Forse non è proprio vero che la natura stia invadendo la metropoli, piuttosto è il contrario, abbiamo disturbato il can che dorme, e adesso sono cavoli nostri. La Repubblica, 11 febbraio 2013, postilla (f.b.)
C’è qualcosa di ancestrale in un cinghiale che ti grufola in giardino. Evoca quella rivalità mai conclusa tra uomo e animale selvatico per il dominio degli spazi vitali. La fauna ora rivuole i suoi. Per la prima volta in Italia ci sono più di un milione di cinghiali, i caprioli hanno quasi raggiunto il mezzo milione, gli orsi da quasi estinti sono diventati un’ottantina. E poi i lupi. Erano cento alla fine degli anni. Sessanta, oggi sono più di mille.
Buone notizie per la tutela della biodiversità, che però si accompagnano a quelle pessime di attacchi all’uomo, vigne e coltivazioni distrutte (50 milioni di euro di danni solo nel 2012), pecore sbranate, incidenti stradali. Perché quando l’animale selvatico si avvicina alla città non sempre finisce bene.
In Toscana sono esasperati. Nella regione con la maggiore presenza di ungulati in Europa, i 150 mila cinghiali e i 140 mila caprioli hanno causato 20 milioni di euro di danni a colture e allevamenti dal 2005 al 2010, e ben 3.290 incidenti stradali. Il problema non sono solo loro. A Camporgiano in Garfagnana il 21 gennaio un pastore ha dovuto assistere impotente alla carneficina del suo gregge di pecore, attaccato da quattro lupi. Problemi anche in Emilia. Sui colli bolognesi, è notizia di pochi giorni fa, un uomo di 62 anni è stato azzannato da un cinghiale. In Trentino una parte dei cittadini non sopporta più la convivenza con i 45 orsi bruni reintrodotti col programma “Life ursus”. E una lupa con due cuccioli, manco a farlo apposta, fu avvistata vicino Roma, nel parco dei Castelli, durante la nevicata dell’anno scorso.
L’emergenza fauna è scattata in più di una metropoli in Europa. A Londra una volpe ha addirittura aggredito nella culla un neonato di quattro settimane. L’animale è riuscito a infilarsi nella sua cameretta e lo ha azzannato ad una mano, prima che la mamma riuscisse a scacciarlo. È successo a Bromley, sud-est della capitale, non proprio il cuore di una sperduta foresta. Eppure si stima che in città vivano 20 mila volpi. Londra non è un caso isolato. A Berlino un cinghiale di 120 chili a ottobre ha ferito quattro persone nel quartiere di Charlottenburg prima di essere ucciso a colpi di pistola da un poliziotto esterrefatto. Stessi problemi di convivenza nello stato di New York. «I cinghiali fanno i cinghiali, le volpi fanno le volpi — sintetizza il professor Francesco Petretti, zoologo dell’università di Camerino — non sono peluche, è sbagliato dar loro da mangiare come se fossero cani. E l’uomo si deve attrezzare a convivere, costruendo recinti in cemento per proteggere le greggi o mettendo l’autovelox su una strada come la Barrea-Pescasseroli nel fondovalle del parco d’Abruzzo, attraversata ogni notte da mille animali. Altrimenti in futuro i conflitti aumenteranno». Ma a cosa si deve questa esplosione di fauna alle porte delle città?
Gli esperti della Guardia forestale sostengono che sia conseguenza dell’aumento delle superfici boschive, dell’abbandono delle campagne e dei programmi di tutela della biodiversità. Nel 1985 i boschi occupavano 10 milioni di ettari di territorio, oggi 12 milioni. Il resto l’ha fatto l’istinto animale. I cinghiali si sono riprodotti in modo esponenziale, invadendo il centro Italia. «I lupi — spiega Ettore Randi, capo dipartimento all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale — cibandosi anche di cinghiali si sono moltiplicati e, per trovare nuovi spazi, si sono spostati dai parchi dell’Abruzzo e del Pollino fin sulle Alpi ». Per caprioli e camosci sono stati utili i piani di reintroduzione, così come per gli orsi marsicani ha funzionato la tutela. «Ora sono diventati confidenti — spiegano alla Forestale — si avvicinano ai paesi, non si spaventano al passaggio delle automobili». Tanto che un orso un paio d’anni fa ha ripulito la cantina di una guardia forestale, mangiandosi 26 forme di caciocavallo. Quando si dice un eccesso di confidenza.
Postilla
Forse invece di chiedere agli esperti, ovviamente per risparmiare tempo, il giornalista avrebbe fatto meglio a chiedere ai suoi colleghi che in tutto il mondo accumulano cronache parziali come la sua, di animali fra i più inusitati che spuntano nei più improbabili contesti urbani. Ne avrebbe ricavato almeno una ipotesi, come quella che da tempo provano a sostenere diversi studiosi di discipline urbane. E' un discorso che provo a sviluppare in modo più sistematico su Mall, come in questo articolo di ieri – Compagno cittadino, sorella pantegana - ispirato proprio dal caso horror della volpe londinese scoperta nella culla del neonato (f.b.)
Ha davvero ragione il noto esponente della teologia della liberazione: non è lui a essere pessimista, ma la realtà che descrive dominata dalla cieca speculazione finanziaria accettata più o meno da tutti. Il manifesto, 3 gennaio 2013, postilla (f.b.)
La realtà mondiale è complessa. È impossibile fare un unico bilancio. Tenterò di farne uno relativo alla macro-realtà e un altro alla micro. Se consideriamo il modo in cui i padroni del Potere stanno affrontando la crisi sistemica del nostro tipo di civilizzazione, organizzata nello sfruttamento illimitato della natura, nell’accumulazione anch’essa illimitata e in una conseguente creazione di una doppia ingiustizia (quella sociale, con le perverse disuguaglianze a livello mondiale, e quella ecologica, con la destrutturazione della rete della vita che garantisce la nostra sopravvivenza), e se prendiamo anche come punto di riferimento la Cop 18 sul riscaldamento globale, realizzata alla fine di questo anno a Doha in Qatar, possiamo dire, senza esagerazione: stiamo andando di male in peggio.
Proseguendo su questa strada, ci troveremo di fronte, e non manca molto, a un "abisso ecologico". Finora non si sono prese le misure necessarie per cambiare il corso delle cose. L’economia speculativa continua a proliferare, i mercati sono sempre più competitivi, che equivale a dire sempre meno regolati, e l’allarme ecologico, rappresentato nel riscaldamento globale, viene posto praticamente di lato. A Doha è mancato solo che si desse l’estrema unzione al Trattato di Kyoto. E per ironia nella prima pagina del documento finale, che nulla ha risolto, rimandando tutto al 2015, è scritto: «Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta e questo problema deve essere affrontato urgentemente da tutti i paesi». E non lo si sta affrontando.
Come ai tempi di Noè, continuiamo a mangiare, bere e apparecchiare le tavole del Titanic che sta affondando, ascoltando musica per di più. La Casa sta prendendo fuoco e mentiamo agli altri dicendo che non è niente. Ho due motivi per arrivare a questa conclusione realista che sembra pessimista. Voglio dire con José Saramago: «Non sono pessimista; è la realtà che è pessima; io sono realista». Il primo motivo è la falsa premessa che sostiene e alimenta la crisi: l’obiettivo è la crescita materiale illimitata (l’aumento del Pil), realizzato sulla base dell’energia fossile e con il flusso totalmente libero dei capitali, specialmente quelli speculativi. Questa premessa è presente nei programmi di tutti i paesi, compreso quello del Brasile.
La falsità di questa premessa sta nel fatto che non tiene per nulla in considerazione i limiti del sistema- Terra. Un Pianeta limitato non sopporta progetti illimitati, che non possiedono sostenibilità. Ovvero, si evita la parola sostenibilità che proviene dalla scienze della vita; la vita è non-lineare, è organizzata in reti di interdipendenza di tutti con tutti, reti che mantengono attivi i fattori che garantiscono il perpetuarsi della vita e della nostra civilizzazione. Si preferisce parlare di sviluppo sostenibile, senza tener conto che si tratta di un concetto contraddittorio perché è lineare, sempre crescente, che suppone il dominio della natura e la rottura dell’equilibrio ecosistemico.
Non si arriva ad alcun accordo sul clima perché le potenti multinazionali del petrolio influenzano politicamente i governi e boicottano qualsiasi misura che faccia diminuire i loro lucri e per questo non appoggiano le energie alternative. Cercano soltanto di aumentare ogni anno il Pil. Questo modello è rifiutato dai fatti: non funziona più né nei paesi centrali, come dimostra la crisi attuale, né in quelli periferici. O si trova un altro tipo di crescita che sia essenziale per il sistema-vita, ma che per noi deve rispettare la capacità della Terra e i ritmi della natura, o incontreremo l’innominabile. Il secondo motivo, per il quale mi sto battendo da oltre 30 anni, è più di ordine filosofico. Esso implica conseguenze paradigmatiche: il riscatto dell’intelligenza cordiale o emozionale per equilibrare il potere distruttore della ragione strumentale, sequestrata da secoli dal processo produttivo accumulatore.
Come ci dice il filosofo francese Patrick Viveret in Ripensare la ricchezza, «la ragione strumentale senza l’intelligenza emozionale ci può portare perfettamente alle peggiori barbarie »; basta considerare il ridisegno dell’umanità progettato da Himmler, che culminò nella shoah, nella eliminazione di zingari e deficienti. Se non incorporiamo l’intellighenzia emozionale alla ragione strumentale-analitica, non sentiremo mai il grido degli affamati, il gemito della Madre Terra, il dolore delle foreste abbattute e la devastazione attuale della biodiversità, nell’ordine di quasi centomila specie all’anno (E.Wilson). Con la sostenibilità deve venire la cura, il rispetto e l’amore per tutto quello che esiste e che vive. Senza questa rivoluzione della mente e del cuore andremo, si, di male in peggio.
Intervistato da Francesco Mele, il fondatore di Slow Food spiega come attorno all’alimentazione ruoti (ovviamente) un intero modello di sviluppo. L’Unità 20 novembre 2012 (f.b.)
«C’è chi vuole curare il malato usando gli stessi mezzi che hanno causato la malattia». Carlo Petrini, fondatore e presidente di Slow Food,guarda a quel che succede nel mondo ed è sempre più convinto che la crisi che stiamo attraversando sia più «profonda» di quel che si immagina perché non è soltanto economica. «È giunto il tempo di nuovi paradigmi», dice pensando a uno stile di vita che metta al suo centro la tutela dei beni comuni. «Se la politica non se ne rende conto non farà molta strada», avverte.
Allora, Petrini quali sono i segnali di questa crisi che rendono evidente la necessità di cambiare il nostro modello di sviluppo?
«Se vogliamo cominciare dalla crisi che ci attanaglia - e questa mi sembra un segnale più che evidente - possiamo dire che in realtà si tratta di una crisi strutturale, entropica direbbero gli esperti, dalla quale non si torna più indietro senza mettere in atto cambiamenti radicali. Le crisi economiche e finanziarie a cui ci eravamo abituati fino a pochi anni fa erano cicliche, in qualche maniera si risolvevano con il tempo e il normale andamento altalenante dell’economia. Ma oggi questa crisi è più profonda, e non è soltanto economica. Se la guardiamo da un punto di vista mondiale essa è anche climatica, ecologica, energetica, alimentare. Se la guardiamo da un punto di vista culturale è anche una crisi di valori, spesso sacrificati in nome del libero mercato e dell’omologazione industriale.
Mentre se mettiamo le lenti della politica risulta evidente che le classi dirigenti non sembrano più avere le idee tanto chiare su come affrontare il futuro e superare questa fase abbastanza drammatica. Questo perché c’è una classe politica che per ora non si sta dimostrando disponibile al cambiamento, e s’incaponisce a cercare di curare il malato con gli stessi mezzi che hanno causato la malattia. È come portare un diabetico in pasticceria e sperare che così guarisca. Invece è giunto il tempo di nuovi paradigmi, di cogliere la crisi come un’opportunità per rivedere alcune nostre priorità e per attuare un profondo mutamento che sia propedeutico anche a un nuovo umanesimo. Una rinascita vera».
Si sente parlare molto della necessità di tornare a crescere. Non sarebbe il caso di discutere,non solo in Italia, di quali debbano essere i criteri di questa crescita?
«Tutti parlano di crescita per superare la crisi. Tutti parlano di riprendere i consumi, di crescita del Pil, degli indicatori economici classici a colpi di punti percentuali. Purtroppo non si rendono conto che quest’era è già finita, che questi indicatori non ci parlano di vera crescita umana e sociale, anche economica. “Quando tutto deve ricominciare, tutto è già ricominciato”: è ciò che sostiene a ragione Edgar Morin, una delle menti più lucide della nostra contemporaneità. Infatti, mentre si parla e straparla di crescita economica vecchio stile ci sono ampi strati di popolazione mondiale, Italia inclusa, che stanno mettendo a fuoco i nuovi paradigmi: evitano gli sprechi, riusano, riciclano, risparmiano energia o attingono a fonti rinnovabili, riscoprono i vecchi saperi in ottica moderna, fanno economia locale e risvegliano il senso di comunità e di democrazia partecipata. I nuovi paradigmi stanno arrivando dal basso, e se il mondo politico non sarà abbastanza lungimirante da coglierli, e non soltanto per conquistare strumentalmente dei voti, si ritroverà ampiamente superato prima che se ne renda conto».
Certo, l’idea di un nuovo modello di sviluppo è già presente in numerose iniziative, anche nel nostro Paese. Slow Food ne è un esempio concreto da molti anni. Ma cosa potrebbe fare la politica, secondo lei, per favorire questa transizione?
«Sarebbe positivo, per esempio, se si cogliesse la portata politica - e parlo soltanto di ciò che mi è più vicino - di iniziative come Terra Madre, come un Salone del Gusto che ci ha parlato di buone pratiche, di nuovi modelli di sviluppo in agricoltura e lungo tutta la filiera alimentare. Sarebbe bello se si guardasse con maggiore attenzione alle migliaia di comunità che in Italia e nel mondo stanno davvero facendo qualcosa di concreto e d’importante. E non c’è solo Slow Food: sono tanti i soggetti che lavorano per mutare profondamente il quadro futuro a partire dal nostro quotidiano, dalle scelte che facciamo ogni giorno, come per esempio comprare del cibo. Ma tutto ciò è ritenuto marginale nel dibattito politico, quasi che occuparsi di cibo, agricoltura, ambiente, paesaggio, suoli, debba per forza essere un fattore accessorio. Invece, limitandoci a questi cinque elementi, stiamo parlando del più grande tesoro su cui siamo seduti in Italia. E senza un approccio nuovo, che veda le connessioni nascoste tra i vari comparti e temi, che ponga le basi per la tutela dei nostri beni comuni, questa preziosissima opera per ora è lasciata in mano alla società civile, che ha da tempo superato in capacità concreta di azioni qualsiasi macchina politica ufficiale. Credo che questo sia sotto gli occhi di tutti».
Perché proprio il cibo dovrebbe essere uno dei motori di un nuovo modello di sviluppo?
«Perché legati al cibo ci sono tutti gli elementi che possono rendere la nostra vita migliore. Parlando di cibo e usandolo come motore di sviluppo si può incidere sull’ecologia e sulla sicurezza dei nostri territori, sul mantenimento del paesaggio che attrae turisti e ci fa vivere meglio, sull’economia reale delle comunità che possono essere più prospere, sulla qualità della vita in città dove non è impossibile trovare cibo di prossimità. Dando la giusta importanza al cibo, attraverso una conoscenza non superficiale, si può riscattare la condizione degli agricoltori italiani, si può fare vera cultura, si può usare la memoria per imparare il futuro, si può agire sulla salute pubblica degli italiani. Tutte cose delle quali ci sarebbero anche persone deputate a occuparsene, ma pochi capiscono tutte le connessioni dirette e indirette con il cibo. Ecco, allora ribaltiamo lo sguardo e partiamo dal cibo, mettiamo prima al centro il cibo e sono convinto che tanto del resto verrà da sé, quasi in maniera naturale».
Bersani aveva proposto un ministero dello Sviluppo Sostenibile che mettesse insieme quello dello sviluppo e quello dell'ambiente. Può essere un buon punto di partenza per il prossimo governo? Si possono immaginare altre proposte che vadano nella stessa direzione?
Una nuova politica del cibo ci deve incoraggiare ad adottare una visione multidisciplinare, e lo stesso approccio dovrebbe replicarsi per altri temi centrali. Ogni tanto ci ritroviamo con ministeri diversi che prendono decisioni inconciliabili tra di loro, che si bloccano a vicenda, che inficiano le potenzialità di nuove norme proposte da qualche dicastero. Anche senza farlo apposta. È un paradosso tipico di chi non concepisce nulla senza passare per le specializzazioni e il riduzionismo, un modo di pensare che trovo obsoleto per questi tempi. È da anni che con Slow Food proponiamo di istituire un Ministero dell’Alimentazione, con competenze agricole e forestali, educative, energetiche, ambientali, economiche e commerciali. Sarebbe un nuovo modo di affrontare il governo del Paese: c’è chi pensa che forse sia troppo presto, speriamo che tra un po’ non sia troppo tardi.
Nota: per cogliere aspetti complementari del medesimo tema consiglio la recensione dell’ultimo lavoro della storica Emanuela Scarpellini dedicato agli italiani a tavola, che ho riportato con postilla su Mall (f.b.)
ROMA— Sempre meno alberi nelle città italiane. Gli abbattimenti aumentano vertiginosamente, le ripiantumazioni sono invece insufficienti, complice anche il profondo rosso delle casse comunali. A Roma, negli ultimi due anni, sono stati sradicati 6.647 esemplari, appena 2.198 sono stati sostituiti. A Palermo, il punteruolo rosso ha decimato 10mila palme, sono solo duemila quelle piantate. Un parassita del legno ha aggredito betulle, aceri, platani e pruni a Milano: 133 gli abbattimenti, la promessa è di seminarne altri. Promesse, appunto. Ma intanto l’Italia butta via il patrimonio arboreo delle sue città.
La Capitale guida questa triste classifica. Nelle strade e nei parchi di Roma si registra un saldo negativo di oltre quattromila fusti. Il trend dei dati forniti dal Servizio Giardini dal 2010 al 2012 non si discosta molto da quello degli anni precedenti. Il rischio è che avremo una metropoli con sempre più cemento e meno verde poiché i numeri non lasciano spazio a dubbi: 1.900 alberi in meno ogni anno. «Il patrimonio arboreo pubblico di Roma è stimato in circa 300mila alberi, almeno secondo l’ultimo censimento del 2002 — sottolinea Nathalie Naim, consigliera dei Verdi del Municipio Centro storico di Roma — e se si mantiene questa media fra 150 anni non rimarrà un solo albero pubblico». La distruzione degli arbusti negli ultimi tempi ha colpito quasi tutti i quartieri. Il centro storico ha perso 476 esemplari, l’area dei Parioli e del Flaminio altri 428.
Il caso Roma fa scuola su come cambia il volto verde delle città. Iplatani e i pini che sono i simboli verdi della Città Eterna (basti ricordare quelli di piazza Venezia che sono stati rasi al suolo per la costruzione della nuova metropolitana), ora non vengono più piantati. Il Comune opta per il frassino che devasta meno l’asfalto, il pero e le robinie. A questi numeri si vanno asommare gli abbattimenti nei giardini privati che, con il pretesto della mancata approvazione di un regolamento del verde, sono stati liberalizzati con una circolare del 2011. E da allora sono aumentati in modo esponenziale. «Si tratta di diverse migliaia di alberi tagliati per lasciare spazio a un posto auto o aun pratino all’inglese», conclude Naim.
