche e dalle penne dei pasdaran della privatizzazione. «Diminuiranno i prezzi», «Eliminiamo la gestione politica e le poltrone nei Cda» e, immancabile, «Il mercato è in grado di regolare i servizi essenziali».
Dopo il primo passo del parlamento si è aperto un fronte ampio quanto silenzioso, con l'obiettivo dichiarato di svuotare i referendum. Il primo luglio è intervenuta la lobby dei gestori dell'acqua, l'Ania (Associazione nazionale autorità e enti di ambito territoriale). Durante l'assemblea annuale si discute degli «effetti dei referendum». E spiegano: c'è «incertezza sulla normativa applicabile agli affidamenti dei servizi pubblici locali»; e ancora: «ridotta finanziabilità degli investimenti». Una richiesta chiara di interventi per bloccare il cambiamento voluto dagli elettori.
Pochi giorni prima, il 24 giugno, era intervenuto il docente di diritto pubblico Giulio Napolitano - figlio del presidente della Repubblica - che in un documento richiesto dalla romana Acea spiegava come difendere lo status quo: «Il referendum non ha nessun effetto sui rapporti in corso». Acea poteva stare tranquilla, quel voto non avrebbe messo in discussione la grande privatizzazione alla romana, avviata nel 1998 da Francesco Rutelli. E il futuro? Qui entra un punto chiave, che verrà ripreso dall'intervento del governo Monti. Scrive Giulio Napolitano: «L'intera materia dei servizi pubblici (...) rimane disciplinata dal testo unico sugli enti locali». Segnamoci questo passaggio.
Il 3 luglio inizia il ballo dello spread. Sono i conti pubblici il tema quotidiano dei giornali e, rapidamente, il referendum viene archiviato. In un mese e mezzo il governo Berlusconi-Tremonti prepara l'intervento della vigilia di ferragosto, dove appare, all'articolo quattro, la norma Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'unione europea. In sostanza il ministero dell'Economia riprende l'abrogato 23 bis della legge Ronchi e lo riporta - con un vero copia e incolla - nel pacchetto, escludendo il solo servizio idrico. È un imbroglio, in realtà, perché il primo quesito referendario riguardava tutti i servizi pubblici locali. Si avvia così la privatizzazione forzata dei rifiuti, del trasporto pubblico locale e di altri pezzi di vita quotidiana. Un pacchetto confermato - e rafforzato - dal decreto sviluppo, ultimo atto del governo di Silvio Berlusconi. I professori stavano già scaldando i muscoli.
A fine novembre arriva Mario Monti, curriculum da economista ed esperto di quella parola che da mesi girava attorno ai referendum e ai servizi pubblici locali: la liberalizzazione. Il paese è ingessato, bloccato dalle corporazioni, serve aria nuova, è il leit-motiv che intasa le cronache politiche. Si prepara l'atto finale.
La bozza del decreto Monti uscita giovedì ha tre articoli micidiali sui servizi pubblici: il 18, il 19 e il 20. I primi due rafforzano - e nessuno ne sentiva il bisogno - il ripescaggio del 23 bis della legge Ronchi preparato dal governo Berlusconi. L'articolo 20 va più in profondità, riallacciandosi alla sottile analisi di Giulio Napolitano, che tanto aveva tranquillizzato Acea. Intacca un articolo cardine del testo unico degli enti locali, escludendo dalla gestione pubblica - ovvero dagli enti non economici, come le aziende speciali e i consorzi - i servizi locali, acqua inclusa. Tutte le gestioni, in questa maniera, dovranno essere affidate solo alle società per azioni, possibilmente sorrette dal capitale privato. Non solo. I comuni in difficoltà finanziaria dovranno cedere quote prima di bussar cassa allo stato centrale.
Il cerchio ora è dunque chiuso. Manca il passaggio finale, il voto in parlamento, dove essenziale sarà il partito democratico. Gli ecodem spiegano che questo imbroglio loro non lo voteranno, e lo stesso Roberto Della Seta chiede aiuto anche ai movimenti: «Serve una grande mobilitazione dei comitati referendari», spiega al manifesto.
Oggi il quadro è ormai chiaro. La lunga marcia in stile Thatcher sta per arrivare all'ultima tappa.
norma «tecnica» che azzera la ripubblicizzazione di Napoli
di Corrado Oddi
Il governo ha ignorato tutti gli appelli dei movimenti. Ora fa il colpo di mano per esautorare i comuni
In molti si sono cimentati nella discussione sulla discontinuità o meno del governo Monti rispetto al precedente governo Berlusconi. Molto ci sarebbe da dire in proposito, ma certamente non si sbaglia ad evidenziare come non sia cambiato il metodo di accreditare ipotesi e regolarsi sulla base delle reazioni che esse suscitano. Non si può pensarla diversamente rispetto al fatto che nella giornata di ieri sono girati varie versioni sul presunto testo del decreto legge sulle liberalizzazioni che il governo dovrebbe varare il prossimo 20 gennaio.
Non è certamente un bel modo di fare la discussione, ma si rischia di non potersi sottrarre a quest'esercizio poco edificante se il governo sceglie di non confrontarsi con i soggetti che sono portatori delle varie istanze e rappresentanze sociali. Questo vale anche sul tema dei referendum del giugno scorso sull'acqua pubblica: subito all'indomani dell'insediamento del governo Monti il Forum dei movimenti per l'acqua ha chiesto un incontro con il Presidente del Consiglio per poter discutere sull'applicazione e il rispetto dei due referendum che hanno sancito che la gestione del servizio idrico deve essere pubblica e che su di esso non si possono fare profitti.
Questa nostra richiesta è stata del tutto ignorata; in compenso, ieri ci è toccato leggere un testo del presunto prossimo decreto del governo che all'art. 20 contiene una dizione molto tecnica, ma che assesta un colpo molto pesante alla volontà referendaria espressa dalla maggioranza assoluta dei cittadini italiani. Lì si dice che le Aziende speciali, soggetti di diritto pubblico e non società per azioni che operano allo scopo di produrre utili, sono abilitate a gestire solo servizi pubblici «diversi dai servizi di interesse economico generale». Uscendo dal tecnicismo, il governo vuol dire che il servizio idrico, considerato servizio di interesse economico generale - anche se ci sarebbe molto da dire su ciò - potrebbe essere gestito solo tramite gara o da società per azioni, eliminando il punto più importante dell'esito del primo referendum sull'acqua, quello che ha nuovamente reso possibile una gestione realmente pubblica del servizio idrico stesso. Per dirla in un altro modo, si vuole cancellare l'esperienza che ha iniziato il Comune di Napoli, trasformando la società per azioni a totale capitale pubblico che gestisce il servizio idrico in Azienda speciale, e che potrebbe interessare in tempi brevi la gran parte del nostro Paese. In più, il presunto testo del decreto rafforza la volontà privatizzatrice in materia di trasporto pubblico locale e ciclo dei rifiuti che era già stata messa in opera con la manovra dell'estate scorsa del governo Berlusconi, che contravveniva platealmente con il risultato referendario. Infine, si continua a non dare applicazione al fatto di togliere la remunerazione del capitale investito dalle tariffe del servizio idrico, non rispettando così quanto dettato dalla stessa Corte Costituzionale sul secondo quesito referendario.
È bene che il governo cambi completamente rotta: cancelli i provvedimenti ipotizzati sulle Aziende speciali, consideri il ruolo fondamentale svolto dai servizi pubblici locali anziché lavorare per la loro privatizzazione, dia applicazione all'eliminazione del profitto sulle tariffe, si confronti con chi rappresenta la volontà di 26 milioni di cittadini. Come è necessario che le forze politiche e sociali si pronuncino in modo chiaro per evitare che sia inferto un grave colpo alla democrazia nel nostro Paese. Si sappia che, comunque, la mobilitazione del popolo dell'acqua è già in corso e si intensificherà nei prossimi giorni, con iniziative in tutto il Paese, con la campagna di obbedienza civile per il ricalcolo delle bollette, con l'azione perché si affermi una gestione realmente pubblica del servizio idrico.
L’Europa agricola gira pagina. Più soldi andranno a chi proteggerà il paesaggio rurale. A chi curerà i terrazzamenti, le siepi, gli stagni, i fossi, i filari di alberi. A chi, invece delle immense estensioni di solo grano o di solo mais, preferirà differenziare le colture e quindi la biodiversità. A chi farà dell’agricoltura un fronte per frenare i cambiamenti climatici. La svolta era nell’aria. Ora è nero su bianco nella bozza della nuova Pac (la Politica agricola comunitaria) messa a punto dalla Commissione europea e valida dal 2014 al 2020. Adesso comincia un faticoso lavorìo perché i singoli paesi proporranno aggiustamenti. La traccia resta però questa ed è chiara la prescrizione a praticare un’agricoltura che recupera metodi tradizionali a scapito di un’agricoltura industriale.
«Stavolta, invece di una vaga esortazione, l’Europa investe fondi nella tutela del paesaggio, favorendo chi limita le emissioni di carbonio e i concimi chimici e contrastando un’agricoltura divoratrice di energia», spiega Mauro Agnoletti, professore alla Facoltà di Agraria di Firenze, fra i promotori di questa inversione di tendenza.
La Pac destina in sette anni 400 miliardi di euro all’agricoltura comunitaria. 1 miliardo e 200 milioni ogni anno sono indirizzati a interventi agro-ambientali, il cosiddetto greening. Uno dei punti di svolta è l’incentivo a chi diversifica le colture. L’articolo 30 stabilisce che per accedere ai finanziamenti, ogni agricoltore che possiede oltre 3 ettari di superficie deve praticare almeno 3 diverse coltivazioni: chi possiede 100 ettari può seminarne a granturco, per esempio, non più del 70 per cento, il 15 deve destinarlo a pomodori o melanzane, il restante 15 a legumi o ad alberi da frutta. «L’Europa finanzia chi salvaguarda un mosaico paesaggistico complesso, che è una delle caratteristiche più apprezzate del paesaggio rurale italiano e che però nel nostro paese si è andata perdendo, si è semplificata e banalizzata, non solo a causa dell’espansione edilizia, ma anche per l’abbandono dei terreni, circa 130 mila ettari l’anno, e per l’incedere dei boschi, che aumentano di 80 mila ettari l’anno», aggiunge Agnoletti.
L’Europa indica un’altra strada. Almeno il 7 per cento di ogni proprietà (recita l’articolo 32) deve essere costituito da "aree di interesse ecologico", che possono avere al loro interno terreni a riposo, terrazzamenti e altri "elementi caratteristici del paesaggio", che poi andranno definiti territorio per territorio, ma di cui la Commissione stila una prima lista: terrazzamenti, siepi, alberi in filare... «L’Italia dovrebbe includere altri elementi, come colture promiscue, viticoltura, olivicoltura e frutticultura tradizionale», insiste Agnoletti. E poi vanno conservati i prati permanenti e le superfici per il pascolo, che in Italia sono diminuiti da 6 milioni (1861) a 3 milioni di ettari odierni.
«È molto significativa l’attenzione ai terrazzamenti, che hanno caratterizzato per secoli il paesaggio italiano, dalla Valtellina alla Toscana alla costiera amalfitana», spiega Agnoletti. Laddove sono stati conservati, hanno anche impedito le frane, come in Liguria: «Per conto del Fai abbiamo condotto un’indagine nelle zone distrutte dall’alluvione di ottobre. Solo in 5 casi su 88 le frane hanno interessato terrazzamenti. Nel 95 per cento hanno investito terrazzi abbandonati e invasi da vegetazione arborea o arbustiva».
UN ACCORDO TIEPIDO PER UN PIANETA
CHE HA LA FEBBRE ALTA
di Pietro Greco
I diplomatici parlano di una «svolta storica», arrivata dopo una estenuante maratona notturna. Ma quanto vincolante potrà essere la «piattaforma di Durban» se Usa, Canada, Giappone e Russia continuano a sfilarsi?
Con una sfibrante maratona, che si è conclusa ieri mattina alle ore 4.44, il ministro degli esteri del Sud Africa, signora Maite Nkoana-Mashabane, si è scrollata di dosso le ingiuste accuse di inefficienza avanzate dalle delegazioni di Francia e Germania, ha ottenuto il voto unanime dell’assemblea e ha evitato il fallimento diplomatico di Cop17, la diciassettesima Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione Onu sui Cambiamenti del Clima. Era visibilmente soddisfatta, addirittura entusiasta e fresca come una rosa Maite Nkoana-Mashabane, ieri mattina all’alba. E dal suo punto di vista di ministro degli esteri del paese ospitante Cop17 ne aveva ben donde. Nessuno, sabato sera, avrebbe scommesso un soldo bucato su questo accordo finale. Onore al merito di Maite e dei diplomatici del Sud Africa, dunque.
Quanto alla sostanza dell’accordo, il giudizio va quanto meno articolato.
Tenendo conto che erano almeno tre le questioni importanti in discussione: Cop17 e l’accordo globale per mettere su politiche comuni di contrasto ai cambiamenti climatici; il rinnovo del Protocollo di Kyoto, che riguarda i soli Paesi di antica industrializzazione e che scade nel 2012; il Green Climate Fund, che a regime (nel 2020) dovrebbe mettere a disposizione dei paesi in via di sviluppo 100 miliardi di dollari l’anno per cooptarli nella lotta ai cambiamenti climatici. Ebbene Cmp7, la Conferenza delle parti che hanno ratificato il Protocollo di Kyoto è fallita. Almeno parzialmente. Perché non solo gli Stati Uniti, ancora una volta, non lo hanno ratificato, ma Canada, Giappone e Russia si sono sfilati. Non lo rinnoveranno alla sua scadenza. Solo l’Unione Europea e una manciata di piccoli paesi (Norvegia, Svizzera, Australia) hanno concordato di rinnovarlo fino al 2018. Quanto al Green Climate Fund si è deciso sì di implementarlo. Ma senza un’immediata dotazione di fondi. Si è creato il contenitore: e c’è chi lo considera un successo. Ma il contenitore è clamorosamente vuoto: e questo è un dato di fatto.
Eccoci, dunque, al piatto forte (si fa per dire). Quello che ha fatto gridare all’inatteso successo Maite Nkoana-Mashabane, i rappresentanti dell’Europa e molti altri. I quasi duecento Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione sul Clima riconoscono non solo che il cambiamento è reale e indesiderabile, ma anche che occorre uno sforzo congiunto, da parte di tutti, per contrastarlo. Questo sforzo deve consistere in un accordo, che dovrà avere «forza legale», che dovrà essere concluso entro il 2015 per diventare operativo a partire dal 2020. È un accordo con un’architettura barocca. E si espone a una duplice e divergente valutazione. Da un lato c’è chi saluta la novità politica: è la prima volta che c’è un accordo globale sulla necessità di un’azione congiunta nel quadro di impegno che abbia «forza legale». E, dunque, Durban ha realizzato quello che nessun’altra conferenza aveva mai ottenuto.
QUEI MALEDETTI 2 GRADI IN PIÙ
Dall’altro c’è chi guarda all’accordo con occhi tecnici: questo accordo non garantisce affatto che l’umanità riuscirà a contenere entro i 2 ̊C l’aumento della temperatura rispetto ai livelli dell’era pre-industriale. Entrambe sono delle verità. E tocca a ciascuno di noi valutare quale sia quella preminente. Intanto a Durban si contano, come sempre succede in queste occasioni, vincitori e vinti. Vincitore politico è certo il Sud Africa. Nonostante i sopracciò franco-tedeschi ha dimostrato di saper condurre in porto una barca oltremodo sgangherata. Vincitore è l’Unione Europea che si è ripreso lo scettro (effimero?) della leadership nella lotta ai cambiamenti climatici che Obama le aveva sottratto solo due anni fa a Copenaghen. Sconfitta – ma non troppo – è l’amministrazione Obama. È vero che non guida la carovana mondiale, ma è anche vero che potrà affrontare la prossima campagna elettorale per le presidenziali senza vincoli che la possano compromettere.
Restano invece nel limbo le grandi economie emergenti, la Cina, l’India, il Brasile. È vero che sono riuscite a non farsi lasciare il cerino in mano. Ma è anche vero che non sono riuscite ad assumere una posizione di leadership con la quale consolidare la loro scommessa sulla «green economy». Per loro, come per il clima, il passaggio a Durban è stato interlocutorio.
Corsivo
L’ULTIMA SUPERPOTENZA
di Pi.Gre.
L’accordo c’è e, infatti, i diplomatici parlano di successo. Ma è un accordo ancora privo di contenuti sostanziali. E, infatti, gli ambientalisti e molti scienziati parlano di grosso insuccesso. La domanda, allora, è: a che servono queste grandi assise del circo ecodiplomatico tipo Durban? La domanda è decisamente pertinente, se a vent’anni da Rio e dalla stesura della Convenzione sul Clima siamo ancora a un abbozzo di contenitore senza contenuti. E se l’unica piccola anforetta con un minuscolo contenuto – il Protocollo di Kyoto – torna a pezzi dal Sud Africa. Eppure, dopo averne riconosciuto tutti i limiti e le insopportabili lungaggini, la risposta è: le conferenze delle Nazioni Unite sul clima e sull’ambiente servono. Non fosse altro perché non hanno alcuna alternativa. Né efficiente, né democratica. L’Onu è barocca e inefficiente. Non è certo il governo ideale per affrontare i grandi problemi globali. Ma nessuno ha trovato finora di meglio. Nulla da fare, allora? Niente affatto. Occorre che scenda in campo, finalmente, l’unica, vera superpotenza residua: l’opinione pubblica mondiale. I governi, come i mercati, sono miopi. Non riescono ad alzare lo sguardo nel lungo periodo. Solo l’opinione pubblica mondiale ha la vista adatta. Purché sia sveglia e apra gli occhi.
