«La più recente acquisizione scientifica secondo cui il suolo costituisce una spugna che trattiene il carbonio e dunque riduce l'effetto serra è un tassello che pone una questione ineludibile: il suolo è un bene comune, drammaticamente scarso e di inestimabile valore». Il manifesto - supplemento clima, 27 novembre 2015
Uno degli effetti indesiderati delle conferenze mondiali sul clima è che essi rafforzano, nella mente del comune cittadino, l'impressione di una spoliazione delle proprie possibilità d'azione, la certificazione dell'inefficacia del suo agire personale. Come se la soluzione dei problemi fosse interamente affidata agli accordi internazionali tra gli stati, chiamati a quella sorta di consulto mondiale sulla salute del pianeta. Un sentimento di impotenza, che induce, nel migliore dei casi, all'attesa di un vaticinio finalmente fausto per il nostro avvenire.
Dunque, l'agricoltura è un ambito in cui molto si può fare dal basso per ridurre l'effetto serra. Molte pratiche agricole sono già in atto, per ridare al suo suolo la sua piena funzione di ecositema: l'agricoltura biologica e biodinamica, la permacultura (che elimina o riduce l'aratura dei suoli), il ricorso ai concimi organici e al compost. Ma ancora tanto si può fare, attraverso uno sforzo di lunga lena capace di produrre una trasformazione culturale profonda a livello di massa, e intercettando un filone teorico di critica dirompente al capitalismo del nostro tempo. Pensiamo all'atteggiamento dissipatore che domina ancora nelle zone agricole. Ogni anno, nei mesi dall'inverno alla primavera, le campagne fumano. Gli agricoltori bruciano in qualche angolo della loro azienda la ramaglia della potatura delle piante o delle siepi. Si tratta di altra anidride carbonica che si aggiunge a quella solita. Ma si tratta anche di una rilevante quantità di biomassa che potrebbe trovare altri usi, e che l'assenza di una organizzazione di raccolta rende impossibile. Eppure essa si imporrebbe, soprattutto per ragioni culturali. Il materiale che la natura produce non va distrutto, deve ritornare in qualche modo alla terra, o trovare comunque un uso economicamente utile. Si deve spezzare in ogni ambito la logica dell'estrazione lineare.
Ma la scoperta del ruolo che il suolo gioca nell'assorbimento del carbonio ci porta a ricordare quanto si possa fare per ripristinare un'economia circolare, che aiuti la natura a chiudere i suoi cicli. E un ambito rilevante è quello del rapporto tra la città e la campagna. Per secoli, in Italia, come nel resto d'Europa e del mondo, la città non era solo consumatrice di beni agricoli, ma riforniva le campagne di energia sotto forma di letami, deiezioni, materia dei pozzi neri, ecc. (E. Sori, La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, il Mulino 2001).
La raccolta differenziata dei rifiuti rappresenta una delle leve per fondare una nuova economia del riciclo, che rompa la logica estrattiva, e avvii un nuovo corso. Quanti dei nostri rifiuti organici possono ritornare al terra per renderla più fertile, più capace di trattenere acqua e carbonio? Ma il grande snodo teorico che può fondare una svolta anche politica di rilevante portata è una acquisizione del pensiero ecologico recente: comprendere che la città è un ecosistema. Essa non è , sotto il profilo fisico, una foresta di pietre. Oltre a costituire una vorace dissipatrice di energia prodotta al suo esterno, essa vive dentro un territorio, che condiziona e da cui è condizionata: altera il clima generando calore, inquina l'aria e i suoli dei d'intorni con discariche, fabbriche, ecc.
«Movimenti. Verso la manifestazione nazionale del 29, la coalizione delle associazioni ambientaliste discute a Roma proposte e iniziative economiche e sociali». Il manifesto, 14 novembre 2015
Come è noto, all’inizio di dicembre si svolgerà a Parigi il COP 21, il convegno mondiale sullo stato e sulle dinamiche del cambiamento climatico del pianeta Terra a cui aderiscono tutti i paesi del mondo. Anche l’Italia parteciperà, ed ha riunito a Roma il 6 Novembre la coalizione nazionale delle associazioni ambientaliste, in vista della manifestazione romana del 29 Novembre e discutere la linea da seguire in Italia e a Parigi. Chi scrive fa parte di questa coalizione in quanto presidente dell’Associazione Nazionale “Ambiente e Lavoro”, nata con il disastro di Seveso con l’obiettivo di combattere i pericoli della produzione all’interno del luogo di lavoro e nell’ambiente tutto, collegando ambientalisti e lavoratori.
Per molto tempo è stato difficile unire ambiente e lavoro avendo come obiettivo l’eliminazione dei possibili effetti negativi per l’ ambiente e la salute fuori e dentro l’azienda senza dover ridurre l’occupazione. Nell’incontro del 6 Novembre si sono espresse voci di ambientalisti, ma anche di rappresentanti della Cgil, e delle organizzazioni dei lavoratori in genere, rappresentanti degli studenti, una organizzazione trasversale come Avaaz, operatori che lavorano nelle regioni e nei comuni. Per la prima volta, per quanto ricordi, ha preso corpo una discussione di “ambientalismo sociale ed economico” che, invece di affrontare solo genericamente i concetti di base del cambiamento climatico, i suoi effetti e lo stato generale dell’ambiente, si è concentrata sul nostro Paese affrontando insieme i problemi economici, sociali e politici italiani su cui intervenire in previsione della accelerazione del processo climatico.
Sul piano economico si è richiesto di evitare le spese che poco hanno a che fare con l’ambiente e le vite umane, quelle che servono essenzialmente ad aumentare la parte finanziaria della nostra economia. Come è successo con Expo, con il piano del modello di sviluppo di Eni, con la costruzione di Enel gas a Manfredonia, e in genere con costruzioni che fanno guadagnare i costruttori, senza tenere conto degli effetti negativi della cementificazione. O con gli interventi inclusi nel cosiddetto “sblocca Italia”, le pericolose trivellazioni, così vicine al cosiddetto fracking praticato egli Stati uniti ed criticato da moltissime associazioni nel mondo. A tutto questo si aggiungono i mancati finanziamenti per nuovi piani per l’agricoltura, il disastro che si determinerebbe con la eliminazione dei forestali, unica organizzazione di controllo delle foreste, elemento fondamentale per l’uso e il blocco di CO2 .
Tutto avviene in un Paese sempre meno democratico in cui si discute molto raramente con le persone e le associazioni che, in Italia, chiedono di essere considerate portatrici delle idee degli associati e delle comunità locali. Molto rilevanti per la democrazia e per la richiesta di attivare lo scarso dibattito sull’ambiente in genere, e in particolare sull’ambientalismo sociale ed economico, sono stati gli interventi vivaci e competenti degli studenti per l’ambiente, con l’annuncio di una manifestazione nazionale a Roma il 17 Novembre, e degli insegnanti presenti, critici della “buona scuola”, dove si parla sempre meno del cambiamento climatico, nonostante l’interesse e le richieste dei ragazzi che, come negli interventi hanno ampiamente dimostrato, sono ormai sempre più coscienti e preoccupati della accelerazione prevista e continua del cambiamento climatico. Ben poco se ne parla sia nei diversi gradi della scuola che nei giornali e in televisione. Così ben pochi sono informati dei due strumenti generali su cui si può puntare per la sopravvivenza del pianeta: la mitigazione, cioè la riduzione dell’aumento dei gas serra, e l’adattamento, che significa la salvaguardia degli ambienti naturali e degli elementi fondamentali per la vita: la terra, le agricolture, l’aria pulita, le energie rinnovabili, l’acqua potabile.
A questi elementi si aggiunge anche la biodiversità, unico strumento che permetterebbe di adattarci in molti e, appunto, diversi ambienti nel tempo e nello spazio. Tutti questi strumenti necessari per la sopravvivenza della nostra specie vanno conservati, usati, e resi utilizzabili da tutti. Ne va perciò combattuta con assoluta fermezza la brevettazione, soprattutto da parte delle multinazionali delle piante e degli animali, come Monsanto & Co. che hanno purtroppo già brevettato l’acqua del Kasakhstan .
L’ambientalismo non può più limitarsi alla salvaguardia, pure fondamentale, delle specie in vie di estinzione e in genere della biodiversità. Non può non affrontare e modificare con tutti gli strumenti possibili l’economia reale combattendo quella finanziaria, promuovendone il ritorno al significato iniziale, allo scopo di mantenere leggi necessarie per le vite non solo umane ma della Biosfera. Di questo, molti parlano e molto spesso, ma raramente, come si è verificato nell’incontro di Roma, persone di tutte le categorie, interessate alla tematica ambientalista, hanno chiesto con forza e chiederanno alla manifestazione nazionale che economia e politica siano consapevoli della unicità del nostro pianeta e della necessità di permettere al mondo vivente di sopravvivere insieme alle infinite diversità presenti sulla terra, tutte non solo sufficienti ma a tutte necessarie.
Non si fa perché non conviene all'economia e ai consumatori USA, e perchè a Parigi vuol fare bella figura. Ma se costruire il mostro convenisse e Parigi non ci fosse, allora direbbe si? La Repubblica, 7 novembre 2015
Il padre di tutti gli oleodotti non si farà. Barack Obama ha chiuso una discordia durata sette anni, che aveva spaccato in due il Nordamerica. Il presidente ha deciso di consolidare la sua eredità ambientalista, a tre settimane dalla sua partecipazione al summit di Parigi sul cambiamento climatico. Stop finale, dunque, per un’infrastruttura da quasi duemila chilometri, che avrebbe trasportato 800mila barili di petrolio al giorno: dai giacimenti sabbiosi dello Stato dell’Alberta (Canada) alle raffinerie dell’Illinois, giù giù fino a raggiungere i porti petroliferi Usa che si affacciano sul Golfo del Messico. Ci tenevano moltissimo, oltre al Canada, i petrolieri e i repubblicani. Gli ambientalisti ne avevano fatto il nemico pubblico numero uno, un progetto da contrastare ad ogni costo. Obama ha dato ragione a loro.