Se la Capitale batte ogni primato, i dati sono allarmati anche nelle altre città italiane. L’attacco del punteruolo rosso ha decimato la palme Canariensis di Palermo. Sono stati abbattuti 10mila esemplari nelle zone più prestigiose dellacittà dal lungomare Foro Italico a via dell’Olimpo, una delle strade che porta alla spiaggia di Mondello. Di queste, ne sono state sostituite solo il 20%. A Bologna, il caso di piazza Minghetti ha provocato una sommossa popolare. Il progetto di restyling, assai criticato, ha fatto sì che fossero rasi al suolo 12 alberi (sostituiti con sole due magnolie), sacrificati per rendere ben visibili i palazzi delle due banche. A Varese, le motoseghe hanno fatto capitolare 18 arbusti a Casbeno, di fronte al palazzo della Provincia, per la costruzione di un parcheggio. Critica la situazione a Milano dove 133 alberi sono stati tagliati perché contaminati dal tarlo asiatico. L’amministrazione ha ordinato «l’abbattimento di ulteriori piante non sintomatiche nel raggio di 20 metri da quelle infestate». Una morìa. Nella lista dei fusti sono finite le betulle e gli aceri in via Novara, i filari di platani in via Diotti al confine con Settimo Milanese, gli aceri e pruni in via Taggia vicino all’ospedale San Carlo. «Le alberature stradali rappresentano corridoi ecologici utili agli uccelli per la riproduzione — spiega Matilde Spadaro del comitato Verde urbano — Si tutelino queste vite e si mettano regole vincolanti nei comuni d’Italia».
Postilla
Spiace dirlo, e in questo caso specifico pare un po’ di sparare sulla Croce Rossa, ma tra le varie cause del degrado, certamente non unica ma importante, c’è quella dell’approccio estetizzante e di settore che da troppo tempo prevale nel verde urbano. Per fare un esempio complementare, pochi giorni fa nella già citata Milano è esplosa una polemica sulle enormi quantità di alberi magari regolarmente piantumati, ma che poi non reggono alla prova, e devono essere sostituiti con notevoli spese (in città la tendenza è di operare con esemplari adulti assai costosi), magari per fare poi la stessa fine. Perché c’entra l’approccio estetizzante, o al massimo di settore? Perché tende a burocratizzare i controlli, ad esempio sul sistema degli appalti, o della manutenzione, o dell’esecuzione o meno di lavori, ma non tocca la prova del nove, che da sola darebbe l’idea del patrimonio economico che si sta gettando al vento, ovvero il contributo delle alberature al metabolismo urbano. Se ne parla sempre, affrontando il tema, ma in modo settoriale ed episodico: mai, come accade in tante grandi metropoli del mondo, nel quadro di una verifica periodica regolare su indici trasversali, che darebbero oggettivamente il quadro di ciò che non funziona, stimolando automaticamente gli interventi necessari. I criteri sono quelli del tetto massimo di emissioni, del contrasto alle isole di calore urbano, al contenimento dei consumi energetici ecc., che quando vedono quantificato e integrato il ruolo delle alberature e altre infrastrutture verdi cittadine fanno sì che non debbano essere poi solo le denunce, ad attivare la pubblica amministrazione. In questo sito, sulla totale confusione delle politiche urbane di settore si veda perlomento l'intervento di Lodo Meneghetti "L'odiato albero milanese" (f.b.)
Candela è un paesino che lega la Campania alla Puglia. I viaggiatori diretti a Bari lo incontrano alla sommità dell’Appennino, finita la salita dell’Irpinia d’Oriente. Spalanca gli occhi alla Daunia, li dirige sugli ettari di grano del Tavoliere, verso Foggia. A Candela nessuno pensava fino a vent’anni fa che il vento si potesse anche vendere. Il vento qui ha sempre fatto solo il suo mestiere: soffiare. Soffia quasi sempre, anche duemila ore all’anno. Contano le ore coloro che fanno quattrini col vento. Con un anemometro, un’asta lunga, una specie di ago d’acciaio diretto al cielo, si può conoscere se è buono o cattivo, forte o debole. Se soffia come si deve o se fa i capricci. Se è utile a far fare quattrini, dunque.
Arrivarono le aste e con loro particolari personaggi che organizzavano il mercato del vento. Sviluppatori si chiamavano. Sviluppavano il territorio, certo. Gli agricoltori di Candela ne furono lieti, anche il sindaco e tutta l’amministrazione comunale. C’era la possibilità di ottenere qualche migliaio di euro dalla società che avrebbe innalzato le pale eoliche. E soldi per fare una bella festa patronale per esempio e far venire (altrove era già successo) i cantanti di X Factor finalmente! E anche sostenere la squadra di calcio: divise nuove per tutti!
Pure belle sono le pale. Se le vedi da lontano sembrano rosoni d’acciaio o margherite giganti, dipende dai tuoi occhi, da dove le miri. Fanno la loro figura comunque. Ognuno degli abitanti del vento ha una sua immagine da offrire al pubblico dibattito. A un sindaco del Tarantino, per esempio, parevano simili a mulini a vento: “Abbiamo già il mare e avremo i mulini, delle possibili attrazioni per il nostro territorio sempre danneggiato, vilipeso dal nord”.
Le pale eoliche messe una accanto all’altra formano, come ha sempre spiegato Legambiente, un parco eolico. La parola parco dice tutto: significa ambiente tutelato, prati verdi, cielo azzurro, aria pulita. Finalmente il sud non avrebbe insozzato l’aria, anzi l’avrebbe trattenuta e gestita nel miglior modo possibile. Così a Rocchetta Sant’Antonio iniziarono a mettere le pale che pian piano giunsero fino a Candela, poi si volsero verso Monteverde e Lacedonia, paesi limitrofi. Puntarono in direzione di Foggia, cinsero Sant’Agata di Puglia come un pugno stringe una rosa, s’incamminarono verso Lesina, verso il mare dell’Adriatico.
Pale, pale, pale. Un’alluvione di pale che ha conquistato tutto il sud. Loro in cima alle montagne, i pannelli fotovoltaici in terra. Creste d’acciaio in aria, e in basso silicio al posto degli ulivi, come in Salento, silicio invece degli agrumi, come in Calabria. Silicio e non pomodori, o vitigni, o alberi. Silicio in nome dell’energia sostenibile, del Protocollo di Kyoto, delle attività ecocompatibili. In nome del futuro dell’uomo. Conviene dunque partire da qui, dall’Irpinia d’Oriente, epicentro del vento, per illustrare il più straordinario, galattico affare di questo inizio secolo. Per domandare come sia stato possibile costruire una fabbrica di quattrini per pochi intimi, un giro d’affari che nel 2020 toccherà punte multimiliardarie, deviando nelle casse pubbliche qualche spicciolo. L’equivalente di un’elemosina. Come sia potuto accadere che un tesoro collettivo inesauribile è stato ceduto ai privati. Che non una pala, una!, sia veramente e totalmente pubblica. Per volere di chi, grazie a complicità di quali menti, di quali mani, di quali occhi? E in ragione di quale bene comune il bilancio statale ha immaginato di destinare, per sostenere il ciclo vitale dello sviluppo delle rinnovabili, un monte di soldi che, in una puntuale, analitica interrogazione parlamentare al ministro dello Sviluppo economico e a quello dell’Ambiente, la radicale Elisabetta Zamparutti, unica curiosa tra le centinaia di colleghi silenti, stima in circa 230 miliardi di euro. Solo quest’anno, nel tempo feroce della spending review che taglia ospedali e trasporti, trasforma in invisibili gli operai, taglia commesse e finanziamenti e con loro cancella la vita precaria dei precari, si dovranno accantonare altri dieci miliardi di euro da investire nello sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, le cosiddette Fer. Dieci miliardi! Uno sforzo titanico a cui gli italiani sono chiamati a partecipare versando l’obolo in rate bimestrali attraverso un sovrappiù della bolletta elettrica. Si chiamano incentivi. Erano i famigerati certificati verdi sterilizzati da nuove norme, le cosiddette “aste”. E non ha importanza che la soglia di rinnovabile elettrica sia stata raggiunta impetuosamente con otto anni di anticipo.
ORIZZONTE D’ACCIAIO
Candela accoglie i viaggiatori nel grande piazzalediunastazionedirifornimentodicarburante. Il vento spazza l’asfalto. La sosta è obbligata per i bus che collegano l’est con l’ovest del Mezzogiorno. Arrivano le corriere da Napoli. Chi vuole andare a Foggia non conta infatti sul treno, sarebbe una via crucis. Perciò il bus. Il viaggiatore può attenderlo nel bar di antico sapore bulgaro. Una stradina lo costeggia e ci conduce verso Rocchetta Sant’Antonio, sulla linea di confine pugliese. Superata la prima curva, l’orizzonte si fa d’acciaio. Una foresta di tubi e di pale, l’una dietro l’altra a recinto dei crinali delle montagne. L’orizzonte è tagliato dalle eliche, sembra che la terra possa decollare e tutti noi puntare da un momento all’altro verso il paradiso. “I contadini hanno fittato agli imprenditori del vento e si sono rifugiati altrove – dice Enzo Cripezzi, presidente della Lipu Puglia e uno dei maggiori indagatori del fenomeno eolico – Hanno messo in tasca i pochi quattrini, una somma comunque incomparabile rispetto al reddito miserabile dell’agricoltura, e hanno scelto l’abbandono. Sono fuggiti col teso-retto, felici finalmente”. Verso Rocchetta troviamo a far compagnia alle torri una poiana, rapace autoctono, che tenta di fare spuntino con una lucertola e poi compare più in là un biancone. Sono uccelli migratori, profondi conoscitori delle correnti del vento.
Vivono grazie ai vortici depressionari che d’estate li conducono in Italia, in Spagna, nei territori caldi dell’Europa e l’inverno li riportano in Africa dove attendono il nuovo viaggio. Il biancone, della larga famiglia delle aquile, conosce così bene le correnti da superarle aggirando il Mediterraneo, prendendolo ai fianchi: costa ligure, costa azzurra, costa brava, stretto di Gibilterra, infine Marocco. Fanno fatica a superare l’acqua e questi uccelli migratori sono simili – in quanto a viaggi della speranza – agli uomini migranti. Gli umani muoiono sui barconi, gli animali in aria se il loro corpo non resiste alla fatica che la natura impone. Fino a ieri il pericolo era il canale di Sicilia, superato il quale veleggiavano verso la salvezza. Adesso no, le eliche li confondono e li annientano.I nibbi reali, le cicogne nere, specie protetta e rara, possono incappare nelle turbine, ferirsi e morire. Così i falchi, le poiane, e ogni uccello che tenti di attraversare l’Appennino. Effetti collaterali minori, si dirà. E qual è l’effetto visivo, l’impatto ambientale, la forza prepotente e magica di questi spuntoni di roccia che affiorano sui pendii descritti da Gabriele Salvatores nel film Io non ho paura? “La natura non aveva preventivato le pale eoliche – dice Cripezzi – Guardare oggi questo panorama e compararlo con quello di ieri fa venire un’enorme tristezza, un dolore profondo e rabbia”. La stradina si confonde al vecchio tratturo e punta su Monteverde. Il paese che guarda le pale. 850 abitanti, solo un anziano sulla panchina: “A me fanno venire le vertigini. Allora piglio una pasticca e tutto passa”.
DECIDONO LE REGIONI
Non si può dire no al petrolio e affossare l’eolico e il fotovoltaico, certo. Ma si poteva, anzi si doveva gestire il territorio, dividerlo per caratura paesaggistica,garantire alle pale un luogo e al paesaggio la sua identità. Scegliere dove metterle, e come. Preservare il possibile e il giusto. Invece? Invece la legge nazionale delega alle regioni. Lo sviluppo dell’energia è questione loro. E il paesaggio tutelato dalla Costituzione? Problema locale. Le Regioni anziché fare un piano regolatore dei venti e delle pale e promuovere partecipazioni pubbliche allo sviluppo dell’energia pulita, rendendo bene comune, esattamente come l’acqua, il vento e il sole, privatizzano progetti e attuatori. Tutto demandato agli uffici del Via, microscopici controllori della legalità e del paesaggio che col tempo fungono da predellino delle lobbies. “L’Europa ci vieta, per le norme sulla concorrenza, di prendere parte all’impresa”. Un leit motiv non soltanto falso, ma irriconoscente della realtà: non era vero, né poteva esserlo.
Ma era comodo dirlo. Pensate che la signora Renata Polverini, presidente della Regione Lazio, nel primo semestre di quest’anno ha prodotto circa 230 nomine tra consulenti e consiglieri di amministrazione nelle più diverse e bizzarre diversificazioni merceologiche dell’intervento pubblico. Manca solo l’azienda regionale per la promozione del cioccolato bianco. Tutto si può e tutto si fa, ma l’energia non è un bene pubblico, e lo sfruttamento delle risorse naturali non è questione collettiva. Ricordiamo le parole di sintesi – a proposito della discussione sulla misura degli incentivi da dare ai privati – di Gianfranco Micciché, viceministro al tempo del governo Berlusconi, noto a tutti per le sue battaglie ambientaliste: “Chi tocca il fotovoltaico si propone di far cadere il governo”. E così i raggi del sole si sono trasformati in infiltrazioni private sulla terra. Affari della Sanyo, come a Torre Santa Susanna, in provincia di Brindisi . Decine di ettari di terreno confiscati all’agricoltura sui quali sono stati riposti 33mila moduli solari per farne l’impianto tra i più grandi d’Europa. Finanziamento tedesco e tecnologia giapponese. “Vorrei esprimere le nostre sincere congratulazioni per il completamento di questo progetto e ringraziare Deutsche Bank per averci dato fiducia nella scelta dei nostri moduli solari”, commentò Misturu Homma, executive vicePresident di Sanyo. Giusto. Il sole è italiano, ma non conta, non vale. Non si vende. Si regala. Come pure i terreni. Pochi quattrini e affare fatto. Oggi il ministro dell’Agricoltura, l’unico sensibile al consumo del suolo, propone una moratoria uno stop al consumo del suolo. Il governo ha appena licenziato il disegno di legge. Catania non è stato certo aiutato dal collega dell’Ambiente, il prode Clini. Clini non sa o non ricorda che in Italia esistono circa 13 milioni di abitazioni costruite dopo il 1970, quindi senza particolare tutele. Sui tetti i pannelli e gli ulivi per terra: era più naturale e forse possibile? Possibile senz’altro ma troppo dispendioso per i privati: molto più facile tombare di silicio centinaia di ettari di terreno. Molto più veloce e produttivo.
Sono stati cementificati 750mila ettari di territorio solo nell’ultimo decennio. Una parte poteva essere destinata ad ospitare i pannelli? Macché, troppo complicato. Via col vento e col sole dunque. E via con le imprese.
Il Mezzogiorno è stato spartito in spicchi d’influenza.Ad alcune aziende monopoliste sono stati affidati i lucchetti: la Fortore Energia ha cinto la Puglia, l’Ipvc la Campania, Moncada la Sicilia. In Calabria molte srl, alcune delle quali facenti capo indirettamente alle famiglie più importanti della ‘ndrangheta. La Piana lametina e il Crotonese sono stati assoggettati all’illegalità più clamorosa, plateale. Non c’è pala messa che non sia stata accompagnata da un’inchiesta giudiziaria. Truffa, corruzione, falso. Il trittico dei reati tipici, la serializzazione dell’attività giudiziaria. Energia pulita per mani sporche. Non tutte sporche, naturalmente. E non tutti imprenditori affaristi, naturalmente. Ma di certo tutti hanno goduto di una deregulation mai vista, incredibile solo a pensarci.
Edison, Sorgenia, Green Power, Sanyo e poi olandesi, spagnoli, cinesi. Tutti nel business. Solo privati però, sempre privati. Lo Stato non ha partecipato in nessuna forma, e gli enti locali neanche per sogno hanno accompagnato lo sviluppo eolico con una loro presenza, magari anche minoritaria, nelle società di produzione. In Puglia la fabbrica ideologica di Nichi Vendola, secondo cui l’energia, per il solo fatto di essere rinnovabile e pulita fosse obbligatoriamente da catalogarsi a sinistra, ha permesso a essa di straripare. A nord della regione le pale, a sud i pannelli. Nichi ha chiuso la stalla quando i buoi erano già tutti scappati. La Campania è stata comprata come detto dal signor Vigorito, capo dell’Ipvc, pioniere del vento. Acclamato presidente dell’Anev, l’associazione degli industriali del vento. Associazione “ambientalista” secondo i protocolli in uso per i tavoli del ministero dell’Ambiente. Una benemerita. Nel 2005 Legambiente e Anev hanno sottoscritto un protocollo d’intesa con lo scopo di promuovere l’eolico in Italia. “Insieme organizzano e collaborano”, scrive il sito ufficiale degli imprenditori. Purtroppo nel 2009 il presidente dell’Anev, questa titolata associazione ambientalista, viene arrestato. La Guardia di Finanza sequestra sette “parchi” eolici in diverse regioni e accusa Vigorito…
Era ieri. Torniamo all’oggi. Al 2011 sono state installate 5500 torri eoliche per quasi settemila megawatt di potenza installata. Altrettante sono in arrivo. Tutte concesse a tempo di record. E chi vorrà dedicarsi alla coltivazione del mini eolico (torri alte anche cento metri fino a 1 megawatt) non dovrà neanche attendere la firma: basta la dichiarazione di inizio attività.Sarà zeppo di acciaio anche ciò che ora è libero da impianti. Anche le vostre montagne e i vostri occhi dovranno abituarsi. Serve energia pulita. E che nessuno fiati.
In vista della Terza Conferenza internazionale per la sostenibilità ecologica e l'equità sociale Da Barcellona in bicicletta, passando per la Val di Susa. Da Ferrara in asino, e in trekking lungo il Po. Seicento iscritti al meeting>
Da Barcellona arriveranno in bicicletta (sono partiti a fine luglio passando per la Val di Susa). Da Ferrara a piedi con gli asini. Dal Piemonte con un trekking lungo il Po. Da Kathmandu, da Lagos, da Reykjavik, da San Salvador e da altre città di 45 paesi diversi arriveranno molto probabilmente in aereo, ma seguendo i consigli contenuti in una lettera inviata dai Bilanci di Giustizia (il gruppo creato da don Gianni Fazzini che da anni monitora le spese di un migliaio di famiglie) per abbassare al minimo e compensare gli impatti ambientali.
Stiamo parlando dei seicento iscritti alla 3a Conferenza internazionale sulla decrescita per la sostenibilità ecologica e l'equità sociale che si apre mercoledì 19 settembre a Venezia (tutto l'articolato programma su: www.venezia2012.it). A promuoverla un pool di associazioni (Research & Degrowth, Kuminda, l'Arci e altre), due università (l'Università di Architettura di Venezia e l'Università di Udine) e il Comune di Venezia.