L’UE: «UNA SVOLTA STORICA»
MA GLI AMBIENTALISTI:
«NON SONO PREVISTE SANZIONI»
di Emidio Russo
Entusiasmo a Bruxelles, che vede premiata la sua strategia. Anche il segretario generale Ban Ki-moon plaude. Ma il Wwf e il mondo ambientalista non è d’accordo: «Non è un accordo reale, mancano i vincoli».
L'accordo raggiunto a Durban nella notte tra sabato e domenica che stabilisce una nuova «road map» per il clima rappresenta «una svolta storica nella lotta contro i cambiamenti climatici»: lo afferma in un comunicato la Commissione europea. La soddisfazione, dopo un rush finale che aveva fatto temere i più che il vertice si sarebbe concluso con un clamoroso fallimento, è palpabile. «La strategia dell’Unione europea ha funzionato», afferma Bruxelles. «Quando numerose parti in causa hanno detto che Durban avrebbe dovuto soltanto applicare le decisioni prese a Copenaghen e Cancun, l’Ue aveva espresso il desiderio di una maggiore ambizione. Ed è quello che ha ottenuto», ha spiegato il Commissario europeo Connie Hedegaard, citato nel comunicato. «Kyoto divideva il mondo in due categorie, ora avremo un sistema che riflette la realtà di un mondo interdipendente», ha aggiunto il commissario europeo, che ha svolto un ruolo importante nelle trattative arrivate all’accordo dell’altra notte. «Con l'accordo sulla road map verso un nuovo quadro legale nel 2015 che includerà tutti i Paesi nella lotta contro i cambiamenti climatici, l'Ue ha raggiunto i suoi obiettivi chiave per la conferenza di Durban», ha concluso Hedegaard.
Anche il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, ha accolto con soddisfazione «la significativa intesa» raggiunta. La «piattaforma di Durban definisce il modo in cui la comunità internazionale si occuperà dei cambiamenti climatici nei prossimi anni», ha dichiarato Ban, poche ore dopo la fine delle trattative a oltranza che hanno impedito il fallimento della Conferenza.
AMBIENTALISTI CRITICI
Buona parte del mondo ambientalista tuttavia non è d’accordo. «Non hanno raggiunto un accordo reale, ma hanno attenuato i toni in modo che tutti saltassero a bordo», commenta Samantha Smith di Wwf International, notando che nel documento approvato non viene menzionato alcun tipo di sanzione. In base al protocollo di Kyoto del 1997 solo i Paesi industrializzati sono legalmente vincolati a ridurre le emissioni di carbonio, mentre quelli in via di sviluppo adottano misure su base volontaria. Con l’intesa raggiunta ieri, India e Cina si sono impegnate ad accettare invece in futuro target di emissioni legalmente vincolanti.
Critiche anche da Pechino: «Noi stiamo facendo quello che dovremmo e anche quello che voi non state facendo», ha detto durante i colloqui il negoziatore cinese Xie Zhenhua. Il riferimento era agli Stati Uniti, che nel 1997 non hanno ratificato Kyoto dicendo di non voler concedere alcun vantaggio competitivo alla Repubblica popolare. Il mondo, intanto, aspetta.
Esattamente sei mesi fa la vittoria referendaria contro la privatizzazione dell'acqua ha chiuso, nel senso comune e nell'opinione pubblica, un'intera epoca. Un’epoca che le oligarchie economiche e le loro schiere di cavalier serventi, più o meno “tecnici”, sono assai restie ad abbandonare, dichiarando invece guerra al 96% di "sì" referendari in Italia e al 99% dell'umanità in genere. A giugno il popolo italiano attraverso il voto democratico - termine che suona preoccupantemente démodé - tracciava di nuovo quel confine, ormai scoloratosi, fra merci e beni comuni, fra terreno dei diritti e terreno dei profitti, fra impresa di mercato e servizio pubblico d'interesse generale. Ciò accadeva dopo troppi anni d'indottrinamento neoliberista, in cui anche a sinistra ci si era convinti che il fine d'un servizio pubblico vitale fosse generare dividendi per gli azionisti e i beni comuni dovessero servire all'accumulazione di capitale privato. Il voto è stato quindi un colpo all’ideologia neoliberista che ci ha trascinati nella crisi teorizzando la fine d’ogni controllo democratico e d’ogni intervento politico sui mercati e sulla finanza, oltre che una democrazia anoressica, ridotta a mera partecipazione elettorale su agende preconfezionate. La buona novella del referendum italiano, promosso da una coalizione tanto vasta e socialmente radicata quanto squattrinata, ha fatto il giro del mondo e di tutta Europa.
Il primo messaggio che è arrivato negli altri paesi è stato semplice: le privatizzazioni e il dominio dei "mercati" non sono un destino naturale né un evento trascendentale, posto al di là della capacità d'intervento degli umani mortali. L’altro messaggio recepito è che, per poter ricondurre i nostri destini a portata di mano, dobbiamo metterci assieme, unirci, costruire reti sociali ampie ed inclusive. Dietro la vittoria referendaria, infatti, vi è un lungo processo molecolare che ha compattato, attorno all'acqua simbolo dei beni comuni, una miriade di soggetti locali e nazionali. Reti in grado d’elaborare proposte concrete, che consentano ai movimenti di "farsi direttamente legislatori". In Italia prima abbiamo usato lo strumento delle leggi d' iniziativa popolare, poi il referendum.
Possiamo tentare qualcosa di simile in Europa? Costruire un'alleanza sociale che, nel continente, sottragga l'acqua alla mercificazione, riaprendo così l'intero orizzonte dei beni comuni? A Napoli -unica città italiana che ha appena ripubblicizzato il servizio idrico, mostrando che ciò è ben possibile- sabato 10 e domenica 11 movimenti, sindacati, organizzazioni ambientaliste e molti altri soggetti sociali di tutta Europa si sono dati appuntamento, su invito del Forum italiano, per dar vita ad una rete continentale per l'acqua e per scrivere assieme un “manifesto” che fissi gli elementi condivisi, gli obiettivi e gli strumenti per realizzarli.
Perchè questa accelerazione, per un movimento che non scopre certo oggi l’impegno internazionale? Perchè allargare all'Europa il campo d'azione quotidiana, attraverso la creazione d’una rete stabile? In positivo la risposta è da ricercare nella vittoria italiana, in quella di un analogo referendum a Berlino e nei processi di ripubblicizzazione in Francia: i tempi per questo salto sono maturi. Ma la risposta è anche da ricercare nella crisi stessa. La Bce e la commissione europea, apertamente ridottesi a portavoce del potere finanziario, sono oggi una temibile minaccia per i beni comuni. Tuttavia l'Europa è, al contempo, anche la soluzione: non c'è salvezza senza Europa perchè il capitale si muove, ancor più potentemente che in passato, in una dimensione sovranazionale. Se non ci poniamo con efficacia a questa altezza, consci che nessun soggetto sociale, per quanto forte, è di per sè autosufficiente, e consci che la dimensione locale o nazionale non basterà ad arginare l'attacco del grande capitale ai beni comuni, ci troveremo più deboli e presto travolti dall'assalto della finanza globale, con il contorno di leggi nazionali e direttive europee privatizzatici. I beni comuni sono in pericolo - l'esperienza insegna come ad ogni attacco speculativo segua un ciclo di privatizzazioni e di saccheggio del patrimonio pubblico- ma allo stesso tempo sono anche la via maestra per l'uscita dalla crisi: sono una solida base di ricchezza collettiva che, se governata in modo partecipativo, non solo garantisce a tutti l'accesso a beni fondamentali, non solo ci traghetta al di là dell'eteronomia oligarchica in cui siamo immersi, ma può costituire anche il fondamento di un'altra economia, sociale e solidale. Un'economia della condivisione e della cooperazione anziché della competizione.
La nascente rete europea sceglierà così un cammino che appare quasi rivoluzionario, con i tempi che corrono, ossia quello della democrazia. Mentre il capitalismo finanziario accentua quei caratteri elitisti e mercatisti che costituiscono il vizio d'origine dell'Europa che conosciamo -come mostrano il referendum greco "negato", la lettera della Bce all'Italia e il tentativo di svuotare il referendum italiano appena vinto- di contro, come movimenti per l'acqua, risponderemo utilizzando per primi l'Iniziativa dei Cittadini Europei (attivabile con un milione di firme da raccogliere in almeno 7 paesi). L’Ice è il primo timido strumento di partecipazione democratica introdotto finalmente nell'Unione: dalla primavera del 2012 permetterà ai cittadini di spingere la Commissione a legiferare secondo la volontà indicata dal popolo europeo. Il nostro fine, ambizioso, è dar inizio a Napoli ad un percorso politico e culturale che porti dall'acqua e dai beni comuni fino a ridisegnare interi pezzi della fisionomia dell'Unione e delle politiche europee. Dal referendum italiano alle piazze degli indignados la richiesta di attivare forme di democrazia diretta sta attraversando il continente. Ad una finanza che vorrebbe sciogliere il popolo (Rossanda) e governarci direttamente, risponderemo avviando una campagna che recupererà pezzi di quella sovranità che ci è stata sottratta, per farci direttamente legislatori e artefici di un'altra Europa.
Se ci atteniamo alle parole del ministro dell’ambiente italiano Corrado Clini, c’è da essere davvero molto preoccupati. «Durban sarà una missione esplorativa sulle modalità per trovare più avanti un accordo»: questa la dichiarazione del ministro rilasciata in un convegno prima del suo arrivo qui a Durban. Signor Ministro, noi non ci possiamo permettere di rimandare, non abbiamo tempo. Il nostro pianeta ed il nostro clima rispondono alle leggi della fisica e non a quelle dell’economia stabilite dalle banche e dalle multinazionali. Sono il sistema economico ed il modello di sviluppo che devono velocemente adattarsi e non viceversa. Se non lo capiamo, non ne usciamo. Il caos climatico non aspetta e se ne frega dei giudizi delle agenzie di rating.
Le irresponsabili parole del ministro sono l’esempio lampante dello scontro in atto qui al Summit mondiale sul clima. Sono passati venti anni da quando i governi e le istituzioni sovranazionali si sono assunti il dovere di tirare fuori l’umanità dal rischio catastrofe a cui il sistema economico estrattivista e produttivista ci esponeva. Dopo venti anni siamo immersi nel caos climatico ed economico e c’è ancora chi pensa come il nostro governo di rimandare, privilegiando gli interessi economici di pochi.
Questo il «clima» qui a Durban, dove continua a mancare la volontà concreta di salvare il patto di Kyoto, unico strumento per imporre misure vincolanti ad i grandi inquinatori. E questo nonostante le aperture della delegazione cinese, disponibile a patto che i paesi industrializzati si assumano maggiori tagli in virtù delle responsabilità storiche per i 200 anni di precedente industrializzazione che ha garantito sviluppo ed egemonia economica ai grandi inquinatori del nord del mondo, Usa su tutti. Del resto, come dargli torto?
Ma in questo clima di sfiducia e tatticismo sono diversi i governi pronti a rassicurare corporation e banchieri sul fatto che nulla cambierà nel breve e medio periodo, domani chissà. Il presidente sudafricano Zuma, ad esempio, ha incontrato ieri 500 uomini d’affari del settore del carbone. Le multinazionali sudafricane producono il 90% dell’energia elettrica di tutta l’Africa sub sahariana attraverso il carbone ed ovviamente di riconversione e di riduzione delle emissioni non vogliono sentire parlare. Troppo alti i profitti ed il controllo sul mercato. Ed anche la barzelletta della difesa dei posti di lavoro non regge più. È ormai diffusa la consapevolezza che con la riconversione energetica si creerebbero almeno 14 volte più posti di lavoro che con il sistema centralizzato energetico basato sui fossili.
La rete Rigas presenta le proposte dei movimenti per il summit. Zanotelli: «Monti ha pronunciato 30 volte la parola crescita e mai ambiente. O si cambia o si muore»
Si è aperta ieri a Durban, in Sudafrica, nel silenzio dei media e nel sostanziale disinteresse della comunità internazionale, la 17° Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Conferenza incaricata di trovare in extremis un accordo sulla prosecuzione del protocollo di Kyoto, in scadenza alla fine del 2012, compito reso arduo dalla contrarietà di Usa e Cina e dall'indisponibilità di diversi paesi tra cui Russia, Canada e Giappone. L'appuntamento di Durban è destinato a concludersi con un nulla di fatto, come già è stato per gli ultimi vertici, in particolare quelli di Cancun 2010 e di Copenaghen 2009 dove pure l'attenzione era maggiore e le aspettative più rosee. Saranno circa 190 le delegazioni di negoziatori in rappresentanza di altrettanti paesi.
Per l'Italia sarà presente il neoministro dell'ambiente Clini, scettico da lungo tempo nei confronti del protocollo di Kyoto, che arriverà in Sudafrica senza una posizione chiara né impegni concreti. Dall'Italia sarà a Durban anche una delegazione di Rigas, la Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, che raccoglie oltre 70 organizzazioni tra comitati, associazioni e sindacati, e che ha convocato ieri mattina a Roma una conferenza stampa per lanciare la partecipazione della rete alle giornate sudafricane e presentare le proposte della società civile sul clima. Al tavolo, a dimostrare la necessaria convergenza tra società civile e mondo scientifico, padre Alex Zanotelli, Giuseppe De Marzo dell'associazione A Sud, Valerio Rossi Albertini del Cnr e Livio De Santoli, responsabile energia dell'ateneo La Sapienza.
L'appuntamento sudafricano arriva in un autunno di eventi climatici drammatici anche qui da noi. Le immagini delle ultime settimane con diverse zone d'Italia ricoperte dal fango e il tragico bilancio in termini di vittime ci riportano alle gravi implicazioni locali di una emergenza di dimensioni globali. Secondo Giuseppe De Marzo «quello che stiamo vivendo è prima di tutto un geocidio, un attentato al pianeta». Basta a confermarlo un unico dato: Kyoto indicava come obiettivo la riduzione delle emissioni del 5,2% sui livelli del 1990. I dati odierni parlano invece di un aumento del 30% negli ultimi due decenni, che significherebbe vedere aumentare la temperatura globale di circa 4°. «Di fronte a questa prospettiva ci chiediamo e chiediamo alla politica: come si crea occupazione e benessere? Con produzioni distruttive dal punto di vista sociale e ambientale o attraverso la riconversione del tessuto produttivo in chiave ecosostenibile? Su che infrastrutture è meglio investire? Su quelle che creano dissesto idrogeologico o su quelle che proteggono i territori? Quali notizie è giusto mettere in prima pagina? Le cronache stanche della politica o le reali emergenze cui siamo chiamati a far fronte?».
Il Cnr, per voce di Rossi Albertini, Responsabile Energia e nuove Tecnologie, sottolinea il ruolo della scienza nella sfida climatica. «Oggi più che mai occorre investire nelle nuove tecnologie invece di lasciare che se ne occupi la Cina. Ciò può avvenire creando al contempo occupazione specializzata, prodotti di eccellenza tecnologica e contribuendo a combattere gli stravolgimenti climatici». Per Livio De Santoli, de La Sapienza, «l'impegno delle università deve essere quello di occuparsi di questi temi in maniera proritaria, lavorando assieme alla società civile e elaborando proposte concrete. Una di esse riguarda la creazione di comunità dell'energia che vadano nel senso di un modello energetico distribuito, fondato sull'efficienza, sulle fonti rinnovabili e soprattutto, sulla partecipazione». Il Citera, centro studi de La Sapienza di cui De Santoli è direttore, ha aderito da alcuni mesi a Rigas, assieme alla quale porta avanti un lavoro di formazione e di articolazione sociale sul tema dell'energia. Padre Zanotelli, tra i fondatori di Rigas e promotore dell'appello Salviamoci con la Pachamama, ha richiamato infine l'attenzione sulla necessità di attivarsi su più livelli: «È chiaro a tutti oggi che o si cambia o si muore. Monti ha pronunciato oltre 30 volte nel suo discorso al Senato la parola crescita. Noi rispondiamo che vogliamo che siano invece messe al centro dell'impegno politico la nostra salvezza e quella della Madre Terra». Una impostazione che mira a mettere assieme democrazia, sviluppo, tutela dei beni comuni, occupazione, sostenibilità.
La delegazione sarà a Durban a partire dal primo dicembre per seguire i lavori del vertice e le discussioni e mobilitazioni della società civile, riunita nel People Space montato nel polo universitario della città sudafricana. Cittadina che rappresenta, tragica ironia della sorte, uno dei più grandi poli petrolchimici del continente africano e che proprio in questi giorni sta affrontando i devastanti effetti di una terribile tempesta tropicale destinata a rimanere negli annali per la devastazione e le morti causate.
Oggi si aprono a Durban, in Sud Africa, i lavori della 17a Conferenza delle parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti del clima (Cop 17), che nel 2012 compirà vent’anni, e la 7a Sessione delle parti che hanno sottoscritto il Protocollo di Kyoto. Il clima fisico tenterà così di strappare ai venti della crisi economica che soffiano sull’Occidente e alla tempesta finanziaria che squassa il Nord l’Europa e, in parte, il Nord America, l’attenzione dei media e, soprattutto, dei governi. Non sarà facile.
Così come sarà molto difficile che, alla chiusura dei lavori, prevista con la cosiddetta “sessione ministeriale” venerdì 9 dicembre, i rappresentanti di 190 e passa Paesi troveranno un qualche accordo significativo per contrastare, con politiche comuni di prevenzione (taglio delle emissioni di gas serra) e di adattamento, i cambiamenti del clima del pianeta.