«L’indagine effettuata su mia richiesta dal Dipartimento di Stato – ha detto Obama annunciando il verdetto finale dalla Casa Bianca – ha concluso che l’oleodotto Keystone XL non contribuisce all’interesse nazionale degli Stati Uniti». Il presidente ha quindi elencato puntigliosamente tutte le ragioni: «Primo, non darebbe un contributo alla crescita della nostra economia che ha già creato 13,5 milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi 68 mesi. Secondo, non abbasserebbe il prezzo della benzina per i consumatori, prezzo già sceso per conto suo. Terzo: non migliorerebbe la nostra autosufficienza energetica visto che già oggi produciamo più petrolio di quanto ne importiamo». Obama ha voluto smontare così pezzo per pezzo gli argomenti della destra, secondo cui il suo ambientalismo danneggia lo sviluppo economico e quindi l’occupazione. Guardando al summit di Parigi, Obama ha dichiarato che «l’America deve esercitare la sua leadership attraverso l’esempio che dà, dobbiamo proteggere il pianeta finché siamo in tempo». La guerra santa che si era sviluppata in questi sette anni attorno all’oleodotto, si è intrecciata con cambiamenti di tutto lo scenario energetico. La rivoluzione tecnologica da una parte (fracking e trivellazioni orizzontali) ha consentito un boom dell’offerta nordamericana. La frenata della crescita cinese ha ridotto la domanda. Il combinato dei due mutamenti ha fatto crollare il prezzo di petrolio e gas, soprattutto se espresso in dollari. Rispetto alle origini del progetto Keystone XL, la sua opportunità economica ora è molto meno stringente. Approvare la costruzione di un’infrastruttura così imponente significava, secondo gli ambientalisti, un incoraggiamento di fatto all’uso di energie fossili. Obama è stato aiutato anche da alcuni sviluppi politici: in Canada l’elezione del nuovo premier Justin Trudeau, meno legato alla lobby petrolifera rispetto al suo predecessore. Negli Stati Uniti, Hillary Clinton ha sciolto ogni riserva annunciando la sua contrarietà all’oleodotto (e quindi, in caso di vittoria nel novembre 2016, alla Casa Bianca ci sarebbe comunque un presidente ostile al progetto).
Gli esperti ricordano che questo presidente ha già preso altre decisioni il cui impatto ambientale è superiore alla bocciatura del maxi-oleodotto. La più importante di tutte è stata la nuova regolamentazione delle emissioni carboniche per le centrali che producono energia: i tetti imposti daranno il contributo più sostanziale al taglio di gas carbonici da parte degli Stati Uniti. I repubblicani pur dominando il Congresso non sono riusciti a imporre la loro linea, negazionista del cambiamento climatico e allineata sugli interessi dei petrolieri.
Una limpida sintesi del principale filo conduttore (secondo uno sguardo laico) dell'enciclica Laudato sì: il perverso dominio esercitato dalla "cultura dello scarto" sull'uomo, la società, il pianeta Terra e gli altri suoi abitanti
«Questo riguarda specialmente alcuni assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica. Per esempio: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita» (16). Perché?
Lo scarto e soprattutto la cultura dello scarto, cioè la sua accettazione e legittimazione, evidenziano innanzitutto il modo di funzionare del sistema economico in cui siamo immersi: un sistema produttivo lineare che aggredisce le risorse della Terra senza curarsi degli equilibri dell’ambiente da cui vengono prelevate, per trasformarle il più rapidamente possibile in rifiuti, cioè in cose di cui società e sistema produttivo non sanno più che fare, e che per questo vengono restituite all’ambiente con modalità che contribuiscono al suo degrado, cioè sotto forma di rifiuti o di inquinanti (e, tra questi, i gas serra, che stanno alterando in modo irreversibile gli equilibri climatici del pianeta).
All’economia lineare Francesco contrappone, sulle tracce di ciò che Vandana Shiva (mai citata in questa enciclica) e altri con lei chiamano legge del ritorno, l’urgenza di rendere circolari i processi produttivi, in modo da impiegare in nuovi modi e sotto nuove forme ciò che non può più essere utilizzato in quelli dismessi; oppure in modo da restituirlo all’ambiente in forme compatibili con il rinnovarsi dei suoi cicli biologici, idrici e metereologici.
Francesco indica esplicitamente come alternativa «un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento [delle risorse], riutilizzare e riciclare». Ma la cultura dello scarto non riguarda solo il nostro rapporto con l’ambiente: «La cultura dello scarto finisce per danneggiare il pianeta intero…e… colpisce tanto gli esseri umani quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». Ciò finisce per trasformare la terra, che è la nostra casa comune, «in un immenso deposito di spazzatura» (22).
Da quello con le cose questo approccio lineare, caratterizzato da un prelievo irresponsabile di risorse e da un’altrettanta irresponsabile produzione di rifiuti, si trasferisce alla società e investe il anche nostro rapporto con gli esseri umani, con il nostro prossimo. «Perché – scrive Francesco – anche l’essere umano è una creatura di questo mondo» (43).
Un’affermazione come questa evidenzia il completo abbandono di una concezione antropocentrica. L’essere umano ha sì una sua peculiare dignità – ogni vivente ha la sua - ma ce l’ha in quanto parte del creato, in quanto legato alla terra a cui lo unisce una fitta e inestricabile rete di rapporti di reciproca dipendenza.
Proprio per questo l’essere umano ridotto a risorsa, che vale solo perché e fino a quando ci serve, è condannato a un destino di scarto non appena non serve più: di qui l’esclusione di una parte crescente dell’umanità, ma anche il suo sfruttamento fintanto che può servire, che può essere usato, cioè avere un ruolo nell’alimentare i cicli della produzione e del consumo.
Quel sistema iniquo – aveva detto Francesco il 28 ottobre dell’anno scorso a Roma, rivolgendosi ai rappresentanti dei movimenti popolari – «è il prodotto di una cultura dello scarto che considera l’essere umano come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare». Alle forme tradizionali di sfruttamento e di oppressione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di rendere gli esseri umani superflui: «quelli che non si possono integrare, gli esclusi, sono scarti, eccedenze…Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non la persona umana».
E’ evidente in questo approccio l’influenza di un altro autore molto presente in questa enciclica, anche se anch’esso mai citato: Zigmunt Bauman, che della trasformazione degli uomini e delle loro vite in scarti, a partire dall’analisi del rapporto tra modernità e olocausto, ha fatto uno dei temi portanti del suo lavoro di ricerca.
Il mondo contemporaneo, per Bauman, non presenta più spazi vuoti, dove allontanare dalla nostra presenza i materiali che non ci servono più, come accadeva in molte civiltà preindustriali. Ma non presenta più neanche spazi sociali vuoti, verso cui sospingere l’umanità che eccede il fabbisogno del sistema produttivo; quell’umanità che in passato era stata mandata a popolare le colonie (a partire dalle Americhe), considerate spazi socialmente vuoti, perché i popoli che le abitavano non venivano considerati membri dell’umanità.
Oggi quegli spazi sociali non ci sono più e le «vite di scarto”, le persone di cui non si sa più che fare, cioè non si ha un interesse diretto a mettere al lavoro (come oggi succede soprattutto con i profughi e i migranti di troppo) finiscono per costituire una delle principali contraddizioni con cui si confronta la società contemporanea. Come i residui inquinanti e i gas climalteranti prodotti o emessi come scarti dal sistema produttivo costituiscono la principale minaccia per la vivibilità futura del nostro pianeta, così gli esseri umani «di troppo”, che il sistema produttivo condanna a una vita di scarto, rappresentano una delle principali contraddizioni che minacciano l’equilibrio degli attuali, iniqui, assetti sociali.
C’è dunque un rapporto diretto tra degrado dell’ambiente ed esclusione sociale: «non ci sono due crisi, una ambientale e l’altra sociale» (139); sono due risvolti di un processo unico. E non si può contrastare e combattere l’enorme mole di ingiustizia che contraddistingue il mondo di oggi senza porre rimedio anche a un atteggiamento verso la terra e le sue risorse che non si ispira alle regole della cura della casa comune, e che non fa dell’essere umano il loro custode.
Le manifestazioni principali di questo squilibrio, di questo oblio della cura che dovrebbe improntare di sé tutti i nostri rapporti, sia con l’ambiente che con l’umanità, si possono vedere nel ruolo assunto dal denaro come unico metro di misura di ciò che vale e merita di essere perseguito e nel potere crescente della finanza, che, nella sua corsa all’accumulazione, non rispetta né l’essere umano né l’ambiente.
Alla cultura dello scarto, equiparata tout court al modello di sviluppo in auge - «non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone» (43) - Francesco contrappone il progetto della conversione ecologica; un altro concetto, questo, ripreso da un autore molto presente in tutto lo sviluppo dell’enciclica, anche se mai citato: Alex Langer.