Chi sono i decrescenti o decrescisti o «partigiani della decrescita», come li chiama Serge Latouche? In Italia il più noto sul versante della promozione della riconversione tecnologica mirata alla riduzione dei consumi energetici è sicuramente Maurizio Pallante con il suo Movimento per la Decrescita Felice. Mentre sul piano della ricerca teorica interdisciplinare, la Associazione per la decrescita di Marco Deriu, Mauro Bonaiuti, Gianni Tamino, Alberto Castagnola e altri, è sicuramente la più prolifera di pubblicazioni, scuole e divulgazioni culturali. Ma la base del movimento - è il caso di cominciare a trattarlo come tale - è costituita da una miriade di gruppi locali autonomi e molto diversi tra di loro (i partner italiani della Conferenza sono 73, aggregatisi lungo un percorso di avvicinamento e preparazione durato un anno e costellato da incontri, laboratori, campi scuola), ma tutti impegnati nella ricerca di soluzioni capaci di accompagnare l'uscita dall'era del «dopo-sviluppo», cioè di una situazione di crisi irreversibile dei modelli economici e sociali fondati sull'idea ingannevole dell'accrescimento indefinito dei profitti, dell'accumulazione monetaria, dell'intensificazione dei consumi delle risorse naturali e dello sfruttamento umano.
Le loro premesse analitiche e le loro attività pratiche, quindi, si presentano in modo molto radicale. Alcuni, come l'Associazione degli ecofilosofi, vedono un legame molto stretto tra decrescita e deep ecology che arriva ad abbracciare animalisti ed antispecisti. (Inutile dire che il menù alla 3° Conferenza sarà per metà vegetariano e per metà vegano, preparato dalla più antica cooperativa di ristoratori La ragnatela fondatori di Slow Food, già Gambero Rosso per gli affezionati lettori de il manifesto). Per altri, invece, la decrescita è semplicemente la ricerca di stili di vita individuali il più informati e responsabili possibili. Non a caso l'anteprima della Conferenza (15 e 16 alla Centrale dell'altreconomia di Mestre) sarà un convegno nazionale dei Gruppi di acquisto e dei distretti di economia solidale dal titolo «Ricostruire comunità territoriali capaci di futuro». Per altri ancora la decrescita non si chiama decrescita, ma «Transition Town» (il movimento che opera come se il petrolio fosse già finito, fondato in Inghilterra da Rob Hopkins, presente a Venezia il giorno della inaugurazione), o «semplicità volontaria» (come la chiamava Kumarappa, l'economista di Gandhi, che sarà presentato in un Focus sulle fonti del pensiero della decrescita), o economie dei «beni comuni», come sempre più spesso si usa dire e come riferirà Silke Helfrich della Heinrich Boll Foundation di Berlino presentando uno studio decisivo sull'argomento appena pubblicato negli Stati Uniti: «The Wealth of the Commons. A World Beyond Market & State». Per altri ancora decrescita significa «Prosperità senza crescita», come dimostrano possibile i ricercatori della New Economy Fondation di Londra.
Il ventaglio delle declinazioni possibili del tema della transizione, del passaggio di civiltà, utilizzando la matrice della decrescita può essere quindi ampio: si va dalle proposte più moderate vicine alla green economy a quelle esplicitamente anticapitalistiche. Alla 3a Conferenza l'arduo compito di metterle a confronto e, soprattutto, di capirne le connessioni. Per questo servono approcci interdisciplinari e multilivello. A partire dal recupero di una visione di genere sulle relazioni umane, per il superamento della divisione sessuale del lavoro. Promette bene la presenza di un significativo gruppo di studiose ecofemministe con Veronika Bennholdt-Thomsen, Alicia Puleo, Mary Mellor, Helena N. Hodge.
Forse la scommessa più interessate della formula della Conferenza di Venezia è quella di tentare di far interagire buone teorie e buone pratiche, persone impegnate sul versate «accademico» e attivisti impegnati nei movimenti della cittadinanza attiva.
È l’estate dei roghi nelle discariche che sprigionano diossine e altri cancerogeni. L’estate dei veleni nell’aria e nei cibi. Da Caserta a Palermo, passando per la Puglia. Gli incendi di rifiuti accomunano il Sud d’Italia nell’ennesima emergenza tra rimpalli di competenze, ritardi negli interventi e un’altalena di rassicurazioni e allarmismi sul rischio per la salute.
A Palermo brucia da sette giorni la discarica di Bellolampo, quella in cui confluiscono tutti i rifiuti della città. Per fronteggiare i roghi, oltre ai Canadair, è stato mobilitato addirittura l’Esercito.
Le fiamme, hanno accertato gli investigatori, sono dolose e sono state appiccate dai piromani in tre punti, nonostante la vigilanza interna, con precisione chirurgica. Ma chi ha interesse a bloccare l’impianto? Secondo i magistrati di Palermo, il procuratore aggiunto Ignazio De Francisci e il sostituto Gery Ferrara, dietro al rogo si nasconderebbe il business legato allo smaltimento dei rifiuti. Dalla montagna che sovrasta la città si innalza una nube nera che ha già invaso la periferia e si dirige anche verso i paesi della provincia.
Il sindaco Leoluca Orlando al sesto giorno di fiamme è corso ai ripari. Ha scritto al ministro Passera chiedendo la testa dei commissari Amia e ha emesso un’ordinanza che vieta il consumo dei prodotti agricoli coltivati nelle zone più prossime all’incendio. Un provvedimento «cautelare», rassicura Orlando che intanto prescrive controlli sul latte materno e impone il lavaggio di strade e tetti dei quartieri a ridosso di Bellolampo.
L’Arpa, l’azienda regionale per l’Ambiente, ha diffuso solo dati parziali sull’inquinamento dell’aria che già indicano una considerevole concentrazione di benzene, toluene e xileni nell’aria, ma non delle diossine. I risultati completi si dovrebbero avere la prossima settimana, mentre in città si sono accumulate 3.300 tonnellate di rifiuti.
Ma quella di Palermo non è che l’ennesima emergenza di un meridione sommerso dall’immondizia e nella morsa degli interessi milionari che girano intorno allo smaltimento. Un business che alimenta gli appetiti della criminalità organizzata. È quello che succede in Campania e in Puglia dove a cadenza giornaliera si appiccano roghi ai rifiuti speciali nelle campagne.
È accaduto a Foggia e da due mesi si ripete a Bari, dove i cassonetti finiscono in cenere in vari punti della città. L’azienda municipalizzata ha già presentato due esposti denunciando un vero e proprio disegno per boicottare il sistema dei rifiuti. La scia degli incendi continua tra Napoli e Caserta dove i roghi hanno una storia ventennale. Ad appiccarli le bande legate alla camorra che distruggono così i rifiuti speciali — dall’eternit ai pneumatici — abbattendo per conto di imprenditori senza scrupoli i costi di uno smaltimento autorizzato.
Un giovane farmacista di Giugliano, Angelo Ferrillo, da cinque anni racconta sul blog laterradeifuochi. it tutti i roghi, ricevendo centinaia di segnalazioni. Ne viene fuori la mappa di uno scempio quotidiano, da Scampia a Marcianise, da Casal di Principe a Santa Maria Capua Vetere. «A Caserta — racconta Ferrillo — ci sono almeno venti incendi al giorno. All’opera bande di Rom in contatto con gli imprenditori. Abbiamo denunciato sindaci, prefetti e l’azienda regionale per l’ambiente alla commissione europea». In campo è sceso anche il “Collettivo Latrones”, un gruppo di intellettuali e artisti campani che ha scritto al ministro della Salute, Renato Balduzzi, ribattendo polemicamente a una risposta del ministro in Parlamento sull’aumento dell’incidenza dei tumori: «Le nostre abitudini alimentari non c’entrano, qui è in corso uno sterminio che dipende dai roghi dei rifiuti».
Pare (lo sostiene Le Figaro), che il governo Hollande abbia scoperto che non ci siano i soldi per tutte le grandi opere avviate da Sarkozy e che occorra stabilire delle priorità. Tra i progetti in forse c’è anche la linea ferrovia-ria Torino-Lione, malamente soprannominata Tav. Apriti cielo! Ma non era un progetto irrinunciabile, da cui non si poteva tornare indietro, e che la Francia tutta voleva realizzare? Anche Hollande si era espresso a favore durante la campagna elettorale. Ma poi, forse, un qualche realismo ha prevalso, anche indipendentemente dalla crisi. Molti studiosi francesi indipendenti avevano infatti già espresso forti dubbi, esattamente come in Italia; e anche lì altrettanto inascoltati, dato il peso degli interessi intorno a queste “fontane di soldi pubblici”.
É un bene per l’Italia? Non sappiamo ancora, né sappiamo se la Torino-Lione uscirà dall’elenco o no. Ma sicuramente è un bene che si evidenzi l’assoluta necessità di determinare una gerarchia tra progetti. C’è da sperare che questa gerarchia sia determinata sulla base di valutazioni economiche e finanziarie trasparenti, democraticamente conoscibili e discutibili. Questo è il nocciolo della questione, che non vuol dire che alla fine la scelta non debba essere politica, anzi. Ma esplicita sì, si tratta di un prerequisito irrinunciabile, quando ci sono in gioco tantissimi soldi pubblici e lobby molto potenti.
In particolare, il quadro macroeconomico (per entrambi i paesi) richiede che ogni euro di spesa pubblica sia indirizzato a creare la massima occupazione possibile, il più rapidamente possibile. Dobbiamo rilanciare la domanda interna e farlo rapidamente. I lavoratori spendono subito, non possono accumulare. Le grandi opere hanno caratteristiche opposte: per ogni euro, creano poca occupazione rispetto alle piccole opere e alle manutenzioni, e la creano nel lungo periodo. Poi il settore ferroviario richiede molti più soldi pubblici di quello stradale, nonostante le sue benemerenze ambientali (che spesso vengono sovrastimate, e non certo in modo innocente). Speriamo che il governo Monti faccia tesoro di questa evoluzione francese, e si decida a fare un po’ di analisi economiche indipendenti e comparative, cosa mai fatta fin’ora da nessun governo.
Al vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro Susan George non c’è. Troppo prevedibili gli esiti, troppo smaccati – sostiene la chair of board del Transnational Institute di Amsterdam – i tentativi messi in atto dalle grandi corporation transnazionali: trasformare anche la natura in merce, privatizzarne l’accesso, escluderne i più poveri. Una deriva mercantile che l’autrice di Le loro crisi, le nostre soluzioni (Mondi media 2012), fiera oppositrice del modello neoliberista, contesta da decenni, e a cui sin dal 2007 oppone un «New Green Deal»: un nuovo grande piano di investimenti, che punti al rinnovamento ecologico del sistema produttivo ed energetico, coniugando sostenibilità ambientale e giustizia sociale. Nulla a che vedere con il concetto di green economy, tiene a precisare Susan George;Dopo giorni di incontri, dibattiti, accese discussioni e contestazioni, si è concluso il vertice di Rio. Qual è il suo giudizio?
«A Rio tutto questa volta è andata perfino peggio del solito, se possibile. Il World Business Council per lo sviluppo sostenibile, la Camera di commercio internazionale e altre lobbies delle corporation hanno perseguito la stessa agenda per 20 anni, e pare che siano riuscite ad aggiudicarsi una vittoria importante: le Nazioni Unite hanno completamento abdicato e si sono ritrovate a sostenere l’agenda di questi attori, a discapito di tutti gli altri, rimasti esclusi. Da quel che ho avuto modo di leggere o ascoltare, non mi sembra che i governi abbiano avuto niente di veramente “progressista” da dire. L’unica cosa degna di nota, che andava seguita, erano gli eventi laterali, quelli che hanno fatto capo a People Rio+20, la contro-conferenza del vertice».
Lei non ha mai nascosto il suo scetticismo nei confronti del concetto di «green economy», di cui molto si è discusso a Rio. Ci spiega meglio il suo punto di vista?
«Sulla green economy continuo a mantenere posizioni critiche, come quasi tutti gli altri sostenitori della giustizia climatica e della sostenibilità intesa nel senso più genuino del termine, perché sono le corporation che ne stanno definendo i contenuti, secondo i propri interessi. Non è un caso che stiano per essere introdotti dei prezzi veri e propri per i “servizi” che la natura fornisce all’uomo; che i principi mercantili stiano per essere installati in ogni settore, incluso quello della conservazione della natura, mentre i “prodotti” della natura vengono progressivamente privatizzati. Oggi bio-diversità non significa altro che un’ulteriore fonte di materiali grezzi, da cui trarre profitto. A ben guardare, le compagnie che si occupano di biologia sintetica sono così avanti rispetto a noi che non abbiamo ancora la minima idea delle conseguenze delle loro attività, penso per esempio agli organismi ibridi o alle “chimere”, che renderanno gli Ogm, che abbiamo a lungo contestato, delle innocue verdure da orto domestico. Su questo, dovremmo provare a chiedere qualcosa a Pat Mooney, dell’Etc Group, l’associazione che monitora il potere connesso alle tecnologie»
Per lei dunque dietro il concetto di green economy si nascondono molte insidie; eppure per molti bisogna comunque puntare sulla green economy, nonostante i rischi che implica, perché possiede quella carica «evocativa» necessaria affinché tutti riconoscano che è ora di trasformare le nostre società...
«Se mi sta chiedendo se dobbiamo tentare di prevenire il cambiamento climatico e mitigare a tutti i costi l’innalzamento delle temperature, allora rispondo di sì, che sono d’accordo: se il mondo del business è l’unico in grado di farlo, allora che lo faccia, visti i rischi enormi che abbiamo di fronte. Ma rifiuto di adottare un atteggiamento così rinunciatario, perché sono convinta che ci sia ancora l’opportunità di investire in un “Green New Deal”, riappropriandoci del nostro sistema finanziario, impazzito e disfunzionale, socializzando le banche, tassando le transazioni finanziarie a livello internazionale e investendo nel bene comune, in altri termini in quello che definisco, appunto, “Green New Deal”. Ciò significa che dovremmo tenere a mente, come priorità, le preoccupazioni sociali, i bisogni umani, la preservazione e la condivisione delle risorse scarse, e allo stesso tempo rispettare le comunità indigene. La green economy è tutt’altra cosa. Non dimentichiamo poi che ogni volta che abbiamo ceduto alle richieste o alle lusinghe del mondo del business abbiamo sempre dovuto pagare un prezzo eccessivo. Si guardi alla crisi attuale, ormai al suo quinto anno. Se dovessimo cedere anche questa volta, perderemmo tutto, inclusi i beni comuni, materiali e immateriali, probabilmente per sempre»
Chiude Rio+20 Per le ONG
una «occasione sprecata»
cronaca di Emidio Russo
Oggi si chiude, non senza polemiche, il vertice Onu sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro con 190 Paesi. Dopo vent'anni dal primo summit sulla Terra, che ha lasciato eredità importanti soprattutto sul clima, Rio+20 ha prodotto un testo che ha diviso la comunità. Bene per i Paesi decisori, anche se la Bolivia ha aperto un fronte contro il «colonialismo ambientale» seguita da altri Stati dell'America latina e alcuni africani, sonora bocciatura da parte delle associazioni e della società civile che in una lettera parlano di un documento «mediocre» e di un esito del vertice «segnato da gravi omissioni». Il documento presentato ai capi di Stato e ai rappresentanti di governo tre giorni fa, e ormai, a meno di sorprese dell'ultima ora, destinato a essere il testo finale, mette nero su bianco la green economy e avvia un lavoro per arrivare a inserire il conto ambientale nei Pil dei Paesi. Greenpeace, Oxfam, Wwf , Legambiente, ma anche la società civile e i popoli che hanno manifestato in questi giorni restano convinti della debolezza del vertice. Il Wwf parla di «occasione sprecata» ma sottolinea anche che «lo sviluppo sostenibile ha già messo radici e crescerà». Ieri è arrivato anche il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che propone un nuovo meccanismo di sovvenzioni per l'energia pulita.
La dichiarazione finale del vertice Rio+20 è un documento di 49 pagine e 283 articoli per lo sviluppo sostenibile. Le «Politiche di economia verde» sono definite «uno degli strumenti importanti» per lo sviluppo sostenibile; non dovranno imporre delle «regole rigide» ma «rispettare la sovranità nazionale» dei singoli Paesi senza diventare «mezzo di discriminazione» o «restrizione al commercio internazionale». Per quel che riguarda la governance mondiale per lo sviluppo sostenibile, il testo chiede un «rafforzamento del quadro istituzionale» mentre la Commissione ad hoc esistente viene sostituita da un «forum intergovernativo ad alto livello». Nel testo viene anche riaffermato il ruolo del programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente, rafforzato mediante delle risorse finanziarie «sicure» (ad oggi sono su base volontaria) e con una rappresentanza di tutti i Paesi membri dell'Onu (ad oggi sono solo 58). Obiettivi dello sviluppo sostenibile: sul modello degli obbiettivi del Millennio dell'Onu (con scadenza nel 2015) il vertice insiste nel fissare delle mete «in numero limitato, concise ed orientate all'azione».
SUSAN GEORGE, Economista, è considerata una delle maggiori studiose sulla fame nel Terzo mondo. Già vicepresidente di Attac France e membro del Board di Greenpeace
Benvenuti a Rio meno 20. Al vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile vincono la burocrazia e la governance che ha prodotto la crisi. A perderci sono l’umanità e la democrazia, ostaggi degli interessi di banche e multinazionali. Il documento scaturito da quello che è ormai un circo itinerante non contiene assolutamente nulla di concreto per affrontare la realtà del disastro ecologico e della crisi sociale ed economica. Una visione economicista pregna un documento vago e privo di qualsiasi ambizioni. L’assenza dei capi di Stato dei principali Paesi responsabili della degradazione planetaria e delle politiche finanziarie che hanno collassato l’umanità, rende impossibile pensare di ottenere cambiamenti e impegni concreti nella due giornate finali del vertice. La green economy che emerge dal testo è indefinita e si affida al mercato, rivendicando libertà di azione e nessuna regola. Con buona pace di chi ha colpevolmente affidato le proprie speranze alle inesistenti virtù di quello che è ad oggi un palese tentativo di finanziarizzazione della crisi ecologica. Il documento elogia addirittura il ruolo positivo dei grandi organismi finanziari nel raggiungimento dello sviluppo sostenibile. Come dire che la centrale Enel a carbone di Porto Tolle è green economy e fa bene alla salute.
Molte delegazioni governative affermano che non si poteva fare di più. Ma perché non si poteva fare di più? Chi e cosa impedisce di prendere le decisioni di cui abbiamo bisogno per il nostro futuro? È questo il grande tema che interroga l’etica e la politica, più che la tecnica e la scienza. Il forum dei popoli oggi ha indetto la grande manifestazione per la Terra. «La speranza è nelle strade e nelle piazze che si riempiono di nuove soggettività impegnate a difendere ed affermare diritti, beni comuni, economie sostenibili, lavoro e democrazia. Le strade e le piazze sono gli unici luoghi rimasti pubblici dove si può fare politica. Dentro i palazzi della burocrazia non c’è più niente che possa aiutarci», il commento del sociologo portoghese Boaventura De Sousa. La sfida è quella di costruire nuovi paradigmi e modelli in grado di farci superare le crisi.
ONU Vertice verde. La conferenza dei negoziatori scodella un documento di compromesso per il vertice onu sullo sviluppo sostenibile. Cancellati i punti controversi, sulla natura vince il mercato
RIO DE JANEIRO .Oggi Dilma Roussef dà l'avvio ufficiale al vertice. Mentre i movimenti mondiali scendono in piazza
Alla fine, dopo una notte di attesa e di continui rimandi, ieri mattina il governo brasiliano ha imposto con forza la sua linea al termine di un negoziato confuso e problematico, scodellando il testo della dichiarazione finale del vertice di Rio. Molte punti controversi sono così state «tagliati». La presidente Dilma Rousseff voleva avere un testo quasi finale da distribuire al G20 di Los Cabos, in modo da ricevere una legittimazione anche dai tanti presidenti e capi di stato, Barack Obama e Angela Merkel in testa, che non si sono presi la briga di volare dal Messico fino in Brasile viste le persistenti turbolenze economiche e finanziarie mondiali.