Due i grandi temi sul tappeto, tra loro peraltro interconnessi. Il primo riguarda la definizione di un reale impegno di contrasto dei cambiamenti climatici giuridicamente vincolante per tutti i Paesi – ricchi, emergenti e poveri – che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite. Il secondo riguarda il Protocollo di Kyoto, che impegna i soli paesi di antica industrializzazione, ed è in scadenza nel 2012. Adattarsi ai cambiamenti climatici significa mettere ciascun paese nelle condizioni di rispondere al meglio all’aumento, in atto, della temperatura media del pianeta. Il guaio è che la temperatura non aumenterà in maniera omogenea nelle varie regioni del pianeta e, soprattutto, che il cambiamento ha effetti diversificati. L’adattamento impone una doppia sfida: una tecnica - allestire una costellazione efficace di interventi puntuali - l’altra economica: chi paga il conto (che si aggira intorno ad alcune centinaia di miliardi l’anno)? Mitigare i cambiamenti climatici significa prevenire, per quanto possibile ormai, gli aumenti della temperatura media: ovvero tagliare le emissioni antropiche di gas serra. La Convenzione sui cambiamenti climatici a tutt’oggi non prevede impegni vincolanti. Ma ora che tutti riconoscono la realtà e la gravità del fenomeno, occorre rispondere con urgenza a due domande: chi lo dovrà fare? Come?
Il Protocollo di Kyoto impegna in maniera concreta i Paesi di antica industrializzazione che l’hanno ratificata (anche se non sono previste sanzioni per gli inadempienti): ridurre le emissioni di gas serra di circa il 5% rispetto all’anno di riferimento 1990. A Durban occorrerà sia verificare chi lo ha rispettato e chi no, sia decidere se e come rinnovarlo per i prossimi anni.
Le due classi di decisioni che dovranno essere prese rispettivamente a Cop 17 - accordo globale su mitigazione e adattamento - e a Cmp 7 - rinnovo del Protocollo di Kyoto - sono fortemente interconnesse. Alcuni Paesi che hanno ratificato Kyoto - Giappone, Canada e Russia - hanno già fatto sapere che senza un accordo globale e senza un impegno concreto e vincolante per tutti, in particolare per Stati Uniti e Cina che sono i due massimi produttori di gas serra, non parteciperanno a nessun processo di rinnovo del Protocollo.
La situazione politica è drammatica, ma chiara: o a Durban si troverà una strategia globale oppure la politica di contrasto ai cambiamenti climatici tornerà indietro di vent’anni, a quando la Convenzione sul clima venne proposta a Rio del 1992.
Il quadro scientifico e politico, rispetto a Rio, è cambiato. Venti anni fa i paesi di antica industrializzazione erano ancora i massimi produttori di gas serra. Oggi il 58% delle emissioni avviene a opera di paesi che a Rio venivano definiti in via di sviluppo. Restano le antiche responsabilità - la gran parte dei gas serra di origine antropica accumulati in atmosfera sono stati emessi da Europa, Stati Uniti e Giappone. Ma occorre prendere atto che senza il contributo attivo di Cina, India, Brasile e di un’intera costellazione di paesi a economia emergente le politiche di mitigazione perdono molto del loro significato.
I nodi politici più importanti, dunque, sono tre. Gli Usa, che non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, si lasceranno coinvolgere in un accordo globale? E cosa farà la Cina, che ormai produce più carbonio di tutti ma continua ad avere un tasso di emissioni procapite inferiore a Usa e Europa? E cosa farà l’Europa? Finora è stata il locomotore del lento convoglio dei Paesi che intendono contrastare i cambiamenti climatici. Ma sopravvivrà la sua politica verde alla tempesta finanziaria ed economica che l’ha investita?
La crisi economica incombe su Durban. Molti ritengono che difficilmente l’Amministrazione Obama potrà assumere impegni stringenti e vincolanti, con uno dei due rami del Parlamento in mano ai repubblicani. Altri ritengono che l’Europa - dopo la figuraccia di Cop 15 a Copenaghen, dove fu esclusa dalle decisioni che contano - con la sua attuale debolezza sia ancora più marginale e comunque meno credibile. Forse le uniche speranze restano proprio i paesi a economia emergente: la Cina, il Brasile, la Corea del Sud. Non sono attraversati dalla crisi economica e stanno puntando molto - molto più di Usa ed Europa - sulla "green economy".
Saranno loro ad assumere la leadership della lotta ai cambiamenti climatici in una città, Durban, di un Paese simbolo degli emergenti, il Sud Africa? Vedremo a Durban quanto matura è la “coscienza ecologica degli emergenti”. E in che direzione andrà.
Le opzioni tecniche sono due. La prima è la politica dei vincoli stringenti, sul modello del Protocollo di Kyoto: precise quote di gas serra da abbattere, differenziate per paese. L’altra opzione è quella della "no-binding policy", degli impegni morali non vincolanti, sostenuti unicamente da meccanismi di mercato. È l’opzione del «liberi tutti di fare quel che si vuole e si può». L’unica oggi realistica, sostengono i suoi fautori. A causa della crisi, ma anche della storica ritrosia di Usa e Cina ad accettare vincoli alla propria sovranità e alla propria economia.
L’opzione no-binding, senza vincoli, sarà pure realistica. Ma ha un grande difetto: non offre alcuna certezza che gli obiettivi saranno raggiunti. La storia degli ultimi 20 anni dimostra che in un regime no-binding le emissioni di gas non diminuiscono. Ma crescono allegramente. Senza vincoli, appunto.
LA DEMOCRAZIA VIOLATA
Il doppio raggiro sul voto di giugno
di Gaetano Azzariti
«Si può continuare ad applicare una norma abrogata per via referendaria?». Hans Kelsen avrebbe giudicato priva di senso una simile domanda, bollandola come contradictio in adiecto. E poi, basta aprire un qualunque manuale di diritto costituzionale per leggere che l'unico effetto giuridico certo prodotto dal voto è appunto quello di rendere non più applicabile la norma oggetto del referendum. A dispetto di ciò, sebbene il 12 e 13 giugno del 2011 la maggioranza del corpo elettorale abbia eliminato la disposizione che stabiliva una «adeguata remunerazione del capitale investito» da garantire ai gestori dei sistemi idrici, questa norma è ancora applicata. L'elusione dell'esito referendario appare evidente. Secondo alcuni l'ultrattività della norma abrogata sarebbe giustificata dal permanere della necessità di garantire la copertura dei costi e le correlate ragioni di profitto per le aziende che gestiscono il servizio. Quest'argomentazione non ha fondamento alcuno. A dirlo è stata la Corte costituzionale, quando ha ammesso il referendum escludendo che ciò potesse incidere sulla nozione di "rilevanza" economica del servizio idrico integrato. L'eliminazione della voce «remunerazione del capitale» - ha scritto a chiare lettere la Corte - non presenta elementi di contraddittorietà, poiché se da un lato persegue chiaramente la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell'acqua, dall'altro non incide sulla nozione di tariffa come corrispettivo, la quale assicura «la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio».
Si può evidentemente non essere d'accordo nel merito della questione: per questo s'è svolta la consultazione referendaria e tutti coloro che hanno votato no al referendum evidentemente non erano concordi. Ma il referendum ha avuto un esito inequivocabile, e ora non rimane che dare seguito alla volontà del corpo elettorale. L'inerzia e la conservazione dei vecchi contratti di gestione per il servizio idrico si configurano come un grave vulnus al dettato costituzionale, che non dovrebbe essere accettato da nessuno, neppure da coloro che si sono democraticamente opposti, con il voto contrario, all'abrogazione della norma sulla remunerazione del capitale. È alla base del vivere democratico accettare le scelte della maggioranza (del corpo elettorale nel caso dei referendum, dei membri del Parlamento nel caso delle leggi). Tutti i soggetti politicamente responsabili dovrebbero, dopo il referendum, imporre alle aziende regole di gestione estranee alle logiche del profitto.
V'è poi un secondo raggiro compiuto ai danni del referendum. Uno dei due quesiti aveva a oggetto una norma (l'art. 23 bis del decreto Ronchi) relativa alle modalità di affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica. Come ha chiarito anche in questo caso la Corte costituzionale, l'abrogazione richiesta ha riguardato una disciplina generale, relativa dunque non solo al servizio idrico. Eppure nella manovra di agosto il governo allora in carica ha reintrodotto la medesima normativa, fatta salva l'acqua; in tal modo violando il divieto di reintroduzione della normativa abrogata. Alcune regioni (la Puglia), e lo stesso comitato promotore dei referendum vogliono proporre la questione dinanzi alla Consulta, sollevando un conflitto tra poteri dello Stato. Ma, al di là delle ragioni giuridiche e costituzionali che sostengono i ricorsi, c'è da chiedersi se non vi sia anche una questione politica e di democrazia.
Al governo Monti tutti riconoscono una profonda diversità di stile: non più le sguaiatezze del populismo berlusconiano, ma un atteggiamento rigoroso che legittima - anche politicamente - la "tecnica" di governo. Questo stile - se non vuole essere solo una forma apparente - dovrebbe anzitutto esprimersi nel rispetto della lealtà costituzionale e delle leggi. Ed è proprio il problema di lealtà costituzionale e di rispetto delle leggi che oggi pongono i promotori del referendum sull'acqua pubblica. Il passato governo ha adottato comportamenti e compiuto atti tendenti a invalidare l'esito referendario. Si tratta ora di rimediare.
LA PIAZZA
Una frazione del 99 per cento
di Pierluigi Sullo
Pochi avrebbero scommesso un soldo bucato sulla manifestazione nazionale per l'acqua convocata ieri a Roma. Invece per strada si è vista, come dicono gli organizzatori, la «persistenza» del movimento per l'acqua. CONTINUA|PAGINA3 Come dire: c'è stata la grande ondata, abbiamo vinto il referendum, la scelta di 26 milioni di cittadini è stata sostanzialmente ignorata da chi aveva il dovere di rispettarla, eppure non siamo tornati a casa.
È già un gran risultato, che in piazza si sia mostrata una frazione per niente secondaria del 99 per cento, come dicono gli occupy statunitensi: perché a soffiare contro non era solo la disperante sensazione che affliggeva anche quel tale della mitologia greca, che faceva quel che subito dopo veniva disfatto e così via all'infinito. C'è stata la disgraziata manifestazione del 15 ottobre, che ha lasciato scorie nell'animo della moltissima gente senza targa che l'aveva affollata all'inverosimile. Ma, ben più in profondo, nell'animo delle moltissime persone che si industriano a tutelare ciò che è "comune" - dall'acqua al paesaggio, dal lavoro alla democrazia - si è insediato un sentimento negativo, una sospensione depressiva, qualcosa che assomiglia alla paura. Beninteso, potrei sbagliare completamente e al contrario potremmo essere in una situazione di enorme effervescenza e voglia di inventare - facendola in pratica - una società del tutto differente da questa.
Perché è a questa soglia che siamo arrivati. E però, mi pare, la scomparsa del nemico domestico e la crisi di quello globale hanno spiazzato ogni genere di movimento sociale. Come se - ed è naturale che sia così - sia più facile riconoscersi nello specchio rovesciato di ciò che si vorrebbe cancellare.
Il nemico domestico, l'apparentemente immortale Berlusconi, è stato di colpo sostituito da qualcosa che è, se possibile, ancora più inflessibile, come avversario della società. Si ha un bel dire che le buone maniere e l'etica privata dei "tecnici" ora al governo sono un sollievo. È vero. Ma con il governo Monti si è affermata una post-democrazia che non finge più neppure di ricavare la sua legittimità dal "popolo". E il mantra, il rumore di fondo ossessivo che accompagna il professor Monti, scava nell'animo pubblico, vi deposita uova di terrore. Spread, bund, Mib, Bce, rating e le molte altre parole contudenti che vengono ripetute ogni giorno, per tutto il giorno, a noi che precipitiamo verso la Grecia, a noi che perdereno la nostra moneta, l'euro, senza saper immaginare quel che verrà dopo, mentre la crisi mastica posti di lavoro e redditi, scuole e università, spesa pubblica e servizi sociali.
Perfino i riflessi condizionati di ogni persona assennata di sinistra, quanto meno democratica, vengono contraddetti: se viene un governo di centrosinistra andrà meglio? E cosa potrà fare la sinistra dentro il centrosinistra? La "maggioranza" che sostiene Monti, e che comprende il Pd e il partito di Berlusconi, e i furbissimi democristiani di Casini, è la rappresentazione plastica di quel che i movimenti sociali degli Stati uniti sanno da sempre, salvo sperare per quale mese in un candidato presidenziale giovane e nero: che la politica è andata altrove, ostaggio dei consigli di amministrazione delle banche e dei fondi pensione che speculano sui titoli di borsa. Che, appunto, la democrazia che abbiamo conosciuto, con tutti i suoi pregi e difetti, ha cessato di esistere.
Se le cose stessero così, la domanda più importante sarebbe questa: come mai in Italia la frazione importante del 99 per cento che era in strada per l'acqua non riesce a mescolarsi davvero con le altre frazioni: che so, studenti e ricercatori, comunità che difendono il territorio dalla "crescita" Passera-style, sindacati che resistono alla tempesta della produzione finanziarizzata e globalizzata, reticoli di altra economia e di welfare autoprodotto, ecc. Una miscela da cui, come negli Stati uniti o in Spagna o adesso in Gran Bretagna, potrebbe nascere l'aspirazione concreta, e ottimista e sicura di sé e vaccinata dalle illusioni elettorali, a una democrazia dei beni comuni. Dicono gli occupy di San Francisco: «Questa rivoluzione non sarà privatizzata».
BENI COMUNI
«Obbedienti civili» per l'acqua pubblica
di Silvio Messinetti
Lucarelli presenta la rete europea delle città per i beni comuni. Napoli è la capofila I comitati chiedono di togliere il 7% dalle bollette e minacciano il boicottaggio
Centocinquanta giorni dopo, il popolo dell'acqua si ritrova ancora alla Bocca della Verità. Il 13 giugno festeggiava lo straordinario successo referendario. Oggi è di nuovo qui per non farsi scippare il voto popolare. «Quella che lanciamo da questo palco è una lettera di risposta alla Bce, ai poteri forti, alle multinazionali, alle banche, che vorrebbero privatizzare e liberalizzare servizi pubblici e beni comuni - urla dal palco Simona Santini del Coordinamento romano dell'acqua - perché non si svendono beni primari, e in quanto tali inalienabili, per far cassa». Che l'acqua non sia una merce lo hanno ben chiaro le decine di migliaia di persone che nel primo pomeriggio partono dall'Esedra. Il percorso lambisce in parte quello del 15 ottobre. Ma è una giornata di festa e non di scontri. E te ne accorgi dalle bandiere dell'acqua che sventolano da un palazzo di via Labicana dirimpetto a quella caserma dismessa del ministero della Difesa andata a fuoco 40 giorni fa. Lungo le vie dell'Esquilino e del Celio scivola il fiume di attivisti e militanti. Eterogeneo, multicolore, trasversale. Dalle parrocchie ai centri sociali, dai sindacati(Cgil, Cobas, Cub, Usb) ai partiti(Prc, Pdci, Sinistra Critica, Pcl, poche le bandiere di Verdi e Sel),dalle associazioni (Arci, Wwf, Legambiente) ai tanti senza bandiere : rappresentanti di piazza di quei 27 milioni di persone che chiedono che il voto vada rispettato. Altrimenti sarà "obbedienza civile", dicono all'unisono: una campagna dal basso che il Forum nazionale lancerà dal prossimo giugno.
Oggi gli "obbedienti" sono davvero in tanti. Provenienti da ogni lembo dello Stivale. Dalla Basilicata («280 mila sì in Lucania e guai a chi li tocca») alle valli piemontesi, dall'Abruzzo alla Liguria, dalla Sicilia all'Emilia. Nutrito lo spezzone campano col gonfalone del comune di Napoli e Alberto Lucarelli, assessore ai Beni comuni, bardato di fascia tricolore. «Siamo orgogliosi che il primo caso di ripubblicizzazione dell'acqua e di gestione pubblica e partecipata dei servizi idrici sia proprio quello partenopeo» esclama Concilia Salvo del Forum campano. Il riferimento è ad ABC Napoli, istituita dall'amministrazione De Magistris il 26 ottobre scorso. Ma non son tutte rose e fiori. Perché le multinazionali non mollano l'osso così facilmente. Prendiamo un caso di scuola, quello laziale. «Acqualatina, con l'avallo del presidente della provincia pontina Cusani (Pdl), ha convocato una riunione dei sindaci che hanno deliberato un aumento del 7% delle tariffe in spregio ai referendum - ci spiega Alberto Bianchi del Comitato acqua pubblica Latina - e contro i comuni che non hanno aderito il presidente ha avuto l'ardire di presentare (invano) ricorso al Tar e poi appello al Consiglio di Stato. Se l'aumento tariffario non verrà ritirato, e se si ostineranno a non rispettare il suffragio popolare, lanceremo un boicottaggio di massa, facendo saltare il banco non pagando le bollette».
Ma i "vampiri dell'oro blu" sono tanti. E non solo in Italia. Il Forum Palestina ricorda che «Israele sottrae l'80% dell'acqua proveniente dalle falde sotterranee della Cisgiordania ed il 100% di quella che scorre nel fiume Giordano negandone l'accesso ai palestinesi il cui 84% della popolazione non ha accesso alla quantità minima d'acqua raccomandata dall'Oms». C'è poi Veolia, il colosso francese di acqua e rifiuti, che fa il bello e il cattivo tempo in giro per l'Italia. Come in Calabria dove è socio privato della Sorical, la società idrica che gestisce i servizi idrici, «e dove l'aumento delle bollette ha superato il 20% - affermano Delio Di Blasi e Giuseppe Tiano del Coordinamento acqua pubblica Bruno Arcuri - con un assurdo e antieconomico spezzatino laddove l'adduzione dell'acqua spetta a Sorical, la gestione ai comuni e la depurazione viene data in appalto a ditte su cui stendiamo un velo pietoso considerato i danni che provocano all'ambiente in termini di inquinamento».
Insomma, la speculazione su acqua e beni comuni va avanti. Nonostante il responso del 13 giugno. Anzi, il governo uscente ha inserito in Finanziaria una nuova e più drastica serie di privatizzazioni, «per far pagare a tutti noi un debito odioso e illegittimo - dicono gli universitari di Atenei in rivolta - che noi non abbiamo creato, tutelando invece gli interessi degli artefici di questa crisi ossia banche e grandi imprese». Sia chiaro, dunque, che «l'acqua non è debito», gridano i manifestanti. Anzi «noi siamo in credito di trasporti, beni comuni e servizi pubblici perché li privatizzano».
