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«La più recente acquisizione scientifica secondo cui il suolo costituisce una spugna che trattiene il carbonio e dunque riduce l'effetto serra è un tassello che pone una questione ineludibile: il suolo è un bene comune, drammaticamente scarso e di inestimabile valore». Il manifesto - supplemento clima, 27 novembre 2015

Uno degli effetti indesiderati delle conferenze mondiali sul clima è che essi rafforzano, nella mente del comune cittadino, l'impressione di una spoliazione delle proprie possibilità d'azione, la certificazione dell'inefficacia del suo agire personale. Come se la soluzione dei problemi fosse interamente affidata agli accordi internazionali tra gli stati, chiamati a quella sorta di consulto mondiale sulla salute del pianeta. Un sentimento di impotenza, che induce, nel migliore dei casi, all'attesa di un vaticinio finalmente fausto per il nostro avvenire.

E invece il fatto che si ponga al centro dell'attenzione, sia pure per pochi giorni, il grande tema del riscaldamento globale, costituisce un'occasione importante non solo per familiarizzare con una nuova cultura scientifica, ma anche per indicare il ruolo attivo, le possibilità di lotta e di contrasto che hanno i singoli individui, le associazioni, le popolazioni, nei loro territori, indipendentemente dalle stesse scelte degli stati. Partiamo da un rilevante dato scientifico che mostra le enormi potenzialità a nostra disposizione per mitigare la concentrazione di gas serra nell'atmosfera.
Come viene ricordato nel manifesto Terra viva (2015), coordinato da Vandana Shiva, sulla base di studi scientifici recenti «I suoli rappresentano il più grande bacino per l’assorbimento del carbonio e contribuiscono a mitigare il cambiamento climatico. Il suolo è dunque capace di assorbire gas serra. Esso contiene in tutto il mondo il doppio di carbonio rispetto all’atmosfera e trattiene più di 4000 miliardi di tonnellate di carbonio». Dunque il terreno è un immenso serbatoio di vita che trattiene e metabolizza carbonio contribuendo in maniera rilevante all'equilibrio climatico di tutta la biosfera. E' noto, grazie alle scienze ecologiche, che l'aratura dei suoli sprigiona co2 nell'atmosfera, così come accade quando si abbattono gli alberi di boschi e foreste.
Ma tutta l'agricoltura industriale del XX e secolo, la stessa rivoluzione verde degli anni '60 e '70, le agricolture biotecnologiche degli anni recenti hanno ignorato sovranamente questa verità. E non a caso. Esse sono figlie legittime della logica lineare ed estrattiva che connota il capitalismo del nostro tempo. Un rapido sguardo mostra il grande paradosso economico ed ecologico sui cui si fonda l'edificio dell'alimentazione contemporanea: dopo essere stata, per tutti i precedenti millenni della sua storia, produttrice netta di energia sotto forma di cibo, l'agricoltura è una consumatrice passiva di energia sotto forma di concimi chimici, diserbanti, pesticidi, irrigazione ( azionata da motori elettrici), movimentazione di macchine agricole, ecc. Su questo squilibrio drammatico nel bilancio energetico dell'agricoltura contemporanea abbiamo dati inoppugnabili e clamorosi.
Confrontando i dati sulla produzione granaria mondiale tra il 1950 e il 1985 e il consumo energetico nello stesso periodo, ricaviamo una divaricazione statistica senza precedenti. La crescita produttiva in questi 35 anni è stata del 250%. Ma il consumo di energia è esploso, toccando la percentuale del 5000% (D.A. Pfeiffer, Eating fossil fuels. Oil, food and the coming crisis in agriculture, 2006 ) Mangiamo, dunque, petrolio. Ma questo dato fornisce una evidenza solare all'insostenibilità ambientale del capitalismo. La crescita produttiva dell'agricoltura è dovuta all'uso del potassio, ai fosfati, sottratti nelle varie miniere del mondo e soprattutto al consumo di petrolio a buon mercato per fabbricare azoto, elaborare i concimi, produrre i diserbanti e i pesticidi, ecc. e al ricorso all'acqua, che costituisce il 70% dei consumi idrici mondiali. Non è un caso che all'agricoltura viene addebitata la produzione del 40% dei gas serra.
Ma tutti questi imput non sono dei ritorni ciclici di energia organica alla terra, come accadeva nella vecchia agricoltura. Sono la dissipazione lineare di energia fossile sottratta alla terra una volta per sempre. I concimi chimici non fertilizzano il terreno, nutrono direttamente la pianta, mentre il suolo si isterilisce ed è sempre meno capace di trattenere carbonio, acqua, vita. All'effetto serra delle estrazioni minerarie e delle produzioni industriali si assomma quello del suolo impoverito di sostanza organica. Di più. Il crescente emungimento di acqua tramite i pozzi impedisce il riformarsi delle falde idriche. La mancanza di rotazioni agrarie nelle coltivazioni non consente ai suoli di ripristinare la propria fertilità e le proprie difese dai parassiti, costringendo gli agricoltori ad accrescere il peso della chimica. La rottura dei cicli, che costituiscono il modo di evoluzione della natura, blocca la rigenerazione circolare delle risorse, imponendo la continuazione dell'economia estrattiva e lineare, sempre più economicamente costosa, sempre più ambientalmente distruttiva.

Dunque, l'agricoltura è un ambito in cui molto si può fare dal basso per ridurre l'effetto serra. Molte pratiche agricole sono già in atto, per ridare al suo suolo la sua piena funzione di ecositema: l'agricoltura biologica e biodinamica, la permacultura (che elimina o riduce l'aratura dei suoli), il ricorso ai concimi organici e al compost. Ma ancora tanto si può fare, attraverso uno sforzo di lunga lena capace di produrre una trasformazione culturale profonda a livello di massa, e intercettando un filone teorico di critica dirompente al capitalismo del nostro tempo. Pensiamo all'atteggiamento dissipatore che domina ancora nelle zone agricole. Ogni anno, nei mesi dall'inverno alla primavera, le campagne fumano. Gli agricoltori bruciano in qualche angolo della loro azienda la ramaglia della potatura delle piante o delle siepi. Si tratta di altra anidride carbonica che si aggiunge a quella solita. Ma si tratta anche di una rilevante quantità di biomassa che potrebbe trovare altri usi, e che l'assenza di una organizzazione di raccolta rende impossibile. Eppure essa si imporrebbe, soprattutto per ragioni culturali. Il materiale che la natura produce non va distrutto, deve ritornare in qualche modo alla terra, o trovare comunque un uso economicamente utile. Si deve spezzare in ogni ambito la logica dell'estrazione lineare.

Ma la scoperta del ruolo che il suolo gioca nell'assorbimento del carbonio ci porta a ricordare quanto si possa fare per ripristinare un'economia circolare, che aiuti la natura a chiudere i suoi cicli. E un ambito rilevante è quello del rapporto tra la città e la campagna. Per secoli, in Italia, come nel resto d'Europa e del mondo, la città non era solo consumatrice di beni agricoli, ma riforniva le campagne di energia sotto forma di letami, deiezioni, materia dei pozzi neri, ecc. (E. Sori, La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, il Mulino 2001).

La raccolta differenziata dei rifiuti rappresenta una delle leve per fondare una nuova economia del riciclo, che rompa la logica estrattiva, e avvii un nuovo corso. Quanti dei nostri rifiuti organici possono ritornare al terra per renderla più fertile, più capace di trattenere acqua e carbonio? Ma il grande snodo teorico che può fondare una svolta anche politica di rilevante portata è una acquisizione del pensiero ecologico recente: comprendere che la città è un ecosistema. Essa non è , sotto il profilo fisico, una foresta di pietre. Oltre a costituire una vorace dissipatrice di energia prodotta al suo esterno, essa vive dentro un territorio, che condiziona e da cui è condizionata: altera il clima generando calore, inquina l'aria e i suoli dei d'intorni con discariche, fabbriche, ecc.

Ebbene oggi sappiamo, in Italia meglio che in qualunque altro Paese d'Europa, che l'asfalto e il cemento impediscono l'assorbimento dell'acqua piovana, ormai causa sistematica di allagamenti devastanti anche nei centri urbani. Un tempo le periferie erano in gran parte orti o campi, oggi sono strati di cemento che veicolano le acque piovane sulla città in forma di fiumi. Sappiamo inoltre che la progressiva sparizione di spazi verdi in città e nei dintorni aumenta la presenza di particolato nell'aria, che non viene assorbito né dagli edifici, né dall'asfalto. Non solo lo smog, anche l'edificato contribuisce a rendere patogena l'aria che respiriamo.
La più recente acquisizione scientifica secondo cui il suolo costituisce una spugna che trattiene il carbonio e dunque riduce l'effetto serra è un tassello che pone una questione ineludibile: il suolo è un bene comune, drammaticamente scarso e di inestimabile valore. Esso ci protegge dalla pioggia, dall'inquinamento aereo, dal riscaldamento climatico. Le conseguenze politiche che si debbono trarre da queste verità rappresentano un terreno di conflitto da far esplodere in ogni angolo della Penisola. Orti e alberi dentro e fuori la città, in tutte le aree dismesse e in tutti gli spazi possibili, devono contrastare la distruttività lineare dell'edificazione.
Qualunque lembo di terra sottratto alla sua condizione di campo è un atto contro il bene comune della sicurezza urbana, un incremento dei danni alla nostra salute, un tassello all'accrescimento del riscaldamento climatico e alla invivibilità estiva nelle nostre città. La proprietà fondiaria dei privati non può fornire a questi alcun diritto a edificare e a coprire suolo con cemento. Il bene comune oggi appare troppo sovrastante rispetto al profitto solitario dei singoli. Ecco un punto nevralgico in cui le scienze ecologiche danno al pensiero politico della sinistra l'universalità e la potenzialità egemonica che essa ha perduto. L'unificazione del mondo rende ormai troppo evidente che la predazione estrattiva dei pochi costituisce un crescente danno per tutti.

«Movimenti. Verso la manifestazione nazionale del 29, la coalizione delle associazioni ambientaliste discute a Roma proposte e iniziative economiche e sociali». Il manifesto, 14 novembre 2015

Come è noto, all’inizio di dicembre si svolgerà a Parigi il COP 21, il convegno mondiale sullo stato e sulle dinamiche del cambiamento climatico del pianeta Terra a cui aderiscono tutti i paesi del mondo. Anche l’Italia parteciperà, ed ha riunito a Roma il 6 Novembre la coalizione nazionale delle associazioni ambientaliste, in vista della manifestazione romana del 29 Novembre e discutere la linea da seguire in Italia e a Parigi. Chi scrive fa parte di questa coalizione in quanto presidente dell’Associazione Nazionale “Ambiente e Lavoro”, nata con il disastro di Seveso con l’obiettivo di combattere i pericoli della produzione all’interno del luogo di lavoro e nell’ambiente tutto, collegando ambientalisti e lavoratori.

Per molto tempo è stato difficile unire ambiente e lavoro avendo come obiettivo l’eliminazione dei possibili effetti negativi per l’ ambiente e la salute fuori e dentro l’azienda senza dover ridurre l’occupazione. Nell’incontro del 6 Novembre si sono espresse voci di ambientalisti, ma anche di rappresentanti della Cgil, e delle organizzazioni dei lavoratori in genere, rappresentanti degli studenti, una organizzazione trasversale come Avaaz, operatori che lavorano nelle regioni e nei comuni. Per la prima volta, per quanto ricordi, ha preso corpo una discussione di “ambientalismo sociale ed economico” che, invece di affrontare solo genericamente i concetti di base del cambiamento climatico, i suoi effetti e lo stato generale dell’ambiente, si è concentrata sul nostro Paese affrontando insieme i problemi economici, sociali e politici italiani su cui intervenire in previsione della accelerazione del processo climatico.

Sul piano economico si è richiesto di evitare le spese che poco hanno a che fare con l’ambiente e le vite umane, quelle che servono essenzialmente ad aumentare la parte finanziaria della nostra economia. Come è successo con Expo, con il piano del modello di sviluppo di Eni, con la costruzione di Enel gas a Manfredonia, e in genere con costruzioni che fanno guadagnare i costruttori, senza tenere conto degli effetti negativi della cementificazione. O con gli interventi inclusi nel cosiddetto “sblocca Italia”, le pericolose trivellazioni, così vicine al cosiddetto fracking praticato egli Stati uniti ed criticato da moltissime associazioni nel mondo. A tutto questo si aggiungono i mancati finanziamenti per nuovi piani per l’agricoltura, il disastro che si determinerebbe con la eliminazione dei forestali, unica organizzazione di controllo delle foreste, elemento fondamentale per l’uso e il blocco di CO2 .

Tutto avviene in un Paese sempre meno democratico in cui si discute molto raramente con le persone e le associazioni che, in Italia, chiedono di essere considerate portatrici delle idee degli associati e delle comunità locali. Molto rilevanti per la democrazia e per la richiesta di attivare lo scarso dibattito sull’ambiente in genere, e in particolare sull’ambientalismo sociale ed economico, sono stati gli interventi vivaci e competenti degli studenti per l’ambiente, con l’annuncio di una manifestazione nazionale a Roma il 17 Novembre, e degli insegnanti presenti, critici della “buona scuola”, dove si parla sempre meno del cambiamento climatico, nonostante l’interesse e le richieste dei ragazzi che, come negli interventi hanno ampiamente dimostrato, sono ormai sempre più coscienti e preoccupati della accelerazione prevista e continua del cambiamento climatico. Ben poco se ne parla sia nei diversi gradi della scuola che nei giornali e in televisione. Così ben pochi sono informati dei due strumenti generali su cui si può puntare per la sopravvivenza del pianeta: la mitigazione, cioè la riduzione dell’aumento dei gas serra, e l’adattamento, che significa la salvaguardia degli ambienti naturali e degli elementi fondamentali per la vita: la terra, le agricolture, l’aria pulita, le energie rinnovabili, l’acqua potabile.

A questi elementi si aggiunge anche la biodiversità, unico strumento che permetterebbe di adattarci in molti e, appunto, diversi ambienti nel tempo e nello spazio. Tutti questi strumenti necessari per la sopravvivenza della nostra specie vanno conservati, usati, e resi utilizzabili da tutti. Ne va perciò combattuta con assoluta fermezza la brevettazione, soprattutto da parte delle multinazionali delle piante e degli animali, come Monsanto & Co. che hanno purtroppo già brevettato l’acqua del Kasakhstan .

L’ambientalismo non può più limitarsi alla salvaguardia, pure fondamentale, delle specie in vie di estinzione e in genere della biodiversità. Non può non affrontare e modificare con tutti gli strumenti possibili l’economia reale combattendo quella finanziaria, promuovendone il ritorno al significato iniziale, allo scopo di mantenere leggi necessarie per le vite non solo umane ma della Biosfera. Di questo, molti parlano e molto spesso, ma raramente, come si è verificato nell’incontro di Roma, persone di tutte le categorie, interessate alla tematica ambientalista, hanno chiesto con forza e chiederanno alla manifestazione nazionale che economia e politica siano consapevoli della unicità del nostro pianeta e della necessità di permettere al mondo vivente di sopravvivere insieme alle infinite diversità presenti sulla terra, tutte non solo sufficienti ma a tutte necessarie.

Non si fa perché non conviene all'economia e ai consumatori USA, e perchè a Parigi vuol fare bella figura. Ma se costruire il mostro convenisse e Parigi non ci fosse, allora direbbe si? La Repubblica, 7 novembre 2015

Il padre di tutti gli oleodotti non si farà. Barack Obama ha chiuso una discordia durata sette anni, che aveva spaccato in due il Nordamerica. Il presidente ha deciso di consolidare la sua eredità ambientalista, a tre settimane dalla sua partecipazione al summit di Parigi sul cambiamento climatico. Stop finale, dunque, per un’infrastruttura da quasi duemila chilometri, che avrebbe trasportato 800mila barili di petrolio al giorno: dai giacimenti sabbiosi dello Stato dell’Alberta (Canada) alle raffinerie dell’Illinois, giù giù fino a raggiungere i porti petroliferi Usa che si affacciano sul Golfo del Messico. Ci tenevano moltissimo, oltre al Canada, i petrolieri e i repubblicani. Gli ambientalisti ne avevano fatto il nemico pubblico numero uno, un progetto da contrastare ad ogni costo. Obama ha dato ragione a loro.

«L’indagine effettuata su mia richiesta dal Dipartimento di Stato – ha detto Obama annunciando il verdetto finale dalla Casa Bianca – ha concluso che l’oleodotto Keystone XL non contribuisce all’interesse nazionale degli Stati Uniti». Il presidente ha quindi elencato puntigliosamente tutte le ragioni: «Primo, non darebbe un contributo alla crescita della nostra economia che ha già creato 13,5 milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi 68 mesi. Secondo, non abbasserebbe il prezzo della benzina per i consumatori, prezzo già sceso per conto suo. Terzo: non migliorerebbe la nostra autosufficienza energetica visto che già oggi produciamo più petrolio di quanto ne importiamo». Obama ha voluto smontare così pezzo per pezzo gli argomenti della destra, secondo cui il suo ambientalismo danneggia lo sviluppo economico e quindi l’occupazione. Guardando al summit di Parigi, Obama ha dichiarato che «l’America deve esercitare la sua leadership attraverso l’esempio che dà, dobbiamo proteggere il pianeta finché siamo in tempo». La guerra santa che si era sviluppata in questi sette anni attorno all’oleodotto, si è intrecciata con cambiamenti di tutto lo scenario energetico. La rivoluzione tecnologica da una parte (fracking e trivellazioni orizzontali) ha consentito un boom dell’offerta nordamericana. La frenata della crescita cinese ha ridotto la domanda. Il combinato dei due mutamenti ha fatto crollare il prezzo di petrolio e gas, soprattutto se espresso in dollari. Rispetto alle origini del progetto Keystone XL, la sua opportunità economica ora è molto meno stringente. Approvare la costruzione di un’infrastruttura così imponente significava, secondo gli ambientalisti, un incoraggiamento di fatto all’uso di energie fossili. Obama è stato aiutato anche da alcuni sviluppi politici: in Canada l’elezione del nuovo premier Justin Trudeau, meno legato alla lobby petrolifera rispetto al suo predecessore. Negli Stati Uniti, Hillary Clinton ha sciolto ogni riserva annunciando la sua contrarietà all’oleodotto (e quindi, in caso di vittoria nel novembre 2016, alla Casa Bianca ci sarebbe comunque un presidente ostile al progetto).

Gli esperti ricordano che questo presidente ha già preso altre decisioni il cui impatto ambientale è superiore alla bocciatura del maxi-oleodotto. La più importante di tutte è stata la nuova regolamentazione delle emissioni carboniche per le centrali che producono energia: i tetti imposti daranno il contributo più sostanziale al taglio di gas carbonici da parte degli Stati Uniti. I repubblicani pur dominando il Congresso non sono riusciti a imporre la loro linea, negazionista del cambiamento climatico e allineata sugli interessi dei petrolieri.

Una limpida sintesi del principale filo conduttore (secondo uno sguardo laico) dell'enciclica Laudato sì: il perverso dominio esercitato dalla "cultura dello scarto" sull'uomo, la società, il pianeta Terra e gli altri suoi abitanti

Il testo è costituito dall'ampia scaletta dell'intervento dell'autore al convegno sull'enciclica Laudato sì promosso dalla Casa della Carità di Milano e altre organizzazioni e svolto a Milano, nella sede dell'Umanitaria, il 4 novembre 2015

Scarto e cultura dello scarto sono concetti che attraversano tutta l’enciclica e a cui Francesco attribuisce grande rilievo come strumenti di analisi dello stato di cose presente, cioè del contesto all’origine tanto del degrado dell’ambiente che della diseguaglianza e dell’ingiustizia di cui sono vittime i poveri del mondo. Considera anzi la denuncia della cultura dello scarto e la lotta contro di essa uno degli assi portanti della sua enciclica:

«Questo riguarda specialmente alcuni assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica. Per esempio: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita» (16). Perché?

