loader
menu
© 2025 Eddyburg

Una vergogna italiana. Nord e Sud, politica e amministrazione, uniti nell'affrontare nel modo peggiore il problema globale della produzione abnorme di rifiuti dello "sviluppo": il volto oscuro del trionfo della società opulenta. La prims puntata di un reportage di Angelo Mastrandrea e un'intervista a Massimo Scalìa. Il manifesto, 2 novembre 2013

«Il sud Italia, da Latina in giù, è la pattumiera d'Europa: a Formia 10 mila bidoni di rifiuti tossici, al largo di Salerno affondata una nave con scorie anche nucleari». Il pentito dei Casalesi Carmine Schiavone parla al manifesto e aggiunge nuovi dettagli alle sue confessioni. Ma nella «Terra dei fuochi» tra Napoli e Caserta le industrie continuano a utilizzare le discariche abusive, che poi vengono incendiate.

Coperta da un telo di plastica, una montagna di eternit. All'aria aperta. «Qui esistono una miriade di aziende che girano casa per casa a offrire prezzi competitivi per lo smaltimento dell'amianto. Poi, con le tute e le mascherine, vanno a buttarlo in campagna». Prima o poi i pannelli di eternit bruceranno, insieme a ciò che rimane dei frigoriferi, ai rifiuti dell'industria del falso e di quella legale, dell'edilizia e dell'agricoltura. Tutti insieme a comporre un mix micidiale di diossina e altre sostanze tossiche. Funziona così, nella Terra dei fuochi: si satura la discarica e poi, per eliminare qualsiasi traccia e liberare spazio per i prossimi rifiuti, si assolda un piromane che appicca il fuoco con maestria. È a buon mercato, la prestazione di un incendiario: 20 euro, non di più.

Qui, in questa pianura sterminata a cavallo tra l'alto napoletano e il basso casertano, dove la Terra di lavoro si trasforma in un groviglio di cavalcavia e paesoni, rotonde e strade poderali, il business dello smaltimento illegale, velenoso, assassino del territorio e di chi lo abita non si è mai fermato e prosegue indisturbato. Oggi come dieci o vent'anni fa. A Orta di Atella, Caivano, Succivo e in tutta l'area a nord di Napoli le discariche abusive si contano a decine. Si riempiono fin quando qualcuno non si premura di dare fuoco al tutto, poi riprendono a crescere, in un ciclo apparentemente infinito. Siamo nel cuore della Terra dei fuochi, così detta per via di quei roghi che quotidianamente la punteggiano e ne appestano l'aria, in un primordiale sistema di smaltimento dei rifiuti. È questo l'epicentro di quella «pattumiera d'Europa» cui un intreccio perverso tra mafie, un sistema industriale corrotto e malapolitica hanno destinato il sud Italia da Latina in giù, per ammissione di Carmine Schiavone, cugino di Francesco «Sandokan», capo indiscusso del clan dei Casalesi.

«Qui c'è un intero sistema industriale che smaltisce i rifiuti in questo modo, e lo Stato è connivente», dice Enzo Tosti, mio accompagnatore in questo tour nei luoghi di stoccaggio della «monnezza illegale», quella che sfugge a ogni censimento o statistica. Quanta gente si è presa la briga, a oggi, di analizzare una discarica abusiva rifiuto per rifiuto? Quali istituzioni si sono occupate di censire, monitorare, sorvegliare, prevenire quello che ogni giorno continua ad accadere nella ormai ex Campania felix?

Se il pentito Schiavone ha parlato dei veleni sotterrati o inabissati, Tosti cataloga ciò che emerge alla luce del sole, quel combustibile che alimenta i roghi della cosiddetta Terra dei fuochi. Non è una gola profonda della camorra e neppure un chimico o un biologo o un medico. È un operatore socio-sanitario, nella vita si premura di assistere giovani e meno giovani con problemi mentali, ma per amore della sua terra ha deciso di condurre una battaglia contro le discariche abusive e un sistema che definisce «sbagliato e marcio». Come altri attivisti dei comitati che si battono per una riqualificazione del territorio, Tosti trascorre le sue giornate con gli occhi aguzzati alla ricerca di una colonna di fumo nero, per segnalarla a vigili del fuoco e forze dell'ordine. Ma non è solo una sentinella del territorio. Piuttosto, mi sentirei di definirlo un entomologo della monnezza, un esperto di quel meccanismo perverso che parte da una fabbrica del nord Italia o da un cantiere edilizio della strada accanto e finisce nelle strisce di bitume, nei pannelli di eternit, in quei sacchi neri pieni di residui di pelli o calzaturieri, nei frigoriferi smontati, nei copertoni di auto e nelle plastiche delle serre messe in fila o ammassate una sull'altra nelle discariche abusive e che mi mostra articolo per articolo, come l'addetto a un museo dello scarto.

Tosti ha ragione. Bisogna guardarla da vicino, l'immondizia, per capire di cosa si parla. Solo così, osservando cosa si smaltisce, si può arrivare a comprendere quanto un intero sistema di produzione sia «marcio e malato», quali e quanti interessi si nascondano dietro al mantenimento di uno status quo insostenibile da tempo eppure ancora perfettamente funzionante. È possibile perfino arrivare a dare un volto agli inquinatori di professione, ricostruire una catena che dall'ultimo anello, il piromane su cui ogni campagna securitaria vuol ricadere ogni responsabilità e aggravare la pena, risale fino all'azienda dal volto pulito alla quale il più delle volte nemmeno si riesce a contestare il reato ambientale. Un esempio è davanti ai miei occhi, in una discarica a cielo aperto nelle campagne di Orta di Atella: ci sono residui della lavorazione di scarpe ovunque, taniche di collanti, ritagli delle tomaie. Tosti li racconta così: «Quest'area è da sempre un polo calzaturiero importante. Ora le grandi griffe parcellizzano il lavoro, affidando l'assemblaggio dei prodotti a centinaia di persone che lo fanno a casa loro. Una volta si premuravano loro di smaltire gli scarti, ora invece lo fanno fare a questi ultimi, perché non si possa risalire a loro in nessun caso».

La discarica abusiva sorge attorno a una collinetta sotto la quale c'è di tutto. In questa pianura a perdita d'occhio interrotta solo, sullo sfondo, dal Vesuvio, ogni collinetta nasconde un mostro che è meglio non risvegliare. Non è l'unica che visiterò: a Succivo il Comune ha mandato le ruspe ad accantonare i rifiuti al bordo delle strade, qui invece c'era già un sito di stoccaggio temporaneo dei tempi dell'emergenza rifiuti in Campania e tutto rimane dove viene abbandonato. L'intera Terra dei fuochi ne è disseminata e, come di solito accade in Italia, non c'è nulla di più stabile del temporaneo. Si capisce perciò la profonda diffidenza dei cittadini ogni volta che viene loro proposta una nuova discarica, un sito provvisorio o, ancor più, un inceneritore. I rifiuti, nella gran parte dei casi, non sono loro e neppure si tratta di immondizia urbana ma di altro e ben peggiore. Alle volte la terra fuma, quando piove il famigerato percolato si infiltra nel terreno e può arrivare a contaminare falde acquifere anche dopo anni. «Abbiamo fatto analizzare l'acqua di un pozzo, proprio qui vicino, ed è venuto fuori di tutto», dice ancora Tosti.
A duecento metri dalla discarica c'è un mercato abusivo: decine di ambulanti - molti africani - espongono la mercanzia a terra, lungo uno stradone e su uno spiazzo asfaltato e senza ombra. A fianco c'è invece un terreno coltivato.

È piuttosto comune, da queste parti, vedere campi arati o distese di alberi da frutta convivere con il disastro ambientale, i roghi e le cataste di rifiuti del tessile e del calzaturiero, dell'edilizia e dell'agricoltura. A Caivano un terreno coltivato fiancheggia un'altra discarica. Fino a quest'estate c'era un pescheto, ora gli alberi non ci sono più e il terreno è arato di fresco: le piante sono seccate. Perché? Non è raro incrociare intere piantagioni di alberi da frutta morti o filari di pioppi malati, ed è inevitabile per quale motivo accada, cosa ci sia lì sotto. I contadini si lamentano perché «nessuno vuole più i nostri prodotti» e ce l'hanno con i giornalisti: «Questa non è la Terra dei fuochi, è Terra di lavoro». Hanno ragione e allo stesso tempo torto: non si può fare di tutta l'erba un fascio, non tutto è inquinato e non tutti coltivano a ridosso di discariche. Ma in troppi hanno taciuto quando il territorio veniva violentato, pensando a curare il proprio orticello. Non è stato così, e loro sono rimasti in mezzo a due fuochi concentrici: i roghi e le agromafie, che impongono prezzi da fame per prodotti agricoli. Al mercato ortofrutticolo i pomodori vengono pagati otto centesimi al chilogrammo, le stesse mafie gestiscono il riciclaggio nelle discariche abusive degli scarti dell'agricoltura e poi fanno appiccare i roghi che avvelenano tutto, e nessuno vuole i prodotti di una terra malata anche se venduti sotto costo. E il cerchio di un sistema «malato e marcio» si chiude.
(1- continua)

Un'esperienza ambientale, economica, soprattutto sociale e con forte caratterizzazione di genere, che lascia un solo dubbio: si tratta di un prodotto collaterale dello slum, o di una vera alternativa, per quanto settoriale, alla metropoli globalizzata? Il manifesto, 17 ottobre 2013 (f.b.)

La maggior parte degli edifici di Mumbai, come in altre città in India ma anche in Medio Oriente o in Nord Africa, sono connessi dai tetti. Tetti piani, terrazzi a tutti gli effetti, separati tra loro solo da muretti bassi, facili da scavalcare. Qui vengono spostate attività come stendere, cucinare o dormire per adattarsi al cambiamento del tempo e delle stagioni o della posizione del sole. Non solo estensione della casa, i tetti sono anche passaggio per amici, vicini, amanti o il percorso quotidiano da casa a scuola.

Da sempre sono il luogo privilegiato delle donne, quindi privato, protetto, ma anche aperto, vitale. In alcuni casi la sola possibilità all'esterno per rilassarsi inosservate, per una temporanea fuga dalle incombenze domestiche dei piani di sotto. Qui le donne creano nuove relazioni, prestano e si scambiano cose, osservano le attività dei loro vicini, si invitano l'una con l'altra. Si crea così non solo uno spazio di libertà, ma anche una forte rete di condivisione tutta femminile. D'altronde sono pochi o inesistenti i luoghi in città dedicati esclusivamente alle donne, mentre gli uomini hanno numerose possibilità, formali o informali, fuori dalle mura domestiche.

Spazi di transizione tra dentro e fuori, paradigmatici, simbolici, così come i giardini, i tetti sono ambienti domestici che rappresentano nello stesso tempo lo spazio interiore ed esteriore. Mondi sospesi, sono descritti nei poemi o nelle poesie urdu e nella lunga tradizione della narrativa indiana: luoghi letterari, dove avventure, amori, tragedie, amicizie si consumano, si sviluppano e si sciolgono per raccontare, in realtà, le difficili condizioni di vita delle donne. Naturalmente il loro status non è uguale per tutte, dipende dalla posizione nella società, ma la discriminazione di genere è largamente diffusa, nonostante sia vietata per legge. Nella Costituzione le donne hanno diritti uguali agli uomini, nei testi religiosi sono rispettate e adorate, ma nella pratica spesso sono sfruttate, torturate e umiliate. La loro vita è un ciclo senza fine di doveri come madre, moglie, sorella, la loro identità e il loro ruolo nella società negate.

Nuove forme di partecipazione
Così diverse associazioni e organizzazioni hanno cominciato a promuovere e diffondere proprio sui tetti di Mumbai l'urban farming, affinché nuovi orti e frutteti possano diventare nuove forme di partecipazione per le donne e, nello stesso tempo, di attenzione all'ambiente e nuove risorse economiche e alimentari. Tra queste la ong Sneha, che realizza progetti contro la violenza alle donne e si occupa di salute materna e infantile, in collaborazione con l'organizzazione no profit Fresh&Local che si dedica alla parte progettuale.

Dalla terrazza del Mohamedi Manzil building, in una delle zone più convulse di Mumbai, la vista è quella di terrazzi anneriti, cavi attorcigliati, ammassi disordinati di antenne. Insomma il tipico aspetto spoglio e un po' squallido di tutte le megalopoli. Ed è qui che Adrienne Thadani di Fresh&Local prova a realizzare il suo obbiettivo: creare a model rooftop urban farm, cioè un grande orto urbano, un modello da esportare in quanti più tetti possibili. Ben cinquecento metri quadrati per piantare trenta varietà diverse di alberi da frutta, come mango e chikoo o arbusti di okra che crescono dentro grandi cesti, mentre in cassette di plastica blu disposte in file geometriche a formare delle grandi aiuole, spuntano ortaggi e erbacee tra aromatiche, spezie e medicinali, come aglio, menta, o come il tumeric (Curcuma longa) e la lemongrass (Cymbopogon citratus), entrambe molto utilizzate nella cucina indiana e con numerose proprietà curative. Adrienne ha calcolato che con il raccolto di solo 1,5 mq si riuscirebbe a dare un piatto di verdure e frutta al giorno a una persona per sei, otto mesi all'anno, tenendo anche conto dei quattro mesi di monsoni.

Per il momento la frutta e la verdura prodotta, rigorosamente bio, viene regalata agli stessi abitanti dell'edificio, ma il programma prevede successivamente di venderle a un prezzo equo per poter sostenere e ingrandire ancora orto e frutteto e così dare lavoro a una persona che si occupi della manutenzione. Dopo aver appurato la capacità del tetto a sostenere il peso della terra e delle piante e l'assenza di danni alla struttura e di infiltrazioni di acqua ai piani inferiori, anche il proprietario dell'edificio è diventato il loro maggiore sostenitore.
Dopo questo primo lavoro, Fresh&Local ha dato il via alla trasformazione radicale di altri tetti, terrazzi e davanzali mentre il tetto del Manzil Building continua a evolversi, diventando uno spazio di sperimentazione che quando sarà terminato conterrà anche un vivaio, un'area specifica per il compost e una per la vendita diretta, uno spazio per le lezioni di yoga e infine una zona all'ombra per laboratori e corsi, per incontri e cene della comunità. Così si ampliano anche gli obiettivi; non solo orto, ma un modo per stare insieme, condividere interessi e passioni, imparare cose nuove. Infine rigenerare i tetti come spazio vitale e vissuto.

Un'altra esperienza, guidata da una donna, riguarda i 300 mq di orto sospeso, il Central Kitchen Garden, nella zona del porto, parte del Mumbai Port Trust. Questo grande tetto terrazzo, adiacente alla mensa, oggi è un paradiso lussureggiante di alberi da frutto tra chikoo, guava, banani, cocco, limoni, con centocinquanta altre varietà tra alberi, arbusti ed erbacee, tra cui un settore specifico per le tisane. Insomma un'oasi di biodiversità, poiché la presenza di tante piante ha portato anche tanti uccelli, insetti tra api, libellule e farfalle nel mezzo della zona portuale della città, tra docks e containers.

Catering e compostaggio

L'idea di creare un orto nasce per risolvere un problema legato alla mensa e in particolare allo smaltimento di una gran quantità quotidiana di rifiuti, dato che ogni giorno la cucina produce cibo per duemila impiegati. Così nel 2002 Preeti Patil, direttrice del servizio di catering, organizza per tutto lo staff della cucina un breve corso sulle principali tecniche di compostaggio. Poco a poco comincia a crescere qualche albero e ortaggio fino ad arrivare alla vera giungla verde di oggi visitata non solo da famiglie e scuole, ma anche da organizzazioni e aziende che desiderano seguire un percorso sostenibile.

Così, poco a poco, mentre continua ad aumentare il prezzo di frutta e verdura e proprio quando è sempre più evidente e conosciuto l'effetto nocivo di fertilizzanti e pesticidi chimici di suolo, aria, acqua, animali, piante, alcune persone hanno trovato a Mumbai una soluzione radicale, olistica, che è anche economica, pulita e sostenibile. Invece di seguire i metodi proposti dall'industria, riscoprono il gusto di frutta e verdura biologiche, che non hanno viaggiato per tutto il paese e che non sono stati in celle frigorifere per conservarsi o per maturare.

Una delle prerogative più interessanti di questo movimento è l'adozione sui tetti di pratiche sostenibili e tecniche di coltivazioni naturali adottate nei campi, come la natueco farming (unione delle parole Nature ed Ecology) creata negli anni '60 e che sfrutta i processi naturali per creare terriccio fertile e ricchissimo di sostanze nutrienti grazie a un processo molto rapido. La ricetta si trova su internet ed è tipicamente indiana, poiché sfrutta la libera circolazione delle vacche sacre che permette di disporre facilmente di urina e sterco freschi. Oppure il sistema Prayog Pariwar (prayog significa esperimento e parivar rete familiare): dato che ogni orto è unico e differente dagli altri, poiché sono differenti le condizioni, le persone, le piante e le varietà coltivate, per ogni situazione e per ogni problema ci sono più soluzioni.

Quindi, senza adottare delle regole di coltivazione fisse, che non funzionerebbero in tanti casi, è importante che ognuno sperimenti da solo, tenendo anche conto delle altre esperienze e diffondendo i propri risultati. Ciò assicura un continuo, dinamico scambio di conoscenze legate a situazioni pratiche e concrete.
Questo metodo di condivisione dei saperi e la tecnica natueco sono stati entrambi adottati dall'organizzazione Urban Leaves, fondata nel 2009 a Mumbai da Preeti Patil dopo la sua esperienza al Mumbai Port Trust, per creare nuovi orti, e così offrire nuove opportunità e risorse, per favorire l'integrazione e il coinvolgimento di donne e uomini insieme, per stimolare una sorta di up-date della vita sui tetti e scoprirne tutte le potenzialità.