Per i padroni di casa il Vertice delle Nazioni unite sullo sviluppo sostenibile, che si apre oggi, si deve chiudere a tutti i costi con una qualche forma di consenso. Ma c'è di più: oramai il Brasile, come gli altri paesi Brics, ha l'ambizione di accreditarsi quale potenza globale capace di gestire i conflitti e negoziare materie economiche alla pari con i paesi più forti, non necessariamente nell'interesse del resto dei paesi del Sud del mondo. Proprio la parte «finanziaria» del testo, cara al gruppo dei G77 che comprende 130 paesi in via di sviluppo, è stata «spostata» al G20 nella convinzione che il vertice di Rio non sia adatto a trattare tali questioni. D'altronde i Brics hanno finalmente messo sul tavolo i contributi destinati all'Fmi per salvare l'Europa dalla crisi, e chiedono qualcosa in cambio.
Dunque Rousseff ha portato a Los Cabos un testo al ribasso, chiedendo un'accettazione del compromesso sui fondi richiesti dai paesi in via di sviluppo per pagare la transizione verso l'«economia verde». In cambio i paesi ricchi l'hanno spuntata su molte questioni, annacquando gli impegni siglati alla conferenza di Rio del 1992 e ricevendo il via libera a un'idea di green economy che privilegia la logica di mercato senza cambiare gli equilibri esistenti, né preservare l'ambiente.
Analizzando il testo approvato a fatica dai negoziatori, sorprende che la definizione di economia verde non faccia riferimento al principio 7 della carta di Rio su una «responsabilità condivisa ma differenziata» tra paesi del Nord e del Sud del mondo. Così manca ogni riferimento forte al bisogno di controllare l'operato delle multinazionali e del settore privato. Una vittoria netta per gli Usa. Di contro, le pressioni della società civile e di alcuni governi del Sud sono riuscite a tenere fuori dal testo il riferimento al commercio dei servizi degli ecosistemi, e la forte enfasi sul settore privato come principale attore dell'economia verde.
L'Unione europea è riuscita a strappare il processo richiesto per la definizione dei nuovi obiettivi di «sviluppo sostenibile» che dopo il 2015 andranno a rimpiazzare i già limitati obiettivi di sviluppo del millennio, probabilmente non raggiungibili. Di nuovo, le questioni economiche e l'approccio differenziato Nord-Sud restano fuori da questo processo. Il programma delle Nazioni Unite sull'ambiente, dominato da visioni liberiste, sarà rinforzato, anche se non come pretendeva l'Ue prima del vertice. La menzione del diritto umano all'acqua per fortuna ha resistito, ma nella sezione sull'energia manca alcun impegno serio a tagliare i sussidi ai combustibili fossili.
Il Sud del mondo porta a casa qualcosa, ma non tutto quello avanzato nella sua proposta di compromesso per la sezione sui mezzi di attuazione degli impegni, ossia finanza e trasferimento di tecnologie. Sarà definita una strategia per finanziare lo sviluppo sostenibile in un processo intergovernativo alle Nazioni Unite, e almeno in questa sede si potrà discutere anche di questioni economiche. Ma non c'è nessun impegno sui fondi, se non l'invito alle solite e controverse istituzioni finanziarie internazionali a produrre risorse adeguate per i poveri. Gli impegni già presi e ormai vuoti sull'aiuto allo sviluppo sono ribaditi per far contenti i paesi africani, ma in pochi ci credono. E il trasferimento di tecnologie resta su base volonaria, una barzelletta se si pensa alle occasioni perse.
Da vedere ora chi oserà, anche tra i paesi del Sud del mondo, rompere le uova nel paniere al governo brasiliano nel giorno di apertura del vertice. Lo stesso fronte potrebbe finire per spaccarsi, come successo in altri casi nei negoziati sul clima. Alla fine è l'ennesimo fallimento, e in futuro sarà difficile riporre fiducia nei processi Nazioni Unite. Ma i movimenti mondiali prenderanno le strade di Flamengo oggi proprio quando Dilma avvierà il vertice ufficiale, rigettando l'economia verde delle élite globali e cercando altre strade per risolvere le crisi del pianeta e del capitalismo.
Dighe devastanti ma «pulite»
di Antonio Tticarico
Di fronte alla crisi energetica e ai cambiamenti climatici, nel dibattito sull'economia verde e sulla ripresa economica incoraggiata dalle grandi infrastrutture, le grandi dighe stanno ritrovando spazio sull'agenda di governi e settore privato. Il vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro non fa eccezione, anzi. Nonostante i devastanti impatti sociali e ambientali che hanno segnato la storia dei mega sbarramenti nel Novecento, l'idroelettrico viene sempre più promosso come energia «verde».
In Brasile più di un milione di persone ha dovuto lasciare le proprie case e terre per far spazio ai bacini delle dighe. Ben 24mila chilometri quadrati di terre sono state sommerse, 1.500 riserve naturali sacrificate, il 70 % degli impattati non ha ricevuto alcun risarcimento. Nel paese sono state costruite più di 615 mega dighe e 64 sono in costruzione. Negli ultimi anni il governo ha riaffermato la centralità dell'idroelettrico nella strategia energetica nazionale. Entro il 2020 sarà necessario trovare 45.000 megawatt aggiuntivi, che deriveranno in buona parte dalle dighe. Ma a differenza di quanto reclamizzato dalle istituzioni, alla fine l'idroelettrico non risulta così economico. Il Brasile è il quinto paese al mondo per le tariffe elettriche più elevate e 2,7 milioni di persone non hanno ancora accesso all'elettricità, soprattutto nelle aree dove sono state realizzate le dighe!
Dopo una lunga controversia legale, nel nord del paese è ormai in fase di costruzione la diga di Belo Monte, che sarà la terza più grande al mondo. Proprio questo mastodontico progetto è diventato il simbolo della resistenza del Mab, il movimento nazionale degli «impattati delle dighe», che oggi come membri attivi include più di 20mila famiglie. Non è un caso, visto che i grandi sbarramenti in Brasile sono sinonimo di violazione dei diritti umani: la stessa Commissione sulla biodiversità, promossa dall'allora presidente Lula, lo ha ammesso, evidenziando le paghe da fame de lavoratori.
La strategia del Mab è un'ispirazione per tutti i movimenti sociali. Per uscire dalla criminalizzazione della resistenza, il movimento ha puntato sulla strutturazione a livello locale per radicarsi così nella società brasiliana e promuovere un ampio dibattito su un nuovo modello energetico. Allo stesso tempo ha forgiato alleanze inaspettate con i sindacati e con i movimenti campesinos nella «Piattaforma operaia e contadina per l'energia», che rivendica una legge che riconosca agli impattati delle dighe diritti e compensazioni. Il Mab crea anche progetti per aiutare le popolazioni a rimanere sul territorio con agricoltura sostenibile ed energia solare autoprodotta. Il movimento promuove con accademici e altre organizzazioni corsi di formazione sulla crisi energetica e del capitalismo. Allo stesso tempo in nome della solidarietà internazionale fa alleanze in tutta l'America Latina con gli impattati dalle mega opere costruite dalle imprese brasiliane, come per esempio Oderbrecht.
Il governo ha dovuto aprire un tavolo negoziale con la nuova piattaforma del Mab, anche se la presidentessa Dilma Rousseff si rifiuta di attuare la nuova legge sul catasto che aiuterebbe le persone danneggiate. Ma i rischi all'orizzonte sono tanti: il governo sta favorendo una nuova stagione di partnership pubblico-privato per agevolare la privatizzazione del servizio idrico; si parla di nuove dighe in Amazzonia, e soprattutto nell'economia verde prende lustro l'idea, già sperimentata in Australia e Cile, di introdurre un sistema di commercio dei diritti sull'acqua. Lo stesso tema di cui si discute oggi in Europa e altrove. Ma il Mab non demorde e pianifica già per il marzo del 2013 il terzo incontro nazionale di tutti gli impattati, perché «l'acqua e l'energia non devono essere merci!».
nuovo modello energetico. Allo stesso tempo ha forgiato alleanze inaspettate con i sindacati e con i movimenti campesinos nella «Piattaforma operaia e contadina per l'energia», che rivendica una legge che riconosca agli impattati delle dighe diritti e compensazioni. Il Mab crea anche progetti per aiutare le popolazioni a rimanere sul territorio con agricoltura sostenibile ed energia solare autoprodotta. Il movimento promuove con accademici e altre organizzazioni corsi di formazione sulla crisi energetica e del capitalismo. Allo stesso tempo in nome della solidarietà internazionale fa alleanze in tutta l'America Latina con gli impattati dalle mega opere costruite dalle imprese brasiliane, come per esempio Oderbrecht.
Il governo ha dovuto aprire un tavolo negoziale con la nuova piattaforma del Mab, anche se la presidentessa Dilma Rousseff si rifiuta di attuare la nuova legge sul catasto che aiuterebbe le persone danneggiate. Ma i rischi all'orizzonte sono tanti: il governo sta favorendo una nuova stagione di partnership pubblico-privato per agevolare la privatizzazione del servizio idrico; si parla di nuove dighe in Amazzonia, e soprattutto nell'economia verde prende lustro l'idea, già sperimentata in Australia e Cile, di introdurre un sistema di commercio dei diritti sull'acqua. Lo stesso tema di cui si discute oggi in Europa e altrove. Ma il Mab non demorde e pianifica già per il marzo del 2013 il terzo incontro nazionale di tutti gli impattati, perché «l'acqua e l'energia non devono essere merci!».
Dighe devastanti ma «pulite»
RUBRICA - ANTONIO TRICARICO
Di fronte alla crisi energetica e ai cambiamenti climatici, nel dibattito sull'economia verde e sulla ripresa economica incoraggiata dalle grandi infrastrutture, le grandi dighe stanno ritrovando spazio sull'agenda di governi e settore privato. Il vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro non fa eccezione, anzi. Nonostante i devastanti impatti sociali e ambientali che hanno segnato la storia dei mega sbarramenti nel Novecento, l'idroelettrico viene sempre più promosso come energia «verde».
In Brasile più di un milione di persone ha dovuto lasciare le proprie case e terre per far spazio ai bacini delle dighe. Ben 24mila chilometri quadrati di terre sono state sommerse, 1.500 riserve naturali sacrificate, il 70 % degli impattati non ha ricevuto alcun risarcimento. Nel paese sono state costruite più di 615 mega dighe e 64 sono in costruzione. Negli ultimi anni il governo ha riaffermato la centralità dell'idroelettrico nella strategia energetica nazionale. Entro il 2020 sarà necessario trovare 45.000 megawatt aggiuntivi, che deriveranno in buona parte dalle dighe. Ma a differenza di quanto reclamizzato dalle istituzioni, alla fine l'idroelettrico non risulta così economico. Il Brasile è il quinto paese al mondo per le tariffe elettriche più elevate e 2,7 milioni di persone non hanno ancora accesso all'elettricità, soprattutto nelle aree dove sono state realizzate le dighe!
Dopo una lunga controversia legale, nel nord del paese è ormai in fase di costruzione la diga di Belo Monte, che sarà la terza più grande al mondo. Proprio questo mastodontico progetto è diventato il simbolo della resistenza del Mab, il movimento nazionale degli «impattati delle dighe», che oggi come membri attivi include più di 20mila famiglie. Non è un caso, visto che i grandi sbarramenti in Brasile sono sinonimo di violazione dei diritti umani: la stessa Commissione sulla biodiversità, promossa dall'allora presidente Lula, lo ha ammesso, evidenziando le paghe da fame de lavoratori.
La strategia del Mab è un'ispirazione per tutti i movimenti sociali. Per uscire dalla criminalizzazione della resistenza, il movimento ha puntato sulla strutturazione a livello locale per radicarsi così nella società brasiliana e promuovere un ampio dibattito su un nuovo modello energetico. Allo stesso tempo ha forgiato alleanze inaspettate con i sindacati e con i movimenti campesinos nella «Piattaforma operaia e contadina per l'energia», che rivendica una legge che riconosca agli impattati delle dighe diritti e compensazioni. Il Mab crea anche progetti per aiutare le popolazioni a rimanere sul territorio con agricoltura sostenibile ed energia solare autoprodotta. Il movimento promuove con accademici e altre organizzazioni corsi di formazione sulla crisi energetica e del capitalismo. Allo stesso tempo in nome della solidarietà internazionale fa alleanze in tutta l'America Latina con gli impattati dalle mega opere costruite dalle imprese brasiliane, come per esempio Oderbrecht.
Il governo ha dovuto aprire un tavolo negoziale con la nuova piattaforma del Mab, anche se la presidentessa Dilma Rousseff si rifiuta di attuare la nuova legge sul catasto che aiuterebbe le persone danneggiate. Ma i rischi all'orizzonte sono tanti: il governo sta favorendo una nuova stagione di partnership pubblico-privato per agevolare la privatizzazione del servizio idrico; si parla di nuove dighe in Amazzonia, e soprattutto nell'economia verde prende lustro l'idea, già sperimentata in Australia e Cile, di introdurre un sistema di commercio dei diritti sull'acqua. Lo stesso tema di cui si discute oggi in Europa e altrove. Ma il Mab non demorde e pianifica già per il marzo del 2013 il terzo incontro nazionale di tutti gli impattati, perché
Siamo oramai alla vigilia di Rio+20, il grande summit dell’Onu sullo stato del pianeta, che si terrà in Brasile dal 20 al 22 giugno, e sulle pagine dei giornali di tutto il mondo è già apoteosi della green economy. Come lo fu vent’anni fa lo "sviluppo sostenibile". Cambiano gli slogan, la retorica rimane identica. Formule magiche per tentare di conciliare irriducibili contraddizioni: l’aumento delle rese economiche e la salvaguardia degli ecosistemi. Capitale e natura non vanno d’accordo. Il primo s’è mangiato la seconda. Vent’anni di fallimenti, di promesse mancate, di convenzioni e di protocolli disattesi non bastano a far ammettere ai capi di governo e al mondo della politica ciò che è sempre più evidente: la crescita delle attività economiche mirate ad aumentare i profitti, accumulare la ricchezza finanziaria, investire in sempre nuove attività imprenditoriali non può che far peggiorare gli impatti del sistema umano sui cicli bio-geochimici della Terra.
Il metabolismo di questo sistema economico ci dice che il consumo di natura – sia per quanto riguarda i prelievi, sia sul versante degli sversamenti, delle emissioni e dei rifiuti – procede a ritmi insostenibili, nonostante i benefici venuti dalla prolungata crisi. La green economy revolution è una chimera: sostiene che sarebbe possibile un disaccoppiamento (decoupling) tra crescita illimitata dei profitti, dei salari, dei consumi e del Pil da una parte, e diminuzione dei materiali primari impiegati nei processi produttivi e di consumo (throughput). Il miracolo sarebbe opera, per l’appunto, delle tecnologie verdi e blu, ad impatto zero, capaci di imitare i cicli naturali, che notoriamente funzionano a cascata e a riciclo continuo. La dematerializzazione delle produzioni e la decarbonizzazione dell’energia sarebbe a portata delle innovazioni tecnologiche in essere: nanotecnologie, miniaturizzazione degli strumenti, bioingegneria, energie rinnovabili, ecc. applicate intelligentemente (smart cities) grazie all’informatizzazione dei processi.
Bio+Web, qui starebbe la svolta salvifica, la via di uscita dalla crisi, i nuovi posti di lavoro, il ritorno ad un rapporto armonioso con la natura, insomma la grande riconversione ecologica dell’economia, il new deal verde. I nostri figli troveranno un lavoro soft, bello e buono, noi mangeremo più sano, le città saranno un fiorire di orti urbani. Grazie alla green economy anche Obama (forse) riuscirà ad essere rieletto e speriamo che anche Ermete Realacci (ultimo il suo: Green Italy, Chiarelettere, 2012) possa avere più successo nel suo partito. Cos’è che non va, allora? The end of growth è il titolo di un libro di Richard Heinberg. Ma ci sono anche altri pensatori che la vedono allo stesso modo. Per esempio, Chris Marthenson, un analista finanziario che ha venduto tutto e che sul suo sito consiglia di comprare terra e metalli preziosi. La loro analisi si basa sulla convinzione che il Pianeta, allo stato delle tecnologie disponibili oggi e nei prossimi vent’anni, non è in grado di fornire sufficienti materie prime per fronteggiare l’impatto dell’aumento demografico e della moltiplicazione dei consumi. «Il problema non è solo il picco del petrolio, ma il picco di tutto il resto» per usare un’espressione dell’analista finanziario Jeremy Grantham.
La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti sulle "terre rare", necessarie proprio per produrre energie alternative e le tecnologie necessarie alla green economy, sembra confermare queste diagnosi. Non basterà nemmeno aumentare di un fattore 10 l’efficienza nell’uso delle materie prime per far fonte ad una crisi da rarefazione delle risorse naturali in un pianeta che ha esaurito il 95% delle riserve conosciute dimercurio; l’80% del piombo, dell’argento, dell’oro; il 70% dell’arsenico, del cadmio, dello zinco; il 60% dello stagno, del selenio, del litio; il 50% del rame, del manganese del bellerio. L’aiuto che ci può venire dalla ricerca scientifica è certamente indispensabile per tentare di sopravvivere il più a lungo possibile con ciò che abbiamo a disposizione, ma ciò sarà possibile solo se scienza e tecnologia saranno liberate dai meccanismi e dalle logiche del mercato, cioè dai loro committenti. Nemmeno un guru della sostenibilità come Jeremy Rifkin sembra rendersi conto del paradosso cui è immersa la green economy. Egli ha infatti sostenuto la necessità di un forte investimento finanziario a favore di idrogeno, rinnovabili, case intelligenti, smart grid, auto elettriche, poiché «senza investimenti non ci può essere crescita» (la Repubblica del 1 giugno).
Ecco che torna il «dilemma» (come lo chiama Tim Jeckson) della green economy: strumento, occasione, opportunità … per rilanciare e allargare il mercato ingrassando di denaro chi detiene i brevetti (da far pagare ai paesi in via di sviluppo; versione aggiornata del colonialismo, questa volta, del sapere) ovvero via di uscita dell’umanità per liberarsi dalle logiche ossessive e suicide, accrescitive, lineari, esponenziali … quindi insostenibili del mercato? Per dirla altrimenti; non basta un’altra tecnologia, servono nuove forme di collaborazione internazionale, «un nuovo paradigma economico», come afferma il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, per consentire una vita dignitosa per sette (oggi) otto (nel 2030) o nove miliardi di esseri umani (nel 2050) e anche nuove politiche demografiche, che consentano alle donne il controllo della propria fertilità. Il nuovo rapporto del centro Nuovo modello di sviluppo di Pisa sulle Top 200 multinazionali ci dice che due terzi del commercio internazionale è controllato da loro. Non c’è nessuna tecnologia leggera che ci potrà liberare dal loro potere se non viene accompagnata da politiche forti.