Lo scarto e soprattutto
la cultura dello scarto, cioè la sua accettazione e legittimazione, evidenziano innanzitutto il modo di funzionare del sistema economico in cui siamo immersi: un sistema produttivo lineare che aggredisce le risorse della Terra senza curarsi degli equilibri dell’ambiente da cui vengono prelevate, per trasformarle il più rapidamente possibile in rifiuti, cioè in cose di cui società e sistema produttivo non sanno più che fare, e che per questo vengono restituite all’ambiente con modalità che contribuiscono al suo degrado, cioè sotto forma di rifiuti o di inquinanti (e, tra questi, i gas serra, che stanno alterando in modo irreversibile gli equilibri climatici del pianeta).

All’economia lineare Francesco contrappone, sulle tracce di ciò che Vandana Shiva (mai citata in questa enciclica) e altri con lei chiamano legge del ritorno, l’urgenza di rendere circolari i processi produttivi, in modo da impiegare in nuovi modi e sotto nuove forme ciò che non può più essere utilizzato in quelli dismessi; oppure in modo da restituirlo all’ambiente in forme compatibili con il rinnovarsi dei suoi cicli biologici, idrici e metereologici.

Francesco indica esplicitamente come alternativa «un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento [delle risorse], riutilizzare e riciclare». Ma la cultura dello scarto non riguarda solo il nostro rapporto con l’ambiente: «La cultura dello scarto finisce per danneggiare il pianeta intero…e… colpisce tanto gli esseri umani quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». Ciò finisce per trasformare la terra, che è la nostra casa comune, «in un immenso deposito di spazzatura» (22).

Da quello con le cose questo approccio lineare, caratterizzato da un prelievo irresponsabile di risorse e da un’altrettanta irresponsabile produzione di rifiuti, si trasferisce alla società e investe il anche nostro rapporto con gli esseri umani, con il nostro prossimo. «Perché – scrive Francesco – anche l’essere umano è una creatura di questo mondo» (43).

Un’affermazione come questa evidenzia il completo abbandono di una concezione antropocentrica. L’essere umano ha sì una sua peculiare dignità – ogni vivente ha la sua - ma ce l’ha in quanto parte del creato, in quanto legato alla terra a cui lo unisce una fitta e inestricabile rete di rapporti di reciproca dipendenza.

Proprio per questo l’essere umano ridotto a risorsa, che vale solo perché e fino a quando ci serve, è condannato a un destino di scarto non appena non serve più: di qui l’esclusione di una parte crescente dell’umanità, ma anche il suo sfruttamento fintanto che può servire, che può essere usato, cioè avere un ruolo nell’alimentare i cicli della produzione e del consumo.

Quel sistema iniquo – aveva detto Francesco il 28 ottobre dell’anno scorso a Roma, rivolgendosi ai rappresentanti dei movimenti popolari – «è il prodotto di una cultura dello scarto che considera l’essere umano come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare». Alle forme tradizionali di sfruttamento e di oppressione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di rendere gli esseri umani superflui: «quelli che non si possono integrare, gli esclusi, sono scarti, eccedenze…Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non la persona umana».

E’ evidente in questo approccio l’influenza di un altro autore molto presente in questa enciclica, anche se anch’esso mai citato: Zigmunt Bauman, che della trasformazione degli uomini e delle loro vite in scarti, a partire dall’analisi del rapporto tra modernità e olocausto, ha fatto uno dei temi portanti del suo lavoro di ricerca.

Il mondo contemporaneo, per Bauman, non presenta più spazi vuoti, dove allontanare dalla nostra presenza i materiali che non ci servono più, come accadeva in molte civiltà preindustriali. Ma non presenta più neanche spazi sociali vuoti, verso cui sospingere l’umanità che eccede il fabbisogno del sistema produttivo; quell’umanità che in passato era stata mandata a popolare le colonie (a partire dalle Americhe), considerate spazi socialmente vuoti, perché i popoli che le abitavano non venivano considerati membri dell’umanità.

Oggi quegli spazi sociali non ci sono più e le «vite di scarto”, le persone di cui non si sa più che fare, cioè non si ha un interesse diretto a mettere al lavoro (come oggi succede soprattutto con i profughi e i migranti di troppo) finiscono per costituire una delle principali contraddizioni con cui si confronta la società contemporanea. Come i residui inquinanti e i gas climalteranti prodotti o emessi come scarti dal sistema produttivo costituiscono la principale minaccia per la vivibilità futura del nostro pianeta, così gli esseri umani «di troppo”, che il sistema produttivo condanna a una vita di scarto, rappresentano una delle principali contraddizioni che minacciano l’equilibrio degli attuali, iniqui, assetti sociali.

C’è dunque un rapporto diretto tra degrado dell’ambiente ed esclusione sociale: «non ci sono due crisi, una ambientale e l’altra sociale» (139); sono due risvolti di un processo unico. E non si può contrastare e combattere l’enorme mole di ingiustizia che contraddistingue il mondo di oggi senza porre rimedio anche a un atteggiamento verso la terra e le sue risorse che non si ispira alle regole della cura della casa comune, e che non fa dell’essere umano il loro custode.

Le manifestazioni principali di questo squilibrio, di questo oblio della cura che dovrebbe improntare di sé tutti i nostri rapporti, sia con l’ambiente che con l’umanità, si possono vedere nel ruolo assunto dal denaro come unico metro di misura di ciò che vale e merita di essere perseguito e nel potere crescente della finanza, che, nella sua corsa all’accumulazione, non rispetta né l’essere umano né l’ambiente.

Alla cultura dello scarto, equiparata tout court al modello di sviluppo in auge - «non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone» (43) - Francesco contrappone il progetto della conversione ecologica; un altro concetto, questo, ripreso da un autore molto presente in tutto lo sviluppo dell’enciclica, anche se mai citato: Alex Langer.

Se la cultura dello scarto descrive e denuncia le criticità del presente, dello stato di cose in essere, la conversione ecologica prospetta e delinea il futuro, la strada da seguire per riportare la terra, la convivenza umana, e la convivenza dell’essere umano con l’ambiente, entro i limiti della sostenibilità.

Come già Langer, anche Francesco evidenzia i due aspetti fondamentali della conversione ecologica: da un lato c’è quello «oggettivo”, costituito da un sistema economico, O modello di sviluppo, in cui la produzione sia al servizio degli esseri umani e non viceversa. In questa dimensione fondamentale risulta essere l’aspetto temporale, cioè l’abbandono del paradigma della velocità: «dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo» (191).

Ma Francesco entra anche nel merito delle cose da fare: «in ambito nazionale e locale c’è sempre molto da fare, ad esempio promuovere forme di risparmio energetico. Ciò implica favorire modalità di produzione industriale con massima efficienza energetica e minor utilizzo di materie prime, togliendo dal mercato i prodotti poco efficaci dal punto di vista energetico o più inquinanti. Possiamo anche menzionare una buona gestione dei trasporti o tecniche di costruzione e di ristrutturazione di edifici che ne riducano il consumo energetico e il livello di inquinamento. D’altra parte, l’azione politica locale può orientarsi alla modifica dei consumi, allo sviluppo di un’economia dei rifiuti e del riciclaggio, alla protezione di determinate specie e alla programmazione di un’agricoltura diversificata con la rotazione delle colture. È possibile favorire il miglioramento agricolo delle regioni povere mediante investimenti nelle infrastrutture rurali, nell’organizzazione del mercato locale o nazionale, nei sistemi di irrigazione, nello sviluppo di tecniche agricole sostenibili. Si possono facilitare forme di cooperazione o di organizzazione comunitaria che difendano gli interessi dei piccoli produttori e preservino gli ecosistemi locali dalla depredazione. È molto quello che si può fare!» (139).

Niente a che fare con la negazione del ruolo dell’innovazione: «la diversificazione di una produzione più innovativa e con minore impatto ambientale può essere molto redditizia. Si tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo» (191).

Poi c’è l’aspetto «soggettivo» della conversione ecologica, che risiede in un diverso modello di consumo, improntato alla sobrietà e al consumo critico, a un altro stile di vita, a un impegno responsabile in direzione della sostenibilità.

In entrambi questi risvolti la conversione ecologica non può tuttavia essere una scelta solo individuale: è sempre, anche – ricorda Francesco – una «conversione comunitaria» (219): un’azione collettiva che richiede partecipazione e impegna al conflitto.

Questa parte dell’enciclica che promuove e legittima la lotta dei poveri e degli esclusi contro l’ingiustizia, le diseguaglianze e il degrado della vita rimanda direttamente alle parole, a quell’invito a lottare per i propri diritti, che Francesco aveva rivolto ai rappresentanti dei movimenti popolari nell’incontro citato del 28 ottobre dell’anno scorso.

Ma rispetto all’elaborazione di Langer, che risale a oltre vent’anni fa, nello sviluppare il tema della conversione ecologica Francesco aggiunge, o evidenzia maggiormente, due aspetti. Da un lato il nesso stretto tra un sistema produttivo compatibile con i limiti fisici del pianeta e la giustizia sociale, come sua componente intrinseca; perché le vittime principali del dissesto ambientale sono i poveri della terra. Sono i diritti della terra a dover essere salvaguardati, perché senza di loro l’ingiustizia è destinata a trionfare anche nei rapporti reciproci tra gli esseri umani.

Dall’altro, Francesco sottolinea LA dimensione spirituale della conversione ecologica, certo non assente in Langer, che era anche lui un cristiano. A questa dimensione spirituale Francesco attribuisce un connotato preciso: è la capacità di entrare in consonanza con tutto il vivente. In questa enciclica IL rapporto tra l’essere umano e dio non è mai affrontato in modo diretto, ma è sempre mediato dall’atteggiamento – e dal comportamento – del genere umano verso il creato, come nel Cantico di San Francesco a cui si ispira l’enciclica.

Se, come scriveva Alex, «la conversione ecologica potrà affermarsi solo se sarà socialmente accettabile”, ora Francesco cerca di esplicitare, dal punto di vista spirituale, che cos’è che può promuovere quell’accettabilità sociale che ne condiziona l’affermazione: è la capacità di entrare in sintonia con tutto il vivente; anche l’essere più infimo e apparentemente insignificante, a cui l’enciclica dedica un’attenzione non minore di quella accordata ai grandi problemi della terra.

E’ un tema che non si può più evitare di introdurre e far valere in tutti i nostri discorsi, le nostre elaborazioni e le nostre pratiche: sia quelle di lavoro o di ordinario svolgimento della nostra vita quotidiana, sia quelle di partecipazione alla lotta politica, al confronto culturale e al conflitto sociale.

Il nostro rischio di cancro è solo un sintomo, del vero cancro che si sta mangiando il territorio che abbiamo sotto i piedi, e che alimentiamo anche con le abitudini di consumo: più che mai insomma è ancora valida la famosa massima secondo cui il personale è politico. Today, 2 novembre 2015

Il comunicato stampa dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sul rapporto fra consumi di carni e incidenza di alcuni tipi di tumori, ha suscitato prevedibili reazioni, soprattutto dalle parti della pancia della società, a cui era rivolto. Questo ventre collettivo ha rapidamente riversato tra i social e altri tipi di media la classica reazione di chi punto in un'area assai sensibile scatta allarmato e reagisce di istinto, di solito nel modo più sbagliato e controproducente. Al netto di sarcasmi vari, anche giustificati dal modo in cui la stampa ha diffuso la notizia, questi commenti suonavano più o meno: «il cotechino non fa venire il cancro, perché è buonissimo col purè e me lo faceva mia nonna». Ecco, con ovvie varianti personali e regionali, la frase ricorrente suonava proprio così, mescolando sia la solita corrente culturale tradizionalista che guarda al mitico passato da cartolina come riferimento costante, sia una visione soggettiva che, ovvia se parliamo dei gusti personali, lo diventa molto meno se su quei gusti personali vogliamo costruire una immagine del mondo.

Perché di che mondo ci parlava, quella OMS mondiale per definizione e che di mondiale deve per forza avere la prospettiva? Ci parlava di un mondo dove quote assolutamente maggioritarie delle proteine animali desinate all'alimentazione umana viaggiano su filiere che paiono studiate apposta per riprodurre il peggio della logica industriale: dall'accaparramento di vastissimi territori remoti, strappati agli agricoltori tradizionali e convertiti in gigantesche macchine da allevamento tritatutto; ai sistemi di alimentazione del bestiame, ingollato a milioni e milioni di esemplari in batteria peggio delle peggiori oche da fois gras delle leggende; alle fucine di satanasso della lavorazione e distribuzione finale del frullato industriale, con la ciliegina dell'etichetta-logo e della pubblicità magari salutista-tradizionale (un bel panorama agreste sulla confezione non si nega a nessuno).

Tutto questo per una clientela prevalentemente urbana, che nulla sa dei criteri di sfruttamento delle risorse agricolo-territoriali, e si immagina magari sul serio che quel brandello di bestia che gli fuma nel piatto guarnito di verdure e aromi, venga davvero dall'animale sorridente disegnato in etichetta, da quegli sfondi collinari col casale in prospettiva, dal tizio baffuto col cappello di paglia delle pubblicità interpretato da un attore professionista. Nulla sa, quella clientela urbana che rischia il cancro, al 15% o 10% in più o chissà quanto, i calcoli sono ovviamente perfettibili, del fatto più importante: il cancro vero è quello delle forme di produzione, delle quantità di proteine animali indispensabili a garantire quei prezzi e quel mercato, nell'attuale modello alimentare. Semplicemente, se ci fosse sul serio la famosa produzione locale sostenibile, a chilometro zero, magari dentro qualche «greenbelt» metropolitana dove è possibile l'allevamento da carne, il cotechino col purè (o l'hamburger, o il prosciutto, o la bistecca) lo assaggeremmo poche volte l'anno, pagandolo un occhio come merita, esattamente come i nostri nonni quando la filiera produttiva assomigliava parecchio a quel modello. Quello che ci dice implicitamente, il comunicato dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, è che il nostro rischio di cancro è solo un sintomo, del vero cancro che si sta mangiando la terra che abbiamo sotto i piedi, e che alimentiamo anche con certe pessime abitudini alimentari e di consumo. Una volta capito questo, poi, torniamo pure a sfottere, a dare dei pervertiti ai vegetariani o a chiunque discuta di ambiente o etica, siamo in democrazia e possiamo pure farlo, no?

Ciò che bisogna fare per evitare il disastro del pianeta e dei suoi abitanti (con un'omissione). Un testo da distribuire nelle piazze, nelle scuole e nei mercati. QualEnergia, settembre ottobre 2015, con postilla

Il mondo arriva decisamente impreparato al prossimo vertice di Parigi. Se i ripetuti allarmi di tanti scienziati, e non solo di quelli IPCC (Intergovernmental Panel for Climate Change), ha fatto breccia sulla parte più avvertita, ma non certo sulla maggioranza, dell’opinione pubblica, inconsapevolezza e irresponsabilità dominano a livello planetario l’establishment politico. Il quale è stato sì edotto del problema e non può più far finta di ignorarlo (anche se al suo interno le lobby negazioniste continuano a esercitare una massiccia influenza); ma continua per lo più a trattare i cambiamenti climatici, che sono già in corso, come tutti possono constatare, e non riguardano solo un remoto futuro, come una “grana” di cui ci si deve occupare quando viene messo all’ordine del giorno, e che richiede tutt’al più qualche misura e qualche investimento ad hoc; non un cambiamento radicale, e in tempi brevi, di tutto l’assetto non solo economico produttivo ma anche sociale.

E’ quello che evidenzia Naomi Klein nel suo ultimo libro Una rivoluzione ci salverà, quando scrive che “ha ragione la destra”. La quale, soprattutto negli USA, dove è strettamente legata al mondo del petrolio, ha capito che liberarsi dei combustibili fossili non significa solo sostituire una tecnologia con un’altra, petrolio, metano e carbone con fonti rinnovabili; ma che per farlo occorre ridisegnare “dal basso”, e in modo democratico, cioè partecipato, tutta l’organizzazione sociale: una cosa che la destra non è assolutamente disposta ad accettare, costringendola ad allinearsi ad oltranza con le posizioni negazioniste.
Ma altrove, cioè al centro, tra coloro che tengono le redini dei governi (la sinistra è quasi ovunque scomparsa dalla faccia della Terra), ci si continua a comportare come se il problema non fosse questo: a parlare di crescita e di sviluppo come se, chiuso il dossier cambiamenti climatici, il problema centrale fosse quello di rimettere in moto, costi quel che costi, il PIL. Tipica di questo atteggiamento, è la strategia energetica nazionale (SEN) dell’Italia varata dal Governo Monti, confermata da Letta e peggiorata da Renzi, dove i capitoli sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza energetica convivono col programma di estendere le trivellazioni su tutto il territorio nazionale e di trasformare il paese in un hub per distribuire metano a tutto il resto d’Europa.
In termini di inconsapevolezza e di irresponsabilità la grande stampa di informazione e i media non sono da meno: tutti hanno le loro pagine e i loro servizi sui cambiamenti climatici (anche se il Corriere della Sera continua a riproporre in sempre nuove versioni tesi negazioniste), ma, voltata pagina, si torna regolarmente a parlare di crescita e sviluppo in termini di un ritorno alla “normalità”: a stili di vita e modelli di consumo di sempre.

La conseguenza di tutto ciò è che il pubblico non è stato messo in grado, nemmeno dalle trasmissioni e dagli articoli più seri e informati, di rendersi conto che “niente tornerà più come prima”. E questo, sia che la Terra continui imperterrita la sua marcia verso la catastrofe climatica, sia che finalmente si imponga un cambio di rotta come quello che molti si aspettano dal vertice di Parigi. E’ un po’, ma in una scala enormemente maggiore, lo stesso atteggiamento che si è andato consolidando di fronte alla crisi del 2008, che per molte economie del mondo si è andata trascinando fino ad oggi.

Pochi sono stati aiutati a capire – e quelli che lo hanno capito lo hanno fatto a proprie spese – che niente può tornare come prima: che l’epoca degli alti salari, della piena occupazione, dei consumi di massa, del lavoro sicuro e del welfare garantito dallo Stato (istruzione, sanità, pensione e indennità di disoccupazione) è finita per sempre; e che le condizioni che rendono possibile un lavoro e una vita dignitosa per tutti impongono un cambiamento radicale degli assetti economici e sociali.
I due problemi, peraltro, quello dei cambiamenti climatici e quello della crisi economica permanente, sono tra loro strettamente legati, perché la via di uscita è la stessa: un insieme di tecnologie decentrate e distribuite, una organizzazione sociale partecipata, una condivisione generalizzata delle responsabilità sia in campo produttivo che nelle scelte economiche e politiche, un diverso modello di consumo.

Se andiamo a vedere quali sono gli ambiti, le filiere, i settori che oggi dipendono maggiormente dai combustibili fossili – e che quindi richiedono con maggiore urgenza una rapida e radicale riconversione – non è difficile individuarne quattro; oltre, ovviamente, la generazione elettrica.

Innanzitutto la mobilità: il modello fondato sulla motorizzazione individuale non è sostenibile e l’alimentazione elettrica dei veicoli non ne cambierebbe sostanzialmente l’impatto. Una vettura ogni due abitanti (la media dei paesi sviluppati; l’Italia ha un tasso di motorizzazione ancora più elevato) in un pianeta che tra trent’anni ospiterà dieci miliardi di esseri umani (per poi, finalmente fermarsi), oltre a consumi insostenibili, che metterebbero a dura prova la possibilità di garantirli con fonti rinnovabili, non troverebbero suolo sufficiente per muoversi né per parcheggiare.

La soluzione è a portata di mano ed è la condivisione del veicolo resa possibile dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC): car-sharing, car-pooling e trasporto a domanda (taxi collettivo), distribuzione condivisa delle merci (city logistic) sono ormai presenti in varie versioni, rudimentali o sofisticate, in tutto il mondo e si stanno diffondendo a ritmo serrato. Naturalmente hanno bisogno di un’integrazione intermodale con il trasporto di massa lungo le linee di forza della mobilità: la promozione dell’intermodalità è un’attività complessa, che richiede una cura particolare. Ma ben poco è stato fatto finora per aiutare la popolazione a concepire la propria vita, e a riorganizzarla, senza contare su una propria automobile personale.
Meno ancora per garantire che sevizi adeguati di mobilità flessibile vengano messi a disposizione di tutti. Eppure, in nessun settore come in quello della mobilità si dimostra che è l’offerta a creare la relativa domanda: nessuno aveva, né avrebbe potuto, creare una domanda di car-sharing fino a che un servizio del genere non fosse stato attivato. Ma mobilità sostenibile significa anche riduzione degli spostamenti: un problema che tocca direttamente i rapporti con la pubblica amministrazione (e-government) e il telelavoro, nei confronti dei quali non si intravvedono misure di promozione adeguate, e soprattutto il contenimento dello sprawl urbano e del conseguente consumo di suolo, dove si mettono in gioco interessi immobiliari quasi altrettanto potenti e “intoccabili” di quelli dell’industria petrolifera.