L'Istituto per la Protezione dell'Ambiente ha presentato oggi 11 ottobre a Roma il suo rapporto 2013, riportiamo per ora una breve presentazione proposta da la Repubblica online, e il documento integrale scaricabile

Cala lo smog ma cresce il cemento: meno 5 ettari al giorno, PM10 oltre soglia

Nona edizione del Rapporto sulla Qualità dell'Ambiente Urbano. Le 51 aree comunali monitorate hanno cementificato 220mila ettari di territorio, quasi 35mila solo a Roma. La lista delle città più inquinate comprende la Capitale, Taranto, Milano, Napoli e Torino e riflette quella della circolazione delle auto

Migliora l'aria nelle città italiane, molte delle quali però restano ad alto rischio di sforamento dei valori considerati sicuri per gli inquinanti, mentre non si arresta la cementificazione, che ogni giorno richiede il suo tributo al territorio urbano: ben 5 ettari. La fotografia viene dai dati della nona edizione del Rapporto sulla Qualità dell'Ambiente Urbano presentato a Roma dall'Ispra.

Tra il 2000 e il 2010, afferma il documento, a livello nazionale c'è stata una diminuzione delle polveri sottili del 37%, complici anche le minori attività industriali, e in quasi tutte le 60 città prese in esame il trend è in diminuzione. "In tutte le città considerate tranne Livorno - sottolinea però il rapporto - nel 2011 le concentrazioni medie di pm10 sono state superiori al valore soglia consigliato dall'Oms, e in 6 centri abitati del bacino padano i valori hanno superato la soglia annuale prevista dalla normativa".
La lista delle città più inquinate da questo punto di vista, che vede Roma, Taranto, Milano, Napoli e Torino ai primi posti, riflette quella della circolazione delle auto. Se nelle otto metropoli considerate, con l'eccezione di Roma, le immatricolazioni sono in calo, i valori assoluti restano alti.

"Quello che abbiamo notato - spiega Silvia Brini, curatrice del rapporto - è che nelle città grandi, ad eccezione di Roma, le auto circolanti tendono a diminuire, mentre in quelle più piccole avviene il contrario". Oltre che inquinate le città risultano dal rapporto anche sempre più 'grigie'. Napoli e Milano hanno ormai consumato oltre il 60% del territorio, e anche Torino e Pescara superano il 50%. Le 51 aree comunali monitorate hanno cementificato 220mila ettari di territorio, quasi 35mila solo a Roma, con 5 ettari di nuove aree 'catturati' ogni giorno. Trento mostra i valori più alti di verde pubblico, mentre Messina, Venezia e Cagliari sono le città con le quote più alte di territorio protetto. "In questi tre casi si parla di percentuali significative, ben oltre il 50% - sottolinea Brini - un dato che ci ha positivamente impressionato". Quasi una reazione al colore monotono dominante nelle città sono sempre di più gli uccelli alloctoni, introdotti cioè da fuori, a cominciare dai pappagalli. Le specie più avvistate sono i parrocchetti, ma ci sono anche l'anatra mandarina, il cigno nero e l'amazzone fronteblu.

Qui scaricabile il Rapporto ISPRA 2013

Grazie all’iniziativa di Indiana Jones e alla tenaciadella lotta della popolazione locale restituite al popolo le foreste commercializzate dallo stato e trasformate da foreste tropicali disetanee in fabbriche d'olio di palma, con pesanti ricadute sul clima globale. LaRepubblica, 30 settembre 2013

Quando la Gazzetta ufficiale della Repubblica indonesiana ha pubblicato la sentenza della Corte costituzionale sui diritti degli indigeni delle foreste, Harrison Ford ha letto il testo con la curiosità tipica del suo Indiana Jones.E ha scoperto che nel grande arcipelago islamico il governo di Giakarta aveva sfruttato illegalmente per 40 anni milioni di ettari di terre delle popolazioni autoctone che non gli appartenevano.

Durante l’intervista per un documentario della tv americana, il ministro delle Foreste indonesiano Zulkifli Hasan si è trovato così incalzato dalle domande dell’attore sugli abusi di cui Ford era stato testimone a Sumatra, e ha reagito con una tale stizza da farlo minacciare di deportazione immediata. Il risultato è che da quel giorno la sentenza, passata nel silenzio quasi generale, è oggi sulle labbra di tutti.

In pratica l’Alta Corte ha accolto gli esposti di diverse tribù raccolte dall’Associazione nazionale del Popolo indigeno, che rivendicavano per gli abitanti originari e le comunità tradizionalmente legate alla vita della foresta il dirittodel suo utilizzo e sfruttamento. Milioni di ettari di giungla, poco meno di un terzo del totale, hanno perso d’un colpo lo status di “foresta dello Stato” per diventare “giungla ancestrale”, quindi non più soggetta alle leggi demaniali e ai profitti delle vendite e delle concessioni da parte del governo centrale e di quelli regionali o provinciali, bensì a quelle di capi tribù e dei consigli di villaggio. È un affare colossale, considerando che le sole tasse per l’esportazione dell’olio delle palme — piantate al posto delle foreste pluviali — porta alle casse dello Stato oltre 6 miliardi di dollari l’anno, l’11 per cento dell’intero ricavo dell’export. Se troverà applicazione pratica, la sentenza può costituire un precedente storico anche per Paesi come l’India, la Malesia e molti altri, e assesta un colpo micidiale all’intero castello di interessi costruito in 40 anni dal governo di Giakarta che domina da Giava le risorse naturali di tutte le altre 18000 isole dell’arcipelago. In particolare diventa automaticamente incostituzionale la famigerata “Legge delle Foreste” implementata dieci anni fa dal governo e «usata come strumento — si legge negli esposti accolti dalla Corte — per espropriare i diritti delle genti indigene sulle loro terre», ovvero i luoghi “ereditari in natura” dove hanno vissuto gli antenati degli attuali residenti secondo i principi etici, culturali e religiosi della tribù.

Non a caso i giudici hanno sottolineato il fatto che «le popolazioni indigene esistevano ben prima della nascita della Repubblica indonesiana», come testimoniano antichi cimiteri, sorgenti dai nomi di antiche lingue, totem degli antenati e perfino templi induisti e buddhisti sopravvissuti all’islamizzazione.

Uno degli effetti più macroscopici dello sfruttamento statale su terre spesso considerate sacre e inviolabili, dove vivono specie animali rare come gli oranghi del Borneo e le tigri di Sumatra, sono stati i tagli sistematici degli alberi e l’incendio del sottobosco e delle torbiere. Ogni anno se ne vanno in fumo infatti giganteschi pezzi di polmone verde di questa delicata Amazzonia dell’Est. Al loro posto sono sorte distese a perdita d’occhio di palme da olio che portano una certa ricchezza ma provocano un aumento dei gas letali per l’effetto serra, a causa del mancato rilascio di ossigeno dovuto al taglio degli originari alberi della pioggia. Senza contare il surriscaldamento dovuto agli incendi per “ripulire” dalla giungla primordiale il terreno destinato alle nuove piantagioni, con dense colonne di fumo e spesse coltri di nubi miste a cenere che raggiungono in certe stagioni la Malesia, Singapore e il Sud della Thailandia. Secondo Greenpeace,tra il 2009 e il 2011 le palme da olio sono state la principale causa della deforestazione, piazzando l’Indonesia al primo posto nel mondo con metà della produzione globale.

Grazie, Svizzeri del Cantone dei Grigioni. «Democrazia dal basso: per 124 voti il gruppo Repower sarà costretto ad abbandonare il progetto. Anche se la società, a partecipazione pubblica, ha già dichiarato che non cambierà strategia». Il manifesto, 24 settembre 2013

Il destino dell'ambiente in quel lembo di terra che si affaccia sullo Stretto di Messina, nella punta estrema della Calabria, l'hanno deciso domenica scorsa i cittadini. Solo che a esprimersi tramite un referendum popolare e a decidere che no, la centrale a carbone progettata nel distretto industriale di Saline Joniche, frazione di Montebello, in provincia di Reggio Calabria, non s'ha da fare, sono stati i cittadini svizzeri. Grigionesi, per l'esattezza.

In quel cantone hanno discusso e si sono scontrati per anni anche aspramente e alla fine, domenica 22 settembre, in 50 mila hanno partecipato al voto, il 40,17% degli aventi diritto, e hanno scelto - con soli 124 voti di scarto - di rigettare il controprogetto del Gran Consiglio federale che tentava di salvare il piano del gruppo Repower (ex Rezia-energia), società a partecipazione cantonale leader nella produzione energetica, e di accettare invece l'iniziativa popolare cantonale «Sì all'energia pulita senza carbone» che non solo impedisce lo scempio di una megacentrale da 1320 Mw e da oltre un miliardo di euro di spesa su una delle preziose coste italiane ma impedisce anche da subito, con una riforma della Costituzione cantonale, ogni partecipazione dei Grigioni alla costruzione di centrali a carbone.

Nell'urna, i cittadini dei Grigioni hanno risposto a tre domande nelle quali si chiedeva di promuovere o bocciare le due proposte opposte, e nell'ultimo quesito, quello risolutivo, di scegliere tra le due. L'iniziativa del comitato ambientalista Pro Natura ha raccolto 700 voti in meno (28.878 sì) rispetto al progetto del governo federale (29.553 consensi) che intendeva salvare l'investimento della Repower (partecipata per il 58% dal cantone Grigioni) a Saline Joniche e in cambio affermava il divieto a investire in futuro «in centrali a carbone per le quali non vi è una riduzione sostanziale delle emissioni di CO2». Stranamente dunque è solo con l'ultima domanda referendaria che i grigionesi hanno scelto - con 24.650 voti contro 24.526 - di aderire all'iniziativa popolare e di bocciare il controprogetto del Gran Consiglio. Da noi un responso così avrebbe sollevato sicuramente una polemica infinita. E invece molto probabilmente la scelta del cantone influirà inesorabilmente anche sulle politiche ambientali future dell'intera confederazione elvetica. Anche se ieri sera la Repower ha fatto sapere che non intende «cambiare strategia» ma si appresta invece ad osservare «con attenzione il processo legislativo che seguirà» al voto. Perché, secondo la società grigionese, ai votanti è stata sottoposta una «proposta generica» che quindi non ha ripercussioni dirette nel «rispettivo articolo costituzionale».

A questo punto invece la società Repower, dopo aver abbandonato il progetto di una centrale a carbone a Brunsbüttel, in Germania, dovrebbe essere costretta a ritirarsi anche da Saline dove avrebbe investito il 58% dei costi (altri partecipanti sono le italiane Hera, per il 20%, e Aprisviluppo per il 7%, insieme alla statunitense Foster Wheeler che avrebbe finanziato il 15%). Al posto della società energetica svizzera però potrebbe subentrare anche l'Enel. D'altronde il progetto della centrale calabrese che dovrebbe sorgere nel sito dell'ex Liquichimica avrebbe ottenuto nel giugno 2012 dal governo Monti, secondo quanto riportato dal Consiglio federale elvetico, la compatibilità ambientale. Perché, come si legge nelle spiegazioni fornite a corredo della consultazione popolare di domenica scorsa, si tratterebbe secondo il loro punto di vista di un impianto «altamente moderno che soddisfa gli standard ambientali più elevati e riduce le emissioni di Co2 del 30% rispetto agli impianti tradizionali». Nelle intenzioni della Confederazione elvetica - dove la lobby ambientalista ha forte influenza - in ogni caso la società di gestione di Saline Joniche, nel rispetto delle norme europee, deve «acquisire corrispondenti certificati di emissione, finanziando così progetti per la riduzione del Co2 in misura equivalente», in modo da rendere la centrale calabrese «neutrale» dal punto di vista delle emissioni. Secondo il comitato di iniziativa popolare Pro Natura, invece, «una centrale a carbone come quella prevista in Calabria emette ogni anno sei volte più Co2 di tutte le economie domestiche nei Grigioni». Oltre al fatto che «il carbone per quella centrale va trasportato in Italia da oltremare»: «Un'assurdità economica ed ecologica», bollano il progetto i Verdi svizzeri. Tanto più perché, spiegano, «i pericolosi mutamenti climatici potrebbero essere evitati smantellando 550 centrali a carbone in tutto il mondo».

L'eco del referendum grigionese ha risuonato fino a 1.500 chilometri più a sud. Esultano anche gli ambientalisti italiani - Legambiente, Wwf e Greenpeace Italia - per il voto che «indica una scelta chiara e inequivocabile in direzione di una definitiva rinuncia a investimenti sulla fonte fossile più inquinante», e che «deve tradursi come primo atto nell'immediato ritiro del progetto di costruzione di una nuova centrale a carbone a Saline Ioniche, rifiutato nettamente da istituzioni e cittadini calabresi e, contrariamente a quanto affermato dai suoi sostenitori, ben lontano dall'essere autorizzato». Per Legambiente la presa di posizione della Repower rispetto al voto di domenica «è inaccettabile». Piuttosto la società «prenda atto della volontà popolare ritirando il progetto o riconvertendo l'investimento, puntando a Saline come in Svizzera sulle rinnovabili e sull'efficienza energetica».

Intervistato da Franco Marcoaldi lo scienziato spiega l'illusione della crescita continua, la razzia dell’ambiente accompagnata a rapporti sociali violenti, perché la natura non è una reliquia. Ma il tempo della politica non combacia con quello dell’ecologia. La Repubblica, 16 settembre 2013

Era nelle cose che questa inchiesta sui rischi della “fine del limite” affrontasse anche il limite ultimo e ineludibile rappresentato dalla Terra, verso la quale continuiamo a comportarci secondo una logica di rapina cieca e scriteriata. Per rendersene conto basta leggere, tra i tanti, i bei libri che Pascal Acot ha pubblicato in Italia da Donzelli,
 Storia del clima 
e Catastrofi
 climatiche e disastri sociali.
 Ma la posizione del ricercatore francese è tanto più interessante perché non si appiattisce sulle tendenze ecologiste oggi più in voga. Con le quali anzi, spesso e volentieri, polemizza apertamente.


«Se pensiamo al nostro rapporto con la Terra, il problema del limite si pone sia in materia di risorse (energetiche, minerali, biologiche), che di crescita demografica. Entrambe oggetto di valutazioni controverse. Secondo alcuni, grazie a tecnologie sempre più raffinate, l’umanità sarà comunque in grado di trovare nuove risorse e occupare nuovi spazi. Dunque la crescita, in termini di ricchezza, non cesserà mai. Si tratta di una semplice credenza, perché nessun dato scientifico ci consente di suffragare tale ipotesi. Per contro, coloro che considerano le risorse limitate si appoggiano su costanti di ordine termodinamico: il globo terrestre è un sistema fermo perché non può scambiare materia con il resto dell’universo, pur utilizzando l’energia di calore che proviene dal sole. L’obiettivo dunque diventa quello
del riciclaggio o della scoperta di nuovi tipi di risorse, ma non sempre questo è possibile. Senza contare che il rinnovamento naturale di alcune di esse, come per esempio il fosforo sotto forma di fosfati, è troppo lento. Questa posizione è fatta propria dai fautori delle politiche di austerità e dai partiti ecologisti, che difendono l’ossimoro della cosiddetta “abbondanza frugale”».


Sembrano due posizioni assolutamente
inconciliabili.

«Almeno in linea di principio si può però superare tale antagonismo ponendo la questione in questi termini: le risorse del pianeta non sono affatto illimitate, ma non sono neppure limitate in modo fisso e predeterminato.
Bisogna far propria un’idea dinamica di limite, utilizzando al meglio i progressi compiuti e concentrando l’attenzione su una gestione razionale delle risorse. Innanzitutto proscrivendo tutte quelle produzioni che soddisfano soltanto bisogni immaginari o dettati da una mera logica di profitto e sopraffazione. Penso ad esempio agli Ogm, alle monocolture su base industriale che mettono in ginocchio le coltivazioni tradizionali. E penso anche al ritardo criminale in materia di transizione energetica al fine di rimpiazzare le risorse fossili con risorse rinnovabili. Senza contare, da ultimo, gli effetti disastrosi delle delocalizzazioni e della mondializzazione, a partire dai costi spropositati dei trasporti».


Lei insomma sposta l’attenzione dal rapporto ecologico uomo-natura a un piano più squisitamente politico.

«Assolutamente sì. La qualità delle relazioni tra gli esseri umani e la natura è strettamente legata al rapporto che gli esseri umani instaurano tra di loro. Il saccheggio delle risorse umane si accompagna sempre
al saccheggio delle risorse naturali. Se i rapporti sociali sono brutali e violenti, allora si verifica ciò a cui assistiamo oggi: la razzia indiscriminata dell’ambiente e la devastante mercificazione del patrimonio comune. Al contrario, in un mondo in cui prevalessero rapporti sociali più equi e rispettosi, si potrebbero creare le condizioni di un rapporto più armonioso anche con il pianeta».


Da qui anche una sua vis polemica contro certo ecologismo.


«Io riconosco a tutto il movimento ecologista uno straordinario merito: quello di aver posto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il rischio enorme dell’attuale situazione. Però non condivido alcuni aspetti dell’ideologia ecologista, lo svilimento dell’umanità rispetto a una fantasmatica “natura” che va protetta come una reliquia. Ad esempio, i fautori della decrescita felice non vedono che il problema vero è quello della ripartizione più equa delle risorse. Oppure, tanti ambientalisti pensano che tutto possa risolversi con un generico appello alla coscienza individuale. Ma che senso ha affermare che l’Uomo, in quanto tale, è colpevole? Che siamo tutti colpevoli in eguale misura? Che tutto si risolve attraverso il mutamento delle nostre abitudini? Non è vero. E sono i numeri a dircelo. Io posso anche convertirmi all’auto elettrica, ma il mio gesto risulterà ininfluente se si continua a perseguire la logica folle
della mondializzazione nella circolazione delle merci, con l’emissione spropositata di combustibili fossili necessaria al loro trasporto. Mi chiedo: quando finirà l’assurdità di gamberetti pescati nella baia di Baffin, sgusciati in Marocco e impacchettati in Danimarca che arrivano poi sugli scaffali dei nostri centri commerciali? Magari ad opera di quelle stesse catene distributive che hanno anche la faccia tosta di spingerci ad acquistare buste di plastica ecologiche con il logo del Wwf».