Il messaggio è diretto anche a Mario Monti e ai suoi progetti di aumentare i tagli ai servizi pubblici, accelerando i processi di privatizzazioni e liberalizzazioni. «Acqua,rifiuti ed energia, i privati devono andare via" denunciano, inoltre, gli attivisti di Rifiuti Zero Lazio, perché il business sui rifiuti è florido quanto quello dell'acqua, e lanciano la manifestazione di sabato prossimo.
Costeggiando il Circo Massimo si nota poi lo spezzone dei migranti della campagna Welcome. «Siamo in piazza perché la partecipazione è un diritto di tutti» hanno pennellato sul loro striscione. E oggi a Roma c'era tanta fame di diritti ma soprattutto tanta sete di democrazia «perché i 27 milioni di sì all'acqua pubblica devono contare». Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Si parla tanto di crescita ma dovremmo avere il coraggio di dire cosa non può più crescere. Il consumo di territorio, la speculazione edilizia, l'edilizia costruttiva e distruttiva, il consumo di cemento sicuramente no Sessanta anni fa il Polesine. Quarantacinque anni fa Firenze, ed eravamo ragazzini quando andammo per giorni e giorni a toglier fango dai libri della Biblioteca nazionale. Proprio come i ragazzi che hanno ripulito Genova nelle settimane scorse. Quasi nessuna regione risparmiata e a volte colpita più volte e in zone diverse, la Calabria e quel campeggio spazzato via a Soverato, la Campania e quella montagna di fango che travolge Sarno, la Versilia e la Lunigiana, il Piemonte tante volte ad Alessandria e ad Alba, la Sicilia colpita in queste ore e ancora una volta a Messina invasa dall'acqua e dalle frane come due anni fa, il Veneto, Vicenza e Venezia, la Liguria, le tante volte di La Spezia e il martirio di Genova (alluvionata 29 volte in 50 anni).
Queste al momento mi ricordo ma sui siti web potete trovarle tutte e impallidire alla lettura. Da oltre mezzo secolo sappiamo che tre quinti del nostro territorio nazionale è a rischio di alluvioni, frane, erosioni e dissesti. Da oltre dieci anni sappiamo che anche i cambiamenti climatici (una realtà che tanti hanno sottovalutato e alcuni persino negato) rendono ancora più drammatica la situazione e ancora più fragile il territorio. Abbiamo tanti dati forniti dal consiglio nazionale dei geologi, da molti ricercatori, dai metereologi, dalla protezione civile, dalle agenzie regionali per l'ambiente, dalle associazioni ambientaliste. Sappiamo ad esempio che consumiamo più cemento pro capite degli Stati Uniti e che ogni anno 250.000 ettari di territorio vengono cementificati (nel Veneto ad esempio pur essendo aumentata la popolazione di 400.000 unità , i 128 milioni di metri cubi costruiti erano commisurati ad un aumento di 850.000 unità e queste case non solo erano il doppio di quelle necessarie ma avevano anche una tipologia adatta a classi medie e dunque alti costi, mentre i 400.0000 abitanti in più erano immigrati, anziani e giovani) e temo che lo stesso dato troveremmo anche in molte altre regioni.
Sappiamo che il territorio agro silvo pastorale si riduce ad una velocità pazzesca, e che l'abbandono dell'agricoltura è un fattore in crescita costante che determina minore controllo sul territorio e soprattutto nessuna attenzione alla riforestazione in particolare nelle aree pedemontane. Conosciamo, per averle visitate, decine di aree artigianali e di insediamenti abitativi costruiti nelle aree di esondazione dei fiumi (aree che non dovevano mai essere urbanizzate e che invece decine di varianti ai piani regolatori o piani regolatori generali inesistenti hanno consentito di urbanizzare), possiamo fare un lungo elenco di fiumi importanti e di torrenti tombinati, irregimentati o deviati (pratica decennale che ha stravolto l'assetto idrogeologico di tantissimi bacini idrografici e che non andava autorizzata), vantiamo addirittura una centrale nucleare, quella di Caorso, costruita ai limiti dell'area di esondazione del Po. Non ci siamo fatti mancare nulla.
Tutte queste cause messe insieme hanno prodotto quelli che Cederna chiamava "brandelli d'Italia". Le risorse necessarie alla prevenzione e alla messa in sicurezza del nostro territorio nazionale si aggirano sui 40 miliardi di euro mentre quelle realmente investite negli ultimi vent'anni sono state appena 400 milioni di euro. Mentre per indennizzi, ricostruzioni e riparazione dei danni a posteriori si sono spesi (male e molto spesso per ricostruire negli stessi luoghi interessati da inondazioni e frane) 52 miliardi di euro in cinquant'anni e se sommiamo gli indennizzi post terremoti la cifra arriva a 213 miliardi di euro! Una cifra mostruosa!
Da decenni sappiamo quel che andrebbe fatto, ma non lo abbiamo mai fatto: passare dall'incuria alla cura del territorio, dalla speculazione selvaggia alla pianificazione sostenibile, dalla edilizia costruttiva alla edilizia di recupero e manutenzione, dall'intervento a posteriori alla prevenzione. Non possiamo più sprecare soldi e natura, non vogliamo perdere altre vite umane, non possiamo far vivere milioni di persone in condizioni di insicurezza. Per questa ragione l'assenza di qualsiasi riferimento ai temi della qualità dello sviluppo e alla sostenibilità ambientale nel discorso di insediamento del Presidente del consiglio Monti ci ha delusi e ci preoccupa parecchio. Tra economia ed ecologia e tra ecologia e nuova occupazione vi sono molti più intrecci di quelli che tanti economisti assai poco innovatori e riformatori riescono a vedere: un territorio sicuro per i cittadini e per le attività produttive è la condizione prima di qualsiasi sviluppo possibile, e un paesaggio di qualità è la ricchezza fondamentale dell'Italia.
Rimettiamo, per l'ennesima volta e testardamente questo tema all'attenzione delle forze sociali, politiche e dei governi nazionale e locali: perché in un paese che va sott'acqua una settimana sì e l'altra pure non c'è sviluppo possibile. Si parla tanto di crescita, mentre dovremmo avere il coraggio di dire cosa può e deve ancora svilupparsi e cosa invece non può più crescere. Il consumo di territorio, la speculazione edilizia, l'edilizia costruttiva e distruttiva, il consumo di cemento sicuramente non possono e non devono più crescere. Mentre devono crescere l'edilizia di manutenzione e recupero, l'agricoltura di qualità, la manutenzione dei fiumi e dei torrenti. Da una parte dei soldi che potrebbero entrare dalla patrimoniale, da un taglio di 1,5 miliardi alle spese militari, dallo storno delle risorse destinate all'inutile Ponte sullo Stretto, possono derivare le risorse ordinarie necessarie a mettere in sicurezza e a curare il nostro territorio.
Se non è una grande opera questa, se non è una grande riforma civile come vogliamo chiamarla? Soldi ordinari, senza commissari straordinari, gestiti dai Comuni e dalle Regioni e rendicontati annualmente. E da subito l'istituzione di una sorta di Servizio Civile Giovanile Regionale che si occupi dei primi lavori di manutenzione e pulitura dei corsi d'acqua.
Restituzione fiscal drag, aumento pensioni, reddito minimo. Proponiamo una serie di misure: a) l'introduzione della 14° per i pensionati sotto i mille euro lordi mensili, b) la restituzione del fiscal drag ai lavoratori dipendenti; c) la reintroduzione del Reddito Minimo d'Inserimento (cancellato nella 14ma legislatura) per i disoccupati e per chi non gode di altre forme di ammortizzatori sociali. Stima della spesa: 10,5 miliardi di euro in tre anni.
Ammortizzatori sociali per co.pro e paraubordinati. Proponiamo l'istituzione di un'indennità minima netta di 700 euro fino a 9 mesi per tutti i lavoratori a progetto monocomittenti e i lavoratori parasubordinati che perdano il posto di lavoro. Costo della misura in tre anni 3,6 miliardi di euro.
Sostegno innovazione e ricerca. Proponiamo di destinare almeno 700 euro l'anno adinvestimenti nell'innovazione e nella ricerca pubblica attraverso una serie di misure specifiche come i crediti di imposta per l'assunzione dei ricercatori, l'aumento della retribuzione dei dottoroandi di ricerca, il finanziamento di progetti di ricerca pilota.
Sostegno alle produzioni ed ai consumi della green economy. Proponiamo di stanziare 1miliardo e 200 milioni l'anno per una politica industriale volta a sostenere con incentivi e servizi le produzioni della green economy: dalle energie rinnovabili alla bioedilizia, dalla mobilità sostenibile, alle produzioni in generale a impatto ambientale zero. Proponiamo la formazione di distretti di economia verde.
Fondo per l'agricoltura biologica. Si propone uno stanziamento triennale di 100 milioni di euro l'anno sul capitolo per il Fondo di sviluppo per l'agricoltura biologica vincolato alla realizzazione di un nuovo Piano d'Azione per l'Agricoltura biologica, con lo scopo di incrementare la domanda di prodotto biologico da parte dei consumatori, sia migliorando il sistema dell’offerta da parte dei produttori.
Sostegno all'altra economia. Proponiamo di stanziare almeno 50 milioni di euro l'anno per sostenere le diverse forme dell'altra economia, attraverso la creazione di 50 distretti di economia solidale in Italia per il sostegno delle diverse attività dell'altra economia: finanza etica, commercio equo e solidale, gruppi di acquisto solidale, ecc.
Programma di “piccole opere” . Di fronte ai faraonici programmi di “grandi opere” che producono ingente spesa pubblica, scarsi benefici sociali e danni ambientali per il territorio (e business per poche imprese), si propone invece un programma di “piccole opere” che riguardi interventi integrati –sociali, ambientali, urbanistici, ambientali- che possono andare dalla sistemazione della rete idrica locale, al recupero urbanistico dei piccoli centri, al risanamento ambientale di coste e aree montane. Ovviamente tra le “piccole opere” non rientrano i porti turistici ed altri interventi invasivi e ambientalmente distorsivi. Proponiamo di spendere in 3 anni 1,3 miliardi di euro.
Ferrovie locali per i pendolari. Sempre nell’ottica di ridurre la mobilità privata, al fine di incentivare al massimo il trasporto su rotaia, si propone un intervento straordinario dell’ammontare complessivo di 750 milioni di euro per l’ammodernamento e il potenziamento delle linee locali di collegamento, in particolare al Sud, all’interno dei cosiddetti Sistemi Locali del Lavoro.
L'applicazione del protocollo di Kyoto, nel rispetto, almeno, dei nuovi obiettivi europei al 2020 (riduzione di almeno il 20% delle emissioni di Co2, traguardo del 20% di produzione energetica da rinnovabili e miglioramento dl 20% nell’efficienza energetica), la riconversione ecologica delle attività produttive, avendo però come obiettivo ottimale la riduzione delle emissioni nazionali per i Paesi sviluppati tra il 25% e il 40% sotto il livello del 1990 entro il 2020, che si sostanzi anche nell’individuazione di un percorso di riduzione delle emissioni che consenta di rimanere ben al di sotto di un aumento medio globale di 2 gradi centigradi della temperatura (rispetto ai livelli pre-industriali), conseguendo il raggiungimento del picco e la diminuzione delle emissioni di CO2 entro 10-15 anni e con il conseguimento entro il 2050 dell’obiettivo di riduzione dell’80%, rispetto ai livelli del 1990. Chiediamo di stanziare 200milioni di euro sul “fondo rotativo destinato a finanziare le misure di attuazione del protocollo di Kyoto”, dal 2007 non finanziato.
Trasporto pubblico locale. Il rilancio e la riforma del trasporto pubblico locale con servizi integrati su scala metropolitana e con potenziamento dei servizi ferroviari sulla media e corta distanza (IC, regionali e locali), dove si concentra l’80% circa dell’utenza, incentivando la formazione di Consorzi ed Agenzie interistituzionali al servizio della città diffusa. Si chiede di stanziare 750 milioni di euro in tre anni per rafforzare e sviluppare la mobilità sostenibile ed il trasporto pubblico locale.
il testo integrale della "Contromanovra" è scaricabile direttamente da qui. Ulteriori informazioni al sito Sbilanciamoci
Sostenibilità è un concetto che ci parla di "quanto a lungo può reggere" qualcosa. Nasce in riferimento ad uno dei pedali del pianoforte, che in inglese si chiama "sustain", quello che serve per allungare le note, per farle durare nel tempo. Non per niente i francesi traducono con durabilité, capacità di durata. La consapevolezza che le nostre azioni debbano essere sostenibili è senz’altro uno degli elementi chiave per il futuro delle attività umane. Oggi, in tempi d’incertezza, al futuro forse ci si pensa un po’ di più, anche perché a ben vedere il futuro non è roba nostra così come non lo sono le risorse naturali. Sono patrimoni condivisi, che tocca alle generazioni in vita preservare per quelle che verranno.
In tema di sostenibilità il cibo è un fattore centrale, determinante, che non si può non considerare e che può essere la leva principale su cui agire per "far durare di più". Attraverso la scelta del cibo scegliamo il tipo di agricoltura che si pratica nel mondo e a casa nostra, se essa debba rispettare o no la fertilità dei suoli, una presenza umana consistente nelle zone rurali, la difesa della biodiversità, il corretto impiego dell’acqua e il mantenimento dei paesaggi insieme alla sicurezza idrogeologica dei territori.
Scelte che oltretutto di solito si coniugano perfettamente con il bello e il buono i quali, infatti, sono al contempo sia conseguenze sia presupposti della sostenibilità. È qualcosa di rivoluzionario. Ben presto - se non l’abbiamo già fatto - scopriremo che mangiare può essere un’attività che è tanto più piacevole e salutare quanto più è sostenibile, e che dunque la nostra parte possiamo farla ampiamente senza grandi sacrifici ma anzi, aggiungendo piccole ma importanti porzioni di felicità alle nostre vite.
"Mangiare è un atto agricolo", ha scritto il poeta contadino Wendell Berry. Possiamo aggiungere che è un atto ecologico, un atto paesaggistico, un atto di profondo rispetto per le culture, un atto politico. E deve diventare un atto sostenibile, perché mangiare è la cosa più direttamente, intimamente collegata - tanto in maniera evidente quanto in maniera nascosta perché ancora insondabile per le nostre conoscenze scientifiche - con tutto ciò che ci circonda: quel grande sistema complesso che è il pianeta che ci ospita. In poche parole la nostra casa, di cui però non siamo semplici inquilini, ma parte integrante.
Siamo dentro il sistema naturale e ormai per troppo tempo abbiamo fatto finta di esserne un corpo estraneo. Per questo motivo non agire in maniera sostenibile, "che fa durare", fa male alla Terra ma ne fa anche a noi umani. Ed è dunque anche soltanto per l’egoismo che ha sempre caratterizzato la nostra specie che dovremmo rivedere molte nostre scelte, partendo proprio da quelle che per molti nel tempo sono diventate insignificanti, semplicemente perché quotidiane. Come la scelta di che cosa mangiare ogni giorno, che ha il potere di migliorare il mondo, per noi e per chi verrà dopo di noi.
Per quale trauma, forse databile con la povertà delle campagne d´inizio Novecento, in questo Paese quando si parla di agricoltura nella migliore delle ipotesi siamo distratti e nella peggiore infastiditi? Ne è un sintomo il malcelato recalcitrare di chi ogni tanto ha in sorte il ministero delle Politiche agricole e forestali, ma anche il disinteresse che l´intera società civile manifesta nei confronti dell´attuazione delle sue politiche. L´agricoltura parrebbe fuori dall´italico radar. Ma almeno, il nuovo ministro del governo Monti, Mario Catania, è un dirigente del Mipaf da più di trent´anni e sicuramente conoscerà l´importanza del settore, soprattutto la necessità di un rapporto forte con la Commissione Europea. Nell´augurargli buon lavoro dobbiamo tuttavia constatare che, dal 2008, egli è il quarto ministro dell´Agricoltura del nostro Paese, e anche questo la dice lunga sull´attenzione della politica verso la questione agroalimentare.
Nemmeno in questo momento storico, in cui la società civile si mobilita su questioni cruciali come quella dell´acqua pubblica o del consumo di suolo, quella miccia prende fuoco: sull´agricoltura non ci entusiasmiamo. E questo vale ovviamente anche a livello europeo. Per esempio, se si chiede in giro che cosa è la Pac, pochi sapranno rispondere. Pac sta per Politica agricola comune, le normative europee in tema di agricoltura. Non mi sembra una cosa normale non saperne niente. Perché se ci dicessero che non capiamo niente di cibo, ci offenderemmo. Ma come si può avere una cultura del cibo se si ritiene l´agricoltura un argomento poco interessante? Oggi l´esodo dalle campagne ha toccato il suo punto più drammatico, allora perché non riflettere sul fatto che una nuova idea di agricoltura può favorire progetti di vita per tanti giovani chiamati non a fare la vita grama dei vecchi contadini, ma un lavoro moderno, dignitoso e gratificante? Stiamo parlando di migliaia di nuovi posti di lavoro, di sostenibilità, quindi di assoluto bisogno di nuove politiche agricole.
Ora la Pac, che esiste dagli anni ´50, è in fase di revisione: dopo un lungo iter di consultazioni è stata presentata, ad ottobre, la proposta legislativa che dovrà passare attraverso un processo di co-decisione che coinvolge il Parlamento e il Consiglio d´Europa. Questo processo sarà piuttosto lungo prima che la nuova normativa entri in vigore, presumibilmente a inizio 2014, quindi c´è un po´ di tempo per partecipare, cercare i nostri parlamentari, raccogliere firme se necessario, fare dibattiti... insomma le cose normali di quando le cose ci stanno a cuore.