Senza grandi divinazioni il futuro si può già vedere oggi. È sufficiente cambiare occhiali. Togliersi quelli della politica, che non ha mai fatto così tanta difficoltà a capire cosa succede. Ma via anche gli occhiali di quegli intellettuali immersi nel paradigma socio-economico che ci ha portato a una crisi generalizzata.
Cominciamo a scoprire che la necessità di cambiamento sta diventando un sentimento avvertito un po’ da tutti. Si registrano perfino improvvise "conversioni". Vediamo che c’è chi inizia a sostenere che un po’ di utopia forse fa bene alla salute e alla società. Siamo circondati da movimenti della società civile che riescono a imporsi: gli indignados, i tanti occupy, le piazze Nord-Africane, ma anche soltanto quelli che negli Usa hanno bloccato in un anno 166 nuove centrali a carbone. Oppure il Forum dei Movimenti per l’Acqua in Italia con i suoi referendum vittoriosi; i tanti comitati locali che, su altre tematiche, con passione ed energia fanno politica con il porta a porta, con la rete, e arrivano lontano.
Siamo sempre più d’accordo che il cambiamento serve e si comincia a intravedere, ma non ce ne siamo accorti fino a ieri, e tanti continuano a non capire. Per esempio se qualcuno dice che è necessario un "ritorno alla terra", una rivalutazione delle economie agricole, dei mestieri manuali e dell’artigianato, di sistemi produttivi e di consumo locali e sostenibili, viene immediatamente visto come un personaggio naif e fuori dal mondo. Ben che vada come una specie di guru che dice cose interessanti, ma pur sempre irrealizzabili. Invece è necessario cambiare occhiali, e allora si comincia a vedere. Si capisce che nel mondo tutto questo sta già avvenendo, da anni. Perché le buone pratiche che si possono mettere in atto riguardo al cibo, all’agricoltura, all’ambiente, agli antichi saperi che rimodernizzano i mestieri, sono tutte in essere in molte parti del Pianeta. Compresa la nostra Italia, che da questo punto di vista ha un serbatoio di memoria ed esempi virtuosi cui attingere senza pari. Molti giovani stanno distinguendosi, ma non soltanto loro. Più viaggio nel nostro Paese e più ne incontro: sensibilità per l’ambiente, nuovi progetti di vita partendo da tradizioni sopite o ritenute passate e marginali. Il segreto è semplice: se è vero che queste sono buone "pratiche", la gente allora può metterle in pratica. E i cittadini i cambiamenti li realizzano così: iniziando a fare. Chi, come quasi tutta la nostra politica, potrebbe semplicemente guardarsi attorno per capire cosa sta succedendo (e quindi come sarà il futuro), si rifiuta di farlo o è distratto da altro: indossa gli occhiali sbagliati. In questo momento la politica non intercetta chi sta cambiando il mondo a casa propria, non bisogna dunque escludere che è proprio da questi che nascerà la classe politica del futuro.
Il ritorno alla terra, foss’anche un diverso modo di fare la spesa, per coloro che vestono vecchi occhiali è utopico o "di nicchia". Ma sono sicuro che tante piccole realtà li travolgeranno, relegandoli, loro sì, in una nicchia dimenticata. Nessuno pensa - anche molti profeti del cambiamento - che queste persone stiano facendo vera economia. Ma oggi un pastore giovane riesce a fare più economia reale di tanti che vi sarebbero preposti, ve lo garantisco. «Finalmente la primavera sta arrivando», mi ha detto un entusiasta Ermanno Olmi una sera a margine di un convegno dedicato ai nuovi mestieri del cibo e dell’ambiente dove sono intervenuti tanti giovani già impegnati. Sottoscrivo in pieno, e gli altri si mettano il cuore in pace. La primavera sta arrivando: si può sentire, si può vedere.
Diceva Peppino Impastato che “la mafia è una montagna di merda”, elegante accostamento però fuorviante almeno su un punto: l’una si può solo distruggere, l’altra si ricicla. Il problema della montagna si fa però particolarmente grave quando diventa urbana, intesa come rifiuto solido urbano, visto che ne muta radicalmente la composizione, ben diversa dalla puzzolente ma tutto sommato gestibile biomassa rurale. Ecco, proviamo a leggerlo così il futuro prossimo dell’umanità: sempre più urbana, e con quella montagna sempre più incombente, ingestibile, minacciosa, composita. Tradotto in cifre, il nostro stile di vita cittadino globale dieci anni fa voleva dire poco meno di tre miliardi di persone intente ad aggiungere ogni giorno su quel mucchio 640 grammi di schifezze composite ciascuno, dalle bucce alle pile scariche al giocattolo rotto (in totale, facendo un mucchio annuale unico, 680 milioni di tonnellate).
Ma il progresso, lo sappiamo tutti, è inarrestabile se sappiamo impegnarci. In questo caso l’impegno non è mancato di sicuro: oggi noi cittadini siamo un po’ più di tre miliardi, e orgogliosamente sforniamo ogni giorno un chilo e due etti di porcherie da smaltire (1,3 milardi di tonnellate l’anno). Ancora più luminoso il futuro della monnezza previsto per il 2025, quando i residenti urbani saranno 4,3 miliardi, alacremente intenti ad ammucchiare poco meno di un chilo e mezzo di rifiuti ciascuno al giorno, 2,2 miliardi di tonnellate l’anno. Per tornare alla mafia che si citava all’inizio, e ricordando certi interessi in certi metodi di gestione dei rifiuti, pare di vederli esultare davanti a cifre così: appalti truccati per gli inceneritori, una rete globale di discariche abusive, o magari eclatanti sinergie con le grandi opere pubbliche, basta pensare a quel tizio che usava l’autostrada Brescia-Milano in costruzione per stendere decine di chilometri di strato velenoso sotto l’asfalto, in eredità alle generazioni future.
Battutine un po’ sceme a parte, il tema è assai serio, come appare evidente accostando alcune immagini che di solito colpevolmente consideriamo separate. Sui giornali, alla televisione, o anche su questo sito, si parla spesso del rapporto fra urbanizzazione e progresso sociale in tutto il mondo, e la cosa appare abbastanza evidente nei casi di paesi emergenti come India o Cina. Dai villaggi rurali prima i lavoratori poi intere famiglie si trasferiscono nelle mega-città (o magari anche in centri intermedi) dove al minimo aumentano il reddito, le aspettative, iniziano a usufruire di qualche servizio e diritto. Cambiano anche stile di vita, come pure vediamo chiaramente anche solo guardando le immagini di slum e quartieri urbani: i loro rifiuti aumentano, e dalla semplice biomassa delle campagne diventano la composita e micidiale miscela delle città. Lo fanno intuire immagini e buon senso, lo confermano ahimè le cifre raccolte e elaborate dall’ultimissimo rapporto pubblicato per la serie Quaderni Urbani dalla Banca Mondiale, What a waste: a global review of solid waste management, dove in un centinaio di pagine con poche parole e molti dati si fotografa una tendenza. Come sempre al tempo stesso inquietante e ricca di potenzialità: la metropoli è una malattia che contiene storicamente in sé i principi della terapia.
Gli amici cinesi o indiani che respirando i fumi della propria motoretta o dei furgoni altrui si arrabattano giorno dopo giorno a migliorare il loro tenore di vita, iniziano ad ammucchiare sulla porta di casa qualcosa di sempre più simile a quanto sta davanti ai gradini del nostro ingresso la sera, e che l’amministrazione municipale si porta via nella notte. Noi nel frattempo, non paghi dei risultati ottenuti, ci diamo da fare per incrementare e diversificare quella quota pro-capite, e il problema monta, come sanno ormai abbastanza bene i cittadini napoletani, per esempio. Ecco: moltiplichiamo un caso Napoli per le quantità demografiche, territoriali, di consumi collettivi di qualche megacittà asiatica, e cominciamo a farci un’idea. Ma c’è anche qualcosa in più, raccontato nel rapporto What a waste, e che lega la montagna globale di monnezza urbana a un altro aspetto forse ancora più inquietante dei nostri tempi: la minaccia del cambiamento climatico.
Perché esiste un rapporto diretto, forte, immediato, fra la produzione di rifiuti solidi urbani e l’emissione di gas serra, le due curve crescono parallele. Le emissioni post-consumo vengono calcolate a circa il 5% di quelle globali, e in generale ne incorporano di fatto molte altre, ad esempio nel caso della carta (enorme componente della montagna di spazzatura urbana) le cui emissioni si verificano nel ciclo di produzione e distribuzione precedente lo scarto. In questo come in altri casi lavorare in modo integrato nella riduzione dei rifiuti solidi urbani significa anche risalire la corrente, per toccare i nostri modelli di sviluppo là dove si originano i problemi. Lavorare in modo integrato significa anche e soprattutto approccio generale: che tipo di esistenza urbana conduciamo, quali sono i suoi bisogni attuali e le risposte possibili, in quali tipi di spazi e contesti si svolge la nostra esistenza lavorativa, di consumo, di relazioni sociali, come abitiamo, come concepiamo la ricchezza e le sue manifestazioni esterne. Intervenire a partire dai rifiuti solidi urbani è anche una strada per verificare e rafforzare l’azione municipale in generale, sia programmatica che di erogazione dei servizi, e momento di verifica della macchina organizzativa.
Concludendo, al solito, con le raccomandazioni propositive, il rapporto indica alle città gli strumenti della
PARTECIPAZIONE e coinvolgimento dei cittadini attraverso programmi di informazione e educazione a comportamenti virtuosi (il riuso, riciclaggio ecc.)
MECCANISMI ECONOMICI per stimolare altri comportamenti virtuosi da parte di cittadini e imprese, dal differenziare le tariffe alla tassazione su alcuni prodotti particolarmente complessi da gestire nella loro vita
SENSIBILIZZAZIONE DIRETTA legando alcune azioni a momenti di vita della cittadinanza, per esempio il compost da rifiuti organici usato nei parchi pubblici, o negli orti di quartiere, o il decentramento di una parte del processo di riuso.
E c’è da stare sicuri almeno di una cosa: la capacità di adattamento dei cittadini, le loro potenzialità di migliorare le politiche urbane pubbliche con l’interazione, sapranno certamente nel giro di una generazione (basta vedere cosa sta accadendo nel campo della mobilità dolce) accelerare tantissimo i processi. Una ipotesi realistica: la montagna di spazzatura incombente forse non ci franerà sulla testa. Ma tocca darsi da fare da subito.
(il rapporto della Banca Mondiale è scaricabile qui in fondo)
Oggi di ambiente si parla ormai moltissimo: giornali, riviste, radio, tv, tutti sembrano ritenere doveroso offrire articoli, servizi, programmi riguardanti la materia, che solo raramente però sono tali da creare una consapevolezza adeguata alla sua complessità e crescente gravità. Quasi mai infatti ai affronta il problema nella sua interezza, come sarebbe necessario: per lo più limitandosi a singole tematiche, che possono riguardare la scarsità di carburanti, il doveroso rispetto dei boschi, l’acquisto di frutta e verdura non trattate chimicamente, che altro. Frammenti di “sapere ecologico” insomma, spesso proposti come decisivi, ma di fatto lontani dalla complessità del problema e dalla possibilità di crearne una consapevolezza adeguata. Tanto più che la logica economica dominante nel mondo, quella che dovunque ormai ne definisce e detta scelte e obiettivi, obbedisce all’indiscusso e onnipresente precetto capitalistico della “crescita”.
Precetto dalla grande maggioranza di fatto accettato, anzi “assimilato” senza discutere, forse senza nemmeno avere coscienza della sua rilevanza, e pertanto passivamente messo in opera, non di rado anche da parte di chi sarebbe professionalmente tenuto a criticarlo. Ricordo a questo proposito il grande e complesso edificio in cui, quattro anni fa, ebbe luogo il “summit” ambientale di Copenhagen: su tutte le pareti correvano scritte luminose, intese a testimoniare grande apprezzamento per le energie rinnovabili e l’”economia verde”; le quali venivano proposte in un entusiastico crescendo di slogan quali “green production”, “green market”, “green trade”, “green business”, “green affairs”, “green economy”, “green affluence“, “green growth”… Auspici di fatto lontanissimi da quella rimessa in causa dell’intero sistema economico dominante che, sola, potrebbe riportare in salute l’equilibrio ecologico del mondo; e di fronte ai quali il fior-fiore dell’ ambientalismo istituzionale del mondo, presente al convegno, non dava segni di avvertire contraddizione alcuna…
Di fatto ancora oggi questo accade, e sempre più diffusamente. Anche tra i tanti sinceramente volonterosi di salvare il mondo dal rischio ambientale, spesso (forse in un tentativo di autodifesa dalla tremenda magnitudine della questione) si verifica la tendenza a prestar fede a una delle tante terapie proposte, isolandola e magnificandola come “la soluzione”: e tra queste le energie rinnovabili, capaci (con insistenza si afferma) di alimentare l’attività di grandi industrie senza inquinare, o inquinando poco, si propongono come una soluzione oltremodo seducente.
Molti infatti se ne lasciano sedurre, e si entusiasmano dei risultati del loro lavoro, spesso però senza considerare che, certo, le energie rinnovabili (quale più, quale meno) sono in grado di alimentare anche potenti attività produttive senza inquinare, o inquinando limitatamente, l’ambiente circostante; e però hanno inquinato non poco, spesso anzi assai, nell’essere prodotte. Le pale dell’eolico, gli specchi del solare, le strutture di trasporto dell’energia prodotta, ecc., sono tutte cose che, prima di entrare in funzione, debbono essere fabbricate, trasportate, impiantate in un complesso “indotto”…, mediante tutta una serie di attività diverse, ognuna delle quali, inevitabilmente, poco o tanto ha inquinato… Di tutto ciò nessuno fa cenno. Eppure sono fatti che tutti conoscono, su cui sarebbe doveroso riflettere. Perché sempre, poco o tanto, “produrre inquina”: lo si leggeva qualche tempo fa anche su “La Repubblica”, in un articolo firmato da Paul Krugman, che non è un “verde”, ma un economista con tanto di Nobel.
Il fatto è che le battaglie meritoriamente portate avanti da tutti i “Verdi” (utilissime, anzi necessarie, anche quando si limitano alla difesa di un bosco o di un solo albero) per operare in modo davvero utile non dovrebbero perdere di vista il problema nella sua interezza; non dovrebbero cioè prescindere dal fatto che tutto quanto vediamo, tocchiamo, compriamo, usiamo nei modi più diversi (un abito, un mobile, un grattacielo, un’automobile, un cellulare, un computer, un’astronave…) tutto è “fatto” di natura, minerale, vegetale, animale: cioè di frammenti del pianeta Terra, su cui e di cui viviamo. D’altro non disponiamo.
Ma il pianeta Terra, per quanto grande, è una “quantità” data, non dilatabile secondo i nostri bisogni o sogni, e nemmeno secondo le regole dettate da un sistema economico, per quanto potente e - di fatto - indiscusso, come è oggi il capitalismo. La Terra non è pertanto in grado né di alimentare una crescita produttiva illimitata, quale ossessivamente l’economia persegue e invoca, né di neutralizzare i rifiuti - solidi, liquidi, gassosi - che poco o tanto da ogni produzione derivano. Sono cose che, certo, ogni ambientalista serio conosce, ma che non tutti sanno, e che anche non pochi ambientalisti di tutto rispetto sovente “rimuovono”, quando lavorano alla possibile soluzione di singoli problemi, di per sé estremamente complessi.
Questo d’altronde era il tema portante del primo libro ambientalista che ha fatto epoca a partire dai primi anni Settanta: “Limits to growth”, firmato dai coniugi Meadows dell’MIT, in Italia sponsorizzato e lanciato dal Club di Roma; opera centrata appunto su quella che dovrebbe essere una verità non solo indiscutibile ma ovvia (d’altronde affermata e gridata da tutti i “grandi” dell’ambientalismo, a partire da Georgescu Roegen) secondo cui i limiti quantitativi del pianeta Terra dovrebbero appunto indicare, e imporre, limiti precisi e non valicabili all’operare di ciascuno e dell’umanità tutta. Nell’edizione italiana il titolo è diventato “I limiti dello sviluppo”; e il dubbio che la modifica non sia stata casuale è inevitabile, se appena ci si volta indietro a ripensare questi ultimi quarant’anni.
Ora il libro verrà ristampato. Recuperarlo e leggerlo, per i giovani in vario modo impegnati nella difesa del pericolante equilibrio in cui viviamo, potrebbe essere il migliore ausilio per una corretta e completa lettura del problema, e per la messa a fuoco di una politica davvero utile.
Sono nato in una terra di contadini. Ed è anche per questo che è un onore, per me che da sempre difendo la biodiversità, prendere la parola oggi al Forum dell’Onu sulle questioni indigene. Credo infatti che fra chi ama la Terra e le popolazioni indigene si debba stringere un’alleanza. Sono convinto che questi popoli sono stati, sono e soprattutto saranno da stimolo per costruire un futuro migliore che non può che partire dalla terra, dal suo rispetto, e dalla salvaguardia della biodiversità. Perché per troppi anni abbiamo calpestato il diritto al cibo e alla sussistenza di molte comunità indigene e di allevatori rincorrendo un progresso miope. L’analisi della realtà ci dice che molte buone pratiche e il sapere empirico tradizionale dei popoli indigeni meritano di essere studiati con attenzione per il bene della nostra Madre Terra. Per questo voglio anticipare ai lettori di Repubblica le parole che leggerò. Eccole.
Lavorare per la salvaguardia della biodiversità in campo agricolo e alimentare come strumento per garantire un futuro al nostro pianeta e all’umanità intera è importante.
La perdita progressiva della diversità di specie vegetali e razze animali può rappresentare, insieme al cambiamento climatico, il più grave flagello per gli anni a venire. Occorre tuttavia precisare che difendere la biodiversità senza tutelare la diversità delle culture dei popoli e il loro diritto di governare sui propri territori è un’impresa insensata. Tale diversità è la più grande forza creatrice della Terra, è l’unica condizione per mantenere e trasmettere un patrimonio straordinario di conoscenze alle generazioni future. Su questi principi Slow Food ha basato la propria esistenza e per mantenere questi principi ha realizzato nel 2004 Terra Madre, una rete di comunità del cibo che si è propagata in oltre 170 Paesi. Terra Madre non è un partito e nemmeno un sindacato, è semplicemente una rete, un movimento di persone che, nel rispetto delle proprie diversità, cercano il dialogo, lo scambio culturale, la solidarietà. Il diritto al cibo sta al centro di tutto. Il cibo, per essere condiviso, deve essere buono per il piacere di tutti; pulito perché non distrugge l’ambiente e le risorse della Terra; giusto perché rispetta i lavoratori, procurando il nostro sostentamento, garantiscono la vita della comunità terrestre. Tutti i popoli devono avere accesso al cibo buono, pulito e giusto. Tutti i popoli devono avere cibo adeguato che provenga dalle proprie risorse naturali o dai mercati da loro scelti. Tutti i popoli, nel produrre il proprio cibo, hanno il diritto di mantenere le loro pratiche tradizionali e la propria cultura.