Lei però è anche molto critico sull’eventualità che la politica affidi le sue scelte a quanto indicato dalla comunità scientifica.

«È un’idea rovinosa. Intanto perché la scienza non è affatto neutrale. È condizionata da mille fattori: i pregiudizi del momento, l’ideologia delle classi dominanti, la logica del profitto, il percorso biografico degli scienziati, gli investimenti verso questo o quel settore di ricerca a scapito di altri. No, io continuo a credere che solo all’interno di un autentico processo democratico gli uomini possano finalmente riappropriarsi del loro destino, e invertire la rotta che ha condotto a mille catastrofi: da Bhopal a Chernobyl. I veri produttori della ricchezza – coltivatori, tecnici, allevatori, pescatori – sono stati espropriati degli strumenti necessari per intervenire sui processi che hanno portato a quelle sciagure. E questo è accaduto sia all’interno delle società cosiddette socialiste che in quelle liberali. Ciò detto, certo, la politica deve saper ascoltare quanto la scienza le dice. E la scienza ci dice in modo inequivocabile che l’attività dell’uomo influisce sul clima del pianeta e che, se non si fa nulla per bloccare il riscaldamento globale, si va verso il disastro».


Lei ritiene che siamo già arrivati a un punto di non ritorno?

«Posso solo dirle questo: il tempo della politica e quello dell’ecologia non combaciano. La politica ha uno sguardo sempre più corto, mentre, se anche noi oggi prendessimo finalmente le decisioni giuste, gli effetti benefici si vedrebbero soltanto dopo molto tempo, a causa delle inerzie ecologiche su scala planetaria. Provo a spiegarmi con un’immagine che ho già utilizzato in altre occasioni: è come se fossimo a bordo di un camion e, nell’imminenza di un potenziale incidente, decidessimo all’improvviso di frenare. Ma l’inerzia è tale che il camion, prima di fermarsi, percorrerà ancora un bel tratto di strada. Inutile aggiungere che non stiamo affatto frenando, ma al contrario
continuiamo a correre a rotta di collo….».


Quindi?

«Quindi, sulle cause astronomiche dell’andamento climatico non possiamo certo intervenire, ma sui fattori che dipendono da noi sì: in particolare, sulle emissioni di gas a effetto serra. Non è detto che tutto ciò sia sufficiente, ma è evidente che non si può assolutamente eludere quel passaggio. L’ho già scritto e lo ripeto qui: siamo nella stessa situazione di Pascal rispetto a Dio; pur non esistendo la prova, lui scommise sulla sua esistenza. E noi a nostra volta dobbiamo scommettere che non sia troppo tardi per salvare la specie umana e il pianeta Terra. Anche se le confesso che, a momenti, mi sembra una scommessa disperata».

Ancora sulle un po' positive rilevazioni ambientali nelle aree urbane, stavolta con una critica di Legambiente alla latitanza di politiche di sostegno. (Ma attenti agli effetti perniciosi che può avere la green economy). Corriere della Sera, 13 agosto 2013, postilla (f.b.)

ROMA — Il governo Letta è avvisato: «Urgono politiche nazionali e locali che incanalino una nuova sensibilità ambientale, sostengano i rinnovati stili di vita che possono nascere dalla crisi». Parola di Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente mentre analizza il report Istat sui dati ambientali nelle città italiane del 2012. Gli effetti della crisi si accavallano alle abitudini che cambiano. Il tasso di motorizzazione (sicuramente collegato al calo degli acquisti di automobili) scende dello 0,7% rispetto al 2011. E nello stesso tempo (qui siamo invece nell'ambito delle scelte personali) per la prima volta le vetture meno inquinanti sono più diffuse di quelle non ecologiche.

Nei comuni capoluogo le macchine fino alla classe euro 3 sono 303,9 per mille abitanti contro le 305,3 delle classi euro 4 o superiori. E nello stesso tempo le auto a benzina calano dell'1,2% a favore di quelle a gasolio (+0,9%) e bifuel benzina/gpl o benzina/metano (+0,3%). Migliora poi la situazione di massimo allarme per la qualità dell'aria e diminuisce da 59 a 52 il numero dei capoluoghi dove il valore limite per la protezione della salute previsto per il Pm10 viene superato per più di 35 giorni. Buone notizie anche dall'ambiente: la superfici di verde urbano crescono dell'1% nei comuni capoluogo di provincia.

Dice ancora Vittorio Cogliati Dezza: «Non mancano segnali di una certa inversione di tendenza legati sia alla crisi sia a comportamenti diversi. Penso alla produzione di rifiuti che è indubbiamente calata. Ma questo si innesta anche sulle pratiche virtuose adottate per fortuna da un numero crescente di comuni». In quanto agli spostamenti, sottolinea Cogliati Dezza, c'è anche la nuova realtà dei ciclisti in aumento. Secondo una recente stima di Confindustria Ancma nel 2012, tra acquisti e mezzi rimessi a nuovo, sono state vendute oltre due milioni di biciclette di vari modelli, un incremento netto di 200 mila pezzi in più rispetto al 2011. Ancora Cogliati Dezza: «I ciclisti italiani stanno aumentando continuamente, c'è una vera e propria esplosione dei movimenti di base che si stanno diffondendo al di là della presenza o meno delle piste ciclabili. Qui siamo sempre a metà tra crisi economica e consapevolezza civile diversa dal passato. Ma sono necessarie nuove politiche e nuove visioni. Per ora non ne vediamo molte».

E in questo caso è impossibile non pensare alla Gran Bretagna dove, invece, il governo Cameron ha recentemente deciso di stanziare 160 milioni di sterline per la creazione di piste ciclabili in nove città tra cui Londra, Manchester, Oxford, Cambridge, Birmingham, Bristol. Un responsabile delle politiche ciclistiche risponderà direttamente al primo ministro sull'attuazione del piano.
Anche Dante Caserta, presidente nazionale del Wwf, concorda con l'analisi di Cogliati Dezza: «La crisi ci mostra come molte abitudini che ci sembravamo irrinunciabili possano essere abbandonate. L'uso dell'auto privata è chiaramente in calo e spetta al governo centrale e alle amministrazioni locali investire nel settore dei trasporti pubblici. Sarebbe bene che il governo comprendesse che la green economy non è un settore particolare ma indica un modello di sviluppo positivo. Faccio un esempio. Se l'inquinamento nelle città cala, ci si ammala di meno e lo Stato spende meno in sanità pubblica. Non è questo un grande investimento per il futuro, se governato con consapevolezza»?

postilla
Sicuramente è il caso di ricordare, sia al governo che all'opinione pubblica che alla stessa Legambiente così critica sulla latitanza di alcune iniziative, che la cosiddetta green economy difficilmente si può basare su singoli progetti, per quanto grandi e importanti, ma costituirsi invece sistema integrato. Il citato governo britannico (come del resto altri) ha fatto le proprie scelte energetiche, che stanno alla base di tante altre fondamentali strategie. Da noi si pasticcia in modo contraddittorio, come nella notizia riportata ieri da questo sito sul land grabbing per la produzione di biogas, dove da un lato si contraddice di fatto lo spirito delle linee ufficiali (pdl Catania e assimilati) sul contenimento del consumo di suolo a usi urbani e a sostegno delle produzione agricola, dall'altro si punta su una produzione come il biogas, che gli esperti di energie alternative (si leggano i Commenti al medesimo articolo) giudicano fallimentare. Insomma: andiamo da qualche parte, oppure anche qui al massimo si tenta di vivacchiare, concedendo un po' di investimenti alle piste ciclabili, sperimentando progetti pilota di car-sharing che non ci piloteranno da nessuna parte eccetera? (f.b.)

I dati ambientali dell'Istat sulle nostre aree urbane sono vagamente confortanti, anche se forse al solito è tutta colpa – o merito - della crisi economica e dei consumi. Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2013 (f.b.)

Migliora – seppure in alcuni casi di uno "zero virgola" – il profilo ambientale delle città italiane. L'indice di motorizzazione nel 2012 è sceso, le vetture meno inquinanti hanno superato le "classi euro" più antiquate, è calato il numero di città colpevoli di sforare i limiti per il Pm10, sono aumentati gli interventi per misurare l'inquinamento acustico così come è cresciuta la disponibilità pro capite di verde urbano.

Certo, i segnali di progresso sono ancora timidi, la situazione resta preoccupante in alcune aree del territorio, si notano significativi divari territoriali e appare sempre difficile reggere il confronto con l'Europa. Nondimeno nel quadro dipinto dall'ultimo report dell'Istat sui «Dati ambientali nelle città» – riferito ai 110 comuni capoluogo e focalizzato sui temi del trasporto e del verde nel contesto urbano – qualche spiraglio di luce si intravede.

Partiamo dalle auto: il tasso di motorizzazione nel 2012 segnala una contrazione dello 0,7% rispetto all'anno precedente, attestandosi a quota 609 autovetture ogni mille abitanti (con Aosta, Trento e Bolzano al top, ma per ragioni fiscali, e Venezia, Genova e La Spezia sotto quota 500). Inoltre guadagna spazio il fronte più "ecosostenibile": le auto a benzina – benché siano ancora oltre la metà del totale in tutte le macro-aree geografiche – arretrano dell'1,2%, a vantaggio di quelle a gasolio oppure bifuel (gpl e metano) e per la prima volta le "euro 4" o superiori sorpassano quelle fino alla classe 3 (tasso di motorizzaazione 305,3 contro 303,9).

Fin qui il bicchiere mezzo pieno. Mezzo pieno perché viene il dubbio che questi miglioramenti in parte rappresentino il "risvolto" positivo della crisi che perdura da anni. Il graduale esaurimento delle classi euro più obsolete è nell'ordine delle cose: non si producono più e ci sono vincoli alla loro circolazione in alcuni centri urbani, mentre la diffusione dei carburanti a minore impatto deriva sia da una tecnologia più rispettosa dell'ambiente, sia da un insieme di motivazioni economiche e di incentivi fiscali. Insomma, meno reddito disponibile uguale meno acquisti di auto con conseguente minore congestione urbana.

La pressione del traffico nelle città italiane resta però elevata, visto che – in base alle rilevazioni dell'ultimo Osservatorio Autopromotec – il nostro Paese è al top in Europa per densità automobilistica: con 61 vetture ogni cento abitanti, è superata soltanto da Lussemburgo e Islanda (indice 66 e 64), contro una media Ue pari a 51, un indice pari a 48 in Francia e Spagna, a 52 in Germana e a 50 nel Regno Unito.

Tra le cause dell'elevato ricorso al trasporto privato può esserci un'offerta di trasporto pubblico non adeguatamente sviluppata. E anche su questo versante si leggono i segni della crisi, visto che – dice ancora l'Istat – la domanda è in calo del 7,4% rispetto al 2011 (a 209 viaggi per abitante, neanche uno spostamento al giorno su bus, tram o metro): del resto meno occupazione uguale anche meno necessità di mezzi pubblici per raggiungere il posto di lavoro. Un trend confermato dall'analisi del dato relativo alle principali realtà urbane (quelle con oltre 200mila abitanti o centro di area metropolitana): è vero che qui la domanda è anche cinque volte maggiore rispetto a quella dei capoluoghi più piccoli, ma il calo è ancora più netto (-8,11%, con punte a Roma, Napoli e Catania che superano il 13%).

«Il calo del traffico si riflette anche su un leggero ridimensionamento dell'allarme per la qualità dell'aria: rispetto al 2011 è sceso infatti da 59 a 52 il numero dei capoluoghi dove il valore limite fissato per il Pm10 a protezione della salute è stato superato per oltre 35 giorni all'anno. Una volta tanto sono il Centro e il Sud a battere il Nord – osserva Domenico Adamo, uno dei curatori del report dell'Istat –. Tra le realtà settentrionali (dove peraltro la situazione è più grave già in partenza, considerate la sfavorevole posizione meteo, la maggiore concentrazione di popolazione, di fonti inquinanti e anche di attività produttive) solo un comune su cinque è riuscito a contenere gli "sforamenti" sotto i 35 giorni». Nella top ten negativa si notano quasi esclusivamente comuni piemontesi e lombardi (con Alessandria a 123 giorni, Torino a 118, Milano a 107) e due sole presenze del Centro e del Sud (Frosinone e Siracusa).

Se i progressi sul fronte del traffico e dell'aria possono in parte essere conseguenza delle minori occasioni di spostamento, di consumo e di occupazione derivanti dalla crisi, ci sono però altri due fronti monitorati dall'Istat che migliorano indipendentemente dalla congiuntura: rumore e verde urbano. Ebbene, quanto al primo, si sono intensificati gli interventi per misurare il rumore e due comuni su tre hanno approvato la zonizzazione acustica del territorio; quanto al secondo, l'area dedicata a parchi, giardini, ville, orti e aree sportive è cresciuta dell'1%, il 15% della superficie urbana risulta inclusa nelle "aree naturali protette" e ogni abitante ha in media a disposizione circa 31 metri quadrati di verde urbano, +0,5% rispetto al 2011. Ma – picchi a parte – lo spazio riservato in città ad alberi e simili resta comunque sempre poco: in media, meno del 3% del territorio complessivo dei capoluoghi di provincia.

Un bel caso esemplare di recupero di tecnica tradizionale di gestione del territorio per scopi modernissimi di recupero ambientale e valorizzazione del paesaggio. Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2013 (f.b.)

Una delle emergenze ambientali della penisola è il processo di desertificazione e salinizzazione dei suoli che, secondo gli studi più avanzati, vede nel Salento il primo avamposto. Per contrastare tale emergenza sette anni fa, in provincia di Lecce è nato un progetto pilota, che tenta di contrastare il deserto catturando l’acqua dal vento e consentendo così di irrigare un orto botanico senza apporto meccanico di acqua.

Si chiama Orto dei Tu’rat , esperienza sorta su un terreno di macchia arida situato nel comune di Ugento, dove sono state realizzate 12 mezze lune di pietra a secco, i Tu’rat, che consentono di catturare come in un retino il vento più umido prevalente, che in quella zona è il libeccio. L’obiettivo è che questo, insinuandosi tra i pertugi delle pietre, rilasci all’interno delle strutture acqua sotto forma di rugiada e che poi, per percolamento, scende al suolo consentendo di irrigare un orto botanico impiantato secondo i principi del massimo rispetto per il territorio.

Racconta Cosimo Specolizzi, fondatore del progetto: “La possibilità di irrigare a goccia in zone aride fu studiata per la prima volta nel 1959 da Simcha Blass e da suo figlio Yeshayahu che introdussero in Israele il primo metodo che all’epoca suscitò l’entusiasmo di un miracolo. Decine e decine di ettari desertificati ritornarono ad essere coltivati, a produrre frutta e verdura, a nutrire popolazioni che sopravvivevano a stento. La bellezza delle strutture, così come le abbiamo costruite ci è quasi sfuggita di mano tanto che le persone che vengono nell’Orto rimangono prima incantate dal fascino paesaggistico del posto, dall’effetto di straniamento che suscitano i tu’rat, per il loro essere disposti in modo tale da farli sembrare dune del deserto e al tempo stesso paesaggio lunare, fascinazione che poi, solo in seconda battuta, rivela la ricaduta ambientale di tale bellezza”.

Specolizzi, laureato Dams e artigiano a Bologna, ha deciso di avventurarsi in questa iniziativa, creando così la scenografia di un orto votato alla risoluzione delle emergenze ambientali. Intorno al suo sforzo iniziale, è poi nata l’associazione culturale omonima, che oltre a curare la messa a dimora e lo stato di salute delle piante, si occupa di organizzare eventi culturali.

Premio Legambiente nel 2012 come innovazione intelligente, L’orto, pur essendo riconosciuto come un progetto di valore dagli assessorati della Regione Puglia e dal Comune di Ugento, per ora non ha ancora ottenuto alcun contributo pubblico che gli consenta di essere portato a termine, tanto che gli associati stanno tentando attraverso piattaforme di crowd funding di attivare micro finanziamenti dal basso. Certo, i propositi della Regione sembrano buoni e l’associazione sta aspettando la firma di un protocollo di intesa con il comune di Ugento, che pare imminente.

Le speranze, però, sono passate in secondo piano quando il 15 giugno l’Orto dei Tu’Rat ha subito il terzo attacco incendiario, segno evidente della volontà di boicottarne l’esistenza.

Il rogo ha reso cenere le più importanti strutture in legno, un gazebo, un palcoscenico e undici ulivi pluricentenari. Un colpo durissimo a tutto ciò che l’associazione aveva fin qui realizzato.

Sulla piaga degli incendi che ogni anno danneggiano centinaia di ettari di macchia mediterranea, in quella zona del Salento, circolano tante voci. Ciascuno ha una ipotesi su chi abbia la consuetudine di dare fuoco agli uliveti e alle campagne. Ma in questo caso, dopo il terzo incendio subito, l’Associazione comincia a sospettare che l’evento non sia del tutto casuale e soprattutto comincia a temere che ci sia qualche volontà ostile al loro modello di dialogo con il territorio. “Insieme alle piante e alle strutture si è affumicata anche la nostra determinazione e l’illusione di essere accettati nel territorio” spiega Gianna Milo. Al momento del rogo l’associazione aveva appena messo a punto la stagione estiva, con il patrocinio della Regione e del Comune, con eventi di teatro, concerti, serate di poesia ed action painting dal 29 luglio al 7 agosto. Il rogo ha trasformato tutto in cenere. Le piante dell’orto botanico hanno sofferto molto, e la maggior parte sono seccate.