Se la cultura dello scarto descrive e denuncia le criticità del presente, dello stato di cose in essere, la conversione ecologica prospetta e delinea il futuro, la strada da seguire per riportare la terra, la convivenza umana, e la convivenza dell’essere umano con l’ambiente, entro i limiti della sostenibilità.
Come già Langer, anche Francesco evidenzia i due aspetti fondamentali della conversione ecologica: da un lato c’è quello «oggettivo”, costituito da un sistema economico, O modello di sviluppo, in cui la produzione sia al servizio degli esseri umani e non viceversa. In questa dimensione fondamentale risulta essere l’aspetto temporale, cioè l’abbandono del paradigma della velocità: «dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo» (191).
Ma Francesco entra anche nel merito delle cose da fare: «in ambito nazionale e locale c’è sempre molto da fare, ad esempio promuovere forme di risparmio energetico. Ciò implica favorire modalità di produzione industriale con massima efficienza energetica e minor utilizzo di materie prime, togliendo dal mercato i prodotti poco efficaci dal punto di vista energetico o più inquinanti. Possiamo anche menzionare una buona gestione dei trasporti o tecniche di costruzione e di ristrutturazione di edifici che ne riducano il consumo energetico e il livello di inquinamento. D’altra parte, l’azione politica locale può orientarsi alla modifica dei consumi, allo sviluppo di un’economia dei rifiuti e del riciclaggio, alla protezione di determinate specie e alla programmazione di un’agricoltura diversificata con la rotazione delle colture. È possibile favorire il miglioramento agricolo delle regioni povere mediante investimenti nelle infrastrutture rurali, nell’organizzazione del mercato locale o nazionale, nei sistemi di irrigazione, nello sviluppo di tecniche agricole sostenibili. Si possono facilitare forme di cooperazione o di organizzazione comunitaria che difendano gli interessi dei piccoli produttori e preservino gli ecosistemi locali dalla depredazione. È molto quello che si può fare!» (139).
Niente a che fare con la negazione del ruolo dell’innovazione: «la diversificazione di una produzione più innovativa e con minore impatto ambientale può essere molto redditizia. Si tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo» (191).
Poi c’è l’aspetto «soggettivo» della conversione ecologica, che risiede in un diverso modello di consumo, improntato alla sobrietà e al consumo critico, a un altro stile di vita, a un impegno responsabile in direzione della sostenibilità.
In entrambi questi risvolti la conversione ecologica non può tuttavia essere una scelta solo individuale: è sempre, anche – ricorda Francesco – una «conversione comunitaria» (219): un’azione collettiva che richiede partecipazione e impegna al conflitto.
Questa parte dell’enciclica che promuove e legittima la lotta dei poveri e degli esclusi contro l’ingiustizia, le diseguaglianze e il degrado della vita rimanda direttamente alle parole, a quell’invito a lottare per i propri diritti, che Francesco aveva rivolto ai rappresentanti dei movimenti popolari nell’incontro citato del 28 ottobre dell’anno scorso.
Ma rispetto all’elaborazione di Langer, che risale a oltre vent’anni fa, nello sviluppare il tema della conversione ecologica Francesco aggiunge, o evidenzia maggiormente, due aspetti. Da un lato il nesso stretto tra un sistema produttivo compatibile con i limiti fisici del pianeta e la giustizia sociale, come sua componente intrinseca; perché le vittime principali del dissesto ambientale sono i poveri della terra. Sono i diritti della terra a dover essere salvaguardati, perché senza di loro l’ingiustizia è destinata a trionfare anche nei rapporti reciproci tra gli esseri umani.
Dall’altro, Francesco sottolinea LA dimensione spirituale della conversione ecologica, certo non assente in Langer, che era anche lui un cristiano. A questa dimensione spirituale Francesco attribuisce un connotato preciso: è la capacità di entrare in consonanza con tutto il vivente. In questa enciclica IL rapporto tra l’essere umano e dio non è mai affrontato in modo diretto, ma è sempre mediato dall’atteggiamento – e dal comportamento – del genere umano verso il creato, come nel Cantico di San Francesco a cui si ispira l’enciclica.
Se, come scriveva Alex, «la conversione ecologica potrà affermarsi solo se sarà socialmente accettabile”, ora Francesco cerca di esplicitare, dal punto di vista spirituale, che cos’è che può promuovere quell’accettabilità sociale che ne condiziona l’affermazione: è la capacità di entrare in sintonia con tutto il vivente; anche l’essere più infimo e apparentemente insignificante, a cui l’enciclica dedica un’attenzione non minore di quella accordata ai grandi problemi della terra.
E’ un tema che non si può più evitare di introdurre e far valere in tutti i nostri discorsi, le nostre elaborazioni e le nostre pratiche: sia quelle di lavoro o di ordinario svolgimento della nostra vita quotidiana, sia quelle di partecipazione alla lotta politica, al confronto culturale e al conflitto sociale.
Il nostro rischio di cancro è solo un sintomo, del vero cancro che si sta mangiando il territorio che abbiamo sotto i piedi, e che alimentiamo anche con le abitudini di consumo: più che mai insomma è ancora valida la famosa massima secondo cui il personale è politico. Today, 2 novembre 2015
Perché di che mondo ci parlava, quella OMS mondiale per definizione e che di mondiale deve per forza avere la prospettiva? Ci parlava di un mondo dove quote assolutamente maggioritarie delle proteine animali desinate all'alimentazione umana viaggiano su filiere che paiono studiate apposta per riprodurre il peggio della logica industriale: dall'accaparramento di vastissimi territori remoti, strappati agli agricoltori tradizionali e convertiti in gigantesche macchine da allevamento tritatutto; ai sistemi di alimentazione del bestiame, ingollato a milioni e milioni di esemplari in batteria peggio delle peggiori oche da fois gras delle leggende; alle fucine di satanasso della lavorazione e distribuzione finale del frullato industriale, con la ciliegina dell'etichetta-logo e della pubblicità magari salutista-tradizionale (un bel panorama agreste sulla confezione non si nega a nessuno).
Tutto questo per una clientela prevalentemente urbana, che nulla sa dei criteri di sfruttamento delle risorse agricolo-territoriali, e si immagina magari sul serio che quel brandello di bestia che gli fuma nel piatto guarnito di verdure e aromi, venga davvero dall'animale sorridente disegnato in etichetta, da quegli sfondi collinari col casale in prospettiva, dal tizio baffuto col cappello di paglia delle pubblicità interpretato da un attore professionista. Nulla sa, quella clientela urbana che rischia il cancro, al 15% o 10% in più o chissà quanto, i calcoli sono ovviamente perfettibili, del fatto più importante: il cancro vero è quello delle forme di produzione, delle quantità di proteine animali indispensabili a garantire quei prezzi e quel mercato, nell'attuale modello alimentare. Semplicemente, se ci fosse sul serio la famosa produzione locale sostenibile, a chilometro zero, magari dentro qualche «greenbelt» metropolitana dove è possibile l'allevamento da carne, il cotechino col purè (o l'hamburger, o il prosciutto, o la bistecca) lo assaggeremmo poche volte l'anno, pagandolo un occhio come merita, esattamente come i nostri nonni quando la filiera produttiva assomigliava parecchio a quel modello. Quello che ci dice implicitamente, il comunicato dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, è che il nostro rischio di cancro è solo un sintomo, del vero cancro che si sta mangiando la terra che abbiamo sotto i piedi, e che alimentiamo anche con certe pessime abitudini alimentari e di consumo. Una volta capito questo, poi, torniamo pure a sfottere, a dare dei pervertiti ai vegetariani o a chiunque discuta di ambiente o etica, siamo in democrazia e possiamo pure farlo, no?
Ciò che bisogna fare per evitare il disastro del pianeta e dei suoi abitanti (con un'omissione). Un testo da distribuire nelle piazze, nelle scuole e nei mercati. QualEnergia, settembre ottobre 2015, con postilla
Il mondo arriva decisamente impreparato al prossimo vertice di Parigi. Se i ripetuti allarmi di tanti scienziati, e non solo di quelli IPCC (Intergovernmental Panel for Climate Change), ha fatto breccia sulla parte più avvertita, ma non certo sulla maggioranza, dell’opinione pubblica, inconsapevolezza e irresponsabilità dominano a livello planetario l’establishment politico. Il quale è stato sì edotto del problema e non può più far finta di ignorarlo (anche se al suo interno le lobby negazioniste continuano a esercitare una massiccia influenza); ma continua per lo più a trattare i cambiamenti climatici, che sono già in corso, come tutti possono constatare, e non riguardano solo un remoto futuro, come una “grana” di cui ci si deve occupare quando viene messo all’ordine del giorno, e che richiede tutt’al più qualche misura e qualche investimento ad hoc; non un cambiamento radicale, e in tempi brevi, di tutto l’assetto non solo economico produttivo ma anche sociale.
La conseguenza di tutto ciò è che il pubblico non è stato messo in grado, nemmeno dalle trasmissioni e dagli articoli più seri e informati, di rendersi conto che “niente tornerà più come prima”. E questo, sia che la Terra continui imperterrita la sua marcia verso la catastrofe climatica, sia che finalmente si imponga un cambio di rotta come quello che molti si aspettano dal vertice di Parigi. E’ un po’, ma in una scala enormemente maggiore, lo stesso atteggiamento che si è andato consolidando di fronte alla crisi del 2008, che per molte economie del mondo si è andata trascinando fino ad oggi.
Se andiamo a vedere quali sono gli ambiti, le filiere, i settori che oggi dipendono maggiormente dai combustibili fossili – e che quindi richiedono con maggiore urgenza una rapida e radicale riconversione – non è difficile individuarne quattro; oltre, ovviamente, la generazione elettrica.