C´è poi un ulteriore motivo per occuparsi della Pac. Tutti i cittadini dell´Unione pagano tasse che vengono destinate ai vari settori di attività: dall´agricoltura all´educazione, alla salute. Ora, rispetto al budget totale a disposizione della Ue, circa il 40% viene destinato alle politiche agricole. Ma la domanda è: a quale agricoltura vanno questi soldi? Prevalentemente all´agricoltura di quantità, quella dell´agrobusiness, dei grandi mercati internazionali, delle monocolture, della grande distribuzione organizzata, delle grandi aziende di capitale. Con qualche lieve miglioramento rispetto al passato, anche la proposta presentata a ottobre sembra andare in questa direzione. Grosso modo l´80% del budget sarebbe ancora destinato a questo tipo di agricoltura e solo il 20% andrebbe alle produzioni sostenibili e di piccola scala.
Noi di cosa abbiamo realmente bisogno? Proviamo a fare un elenco, che vale per l´Italia come per il resto d´Europa (oltre che del mondo, ma il mondo non ha ancora un organismo di governo planetario, a meno che non si voglia ritenere che il Wto e la Banca Mondiale svolgano questa funzione): 1) abbiamo bisogno di garantire la fertilità dei suoli; 2) abbiamo bisogno di incentivare l´agricoltura nelle zone a rischio idrogeologico perché le attività forestali e agricole prevengono il degrado del territorio, mantenendo le comunità nelle loro sedi naturali a prendresi cura dei paesaggi; 3) abbiamo bisogno di ridurre le emissioni di CO2, in larga percentuale addebitabili agli allevamenti intensivi, al trasporto di generi alimentari per le grandi distribuzioni, agli sprechi energetici che il sistema alimentare globale impone; 4) abbiamo bisogno di ridurre gli sprechi, perché un terzo del cibo prodotto finisce direttamente nella spazzatura e questo è innanzitutto immorale, secondariamente stupido; 5) abbiamo bisogno di proteggere le risorse come gli oceani, le acque interne e l´aria da un processo di inquinamento chimico che non può più essere tollerato; 6) abbiamo bisogno di invertire la tendenza delle malattie "da benessere" come l´obesità, il diabete, i disordini cardiocircolatori, i tumori, causate in buona parte dall´inquinamento, dall´alimentazione di cattiva qualità, dalla presenza di chimica legalizzata nel nostro cibo quotidiano; 7) abbiamo bisogno di mitigare i cambiamenti climatici; 8) abbiamo bisogno di proteggere le culture locali, che hanno in sé molte informazioni utili in questi tempi di crisi ambientale, sociale ed economica; 9) abbiamo bisogno di proteggere le economie locali, e i mercati di prossimità, che possono rivitalizzare le nostre aree rurali e farle tornare ad essere luoghi di benessere, di produzione di reddito, di occupazione giovanile; 10) abbiamo bisogno di mantenere alte le bandiere del turismo, che non si nutre solo di visite alle città d´arte ma soprattutto di paesaggi agrari e di territori accoglienti.
E chi fa tutto questo, tutti i giorni, senza ricevere nessun compenso? L´agricoltura di qualità, che ha come obiettivo primario il cibo per le persone e non le merci per i mercati e che, nella stragrande maggioranza dei casi, è un´agricoltura di piccola scala. Ecco, noi vorremmo che la nuova Pac destinasse molto di più a questo tipo di agricoltura, e non soltanto il 20%. Se iniziamo a insistere in ogni occasione possibile, su questi argomenti, qualche passo importante si può ancora fare.
Non è solo una questione di bisogni: è anche una questione di diritti. Provate a trasformare l´elenco di prima in un elenco di diritti, vedrete che si fa in fretta. E il diritto principale, che li racchiude tutti, si chiama "sovranità alimentare". Ecco di cosa si stanno dimenticando, a Bruxelles: che abbiamo diritto a un cibo «salubre, culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi sostenibili ed ecologici». E questo, l´agricoltura orientata all´industria, semplicemente, non lo può fare.
Il fenomeno è globale, è noto come «land grab», accaparramento di terre: si dice così quando ricchi investitori si assicurano concessioni o contratti d'affitto pluridecennali su grandi estensioni di terra coltivabile in paesi «in via di sviluppo». Da un lato multinazionali dell'agrobusiness di paesi ricchi (Europa e Stati uniti o anche paesi del Golfo, o Corea del sud), dall'altro governi di paesi rurali e poveri come Etiopia, Madagascar - ovunque ci sia spazio, povertà, e governi disponibili.
Ora però la geografia del land grab riserva qualche sorpresa. Di recente infatti nel grande business internazionale della terra arabile si sono buttati anche paesi come la Cina e l'India - perfino il Bangladesh. Del caso indiano parla in modo approfondito uno studio ripreso da Grain, rete internazionale di ricerca sull'agricoltura (Rick Rowden, India's role in the new global farmland grab, 2011). Conta ben 80 aziende indiane che hanno già investito 2,4 miliardi di dollari nell'acquisto o leasing di piantagioni nella sola Africa orientale - Etiopia, Kenya, Madagascar, Mozambico - e Senegal (altre compagnie indiane guardano al sud America e in almeno un caso al sud-est asiatico).
Uno dei contratti più importanti descritti nello studio di Grain riguarda l'Etiopia, paese diventato una sorta di esempio negativo di come un governo può svendere d'autorità grandi parti del suo territorio nazionale ignorando i suoi stessi cittadini. Si tratta dell'acquisizione di circa 300mila ettari di terra arabile nella regione di Gambela da parte dell'azienda indiana Karuturi Global Ltd. Il governo etiope sostiene che si trattava di terre marginali e/o non sfruttate, che ora saranno messe "a frutto" e rese produttive. Ma questa versione è contestata da diversi osservatori locali: non ci sono terre "inutilizzate", ci sono coltivatori con mezzi artigianali e pastori nomadi - e quando le terre date in concessione a grandi aziende viene recintata, loro perdono l'accesso ai pascoli e all'acqua. Altri fanno notare che le nuove pratiche agricole sono efficenti perché sono meccanizzate, fanno grande uso di fertilizzanti e agrochimici (che poi inquineranno le falde idriche) e soprattutto usano parecchia acqua - che tolgono ai piccoli coltivatori locali.
Secondo il contratto firmato con il governo etiopico, leggiamo, Karuturi prende in concessione i primi 100mila ettari per 50 anni all'equivalente di 60 dollari per ettaro, e pagherà un "affitto" annuale di 1,18 dollari per ettaro. Con questo acquisisce il «diritto» a disporre di quella terra, a scavare pozzi, costruire dighe se lo ritiene necessario - l'acqua è inclusa nel prezzo, e non è fissato alcun limite alla quantità che può attingere. Sarà esente da tasse e dogane ogni bene che l'azienda importerà (macchinari, ecc.) e che esporterà (derrate agricole) e anche il rimpatrio dei capitali.
Il contratto non fa menzione alcuna a norme di protezione del lavoro, salari e trattamento dei lavoratori agricoli, né impone di destinare una qualche quota delle derrate prodotte al mercato interno. Una economista indiana osserva, con orrore, che secondo il contratto firmato con Karaturi il governo etiopico si impegna a consegnare la terra pattuita «libera da impedimenti»: ovvero sfratterà gli abitanti locali, se saranno di ostacolo al progetto, se necessario con la forza (Jayati Ghosh, su Frontline, 10-23 settembre 2011). Così, fa notare l'economista, aziende indiane vanno a fare in un paese terzo proprio ciò che in India stessa ormai provoca tante polemiche, resistenze, proteste ogni volta che popolazioni rurali sono costrette a sfollare per fare spazio a progetti agro-industiali. Ironie della storia - o delle geografie globalizzate.
Caro direttore, per incassare 6 miliardi, circa l'8% di quanto paghiamo di interessi sul debito pubblico ogni anno, pare andranno in vendita 338.000 ettari di terreni agricoli che oggi sono proprietà pubblica. Se non si farà attenzione, le conseguenze di una tale scelta, che in Africa è nota comeland grab(appropriazione di terra) operata da grandi gruppi multinazionali, potrebbero essere serie, e portarci verso la dipendenza alimentare dall'agrobusiness. Potrebbero derivarne danni sociali ingenti subitiin primisdai nostri piccoli agricoltori che non potendo competere con quei colossi nell'acquistare, finirebbero per vendere anche i loro appezzamenti (come già avvenne quando i latifondisti comprarono le proprietà comuni messe in vendita da Quintino Sella).
La scelta di vendere è definitiva e ci riguarda tutti, presenti e futuri. Andrebbe fatta con grande cautela soprattutto quando ci si trova sotto pressione internazionale. Il processo di elaborazione teorica e pratica della categoria giuridico-costituzionale dei beni comuni discende da questa considerazione. Il cambiamento dei rapporti di forza fra settore privato azionario e settore pubblico a favore del primo rende i governi così deboli da non poter operare nell'interesse del popolo sovrano. La necessità urgente di forte tutela giuridica dei beni comuni come proprietà di tutti che i governi devono amministrare fiduciariamente nasce da questo squilibrio di potere prodotto dalla globalizzazione.
Lo Stato italiano è proprietario, direttamente o tramite enti pubblici, di ingenti beni che fanno gola a molti. Gran parte di questi, che forniscono utilità indispensabili per garantire la sovranità dello Stato o la sua capacità di offrire servizi pubblici, non possono essere trattati come fossero proprietà privata del governo in carica. Alcuni dei beni dello Stato sono costituiti da edifici, acquedotti e terreni agricoli che soccorrono direttamente bisogni fondamentali della persona come coprirsi, bere o nutrirsi. Altri sono infrastrutture, come strade, autostrade, aeroporti, e porti che richiedono un assiduo investimento in manutenzione. Altri sono beni che i giuristi classificano come immateriali come le frequenze radiotelevisive, glislotaeronautici (per esempio la tratta aerea Milano-Roma), i brevetti ottenuti con la ricerca pubblica, le partecipazioni pubbliche nell'industria produttrice di beni o servizi.
Ancora, importanti beni servono allo Stato per erogare i suoi servizi alla collettività: scuole, ospedali, caserme, università, cimiteri, discariche, ambasciate. Ci sono poi i beni culturali: statue, monumenti, dipinti, reperti archeologici, lasciti del passato che dobbiamo trasmettere ai nostri successori. Per farlo occorre mantenerli accessibili a tutti godendone in comune, al di fuori dal modello del «divieto di accesso» che è tipico della proprietà (sia essa pubblica o privata). Beni comuni, governati dalla stessa logica di accesso sono poi i parchi, le foreste, i ghiacciai, le spiagge, il mare territoriale, l'aria da respirare o l'acqua da bere, a loro volta beni di grande valore collettivo il cui ingente valore d'uso non è tradizionalmente patrimonializzato.
Sebbene dotato di un patrimonio ingentissimo (fra cui ingenti riserve auree), il nostro settore pubblico è impoverito. I Comuni sono sul lastrico; gli edifici pubblici cadono spesso a pezzi e il territorio non riceve manutenzione. L'Italia è come un nobile decaduto che non sa gestire le sue ingenti proprietà, viene truffato dal maggiordomo e continua a indebitarsi per poter mantenere il proprio dispendioso stile di vita. Proprio come la nobiltà francese finì per svendere i propri palazzi, anche l'Italia, oberata dai debiti, sta vendendo (spesso svendendo) il suo patrimonio pubblico per «far cassa» e tirare avanti. Eppure se il patrimonio pubblico rimasto fosse amministrato davvero nell'interesse comune si potrebbero ottenere parecchi quattrini: molte concessioni (acque sorgive, autostrade, stabilimenti balneari, frequenze radiotelevisive, cave) sono rilasciate molto al di sotto del valore di mercato. La Gran Bretagna dando in affitto il suo etere ottiene circa 5 miliardi di sterline l'anno (grosso modo quanto si incasserebbe vendendo una tantum i terreni agricoli) contro i poco più di 50 milioni di euro che ottiene l'Italia.
Una buona amministrazione del patrimonio pubblico richiede sopratutto ordine, chiarezza nelle regole del gioco e democrazia nel decidere sulle cose di tutti. Le regole attualmente vigenti sono obsolete, oscure e quindi agevolmente eludibili. È importante farne di nuove e dotarle di innovativi strumenti applicativi. Una legge delega sulla riforma di beni pubblici predisposta dalla Commissione Rodotà contenente chiarezza su quali beni siano comuni e come vadano amministrati non è mai stata neppure discussa. Proprio nei momenti di maggior crisi sarebbe bene che alla logica della svendita subentrasse quella del buon padre di famiglia.
Il rischio espresso da Mattei è così grave, devastante e imminente che nessun governo composto di persone intelligenti potrebbe ignorarlo. Se, almeno, non fosse inquinato. E purtroppo l'inquinamento del governo Monti risiede proprio in alcuni settori (l'ambiente, lo sviluppo, le infrastrutture) più delicati ai fini della minaccia che grava: sul consumo di energia, sulla sopravvivenza fisica degli umani, sull'asservimento dell esigenze locali alla sovranità del mercato globale sulle esigenze locali e su quello della democrazia e della politica alla sovranità dell'economia data. Un appello, quindi, al quale è necessario che molti aderiscano..
La natura è un grande business contro la crisi. "Green Italy" porta un milione di posti di lavoro. Ecco la mappa dello sviluppo ecocompatibile
di Giovanni Valentini
Se è vero che il verde è il colore della speranza, proprio perché abbinato alla natura e alla sua rinascita, allora la "green economy" può rappresentare per l´Italia qualcosa di più concreto di un sogno collettivo: una nuova frontiera, cioè un´occasione di ripresa, un´opportunità di crescita, una leva contro la crisi. Per affrontare la recessione e accrescere la propria competitività sul mercato globale, le nostre imprese si stanno orientando decisamente in questa direzione. E nel segno dell´economia verde, investono sempre più in tecnologie, processi e prodotti ecocompatibili fino quasi a raddoppiare nel 2011, con effetti ricostituenti e benefici anche sull´occupazione, diretta o indiretta: tanto da far registrare solo nel 2009 circa 200 mila assunzioni e annunciare per i prossimi anni almeno un milione di posti di lavoro.
Dal 2010 a oggi, la percentuale delle piccole e medie imprese manifatturiere (dai 20 ai 499 dipendenti) impegnate finanziariamente nel maggior risparmio energetico o nel minor impatto ambientale, è passata dal 30,4 al 57,5. Una rivoluzione tecnologica e produttiva, destinata a incidere direttamente sulla qualità del "made in Italy" e quindi sulle assunzioni di personale qualificato.
Già nel 2011 la domanda di figure professionali orientate verso la "green economy" è arrivata a superare il 38% del totale: oltre 220 mila, di cui quasi la metà (97 mila) legate al settore delle energie rinnovabili, alla gestione delle acque e dei rifiuti o alla tutela dell´ambiente, su un totale di circa 600 mila. A questi ritmi si può ragionevolmente prevedere che nei prossimi anni, tra nuova occupazione e riqualificazione di quella esistente, la riconversione ecologica dell´economia alimenterà un boom di assunzioni tra "green jobs" in senso stretto e figure riconducibili alla "green economy". Le competenze richieste appartengono trasversalmente a diversi i settori, con picchi superiori al 50% fra gli esperti di diritto, ai dirigenti e agli imprenditori, ma ancor più fra artigiani, operai specializzati e agricoltori (60,4).
Contenuti in un Rapporto che verrà presentato a Milano lunedì prossimo, 14 novembre, presso l´Assolombarda, su iniziativa di Unioncamere e di Symbola, la fondazione presieduta da Ermete Realacci, questi dati delineano - appunto - uno scenario di crescita e di speranza per il futuro del Paese. Una via d´uscita, insomma, di fronte alla crisi strutturale che incombe drammaticamente sull´economia nazionale. "GreenItaly" è insieme un impegno e una sfida per modificare radicalmente il nostro modello di sviluppo, cercando una soluzione innovativa per superare la congiuntura.
Sono state soprattutto le medie imprese, in quest´ultimo anno, a investire su tecnologie e prodotti a maggior risparmio energetico o a minor impatto ambientale: il 68,5% contro il 37,3 del 2010, rispetto alle piccole imprese (tra i 20 e i 49 dipendenti) che sono passate a loro volta dal 29,1 al 55,1. La parte del leone la fanno le industrie manifatturiere (64,4%), seguite a ruota da quelle alimentari (61,3), da quelle meccaniche (58,6) e poi da quelle che producono beni per la persona e per la casa (50,1%). Quanto alla ripartizione geografica, è un segno confortante che l´incremento maggiore si registri proprio al Sud (64,5%), più in ritardo e perciò più propenso a guardare avanti per recuperare terreno, rispetto al 57,3 del Nord-Est, al 56,7 del Nord-Ovest e al 53,6 del Centro.
«Nel momento difficile che il Paese sta attraversando - osserva Realacci - è necessario riguadagnare credibilità e serietà sul terreno finanziario, ma anche indicare la strada per il futuro della nostra economia, mettendo in moto le migliori energie». E perciò commenta con soddisfazione il fatto che «nell´incrocio tra innovazione, qualità e bellezza, la green economy in salsa italiana è già ben presente nelle attività della parte più avanzata del nostro sistema imprenditoriale».
Nella relazione che accompagna il Rapporto "GreenItaly", il presidente di Symbola sostiene poi che «la crisi va colta come una grande occasione di cambiamento, un´opportunità per affrontare le questioni aperte da tempo». La "rivoluzione ecologica" può rappresentare la chiave di volta per favorire un´autentica modernizzazione del Paese nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile, cioè compatibile con la difesa dell´ambiente e la tutela della salute collettiva. E in Italia, più che altrove, l´economia verde si incrocia con la "soft economy", vale a dire con la qualità, l´innovazione e la ricerca, con quella insomma che un grande storico dell´economia come Carlo Maria Cipolla definiva la capacità di "produrre all´ombra dei campanili cose che piacciono al mondo": dai settori più tradizionali a quelli più innovativi, dall´agroalimentare alle ceramiche, dalla nautica al turismo, fino alla "meccatronica" (il mix di meccanica, elettronica e informatica).