In secondo luogo i consumi del settore civile: edilizia residenziale e di servizio, soprattutto per quanto riguarda riscaldamento e climatizzazione: anche in questo campo le tecnologie per ridurre drasticamente i consumi, e per convertirli alle fonti rinnovabili o a un uso diffuso della cogenerazione sono ampiamente testate, sia sulle nuove costruzioni che sugli edifici esistenti, di qualsiasi epoca. Ma diffonderle su tutto il patrimonio esistente è un’impresa titanica: non solo per l’entità dell’investimento, che richiederebbe comunque una complessa articolazione per ripartire la spesa tra intervento pubblico, incentivazione dell’investimento privato e soluzioni finanziarie ad hoc. Ma l’articolazione riguarda soprattutto il mix di fonti rinnovabili, di interventi impiantistici, di ristrutturazioni edilizie, di soluzioni finanziarie e soprattutto di strumenti di comunicazione e di divulgazione che richiedono un approccio specifico, non solo edificio per edificio e territorio per territorio, ma anche interlocutore per interlocutore: diverso è ovviamente l’approccio a una proprietà individuale, a un condominio, a una piccola o media impresa, all’unità locale di un grande gruppo.

Oggi gli interventi vengono per lo più promossi e proposti in ordine sparso, mentre attrezzare squadre pluridisciplinari di tecnici in grado di fare un check-up integrato e una progettazione di massima degli interventi possibili in ogni edificio è la premessa perché ciascuno - proprietari, inquilini, amministratori, imprenditori, manager e dipendenti – si confronti con la responsabilità di rendere sostenibile la porzione di territorio in cui vive e lavora. E’ poi più che ovvio che dal punto di vista occupazionale un intervento a tappeto di questo genere è la premessa per un grande piano pluriennale in grado di creare milioni di posti di lavoro e di compensare qualsiasi perdita occupazionale derivasse dal ridimensionamento dei settori più direttamente legati all’uso dei combustibili fossili.

In terzo luogo - ma forse al primo – occorrerà rivoluzionare le nostre abitudini alimentari. Oggi, in media, per ogni caloria di cibo che arriva sulla tavola di un consumatore occidentale (o dalle abitudini alimentari occidentalizzate), ne vengono consumate nove-dieci di origine fossile: concimi, pesticidi, motorizzazione, trasporto (anche intercontinentale), stoccaggio, manipolazione, confezione, imballaggio e pubblicità rendono il sistema agroalimentare insostenibile. La filiera agroalimentare dovrà cambiare radicalmente: l’agricoltura dovrà essere ecologica (usando fertilizzanti naturali e privilegiando la protezione biologica delle colture), multicolturale, per salvaguardare la fertilità dei suolo, multifunzionale, per garantire ai produttori fonti di reddito diversificate, di prossimità per evitare costi di trasporto e stoccaggio eccessivi.

In gran parte questa trasformazione dipenderà dalle scelte dei consumatori, che dovranno associarsi per garantirsi attraverso un rapporto il più diretto con i produttori, un’alimentazione di qualità, a basso impatto ambientale, prodotta il più possibile da aziende agricole e di trasformazione di prossimità: il che potrebbe cambiare radicalmente l’aspetto del territorio periurbano delle città grandi e piccole, a partire dalla grande diffusione che stanno avendo gli orti urbani, che impegnano spesso in modo condiviso gli stessi consumatori finali in forme che segnano un cambiamento radicale di filosofia e stile di vita.

Ma un cambiamento del genere dovrebbe anche segnare il progressivo ridimensionamento del ruolo di quei templi moderni del consumo che sono il super e l’ipermercato, o il centro commerciale, intorno a cui il capitalismo degli ultimi decenni ha riorganizzato non solo la geografia dei centri urbani (con la desertificazione commerciale di interi quartieri e la scomparsa dei negozi di vicinato) e con essa la quotidianità del cittadino-consumatore costretta a gravitare intorno a questi poli di attrazione, ma anche la struttura planetaria della produzione. Oggi la grande catena di distribuzione, che serve milioni di consumatori, che si approvvigiona in tutto il mondo da decine di migliaia di fornitori che può coinvolgere e abbandonare in qualsiasi momento, che incassa cash e paga a due o tre mesi, sviluppando un’enorme potenza finanziaria, rappresenta le caratteristiche peculiari di un’economia globalizzata assai più dell’industria automobilistica che aveva fornito il modello di organizzazione del lavoro durante tutto il “secolo breve” del fordismo.

Infine viene la gestione dei rifiuti, che sono le miniere del futuro, mano a mano che le vene di minerali che oggi alimentano l’industria si assottigliano, rendendo sempre più ardua e costosa l’estrazione, e che le risorse rinnovabili utilizzate per sostituirle entrano in competizione con la produzione di cibo. Oggi è facile sottovalutare o addirittura irridere alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani, anche da parte di quegli amministratori che ne hanno la responsabilità diretta. Perché non si coglie, e non viene spiegato, che dietro ogni chilo di rifiuti urbani ce ne sono quattro o cinque di rifiuti della produzione, che vanno anch’essi raccolti e trattati allo stesso modo (cosa peraltro assai più facile, perché vengono generati sempre in grandi lotti relativamente omogenei); che il modo migliore di trattarli non è quello di mandarli a smaltimento, ma di incanalarli direttamente verso quegli impianti che li possono rigenerare o riciclare; ma soprattutto che è solo dall’analisi del perché e come un bene si trasforma in un rifiuto che possono venire gli input di una radicale rivoluzione industriale: di una produzione che invece di promuovere l’obsolescenza dei suoi prodotto, trasformandoli in rifiuti per poterne vendere continuamente di nuovi, torni a progettarli per farli durare, per cambiarne solo le componenti logore o obsolete, o per facilitare comunque il riciclo di tutti i materiali di cui è composto il bene prodotto. In nessun campo come in questo la responsabilità di un cambiamento radicale del sistema è condivisa tra cittadini consumatori, amministratori locali, legislatore, sistema produttivo, cioè imprese, e progettisti, cioè designer. L’ecodesign oggi è un campo di azione ai margini di una cultura produttiva fondata e orientata allo spreco delle risorse. Deve diventare il nocciolo di ogni progetto di riconversione produttiva.

postilla

L’elenco delle pratiche che si dovrebbero attivare se si volesse davvero affrontare il tema trattato da Viale è quasi del tutto completo, ed è chiaramente argomentato nell’enunciazione della necessità di ciascuno degli elementi. Così com’è chiarissima la condizione di fondo che dovrebbe sorreggere il tutto: la convinzione che l’obiettivo centrale è il superamento dell’attuale modo di produrre e di consumare (che è quello del capitaliso giunto alla sua ultima incarnaziome). Manca però un elemento: la necessità di adottare il metodo e gli strumenti della pianificazione del territorio, a tutte le scale dell’habitat dell’uomo. Se il territorio è una realtà olistica solo un metodo e un insieme di strumenti capaci di governare la complessità sono capaci di ordinare tra loro i vari elementi: dalla mobilità delle persone e delle cose alla distribuzione delle abitazioni e delle attività, dalle regole per le costruzioni e i manufatti a quelle per conservazione/utilizzazione delle risorse naturali ecc. L’abolizione della pianificazione del territorio e la liquidazione delle competenze in materia delle istituzioni democratiche ha costituito un passaggio essenziale nella corsa all’appropriazione individuale dei patrimoni e delle risorse comuni.

«Cambiamento possibile. L’immigrazione e il cambiamento climatico saranno i temi centrali del confronto politico per i prossimi decenni. Le prospettive puramente nazionali o istituzionali sono del tutto insufficienti ad intaccare questi problemi». Il manifesto, 30 ottobre 2015


Due temi oggi cen­trali, appa­ren­te­mente distinti, andreb­bero invece con­nessi in modo diretto.

Primo, la COP 21 di Parigi, forse ultima occa­sione per un’inversione di rotta sul riscal­da­mento glo­bale che rischia di ren­dere irre­ver­si­bili i cam­bia­menti cli­ma­tici già in corso. A que­sta minac­cia abbiamo da tempo con­trap­po­sto il pro­gramma di una con­ver­sione eco­lo­gica, sulle tracce di Alex Lan­ger e, ora, anche dell’enciclica Lau­dato si’ e del libro Una rivo­lu­zione ci sal­verà dove Naomi Klein spiega che abban­do­nare i com­bu­sti­bili fos­sili richiede un sov­ver­ti­mento radi­cale degli assetti pro­dut­tivi e sociali; per que­sto le destre con­ser­va­trici, e non solo loro, sono fero­ce­mente nega­zio­ni­ste. L’aggressione alle risorse della terra si lega alla povertà e alle dise­gua­glianze del pia­neta: sia nei rap­porti tra Glo­bal North e Glo­bal South, sia all’interno di ogni sin­golo paese: ciò che uni­sce in un unico obiet­tivo giu­sti­zia sociale e giu­sti­zia ambientale.

Secondo, i pro­fu­ghi. La distin­zione tra pro­fu­ghi di guerra e migranti eco­no­mici, su cui i governi dell’Ue stanno costruendo le loro poli­ti­che di difesa da que­sta pre­sunta inva­sione di nuovi «bar­bari», non ha alcun fon­da­mento: entrambi sono in realtà «pro­fu­ghi ambien­tali», per­ché all’origine delle con­di­zioni che li hanno costretti a fug­gire dai loro paesi, cosa che nes­suno fa mai volen­tieri, c’è una inso­ste­ni­bi­lità pro­vo­cata dai cam­bia­menti cli­ma­tici, dal sac­cheg­gio delle risorse locali, dalla penu­ria di acqua, dall’inquinamento dei suoli, tutti feno­meni in larga parte pro­dotti dall’economia del Glo­bal North. Il pro­blema occu­perà tutto lo spa­zio del discorso poli­tico e del con­flitto nei pros­simi anni. E, nel ten­ta­tivo di sca­ri­car­sene a vicenda l’onere, sta divi­dendo tra loro i governi dell’Unione euro­pea che ave­vano invece tro­vato l’unanimità nel far pagare alla Gre­cia la sua ribel­lione con­tro l’austerità. L’Ue, non come isti­tu­zione, e nean­che nei suoi con­fini, bensì come ambito di un pro­cesso sociale, cul­tu­rale e poli­tico che abbrac­cia insieme all’Europa tutto lo spa­zio geo­gra­fico e poli­tico coin­volto da que­sti flussi, deve restare un punto di rife­ri­mento irri­nun­cia­bile per una pro­spet­tiva poli­tica che, rin­chiusa a livello nazio­nale, non ha alcuna pos­si­bi­lità di affermarsi.

Coloro che si sono riu­niti per affer­mare un loro posi­zio­na­mento rias­sunto nelle for­mule «No all’euro, No all’UE, No alla Nato» (decli­nate in ter­mini di sovra­nità nazio­nale, anche con lo slo­gan «Fuori l’Italia dalla Nato», che lascia da parte l’Europa) si sono dimen­ti­cati dei pro­fu­ghi. Nella loro pro­spet­tiva a fron­teg­giare i flussi pre­senti e futuri, sia con i respin­gi­menti che con l’accoglienza, reste­reb­bero solo gli unici due punti di approdo di que­sto esodo: Ita­lia e Gre­cia. Ma men­tre l’Europa nel suo com­plesso avrebbe le risorse per farvi fronte, l’Italia, con una recu­pe­rata sovra­nità — posto che la cosa abbia senso e sia rea­liz­za­bile – ne rimar­rebbe schiac­ciata: il che forse rien­tra tra le opzioni della gover­nance euro­pea, non tra le nostre.

Quei flussi migra­tori stanno però creando una frat­tura sociale, cul­tu­rale e poli­tica anche all’interno di ogni paese: tra una com­po­nente mag­gio­ri­ta­ria, ma non ancora vin­cente, di raz­zi­sti, che vor­reb­bero sba­raz­zarsi del pro­blema con le spicce, e una com­po­nente soli­dale, oggi mino­ri­ta­ria, ma tutt’altro che insi­gni­fi­cante (come lo è invece la mag­gior parte della sini­stra europea).

Tra loro i governi dell’Europa si bar­ca­me­nano: dopo aver aiz­zato il loro elet­to­rato, per fide­liz­zarlo, con­tro i popoli fan­nul­loni e paras­siti che sareb­bero all’origine della crisi eco­no­mica, si ren­dono ora conto che quel tema gli sta sfug­gendo di mano e viene ripreso, in fun­zione anti-migranti, da forze ben più capaci di loro di met­terlo a frutto.

Se per fer­mare quei flussi bastasse adot­tare misure molto dure, come bar­riere, respin­gi­menti, ester­na­liz­za­zione dei campi, esclu­sione sociale e car­ce­ra­zione, pro­ba­bil­mente avreb­bero già vinto i nostri anta­go­ni­sti. Ma le cose non stanno così.

Innan­zi­tutto quei pro­fu­ghi e migranti sono già, per molti versi, cit­ta­dini euro­pei, per­ché si sen­tono tali: vedono nell’Europa la zona forte di un’area molto più vasta, quella dove si mani­fe­stano gli effetti dei pro­cessi – guerre, dit­ta­ture, deva­sta­zioni, cam­bia­menti cli­ma­tici – che li hanno costretti a fuggire.
Pen­sano all’Europa come a un loro diritto: un sen­tire che li pone in aperto con­flitto con i governi dell’Unione, che di quel diritto non ne vogliono sapere. Per que­sto sono una com­po­nente fon­da­men­tale del pro­le­ta­riato euro­peo che esige un cam­bia­mento di rotta fuori e den­tro i con­fini dell’Unione.

Poi, sigil­lare la «for­tezza Europa» non è sem­plice: signi­fica addos­sarsi la respon­sa­bi­lità di una strage con­ti­nua e cre­scente che scon­fina con una poli­tica di ster­mi­nio pia­ni­fi­cata e orga­niz­zata: un pro­cesso già in corso da tempo e taciuto nel suo svol­gi­mento quo­ti­diano. Ma quanti sanno che i morti nei deserti, durante la tra­ver­sata verso i porti di imbarco, sono più nume­rosi degli anne­gati nel Mediterraneo?

Terzo: la chiu­sura delle fron­tiere non può che tra­dursi in feroce irri­gi­di­mento degli assetti poli­tici interni: repres­sione, auto­ri­ta­ri­smo, disci­pli­na­mento e limi­ta­zione delle libertà; a com­ple­mento delle poli­ti­che di austerità.

Infine, in una pro­spet­tiva di mili­ta­riz­za­zione sociale non c’è spa­zio per la con­ver­sione eco­lo­gica e la lotta con­tro i cam­bia­menti cli­ma­tici. Ma il dete­rio­ra­mento di clima e ambiente pro­ce­derà comun­que, tro­vando la for­tezza Europa sem­pre più impre­pa­rata sia in ter­mini di miti­ga­zione che di adattamento.

Per que­sto acco­glienza, inclu­sione e inse­ri­mento sociale e lavo­ra­tivo dei pro­fu­ghi si inne­stano sui pro­grammi di con­ver­sione eco­lo­gica: attra­verso diversi passaggi:
  1. occorre pren­dere atto che i con­fini dell’Europa non coin­ci­dono né con quelli dell’euro, né con quelli dell’Unione o della Nato, ma abbrac­ciano tutti i paesi da cui pro­ven­gono i flussi mag­giori di migranti: Medio Oriente, Magh­reb, Africa subsahariana.
  2. occorre saper vedere nei pro­fu­ghi che rag­giun­gono l’Europa, o che sono già inse­diati in essa, ma anche in quelli mala­mente accam­pati ai suoi con­fini, i refe­renti – gra­zie anche ai rap­porti che con­ti­nuano a intrat­te­nere con le loro comu­nità di ori­gine – di un’alternativa sociale alle forze oggi impe­gnate nelle guerre, nel soste­gno alle dit­ta­ture e nelle deva­sta­zioni dei ter­ri­tori che li hanno costretti a fug­gire. Non c’è par­ti­giano della pace migliore di chi fugge dalla guerra; né soste­ni­tore della rina­scita del pro­prio paese più con­vinto di chi ha subito le con­se­guenze del suo degrado.
  3. Dob­biamo vedere nell’inserimento lavo­ra­tivo dei pro­fu­ghi una com­po­nente irri­nun­cia­bile della loro inclu­sione sociale e poli­tica. Per que­sto occor­rono milioni di nuovi posti di lavoro, un’abitazione decente e un’assistenza ade­guata sia per loro che per i cit­ta­dini euro­pei che ne sono privi. Non biso­gna ali­men­tare l’idea che ai pro­fu­ghi siano desti­nate più risorse di quelle dedi­cate ai cit­ta­dini euro­pei in difficoltà.
La con­ver­sione eco­lo­gica e, ovvia­mente, la fine delle poli­ti­che di auste­rità pos­sono ren­dere effet­tivo que­sto obiet­tivo. I set­tori in cui è essen­ziale inter­ve­nire sono noti: fonti rin­no­va­bili, effi­cienza ener­ge­tica, agri­col­tura e indu­stria di pic­cola taglia, eco­lo­gi­che e di pros­si­mità, gestione dei rifiuti, mobi­lità soste­ni­bile, edi­li­zia e sal­va­guar­dia del ter­ri­to­rio. Oltre agli ambiti tra­sver­sali: cul­tura, istru­zione, salute, ricerca.

L’establishment euro­peo non ha né la cul­tura, né l’esperienza, né gli stru­menti per affron­tare un com­pito del genere; ha anzi dimo­strato di non volere acco­gliere né inclu­dere nean­che milioni di cit­ta­dini euro­pei a cui con­ti­nua a sot­trarre lavoro, red­dito, casa, istru­zione, assi­stenza sani­ta­ria, pensioni.
Meno che mai si può affi­dare quel com­pito alle forze «spon­ta­nee» del mer­cato. Solo il terzo set­tore, l’economia sociale e soli­dale, nono­stante tutte le aber­ra­zioni di cui ha dato prova in tempi recenti — soprat­tutto in Ita­lia, e soprat­tutto nei con­fronti dei migranti — ha matu­rato un’esperienza pra­tica, una cul­tura e un baga­glio di pro­getti in que­sto campo.

Per que­sto è della mas­sima impor­tanza impe­gnarsi nella pro­mo­zione di que­sti obiet­tivi, anche uti­liz­zando la sca­denza del Forum euro­peo dell’Economia sociale e soli­dale a Bru­xel­les il pros­simo 28 gennaio.

Dato che come sempre le variabili ambiente, risorse, salute, territorio, economia e società si tengono, qualche precisazione sulla faccenda salamini o cotechini buoni o cattivi serve. La Repubblica, 27 ottobre 2015, postilla (f.b.)

La conferma che la carne rossa, soprattutto se lavorata, è da considerare una sostanza cancerogena è una notizia che va interpretata positivamente. Segna infatti una vittoria della scienza sulla malattia e non certo dei vegetariani sui carnivori. Non sarà infatti con la sognata pillola antitumore che risolveremo l’endemia del cancro sul pianeta, ma identificando ad una ad una le cause di ogni tumore, per eliminarle.

Troppo spesso il cancro è ancora oggi uno spettro che si materializza al solo evocarlo, vissuto intimamente come una maledizione o una iattura. Ricondurlo a un fenomeno umano che ha un inizio, cioè una causa, uno sviluppo e quindi anche una fine, cioè la guarigione, è fondamentale per tutti: malati, familiari, medici. L’annuncio che viene diffuso oggi dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il più autorevole organismo a livello mondiale in materia, segna dunque una pietra miliare per la prevenzione, la cura e la cultura del cancro.