Innanzitutto la mobilità: il modello fondato sulla motorizzazione individuale non è sostenibile e l’alimentazione elettrica dei veicoli non ne cambierebbe sostanzialmente l’impatto. Una vettura ogni due abitanti (la media dei paesi sviluppati; l’Italia ha un tasso di motorizzazione ancora più elevato) in un pianeta che tra trent’anni ospiterà dieci miliardi di esseri umani (per poi, finalmente fermarsi), oltre a consumi insostenibili, che metterebbero a dura prova la possibilità di garantirli con fonti rinnovabili, non troverebbero suolo sufficiente per muoversi né per parcheggiare.
In secondo luogo i consumi del settore civile: edilizia residenziale e di servizio, soprattutto per quanto riguarda riscaldamento e climatizzazione: anche in questo campo le tecnologie per ridurre drasticamente i consumi, e per convertirli alle fonti rinnovabili o a un uso diffuso della cogenerazione sono ampiamente testate, sia sulle nuove costruzioni che sugli edifici esistenti, di qualsiasi epoca. Ma diffonderle su tutto il patrimonio esistente è un’impresa titanica: non solo per l’entità dell’investimento, che richiederebbe comunque una complessa articolazione per ripartire la spesa tra intervento pubblico, incentivazione dell’investimento privato e soluzioni finanziarie ad hoc. Ma l’articolazione riguarda soprattutto il mix di fonti rinnovabili, di interventi impiantistici, di ristrutturazioni edilizie, di soluzioni finanziarie e soprattutto di strumenti di comunicazione e di divulgazione che richiedono un approccio specifico, non solo edificio per edificio e territorio per territorio, ma anche interlocutore per interlocutore: diverso è ovviamente l’approccio a una proprietà individuale, a un condominio, a una piccola o media impresa, all’unità locale di un grande gruppo.
Oggi gli interventi vengono per lo più promossi e proposti in ordine sparso, mentre attrezzare squadre pluridisciplinari di tecnici in grado di fare un check-up integrato e una progettazione di massima degli interventi possibili in ogni edificio è la premessa perché ciascuno - proprietari, inquilini, amministratori, imprenditori, manager e dipendenti – si confronti con la responsabilità di rendere sostenibile la porzione di territorio in cui vive e lavora. E’ poi più che ovvio che dal punto di vista occupazionale un intervento a tappeto di questo genere è la premessa per un grande piano pluriennale in grado di creare milioni di posti di lavoro e di compensare qualsiasi perdita occupazionale derivasse dal ridimensionamento dei settori più direttamente legati all’uso dei combustibili fossili.
In terzo luogo - ma forse al primo – occorrerà rivoluzionare le nostre abitudini alimentari. Oggi, in media, per ogni caloria di cibo che arriva sulla tavola di un consumatore occidentale (o dalle abitudini alimentari occidentalizzate), ne vengono consumate nove-dieci di origine fossile: concimi, pesticidi, motorizzazione, trasporto (anche intercontinentale), stoccaggio, manipolazione, confezione, imballaggio e pubblicità rendono il sistema agroalimentare insostenibile. La filiera agroalimentare dovrà cambiare radicalmente: l’agricoltura dovrà essere ecologica (usando fertilizzanti naturali e privilegiando la protezione biologica delle colture), multicolturale, per salvaguardare la fertilità dei suolo, multifunzionale, per garantire ai produttori fonti di reddito diversificate, di prossimità per evitare costi di trasporto e stoccaggio eccessivi.
In gran parte questa trasformazione dipenderà dalle scelte dei consumatori, che dovranno associarsi per garantirsi attraverso un rapporto il più diretto con i produttori, un’alimentazione di qualità, a basso impatto ambientale, prodotta il più possibile da aziende agricole e di trasformazione di prossimità: il che potrebbe cambiare radicalmente l’aspetto del territorio periurbano delle città grandi e piccole, a partire dalla grande diffusione che stanno avendo gli orti urbani, che impegnano spesso in modo condiviso gli stessi consumatori finali in forme che segnano un cambiamento radicale di filosofia e stile di vita.
Ma un cambiamento del genere dovrebbe anche segnare il progressivo ridimensionamento del ruolo di quei templi moderni del consumo che sono il super e l’ipermercato, o il centro commerciale, intorno a cui il capitalismo degli ultimi decenni ha riorganizzato non solo la geografia dei centri urbani (con la desertificazione commerciale di interi quartieri e la scomparsa dei negozi di vicinato) e con essa la quotidianità del cittadino-consumatore costretta a gravitare intorno a questi poli di attrazione, ma anche la struttura planetaria della produzione. Oggi la grande catena di distribuzione, che serve milioni di consumatori, che si approvvigiona in tutto il mondo da decine di migliaia di fornitori che può coinvolgere e abbandonare in qualsiasi momento, che incassa cash e paga a due o tre mesi, sviluppando un’enorme potenza finanziaria, rappresenta le caratteristiche peculiari di un’economia globalizzata assai più dell’industria automobilistica che aveva fornito il modello di organizzazione del lavoro durante tutto il “secolo breve” del fordismo.
Infine viene la gestione dei rifiuti, che sono le miniere del futuro, mano a mano che le vene di minerali che oggi alimentano l’industria si assottigliano, rendendo sempre più ardua e costosa l’estrazione, e che le risorse rinnovabili utilizzate per sostituirle entrano in competizione con la produzione di cibo. Oggi è facile sottovalutare o addirittura irridere alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani, anche da parte di quegli amministratori che ne hanno la responsabilità diretta. Perché non si coglie, e non viene spiegato, che dietro ogni chilo di rifiuti urbani ce ne sono quattro o cinque di rifiuti della produzione, che vanno anch’essi raccolti e trattati allo stesso modo (cosa peraltro assai più facile, perché vengono generati sempre in grandi lotti relativamente omogenei); che il modo migliore di trattarli non è quello di mandarli a smaltimento, ma di incanalarli direttamente verso quegli impianti che li possono rigenerare o riciclare; ma soprattutto che è solo dall’analisi del perché e come un bene si trasforma in un rifiuto che possono venire gli input di una radicale rivoluzione industriale: di una produzione che invece di promuovere l’obsolescenza dei suoi prodotto, trasformandoli in rifiuti per poterne vendere continuamente di nuovi, torni a progettarli per farli durare, per cambiarne solo le componenti logore o obsolete, o per facilitare comunque il riciclo di tutti i materiali di cui è composto il bene prodotto. In nessun campo come in questo la responsabilità di un cambiamento radicale del sistema è condivisa tra cittadini consumatori, amministratori locali, legislatore, sistema produttivo, cioè imprese, e progettisti, cioè designer. L’ecodesign oggi è un campo di azione ai margini di una cultura produttiva fondata e orientata allo spreco delle risorse. Deve diventare il nocciolo di ogni progetto di riconversione produttiva.
L’elenco delle pratiche che si dovrebbero attivare se si volesse davvero affrontare il tema trattato da Viale è quasi del tutto completo, ed è chiaramente argomentato nell’enunciazione della necessità di ciascuno degli elementi. Così com’è chiarissima la condizione di fondo che dovrebbe sorreggere il tutto: la convinzione che l’obiettivo centrale è il superamento dell’attuale modo di produrre e di consumare (che è quello del capitaliso giunto alla sua ultima incarnaziome). Manca però un elemento: la necessità di adottare il metodo e gli strumenti della pianificazione del territorio, a tutte le scale dell’habitat dell’uomo. Se il territorio è una realtà olistica solo un metodo e un insieme di strumenti capaci di governare la complessità sono capaci di ordinare tra loro i vari elementi: dalla mobilità delle persone e delle cose alla distribuzione delle abitazioni e delle attività, dalle regole per le costruzioni e i manufatti a quelle per conservazione/utilizzazione delle risorse naturali ecc. L’abolizione della pianificazione del territorio e la liquidazione delle competenze in materia delle istituzioni democratiche ha costituito un passaggio essenziale nella corsa all’appropriazione individuale dei patrimoni e delle risorse comuni.
Dato che come sempre le variabili ambiente, risorse, salute, territorio, economia e società si tengono, qualche precisazione sulla faccenda salamini o cotechini buoni o cattivi serve. La Repubblica, 27 ottobre 2015, postilla (f.b.)
La conferma che la carne rossa, soprattutto se lavorata, è da considerare una sostanza cancerogena è una notizia che va interpretata positivamente. Segna infatti una vittoria della scienza sulla malattia e non certo dei vegetariani sui carnivori. Non sarà infatti con la sognata pillola antitumore che risolveremo l’endemia del cancro sul pianeta, ma identificando ad una ad una le cause di ogni tumore, per eliminarle.
Troppo spesso il cancro è ancora oggi uno spettro che si materializza al solo evocarlo, vissuto intimamente come una maledizione o una iattura. Ricondurlo a un fenomeno umano che ha un inizio, cioè una causa, uno sviluppo e quindi anche una fine, cioè la guarigione, è fondamentale per tutti: malati, familiari, medici. L’annuncio che viene diffuso oggi dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il più autorevole organismo a livello mondiale in materia, segna dunque una pietra miliare per la prevenzione, la cura e la cultura del cancro.