Si tratta, ovviamente, di una sfida su scala internazionale per il nostro Paese e per le nostre imprese, chiamate a confrontarsi su progetti ambiziosi e impegnativi: come, per esempio, quello denominato "Desertec" che prevede investimenti per 300 miliardi di euro sulla sponda sud del Mediterraneo, nel campo delle fonti rinnovabili e in particolare nel solare termico ad alta concentrazione. Né mancano opportunità rilevanti a livello nazionale, come quelle che interessano il settore edilizio per la ristrutturazione delle case e l´efficienza energetica: finora il credito d´imposta del 55% per cento a favore dei privati, per le spese sostenute in questo genere di interventi sulle proprie abitazioni, è stato utilizzato da circa 600 mila famiglie e ha prodotto investimenti per quasi 12 miliardi di euro, coinvolgendo decine di migliaia di occupati.
Crescita e sostenibilità ambientale, considerate fino a ieri in antitesi, si stanno rivelando quindi due facce di quella stessa medaglia che è la competitività di un "sistema Paese". L´Italia ha tutte le carte in regola per partecipare a pieno titolo a questa gara globale: le bellezze naturali; un patrimonio storico, artistico e culturale, unico al mondo; talento, fantasia, creatività. «Occorre - conclude Realacci - un´economia più a misura d´uomo, attenta alle comunità e ai territori. E proprio per questo più sostenibile e competitiva».
Jeremy Rifkin: è l´unica via allo sviluppo
"Quell´energia che sbaraglia il mercato"
intervista di Antonio Cianciullo
«La green economy è l´unico settore della nostra economia che ancora funziona perché è l´unico allineato al futuro. Gli altri segmenti sono in crisi e, ogni volta che hanno un momento di temporaneo recupero e il motore della produzione si rimette in moto con il vecchio sistema, i prezzi del petrolio e delle materie prime schizzano alle stelle facendo inceppare di nuovo il meccanismo: la seconda rivoluzione industriale è arrivata al capolinea perché non ha saputo calcolare i limiti fisici del pianeta». Jeremy Rifkin ha appena pubblicato La terza rivoluzione industriale, il manifesto della società che si sta formando attorno ai valori della green economy.
Partiamo dai numeri. Fino a ieri molti ritenevano l´economia verde utile ma secondaria, un attore di secondo piano sulla scena economica mondiale. Oggi la situazione è cambiata?
«Sì perché la Terza rivoluzione industriale si sta dimostrando un cambiamento epocale del nostro modo di produrre e di pensare. Alcune industrie chiuderanno, ma molte altre apriranno e verranno creati centinaia di milioni di posti di lavoro per l´energia rinnovabile distribuita nelle case, negli uffici, nelle campagne; per la realizzazione di un ciclo di immagazzinamento dell´energia basato sull´idrogeno; per la sostituzione del vecchio parco auto inquinante con veicoli elettrici; per la creazione di smart grid in grado di far viaggiare l´energia come le informazioni sul web».
Una rivoluzione solo al futuro?
«Al contrario, è un processo già iniziato. Le faccio solo un paio di esempi. Negli Stati Uniti l´efficienza energetica delle case è estremamente bassa: aumentarla costerebbe 100 miliardi di dollari l´anno ma permetterebbe di risparmiare energia per 163 miliardi di dollari l´anno. E la mobilità offre analoghe opportunità. Zipcar, la più importante società di car sharing, in un decennio di attività ha aperto migliaia di sedi per mettere le auto condivise a disposizione dei suoi clienti: cresce del 30 per cento l´anno e nel 2009 ha fatturato 130 milioni di dollari».
Non tutto il movimento ambientalista però appoggia la green economy. C´è una frangia che contesta gli impianti eolici, solari e a biomasse in nome del paesaggio.
«Mi sembra una contraddizione destinata a essere superata dall´evoluzione della green economy. In questo momento di transizione una quota significativa di energia rinnovabile viene prodotta dai grandi impianti perché siamo nella fase di sviluppo iniziale della filiera. Io non sono contrario per principio ai grandi impianti, e penso che in alcuni luoghi si possano realizzare, ma sono destinati ad essere superati dalla logica della Terza rivoluzione industriale. Una rivoluzione basata sullo sviluppo di milioni di mini e micro centrali di produzione energetica che troveranno posto sui tetti e sulle facciate di buona parte degli edifici».
Eppure la crisi economica ha fatto registrare in molti paesi una battuta di arresto della green economy.
«Si sono fermate le economie che non hanno puntato sul futuro. Ma per sapere dove va il mondo c´è un modo molto semplice: guardare cosa fanno i giovani. I loro valori sono quelli di Internet: il diritto all´accesso alle conoscenze, il rapporto paritario, lo scambio di informazioni e di musica, presto lo scambio di energia. La loro rivoluzione è l´attacco al sistema basato sull´autoritarismo, sul potere gerarchico, sull´accentramento. Vogliono una società che abbia come valori la trasparenza, il decentramento e l´accesso libero alle reti».
Una possibilità reale?
«Alcuni dei governi rimasti attaccati al vecchio modo di pensare, come i regimi dittatoriali dell´Africa mediterranea, sono già stati spazzati via perché il potere laterale costruito dalla generazione di internet ha battuto l´arroganza delle autocrazie. Lo sviluppo del movimento degli indignati mostra che una critica radicale alla vecchia logica industriale sta crescendo rapidamente anche nei paesi industrializzati: c´è bisogno di un concetto più avanzato e più largo di democrazia che includa gli atti della vita quotidiana e una redistribuzione della ricchezza».
Martin Lutero sosteneva: «pecca fortiter sed crede fortius», pecca di più ma credi di più. Non vorremmo che l’enfasi posta sullo “sviluppo” determinato dagli investimenti nei settori del disnquinamento, della mitigazione ecc. significasse “inquina di più per disinquinare di più. Non è detto che la “green economy” coincida con la ristrutturzione economica dell’ecnomia.
Divertente è un aggettivo che non si predica di solito per un vocabolario, non più che per un elenco telefonico. Eppure è proprio piacevole il Dizionario tecnico-ecologico delle merci di Giorgio Nebbia (Jaca Book, pp. 336, euro 25). Le sue 98 voci, che vanno da Acciaio a Zucchero passando tra gli altri per Bambù, Celluloide, Gabinetti, Luce, Nylon, Patata, Vento e Zolfo, si leggono come capitoli di una storia di cui il lettore vuole sapere come va a finire, poiché attraverso queste merci proprio la storia della nostra modernità (e postmodernità) è presa di sguiscio, attraversata di sbieco.
Intanto ti accattiva la curiosità per i dettagli, come per esempio l'origine dell'espressione «matto come un cappellaio» che si ritrova in Toscana e in Inghilterra (il cappellaio matto è uno dei personaggi di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll): nell'800 sali di mercurio erano usati per tingere in nero le fibre proteiche come la lana dei feltri per la preparazione dei cappelli e gli stessi capelli umani, ma presto ci si accorse degli «effetti devastanti del mercurio sulla mente degli operai che lo maneggiavano in fabbrica». Anche l'espressione «spirito di patata» in voga nella prima metà del '900 per indicare una battuta fiacca, che non fa ridere, deriva dalla bevanda alcoolica che si estrae dal fermentato di patata che è «simile all'acquavite ma di sapore più blando». Oppure, nella voce «Spinaci», apprendiamo non solo che Braccio di Ferro (PopEye) è il primo personaggio a fumetti cui è stata dedicata una statua, ma che questo personaggio è nato durante la grande depressione, in un'area del Texas in cui si coltivavano e s'inscatolavano spinaci, che proprio a questo fumetto l'industria conserviera attribuì l'aumento del 30 % del consumo di spinaci in scatola tra il 1931 e il 1936 e che infine il nome originale della partner di Braccio di Ferro, Olivia, era in realtà Olive Oyl, anch'esso teso a pubblicizzare un genere alimentare, il nostro olio d'oliva.
Montagne di bambù
Ma al di là delle curiosità che pure lo rendono tanto gradevole, questo dizionario mantiene fisso il suo interesse su alcune direttrici costanti. La prima è restituire all'ignaro lettore l'immensa, inimmaginabile portata della produzione nel nostro mondo industriale: voce dopo voce, siamo martellati dai milioni, e miliardi di tonnellate delle singole merci: ogni anno si producono nel mondo 10 milioni di tonnellate di gomma naturale, 13 milioni di tonnellate di gomma sintetica. Di un materiale che ci appare tanto marginale quanto il bambù, se ne smerciano nel mondo ben 25 milioni di tonnellate all'anno, soprattutto per il suo uso nell'edilizia: è impressionante vedere in Cina le silhouettes di ipermoderni grattacieli in acciaio e vetro ergersi solo grazie alle esili, flessibili impalcature del bambù. Ma poi si passa ai 35milioni tonnellate l'anno di alluminio (estratti da 200 milioni tonnellate di bauxite), ai 400 milioni di tonnellate di carta, per arrivare ai pesi massimi come i 2 miliardi di tonnellate di cemento, i 4 miliardi di tonnellate di petrolio e i 6 miliardi di tonnellate di carbone.
Con queste cifre martellanti Giorgio Nebbia ci ricorda quanto sia fallace l'idea di una postmodernità immateriale: l'immaterialità della nostra società si basa su un'incredibile materialità di supporto. Niente lo dimostra meglio dell'acciaio, il simbolo stesso del Moderno («età dell'acciaio») che ci appare ormai alle spalle, il termine da cui Iosif Vissarionovic Dzugasvili prese il suo pseudonimo Stalin: acciaio si dice in russo sta'l, in tedesco Stahl, in inglese steel. Nel corso del XX secolo l'acciaio è stato sempre più sostituito da altri materiali in un numero sempre maggiore di prodotti, per esempio le carrozzerie delle auto, o i motori delle motociclette (ormai in alluminio), eppure nel corso del '900 la produzione mondiale di acciaio è passata dai 30 milioni di t nel 1900 ai 140 milioni del 1940, ai 700 milioni del 1973 ai 1.400 milioni di oggi: ovvero la produzione si è moltiplicata 50 volte, mentre la popolazione mondiale si è quintuplicata: il consumo pro capite è decuplicato! Alla faccia del postmoderno
Nello stesso tempo, se è vero che il mondo nel suo insieme è un immane stabilimento industriale sempre più gigantesco, è anche vero però che i paesi industriali si deindustrializzano. Questo Dizionario è cosparso di fabbriche abbandonate come tutte le grandi acciaierie integrali italiane (tranne Taranto), di miniere chiuse come quelle di carbone in Belgio, o quelle di mercurio sul Monte Amiata che ancora negli anni '60 producevano 1.200 t l'anno, e furono chiuse attorno al 1980.
La produzione di acido borico (dai soffioni boraciferi di Larderello) aveva fatto la ricchezza della Toscana, ma dopo la seconda guerra mondiale declinò e nel 1997 cessò del tutto. Oppure la canapa, di cui l'Italia ancora nel 1957 produceva 30.000 tonnellate e che ora è scomparsa dai nostri campi. O ancora le fabbriche di glutammato come la Insud-Ajinomoto costruita con i contributi della Cassa per il Mezzogiorno a Barletta, che funzionò più male che bene dal 1965 al 1977 e poi fu chiusa. Così è stato chiuso l'ultimo impianto che produceva acido solforico, quello di Scarlino in provincia di Grosseto, quando nell'800 lo zolfo era praticamente un monopolio siciliano sotto i Borboni. Persino impianti che hanno fatto la storia dell'industria moderna, come la raffineria La Palma di nitrato in Cile, che aveva dominato il mercato mondiale per tutto l'800, è stata definitivamente chiusa dopo la seconda guerra mondiale e, come epitaffio funebre, nel 2005 è stata dichiarata dall'Unesco patrimonio dell'umanità.
Questo inesausto nascere e morire di impianti, fabbriche, cave, miniere, questo migrare da un continente all'altro si esprime anche nella transitorietà delle merci che sembravano pilastri della civiltà e poi invece svaniscono nell'oblio. Così è avvenuto alla Celluloide, che ha addirittura designato un mondo, quello del cinema, e che oggi viene usata solo per produrre palline da pingpong per cui pare sia insostituibile.
Materie prime, semilavorati, merci finali sembrano dotati così di una loro vita, un loro nascere e morire. Per esempio i metalli sono da sempre presenti sulla terra, ma alcuni sono noti da millenni, come il rame, lo zinco, lo stagno, il ferro. Altri invece, presenti solo in composti difficilmente scindibili, sono noti solo da poco. Per esempio, l'alluminio, il metallo oggi più diffuso e più usato dopo l'acciaio, è noto solo dal 1827 e ottenerlo era così complicato che quando infine «arrivò sul mercato, costava più dell'oro».
Le merci non solo sono dotate di una propria vita, ma sono intrise della vita - e della morte, e dei dolori e dei patimenti - degli umani che le hanno prodotte. Come non ricordare il luogo su cui sorgeva la più grande fabbrica tedesca di gomma e benzina sintetiche durante la seconda guerra mondiale, e cioè Auschwitz? Il coltan è indispensabile per i nostri telefonini, ma ognuno di essi gronda del sangue della guerra civile in Congo. E lo stesso avviene per i diamanti. Per i nitrati Cile, Perù e Bolivia combatterono una guerra nell'800. A volte invece la storia s'insinua in un materiale in modo più subdolo. È il caso del butanolo, un carburante ottenibile dai vegetali, con più ottani rispetto all'alcol etilico. Il butantolo fu scoperto dal chimico ebreo russo Chaim Weizman (1874-1952) che era dovuto emigrare prima in Svizzera, poi in Germania e infine in Inghilterra. Weizman scroprì che un batterio trasforma gli zuccheri in butanolo e acetone. «Durante la prima guerra mondiale l'Inghilterra aveva bisogno, per la produzione dell'esplosivo cordite, di acetone che fino ad allora era stato importato dalla Germania. Weizman accettò di cedere al governo inglese il suo brevetto se avesse dichiarato - la dichiarazione Balfour del 2 novbembre 1917 - di "vedere con favore la costituzione in Palestina di una 'sede nazionale' per il popolo ebraico"». Weizman fu non solo un grande chimico, ma anche il primo presidente dello stato d'Israele dal 1949 al 1952.
Piombo letale
In altri casi la storia delle lotte dei popoli si affievolisce con l'estinguersi della merce che le aveva generate. Così, i fiammiferi sono una merce in via di estinzione, sostituiti dagli accendini. Nessuno ricorda le grandi lotte che scossero l'Italia di fine '800 per protestare contro la tassa sui fiammiferi, una tassa inasprita per far fronte alla guerra coloniale in Africa che si concluse con le sconfitte di Amba Alagi (1895), Macallè e Adua (1896) e con voragini nel bilancio dello stato.
Ma proprio i fiammiferi ci portano all'altro grande filo conduttore di questo Dizionario, quello ecologico, come si vede già dal titolo. L'industria dei fiammiferi era fiorente nell'800, ma usava per il rivestimento delle capocchie fosforo bianco che era estremamente dannoso per gli operai che lo maneggiavano. Ma le pressioni dei fabbricanti ostacolarono per più di mezzo secolo qualunque misura che difendesse la salute degli operai. E anche dopo che l'Italia aveva firmato la convenzione di Berna (1906), grazie all'«emergenza nazionale» della prima guerra mondiale, i padroni dello zolfanello riuscirono a rimandarne l'applicazione al 1924 a prezzo di migliaia di malattie e morti premature degli operai. Sono tanti i casi in cui si ripete la storia di produttori che in nome del «progresso» o dell'«occupazione» difendono produzioni tossiche. Esemplare è quella del piombo tetraetile che serviva ad aumentare il numero di ottano nella benzina, e dei decenni che ci sono voluti per bloccarne la produzione e avere «benzina senza piombo». La storia della Società lavorazioni organiche inorganiche (Sloi) è da manuale. Spostata a Ravenna nel 1940, già nel '45 aveva fatto almeno 8 morti tra gli operai e aveva inquinato i terreni circostanti. Nell'inondazione di Trento del 1966 la fabbrica fu allagata e provocò un'esplosione. Si moltiplicarono campagne stampa per gli operai ricoverati a ripetizione per avvelenamento. Ma quando nel 1971 il giudice chiuse la fabbrica, gli stessi operai protestarono per non perdere il posto di lavoro. Solo un'altra esplosione nel 1978 chiuse questo capitolo tossico.
Tutto il libro non fa che sottolineare la doppiezza della tecnologia, il suo doppio volto che produce benefici ma veicola pericoli e veleni. Così è per tutta la filiera del cloro, usato nello sbiancamento della carta e che portò ai gas asfissianti della prima guerra mondiale, al Ddt, il potente insetticida messo fuori legge; ai defolianti usati dagli Stati uniti nella guerra del Vietnam, agli erbicidi, ai clorofluorocarburi usati nei frigoriferi e considerati in parte responsabili del buco dell'ozono, al cloruro di vinile, una materia plastica rivelatasi cancerogena, e alla diossina prodotta dal suo incenerimento.
L'ozono è un altro esempio dell'ambivalenza ambientale di un materiale. Alla sua diminuzione negli strati alti dell'atmosfera è attribuita la responsabilità dell'aumento di radiazioni ultraviolette che giungono al livello del mare e quindi dell'aumento dei tumori cutanei e delle malattie degli occhi. Ma nello stesso tempo la combustione degli autoveicoli produce un eccesso di ozono nella «troposfera», al livello del suolo, che a sua volta provoca disturbi respiratori e irritazioni e facilita la formazione di altri agenti inquinanti e tossici.