Su questi principi e su queste basi molte comunità indigene di tutti i continenti hanno animato la rete di Terra Madre e hanno partecipato attivamente alle conferenze globali che dal 2004 si svolgono ogni due anni a Torino. Nell’ultima la cerimonia di apertura fu consacrata alle riflessioni delle comunità indigene espresse nelle loro lingue ancestrali. Da allora molte iniziative si sono attivate. Nel 2011 si è tenuta "Terra Madre Indigenous People" a Jokmokk, nel nord della Svezia, terra delle popolazioni Sami. Il congresso ha visto la partecipazione di indigeni provenienti da 61 Nazioni. Questi incontri generano autostima tra i partecipanti. Si avverte forte il senso di appartenere a una grande comunità di destino, di non essere soli nei propri territori, di avere un ruolo importante e costruttivo. Questa consapevolezza è stata rafforzata ed esaltata nel 2007 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che, con la Dichiarazione dei Diritti delle Popolazioni Indigene, ha affermato con chiarezza il contributo straordinario alla diversità e alla ricchezza della civiltà.
Slow Food non solo condivide questi principi ma ritiene che, in questo particolare momento storico caratterizzato da una crisi economica, ecologica e finanziaria, mettere a valore la diversità culturale del pianeta possa contribuire a innescare pratiche virtuose e sostenibili. Il benessere umano passa attraverso il diritto universale a un cibo di qualità per tutti. Obesità e fame, che dilagano nel mondo, sono i due volti di una stessa medaglia, sono il simbolo del fallimento di un sistema alimentare globale basato principalmente su una produzione industriale che dipende in massima parte dalle risorse energetiche fossili. Mai come in questo momento si avverte l’esigenza di cambiare alla radice questo sistema. Saper guardare indietro alle nostre tradizioni e a sistemi alimentari più sostenibili non è stupida nostalgia. La reintroduzione di produzioni alimentari locali è la risposta per nutrire il pianeta, è l’attivazione della vera democrazia, la partecipazione di tutti per il bene comune.
Per troppo tempo la produzione del cibo ha voluto estromettere o limitare i saperi delle donne, degli anziani e degli indigeni, relegandoli al fondo della scala sociale. L’umanità ha coltivato un’idea di sviluppo e di progresso basata sulla convinzione che le risorse del pianeta fossero infinite. Oggi la "gloriosa marcia" del progresso è arrivata sull’orlo del baratro e la crisi è figlia dell’avidità e dell’ignoranza. Ma il monito della Natura è ben più grave della crisi finanziaria, esso ci chiama a riflettere su un destino tragico per l’esistenza stessa dell’umanità, se non si cambiano marcia e percorso. Sarà giocoforza ritornare sui nostri passi, ecco allora che gli "ultimi" saranno quelli che indicheranno la strada giusta. Avremo bisogno della sensibilità delle donne e del loro pragmatismo, della saggezza degli anziani e della loro memoria, ci accorgeremo che i popoli indigeni hanno la chiave per un approccio più sostenibile al Diritto al cibo, perché da sempre praticano l’economia della natura.
Ma attenzione: dovrà essere evidente a tutti quanto male è stato procurato a questi soggetti nel nome del progresso e della supremazia del mercato. Quanti saperi, conoscenze e prodotti della Terra sono stati piratescamente derubati alle comunità indigene da multinazionali farmaceutiche e alimentari. Prima di rimetterci in marcia occorre restituire il maltolto, occorre impedire qualsiasi logica di agricoltura industriale insostenibile nelle aree indigene. Tutti abbiamo bisogno di rispettare e valorizzare l’economia della Natura e della sussistenza, per troppo tempo considerata inferiore all’economia della finanza globale.
Cresce nel mondo la consapevolezza che rafforzare l’economia locale, l’agricoltura locale e il rispetto delle piccole comunità sia una giusta pratica per riconciliarci con la Terra e la Natura. Mancanza d’acqua, perdita di fertilità dei suoli, erosione genetica di piante e animali, spreco di alimenti mai visto nella storia dell’umanità, sono problemi che, se si continua a produrre, a distribuire e a consumare il cibo con questo sistema alimentare, resteranno senza soluzione. In campo agricolo la nuova disciplina dell’agroecologia altro non è che la capacità di riproporre in chiave moderna il dialogo tra i saperi tradizionali e la comunità scientifica. Non sarebbe onesto non riconoscere che i popoli indigeni hanno un approccio alla produzione del cibo che è storicamente sostenibile. Sanno mantenere la fertilità dei suoli utilizzando risorse e metodi naturali, rafforzando la resilienza delle colture e degli allevamenti. La politica di molti governi e agenzie di sviluppo di contrapporsi e minacciare le pratiche agricole dei popoli indigeni, come la rotazione delle coltivazioni e la pastorizia, è una politica miope e sbagliata.
Slow Food condivide la sfida di questo Forum Permanente delle Nazioni Unite nel difendere le pratiche indigene che in molte parti del mondo operano per il mantenimento della coltura itinerante. Non è giusto appropriarsi dei beni comuni della Terra, ma come dicevano i Nativi Americani: «Insegna ai tuoi figli che la Terra è nostra madre, tutto ciò che accade alla Terra, accadrà ai figli della Terra. Se gli uomini sputano in terra, sputano su se stessi. Questo noi sappiamo: la Terra non appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla Terra. La Terra vale più del denaro e durerà per sempre».
Anche se in questo momento, in molte parti del mondo, gli arroganti prevalgono sugli umili; anche se le alte gerarchie del sapere e della politica non lasciano spazio ai contadini, ai pastori, ai pescatori e alla parte più sensibile di essi: le donne, gli anziani e gli indigeni; malgrado ciò siamo sempre più coscienti che riconciliarci con la Terra è l’unico modo per uscire dalla crisi. Le buone pratiche della lotta allo spreco, della condivisione e del dono, del ritorno alla Terra si realizzano con lentezza, senza frenesia e ansia. Tutta l’umanità è in debito con i popoli indigeni che hanno saputo nella pratica quotidiana mantenere questi principi, insegnando ai figli che tutte le cose sono collegate tra loro e che prenderci cura di tutte le creature è il dono più grande che ci è stato fatto.
Titolo originale: An Effort to Bury a Throwaway Culture One Repair at a Time - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
AMSTERDAM — Arrivano nell’ordine un disoccupato, un farmacista in pensione, un tappezziere, e prendono posto ai tavoli ricoperti di percalle rosso. A portata di mano cacciaviti e macchine da cucire. Non mancano caffè, tè e biscotti. Hilij Held, un’abitante del quartiere, trascina dentro una scatola a strisce su rotelle da cui estrae un ferro da stiro con l’aria vissuta. “Non funziona più” spiega. “Non esce il vapore”. La signorina Held ha scelto il posto giusto. Qui al primo Caffè delle Riparazioni di Amsterdam, una iniziativa partita dall’ingresso di un teatro, poi in una stanza di un ex albergo presa in affitto, e ora in un centro di quartiere due volte al mese, la gente può portare qualunque cosa per farsela sistemare gratis, da volontari che lo fanno per il gusto di aggiustare.
Pensato per aiutare chi vuole ridurre ciò che buttiamo, il Caffè della Riparazione ha funzionato bene da subito all'inizio un paio d’anni fa. La Repair Cafe Foundation ha ottenuto circa mezzo milione di euro dal governo olandese, oltre che da associazioni e offerte minori, che servono per il personale minimo, la promozione, e anche un Pulmino della Riparazione. Ci sono trenta gruppi diversi che hanno avviato dei Caffè della Riparazione in tutta l’Olanda, in cui i vicini uniscono competenze e disponibilità per offrire qualche ora al mese a ricucire strappi nella stoffa o ridar vita a qualche caffettiera, lampada, aspirapolvere o tostapane, praticamente qualunque apparecchiatura elettrica dalle lavatrici agli spremiagrumi.
“In Europa si buttano via tante cose” racconta Martine Postma, ex giornalista che ha ideato il concetto dopo la nascita del secondo figlio e qualche riflessione in più sull’ambiente. “È una vergogna, visto che si tratta di cose del tutto riutilizzabili. Al mondo c’è sempre più gente, e noi non possiamo continuare così. Volevo fare qualcosa di concreto, non solo scrivere”. E però la tormentava la domanda: “È possibile farlo come persona normale, nella vita quotidiana?” Ispirata da una mostra sui vantaggi culturali ed economici di riparazione e riciclaggio, ha deciso che per evitare sprechi inutili si potevano aiutare praticamente le persone a sistemare le cose. “Quando si parla di sostenibilità spesso ci si limita a prospettare degli ideali. Si fanno magari una serie di laboratori su come coltivarsi da soli i funghi, e la gente si stufa. Questo invece è un modo di impegnarsi molto immediato e concreto. Si fa qualcosa insieme, qui e ora”.
L’Olanda già contiene lo smaltimento in discarica a meno del 3% dei rifiuti urbani, ma si può fare anche di meglio secondo Joop Atsma, ministro delle infrastrutture e dell’ambiente. “Il Caffè della riparazione è un modo molto efficace di aumentare la consapevolezza del fatto che ci sono tante cose che buttiamo e invece funzionano benissimo” ha scritto Atsma in una e-mail. “La ritengo una ottima idea” aggiunge Han van Kasteren, professore all’Istituto di Tecnologia di Eindhoven specializzato nel settore rifiuti. “C’è anche un importante aspetto sociale. Quando si lavora insieme per l’ambiente si fa crescere la consapevolezza. Sistemare un aspirapolvere fa bene”. Di sicuro l’ha fatto alla signora che un giorno ha portato il suo aspirapolvere che aveva quarant’anni, comprato da sposina, qui al Caffè della Riparazione. “Sono contenta, tanto contenta” commenta mentre John Zuidema, 70 anni, sta eliminando il condotto spezzato. “Mio marito non c’è più, e restano in giro tutte queste cosec he un tempo lui riparava”.
Per qualcuno gli aspetti sociali vangono almeno tanto quanto quelli ambientali. “La cosa interessante è che si creano degli spazi di incontro, per chi magari abitava vicino da estraneo” commenta Nina Tellegen, direttrice della Fondazione DOEN che ha garantito dal progetto un finanziamento da più di 200.000 euro nel quadro dei programmi di “coesione sociale” iniziati dopo l’omicidio politico di Pim Fortuyn, nel 2002, e quello del regista Theo van Gogh, nel 2004. “Il fatto che si leghi anche alla sostenibilità lo rende ancora più interessante”. La Tellegen è convinta che serva soprattutto agli anziani. “Hanno delle conoscenze che stanno sparendo. Una volta si facevano tanti lavori manuali, mentre oggi c’è questa società dei servizi.”
Evelien H. Tonkens, professore di sociologia all’Università di Amsterdam, concorda. “È proprio un segno dei tempi”. Secondo Tonkens, il Caffè della Riparazione è anticonsumista, anti-mercato, propone un’etica del fai da te e si inserisce in una cultura in crescita nel paese, per migliorare la vita quotidiana a partire dal basso e dalla partecipazione. “Sicuramente non funziona come un’impresa” aggiunge la Postma. Ci si rivolge a chi considera costoso far riparare le proprie cose, non deve far concorrenza agli esercizi del genere che già esistono.La Repair Cafe Foundation dà informazioni per iniziare l’attività, gli strumenti necessari, dritte per i finanziamenti, la promozione. Sono arrivate richieste anche da Francia, Belgio, Germania, Polonia, Ucraina, Sud Africa e Australia.
Tijn Noordenbos, sessantaduenne artista di Delft, ha fondato un Caffè della Riparazione quattro mesi fa. “Mi piace aggiustare le cose” spiega, ricordando come i negozi del genere che c’erano un tempo siano tutti spariti. “Oggi se si rompe qualcosa e si prova a riportarlo al negozio, ti rispondono che va rispedito al fabbricante e costa cento euro solo il controllo, meglio comprarne uno nuovo”. L’architetto William McDonough continua “L’obsolescenza pianificata ha raggiunto un livello di pazzia, si deve buttar via tutto senza neppure pensarci”. Lui propone una filosofia progettuale “dalla culla alla culla” dove gli oggetti si possono anche smontare e riutilizzare per parti (o materie prime, non si deve per forza riparare ad nauseam), ed è servita a ispirare l’idea della signora Postma. “Col Caffè della Riparazione la gente capisce di avere un rapporto con quei materiali” conclude McDonough.
Come ad esempio la minigonna H&M di Sigrid Deters strappata. “Costa 5-10 euro” e lei è troppo goffa per provarci da sola a ricucirla. “Adesso non vale nulla, si potrebbe buttarla e comprarne una nuova. Ma se la riparano posso indossarla di nuovo”. Marjanne van der Rhee, volontaria in uno dei Caffè per far promozione e distribuire bevande calde, racconta: “Arriva tanta gente diversa. In qualche caso si può pensare che vengano perché sono davvero poveri. Altri hanno un aspetto più agiato, ma si preoccupano per l’ambiente. Altri ancora sembrano solo un po’ matti”.
Theo van den Akker, che normalmente fa il contabile, adesso deve occuparsi del ferro a vapore senza più vapore. Avvolto nella sua T-shirt con scritto “Mr. Repair Café”, van den Akker apre l’involucro di plastica, mettendo a nudo un intrico di fili elettrici colorati. Intanto la signora Held chiacchiera con la van der Rhee dei veli tradizionali del Suriname che lei, nata laggiù, vende. Una volta che van den Akker ha finito col ferro a vapore, avanzano due pezzi: magari non erano così importanti. Infila la spina, si accende una luce verde, gorgoglia dell’acqua rugginosa e finalmente inizia ad uscire il vapore.
Onestamente, la cosa che lascia più perplessi davanti a certi studi scientifici è la reazione della stampa cosiddetta di informazione. In questo caso, una analisi comparata su un periodico dalla serietà indiscutibile propone un confronto tra quanto producono le pratiche agricole correnti e quelle biologiche, e qualcuno come il Daily Emerald non trova di meglio che titolare su presunte “difficoltà dell’agricoltura urbana”. Mentre nella ricerca a cui ci si riferisce la parola “urbano” si può leggere solo nelle note finali, nel titolo di un saggio in bibliografia che evoca un generico “urban myth”, ovvero una leggenda metropolitana.
Piccola perplessità a parte, è invece gradevole scoprire certe belle notizie dentro a “Comparing the yields of organic and conventional agricolture” (Nature, aprile 2012) di Verena Seufert, Navin Ramankutty e Jonathan A. Foley. Ad esempio che la comunità scientifica dà per scontato come “le rese sono solo una parte di quanto produce complessivamente il sistema agricolo in termini ecologici, sociali, economici”, e soprattutto che, dati sperimentali e studi internazionali alla mano, la differenza di produttività tra le cosiddette tecniche tradizionali a base di petrolio (fertilizzanti, trasporti ecc.) e quelle biologiche più sostenibili sono tutto sommato contenute, oggi al massimo e solo per certi prodotti attorno al 20%.
Ovvero basterebbe davvero fare una ragionevole comparazione costi/benefici per porsi seriamente una domanda: col picco petrolifero incombente, col fenomeno ormai riconosciuto e devastante del land grabbing globale, con le possibilità universalmente riconosciute delle tecniche urbane e di prossimità, ha ancora senso sostenere le pratiche in gran voga fra multinazionali e grandi investitori? Anche l’Expo milanese del 2015 sarà auspicabilmente un nodo centrale di dibattito e sperimentazione pratica su questi temi. Per ora si può più modestamente leggere la confortante (per chi la legge senza le classicissime fette di salame) serie di osservazioni e grafici proposta dagli studiosi della McGill University/University of Minnesota, scaricabile qui di seguito.
Di particolare interesse il metodo cosiddetto della "meta-analisi" particolarmente diffuso quando come in questo caso si vuole formulare un giudizio che abbia valore globale, ovvero leggere sistematicamente la letteratura scientifica (e le verifiche sperimentali) che ha già esaminato la questione. Da un lato senza discutere necessariamente serietà e fondamento degli studi già disponibili, dall'altro per uniformarne indiscutibilmente i criteri al proprio obiettivo di analisi e giudizio. Che letto in senso letterale suona: l'agricoltura praticata coi sistemi attualmente più diffusi rende un po' di più per unità di superficie di quella biologica. Quanto, come, perché, si possono invece riassumere in quell'iniziale “le rese sono solo una parte di quanto produce complessivamente il sistema agricolo in termini ecologici, sociali, economici”. Ovvero, ci tocca scegliere un equilibrio fra le varie componenti.
Greenpeace Italia anticipa al Fatto Quotidianoonline il suo rapporto su Enel, basato sulle ricerche della fondazione olandese SOMO e della European Environmental Agency (EEA). Investimenti minimi nelle nuove rinnovabili, sostegno anacronistico al carbone e nucleare all’estero
Un morto al giorno, 366 l’anno per la precisione. Sono quelli riconducibili all’inquinamento prodotto dalle centrali a carbone dell’Enel secondo la proiezione della Fondazione Somo per Greenpeace Italia. Applicando i parametri dell’Agenzia Europea per l’Ambiente alle emissioni in atmosfera delle centrali della compagnia ex pubblica emerge che “le morti premature associabili alla produzione di energia da fonti fossili di Enel per l’anno 2009 in Italia sono 460. I danni associati a queste stesse emissioni sono stimabili come prossimi ai 2,4 miliardi di euro. La produzione termoelettrica da carbone costituisce una percentuale preponderante di questi totali: a essa sono ascrivibili 366 morti premature (75%), per quell’anno, e danni per oltre 1,7 miliardi di euro (80%)”. Un responso implacabile che la Fondazione ha trasmesso all’Enel ricevendo, purtroppo, risposte molto elusive.
“Lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili unito alla perdurante stagnazione della domanda di energia elettrica sta rendendo difficile la copertura dei costi di produzione degli impianti convenzionali, mettendo a rischio la possibilità di tali impianti di rimanere in esercizio”. L’ha dichiarato un mese fa Paolo Colombo, presidente dell’Enel, seguito a ruota dall’amministratore delegato Fulvio Conti, che ha chiesto di “correggere le forme di incentivi per le fonti rinnovabili” calibrando meglio i sussidi nel prossimo decreto allo studio del governo nazionale, per “dare impulso ad altre filiere”.
Il mondo sta cambiando, la produzione di energia è sempre più diffusa e decentrata, ma l’Enel non vuole mollare: il suo vecchio mondo, quello delle grandi centrali a gas, carbone, uranio, olio combustibile deve essere preservato. “Enel è entrata a gamba tesa sul tema dell’incentivazione alle rinnovabili – ha dichiarato a Repubblica.it il senatore del PD Francesco Ferrante – . Le cose sono due: o si tratta di disinformazione o di una sorta di confessione di chi guarda al passato e ha paura del futuro”.
Per Greenpeace Italia non ci sono dubbi: Enel ha paura delle rinnovabili perché è ancorata al passato o si affida a tecnologie di dubbia efficacia. “Se si eccettua l’idroelettrico, che in Italia è semplicemente un’eredità di investimenti passati e in altre regioni, come in America Latina, è collegato a progetti potenzialmente ad alto impatto ambientale, gli investimenti di Enel nelle rinnovabili sono minimi, specialmente in Italia ed Europa, dove la riduzione delle emissioni di Co2 è affidata al nucleare o a improbabili tecnologie come la cattura e sequestro del carbonio (Carbon Capture Storage o CCS)”, ha dichiarato Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia.
Nel suo rapporto, che ilfattoquotidiano.it ha ottenuto in anteprima, Greenpeace non si limita a puntare il dito, come ha già fatto più volte in passato, sul mix energetico “anacronistico” di Enel, ma analizza per la prima volta i costi esterni delle centrali Enel a carbone e petrolio. “Si tratta dei costi per l’ambiente, l’agricoltura e la salute dei cittadini. Sono voci di costo che non compaiono nei bilanci, perché la società non li paga. A pagare è però l’ecosistema nel suo complesso”.