È una tappa che in molti, come me, si aspettavano da tempo. Da oltre vent’anni anni io sostengo, sulla base dei primi studi epidemiologici che lo Iarc ha ora messo insieme ed analizzato, che esiste un legame causa-effetto fra consumo di carne e tumore del colon. All’inizio sono stato criticato, anche duramente, e sono stato accusato di essere un visionario, influenzato dalle mie convinzioni etiche di animalista. Ma non ero intellettualmente solo: eminenti ricercatori a livello europeo hanno sviluppato i lunghi e complessi studi di popolazione necessari a stabilire la cancerogenità di una sostanza o un alimento, tanto che già nel Codice Europeo contro il Cancro — dieci raccomandazioni di prevenzione per ridurre del 20% la mortalità per cancro in europa entro l’anno 2000 — diffuso dalla Commissione Europea per la prima volta nell’87, figurava al punto tre l’invito a mangiare più vegetali e cereali e al punto quattro la raccomandazione di limitare il consumo dei grassi contenuti principalmente nella carne.
Se dunque la cancerogenità della carne da oggi non è più in dubbio, la discussione si apre ora sulla quantità che la rende pericolosa. Medici e ricercatori a livello internazionale si sono impegnati ad evitare gli allarmismi che potrebbero spingere a pensare che una singola fetta di salame possa essere causa diretta di un tumore al colon. Nessuno afferma che sia così. L’invito è piuttosto ad una riduzione progressiva del consumo di insaccati e carne rossa, a favore di un aumento del consumo di pesce, verdura, frutta, cereali, grassi di origine vegetale. La nostra dieta mediterranea, in sostanza. Più vegetali e meno carne dovrebbe diventare non un diktat scientifico antimalattia, ma una politica per il benessere, adottata nelle scuole, nelle mense aziendali, nei ristoranti, per penetrare a poco a poco nelle famiglie e diventare cultura. Come oncologo sono fondamentalmente d’accordo con questo approccio educativo. Ma come uomo e cittadino di questo pianeta, la penso diversamente.
Il mio mondo ideale è un mondo in cui non si uccidono gli animali per ingoiarli e dunque in cui il consumo di carne è uguale a zero. Primo perché amo gli animali e dunque non li mangio. Non capisco coloro che si scandalizzano all’idea di mangiare il proprio gatto o il proprio cane, ma consumano a cuor leggero le costolette di agnello, un cucciolo delizioso e indifeso che viene massacrato strappandolo dal seno materno a pochi mesi di vita. Ritengo che gli esseri viventi facciano parte dell’equilibrio del Pianeta e i loro diritti vadano rispettati. Prima di tutto quello alla vita. Secondo, perché la carne non è un alimento sostenibile in un universo dove oggi vivono 7 miliardi di esseri umani e oltre 4 miliardi di animali da allevamento e fra poche decine d’anni, se il trend demografico continua con le attuali caratteristiche, vivranno 9 miliardi di uomini e la domanda di carne aumenterà dagli attuali 220 milioni di tonnellate a più di 460 milioni. Si prospetta l’incubo di avere più capi di bestiame che uomini sulla Terra, con una percentuale di questi esseri umani che moriranno comunque ancora di fame Come diceva Einstein, niente può aumentare le possibilità di sopravvivenza dell’uomo sulla terra quanto la scelta vegetariana.
postilla
Il professor Veronesi con questo articolo ci parla di due cose che conosce molto bene di prima mano: le patologie tumorali, e sé stesso, a cui dedica la coda del pezzo, anche a distinguere fatti da posizioni e opinioni personali. Vale certamente la pena di aggiungere un'altra coda, correttamente (stavolta) omessa dal professore per incompetenza, ed è la variabile territorio/ambiente, quella altrettanto saltata a piè pari da chi fa del sarcasmo sulle raccomandazioni dell'Oms a proposito dei consumi di carne: l'insostenibilità per la salute umana è prima di tutto una insostenibilità ambientale. Emissioni di gas serra, consumo di territorio da agro-industria e/o landgrabbing, devastazioni di paesaggi tradizionali per far posto a impattanti macchine produttrici di proteine e grassi animali da alimentazione, Expo baraccone e promozione di hamburger multinazionali. Tutto questo entra a pieno titolo nelle raccomandazioni Oms, perché quello da cui ci stanno mettendo in guardia è che il panino col salame, evocato dalle memorie della nonnina che ce lo metteva nel cestino della merenda, è solo ideologia. Aprire gli occhi, qualunque reazione poi ci evochi, è quantomeno un passo avanti (f.b.)
Le ragioni del movimento contrario all'evento dovevano essere interpretate a partire da una contraddizione di fondo: non si organizza una esposizione sui temi della sostenibilità pensando in termini insostenibili. Today blog Città Conquistatrice, 26 ottobre 2015
Escono in questi giorni le rilevazioni di medio periodo sull'andamento degli affari negli esercizi commerciali di Milano, e si nota come i mesi del grande evento espositivo abbiano o meno avute effetti di stimolo sulle economie cittadine. Le interviste ai campioni di turisti sembrano quasi completamente soddisfacenti, nel senso che la quasi totalità «promuove» Milano, le sue particolarità storiche e curiosità, l'offerta culturale delle mostre ed eventi collaterali. Questo entusiasmo però non parrebbe complessivamente riguardare il genere di cose di cui bene o male si alimenta la cosiddetta economia turistica, quella fatta di ristorazione, shopping eccetera. Lo dicono i baristi e i titolari di negozi, soprattutto fuori dal piccolissimo nucleo del centro e dei suoi triangoli magici degli stilisti e concentrazioni di folle. E viene di nuovo da ripetere quella specie di nenia del «noi l'avevamo detto», o per meglio specificare l'aveva detto in fondo fin dall'inizio l'opposizione dei No Expo.
Certo, come tutte le posizioni variamente nimby e negazioniste, anche quella del movimento contrario all'evento doveva-poteva essere interpretata, più che alimentata o contrastata, dato che c'erano ottime ragioni, a partire da una contraddizione di fondo: non si organizza una esposizione sui temi della sostenibilità pensando in termini insostenibili. Pare una contraddizione diciamo così filosofica, se non campata decisamente per aria, ma non lo è affatto. «Nutrire il Pianeta – Energia per la Vita» nel XXI secolo evoca immediatamente, specie per un pubblico di massa mediamente istruito e interessato, stili di vita e alimentazione in qualche misura innovativi, futuribili, sperimentali, certamente diversi dalla pura pappatoria, sia essa quella della trattoria dell'angolo che della pausa pranzo tramezzino in ufficio. E invece fin da subito le cosiddette «strategie» prevalenti negli organizzatori, foraggiate dalle multinazionali, hanno remato nell'altra direzione. Quando al progetto del cosiddetto Orto Planetario, molto leggero e organizzativamente diffuso, si è preferita la classicissima Fiera della Pappatoria dentro il suo recito da parco tematico.
Quando, in pratica, si è rinunciato a sfruttare in sinergia quella risorsa che era il territorio urbano e agricolo della metropoli, scegliendo invece il modello del centro commerciale suburbano chiuso nella propria scatola luccicante, che offre tutto e il contrario di tutto con comodi parcheggi e offerta tre per due. Culturalmente, e poi in modo automatico anche nei criteri organizzativi e negli equilibri, si è finito così per replicare il classico processo di concentrazione/svuotamento che da almeno mezzo secolo mette la grande distribuzione sia contro i produttori e trasformatori di materie prime, sia contro gli esercenti tradizionali. Quella specie di Disneyland costruita fra i due tracciati autostradali ai limiti dell'area urbana, svolge perfettamente quel ruolo di aspiratore di tutto quanto, e insieme di banalizzazione, essendo progettata da manuale in quel modo. E tradisce il proprio ruolo dichiarato, anche se poi ospita dotti convegni sull'ambiente e la sostenibilità, i quali convegni e dichiarazioni non intaccano lo slogan alla McLuhan: «il medium è il messaggio». Ecco dove avevano assolutamente ragione, e ancora ce l'hanno, i No Expo: anche alla luce delle apparentemente pretestuose polemiche degli esercenti locali, appare evidente che si devecambiare strada, e farlo abbastanza alla svelta.
Un appello sul cambiamento climatico in vista dell’incontro a Parigi della COP21 firmato da Desmond Tutu, Noam Chomsky, Vivienne Westwood, Naomi Klein e un centinaio di attivisti che chiedono di “fermare i crimini climatici”. Frenare il cambiamento climatico significa ripensare radicalmente il nostro modello di società, senza false soluzioni». Comune.info, 9 ottobre 2015
Un centinaio di attivisti, accademici, figure di spicco della società civile mondiale chiamano ad un’azione globale in vista della prossima Conferenza delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico, prevista a Parigi a dicembre. Personaggi comeDesmond Tutu, Vivienne Westwood, Naomi Klein e Noam Chomsky assieme a molti altri referenti di realtà di movimento chiariscono come questo sia un momento storico, in cui è necessaria una crescente pressione dei cittadini per portare a un vero e proprio cambiamento strutturale.
“Siamo di fronte a un bivio” si legge nell’appello, pubblicato nel libro “Stop Climate Crime” prodotto e diffuso da 350.org e Attac France, tra le principali realtà mobilitate contro un modello di sviluppo insostenibile, “nel passato, uomini e donne determinati hanno resistito e sconfitto i crimini della schiavitù, del totalitarismo, del colonialismo e dell’apartheid. Decisero di combattere per la giustizia e la solidarietà e sappiamo che nessuno di loro lo avrebbe fatto per se stesso. Il cambiamento climatico è una sfida simile, e noi stiamo alimentando un’altrettanto simile reazione”. Tra i firmatari dell’appello, l’organizzazione italiana Fairwatch. “La 21a Conferenza delle Parti di Parigi è un’occasione storica – dice Alberto Zoratti, presidente di Fairwatch e delegato accreditato Ong alla COP21 – per riuscire a invertire la rotta di politiche che, piuttosto che affrontare e risolvere il dramma del cambiamento del clima e delle tragedie che si porta dietro, sembrano ignorare il problema proponendo false soluzioni”.