Così un progetto pilota, premiato e apprezzato a livello europeo, dovrà ripartire da capo, e potrà farlo solo con l’aiuto di tutti. “Non intendiamo arrenderci - assicura Laura Abatelillo - di fronte a questi gesti di spregio, reimpianteremo l’orto, pianta per pianta, il giuggiolo, il pero spinoso, il corbezzolo, e chiederemo alla Guardia Forestale di avere dei giovani ulivi da reimpiantare per dare una risposta di vita alla scempio che abbiamo subito”. Come scrive il poeta salentino Antonio Verri: “... quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi”.

Il problema della sostenibilità o meno delle attività umane, dipende ovviamente anche da quanti sono, gli umani che svolgono queste attività. Non sempre ci si pensa. Corriere della Sera, 27 giugno 2013 (f.b.)

Il World Population Prospect per il 2012, rapporto Onu sugli andamenti della popolazione mondiale pubblicato il 13 giugno, raffredda gli ottimismi circa un rallentamento della crescita demografica. Invece dei 10,1 miliardi in arrivo per la fine del secolo del precedente rapporto, nel 2100 si arriverà agli 11 miliardi, pur con l'aleatorietà che previsioni a così lunga distanza possono presentare. La maggior parte dell'aumento si avrà, come previsto, nelle popolazioni in via di sviluppo, che passeranno dai 5,9 miliardi del 2013 agli 8,2 del 2050, mentre quelle delle regioni sviluppate rimarranno abbastanza stabili attorno a 1,3 miliardi. In Africa la popolazione salirà dagli 1,1 miliardi attuali ai 2,5 miliardi nel 2050. In questo continente nel 1950 vivevano 227 milioni di persone, nel 1975, 419 milioni e nel 2009 erano già più di un miliardo.

Nel recente libro di Lester Brown, presidente dell'Earth Policy Institute pubblicato in Italia col titolo 9 miliardi di posti a tavola a cura di Gianfranco Bologna, la veloce crescita demografica, accoppiata a uno sviluppo incontrollato dei consumi, colpisce tutte le basi della vita sulla Terra. Aumenta la richiesta di acqua per usi irrigui e già oggi gran parte delle acque dei grandi fiumi è oggetto di contese tra le nazioni rivierasche; il progressivo inurbamento in molte aree fa aumentare a dismisura le esigenze idriche; nel contempo la distruzione delle foreste per sopperire alla carenza di terre coltivabili e di pascoli per il bestiame (in Africa i capi di bestiame sono passati da 352 milioni nel 1961 agli 894 milioni attuali) aggrava lo stato di erosione e la perdita di suoli fertili con gravi conseguenze sul clima e sulle barriere coralline. Infine i prelievi di risorse ittiche per una popolazione in crescita sia nei numeri sia nelle esigenze alimentari, stanno mettendo a rischio per sovrasfruttamento l'80% delle riserve ittiche oceaniche in tutto il Pianeta. Questa situazione pone l'Umanità di fronte a un grave dilemma: o proseguire imperterriti nel consumo delle risorse e nella crescita demografica o imparare a vivere nei limiti di una sola Terra, l'unica che abbiamo.

Pubblichiamo questa testimonianza di un protagonista della politica e dell'ambientalismo veneziano, con cui non sempre siamo d'accordo ma di cui condividiamo pienamente l'accorata denuncia delle colpe dei singoli e delle istituzioni chiamati in causa

Lettera aperta

Nei prossimi giorni giungerà a sentenza a Roma un processo che dura da anni, che riguarda una storia importante che forse molti hanno dimenticato e di cui magari non importa quasi più niente a nessuno, ma che potrebbe pesare molto sulla mia vita così come, in verità, sta già accadendo da tempo. E’ un processo che, a latere, ma non tanto, dell’argomento scatenante, per le modalità in cui si è svolto, chiama in causa anche la natura stessa della rappresentanza democratica e la possibilità, attraverso atti istituzionali così come attraverso la libera stampa, di porre domande scomode, di cercare la verità anche su fatti scabrosi.

E’ una storia che ri-comincia alcuni anni fa, nel 2005, ma che rinvia a qualcosa che è accaduto in tempi più lontani, nel 1990 a Porto Marghera, e che oggi sta per giungere a un primo epilogo, dopo un lungo processo presso il tribunale di Roma, nel quale sono coinvolto come imputato. Rischio di essere condannato a pagare un milione di euro più le spese legali, somma che (perfino in dimensioni molto minori di queste) naturalmente non possiedo, con tutte le conseguenze del caso a mio carico. A scanso di equivoci, anticipo subito che lo scopo di questa mia nota è solo di far conoscere una storia che ha implicazioni pesanti di natura generale, non solo per me. Per quanto riguarda la mia vita, in ogni caso, cercherò di arrangiarmi. Qui vi chiedo soltanto, per favore, di leggere con un po’ di attenzione il racconto che segue.

Nel febbraio del 2005 a firma del giornalista Riccardo Bocca il settimanale “L’Espresso”, nel quadro di una più vasta inchiesta che si occupava tra l’altro delle piste seguite da Ilaria Alpi prima di essere assassinata insieme a Miran Hrovatin a Mogadiscio nel 1994, pubblicò un articolo su un traffico di rifiuti tossici e nocivi. In particolare si occupò del carico trasportato dalla motonave “Jolly Rosso” che nel 1989 il governo italiano aveva inviato a Beirut per recuperare circa 2 mila tonnellate di rifiuti tossici, contenute in circa 10 mila fusti, scaricate tempo prima da un’azienda lombarda (la Jelly Wax), secondo una prassi che aveva visto per anni molte aziende italiane smaltire, spesso con complicità mafiose e perfino di apparati dello Stato, rifiuti tossici in altri paesi, oppure affondandoli in mare (dopo averli a lungo smaltiti sul territorio nazionale in discariche abusive, avvelenando buona parte di certe regioni). Rientrata in Italia, la Jolly Rosso rimase dapprima all’ancora in rada e poi entrò nel porto di La Spezia in attesa che si decidesse come e dove smaltirne il carico tossico, cosa che infine fu stabilito dovesse avvenire in alcuni siti industriali, tra i quali Porto Marghera, precisamente nell’impianto SG31 della Monteco nell’area del petrolchimico.
E’ a questo punto che la storia di quei rifiuti diventa anche una nostra storia, e infine una storia mia.All’epoca ero consigliere di quartiere a Marghera e, insieme ai Verdi e agli ambientalisti della città, in diretto contatto con operai delle fabbriche chimiche, partecipai attivamente alla mobilitazione per conoscere l’esatta composizione di quei rifiuti. Dall’interno della fabbrica, infatti, ci avevano segnalato alcune inquietanti anomalie a proposito dei fusti trasferiti qui nell’aprile 1989 dalla “Jolly Rosso” che, tra l’altro, tendevano a gonfiarsi. Sempre da dentro la fabbrica ci venne detto che, nei rifiuti, sarebbe stato presente anche una certa quantità di URANIO. Malgrado le proteste - compresa una petizione all’Ulss veneziana (allora la n.36) sottoscritta da 50 operai del petrolchimico che denunciava “l’insostenibile situazione creatasi in seguito alle continue emissioni di fumi e per altre sostanze di origine ignota” - a partire dall’8 novembre i rifiuti tossici vennero bruciati nell’impianto SG31.

Di fronte alle proteste, il direttore del servizio di Igiene pubblica dell’Ulss 36 reagì contestando le valutazioni espresse dagli operai sottoscrittori della petizione e dagli ambientalisti e, anzi, presentò un esposto alla Procura di Venezia perché si sarebbe contribuito a “diffondere disinformazione per creare allarme tra la popolazione”. L’esposto fu archiviato.

Di questa storia si tornò a parlare, appunto, nel febbraio 2005 quando L’Espresso, ricordando quella vicenda, citò una relazione dell’Ulss 36 datata 28 febbraio 1990 nella quale, analizzando la condensa dei fumi usciti dal forno SG31 in due momenti diversi, 19 gennaio e il 7 febbraio 1990, si conferma la presenza di uranio. L’Espresso riportò anche il commento di Gianni Mattioli, allora docente all’Università di Roma, il quale, sottolineando come “le concentrazioni rilevate dall’Ulss 36 sono certamente preoccupanti e superano le percentuali allora fissate per legge”, anche considerando che i fumi del camino “prima di toccare terra subiscono una significativa diluizione”, sostenne che “nessuno può negare che sia stata smaltita una sostanza radioattiva. Anzi, è necessario aprire un’inchiesta per capire che tipo di uranio fosse, visto che l’Ulss non lo indica. Si trattava di combustibile esaurito di reattori? O di uranio impoverito? O, ancora, di combustibile nucleare?”

Nel febbraio 2005 ero Prosindaco della città (lo rimasi fino all’aprile di quell’anno) e consigliere regionale (lo sarei rimasto fino al 2010). In questa duplice veste chiesi a chi di dovere spiegazioni su tale vicenda, di cui come si è visto mi ero già occupato molti anni prima, alla luce degli elementi nuovi che L’Espresso aveva pubblicato. Presentai, dunque, un’interrogazione al presidente della giunta regionale del Veneto, nella quale, dopo aver sommariamente riassunto la vicenda, chiedevo alla giunta “se è a conoscenza dei fatti; qual è l’entità e la natura dell’inquinamento radioattivo, se intende rendere pubblico il referto dell’Ulss tenuto segreto per 15 anni”.

La pubblicazione dell’articolo e la mia interrogazione (oltre a una, analoga, presentata alla camera dei deputati dall’allora parlamentare Luana Zanella) provocarono l’immediata reazione dell’ex responsabile del servizio di igiene pubblica dell’Ulss, il dott. Corrado Clini, che nel frattempo, dall’inizio del 1990 si era trasferito a Roma al Ministero dell’Ambiente, del quale diventerà e resterà a lungo Direttore generale (e, di recente, com’è noto, anche ministro, fino all’aprile 2013). Clini contestò in toto, con dichiarazioni riprese dalla stampa e dagli altri media, la ricostruzione dell’Espresso e contro il settimanale e contro gli autori delle due interrogazioni in sede regionale e parlamentare, il sottoscritto e Luana Zanella, presentò querela in sede civile presso il tribunale di Roma.

Al dottor Clini, sia il sottoscritto sia Luana Zanella, risposero, con un comunicato ufficiale, che nelle interrogazioni in Regione e in Parlamento il suo nome veniva citato solo a proposito delle critiche che egli aveva rivolto, all’epoca dei fatti, agli ambientalisti e che nessuna insinuazione o affermazione esplicita era rivolta nei suoi confronti e ogni riferimento a fatti specifici era posto al condizionale, quando non supportato da precisi referti e che dunque il solo fine dei nostri atti istituzionali era la piena conoscenza di quanto avvenuto intorno alla vicenda Jolly Rosso, cosa in seguito ribadita in diverse occasioni.

Alla vigilia del processo, il parlamento tutelò, come da prassi, l’on. Zanella rifiutando l’autorizzazione a procedere in quanto l’atto istituzionale - l’interrogazione - è prerogativa inviolabile di deputati e senatori. Sulla stessa linea si mosse la giunta regionale di allora (2005 - 2010) presieduta da Giancarlo Galan, che incaricò il prof. Mario Bertolissi, docente di Diritto costituzionale all’Università di Padova, di stilare un ricorso per conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale la quale, dopo alcuni anni nel corso dei quali il processo rimase sospeso presso il Tribunale di Roma, stabilì che la Regione dovesse porre la questione all’apertura effettiva del processo.

Si giunse quindi, nel 2010, all’apertura del processo nel quale, come imputati, eravamo rimasti soltanto il sottoscritto e il giornalista Riccardo Bocca autore del servizio pubblicato dall’Espresso. Nel frattempo era mutata la giunta regionale, ora presieduta da Luca Zaia, e il sottoscritto, non più consigliere regionale, provvide a segnalare alla Regione la necessità di procedere secondo l’indicazione della Corte Costituzionale e secondo la stessa prassi seguita dalla Regione da sempre, volta a tutelare il diritto dei suo eletti a porre, attraverso interpellanze, interrogazioni e altri atti ispettivi, qualunque domanda si ritenga necessaria per conoscere una data situazione e un dato problema.

La Regione, tuttavia, non ha mai provveduto a sollevare il conflitto di attribuzione, non ha mai difeso, in questo processo, il diritto dei propri rappresentanti - che sono, nella regione, rappresentanti del popolo esattamente come i parlamentari lo sono a livello nazionale - a essere tutelati nelle proprie prerogative. Le quali non sono affatto dei privilegi ma rappresentano la garanzia che, in nome dei cittadini tutti, si possano porre anche le domande più scomode, anche nei confronti di chi è potente, persona o istituzione che sia.

La Regione, a differenza di come si è sempre comportata in passato, ha lasciato aprire il processo, lo la lasciato continuare e infine chiudere, senza muovere un dito. Creando, così, un precedente pericolosissimo sia sul piano istituzionale e formale sia su quello sostanziale. Se passa il principio che si può querelare un’interrogazione, un atto ispettivo (insieme alle dichiarazioni che lo illustrano), si crea un vulnus letale nella rappresentanza e nei suoi diritti e poteri. Ignoro il motivo di questa scelta: si può pensare a sciatteria oppure a precisa volontà politica di discriminare il sottoscritto o ad altri motivi ancora. L’effetto è che comunque viene minata la pienezza del mandato istituzionale e che uno strumento indispensabile per l’accertamento delle verità viene svuotato.

Non ho niente da dire sul dott. Corrado Clini. Egli - assistito dal grande studio legale che presta anche consulenza giuridica al ministero per l’Ambiente - esercita una possibilità che l’attuale normativa lascia a chiunque, specie se potente, scambi le critiche per reati e dunque voglia e possa tenerti per anni in un processo, costoso, lungo, scomodo, scoraggiante per chiunque non disponga di mezzi per sostenere questa pesante prova. E’ la legge che andrebbe cambiata, come da tempo sostengono in molti, dall’Associazione art. 21 a giornalisti e operatori dell’informazione ad associazioni e attivisti che si vedono opporre querele milionarie e processi insostenibili per modi e tempi. Ed è la Regione del Veneto a dover essere indicata come un ente che non rispetta sé stesso né i propri esponenti, che non ha avuto in questo caso la dignità di rivendicare il proprio ruolo non certo a difesa di un privilegio bensì a tutela del diritto di tutti i cittadini alla piena e inviolabile rappresentanza.

Ora, infine, sto aspettando la sentenza, che dovrebbe giungere a giorni, se non a ore. L’aspetto con un carico di vera angoscia determinato sia dal rischio concreto - pagare una cifra esorbitante, che non possiedo, e restare magari per altri anni inchiodato a un processo che anche in caso di assoluzione continuerebbe in Appello e in Cassazione, con altre spese e altre complicazioni, e con rischi immutati - sia dalla prospettiva di veder dissolversi, per l’ignavia o a causa della complicità attiva della Regione Veneto, forme consolidate di tutela per chi, per ruolo istituzionale (come i consiglieri o gli amministratori) o per attività professionale (come i giornalisti), ha il diritto e il dovere di porre anche le domande più scomode, di continuare a cercare la verità su vicende in cui siano in gioco l’interesse pubblico e il diritto a sapere di tutti i cittadini.

Venezia, giugno 2013

Uno stile di vita che dovrebbe essere più promosso, perché è estremamente salutare anche per il territorio e le economie locali. La Repubblica, 4 giugno 2013, postilla (f.b.)

«Dovremmo diventare tutti vegetariani? » si chiede l’editoriale di oggi su Jama, il Journal of the American Medical Association. Ad ascoltare la voce dei numeri, la risposta giusta sembrerebbe sì. Chi elimina completamente la carne dalla dieta si ammala di meno e vive di più, conferma lo studio su 70 mila persone pubblicato dalla rivista medica. E chi a frutta e verdura associa il pesce vede migliorare ulteriormente la propria salute. La dieta senza carne permette di schivare soprattutto le malattie cardiovascolari, ma anche il diabete e — novità mai emersa in studi precedenti — l’insufficienza renale.

Secondo il rapporto Eurispes di febbraio, il 4,9% degli italiani è vegetariano e l’1,1% vegano. Le due categorie sono cresciute del 2% rispetto a un anno fa. Le motivazioni per evitare la carne nel nostro Paese sono soprattutto ideologiche (sensibilità per la sofferenza degli animali). Ma sui benefici per la salute di questa scelta le prove si vanno accumulando di anno in anno. I vegetariani, spiega oggi Jama, hanno un rischio di ammalarsi e morire nel prossimo anno di vita ridotto del 12% rispetto a chi mangia carne. Scavando nella categoria, si osserva che la dieta di frutta, verdura e pesce dà la protezione massima: meno 19% del rischio. I vegani si piazzano al secondo posto con un meno 15%. Aggiungere uova e latte abbassa il rischio al 9%. E una dieta vegetariana non rigorosa, con un piatto di carne alla settimana, assottiglia il beneficio all’8%.
A godere di più per la dieta di frutta e verdura è il cuore. I dati sulla riduzione del cancro sono invece modesti. E l’allungamento della vita si fa sentire più sugli uomini che non sulle donne, già gratificate da una vita media più lunga. I ricercatori della Loma Linda University in California sono arrivati a questi risultati seguendo 73 mila volontari canadesi e statunitensi, che per sei anni hanno compilato dei questionari sulla loro alimentazione quotidiana. Tutti gli individui del campione appartengono alla confessione degli avventisti delsettimogiorno.Ingenereiricolpiti
cercatori preferiscono studiare coorti con un background socioculturale omogeneo perché ritengono che i comportamenti siano più simili e i risultati abbiano meno distorsioni.