Ingegno generale
Perciò grande attenzione dedica questo Dizionario alle tecnologie alternative che potrebbero attutire l'impatto ambientale, generare posti di lavoro «verdi». Mettendoci però in guardia da innovazioni che poi si sono rivelate miti: «Ogni tanto ritorna in circolazione la speranza della scoperta di una plastica biodegradabile, adatta, soprattutto, per i sacchetti della spesa, gli shopper, il cui consumo ammonta a miliardi di unità all'anno, a centinaia di migliaia di tonnellate all'anno», speranza che si è sempre rivelata vana perché proprio biodegradabili quei sacchetti non erano. Nebbia ci insegna che riciclare è un'arte difficile, che andrebbe appresa e insegnata (per esempio vetro bianco e vetro colorato non possono essere riciclati insieme). E poi fa curioso venire a sapere che dopo la seconda guerra mondiale il governo italiano aveva creato un ente pubblico, l'Azienda Rilievo Alienazione Residuati, l'Arar, per riciclare i residuati bellici che l'esercito americano si era lasciato dietro.
Insomma questo dizionario è uno straordinario ritratto del nostro mondo e della nostra società. Intanto ci ricorda della centrale importanza di una scienza, la chimica, spesso e a torto considerata ancella delle altre discipline. Poi ci sciorina davanti agli occhi l'incredibile, multiforme, capillare ingegnosità di tanti umani che hanno creato procedimenti, scoperto metodi, inventato prodotti, vero proprio general intellect che ha provocato la radicale rivoluzione tecnologica e sociale di cui ormai non ci rendiamo più conto. General intellect che è fatto non solo di intelligenza, estro, fantasia, tenacia, ma anche di furbizia, scaltrezza, capacità di raggirare in una versione imprenditoriale di «Ulisse dal multiforme ingegno». Di questa opinabile ma stupefacente scaltrezza Nebbia ci dà un'ampia illustrazione nel capitolo sulle Frodi, tra cui personalmente mi ha colpito una sull'olio d'oliva che richiese davvero tanta immaginazione, quando si scoprì che l'olio di semi di tè è l'unico olio vegetale che presenta caratteristiche uguali a quelle dell'olio di oliva. «Fu così organizzato un 'commercio triangolare': veniva acquistato a basso prezzo olio di tè dalla Cina, questo arrivava in qualche porto dell'Africa settentrionale dove, senza nessuno spostamento, con un abile cambiamento dei documenti di trasporto, veniva fatto figurare che la nave aveva scaricato olio di tè e imbarcato olio di oliva. L'olio di tè entrava così in Italia come regolare olio di oliva». Come avrebbe detto il nipote di Rameau: «Questo è genio!»
Titolo originale: Land over nature – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Si sa che le città continuano ad espandersi. Si sa anche molto bene quanta biodiversità stiano erodendo. La cosa inquietante però è il ritmo di questo irreversibile fenomeno a scala globale. Tra il 1970 e il 2000, l’espansione ha coperto l’incredibile superficie di 58.000 chilometri quadrati. E quasi la metà a spese della biodiversità. Con questi ritmi, nel 2030 la superficie urbana sarà di almeno 430.000 km quadri, più o meno le dimensioni di tutto l’Iraq. E un’espansione ulteriore e indiscriminata potrebbe farci arrivare a una superficie urbanizzata di 12.568.000 chilometri quadrati. É il risultato raggiunto da un gruppo di ricerca coordinato da Karen Seto della Yale School of Forestry and Environmental Studies negli Usa. Si sono analizzati 326 studi condotti in tutto il pianeta per costruire una carta della conversione ad aree urbane negli ultimi trent’anni.
Sinora, l’urbanizzazione è stata studiata utilizzando l’indicatore della popolazione. Questa nuova ricerca, pubblicata dal periodico online PLoS One in agosto, quantifica oltre alle dimensione anche i ritmi. Per comprendere le trasformazioni del suolo sono state utilizzate tecniche a sensori remoti. I ritmi più rapidi di conversione a superficie urbana sono in India, Cina e Africa. Sui tre decenni esaminati, l’urbanizzazione massima si è verificata in Nord America. Fra i motivi la crescita di popolazione e prodotto interno lordo pro capite. “L’aumento annuale di prodotto interno lordo pro capite induce circa metà dell’urbanizzazione osservata in Cina. Influenza anche moderatamente l’urbanizzazione Indiana e Africana, ma qui il processo è spinto molto di più dall’incremento della popolazione urbana” si legge nella ricerca. Nei paesi ad alto reddito, i tassi di espansione sono più bassi in rapporto alla crescita del prodotto interno. In Nord America la principale causa dell’espansione urbana è la crescita generale di popolazione.
Si colpisce la biodiversità
A scala mondiale, è la spinta dell’espansione urbana alla base della scomparsa di habitat naturali, afferma la ricerca. Il 47% delle aree urbanizzate si trova in un raggio di 10 km da zone classificate come protette dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. “Così si mettono in discussione le strategie di tutele” scrive. Si è rilevata un’espansione notevole nelle aree costiere a bassa quota, fino a 10 m sopra il livello del mare. Circa il 34% delle aree studiate ricade entro 10 m da zone del genere. L’urbanizzazione delle coste può essere dannosa all’uomo per via dell’intensificarsi dei fenomeni atmosferici e dell’innalzamento del livello del mare. Lo studio, primo nel suo genere, prova a ipotizzare i motivi di questa espansione globale. Afferma che l’estensione urbana è legata a una serie di fattori tra cui il flusso internazionale di capitali, le economie informali, la pianificazione urbanistica. La ricerca però non copre tutte le grandi città del mondo. Cinque delle più popolose —Dacca, Karachi, Kolkata, Jakarta e Delhi — non sono state studiate.
L’area urbana di Delhi è stata invece studiata dalla Jamia Millia Islamia University. Confermando come la conversione d’uso sia un grave pericolo per la biodiversità. A Delhi le superfici residenziali sono quasi raddoppiate fra il 1994 e il 2004. Usando sensori remoti e immagini dal satellite, oltre che Gis, si è rilevato un incremento costante dell’area urbana. “Su un totale di 148.375 ha del 1992, la superficie agricola era di 65.114 ha. É diminuita del 12% fino a 54.153 ha nel 2004” afferma la ricerca. Ogni giorno, sono 664 le persone che si spostano a Delhi dalle aree rurali. Un flusso enorme che produce questa espansione, afferma Atiqur Rahman, professore di geografia all’università e coordinatore della ricerca.
Questa urbanizzazione che colpisce la biodiversità innesca anche cambiamenti climatici, cambia il sistema dell’impermeabilizzazione e altera il ciclo dell’acqua. “A Delhi si sono trasformati gli ecosistemi urbani. Suolo fertile è stato impermeabilizzato, e le acque sotterranee si sono allontanate” continua Rahman. Qualcosa di simile e altrettanto significativo avviene nella ricca biodiversità di Bengaluru. É una delle zone urbane di più rapida crescita al mondo, con una superficie urbanizzata diventata il doppio in dieci anni, dai 740 chilometri quadri del 2001 ai 1.306 di oggi. “La città era cresciuta negli anni ’70, e poi di nuovo nell’ultimo decennio. Ma nella seconda fase è stato molto più forte l’impatto sui sistemi ecologici della regione” commenta Leo Saldanha di Environment Support Group.
La finanza sta lentamente distruggendo la società, cancellando al tempo stesso il problema più drammatico, quel riscaldamento climatico che potrebbe determinare la cancellazione stessa della civiltà umana. Per questo occorre individuare delle strategie che fermino questa macchina di guerra. Un'intervento della studiosa statunitense, ospite all'incontro annuale dell'editoria sociale, che inizierà domani a Roma i suoi lavori
In Europa la crisi finanziaria è quella che preoccupa la maggioranza della popolazione e gode della copertura più ampia sulla stampa, ma non è l'unica. Uomini e donne fanno bene a preoccuparsi della finanza, visto che nella vita reale l'attuale caos finanziario si traduce in alta disoccupazione giovanile, pesanti tagli ai servizi pubblici e in tutte quelle misure di austerità che sono destinate ad aggravare la crisi. Ci troviamo inoltre in una grave crisi di disuguaglianza. In Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti, dagli anni Venti o Trenta del Novecento il benessere non è mai stato così mal distribuito. Gli indignados, gli «indignati» hanno completamente ragione a identificarsi con il «99 per cento»: hanno compreso che l'uno per cento al top ha aumentato enormemente il proprio reddito mentre tutti gli altri lo stanno perdendo. Tuttavia, ritengo che la crisi più drammatica sia quella di cui meno parliamo, il global warming e il cambiamento climatico. La crisi climatica avrà infatti gli effetti più profondi sulla stessa civiltà, e in paragone renderà irrilevanti le nostre preoccupazioni finanziarie. Provo a spiegare con un'immagine ciò che intendo.
Immaginiamo che il mondo sia governato da cerchi concentrici o sfere di potere, in cui il più potente sia collocato nella sezione più esterna. Oggi, il cerchio più potente, quello che più influenza le nostre vite, è la finanza. La finanza globalizzata manda letteralmente avanti il mondo, basta osservare la quantità di soldi che le banche hanno ricevuto dai governi (il che significa dai contribuenti, in altri termini da me e da voi). Un recente rapporto stilato dalla Federal Reserve (Fed) americana stima in sedici trilioni di dollari (16.000.000.000.000) la somma di soldi spesi dalla Fed per salvare le banche. Una cifra che non tiene conto di quel che gli inglesi, i tedeschi, i francesi e via dicendo hanno speso per le loro banche. Una cifra di cui non conosco l'esatto ammontare. Immaginiamo comunque che ogni dollaro speso dalla Fed per salvare le banche corrisponda a un secondo sul nostro orologio. Sedici trilioni di dollari, tradotto in secondi, corrisponde a cinquecentomila (500.000) anni.
La voracità della finanza
Le banche, da parte loro, hanno speso grandi somme di denaro per fare lobbying sui governi, affinché rimuovessero tutte le restrizioni ai loro movimenti. Questo tipo di deregulation ha contribuito in modo significativo alla crisi: le banche hanno assunto grandi rischi con i soldi miei e vostri. Dal loro punto di vista, erano nel giusto, dal momento che erano too big to fail e sapevano che i governi sarebbero dovuti intervenire per salvarle, in caso di crollo. Allo stesso tempo, hanno fatto ampio ricorso ai prestiti, spesso assumendo rischi di 30 o 40 dollari per ogni dollaro proprio. Ma nonostante questo sono state salvate senza alcuna condizione. Non hanno dovuto cambiare alcunché nel loro operato e rimangono too big to fail. In questo senso, la finanza è senz'altro il cerchio più ampio, quello collocato all'esterno.
Il successivo cerchio di potere è l'economia reale, dove la gente investe, produce, distribuisce e consuma. Negli Stati Uniti, quest'economia reale riceve soltanto il 20 per cento dell'investimento disponibile, mentre il resto finisce direttamente al settore finanziario. Marx ha fondato la sua analisi sull'economia reale: gli industriali ottengono profitti producendo beni e servizi reali, sfruttando i lavoratori nel processo di produzione e tenendo per sé stessi il surplus di valore. Oggi, non c'è più bisogno che l'economia reale faccia soldi. Negli ultimi venti anni circa, si è potuto ottenere molto di più scommettendo direttamente sui prodotti finanziari e vendendo sempre di nuovo lo stesso prodotto finanziario.
Il terzo circolo di potere è la società, che include il governo, il quale deve obbedire alle regole della finanza e dell'economia. I governi obbediscono a tali regole, anziché fare in modo che siano la finanza e l'economia ad obbedire loro, cosa che porterebbe benefici alla popolazione. I sistemi di protezione sociale e perfino la salute e l'educazione sono sotto attacco ovunque, anche in quell'Europa che si ritiene sia il continente più ricco. Negli scorsi 3 o 4 anni i governi sono diventati sempre più indebitati, soprattutto a causa delle somme che hanno dovuto impiegare per salvare le banche. E oggi ci si aspetta che la gente paghi di nuovo: dopo aver già pagato il salvataggio delle banche, ora deve pagare nuovamente perché i debiti governativi sono troppo alti. L'ultimo cerchio è quello ambientale, la biosfera, un cerchio molto limitato a paragone degli altri tre.
Per la maggior parte dei governi, prendersene cura rappresenta una sorta di lusso, che oggi non ci si può permettere di affrontare. Si tratta di un atteggiamento miope, e tragico. Ora, non sarete certo sorpresi nel sentire che la soluzione a tutti i problemi è semplice da affermare ma estremamente difficile da realizzare. E' la prima volta nella storia umana che la gente è sollecitata a compiere un simile cambiamento fondamentale: dobbiamo capovolgere l'ordine dei cerchi che ho appena descritto. La biosfera deve venire per prima e divenire il più potente dei cerchi, perché è il più potente. Non possiamo contraddire le leggi della fisica e della chimica, e se lo facciamo siamo sicuri di perdere. Non ho mai parlato di «salvare il pianeta» perché il pianeta si prenderà cura di sé come ha fatto per 4 miliardi e mezzo di anni. La vera questione non è tanto se il pianeta sopravviverà, quanto se gli esseri umani in quanto specie sopravviveranno sul pianeta. La conferenza sul cambiamento climatico che si terrà a Durban alla fine del prossimo mese sembra sia destinata a un altro colossale fallimento, alla stregua delle precedenti conferenze di Copenhagen o Cancun. Presto, sarà troppo tardi, se non lo è già. Scienziati molto rispettabili ci suggeriscono che l'aumento della temperatura potrebbe raggiungere i 4 o 5 gradi Celsius e che ciò decimerebbe letteralmente la popolazione umana. Il secondo cerchio sarebbe la società, una società democraticamente organizzata in cui i governi rispondano al popolo e il popolo sia la base della loro autorità.
Una democrazia reale non è possibile fino a quando i governi governano per conto del sistema finanziario. Il cerchio successivo, il terzo, sarebbe la vera economia, con genuini investimenti nel lavoro, nell'educazione e nella salute, e con un alto livello di spesa pubblica e più equi sistemi di tassazione e distribuzione delle rimesse. Preferisco evitare di parlare di società «socialista» o «comunista», così come di qualsiasi altro tipo di società che si presume perfetta, perché sono estremamente diffidente della gente e dei partiti che già credono di sapere esattamente come dovrebbero essere organizzate le future società libere. Spero ci possa essere una varietà di forme organizzative, adeguate alle diverse culture, storie e preferenze. Desidero conservare la biodiversità, e ritengo la sociodiversità un valore positivo. Per ultimo, ci sarebbe la finanza, il più piccolo e fragile dei quattro cerchi: semplicemente uno strumento, tra molti altri, al servizio dell'economia reale, della società e della biosfera. Questo non è - ripeto non è - un progetto utopico. È del tutto realizzabile se noi, il popolo, riusciamo a strappare il controllo dalle mani del sistema finanziario.
Quando la crisi finanziaria è divenuta più grave, nel 2007-2008, ho cominciato a occuparmi dei modi in cui avremmo dovuto usare la crisi finanziaria per risolvere le altre due gravi crisi della disuguaglianza economica e sociale e del clima. Ciò significherebbe prendere il controllo della finanza e investire immediatamente in una transizione verde, creatrice di posti di lavoro, cercando i soldi là dove ci sono, tra la persone e le corporations che ora si trovano al top. Una transizione sociale e verde significa anche che dobbiamo socializzare le banche, e scrivo socializzare e non nazionalizzare perché, insieme al governo, parte dell'autorità spetterebbe ai cittadini, agli impiegati di banca e ai clienti. A quel punto le banche dovrebbero concedere prestiti alle imprese di piccole e medie dimensioni, in particolare a quelle con un progetto ambientalmente innovativo e alle famiglie che intendano comprare o costruire case a risparmio energetico o energeticamente neutrali. Molti studi hanno dimostrato che un'economia ecologica è anche un'economia che crea posti di lavoro, e a tutti i livelli della società, dai lavoratori edili agli scienziati della classe media.
Il clima al primo posto
Per le banche socializzate, l'altra priorità sarebbe di estendere il credito alle imprese sociali, le compagnie con qualche forma di controllo da parte del lavoratore. Nessuna legge sostiene che la democrazia debba fermarsi là dove comincia l'economia, e l'economia ha bisogno di essere democratizzata. Le banche dovrebbero essere viste come parte del network del servizio pubblico. Le attività economiche di piccole e medie dimensioni hanno un gran bisogno di credito. Piuttosto che salvare le aziende in via di fallimento per fare esattamente ciò che finora hanno fatto - per esempio produrre automobili - si paghi il personale, dai lavoratori agli ingegneri e così via, per inventare nuovi prodotti che siano i più socialmente utili e che possano essere prodotti negli attuali luoghi di lavoro. Abbiamo speso centinaia di anni trascurando la creatività di metà della razza umana - vale a dire le donne - e ancora oggi trascuriamo la creatività, quasi tutta, della gente che lavora. Ci sono molte altre misure da adottare, che richiederebbero una descrizione troppo dettagliata. Mi limito a elencarle: cambiare gli statuti e i mandati della Banca centrale europea, in modo tale che conceda prestiti direttamente ai governi, non alle banche, che a loro volta li concedono ai governi a interessi più alti.
La Banca centrale europea non dovrebbe limitarsi a «controllare l'inflazione» (unico suo compito oggi), ma favorire la creazione di lavoro. Emettere Eurobond e impiegare gli investimenti per network intra-europei di trasporto ed energia puliti. Creare una tassa europea su tutte le transazioni finanziarie, incluse valute, stock, bond e derivati a 1 punto base (1/1000); chiudere i paradisi fiscali; cancellare l'intero debito africano nei confronti dell'Europa, in cambio di progetti di riforestazione localmente orientati e partecipati, che possano essere monitorati (uno «scambio debito per clima»); rivedere tutti gli accordi di libero commercio e scegliere gli elementi che favoriscono i diritti umani, del lavoro e dell'ambiente, scartando gli altri; accordare preferenza ai prodotti del commercio equo (monitorato). Soprattutto, mai dimenticare che le banche sono nostre, in un senso piuttosto letterale.