La recente bozza di documento negoziale resa pubblica il 5 ottobre dalle reti della società civile, mostra come l’obiettivo sostanziale sia quello di orientarsi sempre più verso un sistema non vincolante, basato su impegni volontari di riduzione delle emissioni e di stanziamento di risorse. Un approccio che risponde certamente alle esigenze delle lobbies economiche ma che non è all’altezza della sfida posta dal climate change.
“La centralità dei mercati, la liberalizzazione dei commerci sono sempre più proposti come la risposta alle crisi che stiamo vivendo” continua Zoratti. “Ma frenare il cambiamento climatico significa ripensare radicalmente il nostro modello di sviluppo, abbandonando i combustibili fossili, focalizzando risorse sulla crescita di economie e agricolture locali, sostenibili e adatte alle esigenze delle comunità e dell’ambiente. Quanto i grandi gruppi economici siano realmente interessati ad un futuro più sostenibile è dimostrato dal caso Volkswagen e da come gli standard ambientali siano troppo spesso considerati limiti da aggirare se non addirittura disarticolare, a tutto vantaggio di manager e azionisti”.
Fairwatch, tra i promotori della Campagna Stop T-tip Italia, sarà presente alla COP21 di Parigi in qualità di osservatore e parteciperà alle iniziative e alle mobilitazioni organizzate dalla piattaforma di movimento Coalition 21.
Per aderire all’appello “Fermiamo i crimini climatici” .
Intervista a Achim Steiner, direttore del programma Onu per l’ambiente: «Bisogna reinventare l’economia in tutti i campi: edilizia, trasporti, industria manifatturiera, agricoltori. Non è un’impresa impossibile». La Repubblica, 6 ottobre 2015 , con postilla
Roma. «Ormai è difficile contarli. I disastri prodotti da eventi meteo estremi, come quello che ha messo in ginocchio la Costa Azzurra, si moltiplicano a un ritmo impressionante. Dal punto di vista scientifico la situazione è chiara: è il nostro sistema produttivo a provocare il caos climatico che ci danneggia. Adesso la parola passa ai decisori, alla conferenza di Parigi chiamata a scrivere la road map verso la green economy».
postilla
Il fatto è che «reinventare l’economia in tutti i campi: edilizia, trasporti, industria manifatturiera, agricoltori non è un’impresa impossibile», come giustamente afferma Steiner, ma è possibile a una sola condizione: che sia cancellata dalle menti e dai cuori, la credenza che lo "sviluppo", così come oggi si interpreta questo termine, sia l'obiettivo dell'uomo, della società e della politica, eche vengano abbattuti i totem derivanti da questa credenza (Pil, il Denaro).
«I politici sono soddisfatti e ottimisti: niente flop, come nel 2009, a Copenaghen. Gli scienziati e i tecnici sono preoccupati.». La Repubblica, 5 ottobre 2015 (m.p.r.)
I politici sono soddisfatti e ottimisti: niente flop, come nel 2009, a Copenaghen. È l’alba di un’era nuova per la politica: dalla conferenza di Parigi, a dicembre, uscirà un accordo mondiale sul clima. Gli scienziati e i tecnici sono preoccupati. La tempesta di violenza inattesa che devastato ieri la Costa Azzurra è l’ennesima conferma che il clima impazzito è già qui. E l’accordo di cui si parla non basta a bloccare il riscaldamento del pianeta e a impedire che, nel giro di qualche decennio, mezza Terra sia scorticata dal sole e l’altra metà (da Venezia a New York, alla stessa Copenaghen) finisca sotto il mare. Chi ha ragione? Tutt’e due.
All’Expo di Milano, nel celebrato Padiglione Zero, ho fatto una scoperta sorprendente. Una delle tante immagini dedicate ai problemi... (continua a leggere)
All’Expo di Milano, nel celebrato Padiglione Zero, ho fatto una scoperta sorprendente. Una delle tante immagini dedicate ai problemi alimentari e ambientali, mostrava una piantagione di palme da olio, mentre la didascalia informava che essa serviva a proteggere la foresta amazzonica. Chissà quante migliaia di persone si sono lasciate persuadere da quel messaggio. Ma è accettabile questo modo di proteggere la più vasta foresta pluviale rimasta sulla Terra? Il fatto che si abbattano alberi non per costruire edifici, per aprire nuovi pascoli, per impiantare latifondi di soia gm, ma altri alberi, le palme, è una operazione ambientalmente benefica?
Vecchi alberi sostituiti da nuovi alberi? Ma quando si abbattono i vecchi alberi, in Amazzonia, si fanno sparire per sempre piante millenarie. E non è solo questo il mutamento e il danno più rilevante. La foresta pluviale costituisce il bacino più ricco di biodiversità presente sul pianeta. Non si abbattono solo gli alberi, si distrugge un ecosistema di grande complessità e ricchezza, comprendente uno numero incalcolabile di mammiferi, rettili, uccelli, anfibi, insetti, e poi erbe, arbusti, piante, fiori molti dei quali ancora sconosciuti alla scienza.
Ad essere sconvolta è poi la chimica del suolo, la piovosità locale, il regime delle acque, il clima. Dunque si annienta un patrimonio millenario con i suoi sconosciuti equilibri per impiantare una monocultura industriale concimata chimicamente e difesa dai parassiti attraverso gli antiparassitari. Si tutela così l’Amazzonia?
Questa esperienza mi induce a svolgere qualche riflessione su ciò che dovremmo intendere per natura e per ambiente, due realtà ben diverse, che richiedono strategie e comportamenti umani fra loro differenziati.
Il termine ambiente, quale sinonimo di mondo naturale, ha assunto solo di recente tale significato. Nell’800 indicava un milieu sociale o culturale e solo nella seconda metà del ‘900 il termine è stato curvato (e inflazionato) a significare la natura vivente. In realtà, con la parola ambiente noi indichiamo normalmente la natura così come la esperiamo in Italia e in Europa, vale a dire in un’area del mondo antropizzata da alcune migliaia di anni. Qui ogni cosa, dell’assetto naturale originario - foreste, macchie, perfino laghi e fiumi - è stata profondamente rimodellata dall’azione umana. Questo è quel che si chiama ambiente, mentre è natura la Foresta amazzonica, prima che diventi ambiente con le monoculture di palma.
Occorre dire che la distinzione non è sempre cosi semplice e così netta. Come definiremmo oggi la Savana africana? Quella vasta distesa pianeggiante, punteggiata di radi alberi e arbusti e popolata da leoni, zebre, elefanti, giraffe, ecc.? Che cosa c’è di più naturale nell’immaginario occidentale? Eppure – lo hanno scoperto i geografi nel secolo scorso – la Savana è opera dell’uomo. E’ il risultato della distruzione della foresta originaria, operata dalle popolazioni col fuoco e i vasti diboscamenti a fini di caccia, creazione di pascoli, coltivazioni. Quella che i turisti osservano come natura sono i relitti di una radicale distruzione degli antichi ecosistemi. E’ comprensibile dunque che allorché un nuovo ordine naturale si viene a creare a opera degli uomini occorra parlare di ambiente e non di natura. E non certo per capziose ragioni semantiche, ma per le diverse strategie di umano comportamento che essa richiede. La natura va conservata così com’è, l’ambiente, che costituisce un ordine artificiale, va tenuto nel suo nuovo equilibrio dall’opera umana che l’ha creata.
Qualche esempio ci conduce ai problemi dell’oggi. Questa estate ho compiuto un’escursione sul Monte Reventino, nel Parco nazionale della Sila. Scendendo per i boschi verso il comune di Decollatura, sono stato letteralmente assediato da uno spettacolo che non poteva sfuggire neppure a un occhio distratto. Centinaia e sicuramente migliaia di alberi erano ricoperti e sopraffatti da un rampicante, spesso biancheggiante per i suoi fiori a cascata. Ho riconosciuto la terribile vitalba (Clematis vitalba). Molte aree erano letteralmente sommerse, tanti alberi erano già secchi, scheletri che si alzavano al cielo in mezzo a una vegetazione rigogliosa e caotica. La vitalba – che Columella consiglia di utilizzare in insalata, come sanno ancora i nostri contadini – è una infestante di terribile vitalità: si arrampica sugli alberi formando lunghissime liane e ha radici sotterranee che crescono come la parte aerea della pianta.
Abbandonato a se stesso, nel giro di un decennio quel bosco popolato da castagni, cerri, pioppi, ontani, e innumerevoli arbusti sarà probabilmente distrutto. L’ambiente sarà definitivamente sconvolto, ma vincerà la natura, con il suo vitale e straripante disordine. E’ auspicabile che ciò accada? Lasciamo che gli alberi, piantati dagli uomini, utili un tempo alle loro economie, vadano in rovina? E se si vuole intervenire, che cosa occorre fare? Chiedendo a un contadino del luogo ragione dell’invasione della vitalba, mi ha spiegato che un tempo il problema non si poneva, perché il bosco era battuto dagli animali. Ci pensavano le capre, le pecore, i maiali a tenere a bada quelle e altre infestanti. Saggia e persuasiva spiegazione, perché il bosco è una creazione dell’uomo, ed è la sua presenza, la sua manutenzione quotidiana che mantiene in un equilibrio economicamente e ambientalmente vantaggioso quell’ordine artificiale da esso stesso creato.