Greenpeace fa riferimento a un rapporto della fondazione olandese SOMO, che uscirà nei prossimi mesi, e allo studio della EEA (European Environmental Agency), l’agenzia per l’ambiente dell’Unione Europea, uscito nel novembre del 2011. Lo studio dell’EEA individua i 20 impianti di produzione di energia più inquinanti in Europa. In Italia il primato spetta alla centrale a carbone Federico II di Brindisi, gestita dall’Enel, i cui costi esterni (calcolati dall’EEA) ammontavano a 707 milioni di euro nel 2009: una cifra che supera i profitti che Enel ottiene dalla centrale. “E’ un gioco pericoloso, che non vale la candela”, continua Onufrio. “I profitti sono ottenuti con un prezzo altissimo per l’ambiente e la salute”. Greenpeace Italia ha esteso la metodologia utilizzata dallo studio dell’EEA a tutte le centrali a carbone gestite da Enel in Italia ed è arrivata a conclusioni preoccupanti: “I costi esterni delle centrali a carbone sono di 1,7 miliardi di euro – oltre il 40% dell’utile che Enel ha ottenuto a livello consolidato, in tutto il mondo, nel 2011”, si legge nel rapporto. “Se alle attuali centrali si dovessero aggiungere quelle di Porto Tolle e Rossano Calabro – che potrebbero presto essere convertite da olio a carbone – i costi esterni potrebbero toccare la quota di 2,5 miliardi di euro all’anno, suddivisi in costi per la salute, danni alle colture agricole, costi da inquinamento dell’aria e da emissioni di Co2”.
Al termine del rapporto, Greenpeace chiede ad Enel di effettuare al più presto una valutazione dei costi esterni delle centrali a combustibili fossili, riportando i risultati all’interno del bilancio di sostenibilità. Tra i quesiti rivolti ad Enel non mancano i riferimenti al progetto per la centrale a carbone di Galati, in Romania, “in un’area già colpita da decenni di inquinamento dell’industria pesante rumena” e alla centrale Reftinskaya GRES, nella regione di Ekaterinburg, in Russia, che sarebbe stata accusata di “violazioni di norme ambientali” da parte delle autorità locali. Altre domande riguardano i reattori nucleari Cernavoda 3 e 4, che Enel gestisce in Slovacchia e il progetto Baltic NPP a Kaliningrad, in Russia, per la costruzione di un nuovo reattore nucleare.
Alcune delle domande di Greenpeace sono state inoltrate alla società dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica (Banca Etica) azionista “critico” di Enel dal 2007. Enel sarà tenuta a rispondere entro il giorno dell’assemblea, prevista per lunedì 30 aprile. Tra gli azionisti saranno presenti, oltre alla Fondazione di Banca Etica, anche il vescovo guatemalteco Alvaro Ramazzini – delegato dai Missionari Oblati – e l’attivista colombiano Miller Armin Dussan Calderon, professore dell’Università Surcolombiana e presidente di Assoquimbo, associazione dei comitati locali colombiani che presidiano il territorio contro la costruzione della diga Enel di Quimbo in Colombia. Ramazzini e Calderon porteranno in assemblea la voce delle popolazioni del sud del mondo impattate dai progetti idroelettrici della compagnia italiana. L’assemblea potrà essere seguita online sul sito del Fatto Quotidiano e su Twitter (#nonconimieisoldi e #azionisticritici).
Ieri, 15 marzo, ricorreva la giornata europea del consumo e non sembra che sui media la notizia abbia avuto il giusto rilievo, soprattutto per quanto riguarda la necessità di riflessione e di azione che tutti dovremmo avvertire rispetto ad un tema che è sempre più cruciale e strategico nella riflessione sulle prospettive del nostro futuro.
Infatti, la domanda semplice e banale che la politica, l'economia, la diplomazia internazionale, il mondo delle imprese, l'intera società civile ecc. dovrebbe porsi in maniera chiara è: ma è possibile andare avanti così? E' possibile continuare a perseguire modelli di consumo e di impatto sugli stock ed i flussi di materia ed energia sempre crescenti? E' possibile credere che il modello economico che abbiamo scelto per le nostre società, basato su di una crescita continua del consumo di risorse, possa continuare ancora? Queste sono anche le domande cruciali alle quali dovrebbe fornire risposte esaurienti e di forte indirizzo per il cambiamento di rotta che si fa sempre più evidente e necessario, la grande Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile che avrà luogo a Rio de Janeiro nel giugno prossimo (www.uncsd2012.org) .
A Copenhagen, in occasione della giornata europea del consumo, l'Agenzia Europea per l'Ambiente (European Environment Agency www.eea.europa.eu ) ha organizzato, insieme all'European Economic and Social Committee un seminario sul tema "Sustainable Consumption in a Time of Crisis".
E' di tutta evidenza che la situazione complessiva che moltissime società umane stanno attraversando dal 2008 (anno di avvio di questa profonda crisi economica e finanziaria internazionale) ad oggi può stimolare una significativa riflessione su come avviare percorsi di consumo sostenibile, riuscendo a dare così risposte concrete alla crisi stessa. La necessità quindi di avviare finalmente una decisa inversione verso un consumo responsabile, consapevole, equo e sostenibile, non è più una scelta opzionale ma assume i caratteri di una scelta obbligata. Non è un caso che la notizia sul sito dell'EEA sia titolata "Unsustainable consumption - the mother of all environmental issues ?" (il consumo insostenibile, la madre di tutti i problemi ambientali?).
Il consumo di prodotti e servizi esercita impatti in diversi modi sui sistemi naturali. L'incremento planetario del fenomeno del sovraconsumo vede negli ultimi anni fasce significative delle popolazioni di diversi paesi, definiti ormai i New Consumers (dalla Cina all'India, dalla Malesia all'Indonesia, dal Brasile al Sud Africa ecc.) che stanno raggiungendo livelli di consumismo simili a quelli dei paesi ricchi, con il risultato di un impatto complessivo sui sistemi naturali divenuto ormai totalmente insostenibile.
Infatti le nostre modalità di scelta e di acquisto dei prodotti contribuiscono direttamente o indirettamente a pesare sul cambiamento climatico, sull'inquinamento di aria, acqua e suolo, sulla perdita complessiva di biodiversità, sulla modificazione degli ecosistemi terrestri e marini e sulla continua riduzione delle risorse in tutto il mondo.
Il fatto che si possa continuare con gli attuali pattern di consumo non può più essere considerata un opzione praticabile, come è stato chiaramente ed ulteriormente ribadito dal seminario dell'EEA a Copenhagen. E' necessario ed urgente esplorare nuovi modelli di consumo che non compromettano i bisogni delle future generazioni ed ovviamente non continuino a distruggere irrimediabilmente i sistemi naturali. Il meeting di Copenhagen ha sottolineato quanto la situazione di grave recessione presente in Europa possa stimolare ad accelerare la decisa transizione verso nuove e diffuse modalità di consumo sostenibile basate anche sull'avvio e il rafforzamento di una nuova impostazione economica, definita in maniera molto mediatica Green Economy che costituisce uno dei temi prioritari oggetto della Conferenza Rio+20 prevista nel prossimo giugno.
Un cittadino europeo consuma almeno quattro volte più risorse di un cittadino medio in Africa e tre volte di più i quelle di un cittadino asiatico ma ne consuma la metà di quelle consumate da un cittadino statunitense, canadese o australiano. Ormai, come abbiamo più volte considerato nella pagine di questa rubrica, la conoscenza scientifica ci ha permesso di disporre di numerosi dati significativi da questo punto di vista (ricordo, per tutte, la bella ed agile pubblicazione del Sustainable Europe Research Institute (SERI) uno dei più autorevoli think-tank sulla sostenibilità a livello europeo ed internazionale, realizzata nel 2009, insieme ai Friends of the Earth, dal titolo "Overconsumption? Our use of the world's natural resources" (scaricabile dal sito http://old.seri.at/documentupload/SERI%20PR/overconsumption--2009.pdf) e l'iniziativa di ricerca internazionale sempre coordinata dal SERI che ci ha permesso di ottenere un calcolo dei flussi di materia dal 1980 ad oggi, sia a livello mondiale che per ogni nazione, vedasi www.materialflows.net ) .
L'utilizzo delle risorse naturali in Europa è in crescita: nel 2007 l'uso di risorse era di 8.2 miliardi di tonnellate delle quali più della metà riguardava minerali e metalli mentre i combustibili fossili e le biomasse erano approssimativamente un quarto ciascuno. Ogni cittadino europeo utilizzava risorse per 17 tonnellate l'anno.
Secondo i sondaggi sin qui svolti a livello europeo, ricordati dall'EEA, l'87% dei cittadini europei ritiene che l'Europa dovrebbe utilizzare in maniera molto più efficiente le risorse naturali, ed il 41% pensa che produce troppi rifiuti.
Gli europei utilizzano più spazio per vivere; la media dello spazio necessario per le loro abitazioni si è incrementato di almeno 6 metri quadrati dal 1990 ad oggi mentre il numero medio di abitanti per appartamento è sceso da 2.8 a 2.4.
Per quanto riguarda i rifiuti gli attuali livelli di consumo comportano una media di rifiuti solidi urbani prodotti da ogni cittadino europeo che, nel 2008, era di 444 kg e che, indirettamente generavano almeno 5.2 tonnellate di rifiuti nell'economia europea. Si tratta di dati nell'ambito dell'Unione Europea perché non si dispongono di molti dati sui rifiuti derivanti dalla produzione di prodotti e materiali importati dalle altre regioni. I dati mondiali che circolano sulla produzione di rifiuti sono abbastanza generici: il ponderoso rapporto del Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) sulla Green Economy ("Towards a Green Economy: Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication" pubblicato nel novembre 2011 vedasi http://www.grida.no/publications/green-economy/ ) nel capitolo rifiuti ricorda che la produzione mondiale di rifiuti derivanti dalle aree urbane e dall'industria si aggirano, ogni anno, tra i 3.4 ed i 4 miliardi di tonnellate, dei quali rifiuti industriali non pericolosi sono intorno a 1.2 miliardi, mentre i rifiuti solidi urbani sono tra 1.7 ed i 1.9 miliardi di tonnellate.
Tornando all'Europa si stimano in 89 milioni di tonnellate il cibo che viene buttato via ogni anno nelle case, nei ristoranti, nei negozi, lungo le filiere produttive, una media di circa 180 kg per cittadino europeo. Nel solo Regno Unito il 25% del cibo acquistato viene poi buttato.
Insomma il consumo, il sovraconsumo, sta divenendo sempre di più un problema centrale per il nostro futuro: moltissimi problemi legati a quanto già oggi minaccia la sopravvivenza del genere umano sono legati all'incremento del consumo di energia, di acqua e di materie prime, all'aumentata produzione dei rifiuti, degli scarti e alle emissioni ed all'incremento delle trasformazioni, da noi indotte, sui suoli e gli ecosistemi di tutto il mondo.
Titolo originale: OECD Warns of Ever-Higher Greenhouse Gas Emissions– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
LONDRA — Le emissioni globali di gas serra potrebbero crescere del 50% entro il 2050 se non si adottano politiche più ambiziose per il clima,coi combustibili fossili ancora prevalenti nella produzione energetica, avverte l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.
“Se non cambia la composizione energetica globale i carburanti di origine fossile peseranno per l’85% della domanda nel 2050, con un incremento del 50% nelle emissioni di gas serra”, afferma l’Organizzazione con sede a Parigi nella sua previsione per il 2050. Nello stesso anno l’economia globale avrà una dimensione quadruple dell’attuale, e nel mondo si consumer l’80% in più di energia. Ma, appunto si prevede, la composizione di questa energia potrebbe non essere molto diversa da quella di oggi. Perché potrebbero essere soprattutto carburanti di origine fossile come petrolio, carbone, gas, a costituire sino all’80% dei consumi, mentre le rinnovabili, ad esempio carburanti di origine vegetale si prevede possano pesare al massimo un 10%, col nucleare a coprire la differenza.
A causa di questa forte dipendenza da carburanti fossili, si calcola che le emissioni di anidride carbonica potrebbero crescere del 70%, dice l’OCSE, facendo crescere la temperatura di 3-6 gradi entro il 2100, e superando così quel limite dei 2 gradi fissato dagli organismi internazionali. Nonostante la crisi economica e la conseguente riduzione della produzione industriale, nel 2010 le emissioni di anidride carbonica hanno toccato un massimo storico di 30,6 giga-tonnellate. Dal punto di vista economico il costo di non intraprendere azioni per il clima si può calcolare in una caduta del 14% dei consumi mondiali pro-capite nel 2050, secondo alcune stime. Elevati anche i costi umani, con morti premature da esposizione agli inquinanti raddoppiate: 3,6 milioni l’anno secondo l’OCSE.
Potrebbe crescere del 55% la domanda di acqua, aumentare la competizione per le scorte e lasciare il 40% della popolazione globale in una situazione di rischio, con una scomparsa del 10% delle specie vegetali e animali. Per prevenire i peggiori effetti del riscaldamento globale l’azione mondiale deve cominciare già dal 2013, con un sistema di scambi di emissioni globale, il settore energetico che diventa low-carbon e l’introduzione di nuove tecnologie a basso costo, dalle biomasse alla ritenzione del carbonio. Prima del 2020 potrebbe non entrare in vigore nessun nuovo trattato internazionale sul clima, però, senza alcun sistema di scambi, rendendo assai più difficile l’obiettivo di contenere l’aumento ai 2 gradi previsti, e la necessità di rapidissimi tagli di emissioni dopo quella data per recuperare.
Gli attuali impegni internazionali di taglio delle emissioni non bastano a mantenere il riscaldamento entro limiti di sicurezza, afferma l’OCSE. Costruire un mercato di scambi di emissioni potrebbe anche stimolare un rapido sviluppo di nuove tecnologi e a basso costo in grado di tagliarle. La risposta più semplice è fissare un prezzo globale, collegando così tutto il sistema delle emissioni nazionali e regionali entro una rete di scambio. Un deciso taglio all’uso degli inefficienti carburanti di origine fossile stimolerebbe anche l’efficienza energetica e lo sviluppo delle fonti rinnovabili, determinando un incremento del reddito globale dello 0,3% nel 2050.
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Vero, che spesso la mano sinistra non sa quello che fa la mano destra. Ma quando si tratta di organismi importanti come l’Ocse, per cui sapere è potere, e quando in gioco c’è una cosuccia come la sopravvivenza del mondo più o meno come lo conosciamo (Suv a parte forse), magari ragionare in modo sistemico e non caciarone aiuta. L’hanno scoperto tutti gli stati che si sono cimentati davvero in leggi per il contenimento delle emissioni: prima o poi la forma dell’insediamento viene coinvolta, eccome se viene coinvolta, perché sono edifici e sistemi urbani una delle chiavi su cui intervenire. Non bastano un paio di turbine o di pannelli solari sul tetto, ci vuole, come hanno ad esempio cominciato a fare in California col governatore Schwarzenegger, un nuovo equilibrio fra case, infrastrutture, attività produttive. La città al centro insomma, e urbanistica e politiche urbane al centro del centro.
Cosa succede invece in Italia, paese dei mille campanili per antonomasia, con la cultura urbana più solida del mondo? Succede che l’OCSE (speriamo ancora suo malgrado e male informata) sponsorizza un “progetto di sviluppo” dove la fanno da padrone esattamente i meccanismi progettuali caso per caso e pasticcioni che da sempre – con la scusa di sostenere economia e occupazione - producono squilibrio territoriale e fatalmente inducono nuove emissioni da consumi di carburanti di origine fossile, nei trasporti privati e non solo. Salvo appunto buttare qui e là qualche pannello solare per le allodole. Vezio De Lucia su questo sito ha sollevato il problema,e si spera che alle teste pensanti, dell’OCSE e del Ministero che improvvidamente sostengono certe stupidaggini incoerenti, venga qualche scrupolo a controllare meglio le idee che qualcuno ha infilato di nascosto nei loro documenti ufficiali. Altrimenti ci fanno davvero una figuraccia, scienziati e “specialisti” inclusi (f.b.)
Il primo marzo scorso sono passati 40 anni dalla presentazione de I limiti dello sviluppo. Anche se negli Stati Uniti, a Washington, vi è stata una celebrazione ufficiale e negli altri Paesi occidentali alcuni giornali hanno pubblicato articoli rievocativi e commenti, la ricorrenza è passata in un generale inquietante silenzio dei media e in una scarsissima attenzione persino della rete e dei social networks.
I limiti dello sviluppo, ma sarebbe meglio usare la traduzione letterale del titolo originale: “I limiti della crescita” (Limits to growth, in inglese), è frutto di un lavoro di ricerca sul futuro del pianeta commissionato e poi presentato dal Club di Roma (dal luogo in cui si riunì per la prima volta nel 1968) e realizzato da un gruppo di ricercatori del Massachussets Institute of Technology (MIT) di Boston. Aurelio Peccei, un imprenditore “illuminato” italiano, Alexander King uno scienziato scozzese consulente di diverse agenzie governative, Elisabeth Mann Borgese intellettuale tedesca figlia dello scrittore Thomas Mann, erano stati fondatori del Club assieme ad un nutrito gruppo di premi Nobel, intellettuali e leader politici e ne erano i più noti rappresentanti.
Il gruppo di ricerca del MIT era coordinato da Donella Meadows, chimica e biofisica. Per la realizzazione del rapporto i ricercatori misero a punto un modello interamente computerizzato in grado di elaborare grandi quantità di dati per produrre scenari che consentissero di prevedere a quale futuro andavano incontro l'umanità e il pianeta. Per inciso, quel modello (World 3) che accrebbe ulteriormente il prestigio scientifico, già alto, del MIT, è arrivato fino ai giorni nostri ed è stato impiegato con poche successive modifiche per produrre aggiornamenti degli scenari originali a distanza di uno, due, tre decenni.
Il modello fu costruito sulla base del concetto, oggi acquisito ma allora non così scontato, di fare interagire tra loro i i diversi “sistemi” di riferimento utilizzati per rappresentare la realtà e la sua dinamica temporale: il sistema “agricolo e della produzione di cibo”; il sistema “industriale”, il sistema “popolazione”, il sistema “risorse non rinnovabili”, il sistema “inquinamento”.
Il “limite” nel titolo del rapporto sintetizzava molto efficacemente le conclusioni della ricerca in cui, detto molto in breve, si sosteneva che, senza modificazioni drastiche all'esistente dinamica (reference run() demografica, industriale, agricola, di sfruttamento delle risorse, di inquinamento, la crescita economica avrebbe incontrato, o per meglio dire generato, un rapido declino entro i cento anni (lo scenario temporale prescelto) successivi, manifestandosi sensibilmente a partire dal 2015-2030.
Il grafico dello scenario “reference run” de “I limiti dello sviluppo”.
Gli autori, tuttavia, comparando i diversi scenari, sostenevano che un'alternativa a tale esito era possibile, modificando profondamente il “modello di sviluppo” per renderlo più “sostenibile” (diremmo oggi) ambientalmente e socialmente. Devono essere proprio queste “fosche” previsioni sulla crescita che, al tempo d'oggi in cui la parola è evocata da ogni parte con identici accenti di venerazione e desiderio passionale, ha fatto sì che l'anniversario sia passato per molti sotto silenzio.