In quanto contribuenti, infatti, abbiamo pagato per loro con i nostri soldi e se non l'avessimo fatto non esisterebbero più. Dunque, non preoccupiamoci di dirlo! Altrimenti, continueremo a vivere in una crisi morale, in una crisi finanziaria, sociale ed ecologica. Finora, abbiamo ricompensato i colpevoli e punito gli innocenti. E' arrivato il momento di capovolgere le cose.
(Traduzione di Giuliano Battiston)
Premettendo che ogni previsione su come sarà il mondo tra duecento anni è un esercizio che si lascia volentieri ai premi Nobel, la visione nel nuovo libro di Robert B. Laughlin offre spunti interessanti. Il tema è l´energia, ma soprattutto l´agricoltura. La tanto bistrattata agricoltura, ritenuta da moltissimi un settore marginale, data così tanto per scontata da essere trascurata, lasciata per troppo tempo e con troppo potere in mano a un sistema agroindustriale globale che ha finito con il metterla in ginocchio, prima nei paesi poveri e ora anche in quelli ricchi. E sempre con effetti nefasti per ambiente, contadini e consumatori.
Laughlin sostiene che tra due secoli l´agricoltura sarà fondamentale per continuare a garantirci la vita. Dice che il settore agricolo sarà il principale produttore di energia nell´era post-fossile. L´idea di coltivare oceani e deserti per non far entrare in competizione cibo ed energia è molto affascinante e neanche tanto fantascientifica. Però bisogna ricordare che il cibo stesso è energia, perché ci nutre e ci fa muovere e perché cresce grazie alla fotosintesi clorofilliana, dunque all´energia del sole. L´agricoltura è sempre stata, lo è oggi e sempre sarà ciò che ci garantisce la vita.
Una volta presa coscienza di questo assunto banale ma un po´ troppo spesso dimenticato, va però fatto un discorso su come dovrebbe essere l´agricoltura del futuro. Che si debba cambiare profondamente, che la si debba rinnovare è un atto dovuto anche per il palese fallimento del modello intensivo-industriale che ha dominato l´ultima metà di secolo. Che l´interazione tra produzione di cibo e produzione di energia sia già nelle cose è dimostrato poi da come facilmente molte aziende agricole facciano già le due cose insieme. Il problema è che quando prevalgono la concentrazione, l´inseguimento di presunte economie di scala, l´idea per cui l´agricoltura è come uno qualsiasi dei settori industriali - e risponde alle stesse leggi economico-produttive - cibo ed energia saranno sempre in competizione tra di loro. Non bisogna fare "cibo o energia", ma "cibo e energia". Potremo coltivare gli oceani, i deserti e anche gli altri pianeti, ma senza cambiare il nostro modo di pensare continueremo sempre a risolvere un problema creandone un altro.
Sono sicuro che ci saranno innovazioni importanti in campo energetico, e tecnologie sempre più pulite per sfruttare direttamente o indirettamente l´energia solare (l´unica vera, enorme, sicura, perenne centrale che ci fa piovere addosso, in ogni momento, enormi quantità di energia) con tutte le forme che ne derivano. Ma ci vorrà la consapevolezza che tutto questo andrà realizzato in un sistema complesso che non dovrà più essere governato in maniera centralizzata. Ci vorrà un sistema capillare, diffuso, in cui le comunità e le persone diventano produttrici di cibo ed energia prima di tutto per se stesse e poi per gli altri, in rete tra di loro. È necessaria una democratizzazione della produzione energetico-agricola, con tecnologie accessibili che si diano come obiettivo primario la sostenibilità dei processi e non la possibilità di realizzare speculazioni. Già ora vediamo come biogas e fotovoltaico, che potrebbero essere dei modi perfetti per integrare la produzione agricola a livello aziendale, in nome del profitto e dei grandi numeri possano diventare altamente insostenibili, ponendosi come alternative, e non complementari, a un´agricoltura che così com´è risulterà sempre perdente, siccome non riesce più a generare entrate dignitose per i contadini. Per garantire il futuro non sarà tanto questione di quali tecnologie ci inventeremo, ma piuttosto in quale paradigma le vorremo calare.
Il successo delle fonti energetiche rinnovabili in Italia è stato finora basato su generosi contributi versati a chi, privati o enti pubblici, installa impianti di produzione di elettricità dal Sole o dal vento o dalla combustione di prodotti agricoli e forestali, compresi i rifiuti urbani con la scusa che contengono una parte di cibo e verdure. Tali contributi hanno dato vita a fenomeni speculativi; chiunque avesse un tetto, o un capannone, o un campo ha accettato le allettanti proposte di “promotori” che garantiscono la ricerca di finanziamenti, l’installazione di pannelli fotovoltaici, i contratti di acquisto dell’elettricità, e la sicurezza che chi accetta queste proposte ne avrà un utile economico diretto. Si tenga presente che una parte del pubblico denaro dei finanziamenti è poi pagato dai cittadini con un aumento delle bollette elettriche.
Da un certo punto di vista potrebbe anche essere giusto che tutti i consumatori di elettricità risarciscano coloro che producono tale elettricità con sistemi che, pur costosi in assoluto, consentono di evitare le importazioni di petrolio e carbone e gas naturale utilizzando le forze nazionali del Sole e del vento e che permettono di evitare le emissioni di gas responsabili dei mutamenti climatici. Le critiche che cominciano a circolare riguardano però il carattere puramente speculativo che caratterizza alcune installazioni, talvolta fatte in fretta senza tenere conto dell’intensità dell’energia solare e del vento effettivamente disponibili.
Alcuni criticano le “offese” al paesaggio provocate dalla comparsa di estensioni di pannelli e di torri eoliche, e delle strade che tagliano le colline per raggiungere queste installazioni. Altri si chiedono se “vale la pena” installare impianti fotovoltaici in terreni finora coltivati, che da anni assicurano un reddito, anche se faticoso, e che tale reddito potrebbero assicurare in futuro, per avere un reddito a breve termine, non si sa quanto duraturo in futuro. A Trani di recente si è visto che una strada era affiancata da una fila di ulivi espiantati dai campi per fare spazio ai pannelli fotovoltaici, ulivi che, dopo decenni di vita non daranno mai più quell’olio di cui la Puglia è stata il principale produttore nel mondo. Senza contare che pannelli e pale eoliche sono in genere prodotti all’estero e in Italia assicurano occupazione soltanto per le opere di installazione e di manutenzione, non si sa per quanto tempo.
La rapida diffusione delle fonti rinnovabili, nel passato decennio, fa venire in mente che anche dopo la crisi petrolifera degli anni settanta del Novecento ci fu una breve rapida passione per impianti solari, poi ben presto svanita quando il prezzo del petrolio ritornò basso. Inoltre, sia in quegli anni settanta, sia oggi, la stessa rapida passione non è stata accompagnata da un adeguato sviluppo di imprese italiane produttrici di impianti solari ed eolici per i quali, come si accennava prima, che adesso in gran parte siamo costretti ad importare. Un altro aspetto riguarda il fatto che la produzione di elettricità dal Sole e dal vento dipende dalle condizioni climatiche e dalle stagioni e dal ciclo diurno e notturno della fonte solare; queste irregolarità di erogazione devono essere compensate con complicati sistemi di collegamento con i grandi elettrodotti che dovrebbero essere adattati, con dispositivi “intelligenti”, in modo da utilizzare al meglio la nuova elettricità.
Le precedenti considerazioni non giustificano una sfiducia verso le fonti energetiche rinnovabili, tutt’altro ! Intanto elettricità “rinnovabile” potrebbe essere ottenuta anche utilizzando i piccoli salti di acqua corrente, con vantaggi per la lotta all’erosione del suolo e alla sistemazione di fiumi e torrenti nelle valli. Ma soprattutto le fonti energetiche rinnovabili, tutte derivate, direttamente o indirettamente, dall’enorme energia irraggiata dal Sole verso la Terra, sono le uniche adatte a fornire elettricità a comunità sparse nel territorio, in grado di utilizzare l’elettricità a mano a mano che diventa disponibile.
Il governo norvegese ha organizzato il 10 e 11 ottobre 2011, un incontro sul finanziamento dell’accesso all’elettricità dei paesi poveri: “Energia per tutti”. E il prossimo 2011 sarà proclamato dalle Nazioni Unite “Anno dell’energia sostenibile per tutti”. Nella sola Africa subsahariana 600 milioni di persone sono prive di elettricità, pur avendo abbondanza di Sole, di vento, di fiumi abbondanti e continui, di biomassa vegetale. La produzione e distribuzione di elettricità rinnovabile con reti locali sarebbe determinante per assicurare servizi e sviluppo e benessere a innumerevoli paesi e villaggi.
Ironicamente proprio cento anni fa il chimico italiano Giacomo Ciamician (1857-1922) aveva già preconizzato che l’energia solare avrebbe contribuito a riportare “la civiltà” nei paesi africani da cui essa aveva avuto origine: abbiamo perso un secolo di tempo e a questo obiettivo dovrebbero tendere con tutte le forze e le innovazioni i ricercatori e le imprese anche italiani.
Questo articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno
MILANO — Il titolo del provvedimento non potrebbe essere più chiaro: «Condono in materia di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili». Il testo circola in maniera un po' sotterranea (pare arrivi dal ministero delle Politiche agricole di Saverio Romano) e l'intenzione sarebbe quella di inserirlo nel decreto sviluppo al quale lavora il ministro Paolo Romani. Sedici paragrafi per sancire un nuovo «condono tombale» — non solo amministrativo ma anche penale — a favore di chiunque «abbia interesse» in un impianto di energie rinovabili costruito senza autorizzazione, o la cui autorizzazione (o denuncia di inizio attività, la cosiddetta «dia») stia per essere annullata, in sede giudiziaria o amministrativa. Chi sarebbe beneficiato da una simile misura? E quali abusi sarebbero sanati?
I sospetti sono tanti, ma in prima fila si possono collocare quelli di costruttori di impianti fotovoltaici a terra di piccola e media taglia, che per loro natura si possono edificare in tempi assai brevi, a differenza di quelli eolici o a biomasse che non possono essere trasferiti con facilità e senza aggravio di costi come nel caso dei pannelli solari. Illegalità o manovre allegre rese proficue dalla possibilità di intascare gli incentivi statali concessi alle energie rinnovabili, che malgrado le riduzioni stabilite lo scorso maggio dovrebbero garantire all'incirca 170 miliardi di euro nei prossimi venti anni a chi se li aggiudicherà. Una caccia che, tanto per dare un'idea della dimensione del fenomeno, si sintetizza nelle richieste di allacciamento alla rete elettrica: secondo i numeri dell'Autorità per l'energia «ballano» ad oggi circa 22 mila preventivi che non hanno ancora ricevuto un'autorizzazione.
Richieste che sono pari a 150 mila megawatt (soprattutto nelle Regioni del Sud), un'esagerazione assoluta se si pensa che il record di domanda elettrica di tutta l'Italia non ha mai superato 56 mila megawatt. Con l'emendamento che Romano cercherebbe di fare inserire nel decreto sviluppo si arriverebbe a una maxi sanatoria a fronte di un'«oblazione» di dieci euro per ogni chilowatt installato (a una famiglia media ne servono 3). Ma c'è molto di più, perché oltre ai procedimenti penali o amministrativi, con il condono non verrebbero più perseguiti neppure i reati edilizi, o quelli paesaggistici e ambientali.
Un «liberi tutti» esteso alle sanzioni accessorie come la confisca, e alle vere e proprie truffe camuffate da irregolarità e illegittimità di varia natura commesse ai danni del Gse, Gestore dei servizi energetici, l'ente statale che eroga materialmente gli incentivi alle energie rinnovabili. Il tutto, secondo la succinta relazione tecnica che accompagna la misura, sarebbe però giustificato da nobili ragioni economiche e ambientali: tra di esse la riduzione di gas serra, l'avvicinamento dell'Italia ai requisiti di Kyoto e il contributo all'autonomia energetica nazionale. Oltre il danno, insomma, anche la beffa.
Con la delibera di giunta siglata ieri, Napoli aderisce ufficialmente al network di città, al di qua e al di là dell'Atlantico, che applicano il protocollo «Rifiuti Zero». Sarà la città di maggiori dimensioni in Europa a strutturarsi intorno ai principi di riduzione alla fonte degli imballaggi, riciclo, riuso e compostaggio, trattamento meccanico manuale della frazione residua. Niente inceneritori quindi, ribadisce il sindaco Luigi de Magistris, né nuove discariche o ampliamento dell'invaso di Chiaiano. A ratificare l'impegno Paul Connett, professore emerito di chimica della statunitense St. Lawrence University, tra i maggiori teorici della strategia «Rifiuti Zero», già applicata in centri urbani come San Francisco, Oakland, Camberra o in regioni come la Nuova Scozia in Canada o in Galles, ma anche in Italia a Capannori, nel lucchese, e a La Spezia. Sarà lui a presiedere l'Osservatorio che avrà il compito di monitorare il percorso. All'interno della struttura rappresentanti dell'amministrazione, dell'azienda comunale Asia, addetta alla raccolta, e dei comitati di cittadini, i primi a credere e chiedere un piano alternativo per oltre sette anni, contro la politica istituzionale di destra e di sinistra e la grande stampa nazionale.
«La prima volta che ho conosciuto Connett - racconta il vicesindaco Tommaso Sodano - era il 2004, eravamo ad Acerra e la polizia caricava la popolazione che manifestava contro l'inceneritore in costruzione. Adesso è un onore averlo a Palazzo San Giacomo, sede del comune partenopeo. Già immagino l'ironia sui giornali perché con la delibera ci impegniamo ad abbattere la produzione di immondizia senza fosse e forni entro il 2020, quando il problema a Napoli non è ancora risolto. Ma noi stiamo lavorando a progettare un futuro sostenibile». In concreto, la delibera prevede: attrezzature negli esercizi commerciali per ridurre il volume degli imballaggi; prodotti alla spina nei punti vendita della grande distribuzione; l'introduzione del vuoto a rendere; incentivi all'uso di stoviglie biodegradabili, pannolini lavabili, imballaggi lavabili o biodegradabili; sistema tariffario basato sulla reale quantità di rifiuti prodotti; la realizzazione di un centro comunale per la riparazione e il riuso di beni durevoli e imballaggi. In settimana dovrebbe arrivare anche l'annuncio ufficiale della partenza della navi con i rifiuti verso l'Olanda, passo necessario per alleggerire gli impianti da riconvertire. Su tutto pesa la messa in mora da parte dell'Europa, per cui sarà necessario «lavorare con regione, provincia e governo per evitare che venga avviata la procedura d'infrazione e il blocco dei fondi», ha ribadito de Magistris. È stato lo stesso Connett ieri a spiegare che a Napoli si può applicare il modello utilizzato a San Francisco, una città con conformazione e popolazione simile. Quando si è cominciato, nel 2000, la raccolta differenziata era al 50%, quest'anno è al 77%. Come a Vedelago, in provincia di Treviso, si possono immaginare piattaforme dove separare l'immondizia (plastica, ferro, alluminio, carta, vetro...) da rivendere sul mercato di materie prime secondarie. Quello che avanza diventa un granulato plastico impiegato ad esempio in edilizia. L'umido negli Usa viene trattato in impianti di compostaggio vicini ai terreni agricoli, dove viene usato come fertilizzante. In tutta Italia stanno sorgendo catene che vendono solo prodotti alla spina per la casa, per il corpo e alimenti. «Quello che non si può riusare, riciclare o compostare - conclude Connett - non dovrebbe essere prodotto. Le imprese hanno una grande responsabilità». Un modello che chiedono anche i comitati del vesuviano, invece delle continue minacce di ampliare o aprire nuove discariche nel Parco nazionale.
Titolo originale: Work starts on solar bridge at Blackfriars station- scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Oggi cominciano davvero i lavori, con l’installazione del primo di oltre 4.400 pannelli solari sopra la pensilina della stazione di Blackfriars.
Lo storico spazio londinese sta subendo un importante e costoso intervento di modernizzazione con un prolungamento delle piattaforme verso il ponte di Blackfriars, costruito nel 1886.
Una volta completati i lavori nel 2012, sulla struttura di epoca vittoriana ci saranno 6.000 metri quadrati di pannelli fotovoltaici (PV): il principale impianto solare di Londra.
L’impresa responsabile, Solarcentury, prevede una produzione di circa 900.000kWh di elettricità l’anno, ad alimentare la stazione ed evitare 511 tonnellate di emissioni di CO2.
"Il ponte di Blackfriars è un posto ideale per l’energia solare; un ampio spazio in un edificio simbolico nel cuore di Londra" dichiara i direttore di Solarcentury Derry Newman.
"I fabbricati e ponti ferroviari rappresentano un elemento essenziale del paesaggio urbano, e in questo caso potremo produrre da ora in poi quotidianamente energia. La gente vedrà che il solare funziona, si tratta di un importantissimo passo in avanti per le energie pulite del futuro”
Ne caso di Blackfriars ci sono anche altri interventi di risparmio energetico, come Il sistema di raccolta delle acque piovane, o I condotti per la luce naturale, nel quadro dei programmi di Network Rail per ridurre entro il 2020 le emissioni del 25% per passeggero/chilometro.
Lindsay Vamplew, responsabile di progetto di Network Rail per Blackfriars, spiega che gi interventi di trasformazione faranno della stazione un nuovo modello per tutto il mondo.
"Il ponte vittoriano di Blackfriars fa parte della nostra storia ferroviaria. Realizzato nell’epoca del vapore, oggi lo stiamo di colpo trasportando nell’era delle tecnologie solari del XXI secolo, a creare una stazione simbolo in città"
Esiste oggi solo un altro ponte solare, quello pedonale di Kurilpa a Brisbane, in Australia, ma ad esempio in Belgio quest’anno si sono posati 16.000 pannelli su un a galleria, con una produzione in grado di coprire ‘intera rete ferroviaria del paese per un giorno.