È una tappa che in molti, come me, si aspettavano da tempo. Da oltre vent’anni anni io sostengo, sulla base dei primi studi epidemiologici che lo Iarc ha ora messo insieme ed analizzato, che esiste un legame causa-effetto fra consumo di carne e tumore del colon. All’inizio sono stato criticato, anche duramente, e sono stato accusato di essere un visionario, influenzato dalle mie convinzioni etiche di animalista. Ma non ero intellettualmente solo: eminenti ricercatori a livello europeo hanno sviluppato i lunghi e complessi studi di popolazione necessari a stabilire la cancerogenità di una sostanza o un alimento, tanto che già nel Codice Europeo contro il Cancro — dieci raccomandazioni di prevenzione per ridurre del 20% la mortalità per cancro in europa entro l’anno 2000 — diffuso dalla Commissione Europea per la prima volta nell’87, figurava al punto tre l’invito a mangiare più vegetali e cereali e al punto quattro la raccomandazione di limitare il consumo dei grassi contenuti principalmente nella carne.

Se dunque la cancerogenità della carne da oggi non è più in dubbio, la discussione si apre ora sulla quantità che la rende pericolosa. Medici e ricercatori a livello internazionale si sono impegnati ad evitare gli allarmismi che potrebbero spingere a pensare che una singola fetta di salame possa essere causa diretta di un tumore al colon. Nessuno afferma che sia così. L’invito è piuttosto ad una riduzione progressiva del consumo di insaccati e carne rossa, a favore di un aumento del consumo di pesce, verdura, frutta, cereali, grassi di origine vegetale. La nostra dieta mediterranea, in sostanza. Più vegetali e meno carne dovrebbe diventare non un diktat scientifico antimalattia, ma una politica per il benessere, adottata nelle scuole, nelle mense aziendali, nei ristoranti, per penetrare a poco a poco nelle famiglie e diventare cultura. Come oncologo sono fondamentalmente d’accordo con questo approccio educativo. Ma come uomo e cittadino di questo pianeta, la penso diversamente.

Il mio mondo ideale è un mondo in cui non si uccidono gli animali per ingoiarli e dunque in cui il consumo di carne è uguale a zero. Primo perché amo gli animali e dunque non li mangio. Non capisco coloro che si scandalizzano all’idea di mangiare il proprio gatto o il proprio cane, ma consumano a cuor leggero le costolette di agnello, un cucciolo delizioso e indifeso che viene massacrato strappandolo dal seno materno a pochi mesi di vita. Ritengo che gli esseri viventi facciano parte dell’equilibrio del Pianeta e i loro diritti vadano rispettati. Prima di tutto quello alla vita. Secondo, perché la carne non è un alimento sostenibile in un universo dove oggi vivono 7 miliardi di esseri umani e oltre 4 miliardi di animali da allevamento e fra poche decine d’anni, se il trend demografico continua con le attuali caratteristiche, vivranno 9 miliardi di uomini e la domanda di carne aumenterà dagli attuali 220 milioni di tonnellate a più di 460 milioni. Si prospetta l’incubo di avere più capi di bestiame che uomini sulla Terra, con una percentuale di questi esseri umani che moriranno comunque ancora di fame Come diceva Einstein, niente può aumentare le possibilità di sopravvivenza dell’uomo sulla terra quanto la scelta vegetariana.

postilla

Il professor Veronesi con questo articolo ci parla di due cose che conosce molto bene di prima mano: le patologie tumorali, e sé stesso, a cui dedica la coda del pezzo, anche a distinguere fatti da posizioni e opinioni personali. Vale certamente la pena di aggiungere un'altra coda, correttamente (stavolta) omessa dal professore per incompetenza, ed è la variabile territorio/ambiente, quella altrettanto saltata a piè pari da chi fa del sarcasmo sulle raccomandazioni dell'Oms a proposito dei consumi di carne: l'insostenibilità per la salute umana è prima di tutto una insostenibilità ambientale. Emissioni di gas serra, consumo di territorio da agro-industria e/o landgrabbing, devastazioni di paesaggi tradizionali per far posto a impattanti macchine produttrici di proteine e grassi animali da alimentazione, Expo baraccone e promozione di hamburger multinazionali. Tutto questo entra a pieno titolo nelle raccomandazioni Oms, perché quello da cui ci stanno mettendo in guardia è che il panino col salame, evocato dalle memorie della nonnina che ce lo metteva nel cestino della merenda, è solo ideologia. Aprire gli occhi, qualunque reazione poi ci evochi, è quantomeno un passo avanti (f.b.)

Le ragioni del movimento contrario all'evento dovevano essere interpretate a partire da una contraddizione di fondo: non si organizza una esposizione sui temi della sostenibilità pensando in termini insostenibili. Today blog Città Conquistatrice, 26 ottobre 2015

Escono in questi giorni le rilevazioni di medio periodo sull'andamento degli affari negli esercizi commerciali di Milano, e si nota come i mesi del grande evento espositivo abbiano o meno avute effetti di stimolo sulle economie cittadine. Le interviste ai campioni di turisti sembrano quasi completamente soddisfacenti, nel senso che la quasi totalità «promuove» Milano, le sue particolarità storiche e curiosità, l'offerta culturale delle mostre ed eventi collaterali. Questo entusiasmo però non parrebbe complessivamente riguardare il genere di cose di cui bene o male si alimenta la cosiddetta economia turistica, quella fatta di ristorazione, shopping eccetera. Lo dicono i baristi e i titolari di negozi, soprattutto fuori dal piccolissimo nucleo del centro e dei suoi triangoli magici degli stilisti e concentrazioni di folle. E viene di nuovo da ripetere quella specie di nenia del «noi l'avevamo detto», o per meglio specificare l'aveva detto in fondo fin dall'inizio l'opposizione dei No Expo.

Certo, come tutte le posizioni variamente nimby e negazioniste, anche quella del movimento contrario all'evento doveva-poteva essere interpretata, più che alimentata o contrastata, dato che c'erano ottime ragioni, a partire da una contraddizione di fondo: non si organizza una esposizione sui temi della sostenibilità pensando in termini insostenibili. Pare una contraddizione diciamo così filosofica, se non campata decisamente per aria, ma non lo è affatto. «Nutrire il Pianeta – Energia per la Vita» nel XXI secolo evoca immediatamente, specie per un pubblico di massa mediamente istruito e interessato, stili di vita e alimentazione in qualche misura innovativi, futuribili, sperimentali, certamente diversi dalla pura pappatoria, sia essa quella della trattoria dell'angolo che della pausa pranzo tramezzino in ufficio. E invece fin da subito le cosiddette «strategie» prevalenti negli organizzatori, foraggiate dalle multinazionali, hanno remato nell'altra direzione. Quando al progetto del cosiddetto Orto Planetario, molto leggero e organizzativamente diffuso, si è preferita la classicissima Fiera della Pappatoria dentro il suo recito da parco tematico.

Quando, in pratica, si è rinunciato a sfruttare in sinergia quella risorsa che era il territorio urbano e agricolo della metropoli, scegliendo invece il modello del centro commerciale suburbano chiuso nella propria scatola luccicante, che offre tutto e il contrario di tutto con comodi parcheggi e offerta tre per due. Culturalmente, e poi in modo automatico anche nei criteri organizzativi e negli equilibri, si è finito così per replicare il classico processo di concentrazione/svuotamento che da almeno mezzo secolo mette la grande distribuzione sia contro i produttori e trasformatori di materie prime, sia contro gli esercenti tradizionali. Quella specie di Disneyland costruita fra i due tracciati autostradali ai limiti dell'area urbana, svolge perfettamente quel ruolo di aspiratore di tutto quanto, e insieme di banalizzazione, essendo progettata da manuale in quel modo. E tradisce il proprio ruolo dichiarato, anche se poi ospita dotti convegni sull'ambiente e la sostenibilità, i quali convegni e dichiarazioni non intaccano lo slogan alla McLuhan: «il medium è il messaggio». Ecco dove avevano assolutamente ragione, e ancora ce l'hanno, i No Expo: anche alla luce delle apparentemente pretestuose polemiche degli esercenti locali, appare evidente che si devecambiare strada, e farlo abbastanza alla svelta.

Un appello sul cambiamento climatico in vista dell’incontro a Parigi della COP21 firmato da Desmond Tutu, Noam Chomsky, Vivienne Westwood, Naomi Klein e un centinaio di attivisti che chiedono di “fermare i crimini climatici”. Frenare il cambiamento climatico significa ripensare radicalmente il nostro modello di società, senza false soluzioni». Comune.info, 9 ottobre 2015

Un centinaio di attivisti, accademici, figure di spicco della società civile mondiale chiamano ad un’azione globale in vista della prossima Conferenza delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico, prevista a Parigi a dicembre. Personaggi comeDesmond Tutu, Vivienne Westwood, Naomi Klein e Noam Chomsky assieme a molti altri referenti di realtà di movimento chiariscono come questo sia un momento storico, in cui è necessaria una crescente pressione dei cittadini per portare a un vero e proprio cambiamento strutturale.

“Siamo di fronte a un bivio” si legge nell’appello, pubblicato nel libro “Stop Climate Crime” prodotto e diffuso da 350.org e Attac France, tra le principali realtà mobilitate contro un modello di sviluppo insostenibile, “nel passato, uomini e donne determinati hanno resistito e sconfitto i crimini della schiavitù, del totalitarismo, del colonialismo e dell’apartheid. Decisero di combattere per la giustizia e la solidarietà e sappiamo che nessuno di loro lo avrebbe fatto per se stesso. Il cambiamento climatico è una sfida simile, e noi stiamo alimentando un’altrettanto simile reazione”. Tra i firmatari dell’appello, l’organizzazione italiana Fairwatch. “La 21a Conferenza delle Parti di Parigi è un’occasione storica – dice Alberto Zoratti, presidente di Fairwatch e delegato accreditato Ong alla COP21 – per riuscire a invertire la rotta di politiche che, piuttosto che affrontare e risolvere il dramma del cambiamento del clima e delle tragedie che si porta dietro, sembrano ignorare il problema proponendo false soluzioni”.

La recente bozza di documento negoziale resa pubblica il 5 ottobre dalle reti della società civile, mostra come l’obiettivo sostanziale sia quello di orientarsi sempre più verso un sistema non vincolante, basato su impegni volontari di riduzione delle emissioni e di stanziamento di risorse. Un approccio che risponde certamente alle esigenze delle lobbies economiche ma che non è all’altezza della sfida posta dal climate change.
“La centralità dei mercati, la liberalizzazione dei commerci sono sempre più proposti come la risposta alle crisi che stiamo vivendo” continua Zoratti. “Ma frenare il cambiamento climatico significa ripensare radicalmente il nostro modello di sviluppo, abbandonando i combustibili fossili, focalizzando risorse sulla crescita di economie e agricolture locali, sostenibili e adatte alle esigenze delle comunità e dell’ambiente. Quanto i grandi gruppi economici siano realmente interessati ad un futuro più sostenibile è dimostrato dal caso Volkswagen e da come gli standard ambientali siano troppo spesso considerati limiti da aggirare se non addirittura disarticolare, a tutto vantaggio di manager e azionisti”.

Fairwatch, tra i promotori della Campagna Stop T-tip Italia, sarà presente alla COP21 di Parigi in qualità di osservatore e parteciperà alle iniziative e alle mobilitazioni organizzate dalla piattaforma di movimento Coalition 21.

Per aderire all’appello “Fermiamo i crimini climatici” .

Intervista a Achim Steiner, direttore del programma Onu per l’ambiente: «Bisogna reinventare l’economia in tutti i campi: edilizia, trasporti, industria manifatturiera, agricoltori. Non è un’impresa impossibile». La Repubblica, 6 ottobre 2015 , con postilla

Roma. «Ormai è difficile contarli. I disastri prodotti da eventi meteo estremi, come quello che ha messo in ginocchio la Costa Azzurra, si moltiplicano a un ritmo impressionante. Dal punto di vista scientifico la situazione è chiara: è il nostro sistema produttivo a provocare il caos climatico che ci danneggia. Adesso la parola passa ai decisori, alla conferenza di Parigi chiamata a scrivere la road map verso la green economy».

Achim Steiner, direttore dell’Unep, il Programma ambiente delle Nazioni Unite, ha già fatto scattare il conto alla rovescia per l’appuntamento Onu: a dicembre, in Francia, si sceglierà il futuro climatico del pianeta. Alluvione dopo alluvione, il consenso politico è cresciuto. Ma gli impegni restano modesti. I tagli già annunciati dai governi consentono di ridurre di circa un grado l’aumento di temperatura previsto nell’arco del secolo: da 4,5 si scenderebbe a 3,5. Calcolando che la soglia di sicurezza è 2 il cammino resta lungo.
«È vero, siamo agli inizi, ma il trend si è rovesciato: abbiamo cominciato a tagliare le emissioni previste, mentre fino a ieri crescevano. Questo dimostra che cambiare è possibile. E io aggiungo che è anche conveniente dal punto di vista economico. Diminuire il consumo di combustibili fossili e passare all’efficienza, alle fonti rinnovabili, al recupero della materia utilizzata nel ciclo di produzione significa combattere lo spreco, premiare l’innovazione, dare spinta ai mercati».
C’è chi obietta che questa cura è toppo cara. È così?
«I sussidi globali a petrolio, carbone metano viaggiano attorno ai 500 miliardi di dollari l’anno. E l’assieme dei costi provocati dai combustibili fossili è stimato in 5 mila miliardi di dollari, sempre all’anno. Se destinassimo questa bolletta alla promozione dell’economia sostenibile, alla cura invece che al problema, saremmo già a un ottimo punto verso la riconversione a una società carbon neutral , che prospera senza alterare l’equilibrio di carbonio in atmosfera».
Una parte della finanza sta cominciando a prendere le distanze dai combustibili fossili, anche perché vincoli ambientali potrebbero limitarne l’uso. In quel caso scoprire nuovi giacimenti diventerebbe inutile perché non potrebbero essere usati. Pensa che questo trend possa accelerare?
«Sì, ad esempio il Fondo sovrano norvegese, il più grande del mondo, ha già deciso di disinvestire dal carbone e la Fondazione Rockefeller ha annunciato l’uscita dal business delle trivelle. Del resto l’Ipcc, il gruppo dei climatologi che da decenni studiano il riscaldamento gobale, ci ricorda che, per evitare che sia ridotta a zero la capacità produttiva di intere aree del pianeta, nella seconda metà del secolo dovranno essere ridotte a zero le emissioni di CO2. L’aumento della temperatura va fermato entro la soglia dei 2 gradi: su questo c’è ormai un consenso molto ampio».
Ma gli impegni dei governi restano assolutamente insufficienti.
«Abbiamo aperto la strada, ora si tratta di percorrerla. Occorre lavorare perché gli impegni si rafforzino in tempi brevi. Bisogna reinventare l’economia in tutti i campi: edilizia, trasporti, industria manifatturiera, agricoltori. Non è un’impresa impossibile. Basta pensare che 15 anni fa in Europa l’80 per cento dei nuovi impianti di energia funzionava con i combustibili fossili, oggi il 72 per cento dei nuovi impianti europei utilizza fonti rinnovabili».
Nei paesi di nuova industrializzazione o in corso di industrializzazione la situazione è diversa?
«Solo in parte: da due anni più del 50 per cento degli investimenti globali sull’energia viene collocato sulle fonti rinnovabili, parliamo di 270 miliardi di dollari all’anno. E queste cifre tenderanno ad aumentare anche grazie al Fondo per agevolare il trasferimento delle tecnologie pulite previsto negli accordi sul clima»

postilla

Il fatto è che «reinventare l’economia in tutti i campi: edilizia, trasporti, industria manifatturiera, agricoltori non è un’impresa impossibile», come giustamente afferma Steiner, ma è possibile a una sola condizione: che sia cancellata dalle menti e dai cuori, la credenza che lo "sviluppo", così come oggi si interpreta questo termine, sia l'obiettivo dell'uomo, della società e della politica, eche vengano abbattuti i totem derivanti da questa credenza (Pil, il Denaro).

«I politici sono soddisfatti e ottimisti: niente flop, come nel 2009, a Copenaghen. Gli scienziati e i tecnici sono preoccupati.». La Repubblica, 5 ottobre 2015 (m.p.r.)

I politici sono soddisfatti e ottimisti: niente flop, come nel 2009, a Copenaghen. È l’alba di un’era nuova per la politica: dalla conferenza di Parigi, a dicembre, uscirà un accordo mondiale sul clima. Gli scienziati e i tecnici sono preoccupati. La tempesta di violenza inattesa che devastato ieri la Costa Azzurra è l’ennesima conferma che il clima impazzito è già qui. E l’accordo di cui si parla non basta a bloccare il riscaldamento del pianeta e a impedire che, nel giro di qualche decennio, mezza Terra sia scorticata dal sole e l’altra metà (da Venezia a New York, alla stessa Copenaghen) finisca sotto il mare. Chi ha ragione? Tutt’e due.

Nelle parole pronunciate in queste settimane da papa Francesco, da Obama, da François Hollande, il presidente francese che sarà il regista della conferenza di dicembre, è quasi palpabile la sensazione che il mondo abbia acquisito una nuova consapevolezza e una nuova urgenza. Quando, l’anno dopo il fallimento di Copenaghen, a Cancun, tutti i paesi presero l’impegno a fissare limiti volontari alle emissioni di anidride carbonica, sembrò un modo di chiudere le polemiche, con il minor sforzo possibile, rinviando all’infinito gli impegni. Invece, il deterioramento del clima, dalle siccità agli uragani, ha spinto i leader mondiali a onorare la promessa. Praticamente ogni capitale ha annunciato obiettivi e strumenti di contenimento dell’effetto serra. Gli ultimi sono stati il Brasile e l’India.
Ma la svolta era venuta da Pechino, dove il paese che più di ogni altro sputa CO2 nell’atmosfera si è impegnato a bloccare le emissioni e ha annunciato la creazione, all’europea, di un mercato in cui le aziende si possano scambiare i diritti alle emissioni, all’interno di un tetto predeterminato.
Quello che preoccupa gli scienziati è che tutti questi sforzi, questi impegni, queste svolte sono insufficienti. L’obiettivo solennemente affermato a Cancun è fermare il riscaldamento del pianeta a 2 gradi centigradi, una temperatura che scongiurerebbe le grandi catastrofi di un mondo affamato e desertificato. Senza interventi, infatti, la temperatura media della Terra (con scarti ben più in alto nelle aree tropicali e subtropicali) arriverebbe, nel 2100, ad un aumento di 4,5 gradi, con effetti difficilmente quantificabili sull’intensità degli uragani, sull’estensione delle siccità. Ma gli impegni presi finora per Parigi non bloccano questa deriva. La fermano a 3 gradi e mezzo. Di tanto aumenterebbe la temperatura media del pianeta, nonostante gli impegni presi dai governi di tutto il mondo.
Questo dice il modello preparato da Climate Interactive, una fondazione, insieme al Mit, il Massachussetts Institute of Technology. Sono conti, dunque, da prendere sul serio, perché Climate Initiative non è una fondazione qualsiasi. Molti governi e, in particolare, quello americano, secondo il New York Times , usano i suoi modelli e i suoi calcoli come base dei negoziati. Di conseguenza, l’allarme lanciato dalla loro valutazione è già sul tavolo della trattativa in corso in vista di Parigi. E aiuta anche a capire qual è il suo autentico messaggio politico.
Difficilmente la conferenza di Parigi spingerà i singoli governi a modificare i livelli di contenimento della CO2 appena annunciati e definiti dopo aspri dibattiti interni. Ma la battaglia riguarderà gli impegni futuri. Un contenimento della CO2 ha senso solo se è permanente e crescente. Gli impegni che Stati Uniti, Cina e gli altri grandi paesi hanno preso hanno, però, un orizzonte che si limita al 2025 o al 2030. E dopo? La conferenza di Parigi deve prevedere sin da ora un meccanismo che non solo stabilizzi i livelli raggiunti, ma li abbassi via via sempre di più, con l’obiettivo di arrivare a emissioni zero nel 2100? Il modello preparato da Climate Initiative serve proprio a far esplodere questo problema. Il calcolo che prevede lo sfondamento del limite di 2 gradi è realizzato tenendo conto degli impegni ma anche della loro scadenza.
Il modello considera che, al 2025 o al 2030, si raggiunga un certo livello, più basso dell’attuale, di emissioni, ma che questo venga semplicemente mantenuto e non ulteriormente abbassato. A questo punto, però, la temperatura ripartirebbe verso l’alto e si arriverebbe ai 3,5 gradi del 2100. Insomma, gli impegni presi finora in vista di Parigi ci faranno guadagnare 10-15 anni di respiro, ma, se non sappiamo fin d’ora che devono aver seguito, saranno serviti a ben poco. L’alternativa è fissare subito una tabella di marcia per la lotta all’effetto serra nei prossimi decenni. Di fatto, un altro trattato di Kyoto. Un’idea che spaventa molti leader politici.
Tanto più che questa tabella di marcia, per essere credibile, dovrebbe prendere di petto l’uso o meno dei combustibili fossili. Il calcolo fatto non dagli ambientalisti, ma dai tecnici dell’Ocse, ha ricordato il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, è che, per non sfondare il tetto dei 2 gradi di riscaldamento planetario, bisogna lasciare inutilizzate sottoterra fra il 70 e l’80 per cento delle riserve di gas, petrolio e carbone esistenti. Ma questo vuol dire azzerare o quasi il patrimonio di molti giganti dell’economia, che quelle riserve hanno negli attivi dei bilanci. Solo alla Borsa di Londra, una azienda su cinque, fra le 100 più importanti, è nel settore energetico. Carney lancia l’allarme: bisogna prepararsi al fallout finanziario del cambiamento climatico. La verità è che gli interessi in gioco sono enormi e a Parigi potrebbe esserci battaglia vera con lobby fra le più potenti al mondo. Dopo il discorso di Carney, infatti, sarà più difficile far finta che il problema non esista.