Nel caso degli avventisti, i vegetariani tendono a essere più longevi dei mangiatori di carne. Hanno anche un livello di istruzione mediamente superiore e sono più attenti alla salute: non bevono, non fumano e praticano sport regolarmente. L’effetto positivo della dieta a base di frutta e verdura potrebbe confondersi fra gli altri comportamenti virtuosi della categoria. E i ricercatori guidati da MichaelOrlichsonoiprimiadammettere: «La dieta vegetariana è associata a una ridotta mortalità. Ma non è ben chiaro se la relazione sia di causa ed effetto». Che ridurre la carne, soprattutto quella rossa, faccia bene (specialmente al cuore) è comunque un’osservazione assodata da tempo. In Europa è in corso uno degli studi più vasti del mondo, che si chiama Epic e coinvolge 520 mila persone in dieci Paesi. L’ultimo risultato, pubblicato dall’università di Oxford, è che il rischio di essere da un infarto nel corso della vita si riduce di un terzo mangiando solo frutta e verdura. A settembre dell’anno scorso era stata la rivale Cambridge a pubblicare uno studio sul British Medical Journal.

Vi si calcolava che ogni 50 grammi in più al giorno di carne rossa o processata aumenta il rischio di ammalarsi di cuore del 42%, di diabete del 19% e di tumore all’intestino del 18%. Ma la carne non è l’unica fonte dei guai di salute, ricorda nell’editoriale di Jama Robert Baron, professore di medicina all’università della California di San Francisco e vegetariano della prima ora (cioè dagli anni 70). «Sulla quantità ideale di carne da includere nella dieta il dibattito è aperto. Ma nessuno dubita che vadano evitati bevande zuccherate, cereali non integrali, grassi saturi e transaturi».

Postilla
Come insegnano infiniti studi, locali e non, legati alla cosiddetta dieta delle cento miglia o del suo equivalente territoriale chilometro zero, c'è un rapporto concreto diretto fra organizzazione spaziale e ciò che finisce sulla nostra tavola, semplicemente mediato dalla nostra capacità o possibilità di investire tempo, denaro, risorse nella modifica di tale rapporto. Il risultato finale, oggi perverso, di questa relazione, è il fatto che una dieta a base di prodotti del ciclo alimentare industriale globalizzato (carni rosse, cibi lavorati, merendine ecc.) costa assai meno al portafoglio di quanto non accada per i prodotti, poniamo, dell'agricoltura periurbana locale, della trasformazione artigianale, di tutto quanto insomma risulta integrabile entro un equilibrio territoriale ragionevole. Ad esempio quello che si delinea quasi sempre nelle discussioni sul contenimento dell'urbanizzazione e del consumo di suolo. Di cui il ciclo dell'allevamento intensivo è uno dei principali nemici, e rammentiamo sempre che allontanare il problema (in Amazzonia o simili) finisce per aggravarlo, e le produzioni del ciclo di allevamenti locali sono ben lontane dal garantire il genere di consumi attuali. Forse dire che mangiare carne fa male al territorio più che guidare un Suv può risultare schematico, ma si avvicina molto alla verità (f.b.)

Anche oltre il problema sociale e morale evocato dalla scrittrice, un esempio di vero e proprio consumismo per decreto, frutto perverso della lobby alimentare. Corriere della Sera, 13 maggio 2013 (f.b.)

Ogni anno fino al 50% del cibo commestibile viene sprecato nelle case degli europei, nei supermercati, nei ristoranti e lungo la catena di approvvigionamento alimentare, mentre 79 milioni di cittadini dell'Unione Europea vivono al di sotto della soglia di povertà e 16 milioni di persone dipendono dagli aiuti alimentari.

Secondo una ricerca del Politecnico di Milano, in Italia sono 6 milioni di tonnellate, pari a un valore di 12,3 miliardi di euro, le eccedenze alimentari generate per oltre il 55% dalla filiera agroalimentare e per il restante nell'ambito del consumo domestico. Di questo, quasi il 50% è recuperabile per l'alimentazione umana con relativa facilità, indicando in circa 3,2 milioni di tonnellate annue quelle definite «ad alta e media fungibilità», ossia rapidamente e perfettamente recuperabili per il consumo umano. Ma solo il 6% delle eccedenze viene recuperato per essere donato e distribuito agli indigenti e quando il surplus ancora buono non viene recuperato diventa spreco. Le cifre più difficili da recuperare riguardano gli sprechi di piccole attività commerciali e alimentari, tipo bar e piccole tavole calde, che comunque si attestano su 100 kg di cibo annuali per ogni singola attività.

L'importanza di queste cifre è notevole, e dunque appare notevole la follia legislativa che impedisce a questo cibo di arrivare sulle tavole di chi ha bisogno. Basta guardare una qualsiasi strada di una città europea per rendersi conto che la moltiplicazione di questi 100 kg produce montagne di cibo vertiginose che finiscono tutte nell'ambiente sotto forma di spazzatura, trasformandosi in grande fonte d'inquinamento. Una volta, venivano contemplati i peccati che gridano vendetta al cielo. Ora, in tempi d'indifferenza consumistica, nessuno sembra più scandalizzarsi di questo scialo. Eppure, sono convinta che non ci sia nulla di così profondamente scandaloso quanto il cibo sprecato.

Tra le tante iniziative lodevoli — come ad esempio l'impegno del professor Andrea Segrè con il suo Last Minute Market e l'Emporio della Solidarietà delle Caritas — esiste anche un'associazione che dal 2007 cerca di ovviare a questo scandalo — perché di scandalo si tratta — con gesti concreti e logisticamente efficienti ma, per una perversione burocratica — che investe ogni ambito del nostro Paese, rendendo facile la vita ai disonesti e impossibile agli onesti — questo progetto non riesce a decollare.

Il progetto Pasto Buono — sostenuto da Qui Foundation (www.quigroup.it) e che conta già 120 mila esercizi di ristorazione in tutta Italia — ha appunto lo scopo di rendere usufruibile il cibo già preparato e rimasto invenduto, impedendogli di finire nella spazzatura.

Oltre alla burocrazia eccessiva, si sovrappongono delle clausole legate all'igiene che ne rendono quasi impossibile la realizzazione. I donatori virtuosi, infatti, — che esporrebbero nelle loro vetrine una vetrofania apposita per dimostrare la loro partecipazione — dovrebbe rifornirsi, oltre che di contenitori di alimenti a norma, di furgoni refrigerati per il trasporto del cibo e anche di un costoso «abbattitore di temperatura». La cosa paradossale è che tutti noi, come clienti della rosticceria possiamo comprare il cibo e portarcelo a casa, magari lasciandolo anche due ore in macchina, ma, per donarlo, è necessario abbattere la temperatura. Sarebbe dunque importante semplificare la legge, permettendo alle persone che hanno bisogno di poter mangiare questo cibo civilmente e non accalcandosi ai cassonetti nei quali viene gettato, cosa che accade attualmente.

È una questione di dignità del cibo e di dignità della persona, e dunque di tutta la società civile. Purtroppo sempre più spesso si vedono persone, soprattutto anziani, che frugano nella spazzatura alla ricerca di qualcosa da mangiare e, con questa terribile crisi che stiamo vivendo, il fenomeno si sta allargando anche alle famiglie monoreddito e di coloro che hanno perso il lavoro. Il cibo c'è, e anche in abbondanza, ma non lo si può mangiare perché non sono igieniche le condizioni di trasporto. Perché, mangiare dal cassonetto è forse igienico?

Chi ha provato a fare una qualsiasi cosa in questo Paese — non per interesse personale ma per il bene della collettività — sa che i bastoni tra le ruote sono infiniti perché, nel sadismo paralizzante della burocrazia, c'è sempre un desiderio di perseguitare chi agisce con onestà, correttezza e senza avere tornaconti personali. Il nostro è il Paese del cartelli del «severamente vietato». Mi sono sempre chiesta cosa voglia dire «severamente». O una cosa è vietata o non lo è.
Perché non sognare un cambiamento che ci faccia andare tutti verso la semplicità, la convivialità, la responsabilità condivisa da tutti? Nel caso del cibo sprecato, abbiamo un problema e abbiamo anche la soluzione, ma da questa soluzione nessuno ci guadagna niente, tranne la civiltà e l'umanità. Forse l'inciampo è proprio questo.

Se il problema risiede, come probabilmente sarà, in una legge della Comunità europea — questa Comunità che, a furia di proteggerci, ci farà tutti morire un giorno per un banale batterio — perché, per una volta, non fare una bella figura e lottare per il bene comune in sede di Parlamento europeo, cercando di modificare le clausole che permettono questo scandalo?

La cosiddetta modernizzazione delle campagne in una prospettiva solo tecnologica forse non coglie in pieno il portato storico dei tentativi precedenti. La Repubblica, 6 maggio 2013, postilla (f.b.)

Da sempre sostengo che la rigenerazione dell’agricoltura avverrà grazie al dialogo tra saperi tradizionali e scienza “ufficiale”, soprattutto attraverso un utilizzo pieno e convinto delle moderne tecnologie. Per un contadino essere in rete non significa soltanto trovare un canale in più per collocare i suoi prodotti, ma essere il motore di scambi di esperienze, l’occasione di una formazione continua, di creazione di comunità più o meno virtuali che possono mettere in circolo tecniche, idee e soluzioni in grado di rispondere a diverse esigenze. Sia le nuove frontiere della scienza sia i saperi tradizionali riescono così a diventare argomento di dialogo, di arricchimento.

Lo stereotipo del vecchio contadino isolato dal mondo e un po’ ignorante, incatenato al suo fondo e senza capacità di interagire con gli altri, se non con i propri vicini, non corrisponde più alla realtà. Oggi i vicini di fattoria possono essere in altri continenti e le loro attività intelligenti e riuscite possono essere facilmente emulate da tutti. Anche il patrimonio di conoscenze delle università, di chi fa ricerca o delle associazioni di categoria può essere condiviso in tempo reale, senza il bisogno di percorrere centinaia di chilometri. Molti giovani contadini lo stanno sperimentando con successo e dimostrano che il ritorno alla terra non è una questione di poesia. Lavorare la terra, trasformare in cibo ciò che produce, essere imprenditori della natura e alleati con la natura è molto più gratificante e interessante che non perdersi in sfruttamenti da precariato perenne, magari proprio inseguendo
le nuove tecnologie.

Queste per i contadini “digitali” sono un mezzo e non un fine. Alcuni mesi fa fui coinvolto in una visita a un’oasi nel deserto in Marocco, dove una comunità di giovani produce marmellate di datteri. In un’oasi che sbocchi potevano avere? Grazie ai social network interagivano con le comunità marocchine a Düsseldorf e a Parigi e così riuscivano a piazzare tutti i loro vasetti. Senza questi strumenti ben difficilmente avrebbero potuto realizzare l’impresa, ma senza un’agricoltura antica, attenta a governare le acque nell’oasi, senza il sapere tradizionale di trasformare i datteri e le antiche varietà preservate avrebbero avuto ben poco da vendere. Non gli sarebbe bastata la Rete.

Postilla

Probabilmente Carlo Petrini, con la sua nota cultura contadina, non coglie il filo diretto che lega questa inedita versione della modernizzazione rurale ad altre precedenti. A chi si occupa di urbanistica non può sfuggire la perfetta analogia del ragionamento sul web del terzo millennio ad esempio con l'impianto concettuale delle Tre Calamite di Ebenezer Howard. Ecco, ciò premesso, nel millennio dell'urbanizzazione planetaria questo tipo di “urbanizzazione virtuale” delle campagne attraverso la rete e la sua diffusione dei saperi andrebbe letto nelle medesima prospettiva. Quanto c'è di socialmente progressista, quanto di ambientalmente impattante, che rapporti città/campagna si vengono a delineare, e via dicendo? Ovviamente non sono questioni da poco, ma vanno poste (f.b.)

Un articolo di apparente tema naturalistico, nel quale basta però semplicemente sostituire la parola “orso” con la parola “uomo”, e capire un sacco di cose sul nostro mondo a misura di ingegnere trasportista. Corriere della Sera, 27 aprile 2013, postilla (f.b.)

Sull'autostrada Roma-L'Aquila è morto, investito da un auto, un orso maschio di 3 anni di una sottospecie (Ursus arctos marsicanus) di cui esistono meno di 50 esemplari, presenti solo nel Parco nazionale d'Abruzzo e in aree contigue. Pochi giorni fa è apparso sul web un articolo sulla biodiversità in cui il presidente di Federparchi asseriva correttamente che anche un solo individuo è prezioso per la sopravvivenza di questa sottospecie.

Non doveva essere lì quell'orso. Questo hanno detto gli uomini della Forestale e del Parco, che da alcuni anni hanno istituito un Piano tutela orso bruno marsicano (Ptobm). E invece quell'orso ha superato le recinzioni e ha continuato il suo cammino sulla carreggiata autostradale. Forse era alla ricerca di una femmina di cui aveva percepito la presenza, o si trattava di un giovane in fase di dispersione. Mamma orsa infatti tiene con sé la prole anche fino ai tre anni. A quell'età i figli si disperdono per definire un areale nel quale vivere garantendosi le risorse necessarie per nutrirsi e riprodursi. In questa fase frequentano le radure di fondo valle e coprono grandi distanze. Fatalmente l'autostrada può essere parte del loro percorso. Questo ci fa percepire come a un animale selvaggio non siano più sufficienti le istruzioni innate per sopravvivere.

L'ambiente infatti è stato profondamente modificato e si potrebbe dire che la nostra evoluzione culturale, con il suo sviluppo rapidissimo, ha reso inadeguate le risposte adattative della biologia. Dovremmo dunque essere noi, specie così abile nel produrre soluzioni innovative, a pensare anche alle altre specie. In realtà per l'orso marsicano lo sta facendo il gruppo «Salviamo l'orso» sollecitando misure come il mantenere sgombre da vegetazione le banchine stradali, controllare le possibilità di accesso e abbassare ulteriormente i limiti di velocità. In queste ore anche l'assessorato abruzzese all'Agricoltura sta adottando misure per attribuire responsabilità e funzioni in materia di prevenzione di incidenti di questo tipo, che dovrebbero essere rarissimi in una nazione che ha cura della propria fauna. Accade troppo spesso di sentire alla radio avvisi sulla presenza di animali sulle carreggiate. Sarebbe bello un giorno apprendere di automobilisti fermi in colonna ad assistere, silenziosi e ammirati, al lento passaggio di un orso. Un bel risultato per lui e per noi.

Postilla

C'è un classico cartone animato con l'orso che va in letargo, e quando si sveglia scopre che la sua caverna è stata circondata dalle corsie di una superstrada, di qui e di là fabbriche e centri commerciali ecc. ecc. Un cartone tradizionalmente “antropomorfo”, come la lettura che suggerisce questo articolo di Danilo Mainardi: anche sulla dimensione territoriale vasta esiste una questione che potremmo definire, col temine coniato da Hans Monderman, dello spazio condiviso: non corsie riservate e segregate per questo e quello, ma una regolata e civile convivenza, dove l'uno concede qualcosa all'altro guadagnandoci nello scambio. Ovvero superare l'idea meccanica della città globale, costruita ciecamente da ingegneri secondo il modello stigmatizzato già de Fritz Lang negli anni '20 del secolo scorso, coi loro Tav che non vanno da nessuna parte, e compagnia bella. Un'ottima metafora dello slogan Occupy: perché decide sempre quell'1%? (f.b.)

Il vero errore dei percorsi verso la sostenibilità ambientale è sempre quello mediatico-pedagogico: presentarla chissà perché come positivamente regressiva. Corriere della Sera, 22 aprile 2013, postilla (f.b.)

Si celebra oggi in tutto il mondo la quarantatreesima Giornata della Terra dell'Onu. La popolazione aumenta ed è proprio sull'alimentazione che il Wwf punta il dito. Anche una minima inversione di tendenza nei consumi e negli sprechi, se ripetuta per miliardi di persone, può rappresentare un primo passo verso un futuro più sostenibile. La 43ª Giornata della Terra dell'Onu, celebrata oggi in tutto il mondo, rappresenta un'occasione importante per rendersi conto dello stato di salute del Pianeta, l'unico che abbiamo.

La situazione, nonostante gli impegni, spesso solo cartacei, delle nazioni e delle organizzazioni internazionali, non appare confortante. La popolazione umana continua ad aumentare (si prevedono 9,3 miliardi per il 2050) e la concentrazione di CO2 nell'atmosfera a gennaio ha raggiunto un record di 395 parti per milione, avviando la temperatura globale (il 2012 è stato il nono anno più caldo dal 1880) verso un aumento di più di 2 gradi di media, con gravi danni, soprattutto per l'agricoltura e l'alimentazione. L'Italia, nel suo piccolo, negli ultimi venti anni ha perso il 15% della terra coltivata.
Ed è proprio sull'alimentazione di una umanità in crescita in numeri ed esigenze, che il Wwf punta il dito nell'Earth Day odierno.

La produzione alimentare costituisce infatti una delle maggiori cause del consumo delle terre emerse non coperte dai ghiacci e della perdita della loro biodiversità. L'agricoltura ha già distrutto o trasformato radicalmente il 70% dei pascoli, il 50% delle savane, il 45% delle foreste decidue temperate e delle selve tropicali; l'acqua usata per l'irrigazione assorbe il 70% di quella disponibile sul Pianeta; la sovrappesca sta portando all'estinzione numerose specie ittiche.
Se si esclude l'ultima glaciazione, terminata circa 10 mila anni fa, nessun altro fattore ha avuto un impatto tanto distruttivo sugli ecosistemi.

Ma se può risultare illusorio affidarsi solo alla responsabilità dei governi — i quali più che alle generazioni future puntano alle prossime scadenze elettorali — molto si potrebbe ottenere, in questo specifico settore, dall'impegno di tutti noi. Anche una minima inversione di tendenza nei consumi e negli sprechi, se ripetuta per miliardi di persone, può rappresentare un primo passo verso un futuro più sostenibile. Innanzitutto limitare il consumo di carni. L'allevamento del bestiame, sopratutto bovino, richiede ampi spazi per il pascolo ma ancor più per la produzione di mangimi, entrambi ottenuti con la distruzione di immense superfici di foreste tropicali: la stessa quantità di terreno e di acqua occorrenti per produrre un chilogrammo di proteine della carne, può consentire una produzione di proteine dalla soia otto volte superiore.