Del resto anche nel 1972 il Rapporto non incontrò che un favore limitato. Da un lato veniva criticata la fonte del Rapporto: il Club di Roma, una élite aristocratica per alcuni, un intreccio sospetto fra scienza e politica sotto l'ombrello di Associazioni semisegrete come la Massoneria per altri. Dall'altro si tentava di screditarlo come scenario apocalittico più vicino ad un romanzo di Asimov (lo scrittore di fantascienza in gran voga al tempo) che come serio e fondato prodotto scientifico. Infine le sue conclusioni parevano, ad alcuni, o conveniva loro considerarle, un cedimento alla “controcoltura” che da un quindicennio stava percorrendo tutto il mondo occidentale.
Già dalla fine degli anni '50, infatti, maturava in America, sulla scia della Beat Generation, la cultura Hippie. Gli Hippies, più che un “movimento” formavano (anche questo è un tratto che li rende attuali) una “comunità” tenuta insieme da valori che ogni individuo sentiva propri e praticava nella sua esistenza. Oltre ad uno spiritualismo mistico di origine orientale, forte era il rifiuto dell'industrialismo e delle convenzioni fondato sull'insegnamento e l'esempio di Henry David Thoreau e di San Francesco che portava gli Hippies a praticare un ecologismo anarchico di profonda matrice etica sostanziato in modelli di vita naturisti e comunitari, liberi costumi sessuali, pacifismo, alimentazione sana (biologica) e vegetariana, rispetto della terra e della natura. Molti di questi valori influenzarono profondamente i movimenti studenteschi dei college e delle università americane e poi anche parte di quelli europei culminati nel '68.
Esattamente dieci anni prima del 1972, Rachel Carson una biologa marina e scrittrice (aveva già pubblicato nel 1951 un libro di successo: (Il mare intorno a noi() diede alle stampe “Primavera silenziosa” nel quale, sulla base di evidenze scientifiche ed epidemiologiche, raccolte in un lungo lavoro di preparazione, si denunciava la morte di ogni forma di vita nelle campagne e di lì nei fiumi, nei laghi e fino al mare, provocata dai pesticidi e in special modo dal DDT (para dicloro difenil tricloroetano), utilizzati indiscriminatamente e fuori di ogni controllo per le colture agricole. Si evidenziava quale incombente minaccia la presenza di tali composti chimici persistenti nella catena alimentare esercitasse sulla salute umana. La Carson fu minacciata e derisa in campagne di discredito scientifico (definita una birdwatcher dilettante) e umano (accusata di isteria) orchestrate dalle potenti lobbies chimiche, agricole e anche accademiche americane, ma il libro diventò un best seller non solo negli Stati Uniti e influenzò profondamente l'opinione pubblica americana e mondiale.
Un decennio, gli anni '60, in cui la riflessione sulle conseguenze di un modello di produzione e consumo portò tra le altre cose a nuove consapevolezze sul rapporto fra l'uomo e la natura sulle quali è largamente fondata l'attuale, seppure ancora poco diffusa, cultura scientifica ed etica dell'ambiente. Un decennio in cui maturano studi come, appunto, “I limiti dello sviluppo”, ma anche positive reazioni istituzionali come la costituzione (1970) della prima agenzia per la protezione dell'ambiente: l'Environmental Protection Agency(EPA) americana o la prima presa di posizione strutturata di un organismo politico: l'ONU con la “Conferenza” e la “Dichiarazione di Stoccolma sull'ambiente umano”, nel Giugno dello stesso 1972. Documento nel quale si pongono le basi dei diritti della natura, dei diritti dell'uomo ad un ambiente sano, dei doveri dei popoli e delle istituzioni per la conservazione del patrimonio naturale per il benessere proprio e delle future generazioni.
Quattro decenni dopo molte conoscenze sono evolute: basti pensare alla sistematizzazione del tema dei servizi ecosistemici e della biodiversità; molte nuove regole sono state introdotte per salvaguardare l'ambiente: il DDT è scomparso per divieto dalle colture agricole del primo mondo (ma non ancora da quelle dei paesi sottosviluppati); i diritti della natura sono stati scritti in convenzioni internazionali e persino in alcune costituzioni, etc. Cambiamenti che, però, non hanno sovvertito le dinamiche previste nel rapporto del Club di Roma.
Uno studio del 2008 di un ricercatore australiano G. Turner del CSIRO (istituto di ricerca per il Commonwealth) e un recentissimo lavoro pubblicato nel Gennaio di quest'anno su (New Scientist( e dovuto a D. McKenzie (solo per citare i lavori più recenti) convengono in buona sostanza sul fatto che lungi dall'avere fallito sia sul piano degli assunti (come molti pretendevano) che su quello delle previsioni, “I Limiti” si è rivelato capace di ritrarre con grandissima approssimazione il divenire della realtà da quarant'anni a questa parte. Basta peraltro osservare con attenzione il grafico originale delle curve che rappresentano i “servizi pro capite” o le “risorse alimentari pro capite”, l'”inquinamento” o la “produzione industriale” per capire che quelle drammatiche inversioni o cadute libere delle curve parlano di noi e di oggi. Di quanto servizi essenziali come la scuola, la sanità, l'assistenza ad anziani e disabili siano ogni giorno ridotti; di quanto l'aria delle città sia dannosa per la salute; di quanto la biodiversità, base di ogni servizio che l'ecosistema fornisce all'umanità sia sempre più compromessa (si vedano i recenti rapporti EU e UNEP); di quanto, ogni anno sempre più precocemente, venga superata la per uno sfruttamento eccessivo delle risorse la “biocapacità” del pianeta cioè la sua capacità di ricostituirle, come ci dice l'elaborazione dell'”impronta ecologica” il più accreditato indicatore di sostenibilità. La crescita, così come intesa dal modello di sviluppo esistente nel 1972 e con poche modifiche, molte delle quali peggiorative (si pensi alla finanziarizzazione senza regole dell'economia), anche oggi, è finita. Persino illustri economisti (Sen, Myrdal, Fitoussi) sostengono che l'identità del PIL (il Prodotto Interno Lordo, l'indicatore moloch della crescita) con la misura del benessere è sempre più falsa.
Che sia proprio la crescita, il problema? e non come preteso da molti-Monti la sua soluzione? Molti dati reali inducono a pensarlo. La semplice affermazione che anche nei paesi ricchi, una crescita, seppure bassa, sia nel tempo sostenibile usando meglio le risorse naturali o sostituendo sempre più le non-rinnovabili con le rinnovabili (la sostanza della Green Economy) non è per nulla convincente. Senza scomodare il secondo principio della termodinamica che ne svelerebbe l'inconsistenza teorica, va notato che nelle politiche di “sviluppo e crescita” che ci si appresta a varare, nel nostro o negli altri paesi, al massimo in modo marginale è presente il tema dei limiti o degli effetti che quelle politiche sono destinate ad avere sulle risorse, sulla natura, sui servizi ecosistemici e in definitiva sul benessere delle persone e della società (devo sottolineare l'attualità di tale aspetto relativamente alla questione della TAV?).
«Una crisi di crescita come quella che viviamo presuppone un approccio sviluppista». Non ci gira certo intorno Guido Gentili, in prima pagina sul Sole24Ore, per indicare la via da seguire da parte del governo. Ed è francamente preoccupante che nel 2012 si possa ancora parlare di "sviluppismo" dimenticando i danni che ha prodotto fino ad oggi.
La tesi di Gentili ruota attorno alla lettera sulla crescita e le liberalizzazioni inviata al Consiglio e alla Commissione Ue da dodici Governi europei e che non è stata firmata da Germania e Francia. Iniziativa voluta da David Cameron, Mark Rutte e dal nostro Mario Monti, secondo l'editoriale del Sole «punta a una svolta modernizzatrice: apertura del mercato interno dei servizi, abbattimento delle restrizioni anticompetitive, creazione di un mercato unico digitale entro il 2015 e di un mercato efficiente e interconnesso nel settore energia entro il 2014, compresa l'eliminazione degli ostacoli, normativi e procedurali, che rallentano gli investimenti nelle infrastrutture».
In concreto bisognerebbe puntare «sugli investimenti indispensabili per un Paese in deficit di modernità. Ci sono cose, opere (compiute e incompiute) che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Sono le reti visibili, a volte anche troppo perché lo spettacolo è pessimo in tutti i sensi. Parliamo di autostrade, ferrovie, porti, aeroporti che hanno bisogno di investimenti per offrire un servizio migliore e a costi migliori. Parliamo dei rigassificatori visibili, sì, ma solo su carta mentre da anni si discute di vulnerabilità dell'assetto energetico (...). Ci sono poi le reti meno visibili o invisibili. Telecomunicazioni, banda larga ed ultralarga, insomma l'economia dell'innovazione digitale che dalla pubblica amministrazione ai nuovi media "attraversa" gli interessi dei cittadini e delle imprese».
Insomma, di tutto un po'. E la domanda nasce spontanea: se la spesa dello Stato è risicata per non dire ridotta a zero, come è possibile chiedere investimenti a tappeto? Dentro una logica - che peraltro noi non sposiamo neppure - di rigore dei conti, la crescita (sarebbe meglio dire lo sviluppo) un governo deve ottenerla secondo quello che crede essere il migliore modo possibile. Quindi scegliere su cosa investire: e se lo fai puntando sulle reti digitali, per restare nell'esempio, avrai meno soldi per il resto e dovrai ulteriormente scegliere. E lo farai secondo una logica di sostenibilità, altro che approccio "sviluppista".
Sembra davvero un approccio totalmente ideologico e fuori contesto, che arriva tra l'altro nel giorno in cui meritoriamente il Wwf riporta l'economia con i piedi per terra attraverso il nuovo studio ‘Market Transformation - Sostenibilità e mercati delle risorse primarie', realizzato dall'associazione ambientalista e dal Sustainable Europe Research Institute (Seri). Mentre si discute infatti di come risolvere la crisi finanziaria e far ripartire la crescita quale che sia, come se niente fosse accaduto negli ultimi tre anni e mezzo e la crisi ecologica fosse un intralcio allo sviluppo, qualcuno si è preso la briga di analizzare la pressione esercitata dai mercati globali sulle risorse naturali, con un focus specifico su quattro "commodities" prioritarie per il mercato italiano (caffè, cotone, carta e olio di palma).
Bene, ecco i risultati: quasi 8 miliardi di metri cubi di acqua utilizzati, oltre 34 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti emesse in atmosfera, 8,5 milioni di ettari di terra sottratti ad agricoltura e biodiversità, più di 20 milioni di tonnellate di materiali ‘biotici' (ovvero la biomassa coltivata) prelevati dagli ecosistemi, 38 milioni di tonnellate di materiali ‘abiotici' (come sedimenti, rocce, minerali) erosi. Un totale che vale mezza tonnellata di risorse all'anno prelevate in natura per ogni cittadino italiano. È il peso del ‘fardello ecologico' che ‘trascinano' con sé le importazioni italiane di caffè (470mila tonnellate in un anno), carta e pasta di carta (7,6 milioni t), cotone (670mila t) e olio di palma (720mila t): quattro risorse naturali collegate a settori industriali strategici del mercato italiano, quali il tessile, l'alimentare e il cartario, il cui prelievo in natura e relativa filiera produttiva hanno un forte impatto sull'ambiente, e di cui i protagonisti del mercato, a partire dalle imprese, devono assumersi la responsabilità. E stiamo parlando di solo quattro commodity...
«L'umanità ha superato i 7 miliardi di abitanti e ricava risorse naturali dalla terra per oltre 60 miliardi di tonnellate l'anno (erano 40 nel 1980, saranno 100 miliardi entro il 2030 se continuiamo su questa strada), un peso ecologico totalmente insostenibile per il futuro - ha detto Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia e editorialista di greenreport.it. Più che mai in una situazione di crisi economico-finanziaria che dura ormai da anni, dobbiamo dare la massima centralità al capitale naturale, alla sua cura, al suo ripristino, perché senza di esso l'intera economia mondiale non ha futuro. La Conferenza di Rio+20 sarà un momento molto importante, ed è fondamentale che istituzioni, consumatori e soprattutto imprese, dalle grandi multinazionali alle piccole e medie imprese dei nostri distretti industriali, si assumano la responsabilità di trasformare i mercati e condurli a modelli meno insostenibili, sviluppando una produzione di qualità anche sotto il profilo ambientale».
Per ridurre il proprio ‘fardello ecologico' il Wwf ha elaborato una serie di proposte specifiche rivolte a imprese, istituzioni e cittadini. Alle imprese chiede ad esempio di: svolgere un'analisi delle politiche di approvvigionamento delle materie prime, valutando i rischi ambientali e sociali connessi alla catena di fornitura e identificando le aree di miglioramento; avviare piani per la riduzione degli input di materie prime ed energia nella produzione di beni e servizi; formulare strategie di indirizzo della politica di approvvigionamento che prevedano l'adesione a standard di sostenibilità e schemi di certificazione internazionalmente riconosciuti (es. FSC) e, ove possibile, la riduzione della domanda di risorse; mentre alle istituzioni finanziarie chiede di sviluppare politiche finanziarie e strumenti per la valutazione del rischio ambientale connesso a un approvvigionamento non sostenibile di risorse prioritarie.
Alle istituzioni chiede invece tra le altre cose di "definire riforme che spostino il peso fiscale dal lavoro e dal reddito all'utilizzo delle risorse; supportare con politiche pubbliche, comprese quelle relative al public procurement, i sistemi di produzione sostenibile; creare un ambiente favorevole allo sviluppo di standard volontari relativi all'uso delle risorse e alle pratiche di management che impattano sull'ambiente attraverso il coinvolgimento di imprese, NGO, associazioni dei consumatori, centri di ricerca ecc; agire sulle condizioni economiche del commercio internazionale, sia con tariffe che nell'ambito dello sviluppo di accordi commerciali con altri Paesi (es. abolizione tariffe su importazione di materie certificate); imporre per via legislativa il rispetto di norme minime relative alla produzione di scarti, ad esempio proibendo l'utilizzo di imballaggi eccessivi o materiali non riciclabili; usare i canali delle relazioni diplomatiche per fare pressioni affinché i governi dei Paesi produttori delle risorse primarie assumano iniziative a difesa dell'ambiente e dei diritti dei lavoratori e delle comunità minacciate. Infine ai cittadini si chiede di avere comportamenti di consumo che aiutino, con le loro scelte sui prodotti, ad ottenere modifiche verso la sostenibilità.
Noi ci permettiamo di aggiungere la necessità di una no fly zone sulle materie prime agricole e soprattutto un Consiglio di sicurezza dell'Onu per un governo mondiale sulle materie prime e sull'energia. Una cornice dentro la quale l'Italia può fare la sua parte se sa cogliere tutte le potenzialità della green economy a partire dal mercato del riciclo che è la migliore strada per chi non ha commodity a disposizione; l'efficienza energetica; lo sviluppo delle reti digitali; la manutenzione del territorio. Alla faccia degli approcci sviluppisti!
Ma la cosa che colpisce, infine, è la contraddittorietà dei messaggi che arrivano dai governi e dai "tecnici" europei (e non solo): da una parte documenti che dimostrano consapevolezza della finitezza e crisi delle risorse e dei limiti (già superati) del pianeta, dall'altra la riproposizione del modello di competitività/sfruttamento delle risorse/infrastrutturazione pesante che tende a perpetuare/salvare il modello della globalizzazione che non funziona più e che ha prodotto la crisi di sistema del capitalismo. Di fronte alla necessità di una rivoluzionaria riforma del sistema la si annuncia a parole mentre la si contraddice nella pratica e nei progetti politici, governo tecnico italiano compreso. Il vecchio vizio della riduzione della complessità all'interno dei soliti schemi non sembra finito.
Rischia di passare alla storia come il referendum tradito due volte. Tradito nei fatti, visto che niente si è mosso dopo che 27 milioni di italiani hanno votato "sì" il 12 e 13 giugno scorso alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato. Unica eccezione, la città di Napoli. Mortificato, poi, dalla bozza del decreto sulle liberalizzazioni del governo Monti, che al momento, negando agli enti di diritto pubblico (le aziende speciali) di gestire acquedotti e rete, apre di nuovo ai privati il grande affare dell´acqua italiana. A sette mesi dal voto, le tariffe sono in aumento costante: +12,5% in media dal 2009. Gli ultimi ritocchi per la stagione in corso sono segnalati tra Vicenza e Padova (4%), a Modena (6%), nel Chietino (30 euro). I gestori sono sempre gli stessi. Gli investimenti sulla rete un terzo di quelli promessi: 600 milioni contro i due miliardi necessari per aggiustare reti colabrodo.
Ieri sera davanti a Montecitorio i comitati dell´acqua pubblica hanno organizzato un rumoroso sit-in per rispondere al sottosegretario all´Economia, Gianfranco Polillo, che aveva definito il referendum sull´acqua «un mezzo imbroglio». Ricevuti dal sottosegretario allo Sviluppo, Claudio De Vincenti, professore vicino al Pd che a giugno aiutò il comitato del "no", ne hanno ricavato indicazioni incoraggianti. «Il sottosegretario ci ha fatto sapere che Monti non vuole passare come quello che ha affossato un referendum così popolare», urla al megafono Marco Bersani, leader del comitato per il "sì". Le poche righe sul divieto alle "aziende speciali" potrebbero scivolare via domani in Consiglio dei ministri. Ci sono 24 ore di tempo per capire come fare senza tradire il grande impianto liberalizzatore del decreto.
Sulla carta il referendum era stato uno scacco matto alle spa in due mosse. Il primo quesito bloccava la corsa dei privati, lanciata dal governo Berlusconi. Il secondo toglieva la possibilità ai gestori di fare soldi con l´acqua, abrogando la norma che consentiva di ottenere profitti garantiti sulla tariffa caricando sulla bolletta un minimo del 7% (remunerazione del capitale investito). Questa quota di guadagno oggi si è attestata attorno al 20%, con picchi al Nord del 25%. «È partita la nostra campagna di obbedienza civile al referendum», dice Giuseppe De Marzo, portavoce di "A Sud", «invitiamo gli utenti ad autoridursi la bolletta del 7 per cento».
Senza profitto, il privato esce. Ma non è andata così. Solo nell´Ato (Ambito territoriale ottimale) di Napoli si è passati da una spa pubblica (Arin spa) a un ente di diritto pubblico (Abc Napoli), quindi senza l´obbligo di fare profitti. Nel resto d´Italia, negli Ato dove il servizio idrico è gestito da spa miste (12), da privati (6), dai tre multicolossi Acea, Iren e A2A (13), non è cambiato niente. Non solo. I sindaci non hanno avuto la forza né i fondi per eliminare dalle bollette la remunerazione del capitale investito. Nichi Vendola, governatore della Puglia, tra i primi sostenitori dell´acqua pubblica, ha provato a spiegarlo ai lettori del Manifesto: «I sindaci non possono autorizzare una riduzione, a questo corrisponderebbe la diminuzione degli investimenti su acqua, fogne, salute».
Federutility raggruppa le imprese idriche ed energetiche e spiega: «L´Italia ha le bollette dell´acqua più basse al mondo e questo produce un elevato consumo, ma non ci sono soldi per i depuratori». L´abrogazione del 7%, dicono, non si applica ai piani d´ambito in corso: se ne riparlerà tra quindici anni. Sostiene Alberto Lucarelli, giurista e assessore ai Beni comuni di Napoli: «Non sono validi atti amministrativi e contratti basati su una legge che è stata abrogata». Abrogata dal referendum da 27 milioni.