All’Expo di Milano, nel cele­brato Padi­glione Zero, ho fatto una sco­perta sor­pren­dente. Una delle tante imma­gini dedi­cate ai pro­blemi... (continua a leggere)

All’Expo di Milano, nel cele­brato Padi­glione Zero, ho fatto una sco­perta sor­pren­dente. Una delle tante imma­gini dedi­cate ai pro­blemi ali­men­tari e ambien­tali, mostrava una pian­ta­gione di palme da olio, men­tre la dida­sca­lia infor­mava che essa ser­viva a pro­teg­gere la fore­sta amaz­zo­nica. Chissà quante migliaia di per­sone si sono lasciate per­sua­dere da quel mes­sag­gio. Ma è accet­ta­bile que­sto modo di pro­teg­gere la più vasta fore­sta plu­viale rima­sta sulla Terra? Il fatto che si abbat­tano alberi non per costruire edi­fici, per aprire nuovi pascoli, per impian­tare lati­fondi di soia gm, ma altri alberi, le palme, è una ope­ra­zione ambien­tal­mente benefica?

Vec­chi alberi sosti­tuiti da nuovi alberi? Ma quando si abbat­tono i vec­chi alberi, in Amaz­zo­nia, si fanno spa­rire per sem­pre piante mil­le­na­rie. E non è solo que­sto il muta­mento e il danno più rile­vante. La fore­sta plu­viale costi­tui­sce il bacino più ricco di bio­di­ver­sità pre­sente sul pia­neta. Non si abbat­tono solo gli alberi, si distrugge un eco­si­stema di grande com­ples­sità e ric­chezza, com­pren­dente uno numero incal­co­la­bile di mam­mi­feri, ret­tili, uccelli, anfibi, insetti, e poi erbe, arbu­sti, piante, fiori molti dei quali ancora sco­no­sciuti alla scienza.

Ad essere scon­volta è poi la chi­mica del suolo, la pio­vo­sità locale, il regime delle acque, il clima. Dun­que si annienta un patri­mo­nio mil­le­na­rio con i suoi sco­no­sciuti equi­li­bri per impian­tare una mono­cul­tura indu­striale con­ci­mata chi­mi­ca­mente e difesa dai paras­siti attra­verso gli anti­pa­ras­si­tari. Si tutela così l’Amazzonia?

Que­sta espe­rienza mi induce a svol­gere qual­che rifles­sione su ciò che dovremmo inten­dere per natura e per ambiente, due realtà ben diverse, che richie­dono stra­te­gie e com­por­ta­menti umani fra loro differenziati.

Il ter­mine ambiente, quale sino­nimo di mondo natu­rale, ha assunto solo di recente tale signi­fi­cato. Nell’800 indi­cava un milieu sociale o cul­tu­rale e solo nella seconda metà del ‘900 il ter­mine è stato cur­vato (e infla­zio­nato) a signi­fi­care la natura vivente. In realtà, con la parola ambiente noi indi­chiamo nor­mal­mente la natura così come la espe­riamo in Ita­lia e in Europa, vale a dire in un’area del mondo antro­piz­zata da alcune migliaia di anni. Qui ogni cosa, dell’assetto natu­rale ori­gi­na­rio - foreste, mac­chie, per­fino laghi e fiumi - è stata pro­fon­da­mente rimo­del­lata dall’azione umana. Que­sto è quel che si chiama ambiente, men­tre è natura la Fore­sta amaz­zo­nica, prima che diventi ambiente con le mono­cul­ture di palma.

Occorre dire che la distin­zione non è sem­pre cosi sem­plice e così netta. Come defi­ni­remmo oggi la Savana afri­cana? Quella vasta distesa pia­neg­giante, pun­teg­giata di radi alberi e arbu­sti e popo­lata da leoni, zebre, ele­fanti, giraffe, ecc.? Che cosa c’è di più natu­rale nell’immaginario occi­den­tale? Eppure – lo hanno sco­perto i geo­grafi nel secolo scorso – la Savana è opera dell’uomo. E’ il risul­tato della distru­zione della fore­sta ori­gi­na­ria, ope­rata dalle popo­la­zioni col fuoco e i vasti dibo­sca­menti a fini di cac­cia, crea­zione di pascoli, col­ti­va­zioni. Quella che i turi­sti osser­vano come natura sono i relitti di una radi­cale distru­zione degli anti­chi eco­si­stemi. E’ com­pren­si­bile dun­que che allor­ché un nuovo ordine natu­rale si viene a creare a opera degli uomini occorra par­lare di ambiente e non di natura. E non certo per cap­ziose ragioni seman­ti­che, ma per le diverse stra­te­gie di umano com­por­ta­mento che essa richiede. La natura va con­ser­vata così com’è, l’ambiente, che costi­tui­sce un ordine arti­fi­ciale, va tenuto nel suo nuovo equi­li­brio dall’opera umana che l’ha creata.

Qual­che esem­pio ci con­duce ai pro­blemi dell’oggi. Que­sta estate ho com­piuto un’escursione sul Monte Reven­tino, nel Parco nazio­nale della Sila. Scen­dendo per i boschi verso il comune di Decol­la­tura, sono stato let­te­ral­mente asse­diato da uno spet­ta­colo che non poteva sfug­gire nep­pure a un occhio distratto. Cen­ti­naia e sicu­ra­mente migliaia di alberi erano rico­perti e sopraf­fatti da un ram­pi­cante, spesso bian­cheg­giante per i suoi fiori a cascata. Ho rico­no­sciuto la ter­ri­bile vitalba (Cle­ma­tis vitalba). Molte aree erano let­te­ral­mente som­merse, tanti alberi erano già sec­chi, sche­le­tri che si alza­vano al cielo in mezzo a una vege­ta­zione rigo­gliosa e cao­tica. La vitalba – che Colu­mella con­si­glia di uti­liz­zare in insa­lata, come sanno ancora i nostri con­ta­dini – è una infe­stante di ter­ri­bile vita­lità: si arram­pica sugli alberi for­mando lun­ghis­sime liane e ha radici sot­ter­ra­nee che cre­scono come la parte aerea della pianta.

Abban­do­nato a se stesso, nel giro di un decen­nio quel bosco popo­lato da casta­gni, cerri, pioppi, ontani, e innu­me­re­voli arbu­sti sarà pro­ba­bil­mente distrutto. L’ambiente sarà defi­ni­ti­va­mente scon­volto, ma vin­cerà la natura, con il suo vitale e stra­ri­pante disor­dine. E’ auspi­ca­bile che ciò accada? Lasciamo che gli alberi, pian­tati dagli uomini, utili un tempo alle loro eco­no­mie, vadano in rovina? E se si vuole inter­ve­nire, che cosa occorre fare? Chie­dendo a un con­ta­dino del luogo ragione dell’invasione della vitalba, mi ha spie­gato che un tempo il pro­blema non si poneva, per­ché il bosco era bat­tuto dagli ani­mali. Ci pen­sa­vano le capre, le pecore, i maiali a tenere a bada quelle e altre infe­stanti. Sag­gia e per­sua­siva spie­ga­zione, per­ché il bosco è una crea­zione dell’uomo, ed è la sua pre­senza, la sua manu­ten­zione quo­ti­diana che man­tiene in un equi­li­brio eco­no­mi­ca­mente e ambien­tal­mente van­tag­gioso quell’ordine arti­fi­ciale da esso stesso creato.

Il caso del Monte Reven­tino è para­dig­ma­tico e denun­cia un defi­cit cul­tu­rale e poli­tico, una assenza di infor­ma­zione di rile­vante gra­vità. I nostri boschi sono in una con­di­zione di abban­dono e di insel­va­ti­chi­mento. Ho visi­tato l’Aspromonte di recente e ho tro­vato i suoi mae­stosi pini rico­perti da ster­mi­nate “nuvole” di nidi di pro­ces­sio­na­rie che ne deter­mi­ne­ranno la morte. Boschi immensi e un tempo mera­vi­gliosi sono asse­diati da eser­citi di paras­siti che avan­zano di anno in anno scac­ciando ogni pre­senza umana. I casta­gneti di tutto il nostro Appen­nino sono infe­stati da un ter­ri­bile paras­sita, il cini­pide, che impe­di­sce da anni ogni rac­colto. Men­tre ovun­que avanza, dall’Emilia in giù, la mac­chia sel­va­tica e i rovi.

Anche la que­stione dei cin­ghiali, emersa dram­ma­ti­ca­mente ad ago­sto, appar­tiene allo stesso ordine di pro­blemi. Que­sti ani­mali immessi nelle nostre selve per ripo­po­lare esem­plari da cac­cia, in virtù anche della loro cre­scita spon­ta­nea, si mol­ti­pli­cano sem­pre più nelle aree abban­do­nate della nostra Peni­sola. Il loro numero debor­dante li porta ad inva­dere le cam­pa­gne, a dan­neg­giare le col­ti­va­zioni ad arri­vare agli abi­tati in cerca di cibo. Ma anche i cin­ghiali come i nostri boschi denun­ciano che l’ordine arti­fi­ciale, l’ambiente creato dagli uomini, non è più curato, man­te­nuto nei suoi equi­li­bri ed è lasciato alla degra­da­zione. E que­sto avviene per­ché sono state abban­do­nate le anti­che eco­no­mie, svuo­tati gli abi­tati, scom­parsi i mestieri, per­duti gli umani pre­sidi che gover­na­vano il rap­porto con l’habitat locale. Così i pre­ce­denti van­taggi goduti dalle popo­la­zioni si tra­sfor­mano in danni e minacce per le nuove.

Non può dun­que non stu­pire (fino a un certo punto) il recente accor­pa­mento, voluto dal governo Renzi, del Corpo delle guar­die fore­stali con l’Arma dei cara­bi­nieri. Non che le guar­die fore­stali siano suf­fi­cienti ad affron­tare i pro­blemi accen­nati, ma inde­bo­lirne l’istituzione non è certo il modo migliore per fron­teg­giarli. In realtà l’iniziativa gover­na­tiva mostra indi­ret­ta­mente l’ignoranza grave e per­du­rante delle nostre classi diri­genti dei pro­blemi del ter­ri­to­rio nazionale.

Stiamo per­dendo patri­moni natu­rali immensi, interi paesi e bor­ghi, estesi pezzi di Peni­sola, poten­ziali luo­ghi di ric­chezza e umano benes­sere, luo­ghi in cui sono stati inve­stiti nei secoli e decenni illi­mi­tate risorse e lavoro e nes­suno, in Ita­lia, fiata. Che paese è mai que­sto dove si fa depe­rire la ric­chezza reale e stuoli di eco­no­mi­sti, truppe di diri­genti poli­tici e sin­da­cali ci assor­dano ogni giorno con le loro ricette di cre­scita senza nes­sun cenno al territorio?

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto

Come i grandi media nostrani, hanno rapidamente gettato nel dimenticatoio l'ultima enciclica di papa Francesco, così hanno totalmente ignorato questo importante documento del mondo islamico. Lo riprendiamo dal sito Lifegate, 19 agosto 2015. In calce il link al testo integrale della dichiarazione.

Redatta dai rappresentanti del mondo islamico, la Dichiarazione invita i fedeli a seguire il testo sacro per proteggere "il fragile equilibrio del pianeta".

Il simposio, tenutosi il 17 e 18 agosto 2015 a Istanbul, ha visto impegnati più di 60 rappresentanti del mondo islamico, provenienti da 20 Paesi. L’incontro si è concluso con la redazione della “Dichiarazione islamica sul cambiamento climatico“. Un’importante presa di posizione da parte del mondo islamico, che sprona il 1,6 miliardo di musulmani a prendersi cura del “fragile euqilibrio (mīzān) della Terra” e i leader politici a sottoscrivere degli accordi vincolanti durante la prossima Conferenza sul clima a Parigi, perché: “Le attività umane stanno facendo una tale pressione sulle naturali funzioni della Terra, che la capacità degli ecosistemi di sostenere le generazioni future non può più essere dato per scontato“.

Ecco alcuni dei passaggi più rappresentativi:
- Gli ecosistemi e le culture umane sono già a rischio a causa del cambiamento climatico;
- Il rischio di eventi estremi causati dal cambiamento climatico come ondate di calore, precipitazioni estreme e le inondazioni delle coste sono già in aumento;
- Questi rischi sono distribuiti ineguale, e sono maggiori per le comunità povere e svantaggiate di ogni Paese, a tutti i livelli di sviluppo;
-Gli effetti prevedibili avranno ripercussioni sulla biodiversità terrestre, sui beni e sui servizi prodotti dai nostri ecosistemi e sulla nostra economia globale;
- Gli stessi sistemi fisici della Terra sono a rischio di bruschi e irreversibili cambiamenti.

La dichiarazione afferma che:
- Dio ha creato la Terra in perfetto equilibrio (mīzān);
- La sua immensa misericordia ci ha dato terreni fertili, aria fresca, acqua pulita e tutte le buone cose sulla Terra che rendono la nostra vita qui praticabile e piacevole;
- Le funzioni naturali della Terra nei suoi cicli stagionali e naturali: un clima in cui gli esseri viventi – compreso l’uomo – possono prosperare. L’attuale catastrofe del cambiamento climatico è il risultato della perturbazione umana di questo equilibrio.

Per questo nella dichiarazione si chiede:
- Di stabilizzare le concentrazioni di gas serra ad un livello tale da impedire pericolose interferenze antropogeniche con il sistema climatico;
- Di ridurre le emissioni comunque non oltre la metà di questo secolo;
- Di riconoscere l’obbligo morale di ridurre i consumi cosicchè la parte più povera della popolazione possa beneficiare delle risorse non rinnovabili del pianeta;
- Di rimanere entro il limite dei “2 gradi”, o meglio di 1,5 gradi, tenendo a mente di lasciare nel suolo i 2/3 dei rimanenti combustibili fossili;
- Di impegnarsi verso l’obiettivo del 100 per cento di rinnovabili e/o una strategia a zero emissioni il prima possibile.

Qui la versione integrale della dichiarazione.

La riflessione sulle cause umane del cambiamento climatico, forse ancor di più quando tocca eventi remoti, apre scenari attualissimi di contrasto al grave fenomeno. La Repubblica, 20 agosto 2015, postilla (f.b.)

Il riscaldamento globale compie tremila anni. A inaugurare l’era del cambiamento climatico sono stati i nostri antenati europei, che hanno dato letteralmente fuoco alle foreste del continente per aumentare le superfici coltivabili e incrementare l’allevamento del bestiame. A dirlo è uno studio condotto dall’Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Cnr, insieme all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il titolo del progetto parla chiaro. «Europe on fire 3000 years ago: arson or climate?» (Europa in fiamme 3000 anni fa: incendio doloso o clima?). L’equipe internazionale, guidata da Carlo Barbante, professore di Chimica analitica nell’ateneo lagunare, ha appena pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters i risultati di questa ricerca che getta una nuova luce su chi ha scagliato la prima pietra dell’inquinamento atmosferico.

In realtà l’indagine ridimensiona le colpe della rivoluzione industriale, fino ad ora ritenuta la grande responsabile del disastro ecologico. A fornire la prova regina è stata una carota di ghiaccio, lunga 2.537 metri, estratta nel Nord-Ovest della Groenlandia. Una specie di sonda lanciata nelle profondità del tempo che ha consentito ai ricercatori di fare un salto indietro di ben 128.000 anni. Grazie a una metodologia innovativa, sviluppata dal team di scienziati, è stato possibile rilevare le tracce di una forte attività incendiaria risalente a circa tremila anni fa. E non riconducibile a eventi naturali. In altre parole, una catena di incendi dolosi con conseguenti deforestazioni. Di questa task force di “forestali della storia” fa parte anche il celebre paleoclimatologo William Ruddiman, professore emerito all’Università della Virginia e padre della teoria dell’Early Anthropocene. Da sempre convinto che l’era dell’impatto ambientale dell’uomo sul pianeta, il cosiddetto Antropocene, non sia cominciata con la rivoluzione industriale ma qualche millennio prima, cioè con quella agricola. L’uomo, insomma, si è messo ad allungare le mani sull’ecosistema quando la civiltà delle macchine, la plastica, le emissioni di gas serra, le scorie nucleari, non erano neanche in

mente dei . E soprattutto quando la popolazione del pianeta superava di poco i cento milioni di anime. Più o meno gli abitanti attuali di Italia e Francia messi insieme, ma con l’universo mondo tutto per sé.

E che in quel tempo lontano sia accaduto qualcosa di veramente forte lo testimoniano le parole di Platone che, 2500 anni fa, nel Crizia , uno dei suoi dialoghi più famosi, denuncia la deforestazione sistematica del suolo dell’Attica. Quella terra verde e florida, dice il grande filosofo, è stata letteralmente spolpata, fino a ridurla uno scheletro. E di fatto la potenza ateniese pagò come prezzo la distruzione dei boschi e della vegetazione spontanea, per far fronte ad una complessa serie di bisogni economici, militari e sociali. Legna da ardere e per costruire navi. Ma anche disboscamenti per produrre più cibo. Platone arriva addirittura a prevedere fenomeni tristemente attuali come il land grabbing, l’accaparramento delle terre, e come l’effetto serra, con conseguente desertificazione del mondo. Insomma l’idea dell’apocalisse ecologica non è un’invenzione dell’integralismo ambientalista contemporaneo. L’ambientalismo di ieri e di oggi hanno però in comune l’attribuzione di ogni responsabilità agli uomini, cattivi e imprevidenti, che saccheggiano la terra senza curarsi del domani. Lo dice anche Plinio il Vecchio, che rimprovera ai suoi contemporanei di «assistere con orgoglio da dominatori alla rovina della natura». Siamo solo nel primo secolo dopo Cristo e di cattiva strada da allora ne abbiamo fatta molta.

Quel che colpisce è che questi ragionamenti venissero fatti quando la popolazione mondiale era più o meno la cinquantesima parte di quella attuale. E al confronto di oggi il mondo era un Eden. Si potrebbe obiettare che ogni epoca misura l’apocalisse a partire dai suoi parametri e dai suoi problemi. Il che è plausibile. Ma questa storia sembra pure insegnarci che, ora come allora, è insito nell’uomo un doppio atteggiamento. Di onnipotenza da un lato e senso di colpa dall’altro. Entrambi proiettati sullo sfondo di una “natura” che non è altro che il riflesso delle nostre attese e paure.