Per quanto riguarda i cibi di origine vegetale, un comportamento più virtuoso deve far preferire prodotti di stagione e di origine locale, meglio se coltivati con sistemi biologici e da orti domestici, evitando anche l'acquisto di derrate provenienti con gran consumo d'energia da luoghi lontanissimi e ottenuti spesso da colture distruttive nei confronti degli ecosistemi naturali. Inoltre, scegliendo specie ittiche non prelevate da stock troppo sfruttati — come quelli del tonno rosso mediterraneo, del pesce spada e altri — e scegliendo specie più comuni come lo sgombro, le alici, le sarde, i cefali, eccetera — si può contribuire a rendere i nostri consumi in fatto di pesce meno impattanti sull'ambiente marino. Il quale oggi è in grave sofferenza per un prelievo delle sue risorse raddoppiato negli ultimi 30 anni grazie a metodi di pesca tecnicizzati e distruttivi nei confronti della biodiversità oceanica.

Non va infine trascurato il problema degli sprechi alimentari. Secondo la Fao, un terzo della produzione totale di cibo destinato al consumo umano a livello globale finisce in discarica. In Italia, ben 108 chili di cibo commestibile sono sprecati ogni anno, contro i 99 della Francia, gli 82 della Germania e i 72 della Svezia. Anche in questo campo un comportamento più virtuoso e responsabile di ognuno di noi sarebbe molto necessario.

Postilla
Chi ha letto il breve resoconto di Pratesi ha verificato la sintesi dei problemi: un modello di sviluppo basato su sprechi e marginalizzazione degli effetti ambientali, tutto concentrato sull'approccio riduttivamente economicista che ben conosciamo quando si tratta vuoi di infrastrutture (utili per i meccanismi che innescano più che in sé e per sé), vuoi di erogazione dei servizi ecc. Per correggere le distorsioni del modello bisogna esplorare percorsi diversi, e sicuramente la riflessione storica su quanto già praticato in passato dalle società umane aiuta a capire le opportunità. Ma un conto è una consapevole riflessione storica, altro conto è continuare (come in pratica stanno facendo in tanti, in troppi, da troppo tempo) a riproporre modelli sociali del passato come se fossero la panacea ai guai del presente. Non si tratta di guardare indietro, e non è possibile guardare indietro: qualunque prospettiva del genere sarebbe respinta senza pensarci un istante dalla stragrande maggioranza dell'umanità per cui il passato, a volte anche il presente, non è certo un mito della nonnina felice, come purtroppo pensa certa borghesia d'élite (f.b.)

Una breve interessante riflessione sui famosi limiti dello sviluppo o sostenibilità che dir si voglia, ma che coinvolge virtuosamente anche i nostri stili di vita. L'Unità, 12 aprile 2013 (f.b.)

Vivere a spreco zero: un auspicio semplice, un verbo a due parole messe in fila per enunciare una piccola rivoluzione, non solo grammaticale. Una visione che si è già tradotta in azione, il presente che vive e vede il futuro. La via d’uscita da una crisi economica, ecologica, etica, estetica – tante «e» – che non solo sembra senza fine ma è anche estrema – un’altra e – nelle sue profonde e crescenti disuguaglianze. Senza fine perché è in crisi ciò che sta a monte dell’economia e delle altre «e»richiamate: la politica. Che non riesce più a proporre nulla di nuovo, una visione lungimirante, che preveda – nel senso letterale del verbo – un investimento sul futuro, prestando attenzione prima di tutto ai giovani, alla loro formazione e al loro lavoro.

La nostra, quella italiana in particolare, è una politica poco sostenibile. Ma non nel senso dei sui costi, anche quello certamente. Una politica che non vede la sostenibilità - per definizione la durata nel tempo - come orizzonte. L’epoca che stiamo vivendo non ha pari nella storia dell’umanità per il livello di conoscenza e il progresso raggiunti. Ma è altrettanto impari nella distribuzione delle risorse, delle ricchezze, delle tecnologie. Ricchezza e povertà, fame e sazietà, sviluppo e sotto- sviluppo: tutto si oppone.

E la forbice fra chi ha e chi non ha si allarga sempre di più. Nella crisi, e tutti i dati disponibili lo confermano, i poveri aumentano e stanno sempre peggio, mentre i ricchi diminuiscono ma stanno sempre meglio. In Italia come altrove nel mon- do. È falso, come dice Zygmut Bauman, che la ricchezza di pochi è la via maestra per il benessere di tutti. Le disuguaglianze crescono sempre più velocemente, come se il tempo scorresse in un’altra dimensione che non si misura più nella «lunga durata», quella di Ferdinand Braudel per intenderci, ma nel fast and low, veloce e minimo, scarso, basso.

EGUALI E DISEGUALI

Tuttavia, se è vero che «tutti gli esseri umani nascono uguali», questa retorica ci suggerisce che in realtà non lo siamo, almeno nell'accesso alle risorse e alle opportunità, punto di partenza molto spesso della discriminazione sociale. Anche solo considerando il punto di vista economico, i dati della Banca d'Italia pubblicati alla fine del 2012 fanno ben comprendere il nostro squilibrio: il 10% delle famiglie italiane ha in mano il 45,9% della (cosiddetta) «ricchezza complessiva del Paese». In altre parole, a proposito di parole (molto) usate negli ultimi tempi, nel nostro Paese cresce lo spread fra ricchi, sempre di meno ma più ricchi, e poveri, sempre di più e più poveri. Del resto, già don Lorenzo Milani nella sua Lettera a una professoressa diceva: «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra diseguali».

Ma accanto alla disuguaglianza sociale, creata dai sistemi economici e politici, vi è anche quella naturale. Che di per sé non è affatto catastrofica. Il sociologo tedesco Ulrich Beck spiega questa «naturalizzazione» dei rapporti sociali di disuguaglianza e di dominio: «Mentre la disuguaglianza delle opportunità di vita dovuta al reddito, al titolo di studio, al passaporto (…) reca per così dire scritto sulla fronte il suo carattere sociale, la disuguaglianza radicale delle conseguenze climatiche si materializza nel moltiplicarsi o nell’intensificarsi di eventi naturali di per sé “familiari” (inondazioni, uragani), a cui non sta scritto sulla fronte che sono il prodotto delle decisioni sociali».

Ma quanto tempo potranno durare queste tanto crescenti quanto insopportabili disuguaglianze? Che mondo è questo? Un mondo che deve durare nel tempo, che deve mantenere la sua musica, che è la vita, allungando le note e la loro risonanza come si fa con il pedale del pianoforte, sustain in inglese. La sostenibilità dunque, meglio ancora durabilité in francese: durare, mantenersi nel tempo, di generazione in generazione, essere capaci di adottare una visione-azione di lungo periodo, sia in campo economico sia ecologico, per tenere conto dei diritti di chi verrà dopo di noi e delle conseguenze future delle nostre azioni dell'oggi. Le risorse naturali alla base dei nostri bisogni fondamentali – il suolo, l'acqua, l'energia – non sono infinite e neppure scarse come sostiene qualcuno. Se le dobbiamo consumare – ci servono per vivere – dobbiamo anche consentire la loro rigenerazione nel tempo, che poi è il compimento della sostenibilità. La società sostenibile deve dunque rinnovarsi continuamente. Del resto, rinnovare contiene anche il verbo innovare che significa ricercare e sperimentare, nuovi prodotti, processi, tecnologie. Paradossalmente, l’ideale è proprio partire da un fenomeno assai negativo nella percezione comune: lo spreco. Di cibo, di acqua, di tempo, di vite, di risorse...c’è sempre qualcosa o qualcuno che si spreca. Eppure la stessa parola fornisce la strada, la formula. Basta dividerla in due e aggiungerci un meno e un più: lo «spr» è la parte negativa, l’«eco» quella positiva. Dobbiamo ridurre l’eccesso, il surplus, il troppo e far crescere l’eco, la casa grande (Natura) e piccola (Uomo). Lo «zero» numera, al minimo, l’obiettivo. Che in questo modo diventa il più alto, pur essendo il più basso in assoluto.

Vivere a spreco zero si gioca dunque fra due sostantivi che sono la base dello stare al mondo: sostenibilità e rinnovabilità, ovvero durare e rigenerare. Una società fatta di donne e uomini che, nella riduzione al minimo assoluto dello spreco, dell’eccesso, dello sperpero, del surplus, dell’eccedenza, dell’inutile, del di più, vive (sta al mondo appunto) per durare nel tempo rinnovandosi continuamente. Un’utopia? No, se l’utopia la consideriamo come un orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: «serve per continuare a camminare»(Eduardo Galeano).

Le soluzioni individuali o limitate forse non cambiano il paradigma dello sviluppo, ma di sicuro indicano una prospettiva e una pratica da seguire. Una recensione e alcune riflessioni da Grist, 30 marzo 2013 (f.b.)

Titolo originale: Local schmocal: Why small-scale solutions won’t save the world – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Devo confessare una cosa: sono piuttosto scettica sull'efficacia degli stili di vita sostenibili. Certo mi piace tenere l'orto, andare in bicicletta, se posso compro prodotti locali. Ma non credo che queste mie scelte personali possano salvare il mondo: e neanche le vostre se è per questo. Non sono la sola. Provate ad esempio a chiedere a Greg Sharzer, frustrato militante marxista e ricercatore di scienze politiche alla York University, che pure va in bicicletta e compra caffè equo-solidale. Il suo libro No Local: Why Small-Scale Alternatives Won’t Change the World, è una doccia gelida sul genere di progressismo localista, una sfida in generale al concetto stesso di micro-soluzione. Localismo è strategia di sopravvivenza, scrive Sharzer, non movimento, e neppure soluzione:

Secondo i localisti si possono cambiare i rapporti col capitalismo. Se i consumatori non apprezzano un prodotto possono dimostrare di orientarsi verso un altro. Basta scegliere il sostegno a piccoli esercizi dalle pratiche eque, e pian piano scompariranno tutti i guai della crescita. Orti di quartiere, mercati contadini, biocarburanti prodotti in cooperativa, ad esempio, possono radicalmente cambiare le posizioni di potere dell'agricoltura industrializzata”.

E invece a parere di Sharzer ogni forma di progressismo localista fatto di piccoli gesti deriva solo da un “profondo pessimismo”, dalla sensazione che i problemi siano di proporzioni troppo gigantesche per essere risolti. Critica il modello delle scelte di stili di vita locali come modello per altri, che poi non si confrontano coi poteri in grado di renderci tutti dipendenti dal petrolio. Non è tanto che queste micro-soluzioni siano sbagliate in quanto tali: il fatto è che non si tratta di soluzioni. Comprare verdure biologiche prodotte localmente – magari addirittura coltivarle da sé – va benissimo, ma non sostituisce certo la lotta per i diritti di chi raccoglie insalata nei campi a pochi centesimi al cespo.

La base delle riflessioni di Sharzer è l'analisi marxista di classe, secondo la quale il localismo non riesce a cambiare il sistema. Vi risparmio qui la parte strettamente marxista (accomodatevi pure da soli) ma non quella sulla lotta di classe. Essenzialmente sostiene che se queste culture localiste “comprendessero” (virgolette indispensabili) il capitalismo, sarebbero già in piazza armate di forconi, invece che nei campi a frugare per raccattare un po' di carburante vegetale per le loro utilitarie. Insomma ci vuol spingere a pensare e agire globalmente, collettivamente, invece di pensare solo individualmente.

Certo non tutti interpretano il suo libro come ho fatto io. Cito qui una recensione comparsa su Post Carbon Living:

“[Sharzer] non coglie il punto. [il localismo] funziona proprio perché non sfida il capitale. Non è quello il suo scopo. Non ha questa ideologia. Non nasce da alcun dogma, si tratta di una soluzione pratica a problemi concreti, problemi che esistono sin dagli albori dell'industrializzazione. Problemi vecchi quanto la teoria marxista: ma là dove Marx offriva solo teoria, il localismo offre prassi”.

Sostituirei questa “prassi”, con “qualcosa di praticabile”. Non è che il localismo sia una soluzione pratica alla crisi: è meglio di niente. Ma anche se in fondo posso capire questa posizione, mi pare davvero assurdo rispondere al cambiamento climatico andando in bicicletta, e non chiedendo grandi cambiamenti economici e politici. Il che ci porta alla questione: se alla base di queste soluzioni fatte in casa esiste un profondo pessimismo, dove sta l'ottimismo?

Va sottolineato che il libro di Sharzer è uscito la scorsa primavera, un po' prima che fossero arrestate quelle mille persone che davanti alla Casa Bianca protestavano contro l'oleodotto Keystone XL. Un progetto che ha contribuito a catalizzare un movimento organizzato contro il cambiamento climatico, dove si intrecciano punti di vista sia micro che macro, in una prospettiva che va ben oltre lo specifico di. Il libro di Sharzer è anche uscito sei giorni prima che si prendesse possesso di un terreno a Albany, California, insediando una fattoria là dove invece si voleva costruire. Anche se questi contadini in stile Occupy sono stati poi sgombrati, e il terreno recintato, le trasformazioni in progetto hanno comunque subito un rallentamento, e alcuni dei proponenti si sono ritirati. Una piccola battaglia per un piccolo fazzoletto di terra, una risposta locale a un problema globale, ma quei contadini cercavano anche di costruire soluzioni che andassero oltre la dimensione micro, e la loro lotta ha avuto anche risultati più duraturi.

Quello che vediamo sia nelle proteste per il progetto Keystone che nel movimento Occupy non è certo la rivoluzione marxista (non credo ne vedremo mai una, caro Sharzer, ma se ne cogli qualche segnale fammelo sapere). Si tratta ad ogni modo di un'espressione di energia radicale, di energia ottimista. Anche Sharzer riconosce le possibilità delle piccole azioni quando si tratta di stimolarne di maggiori. “Nel quadro della lotta per il potere, i militanti costruiscono delle contro-istituzioni che affrontano direttamente i problemi comuni” scrive. “Si tratta del primo, solo del primo, passo sulla via del contropotere”.

Parecchie azioni locali sono davvero valide. E perbacco quanto sono buone le verdure locali. Ma non facciamoci troppe illusioni sulla vera efficacia delle nostre scelte di dieta: se carichiamo troppo di aspettative politiche quel che abbiamo nel piatto, finiremo per scordarci tutti i guai di scala superiore. Certamente le micro-soluzioni non sono prive di senso, da cosa nasce cosa. Ma serviranno a obiettivi più generali solo se non li perdiamo di vista. Condivido tutta la delusione di Greg Sharzer, ma non perdo la speranza. Magari questi micro-gesti non bastano, ma fungono da punto di partenza per una analisi più approfondita, per un maggiore impegno – se diventano movimento – che potrebbe crescere a dimensioni dannatamente macro.

Sebbene "sostenibilità" sia un termine ambiguo, le precisazioni del suo senso rendono quasi pienamente condivisibile l'analisi e le conclusioni di questo intervento.Come al solito. Il manifesto, 27 marzo 2013. Con postilla

L'esito delle elezioni ha creato una irreversibile instabilità del sistema politico italiano, ma sta anche facendo prendere coscienza a molti che siamo ormai alla vigilia di un "cambio di paradigma". Il sistema politico che ha retto le sorti del Paese negli ultimi vent'anni, ma soprattutto l'assetto economico che lo ha forgiato e foraggiato, non reggono più. Il successo di Grillo non ne è che un segnale. Questo assetto, espressione e referente del cosiddetto "pensiero unico", è il combinato disposto di vari fattori.

Globalizzazione, delocalizzazione delle produzioni, precarizzazione del lavoro, diseguaglianze crescenti, finanziarizzazione del comando capitalistico, debito pubblico e privato come strumento di imbrigliamento della società, della politica e del lavoro, guerre, crisi e insicurezza come condizione umana permanente. È il paradigma che si è andato affermando nell'ultimo quarto del secolo scorso a spese di quello che era stato in vigore prima, nei cosiddetti "trent'anni gloriosi" (1945-75) senza che per molto tempo quel passaggio venisse avvertito in tutta la sua portata. Perché fino a quarant'anni fa i meccanismi portanti dell'accumulazione del capitale erano stati il mito dello sviluppo economico (sia nei paesi già "sviluppati" che in quelli "in via di sviluppo") e la crescita di salari, consumi e welfare: una sintesi di fordismo e politiche keynesiane governata con la continua espansione della spesa pubblica e l'intervento dello Stato nell'economia. Anche quel paradigma aveva comunque concluso il suo corso perché non reggeva più: a metterlo alle strette erano state le aspettative di uguaglianza, di autonomia, di democrazia, di libertà delle nuove generazioni (non a caso si era parlato allora addirittura dei "giovani come classe"): i movimenti studenteschi del '68, la rivolta antimilitarista contro la guerra in Vietnam, la discesa in campo, in molti paesi, di una classe operaia giovane, spesso immigrata, ancora in gran parte concentrata in grandi stabilimenti industriali; e poi, al loro seguito, una pletora di "categorie" sociali - dai ricercatori ai giornalisti e agli insegnanti, dai poliziotti ai magistrati, dai disoccupati "organizzati" ai baraccati - che aveva messo in moto, senza portarla a termine, quella «lunga marcia attraverso le istituzioni» preconizzata da Rudi Dutschke.

Adesso un nuovo cambio di paradigma, e ben più radicale e traumatico, è di nuovo all'ordine del giorno; non è ancora il contenuto esplicito di un conflitto aperto, ma cova sotto traccia da parecchi anni. C'è chi sostiene che la soluzione alla crisi in corso sia il ritorno al paradigma di un tempo: più Stato e meno mercato, più spesa pubblica per rilanciare redditi e consumi, più Grandi Opere e incentivi alle imprese per creare occupazione. Ma bastano ricette del genere per far fronte alla crisi?