Il caso del Monte Reventino è paradigmatico e denuncia un deficit culturale e politico, una assenza di informazione di rilevante gravità. I nostri boschi sono in una condizione di abbandono e di inselvatichimento. Ho visitato l’Aspromonte di recente e ho trovato i suoi maestosi pini ricoperti da sterminate “nuvole” di nidi di processionarie che ne determineranno la morte. Boschi immensi e un tempo meravigliosi sono assediati da eserciti di parassiti che avanzano di anno in anno scacciando ogni presenza umana. I castagneti di tutto il nostro Appennino sono infestati da un terribile parassita, il cinipide, che impedisce da anni ogni raccolto. Mentre ovunque avanza, dall’Emilia in giù, la macchia selvatica e i rovi.
Anche la questione dei cinghiali, emersa drammaticamente ad agosto, appartiene allo stesso ordine di problemi. Questi animali immessi nelle nostre selve per ripopolare esemplari da caccia, in virtù anche della loro crescita spontanea, si moltiplicano sempre più nelle aree abbandonate della nostra Penisola. Il loro numero debordante li porta ad invadere le campagne, a danneggiare le coltivazioni ad arrivare agli abitati in cerca di cibo. Ma anche i cinghiali come i nostri boschi denunciano che l’ordine artificiale, l’ambiente creato dagli uomini, non è più curato, mantenuto nei suoi equilibri ed è lasciato alla degradazione. E questo avviene perché sono state abbandonate le antiche economie, svuotati gli abitati, scomparsi i mestieri, perduti gli umani presidi che governavano il rapporto con l’habitat locale. Così i precedenti vantaggi goduti dalle popolazioni si trasformano in danni e minacce per le nuove.
Non può dunque non stupire (fino a un certo punto) il recente accorpamento, voluto dal governo Renzi, del Corpo delle guardie forestali con l’Arma dei carabinieri. Non che le guardie forestali siano sufficienti ad affrontare i problemi accennati, ma indebolirne l’istituzione non è certo il modo migliore per fronteggiarli. In realtà l’iniziativa governativa mostra indirettamente l’ignoranza grave e perdurante delle nostre classi dirigenti dei problemi del territorio nazionale.
Stiamo perdendo patrimoni naturali immensi, interi paesi e borghi, estesi pezzi di Penisola, potenziali luoghi di ricchezza e umano benessere, luoghi in cui sono stati investiti nei secoli e decenni illimitate risorse e lavoro e nessuno, in Italia, fiata. Che paese è mai questo dove si fa deperire la ricchezza reale e stuoli di economisti, truppe di dirigenti politici e sindacali ci assordano ogni giorno con le loro ricette di crescita senza nessun cenno al territorio?
L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto
Come i grandi media nostrani, hanno rapidamente gettato nel dimenticatoio l'ultima enciclica di papa Francesco, così hanno totalmente ignorato questo importante documento del mondo islamico. Lo riprendiamo dal sito Lifegate, 19 agosto 2015. In calce il link al testo integrale della dichiarazione.
Redatta dai rappresentanti del mondo islamico, la Dichiarazione invita i fedeli a seguire il testo sacro per proteggere "il fragile equilibrio del pianeta".
Il simposio, tenutosi il 17 e 18 agosto 2015 a Istanbul, ha visto impegnati più di 60 rappresentanti del mondo islamico, provenienti da 20 Paesi. L’incontro si è concluso con la redazione della “Dichiarazione islamica sul cambiamento climatico“. Un’importante presa di posizione da parte del mondo islamico, che sprona il 1,6 miliardo di musulmani a prendersi cura del “fragile euqilibrio (mīzān) della Terra” e i leader politici a sottoscrivere degli accordi vincolanti durante la prossima Conferenza sul clima a Parigi, perché: “Le attività umane stanno facendo una tale pressione sulle naturali funzioni della Terra, che la capacità degli ecosistemi di sostenere le generazioni future non può più essere dato per scontato“.
Ecco alcuni dei passaggi più rappresentativi:
- Gli ecosistemi e le culture umane sono già a rischio a causa del cambiamento climatico;
- Il rischio di eventi estremi causati dal cambiamento climatico come ondate di calore, precipitazioni estreme e le inondazioni delle coste sono già in aumento;
- Questi rischi sono distribuiti ineguale, e sono maggiori per le comunità povere e svantaggiate di ogni Paese, a tutti i livelli di sviluppo;
-Gli effetti prevedibili avranno ripercussioni sulla biodiversità terrestre, sui beni e sui servizi prodotti dai nostri ecosistemi e sulla nostra economia globale;
- Gli stessi sistemi fisici della Terra sono a rischio di bruschi e irreversibili cambiamenti.
La dichiarazione afferma che:
- Dio ha creato la Terra in perfetto equilibrio (mīzān);
- La sua immensa misericordia ci ha dato terreni fertili, aria fresca, acqua pulita e tutte le buone cose sulla Terra che rendono la nostra vita qui praticabile e piacevole;
- Le funzioni naturali della Terra nei suoi cicli stagionali e naturali: un clima in cui gli esseri viventi – compreso l’uomo – possono prosperare. L’attuale catastrofe del cambiamento climatico è il risultato della perturbazione umana di questo equilibrio.
Qui la versione integrale della dichiarazione.
La riflessione sulle cause umane del cambiamento climatico, forse ancor di più quando tocca eventi remoti, apre scenari attualissimi di contrasto al grave fenomeno. La Repubblica, 20 agosto 2015, postilla (f.b.)
Il riscaldamento globale compie tremila anni. A inaugurare l’era del cambiamento climatico sono stati i nostri antenati europei, che hanno dato letteralmente fuoco alle foreste del continente per aumentare le superfici coltivabili e incrementare l’allevamento del bestiame. A dirlo è uno studio condotto dall’Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Cnr, insieme all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il titolo del progetto parla chiaro. «Europe on fire 3000 years ago: arson or climate?» (Europa in fiamme 3000 anni fa: incendio doloso o clima?). L’equipe internazionale, guidata da Carlo Barbante, professore di Chimica analitica nell’ateneo lagunare, ha appena pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters i risultati di questa ricerca che getta una nuova luce su chi ha scagliato la prima pietra dell’inquinamento atmosferico.
In realtà l’indagine ridimensiona le colpe della rivoluzione industriale, fino ad ora ritenuta la grande responsabile del disastro ecologico. A fornire la prova regina è stata una carota di ghiaccio, lunga 2.537 metri, estratta nel Nord-Ovest della Groenlandia. Una specie di sonda lanciata nelle profondità del tempo che ha consentito ai ricercatori di fare un salto indietro di ben 128.000 anni. Grazie a una metodologia innovativa, sviluppata dal team di scienziati, è stato possibile rilevare le tracce di una forte attività incendiaria risalente a circa tremila anni fa. E non riconducibile a eventi naturali. In altre parole, una catena di incendi dolosi con conseguenti deforestazioni. Di questa task force di “forestali della storia” fa parte anche il celebre paleoclimatologo William Ruddiman, professore emerito all’Università della Virginia e padre della teoria dell’Early Anthropocene. Da sempre convinto che l’era dell’impatto ambientale dell’uomo sul pianeta, il cosiddetto Antropocene, non sia cominciata con la rivoluzione industriale ma qualche millennio prima, cioè con quella agricola. L’uomo, insomma, si è messo ad allungare le mani sull’ecosistema quando la civiltà delle macchine, la plastica, le emissioni di gas serra, le scorie nucleari, non erano neanche in
mente dei . E soprattutto quando la popolazione del pianeta superava di poco i cento milioni di anime. Più o meno gli abitanti attuali di Italia e Francia messi insieme, ma con l’universo mondo tutto per sé.
E che in quel tempo lontano sia accaduto qualcosa di veramente forte lo testimoniano le parole di Platone che, 2500 anni fa, nel Crizia , uno dei suoi dialoghi più famosi, denuncia la deforestazione sistematica del suolo dell’Attica. Quella terra verde e florida, dice il grande filosofo, è stata letteralmente spolpata, fino a ridurla uno scheletro. E di fatto la potenza ateniese pagò come prezzo la distruzione dei boschi e della vegetazione spontanea, per far fronte ad una complessa serie di bisogni economici, militari e sociali. Legna da ardere e per costruire navi. Ma anche disboscamenti per produrre più cibo. Platone arriva addirittura a prevedere fenomeni tristemente attuali come il land grabbing, l’accaparramento delle terre, e come l’effetto serra, con conseguente desertificazione del mondo. Insomma l’idea dell’apocalisse ecologica non è un’invenzione dell’integralismo ambientalista contemporaneo. L’ambientalismo di ieri e di oggi hanno però in comune l’attribuzione di ogni responsabilità agli uomini, cattivi e imprevidenti, che saccheggiano la terra senza curarsi del domani. Lo dice anche Plinio il Vecchio, che rimprovera ai suoi contemporanei di «assistere con orgoglio da dominatori alla rovina della natura». Siamo solo nel primo secolo dopo Cristo e di cattiva strada da allora ne abbiamo fatta molta.