In fondo è come se la civiltà fosse da sempre bipolare. Divisa tra la fede nello sviluppo e il timore di avere osato troppo. Di avere superato il limite. Limite che cambia con i tempi, ma resta sempre come monito e come fantasma. Soglia etica e frontiera conoscitiva. È quel che emerge chiaramente dall’ultima Enciclica di Papa Bergoglio, Laudato si’, francescanamente green ma al tempo stesso lontana da ogni spiegazione semplicistica.

Viene da pensare che in molti casi perfino la nostra auto-colpevolizzazione sia l’altra faccia di un’arroganza superomistica. Tipica di chi pensa che la natura sia alla nostra mercé. Nel bene come nel male. Perché, senza nulla togliere alla fondatezza di molta riflessione ecologista, il rapporto uomo-ambiente è più complesso e multifattoriale di quanto di solito non immaginiamo. E questa ricerca sull’Europa in fiamme ce lo ricorda opportunamente.

postilla

Non è la prima né sarà l'ultima, questa ricerca, a indicare la radice degli sconvolgimenti planetari in alcuni comportamenti umani precedenti all'era dell'ancora detestata (a quanto pare) industrializzazione nel segno dell'imbrigliamento dell'energia: vapore, elettricità, carbone, petrolio, e poi la civiltà dei consumi di tutto quanto. Forse è il caso di ricordare, per chi coltiva studi territoriali, che anche le primordiali civiltà urbane crollarono per micro o macro tragedie ambientali e climatiche prodotte da attività umane di trasformazione del territorio, ne sono esempi assai noti e studiati quelli della Valle dell'Indo, della Mesopotamia, di diverse civiltà urbane precolombiane in America. Detto in altre parole, non esistono attività dell'uomo buone (l'agricoltura magari biologica o comunque «sostenibile») e altre cattive (la trasformazione di tipo industriale con uso di energie). Esiste solo il nostro rapporto con l'ecosistema, da conoscere in modo approfondito e da non alterare in modo stupido e suicida. Per esempio, cosa non nota a tutti, è proprio dagli studi sul crollo delle civiltà urbane citate sopra, e non dalle fantasie di qualche architetto chiacchierone, che nasce la teoria originaria della vertical farm, concetto agricolo produttivo ed ecologico, non edilizio come ama pensare qualcuno pronto alla condanna a prescindere (f.b.)

Nemmeno un governatore vuole autorizzare il piano del governo. Il problema per loro è che Renzi potrebbe non averne bisogno, se decidesse di forzare la mano: l’articolo 35 dello Sblocca Italia definisce i termovalorizzatori “infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale ai fini della tutela della salute e dell’ambiente ”. E il comma 7 stabilisce l’applicazione del “potere sostitutivo”. Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2015 (m.p.r.)

I governatori non lo sanno. Se lo sanno, fanno finta di non saperlo. In ogni caso: gli inceneritori del governo non li vogliono. Un rapido riassunto delle puntate precedenti: come scritto ieri dal Fatto, lo scorso 29 luglio le Regioni hanno ricevuto la bozza di decreto legislativo che attua una delle previsioni dello “Sblocca Italia” di Renzi (approvato a novembre 2014). Il testo stabilisce la realizzazione di 12 nuovi impianti di incenerimento dei rifiuti in 10 Regioni: uno in Piemonte, Veneto, Liguria, Umbria, Marche, Abruzzo, Campania e Puglia, due in Toscana e Sicilia. Gli inceneritori sono sostanzialmente anti-economici, alternativi alla raccolta differenziata e hanno un impatto ambientale che puntualmente scatena le proteste furiose delle comunità a cui toccherebbe farsene carico. Infatti –governo Renzi a parte – non li vuole davvero nessuno.

La maggior parte dei presidenti di Regione sostiene di non aver ricevuto o preso visione del documento del 29 luglio. Nemmeno i governatori del Partito democratico. Il presidente della Puglia, Michele Emiliano, fa sapere di “non aver ricevuto alcuna comunicazione al riguardo”, ma garantisce che sul suo territorio non sarà costruito nessun inceneritore: “È uno degli impegni che abbiamo preso in campagna elettorale: abbiamo costruito il nostro programma dal basso e gli elettori si sono espressi chiaramente contro la costruzione di impianti di incenerimento”. Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, è altrettanto risoluto: “Di inceneritori ne abbiamo uno e ci basta: il termovalorizzatore del Gerbido, alle porte di Torino, brucia quasi 416 mila tonnellate di rifiuti l’anno. Non ne sono previsti altri”. Rosario Crocetta, governatore siciliano: “Io i termovalorizzatori non li farò mai. Li vuole Renzi? Il piano sui rifiuti ce lo facciamo da soli”.
Per Luca Ceriscioli, eletto a fine maggio nelle Marche, un nuovo impianto sarebbe inconcepibile: “Quello di Macerata – spiegano i suoi collaboratori –è stato spento un anno fa proprio perché non ce n’è alcun bisogno. La raccolta differenziata è già al 63 per cento e si avvicina a rapidi passi al 70. Mancherebbero proprio i rifiuti con cui alimentare il termovalorizzatore: non abbiamo spazzatura da bruciare”. Anche Enrico Rossi, come i governatori precedenti, è stato eletto nel Pd. E nemmeno lui conosce il frutto avvelenato dello Sblocca Italia: “Non sapevo che il decreto prevedesse inceneritori in Toscana, né che da noi debbano essere addirittura due. Non è prevista la costruzione di alcun impianto”. Catiuscia Marini(sempre Pd), governatrice dell’U mbria, conosce i piani del governo per la sua Regione, ma non ha nessuna intenzione di autorizzarli: “Non avrebbe senso. Abbiamo una differenziata, in crescita, al 50 per cento, con picchi del 70 a Perugia. Restano solo 100 mila tonnellate da smaltire: troppo poche per giustificare un termovalorizzatore. Il governo lo sa. Magari un impianto in Umbria può servire a smaltire i rifiuti di altre Regioni, ma noi non ci stiamo”. L’area individuata, quella di Terni, “ha già seri problemi di inquinamento”, aggiunge il direttore dell’Arpa umbra, Walter Ganapini.
Pure la Campania di Vincenzo De Luca dice no. Dal suo staff arriva una risposta netta: per costruire un termovalorizzatore a trazione secca servono almeno quattro anni. Tra quattro anni, secondo le stime, ci saranno 700 mila tonnellate di rifiuti da smaltire. Per questa cifra basta l’impianto di Acerra: non ce ne vuole un altro. La previsione del governo è basata su dati superati, numeri vecchi. Nel Veneto del leghista Luca Zaia di inceneritori ce ne sono già tre. Anche qui, degli inceneritori di Renzi nessuno sa nulla: “Il 25 maggio c’è stata inviata una comunicazione sul monitoraggio degli impianti esistenti. Di eventuali nuovi impianti nessuno ci ha detto nulla. Abbiamo tre inceneritori e non ne costruiremo altri: siamo una Regione ‘riciclona ’ e puntiamo dritti sul compostaggio”.
Un filotto, insomma: nemmeno un governatore vuole autorizzare il piano del governo. Il problema per loro è che Renzi potrebbe non averne bisogno, se decidesse di forzare la mano: l’articolo 35 dello Sblocca Italia definisce i termovalorizzatori “infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale ai fini della tutela della salute e dell’ambiente ”. E il comma 7 stabilisce l’applicazione del “potere sostitutivo”: in soldoni, se le Regioni negano il consenso all’impianto o “perdono tempo”, il Consiglio dei ministri può decidere di scavalcarle.

Avviata «una subdola campagna informativa in ordine al progetto del Deposito Nazionale finalizzata a convincere gli italiani ad accettare il materiale tossico nel proprio “giardino”». Ma sembra che abbiano già individuato i sito ideale in una ex miniera di salgemma nei pressi dei comuni di Agira, Leonforte e Nissoria, nel cuore della Sicilia. Un esposto di Italia Nostra Sicilia, 6 agosto 2015

Le scorie radioattive arriveranno con un suadente, ineffabile spot? Si avvicina il momento in cui i ministeri dello Sviluppo economico e dell'Ambiente dovranno indicare le aree in cui realizzare il Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi italiani. La Sogin, la società di Stato responsabile della dismissione degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi, da alcuni giorni ha lanciato, sulle principali reti televisive nazionali, una subdola campagna informativa in ordine al progetto del Deposito Nazionale. La campagna è finalizzata a convincere gli italiani ad accettare il materiale tossico nel proprio “giardino” (vedi:https://www.youtube.com/watch?v=6bOg8rvKbzI).
Realizzata da Saatchi & Saatchi, la campagna mira dunque a far riflettere sulla necessità di risolvere, insieme, il problema della gestione dei rifiuti radioattivi che quotidianamente si producono negli ospedali, nelle industrie, nei laboratori di ricerca, o provenienti dai vecchi impianti nucleari dismessi, oggi in via di smantellamento. Nel comunicato stampa della Saatchi & Saatchi si sostiene inoltre che “sul problema dello smaltimento definitivo dei rifiuti radioattivi il nostro Paese non è andato avanti perché ancora non esiste un’infrastruttura unica per la loro messa in sicurezza finale, come avvenuto negli altri Paesi del nostro continente. Per la prima volta in Italia viene avviato un percorso condiviso e partecipato che porterà, attraverso un’ampia e approfondita consultazione pubblica, alla realizzazione del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi, un’opera strategica per la sicurezza ambientale”.

Il processo entrerà nel vivo con la pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il Deposito Nazionale, che Sogin pubblicherà, assieme al progetto preliminare, sul sito appena riceverà il via libera dai ministeri. Presumibilmente a settembre di quest’anno (2015). Dunque, tra circa un mese dovrebbe essere resa pubblica tale Carta nazionale (Cnapi).Dopo un iter controverso, iniziato nel giugno2014,l’Ispra ha già consegnato ai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente l’aggiornamento della relazione stilata dalla Sogin. La Sogin è incaricata anche di selezionare alcuni siti italiani, e tra questi individuare il Deposito nazionale di scorie nucleari. La mappa dei siti è ovviamente sconosciuta. Top secret. L’operazione prevederebbe investimenti per1,5 miliardi in 4 anni, 1.500 posti di lavoro all’anno per la costruzione e 700 per la gestione. Le regioni italiana individuate sarebbero la Puglia, la Basilicata, la Sardegna e ovviamente la Sicilia.

L’Isola (la Sicilia) sembrerebbe avere “buone, ottime possibilità”. Gli esperti della Sogin, infatti, avrebbero individuatoun’ex miniera di salgemma nei pressi dei comuni di Agira, Leonforte e Nissoria, nell’Ennese. L’indiscrezione arriva da Giuseppe Regalbuto, presidente della commissione Miniere dismesse dell’Urps: “Se la scelta di Agira sarà confermata come sembra, sarà necessario promuovere un’azione forte in Sicilia. Non costruire trazzere, ma ergere barricate contro i governi che usano la Sicilia come una pattumiera e che non solo ci impediscono di produrre, ma vogliono persino inquinare il nostro suolo e mettere a repentaglio la nostra salute. Le miniere vanno usate per rilanciare l’economia siciliana, non per contenere rifiuti” (http://www.siciliainformazioni.com, luglio-agosto 2015).

Ben 90 mila metri cubi di rifiuti nucleari italiani potrebbero arrivare presto in Sicilia. La scelta ricadrebbe su un’ex miniera di salgemma perché i depositi salini, per la loro bassa permeabilità, si prestano ad ospitare, a lungo termine, rifiuti nucleari. In una prima fase di ricerca, per le peculiari caratteristiche morfologiche dei giacimenti, sarebbero risultate idonee ad ospitare gli speciali rifiuti 11 località siciliane: Regalbuto, Assoro-Agira, Villapriolo, Salinella, Pasquasia, Resuttano, Bompensiere, Milena, Porto Empedocle, Realmonte, Monteallegro. Dopo la seconda fase dello studio, relativa ai requisiti d’isolamento dei giacimenti,sarebbero rimasti soltanto tre siti idonei: Assoro-Agira, Salinella e Resuttano. L’ex miniera di Pasquasia, su cui ancora pesano sospetti di precedenti depositi di rifiuti radioattivi, sarebbe stata esclusa perché non sufficientemente “isolata” (http://www.siciliainformazioni.com, luglio-agosto 2015).

A settembre la mappa sarà resa pubblica. Sapremo, dunque, se sarà proprio l’ex miniera nei pressi di Agira, al centro dell’Isola, la candidata siciliana che ospiterà i rifiuti radioattivi di tutta Italia. “Agira (Sicilia) capitale italiana dell’ambiente, del paesaggio e deigiardini”, insomma. Che dire – comunque?Saremo in grado, in Sicilia, di ergere barricate efficaci contro i governi che usano l'isola come pattumiera e base militare? Governi che non solo ci impediscono uno sviluppo auspicabile, sostenibile, ma che intenderebbero persino inquinare il nostro ambiente, il nostro spazio vitale, mettendo a repentaglio la nostra salute, la nostra sicurezza. Ecco, queste sono le questioni – imprescindibili – che noi poniamo al governo regionale e al governo nazionale. Alle forze sociali, culturali e politiche. Ai cittadini. Adesso.

Leandro Janni - Presidente regionale di Italia Nostra Sicilia

Dopo lo scandalo della Exxon «il principio del “chi sporca paga” ha continuato a radicarsi, almeno negli Stati Uniti». Significa che chi ha più soldi può sporcare di più? La Repubblica, 3 luglio 2015

Washington. Si distese come un sudario sul mare, grande quanto metà dell’Italia, 173 mila chilometri quadrati di morte nera sul Golfo del Messico fino al delta del Mississippi e agli acquitrini dei bayou in Louisiana, e dopo cinque anni dall’aprile del 2010 il conto è arrivato: la BP, la British Petroleum, dovrà pagare 18,7 miliardi di dollari per i danni provocati dalla piattaforma Deepwater Horizon.

È il record storico in materia di danni ecologici, questo che la Corte federale d’appello, la magistratura americana più alta prima della Corte suprema, ha inflitto alla società proprietaria, e quindi responsabile, dell’isola artificiale costruita dalla coreana Hyundai Industrie che vomitò dal pozzo esploso nella Fossa di Macondo un milione e 300 mila litri di greggio al giorno, per sei mesi. I giudici federali hanno convalidato la sentenza del tribunale di primogrado che ribolliva di collera e di parole durissime contro la BP: «incoscienza», «incuria», «incompetenza criminale», «tentativi di copertura». E se 18,7 miliiardi non sono una sentenza di morte per un gigante del petrolio che fattura 360 miliardi di dollari l’anno, è la conferma che la pazienza, l’acquiescienza delle istituzioni e dei giudici di fronte ai danni ambientali causati dall’industria si sta esaurendo.
Nessuna altra catastrofe ecologica aveva mai raggiunto prima l’enormità di un disastro che rovesciò milioni di petrolio su mille e 700 chilometri di costa, dalla Florida, all’Alabama, al Mississippi, alla Louisiana, al Texas, devastando la fauna e la vegetazioni in un ecosistema fragilissimo, di acque costiere poco profonde e di paludi rifugi per uccelli migratori. I sei mesi di lotta che i tecnici e gli specialisti mobilitati da tutto il mondo condussero, fra aprile e settembre, per tappare il buco alla profondità di mille e seicento metri, furono la reppresentazione della impotenza di fronte a un’eruzione che sfidava le capacità dei robot sottomarini, che sfidava tutti i mezzi di contenimento schierati, dalle dighe galleggianti ai batteri disseminati per digerire il greggio.
Erano trascorsi, in quel 2010, 21 anni da un altro disastro che aveva ipnotizzato il mondo, davanti alla cristallina bellezza dell’Alaska stuprata dalla super petroliera della Exxon, la “Valdez” da 250 mila tonnellate, incagliata e squarciata nel fiordo del Principe William. La Exxon era stata condannata a pagare complessivamente 900 milioni di dollari ai 38 mila abitanti e allevatori di salmone, e il disastro aveva imposto la costruzione di superpetroliere a doppia chiglia. Da allora, il principio del “chi sporca paga” ha continuato a radicarsi, almeno negli Stati Uniti. La stessa Exxon, oggi Exxon Mobil, ha concordato una multa di 250 milioni di dollari con lo Stato del New Jersey, per l’inquinamento di aria, terra e falde acquifere provocato da una sua raffineria. Neppure i tentativi di allungare il guinza- glio alle industrie, voluti dalle amministrazioni più tenere con il big business , quasi sempre repubblicane, e di mettere invece la museruola alla Agenzia per la protezione ambientale, ha retto completamente.
Di fronte alla sempre più diffusa convizione che il prezzo umano, immediato e a lungo termine, dell’inquinamento non sia più sostenibile, fra le eroiche battaglie individuali delle Erin Brockovich in Califonia contro il cromo esavelente emesso dalla società del gas, o di Lois Gibbs, la madre che condusse la battaglia legale quando furono scoperte migliaia di tonnellate di rifiuti tossici sepolti nel Love Canal accanto alle cascate del Niagara, la legislazione si è fatta via via più stringente. E oggi sono le autorità locali, più che gli individui o le collettività nella “class action”, a chiedere conto degli scempi ambientali.
La battaglia politica fra la Presidenza Obama e i repubblicani per la costruzione del gasdotto Keystone che dovrebbe portare il petrolio canadese dallo Stato di Alberta all’Oklahome, che la Casa Bianca contrasta, e il duello infinito per i permessi di trivellazione nell’Atlantico che oscilla fra permissività e restrizioni variabili da governo a governo, sono soltanto i momenti di scontro più vistosi, come lo sono le polemiche sul “fracking” o sulla spremitura degli scisti bituminosi. Sono battaglie che scuotono interessi giganteschi, ma smuovono insieme pulsioni politiche e nazionalistiche, perché promettono la prospettiva seducente dell’indipendenza americana dalle importazioni di greggio.
Poi, in un giorno di aprile, nel Golfo esplode una piattaforma in mezzo al mare e il rovescio dell’abbondanza di petrolio allunga la propria ombra. La catastrofe di Deepwater Horizon non raggiunse le dimensioni apocalittiche dell’esplosione a Bhopal dell’impianto della Union Carbide nel 1984, che consumò quattro mila vite all’istante e, si calcola, almeno altre 30 mila nel tempo. Né ha diffuso il terrore globale che la piuma radioattiva di Chernobyl stese sul mondo nel 1986, poi riaccesa dal disastro di Fukushima. La contraddizione fra la fame ancora insaziabile di energia di origine fossile e i rischi crescenti dell’estrazione e del trasporto rimane a ogni pieno di carburante, a ogni accensione di lampadina. Ma la stangata record sulla BP- che ancora oggi inonda gli schermi della tv americana con spot commerciali per convincere il pubblico sulla propria redenzione ecologica - resterà. Come le immagini soffocanti dell’ombra nera sul Golfo scattate dai satelliti, a memoria futura.

Naomi Klein intervistata da Federico Rampini. È stata invitata in Vaticano: nasce così un’alleanza in nome della difesa del pianeta. «Il documento va alla radice della crisi, e Francesco chiama per nome il motore scatenante: un capitalismo fondato sul profitto di breve termine». La Repubblica, 28 giugno 2015

La sacerdotessa dei no-global incontra papa Francesco: sboccia una santa alleanza in nome della salvezza del pianeta. Naomi Klein è stata invitata in Vaticano il 2 e 3 luglio, parlerà a una conferenza internazionale che il Consiglio pontificio per la giustizia e la pace dedica all’enciclica “Laudato Si’”.

La Klein, canadese, autrice di “No logo”, “Shock economy” e “Una rivoluzione ci salverà” (Rizzoli), è una delle più autorevoli pensatrici dei movimenti ambientalisti, terzomondisti, di contestazione del liberismo. Alle sue idee hanno attinto di volta in volta Occupy Wall Street, gli indignados e Podemos. La intervisto mentre sta per partire alla volta dell’Italia: felice dell’opportunità, entusiasta dell’enciclica.