No. Le condizioni che presiedevano al modello dei "trenta gloriosi" non ci sono più. Il mondo si è "globalizzato": lo hanno reso tale non solo la "libera circolazione" dei capitali (che certamente va bloccata) e l'enorme viavai di merci generato da una divisione del lavoro estesa su scala planetaria (che va drasticamente ridotto). Ma anche internet - una grande risorsa per tutti - la diffusione dell'istruzione, e l'accesso all'informazione, in tutti i paesi e i giganteschi flussi migratori che attraversano il mondo intero, che sono invece fenomeni irreversibili. Tuttavia l'orizzonte esistenziale della nostra epoca è ormai occupato - la si voglia vedere o no - dalla crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione. Crescita e sviluppo - pur con tutte le qualificazioni del caso - sono ormai ritornelli ricorrenti ma privi di senso perché la crisi ambientale sbarra la strada a ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto devastazione.

Bisogna allora rivedere alle radici gli assetti che ci hanno portato sull'orlo della catastrofe. La finanziarizzazione, da tutti individuata come causa principale della crisi (anche se i più affidano ad essa anche la ricerca delle soluzioni per uscirne) non è che il compimento parossistico di un processo iniziato oltre due secoli fa con quella che Karl Polanyi aveva chiamato «la grande trasformazione»: la riduzione a merci di tre cose che merci non possono essere, pena la distruzione della vita associata (e, oggi possiamo dirlo, anche del nostro rapporto con Madre Terra). Quelle tre "cose" che continuano a rivoltarsi contro la loro riduzione a merci (Polanyi le chiamava «merci fittizie») sono il lavoro, la terra e il denaro. La lotta dei lavoratori contro la propria mercificazione non ha bisogno di illustrazioni, perché è la storia stessa del movimento operaio nelle sue più diverse espressioni. L'appropriazione delle terre (enclosure, ai tempi di Elisabetta I e landgrabbing oggi) è stata ed è la base di quell'«accumulazione primitiva» che per il capitale non è un processo iniziale, ma permanente. Però oggi è tutta la Terra, intesa come ambiente (aria, acqua, suolo ed energia), a essere oggetto di compravendita sotto forma di green-economy: un valido motivo per contrastarla nei suoi presupposti, perché è l'esatto opposto di una vera conversione ecologica. Quanto al denaro, delle sue tre funzioni fondamentali - misura del valore, mezzo di scambio e oggetto di accumulazione - la finanziarizzazione non è che il definitivo sopravvento della terza funzione sulle altre due: il prezzo delle merci è ormai determinato dalle speculazioni su di esse più che dal valore o dal contributo degli input produttivi e gli scambi - il nostro accesso ai beni e ai servizi in commercio - sono sempre più mediati da qualche forma di debito, che è lo strumento fondamentale della finanziarizzazione. La crisi in corso non è altro che questo. Perciò, anche se non abbiamo un modello preciso a cui ispirarci, sappiamo che l'uscita dalla crisi dovrà necessariamente incorporare forme nuove di controllo sociale sul lavoro, sui beni comuni e sul credito (l'attività delle banche; perché denaro e credito sono in gran parte la stessa cosa). Non sarà una passeggiata, ma un conflitto lungo e aspro, che solo una profonda consapevolezza che «ritirarsi è peggio» potrà alimentare. Sapendo però che il nuovo paradigma dovrà convivere ancora a lungo con forme, ancorché depotenziate, di economia del debito; così come la democrazia partecipativa non potrà - né dovrà - fare a meno di quella rappresentativa, e di quel sistema politico degradato che la sorregge ormai in tutto il mondo.

Il nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi approcci) è l'unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici e recupero del know-how, del patrimonio impiantistico e dell'occupazione che il sistema economico attuale sta mandando in malora: una fabbrica dopo l'altra, un paese dopo l'altro.

La transizione a questo nuovo paradigma non può essere governata dall'alto o da un "centro" - come è il caso, invece, nella maggior parte delle politiche neokeynesiane - perché si fonda su diffusione, ridimensionamento, differenziazione e interconnessione orizzontale sia degli impianti produttivi che degli interventi: si pensi alla vera vocazione delle fonti rinnovabili (per essere efficienti devono essere piccole, differenziate e distribuite e non concentrate come si fa ancora troppo spesso), all'efficienza energetica, all'agricoltura multifunzionale e a km0, alla gestione dei rifiuti, alla mobilità flessibile, alla salvaguardia degli assetti idrogeologici, ecc. Quel nuovo paradigma è intrinsecamente democratico e indissolubilmente legato a uno sviluppo della partecipazione, perché non può affermarsi senza il concorso dei saperi diffusi presenti sul territorio e l'iniziativa dei lavoratori e delle comunità interessate; il che impone agli asset sottoposti alla transizione il connotato di "beni comuni" .

L'altro requisito irrinunciabile del nuovo paradigma è la ri-territorializzazione (o ri-localizzazione) di molte attività produttive. Gli effetti nefasti della globalizzazione non si combattono con il protezionismo (fermare le merci ai confini preclude la possibilità di esportarne altre: quelle necessarie a pagare ciò che un singolo Paese o anche un singolo continente non potrà mai produrre); e meno che mai con il ritorno alle valute nazionali. Non è l'euro - che è "solo" una moneta - la causa degli squilibri crescenti che investono l'Europa; bensì il modo in cui l'euro è governato: cioè i limiti, che le altre valute mondiali non conoscono, imposti alla sua gestione per trasferire meglio all'alta finanza il comando sulle politiche economiche nazionali e per portare avanti l'attacco a occupazione, salari e welfare. La ri-territorializzazione si realizza invece promuovendo controllo sociale sui processi produttivi; e innanzitutto sui servizi pubblici locali (energia, ristorazione pubblica, gestione dei rifiuti, mobilità, servizi idrici, ecc.) e combattendone la privatizzazione. Convertiti in "beni comuni" gestiti in forma partecipata, i servizi pubblici locali possono diventare il punto di raccordo tra la promozione di una domanda finale ecologicamente sostenibile e l'offerta di impianti, materiali, attrezzature e know-how necessari per soddisfarla. Per esempio, raccordo tra diffusione delle fonti rinnovabili e dell'efficienza energetica e imprese riconvertite alla produzione degli impianti e dei materiali corrispondenti. O tra approvvigionamento di cibi sani e a km0 per le mense pubbliche e per tutti coloro che lo desiderino e un'agricoltura ecologica di prossimità; e così per la mobilità, l'edilizia, la gestione dei rifiuti, ecc. Certo garantire l'incontro tra domanda e offerta richiede accordi di programma di cui possono farsi carico solo i governi locali che assumono su di sé la responsabilità della transizione. Accordi che certo limitano la concorrenza - ma non il funzionamento dei mercati - nelle forme propugnate dal pensiero unico e dall'establishment. Ma sono accordi fattibili, persino compatibili, in nome della salvaguardia dell'ambiente, con la normativa dell'Ue; e che in alcuni casi vengono già praticati. E' la strada che occorre percorrere.

Postilla
Diremmo che «la transizione a questo nuovo paradigma non può essere governata solo dall'alto o da un "centro"». Rinviamo in proposito a quanto sostiene David Harvey a proposito della necessità di intecciare la dimensione "verticale" e quella "orizzontale" della democrazia in Rebel cities (London-New York, 2012), malauguratamente non ancora tradotto in italiano. Per il carattere ambiguo del termine "sostenibilità" rinviamo a testo di Ilaria Boniburini. "L'ideologia della crescita, l'inganno dello sviluppo", in La città non è solo un affare, a cura di M. Baioni, I. Boniburini, E Salzano, Reggio Emilia 2012.

Tocca ai paesi cosiddetti civili comportarsi come tali per arginare il potere extraterritoriale delle multinazionali che saccheggiano il pianeta, è anche nel nostro interesse diretto. L'Unità, 24 marzo 2013 (f.b.)

Erik Barisa Dooh è il consigliere tradizionale di Goi, villaggio Ogoni fantasma situato sul delta del fiume Niger, in Nigeria. «Prima che arrivassero le trivelle questo era un villaggio felice. C'era un mercato vivo e frequentato che risuonava di voci e anche il panorama era meraviglioso», racconta. Dal 2004, con il passaggio dell'oleodotto transnigeriano, i continui sversamenti di greggio, la contaminazione del terreno, delle acqua, dell'aria, Goi come molte comunità del Delta è divenuta una landa spettrale. Erik è nato e cresciuto a Goi, suo padre aveva una panetteria che ha dovuto chiudere e abbandonare. Anche Erik ha lasciato la comunità, come gran parte dei mille abitanti, trasferendosi nella vicina comunità di Bodo.

Il delta del Niger è la regione più densamente popolata del continente africano e, secondo l'Unep, una delle più contaminate del pianeta. Ci abitano 30 milioni di persone, la cui esistenza è messa a rischio dalle decennali attività estrattive e dai violenti impatti che hanno prodotto sul territorio e sulle comunità residenti, anche a causa dell' utilizzo di pratiche illegali scelte dalle società petrolifere perché meno onerose. Tra esse il gas flaring, che consiste nel bruciare a bordo pozzo i gas di scarto dell'estrazione. Drammaticamente contaminante, è una pratica di fatto vietata per legge dal 2009, ma sul delta continua ad essere normalmente utilizzata.

La scoperta nell'area del delta di ingenti riserve di idrocarburi risale agli anni '50 e ha reso il Paese uno dei maggiori produttori di greggio al mondo. Attualmente si estraggono circa 2 milioni di barili al giorno, ad opera delle maggiori compagnie mondiali: Shell, Bp, Chevron, Total, Exxon, Eni etc.

Visitare le terre maleodoranti del delta dà un senso di vertigine. Cinquant'anni di intense attività estrattive non hanno innescato alcun processo di emancipazione sociale, ma hanno reso la Nigeria il primo Paese al mondo per inquinamento di Co2 da combustione. Nonostante l'entità delle sue ricchezze, la popolazione continua a vivere in condizioni di estrema povertà. I nigeriani in povertà assoluta, che erano il 54,7% nel 2004, sono oggi il 60,9%. Secondo l'ufficio nazionale di statistica cento milioni di persone vivono ancora con meno di un dollaro al giorno. In Nigeria l'aspettativa di vita è di appena 47 anni, che nel delta scendono a 42. Il 40% delle donne e il 25% degli uomini non è alfabetizzato.

La battaglia degli Ogoni e di altri popoli del delta contro gli impatti delle attività petrolifere viene da lontano. Da quella resistenza che ha tra i nomi illustri quello del poeta e attivista Ken Saro Wiwa, condannato all'impiccagione dal governo nigeriano nel 1995 viene anche il percorso che ha portato alcune comunità a citare in giudizio la Shell di fronte ad una corte di giustizia olandese.

Il padre di Erik è uno dei contadini che ha dato il via al ricorso contro il colosso olandese. Peccato sia morto prima di vederne la fine. Il 30 gennaio scorso la Corte olandese, con una sentenza definita «storica», ha riconosciuto la responsabilità della Shell per l'inquinamento delle terre coltivabili nella comunità di Ikot Ada Udo. Pur lasciando fuori la contaminazione nelle vicine comunità di Goi e Oruma, la sentenza costituisce un precedente importante per poter sottoporre a giudizio nei paesi di provenienza le imprese straniere per i reati ambientali commessi in giro per il mondo. La sentenza arriva dopo l'altro storico pronunciamento che il 16 dicembre 2012 ha portato la Corte di giustizia della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas) a dichiarare il governo nigeriano responsabile di non aver tutelato il Delta del Niger dalle attività estrattive.

«Il disprezzo delle società petrolifere per il benessere delle comunità che soffrono a causa degli impatti dello sfruttamento selvaggio del delta è leggendario, ma è venuto il momento della giustizia» è stato il commento a caldo di Era Environmental Right Action, l'organizzazione nigeriana in prima linea nell'accompagnamento delle comunità locali e nel monitoraggio, la denuncia e la diffusione di informazioni sulle attività estrattive.

Proprio in questi giorni Era compie 20 anni. Il direttore uscente Nnimmo Bassey che è anche presidente di Friends of the Earth e ha vinto nel 2010 del Right Livelihood Prize, il premio Nobel alternativo per l'impegno civile è orgoglioso dei risultati ottenuti in due decenni di infaticabile lavoro di campo: «A marzo festeggiamo vent'anni di mobilitazione per la giustizia ambientale e non possiamo che dedicarli alle comunità e alle persone che ci hanno ispirato e assieme alle quali abbiamo camminato. Da Ken Saro Wiwa ai popoli Umuechem, Bakalori, Odi, Gbamaratu, Odioma, Ilaje oggi assieme possiamo affermare che siamo andati avanti perché ogni episodio di devastazione ambientale è per noi un crimine, e una violazione dei diritti umani».

La sentenza olandese è una prima parziale vittoria, ma anche uno spartiacque, come Era stessa l'ha definita. Che indica che il diritto al cibo, alla salute, alla vita sono sovraordinati a qualsivoglia interesse particolare. Chiunque ne sia titolare, multinazionali del petrolio comprese.

Un modello socio-territoriale che riproduce almeno alcuni aspetti del movimento Transition Town: folklore a parte, ha senso? Magari si. La Repubblica, 18 marzo 2013 (f.b.)

SUCCISO(Reggio Emilia) - C’era l’affettatrice rossa, la mitica Berkel. C’erano le tavole di cioccolato da tagliare con il coltello, le caramelle, l’olio, il vino, la farina bianca e quella gialla. Una volta alla settimana arrivava la frutta. Ma nel 1990 Bruno Pietri chiuse la sua bottega, perché non poteva stare dieci ore dietro il bancone per servire tre o quattro clienti al giorno. Figli e nipoti che venivano a trovare i genitori portavano su le provviste comprate all’Iper di Reggio, che costavano la metà. A fianco c’era il bar di Domenico Bragazzi — anche lui sugli ottant’anni — con il biliardo in mezzo alla sala. Quattro tavolini, con i vecchi che facevano venire sera con un caffè al mattino e un bicchiere di vino al pomeriggio. Chiusero assieme, la bottega e il bar. Non c’era altro, a Succiso, 980 metri sul livello del mare, 60 abitanti d’inverno e 1.000 d’estate

E allora i ragazzi (di allora) e gli adulti si trovarono alla Pro loco e decisero di reagire. «Mettiamoci tutti assieme, in una cooperativa. Qui l’iniziativa privata non regge più. Se vogliamo trovare un caffè, il pane fresco e soprattutto un posto dove trovarci assieme, dobbiamo costruircelo da soli».
Dario Torri, presidente della coop Valle dei Cavalieri, nel 1990 aveva 27 anni. «Quelli di città — racconta — hanno tutto sotto casa e non possono capire. Un paese dove al mattino non senti il profumo del pane è un paese che non esiste. Il primo giorno di neve guardi fuori dalla finestra e dici: che bello. Ma se non hai un bar dove andare, per trovare gli amici e fare una partita e due chiacchiere, dopo tre giorni rischi di impazzire». Allora non sapevano, quelli della Pro loco, di avere inventato «la cooperativa di paese», o «cooperativa di comunità», come vengono chiamate adesso queste realtà. «Forse somigliamo — dice Dario Torri — ai kibbutz, perché anche qui l’associazione è volontaria e la proprietà è comune. Certamente, dopo più di vent’anni, possiamo dire di avere fatto una cosa importante: abbiamo salvato il paese».

Trentatré soci, sette dipendenti fissi e altri stagionali. «Stipendi sui 1.000 euro al mese, che sono più alti di quelli di città, perché non hai l’affitto da pagare. I soci invece sono tutti volontari. La nostra è stata una scoperta semplice: in un paese spopolato, un’attività singola non può reggere. Ci vuole un legame fra tutte le iniziative. Noi siamo partiti dall’ex scuola elementare, che era stata chiusa perché aveva solo 8 bambini. Qui abbiamo costruito la bottega di alimentari, il grande bar, una sala convegni che in inverno diventa la piazza del paese, un agriturismo con 20 posti letto e un ristorante. Ma abbiamo capito che, oltre alle cose indispensabili bisogna offrire anche le eccellenze. E così ci siamo messi a produrre il pecorino e la ricotta dell’Appennino reggiano. Sessanta
quintali all’anno, venduti in bottega o serviti al ristorante. E abbiamo costruito anche la “scuola di montagna”, per insegnare ai giovani che i monti non sono solo piste e skilift ma anche boschi, alpeggi, rifugi e camminate con le ciaspole alla ricerca di pernici e caprioli». Il fatturato della Valle dei Cavalieri, che fa parte di Legacoop, è di 700.000 euro all’anno.

Nel paese che doveva morire è difficile oggi trovare momenti di pausa. Albaro al mattino porta i bambini a scuola nel capoluogo (Ramiseto, a 20 chilometri), col pulmino della cooperativa. Otto bimbi in tutto, dalla materna alle medie. Poi passa in farmacia a prendere le medicine ordinate dal medico e fa la spesa per la bottega. Al pomeriggio prepara il pecorino, al sabato sera fa il pizzaiolo al ristorante. Giovanni cura i pascoli e le 243 pecore di razza sarda. Emiliano è il cuoco del ristorante, Maria tiene il negozio, Piera fa la cameriera, Fabio e Davide lavorano con la ruspa o l’escavatore o fanno le guide per le escursioni nel parco nazionale dell’Appennino tosco emiliano. «Ma tutto il paese, e non solo i soci — dice il presidente Dario Torri — è pronto a dare una mano. Quando si debbono preparare tortelli e cappelletti per il ristorante o le tante feste di paese che facciamo ogni anno, nonne e zie vengono a lavorare gratis».

È conosciuto anche in Giappone, il paese — cooperativa. L’altro giorno è salito quassù il professor Naonori Tsuda, docente di economia all’università di St. Andrew’s di Osaka, che studia le “cooperative di comunità” in tutto il mondo. «Ci ha raccontato che un’iniziativa come la nostra esiste in Australia. Ci ha detto che, come gli australiani, dovremmo chiedere la gestione di un piccolo ufficio postale, che da noi eviterebbe un viaggio di 20 chilometri per ritirare la pensione». Altre cooperative di paese sono nate nel reggiano (“I briganti di Cerreto”) e in altri borghi italiani a rischio estinzione. Tante sono case chiuse e i camini spenti anche nelle altre frazioni di Ramiseto. «A Fornolo, Poviglio e Storlo i bar e le botteghe hanno chiuso e i paesi sono andati in malora. E questo sta succedendo in migliaia di borghi italiani, soprattutto quelli degli Appennini. A Succiso invece non c’è una casa in vendita e al ristorante prepariamo diecimila pasti all’anno. Non abbiamo niente da insegnare. Solo un consiglio: se il bar abbassa la serranda, se il forno resta spento, reagite subito».