Che cosa le piace del documento papale sul cambiamento climatico?
«È una vera svolta, una rottura storica, con delle implicazioni importanti: sia politiche che economiche. Papa Francesco fa una lettura radicale dell’emergenza ambientale, nel senso letterale di questa parola: va alle radici della crisi. Ha deciso di chiamare per nome il motore scatenante: il modello economico, un capitalismo fondato sul profitto di breve termine. È un’enciclica da studiare e da digerire bene. Noi viviamo in una cultura che vuol semplificare tutto, il modello sono le famose “listicles” di Buzzfeed. La tentazione è quella di riassumere: le 10 cose che il papa dice sull’ambiente. No, il papa abbraccia la complessità, e i suoi messaggi sono complessi ».

Il suo saggio più recente, “Una rivoluzione ci salverà”, è considerato il più ottimista della sua trilogia. Dunque è possibile salvarci, e salvare il pianeta?
«Sono partita da dove ero rimasta nel mio libro precedente, “Shock economy”, cioè dal fatto che questo sistema economico – basato sulla dittatura del profitto individuale – usa le crisi per arricchire ulteriormente le élite. Il cambiamento climatico non fa eccezione. L’uragano Katrina e quel che da allora è accaduto a New Orleans, ne è una dimostrazione: un sistema economico brutale ha sfruttato il disastro per ulteriori privatizzazioni, un’esasperazione delle diseguaglianze. È lo scenario che ci mostrano i film hollywoodiani di maggior successo popolare, da Mad Max a Hunger Games: un futuro di violenza, brutalità, diseguaglianze sempre più feroci. La sfida è immaginare come possiamo cambiare questo futuro. È questo il tema del mio ultimo libro. Non sono ottimista in senso ingenuo. Non dò per scontato che lo scenario migliore accadrà. Mi collego proprio allo spirito dell’enciclica papale, che affronta i valori culturali e morali dominanti. Il nostro sistema di valori attuale non ci attrezza a cooperare fra noi per la salvezza collettiva».

Lei è severa verso due delle ricette adottate in passato per affrontare il cambiamento climatico: i megavertici internazionali da Kyoto in poi; e i sistemi di regolazione delle emissioni attraverso un mercato, il cosiddetto “cap and trade”, cioè lo scambio di quote di emissione.
«Il limite dei megavertici è lo stesso limite dei governi. Se non hanno la forza di prendere certe decisioni a livello nazionale, perché dovrebbero comportarsi diversamente solo perché si ritrovano insieme in un summit? Le élite sono ancora immerse nell’ideologia neoliberista, non hanno la forza di opporsi alle multinazionali dell’economia carbonica. Vedi l’esempio di Barack Obama, che fa dei bei discorsi sull’ambiente ma poi dà alla Shell il permesso di trivellare nell’Artico: perché dirle di no gli sarebbe molto difficile. In quanto al sistema “cap and trade”, anch’esso è un sintomo della mancanza di volontà di regolamentare le imprese. Si è creato un mercato delle emissioni carboniche che genera nuove occasioni di profitto, e anche tante frodi, invece di stabilire semplicemente delle limitazioni per legge. Quel sistema venne imposto dagli Stati Uniti a un’Europa recalcitrante. Gli europei capitolarono ai tempi dei negoziati sul protocollo di Kyoto (in Germania la Merkel era ministro dell’Ambiente a quell’epoca) in modo da ottenere che gli Stati Uniti firmassero quel trattato. E poi gli americaninon lo firmarono neppure ».

Lei indica invece che le novità più positive sono emerse a livello locale.
«Sì, la mobilitazione dei cittadini dal basso in certi casi ha costretto i politici a dire di no agli interessi del capitalismo carbonico. Un esempio recente dove abita lei, a New York: il governatore Andrew Cuomo voleva autorizzare l’estrazione di gas e petrolio con la tecnologia del fracking, ma i movimenti contrari lo hanno costretto a mettere al bando quella tecnica pericolosa e nociva. Un altro esempio interessante è il forte movimento anti-nucleare in Germania, che dopo la tragedia di Fukushima ha costretto il governo Merkel ad accelerare la transizione verso le energie rinnovabili: già oggi forniscono il 30% del fabbisogno tedesco».

Uno dei temi che solleva papa Francesco in “Laudato Si’”, è la necessità di ripensare le nostre democrazie, insieme con i valori etici che guidano le nostre scelte quotidiane: di consumatori e di cittadini.
«Sì, la questione della democrazia è centrale. Un esempio di attentato alle democrazia: una multinazionale svedese ha fatto ricorso contro la Germania accusandola di ledere i propri diritti, quando Berlino ha deciso di abbandonare il nucleare. Le democrazie nazionali, anche quelle che funzionano meglio, possono essere minacciate dai nuovi trattati di libero scambio con le clausole a favore delle grandi imprese. Una delle qualità di questa enciclica papale è il suo approccio olistico, che tiene insieme ambiente, economia, politica. Sono dimensioni inscindibili. Mentre invece quando c’è una crisi economica la si affronta per compartimenti stagni. Vedi la crisi dell’eurozona: i tagli ai bilanci pubblici sono diventati il pretesto per ridurre il sostegno alle energie rinnovabili, rilanciare le trivellazioni marittime, penalizzare i trasporti pubblici alzandone le tariffe. Quando parliamo dei danni provocati dall’euro-austerità ci dimentichiamo regolarmente questo: il danno all’ambiente».

LIBRO E CONVEGNO Naomi Klein, scrittrice canadese, è considerata la sacerdotessa dei no-global. Il Vaticano la ha invitata a parlare a una conferenza del Consiglio pontificio per la Giustizia e la Pace . Nel 2015 Rizzoli ha pubblicato il suo ultimo libro, “Una rivoluzione ci salverà”

Un'enciclica scomoda per molti. Soprattutto per chi si lascia manovrare dal grande Burrattinaio: il capitalismo, baby. Il Fatto Quotidiano, Blog "Ambiente e veleni", 26 giugno 2015

Non deve sfuggire come la nostra stampa abbia sorvolato sullascomodissima Enciclica “Laudato Si’”. In successione temporale registriamo: uno scoop di anticipo dei contenuti del testo del “papa verde”, con un po’ di irrisione e banalizzazione nelle intestazioni poste a corredo delle citazioni ad opera del vaticanista Sandro Magister dell’Espresso; titoli di spalla sulle prime pagine dei quotidiani per la durata delle prime 24 ore; dal giorno immediatamente dopo, spostamento dell’attenzione da una riflessione sconvolgente e articolata in oltre 200 pagine sul degrado della “casa comune” alla diatriba su gay e coppie di fatto, con definitiva metabolizzazione dell’Enciclica nel rullo compressore delle informazioni correnti.

Tutte le emittenti Tv, immancabilmente elettrizzate dalle visite in Vaticano dei premier di turno, nei Tg hanno dato la notizia solo in posizioni arretrate e non si sono affatto premurate di aprire i loro monotoni talk-show a temi come la giustizia sociale e climatica o ildestino del pianeta. Insomma, l’Enciclica è stata ridotta ad una mera “curiosità”, un colpo d’ala francescano da considerare fuori dalla mischia che ci viene giornalmente esibita.
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Eppure, è fuor di dubbio che due voci – pur su piani diversi – guardano oggi al futuro con una irriducibilità totale al pensiero unico:Bergoglio e Tsipras. Con una radicalità che mette in imbarazzo i governanti di mezzo mondo e i loro consiglieri che si riuniscono assieme ai Ceo delle multinazionali ai meeting delBilderberg.

Ascoltare queste voci e quanto sostengono come alternativa possibile è intollerabile per troike, banche, corporation privatizzatrici di beni comuni, governi tecnici e politici obbedienti, che citano numeri e regolette quando si tratta di persone e della loro vita (e morte). Di conseguenza, non devono essere presi sul serio, nemmeno quando le loro indicazioni e le loro battaglie hanno radici popolari e sono sostenute dal mondo scientifico e da quella parte del mondo economico che non si schiaccia sul presente, ma guarda al futuro e alle emergenze da affrontare. Le “truppe” che li potrebbero sostenere vanno messe fuori gioco in anticipo, come se si muovessero su un terreno assolutamente impraticabile, come sta succedendo a quelle di Tsipras che si sono illuse di autorappresentare il loro destino.

Nel caso clamoroso di Francesco – senza voler richiamare la battuta di Stalin su quante truppe avesse il Papa – il tratto eminentementesecolare di una chiamata alle armi per salvare il Pianeta, viene depotenziato come opzione ideologica a cui precludere basi sociali di massa. Eppure l’argomento ha una logica inconfutabile, per credenti e non: nemmeno l’uomo si salva se non si salva il pianeta.

Una presa di posizione così senza mezze misure non può che essere contestata nel campo dei conservatori. John Vidal e Suzanne Goldenberg su The Guardian elencano le opposizioni a partire dagli Stati Uniti, terreno decisivo per lo scontro aperto. John Boehner, leader repubblicano del Congresso, e Rick Santorum, candidato alla Presidenza, cattolici dichiarati e negazionisti sul clima, non hanno tardato ad esprimersi contro. Stephen Moore, un economista cattolico, definisce Francesco “un autentico disastro, parte di un movimento radicale verde anticristiano e anti progresso”. Mentre James Inhofe, il capo della commissione ambiente al Senato americano, ha dichiarato: “Il Papa dovrebbe fare il suo mestiere”. L’American Petroleum Institute, una lobby potentissima ha controbattuto che “l’uso del carbone aiuta i poveri a migliorare le loro condizioni”. Ma la debolezza di questi avversari è quella di appartenere tutti alle lobby sotto accusa quando si parla di responsabilità umana sull’ambiente.

Il Papa, invece, ha dalla sua una strategia di lungo periodo, che non si rivolge solo a 5000 vescovi e ad un miliardo e duecentomila fedeli. Accanto al ghanese Peter Turkson, presidente Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, all’Arcivescovo del PerùPedro Barreto Jimeno, al cardinale honduregno Oscar Maradiaga, a Neil Thorns, autorevolissimo esponente della diplomazia vaticana e al preside dell’università cattolica di Buenos Aires Agosta Scarel, si stanno muovendo a sostegno autorevolissimi scienziati e riconosciuti economisti. Nessuno può sottovalutare che Ban Ki-moon, presidente Onu e i direttori della Fao e dell’Ipcc hanno espresso apprezzamenti calorosi. Perfino lo speaker repubblicano John Boehner, un cattolico praticante e dichiarato, dà per vinta la partita per Francesco.

E mentre, nonostante l’ostruzionismo di piccolo cabotaggio, verrà “bucata” a più livelli la ribalta dei media, l’Enciclica avrà il suo impatto pubblico massimo nell’incontro del Papa con Obama a settembre e nel suo intervento al Congresso Usa e all’assemblea generale dell’Onu, con l’ambizione non dissimulata di mettere un carico da novanta sullo svolgimento del convegno mondiale sul clima previsto per dicembre a Parigi (Cop 21).

Una partita cruciale a cui la politica locale e internazionale, definita “non all’altezza della sfida” farebbe bene a non sottrarsi. Intanto, tranne pochissime rare eccezioni (proprio ieri Stefano Fassina), continua a macerarsi nelle dinamiche di un potere in allontanamento dalla società.

Una interessante lettura ambientalista dell'enciclica di papa Francesco. La ricostruzione storica di un tentativo di affrontare l'argomento, con l'apporto della cultura ecologista italiana, nel periodo «iniziata con l’enciclica giovannea Mater et magistra del 1961 e conclusa con il pontificato “normalizzatore” di Karol Wojtyla».

Il 18 giugno 2015 la Santa Sede ha reso ufficialmente noto un documento atteso da molto tempo: l’enciclica papale, la prima in assoluto, sull’ambiente. Si tratta di un testo che come tutti i documenti di questa rilevanza è destinato ad avere un grande peso nella vita della Chiesa e dei credenti ma che ha anche suscitato grande interesse e vasto consenso nel mondo ambientalista.

Al di là del suo contenuto è la scelta in sé di dedicare all’ambiente un’enciclica a indicare da parte di Bergoglio una volontà di rottura, il desiderio di una discontinuità. Certo, tutto questo non si può dire apertamente: la retorica della Chiesa è infatti sempre sotto il segno della continuità, le sue parole sono volte a esprimere un’unica e immutabile verità che parla via via il linguaggio dei tempi. E, come in tutti i grandi documenti vaticani, anche in questo caso abbondano le citazioni di testi precedenti (da San Francesco e dalla Bibbia fino a Giovanni XXIII e ai più recenti scritti di Wojtyla e di Ratzinger), a indicare l’eterna presenza - nel messaggio cristiano - di ciò che ora viene detto solo in modo nuovo e forse un poco più esplicito, consapevole e articolato che in passato.

Ma se la Chiesa cattolica coltiva questa costante premura per la continuità, per un eterno che essa disvela via via in forme storiche, chi osserva il passato in modo laico sa bene che nella chiesa le discontinuità e i conflitti non sono mai mancati. Al contrario, gli ultimi sessant’anni sono stati particolarmente ricchi di conflitti e di cambi di scenario sotto l’impetuosa pressione di un mondo che cambiava a ritmi inediti: ritmi sempre più rapidi ma spesso anche non lineari. E lo storico sa anche che la discontinuità più sorprendente per vastità e audacia è stata nel Concilio Vaticano II, frutto di un contesto storico di una vivacità irripetibile e presto depotenziato. Le aperture del Concilio sono state infatti sottilmente negate già poco dopo la sua chiusura e nei decenni successivi sono state messe lentamente e tacitamente relegate tra le ingenue o pericolose utopie del Novecento.

Gran parte del magistero di Bergoglio riprende al contrario i temi e lo spirito del Concilio anche senza rivendicarlo troppo apertamente. Una rivendicazione del genere significherebbe infatti ammettere l’esistenza di una serie di discontinuità costantemente negate persino da papi come Woytila e Ratzinger che hanno operato attivamente per liquidare molte delle maggiori novità conciliari, soprattutto in campo sociale.

Anche l’enciclica “Laudato sì”, anche se in modo inconsapevole, riprende uno sforzo post-conciliare della Chiesa. Uno sforzo di chinarsi sulla questione ambientale che però era rimasto tuttavia incompiuto, interrotto.

Molti in realtà rivendicano da tempo le progressive aperture di Wojtyla e Ratzinger all’ecologia e lo fa, in nome della continuità, anche Bergoglio. Credo si possa dire che queste aperture siano state delle petizioni di principio rare e timide che non hanno mai impegnato seriamente la Chiesa verso la questione ambientale. Molto diverso è il caso, ormai da mezzo secolo, di altre importanti questioni sociali come la pace, la povertà e i diritti e soprattutto delle questioni riguardanti la vita e la famiglia che costituiscono il nucleo dei cosiddetti “principi non negoziabili”, i soli su cui la Santa Sede chiama i credenti alla mobilitazione attiva.

E’ molto probabile invece che l’enciclica di Bergoglio intenda indicare ai cattolici come al resto del mondo un deciso cambiamento di passo. Accanto al “ritorno” fortemente enfatizzato al centro dell’azione e della parola della Chiesa di temi conciliari come il disarmo, la lotta alla povertà, i diritti umani, ecco insomma “l’arrivo” dell’ecologia, che era la grande assente nella parabola conciliare iniziata con l’enciclica giovannea Mater et magistra del 1961 e conclusa con il pontificato “normalizzatore” di Karol Wojtyla.

Ma è anche bene ricordare che la sollecitudine per l’ambiente avrebbe potuto appropriatamente stare dentro lo spirito e le preoccupazioni dell’età conciliare e che anzi quella assenza non fu totale. Vi fu infatti una brevissima stagione in cui qualcuno, dentro la Chiesa, tentò di innestare l’ecologia sul tronco conciliare e di fornirle pari dignità rispetto a temi strategici quali la pace, la giustizia sociale, i diritti umani, la democrazia. Questa stagione si chiuse tuttavia molto presto e quel tentativo fallì lasciando incompiuta l’agenda conciliare.

Consapevolmente o meno Bergoglio sta forse oggi tentando di compiere quel passo che allora non riuscì e che anzi fu fatto naufragare. In questo senso, insomma, anche l’enciclica Laudato sì può essere considerata come la riapertura di un cantiere conciliare.

La vicenda del tentato innesto dell’ecologia nell’agenda conciliare è nota soltanto a un pugno di addetti ai lavori e ai pochi protagonisti che ancora sopravvivono; è quindi utile riassumerla rapidamente partendo dall’inizio[1].

Nella discussione e nei documenti elaborati nel corso del Concilio, dall’ottobre del 1962 al dicembre 1965, non fu fatto alcun cenno alla questione ambientale. Erano proprio quelli gli anni in cui per la prima volta l’ecologia iniziava a fare la sua comparsa nel dibattito pubblico - Silent Spring era uscito proprio un mese prima dell’apertura del Concilio - e la Chiesa, che solo con fatica e con molti contrasti interni tentava di captare i principali “segni dei tempi”, non aveva antenne sufficientemente sensibili per capire che anche quello dell’ambiente era un importante “segno dei tempi”. Un segno destinato peraltro a esplodere a livello mondiale di lì a pochissimi anni.

La copiosa documentazione prodotta dai padri conciliari e i fondamentali documenti di poco successivi come l’enciclica Populorum progressio (1967) di Paolo VI non contenevano insomma alcun cenno esplicito né alcun stimolo consapevole riguardo alla tutela dell’ambiente. Vista da questa prospettiva la Chiesa cattolica mostrava di essere in grave ritardo rispetto alla già notevole elaborazione di teologia dell’ambiente proveniente dal protestantesimo statunitense.

Il silenzio dei documenti conciliari non dipendeva tuttavia soltanto dall’incapacità di percepire il sorgere di una problematica nuova come quella ambientale.

Tali documenti, che pure comprendevano e illustravano bene molte delle principali contraddizioni politiche e sociali del mondo moderno, erano infatti largamente permeati del clima di speranza degli anni del dopoguerra, della distensione e della crescita economica e mostravano una sostanziale fiducia nel progresso tecnico e scientifico. Tale fiducia, messa in ombra solo qui e là da qualche considerazione più pessimista e preoccupata, finiva col rinforzare uno degli elementi fondanti di tutto il pensiero cristiano: l’antropocentrismo. La visione, cioè, che la Terra fosse creata per il godimento dell’uomo, immagine di Dio e vertice della Creazione, e che tutt’al più all’uomo spettasse una responsabilità di saggia e rispettosa manutenzione del Creato medesimo.

L’idea che l’uomo, e che soprattutto il moderno progresso scientifico, potesse invece costituire di per sé un elemento profondamente perturbante per l’equilibrio del pianeta – come aveva scritto esattamente un secolo prima George Perkins Marsh – non sfiorò neppure la mente dei padri conciliari.

Va aggiunto però che la Chiesa del Concilio e del dopo-Concilio era troppo sensibile a tutto ciò che travagliava l’esistenza materiale dell’umanità per rimanere totalmente impermeabile alle sollecitazioni politiche e culturali che crescevano di giorno in giorno sul fronte dell’ambiente.

Fu così che verso la fine degli anni Sessanta finirono col convergere due piccoli rivoli usciti dal Concilio e che andavano nella direzione di una in carico della questione ambientale da parte della Chiesa.

Il primo rivolo era quello del “gruppo sulla povertà”, operante all’interno del Concilio sin dalle sue primissime fasi. Questo gruppo aveva avuto un peso notevole nell’orientare i lavori conciliari riguardo alle questioni della giustizia sociale e nell’ispirazione della costituzione pastorale Gaudium et spes, l’ultimo grande documento approvato dai padri conciliari. In gran parte da questo gruppo, dai suoi membri e dalla sua ispirazione era poi sorta la pontificia commissione “Iustitia et pax”, l’organo mondiale della Chiesa chiamato da Paolo VI a occuparsi delle grandi problematiche sociali del mondo moderno. Una delle animatrici prima del “gruppo sulla povertà” e poi di “Iustitia et pax” era una famosa economista britannica, collaboratrice dei principali organismi mondiali e autrice di libri tradotti e venduti in tutto il mondo: Barbara Ward. Proprio a Barbara Ward, nel corso del 1969, il coordinatore di quella che sarebbe poi stata nel 1972 la grande conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano di Stoccolma affidò l’incarico di preparare un ampio documento preparatorio che divenne anch’esso un best-seller: Only One Earth. The Care and Maintenance of a Small Planet, uscito proprio alla vigilia della conferenza Onu. A Stoccolma, Ward sarebbe poi stata una delle figure centrali nella mediazione tra le varie linee che si confrontavano, ma all’interno della Chiesa avrebbe più in generale tentato per qualche anno di fare in modo che la “Iustitia et pax” assumesse in pieno la questione ambientale tra i propri obiettivi prioritari.