Una riflessione condivisibile, salvo le conclusioni forse troppo sbrigativamente “realiste”sui meccanismi di finanziamento dei peggiori impatti ambientali. IlFatto quotidiano, 14 marzo 2013 (f.b.)

Carlo Petrini su diversi giornali da un po’ di tempo mette in luce correttamente il ruolo dellapolitica agricola dell’Unione europea, e la critica pesantemente. Questa politica infatti tutela solo le grandi imprese agricole “industrializzate”, e non quelle marginali ed attente all’ambiente. Inoltre il fiume di sussidi che l’Unione eroga all’agricoltura blocca le esportazioni dei paesi più poveri, a vantaggio degli agricoltori del paesi ricchi. Per l’Italia, si tratta se non sbaglio di circa 6 miliardi all’anno, non noccioline.

Petrini chiede cose giustissime, e su cui fuori d’Italia si insiste da molto tempo, anche perché questi sussidi sono la voce più rilevante delle spese della Ue. Meno male che forse anche in Italia si inizi un dibattito critico su tale politica, dibattito che fino ad ora si è limitato a grandi strilli degli agricoltori e dei media se c’erano rischi di vedere ridurre qualche euro in arrivo per l’Italia (inutile ricordare che son sempre soldi pagati con le nostre tasse, alla fine). Cioè noi finanziamo una delle nostre infinite lobby, che tra l’altro non si è comportata molto bene (molti i casi di truffe, e la vicenda dell’evasione italiana delle quote latte, con multe connesse, è solo una di quelle più note).

Ma immaginiamo che le polemica di Petrini abbia successo: si tratta di spostare i sussidi verso produttori che hanno due ostacoli da superare per essere competitivi: colture in aree marginali (collinose ecc.) e tecniche di coltivazione più costose (pochi fertilizzanti artificiali ecc.). Quindi per stare sul mercato necessitano probabilmente di una quota rilevante dei fondi disponibili, che comunque si spera siano in diminuzione.
Allora i sussidi all’agricoltura “industriale” sarebbero destinati a ridursi molto. Lo scenario che ne risulterebbe è che moltissime grandi aziende (che inquinano e occupano pochissima gente) non riuscirebbero a sopravvivere.

In questo scenario, molto auspicabile, i problemi del territorio italiano sarebbero destinati a cambiare radicalmente. La “scarsità di suolo” diventerebbe un concetto difficilmente difendibile. E l’ipotesi che questi vasti terreni liberi vengano invasi da case, strade e capannoni (tutti rigorosamente deserti) è chiaramente inverosimile.
Si aprono invece possibilità molto piacevoli: non essendo il suolo scarso, chi vorrà potrà farsi case nel verde, senza strilli di aumentare lo “sprawl” urbano sottraendo terreno all’agricoltura (che non ci sarà). Si potranno realizzare vasti parchi naturali, ripopolandoli di animali selvatici. Ma si potranno anche avere più aree attrezzate per lo sport. Certo, tornando al settore di mia competenza, questa nuova ricchezza territoriale sarà difficile raggiungerla in treno o in autobus, ma non in bicicletta o con automobili a basso impatto ambientale.

Però è meglio risvegliarsi dai sogni: credo che la lobby agricola, in Italia come in Europa, rimanga molto forte, e valga poi una regola generale: i sussidi è facilissimo darli (tutti sono contenti, no?), ma è difficilissimo toglierli.

Urbanizzazione del pianeta e impatti ambientali da un lato, qualità urbana e abitabilità dall'altro: un possibile ruolo della progettazione per una metropoli più sostenibile. Articoli di Luca Molinari Marco Vinelli, Corriere della Sera, 9 marzo 2013 (f.b.)

Le mode e i desideri della Natura tra noi
di Luca Molinari

Da quando il botanico francese Patrick Blanc dalla seconda metà degli anni Novanta ha lanciato il brevetto (poi diventato rapidamente di moda) del giardino verticale è cominciata l'irresistibile colonizzazione verde di molti spazi anonimi e istituzionali delle metropoli. Il nostro malcelato senso di colpa verso Madre Natura, unito alla costante voglia di meraviglia e a una reale necessità di ripensare la presenza del verde nelle città che affolliamo, hanno rapidamente sancito il successo di questa intuizione tecnica, che consente a una serie importante di vegetali di abitare le nostre pareti grazie a un semplice supporto metallico, a due strati di materiale fibroso e a un potente sistema di irrigazione permanente.

Poi, come per tutte le mode, la meraviglia di una foresta verticale ha mostrato i suoi limiti strutturali: molto costosa nell'investimento e nella manutenzione permanente, assetata d'acqua in maniera a volte eccessiva, fragile nel suo rapporto con l'ecosistema circostante. Ma questo non deve farci recedere dal considerare quello che questi primi interventi possono rappresentare. La possibilità realistica di colonizzare spazi urbani senza identità con porzioni naturali inattese e il suo successo popolare interpreta il desiderio crescente di dare forma a una relazione diversa con la Natura e quello che ci può offrire. Bellezza, senso di pace e quiete, qualità ambientale, mutabilità stagionale, sono solo alcuni dei benefici che questi progetti verdi ci offrono.

Anche l'idea che grazie agli elementi naturali si possano risolvere frammenti di metropoli abbandonati, attivando quei fenomeni virtuosi di agricoltura urbana che stanno cambiando il volto delle città occidentali, mostrano una straordinaria voglia di comunità, di cultura del cibo sano e di immagine diversa del nostro ambiente. Partire da queste esperienze vuol dire ascoltare il desiderio profondo delle comunità metropolitane di riportare radicalmente la Natura tra di noi, indicando visioni e strumenti che andranno sempre più diffusi e democratizzati.

Ritorno a Babilonia
di Marco Vinelli

Probabilmente tutto è cominciato a Babilonia, intorno al 500 a.C., con i suoi famosi giardini pensili che erano considerati una delle sette meraviglie del Mondo. Perché da sempre gli uomini hanno cercato di piegare la natura alle proprie esigenze. A partire dal XVI secolo si sono spinti a modellare le siepi con realizzazioni di ars topiaria e la fantasiosa progettazione dei giardini all'italiana. E poi, proseguendo, con la creazione dei grandi parchi urbani, come il Bois de Boulogne o Central Park, in una continua e sempre più stretta integrazione tra verde e città, tra dimora e giardino. Ma nessun architetto è mai arrivato a ricoprire con la vegetazione le proprie realizzazioni. A meno di non dichiarare un proprio grossolano errore, come recita il famoso detto che «se a un medico è consentito seppellire i propri errori, un architetto li può solo ricoprire con l'edera». Da qualche tempo tutto questo è cambiato e alcuni progettisti, infischiandosene dei vecchi proverbi, puntano proprio sulla vegetazione per rendere le proprie architetture ancora più espressive e meglio integrate nell'ambiente.

Tra i primi a credere in questa «formula», Emilio Ambasz, che ha «seppellito» le proprie ville sotto terra o ha rivestito di verde alcuni edifici, come il palazzo sede della Prefettura di Fukuoka, in Giappone, dove la facciata sud è stata risolta come un giardino terrazzato, quale naturale prolungamento dell'esistente parco urbano. Ma anche il progetto per la banca dell'occhio a Mestre, del 2008, si inserisce in questo filone, così come il palazzo Eni, a Metanopoli, di Gabetti e Isola. Va precisato che queste scelte progettuali complicano enormemente la vita agli architetti, che devono mettere in campo tutta la loro bravura e le loro conoscenze nella scelta dei materiali e delle soluzioni tecnologiche per evitare che la vegetazione muoia dopo poco tempo e la manutenzione raggiunga costi astronomici.

Qualcuno, come Jean Nouvel per il suo museo Quai Branly a Parigi, aperto nel 2006 e caratterizzato da una facciata interamente ricoperta di vegetazione, si è rivolto ad un «artista botanico» come Patrick Blanc. Il risultato? Un muro verde di 800 mq con 15 mila piante di 150 specie diverse. Dice l'artista: «Per realizzare questo muro vegetale, non ho avuto particolari difficoltà ed è stato installato contemporaneamente alla facciata. Nonostante siano passati già diversi anni, si mantiene molto bene».

Da un po' di tempo a questa parte, l'immagine-simbolo di questa sfida è il «Bosco verticale», le due torri milanesi in via di completamento degli architetti Stefano Boeri, Gianandrea Barreca e Giovanni La Varra. Il progetto è ambizioso: due edifici alti 110 e 76 metri con appartamenti di lusso, che accolgono 480 alberi di grande e media altezza, 250 alberi di dimensioni piccole, 11.000 fra perenni e tappezzanti e 5.000 arbusti, modulati in funzione della fioritura. Il Bosco verticale, che equivale a una superficie boschiva di circa 10.000 mq, nelle intenzioni di Boeri aiuta a costruire un microclima e a filtrare le polveri sottili nell'ambiente urbano. La diversità delle piante e le loro caratteristiche producono umidità, assorbono CO2 e polveri, producono ossigeno, proteggono dall'irraggiamento e dalla polluzione acustica. Ma le due torri di Boeri, sono «verdi» dappertutto: grazie a sistemi centralizzati si punta all'ottimizzazione della produzione energetica, attraverso impianti a pompe di calore si utilizza acqua di falda. E ancora, pannelli solari fotovoltaici, la produzione del 100% dell'acqua calda mediante fonti rinnovabili, la massimizzazione dell'illuminazione e della ventilazione naturale.

A Torino, invece, l'architetto Luciano Pia con il complesso «25 Verde» ha sperimentato un'altra soluzione forse meno ambiziosa di quella milanese ma sicuramente più espressiva, dal momento che le forme degli alberi si «integrano» con quelle dell'edificio, grazie anche all'acciaio Cor-Ten per gli elementi strutturali alberiformi che sostengono i grandi terrazzi in doghe di legno. «In questo edificio abbiamo realizzato terrazzi molto profondi, anche 6-8 metri, con una superficie pari al 50% dell'appartamento — spiega l'architetto Pia —. Questo ci ha permesso di alloggiare 150 alberi "grandi" in facciata e altri 50 nel giardino condominiale. In pratica ogni appartamento ha almeno 3 alberi grandi. Che vivono in fioriere con un diametro da 1,8 fino a 4 metri».

In questi edifici il costo di gestione non deve essere sottovalutato: «La manutenzione della parete del Quai Branly viene effettuata due o tre volte l'anno, nel giro di tre/quattro giorni, con un elevatore dalla strada — precisa Blanc —. Il pubblico resta impressionato da questa "falesia vegetale" nel cuore di Parigi». Discorso analogo per il palazzo torinese: «I primi occupanti, entrati negli alloggi circa sei mesi fa, sono entusiasti — precisa Pia —. Il verde in facciata è considerato "condominiale" per beneficiare di una gestione unitaria pur se collocato su terrazzi di proprietà. E il comune di Torino ha vincolato la vegetazione in facciata, in modo che non si possa intervenire su di essa in maniera autonoma ed arbitraria». Anche per «25 Verde» un sistema permette il recupero delle acque piovane; al posto della caldaia tradizionale è stato installato un sistema a pompa di calore geotermica ad acqua di falda; i tetti piani sono trasformati in giardini e possono essere coltivati come orti e le facciate sono rivestite con una scandolatura di legno di larice. Forse sta cominciando una nuova primavera per l'architettura urbana.

Piccolo è bello oltre gli slogan significa una maggiore integrazione sul territorio fra gli aspetti produttivi, sociali, ambientali: un appello perché anche le politiche comunitarie lo recepiscano. La Repubblica, 6 marzo 2013 (f.b.)

Mentre l’Italia si agita in un vuoto di governo, dalla difficile soluzione, ogni giorno le persone e i loro bisogni autentici bussano alle porte della politica, con sempre maggiore fermezza e obiettivi
chiari. Duecentosettantasei organizzazioni non governative hanno posto forte e chiara, nei giorni scorsi, una questione fondamentale al governo dell’Europa: non siamo più disposti ad accettare che il denaro pubblico della Politica agricola comune (la famosa Pac) vada a finanziare pratiche agricole insensibili ai valori dell’ambiente, dei beni comuni, della protezione delle risorse irriproducibili, come le falde acquifere e la fertilità dei suoli.

Non è più ammissibile che i soldi di tutti gli europei sostengano la produzione agricola in quanto tale, senza che si prenda atto che è semplicemente immorale incassare denaro per inquinare, impoverire la Terra Madre e agire in modo insensibile a quanto, non dei semplici consumatori,
ma molti cittadini, legittimi titolari dell’erario, affermano. Perché non accetteremo oltre che la Pac aiuti chi può scegliere se adottare o meno pratiche ecocompatibili: la sostenibilità non è (più) un optional. I firmatari, con pacata sicurezza, dimostrano di saper distinguere il grano dal loglio e di non trascurare che la produzione del cibo per un continente con mezzo miliardo di abitanti non è un problema che si affronta con leggerezza. Ma questa agricoltura non può più vivere incurante degli effetti che i pagamenti diretti (la parte più consistente delle sovvenzioni, finora tutta determinata dalla dimensione della superficie aziendale) hanno determinato sull’ambiente, sul paesaggio, sui mercati mondiali, afflitti dalla concorrenza di derrate che, se non ci fossero i denari di Bruxelles, non si produrrebbero e non potrebbero essere vendute in giro per il Pianeta. Oltre il danno, una beffa per i paesi in via di sviluppo che devono competere con chi si vede una parte dei costi di produzione finanziati dalle istituzioni.

La nuova Pac non può semplicemente ridurre l’aiuto diretto. Deve collegarlo in modo inscindibile all’adozione di pratiche ecologicamente sostenibili: il percorso deve essere progressivo, ma a tappe certe e, se necessario, forzate. Un po’ di maquillage non accontenterà queste centinaia di sodalizi. E se a qualcuno tutti questi simboli e nomi possono sembrare i mille rivoli di una frammentazione, beh: si sbaglia. Questo è un virtuoso, colossale esempio di unità nella molteplicità, per l’affermazione del valore assoluto che attribuiamo alla terra che calpestiamo. Un po’ di pratiche «verdi», un po’ di greenwashing, come la chiamano gli Inglesi, non servirà a blandirci: esattamente come per la polmonite non serve l’aspirina.

Per questo, accanto alle misure di aiuto allo sviluppo rurale, che dovrebbero essere preferite sempre all’aiuto diretto e fra le quali sono presenti elementi positivi — come quelle che aiutano i giovani ad iniziare un’impresa agricola o i contadini a lavorare meglio, rispettando criteri di sostenibilità, incentivando la scelta preziosa del biologico — ci sono almeno due ottime misure che devono essere adottate se, come appare ovvio, non sarà possibile, di punto in bianco, prosciugare i finanziamenti «un tanto all’ettaro».

La prima riguarda la rotazione delle culture. Uno strumento semplice ed efficientissimo per mantenere la fertilità dei suoli è coltivare specie vegetali diverse, sullo stesso terreno, alternandole di anno in anno. Si riducono le malattie (che richiedono chimica per essere curate o prevenute) e il fabbisogno di certi elementi nutritivi (la stessa specie, infatti, richiede sempre gli stessi elementi, che vanno apportati concimando intensivamente), ma soprattutto si aumentano le rese e la qualità ambientale. Sembra l’uovo di Colombo e invece l’agroindustria intensiva, con aziende che anno dopo anno seminano sempre le stesse cose sugli stessi suoli, vede la rotazione delle colture come la peste: non si sviluppa il modello di business vincente diversificando, ci dicono, come se la terra fosse solo una grande catena di montaggio.

E allora, per darci il contentino, chi ha steso la bozza della Pac ha considerato ugualmente verde la «diversificazione», vale a dire: non la buona rotazione, ma la coltivazione in azienda di più cose, anche se magari, ciascuna di esse sempre sugli stessi appezzamenti, anno dopo anno. Non ci siamo.
La seconda proposta riguarda la taglia dei contributi. Non tutti gli ettari sono uguali, infatti!
La piccola agricoltura è più sostenibile, più attenta ai bisogni del territorio, spesso portata avanti in territori marginali e geologicamente fragili, più preziosa per conservare valori che vanno al di là del prezzo delle derrate. La piccola agricoltura, dal tempo dei Gracchi che lo capirono per primi, è la salute di una società sviluppata, mentre il latifondo è la degenerazione del rapporto con la Terra, che da madre diventa commodity.

Oggi si parla di porre un tetto: nessuno potrà avere più di 300mila euro di contributo, anche se gli ettari della sua azienda gli darebbero teoricamente diritto a più soldi ancora. Ma non basta.
Chiediamo che con l’aiuto diretto sia pagato «a scalare» un premio extra: il 100% della misura stabilita per i primi 5 o 10 ettari e poi a decrescere fino allo 0%, oltre una certa estensione. Naturalmente questo è un esempio e misure differenti potrebbero essere valutate per produzioni diverse, in diversi Paesi, ma il principio dovrebbe essere chiaro: ci fidiamo di più di una moltitudine di piccoli agricoltori che un pugno di latifondisti. Due idee semplici, che condividiamo con chi ha a cuore il futuro agricolo vero del Vecchio Continente, come le associazioni riunite in Arc2020: non voliamo alto, ma proponiamo misure concrete per fare sì che solo l’agricoltura che piace e serve alla vita di tutti riceva i soldi che sono di tutti. Di questi tempi, ci pare una necessità rivoluzionaria!

© 2025 Eddyburg