Il secondo rivolo si manifestò proprio in vista della conferenza di Stoccolma, pur avendo anch’esso qualche radice più lontana nel tempo. Come il primo rivolo, esso è legato ad alcuni personaggi precisi. Due in particolare: padre Bartolomeo Sorge e il professor Giorgio Nebbia, uno dei primi ambientalisti italiani di formazione tecnico-scientifica.

Nella prima metà del 1970 padre Sorge, colto e sensibile gesuita stretto collaboratore di Paolo VI, aveva percepito l’importanza politica e sociale ma anche culturale e teologica della questione ambientale. Probabilmente su stimolo di una prima corrispondenza con Nebbia, egli aveva probabilmente suggerito al Papa di affrontare l’argomento nel corso di un suo discorso alla FAO. Visti i rapporti tra Paolo VI e Sorge non è da escludere che quel discorso, il primo in cui un pontefice parlava di ecologia, fosse stato proprio redatto, o quantomeno strutturato, dal gesuita. Qualche giorno dopo Sorge aveva pubblicato un ampio, maturo e informato commento al discorso papale che per la prima volta poneva ai lettori della “Civiltà cattolica” il problema del degrado ambientale e del ruolo dell’uomo in esso. Grazie a questi precedenti la Santa Sede gli affidò il compito di coordinare un gruppo di lavoro incaricato di redigere il contributo ufficiale della Santa Sede alla conferenza di Stoccolma. Nebbia fu il principale animatore e ispiratore della redazione del testo, che si sarebbe rivelato uno dei più circostanziati e avanzati tra quelli prodotti dalle delegazioni nazionali al consesso dell’Onu.

Negli anni immediatamente successivi, anche se in modo non del tutto evidente ed esplicito, due tendenze si scontrarono all’interno della Chiesa. La prima tendeva a legittimare e istituzionalizzare l’impegno ecclesiastico in campo ambientale; la seconda invece tendeva a mettere la sordina, nella Chiesa come nel mondo, all’attenzione verso l’ambiente. I protagonisti della prima tendenza provarono a consolidare e ad ampliare il peso dell’ambiente nell’agenda di “Iustitia et pax” e per qualche anno ottennero dei piccoli risultati, apparentemente promettenti. I protagonisti della seconda tendenza iniziarono invece, appena dopo la fine della conferenza di Stoccolma, a circondare di cautele politiche e teologiche la questione ambientale. Essa infatti oltre ad essere poco compresa e poco sentita veniva identificata con il pericolo di diffondere nell’opinione pubblica mondiale e nei governi idee favorevoli alla limitazione delle nascite, che la Chiesa considerava una pratica immorale e pericolosissima, da combattere con tutte le forze.

Questa preoccupazione e questa battaglia contribuirono a far considerare l’ecologia – che già toccava poche corde cattoliche – come una specie di cavallo di Troia dei “malthusiani”. La seconda tendenza – sostenuta dai vertici della Chiesa – finì così col prevalere, e le timide aperture ottenute dalla prima tendenza furono presto accantonate. Alla metà degli anni Settanta il discorso era sostanzialmente chiuso.

È stato questo complesso di eventi, assieme al progressivo abbandono dello spirito, delle istanze e delle priorità del Concilio Vaticano II, a relegare fino ad oggi l’ecologia lontano dalla sensibilità e dalle priorità della Chiesa e dei cattolici. E ciò nonostante qualche timida e formale affermazione di Wojtyla e di Ratzinger nel corso degli ultimi trent’anni.

Dentro la sua ripresa dei temi e dello spirito del Concilio Vaticano II Jorge Bergoglio sembra dunque voler riannodare un filo interrotto. Con quali risultati, si vedrà.

[1] La vicenda ricostruita qui solo per brevi cenni è raccontata in dettaglio e con tutte le necessarie pezze d’appoggio in un saggio dal titolo “Only One Earth: The Holy See and Ecology”, in corso di pubblicazione negli atti del convegno Environmental Protection in the Global Twentieth Century: International Organizations, Networks and Diffusion of Ideas and Policies (Berlin 25-27.10.2012), a cura di Jan-Henrik Meyer e Wolfram Kaiser, per i tipi di Berghan Books, Oxford-New York.

La giusta sottolineatura di un elemento centrale dell'enciclica di Francesco: le «rilevanti implicazioni di tipo politico generale che possono apparire “rivoluzionarie” rispetto alla normale cautela della Chiesa verso la politica». "Cautela" che caratterizza, ahimè, la massima parte della cultura laica, a partire dall'Accademia e dalla Politica. Il Fatto Quotidiano, Blog "Ambiente e veleni", 26 giugno 2015 .

A mio sommesso avviso, il maggior pregio della recente enciclica papale sull’ambiente Laudato si’ consiste nel quadro complessivo che viene delineato, da cui derivano rilevanti implicazioni di tipo politico generale che possono apparire “rivoluzionarie” rispetto allanormale cautela della Chiesa verso la politica.

In realtà, i singoli temi rilevanti ci sono tutti. Ne cito qualcuno:

L’acqua non può essere privatizzata o trasformata in “merce soggetta alle leggi di mercato”'; i mari stanno trasformandosi in“cimiteri subacquei” a causa delle attività umane; l’era del petrolio e dei combustibili fossili deve essere sostituita “senza indugio” dalle energie rinnovabili'; ‘Le leggi ambientali possono essere redatte in forma corretta, ma spesso rimangono lettera morta'; netta condanna del consumismo e dell’attuale ‘modello distributivo in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare…'; valorizzazione della ricerca; preoccupazione per il ‘tremendo potere’ della tecnologia accentrata in ‘una piccola parte dell’umanità'; ripudio della‘concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese e degli individui'; proclamare la libertà economica quando si riduce l’accesso al lavoro ‘diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica’.

Quanto all’ecologia in particolare, il Santo Padre evidenzia che ‘cresce un’ecologia superficiale o apparente che consolida un certo intorpidimento e una spensierata irresponsabilità’ che ‘ci serve per mantenere i nostri stili di vita, di produzione e di consumo’.

Per la Chiesa, invece, ‘la cultura ecologica non si può ridurre a una serie di risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento. Dovrebbe essere uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico. Diversamente, anche le migliori iniziative ecologiste possono finire rinchiuse nella stessa logica globalizzata. Cercare solamente un rimedio tecnicoper ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale‘.

Insomma, occorre una profonda trasformazione politica, che abbandoni i dogmi della crescita, del mercato e del Pil. Infatti, ‘è realistico aspettarsi che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni? All’interno dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano. Inoltre, quando si parla di biodiversità, al massimo la si pensa come una riserva di risorse economiche che potrebbe essere sfruttata, ma non si considerano seriamente il valore reale delle cose, il loro significato per le persone e le culture, gli interessi e le necessità dei poveri’.

Il progresso, cioè, è cosa ben diversa dalla crescita e ‘dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo ad un’altra modalità di progresso e di sviluppo’. Per questo è fondamentale il ruolo della politica. Infatti ‘non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale’.

Tanto più che ‘una strategia di cambiamento reale esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere capace di assumere questa sfida’. In questo quadro, ‘la sobrietà vissuta con libertà e consapevolezza è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità, ma tutto il contrario’.

Sembra di risentire Enrico Berlinguer quando, molti anni fa, affermava che “la politica di austerità quale è da noi intesa, può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura…».

All’epoca nessuno lo ascoltò. E oggi? E’ prevedibile una totale inversione di rotta da un governo che, tanto per fare qualche esempio, punta tutto sulla “crescita”, che autorizza trivellazionipetrolifere nei nostri mari più preziosi, che propugna “tutto inceneritori” – e, quindi, il massimo del consumismo con usa e getta, o ci sforna leggi ambientali mal fatte eliminando quei pochi organi di controllo (come il Corpo Forestale dello Stato) esistenti sul territorio?

Secondo l'ambientalista del Worldwatch Institute, tra le emergenze globali spiccano demografia, povertà, energia e suoli. Il resto viene da sé, ma il dibattito politico pare schivare in massa ogni ostacolo. Corriere della Sera 27 giugno 2015 (f.b.)

La «Grande Siccità» del 2012, negli Stati Uniti, ha fatto salire i prezzi del mais ai massimi storici; eppure le quotazioni dei prodotti alimentari sul mercato globale, già raddoppiate nel corso dell’ultimo decennio, sono destinate ad aumentare ancora. scatenando così una nuova ondata di rivolte per il cibo. La penuria del raccolto di mais registrata anche quest’anno non farà che accelerare la transizione dall’era dell’abbondanza e dei surplus a un’era di scarsità cronica. L’impennata dei prezzi alimentari si accompagna a una sempre più intensa competizione internazionale per il controllo di terra e risorse idriche. In questa nuova realtà globale, l’accesso al cibo si sostituisce all’accesso al petrolio quale preoccupazione principale dei governi. Il cibo è il nuovo petrolio, la terra è il nuovo oro: benvenuti nella nuova geopolitica alimentare.

I nuovi carnivori

Per gli americani — che spendono solo il 9% del proprio reddito per il cibo — il prezzo raddoppiato dei prodotti alimentari non è un grosso problema. Per coloro che, invece, impiegano il 50-70% del budget disponibile per la spesa alimentare, è un danno grave. Questi ultimi hanno ben pochi margini di manovra per compensare l’aumento dei prezzi spendendo di più: devono mangiare di meno. Con i prezzi in aumento, molte delle famiglie più povere del mondo avevano già ridotto i consumi alimentari a un pasto al giorno. Purtroppo. In un’alta percentuale di casi non possono più permettersi neppure quello. Così milioni di nuclei familiari danno ormai per scontato che ogni settimana dovranno trascorrere giornate intere senza cibo. Secondo Save the Children, in India il 24% delle famiglie si astiene abitualmente dal mangiare; in Nigeria lo fa il 27%; in Perù il 14%. In un mondo affamato, la denutrizione ha spesso il volto di un bambino: milioni di piccoli sono pericolosamente denutriti, e spesso così debilitati da non riuscire neppure ad andare a scuola a piedi.

In molti casi soffrono di ritardi fisici e mentali. Mentre la fame dilaga, gli agricoltori devono affrontare nuove sfide su entrambi i versanti dell’equazione alimentare. Sul versante della domanda, intervengono due fattori di crescita. Il più antico è l’incremento demografico: ogni anno la popolazione mondiale aumenta di circa 80 milioni, e stasera si siederanno a tavola 219 mila persone in più rispetto a ieri, molte delle quali davanti a un piatto vuoto. Il secondo fattore di crescita e la tendenza dei consumatori a salire lungo la catena alimentare: con l’aumento dei livelli di reddito, crescono anche i consumi di pollame e altri alimenti di origine animale a impiego intensivo di cereali. Nelle economie emergenti, in particolare, il fenomeno riguarda almeno 3 miliardi di persone, ma la maggiore concentrazione dei nuovi carnivori si rileva in Cina, che ha ormai raddoppiato il consumo di carne rispetto agli Stati Uniti. Oggi, inoltre, i cereali vengono utilizzati come carburante per le automobili: nel 2011 gli Usa hanno raccolto qualcosa come 400 milioni di tonnellate di granaglie. (...) Sul versante dell’offerta, poi, gli agricoltori si trovano ancora di fronte all’antica minaccia dell’erosione del suolo. Circa il 30% delle terre coltivabili sta perdendo lo strato superficiale produttivo a un ritmo più rapido della sua rigenerazione naturale. E si stanno formando due enormi «catini di polvere» ( dust bowl ), uno nella Cina nordoccidentale e l’altro in Africa centrale. (...)

Mangiare a scuola

Sul versante della domanda si presentano quattro necessità impellenti: la stabilizzazione della popolazione mondiale, l’eliminazione della povertà, la riduzione dell’eccessivo consumo di carne e la revisione delle politiche sui biocarburanti (che incentivano l’utilizzo di beni alimentari, terreni e risorse idriche utilizzabili invece per sfamare la popolazione).

Occorre agire su tutti questi fronti contemporaneamente. I primi due obiettivi sono strettamente collegati: la stabilizzazione demografica dipende infatti dall’eliminazione della povertà.
Basta un rapido sguardo ai tassi di crescita della popolazione per rendersi conto che i Paesi in cui il numero degli abitanti è stabile sono praticamente tutte nazioni ad alto reddito. Viceversa, quasi tutti i Paesi con alti tassi di crescita demografica si collocano agli ultimi gradini della scala economica globale.

Il mondo deve impegnarsi a colmare le lacune nell’accesso ai servizi di salute riproduttiva e di pianificazione familiare e battersi per sconfiggere la povertà: i progressi nell’uno e nell’altro campo si rafforzano a vicenda. Due sono i presupposti fondamentali per eliminare la povertà: far sì che tutti i bambini, maschi e femmine, ricevano almeno un’educazione scolastica elementare e le cure sanitarie di base. Nei Paesi più poveri, inoltre, occorre avviare programmi di alimentazione scolastica sia per incoraggiare le famiglie a mandare i propri figli a scuola sia per mettere questi ultimi in condizione di imparare una volta che vi accedono.

Si afferra con maggiore pienezza la portata eversiva dell'enciclica Laudato si' di Papa Francesco – rispetto a tutta la tradizione millenaria della chiesa - se si tiene conto della storia del pensiero ambientalista... (continua a leggere)

Si afferra con maggiore pienezza la portata eversiva dell'enciclica Laudato si' di Papa Francesco – rispetto a tutta la tradizione millenaria della chiesa- se si tiene conto della storia del pensiero ambientalista.Nel 1967, uno storico americano, Lynn White jr, pubblicò su Science un saggio che fece scandalo . Nel suo Le radici storiche della nostra crisi ecologica, White sosteneva, con notevole precocità, che le condizioni di progressiva alterazione degli equilibri ambientali risiedevano nel dominio esercitato in Occidente dalla cultura religiosa giudaico cristiana. Già nella Bibbia, nel libro della Genesi egli ritrovava le prime origini di quella cultura «E Dio disse: “Facciamo l'uomo a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Era dunque la Chiesa, al centro dell'accusa. L'ampia discussione che ne seguì ridimensionò in parte le argomentazioni di White.Qualcuno ricordò che della storia del cattolicesimo faceva parte anche San Francesco. Giusta osservazione, specie in questo caso. Ma San Francesco fu una stella solitaria. Altri ricordarono che in Giappone, plasmato da una ben diversa storia religiosa, già a fine 800 lo sviluppo industriale aveva generato gravi alterazioni ambientali. Vero. Ma ormai il capitalismo poteva vincere anche le resistenze religiose più radicate. In realtà nessuno poté sminuire il carattere per così dire fondativo della cultura cattolica nel plasmare il rapporto dominante uomo-natura nelle società dell'Occidente. Del resto lo stesso Francesco – all'interno di un ragionamento “laico”- ammette che «il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura» .Mentre Max Weber, che oltre a essere un grande sociologo era prima di tutto uno storico delle religioni, ha ricordato, nei sui studi sul capitalismo, come le religioni orientali, col loro animismo, tendessero a rendere sacri non solo le altre creature, ma anche , i territori, le acque le montagne...

Ora è vero che nel frattempo la Chiesa ha mutato la sua visione della natura.In questa enciclica Francesco ricorda i primi contributi “ambientalisti” di Paolo VI, quelli di Giovanni Paolo II, di Bendetto XVI. Ma la sua posizione è oggi dirompente: «Siamo cresciuti - scrive, a proposito della Terra - pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla.» Ma non solo non siamo più padroni incontrastati, siamo fatti della stessa materia che stiamo distruggendo: «Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora». Qui papa Francesco fa proprio il più avanzato pensiero scientifico ambientalista. Si pensi alle affermazioni sorprendenti a proposito della biodiversità:««Probabilmente ci turba venire a conoscenza dell’estinzione di un mammifero o di un volatile, per la loro maggiore visibilità. Ma per il buon funzionamento degli ecosistemi sono necessari anche i funghi, le alghe, i vermi, i piccoli insetti, i rettili e l’innumerevole varietà di microorganismi.» Anche se non appare citato Edgar Morin, con i sui studi pubblicati nei volumi della Méthode, o la vasta letteratura ecologista radicale, l'impronta a ma pare onnipresente. Non meno coerente con tale impostazione appare la critica alla cultura dominante: «La tecnologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri.».

Ma un altro aspetto della radicalità eversiva di questa enciclica risiede a mio avviso nel fatto che papa Francesco evidenzia costantemente la connessione tra la violenza alla natura e dominio di classe: lo sfruttamento esercitato dalle potenze economiche del nostro tempo contro i poveri della terra. Egli coglie «l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta» e mette in luce come il saccheggio delle risorse colpisce l'economia delle popolazioni, mentre l'inquinamento danneggia in primo luogo i più deboli. E non rimane nel vago.E' il caso di una risorsa come l'acqua. « Un problema particolarmente serio è l’acqua disponibile per i poveri, che provoca molte morti ogni giorno. » Problema che non è frutto della fatalità: «Mentre la qualità dell’acqua disponibile peggiora costantemente, in alcuni luoghi avanza la tendenza a privatizzare questa risorsa scarsa, trasformata in merce soggetta alle leggi del mercato. In realtà, l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani.»

Infine un altro elemento sembra dare a questa enciclica un profilo politico di assoluta novità. E' la denuncia, se non di un nemico, certamente di un avversario.Sappiamo che in passato la Chiesa non ha mancato di esprimere denunce serrate alla società capitalistica e alle sue ingiustizie. Nella sua dottrina sociale, negli ultimi decenni, è venuta accentuando la radicalità di queste critiche. Ma alla fine una sintesi ecumenica finiva col rendere indistinguibili i responsabili.Gli agenti, i reali vessatori, assumevano un profilo evanescente.

Il papa, naturalmente non può scendere in casi particolari, ma denuncia apertamente – come ha ricordato E.Scandurra( Il manifesto, 23/6) - che «Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi ». E il problema del debito dei paesi è lumeggiato come meglio non si poteva:«Il debito estero dei Paesi poveri si è trasformato in uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il debito ecologico. In diversi modi, i popoli in via di sviluppo, dove si trovano le riserve più importanti della biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei Paesi più ricchi a prezzo del loro presente e del loro futuro. La terra dei poveri del Sud è ricca e poco inquinata, ma l’accesso alla proprietà dei beni e delle risorse per soddisfare le proprie necessità vitali è loro vietato da un sistema di rapporti commerciali e di proprietà strutturalmente perverso.»

E poiché il papa ha parole per tutti, non manca di ricordare le responsabilità dei governi e del ceto politico del nostro tempo:«La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente.»

Dunque, la Chiesa, la più antica istituzione di potere della storia umana,per due millenni strumento di controllo e conservazione sociale, rovescia il suo passato e lancia la sua sfida aperta ai poteri del mondo laico. Lo fa, naturalmente col suo linguaggio, che può essere quello di tutti, credenti e non credenti:«Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale.». Credo che la sinistra debba cogliere questa svolta culturale che fa epoca. Essa può ritrovare il suo universalismo perduto, quell'”internazionalismo proletario” , naufragato con l'involuzione autoritaria dell'URSS, che era stato la stella polare di diverse generazioni.

In 'Italia ha un grande precedente storico cui ispirarsi. Quando, ai primi anni '60, emerse la figura di Papa Giovanni e si aprì il Concilio Vaticano II, il Partito comunista avviò un ampio dialogo con il mondo cattolico, sui temi della pace nel mondo e dell'emancipazione sociale.Ne seguirono conseguenze politiche di grande portata, con tante nuove forze che entrarono nella lotta politica progressista. La salvezza della casa comune della Terra oggi è il nuovo terreno di dialogo. Ma occorre un mutato paradigma e nuovi dirigenti politici all'altezza della sfida, che non possono certo essere i giovani “rottamatori”di oggi, in realtà rappresentanti del fronte avversario, tardi epigoni di una cultura senza avvenire.

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