Quel che colpisce è che questi ragionamenti venissero fatti quando la popolazione mondiale era più o meno la cinquantesima parte di quella attuale. E al confronto di oggi il mondo era un Eden. Si potrebbe obiettare che ogni epoca misura l’apocalisse a partire dai suoi parametri e dai suoi problemi. Il che è plausibile. Ma questa storia sembra pure insegnarci che, ora come allora, è insito nell’uomo un doppio atteggiamento. Di onnipotenza da un lato e senso di colpa dall’altro. Entrambi proiettati sullo sfondo di una “natura” che non è altro che il riflesso delle nostre attese e paure.
In fondo è come se la civiltà fosse da sempre bipolare. Divisa tra la fede nello sviluppo e il timore di avere osato troppo. Di avere superato il limite. Limite che cambia con i tempi, ma resta sempre come monito e come fantasma. Soglia etica e frontiera conoscitiva. È quel che emerge chiaramente dall’ultima Enciclica di Papa Bergoglio, Laudato si’, francescanamente green ma al tempo stesso lontana da ogni spiegazione semplicistica.
Viene da pensare che in molti casi perfino la nostra auto-colpevolizzazione sia l’altra faccia di un’arroganza superomistica. Tipica di chi pensa che la natura sia alla nostra mercé. Nel bene come nel male. Perché, senza nulla togliere alla fondatezza di molta riflessione ecologista, il rapporto uomo-ambiente è più complesso e multifattoriale di quanto di solito non immaginiamo. E questa ricerca sull’Europa in fiamme ce lo ricorda opportunamente.
postilla
Non è la prima né sarà l'ultima, questa ricerca, a indicare la radice degli sconvolgimenti planetari in alcuni comportamenti umani precedenti all'era dell'ancora detestata (a quanto pare) industrializzazione nel segno dell'imbrigliamento dell'energia: vapore, elettricità, carbone, petrolio, e poi la civiltà dei consumi di tutto quanto. Forse è il caso di ricordare, per chi coltiva studi territoriali, che anche le primordiali civiltà urbane crollarono per micro o macro tragedie ambientali e climatiche prodotte da attività umane di trasformazione del territorio, ne sono esempi assai noti e studiati quelli della Valle dell'Indo, della Mesopotamia, di diverse civiltà urbane precolombiane in America. Detto in altre parole, non esistono attività dell'uomo buone (l'agricoltura magari biologica o comunque «sostenibile») e altre cattive (la trasformazione di tipo industriale con uso di energie). Esiste solo il nostro rapporto con l'ecosistema, da conoscere in modo approfondito e da non alterare in modo stupido e suicida. Per esempio, cosa non nota a tutti, è proprio dagli studi sul crollo delle civiltà urbane citate sopra, e non dalle fantasie di qualche architetto chiacchierone, che nasce la teoria originaria della vertical farm, concetto agricolo produttivo ed ecologico, non edilizio come ama pensare qualcuno pronto alla condanna a prescindere (f.b.)
I governatori non lo sanno. Se lo sanno, fanno finta di non saperlo. In ogni caso: gli inceneritori del governo non li vogliono. Un rapido riassunto delle puntate precedenti: come scritto ieri dal Fatto, lo scorso 29 luglio le Regioni hanno ricevuto la bozza di decreto legislativo che attua una delle previsioni dello “Sblocca Italia” di Renzi (approvato a novembre 2014). Il testo stabilisce la realizzazione di 12 nuovi impianti di incenerimento dei rifiuti in 10 Regioni: uno in Piemonte, Veneto, Liguria, Umbria, Marche, Abruzzo, Campania e Puglia, due in Toscana e Sicilia. Gli inceneritori sono sostanzialmente anti-economici, alternativi alla raccolta differenziata e hanno un impatto ambientale che puntualmente scatena le proteste furiose delle comunità a cui toccherebbe farsene carico. Infatti –governo Renzi a parte – non li vuole davvero nessuno.
Avviata «una subdola campagna informativa in ordine al progetto del Deposito Nazionale finalizzata a convincere gli italiani ad accettare il materiale tossico nel proprio “giardino”». Ma sembra che abbiano già individuato i sito ideale in una ex miniera di salgemma nei pressi dei comuni di Agira, Leonforte e Nissoria, nel cuore della Sicilia. Un esposto di Italia Nostra Sicilia, 6 agosto 2015
Il processo entrerà nel vivo con la pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il Deposito Nazionale, che Sogin pubblicherà, assieme al progetto preliminare, sul sito appena riceverà il via libera dai ministeri. Presumibilmente a settembre di quest’anno (2015). Dunque, tra circa un mese dovrebbe essere resa pubblica tale Carta nazionale (Cnapi).Dopo un iter controverso, iniziato nel giugno2014,l’Ispra ha già consegnato ai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente l’aggiornamento della relazione stilata dalla Sogin. La Sogin è incaricata anche di selezionare alcuni siti italiani, e tra questi individuare il Deposito nazionale di scorie nucleari. La mappa dei siti è ovviamente sconosciuta. Top secret. L’operazione prevederebbe investimenti per1,5 miliardi in 4 anni, 1.500 posti di lavoro all’anno per la costruzione e 700 per la gestione. Le regioni italiana individuate sarebbero la Puglia, la Basilicata, la Sardegna e ovviamente la Sicilia.
L’Isola (la Sicilia) sembrerebbe avere “buone, ottime possibilità”. Gli esperti della Sogin, infatti, avrebbero individuatoun’ex miniera di salgemma nei pressi dei comuni di Agira, Leonforte e Nissoria, nell’Ennese. L’indiscrezione arriva da Giuseppe Regalbuto, presidente della commissione Miniere dismesse dell’Urps: “Se la scelta di Agira sarà confermata come sembra, sarà necessario promuovere un’azione forte in Sicilia. Non costruire trazzere, ma ergere barricate contro i governi che usano la Sicilia come una pattumiera e che non solo ci impediscono di produrre, ma vogliono persino inquinare il nostro suolo e mettere a repentaglio la nostra salute. Le miniere vanno usate per rilanciare l’economia siciliana, non per contenere rifiuti” (http://www.siciliainformazioni.com, luglio-agosto 2015).
Ben 90 mila metri cubi di rifiuti nucleari italiani potrebbero arrivare presto in Sicilia. La scelta ricadrebbe su un’ex miniera di salgemma perché i depositi salini, per la loro bassa permeabilità, si prestano ad ospitare, a lungo termine, rifiuti nucleari. In una prima fase di ricerca, per le peculiari caratteristiche morfologiche dei giacimenti, sarebbero risultate idonee ad ospitare gli speciali rifiuti 11 località siciliane: Regalbuto, Assoro-Agira, Villapriolo, Salinella, Pasquasia, Resuttano, Bompensiere, Milena, Porto Empedocle, Realmonte, Monteallegro. Dopo la seconda fase dello studio, relativa ai requisiti d’isolamento dei giacimenti,sarebbero rimasti soltanto tre siti idonei: Assoro-Agira, Salinella e Resuttano. L’ex miniera di Pasquasia, su cui ancora pesano sospetti di precedenti depositi di rifiuti radioattivi, sarebbe stata esclusa perché non sufficientemente “isolata” (http://www.siciliainformazioni.com, luglio-agosto 2015).
A settembre la mappa sarà resa pubblica. Sapremo, dunque, se sarà proprio l’ex miniera nei pressi di Agira, al centro dell’Isola, la candidata siciliana che ospiterà i rifiuti radioattivi di tutta Italia. “Agira (Sicilia) capitale italiana dell’ambiente, del paesaggio e deigiardini”, insomma. Che dire – comunque?Saremo in grado, in Sicilia, di ergere barricate efficaci contro i governi che usano l'isola come pattumiera e base militare? Governi che non solo ci impediscono uno sviluppo auspicabile, sostenibile, ma che intenderebbero persino inquinare il nostro ambiente, il nostro spazio vitale, mettendo a repentaglio la nostra salute, la nostra sicurezza. Ecco, queste sono le questioni – imprescindibili – che noi poniamo al governo regionale e al governo nazionale. Alle forze sociali, culturali e politiche. Ai cittadini. Adesso.
Dopo lo scandalo della Exxon «il principio del “chi sporca paga” ha continuato a radicarsi, almeno negli Stati Uniti». Significa che chi ha più soldi può sporcare di più? La Repubblica, 3 luglio 2015
Washington. Si distese come un sudario sul mare, grande quanto metà dell’Italia, 173 mila chilometri quadrati di morte nera sul Golfo del Messico fino al delta del Mississippi e agli acquitrini dei bayou in Louisiana, e dopo cinque anni dall’aprile del 2010 il conto è arrivato: la BP, la British Petroleum, dovrà pagare 18,7 miliardi di dollari per i danni provocati dalla piattaforma Deepwater Horizon.
Naomi Klein intervistata da Federico Rampini. È stata invitata in Vaticano: nasce così un’alleanza in nome della difesa del pianeta. «Il documento va alla radice della crisi, e Francesco chiama per nome il motore scatenante: un capitalismo fondato sul profitto di breve termine». La Repubblica, 28 giugno 2015
La sacerdotessa dei no-global incontra papa Francesco: sboccia una santa alleanza in nome della salvezza del pianeta. Naomi Klein è stata invitata in Vaticano il 2 e 3 luglio, parlerà a una conferenza internazionale che il Consiglio pontificio per la giustizia e la pace dedica all’enciclica “Laudato Si’”.
La Klein, canadese, autrice di “No logo”, “Shock economy” e “Una rivoluzione ci salverà” (Rizzoli), è una delle più autorevoli pensatrici dei movimenti ambientalisti, terzomondisti, di contestazione del liberismo. Alle sue idee hanno attinto di volta in volta Occupy Wall Street, gli indignados e Podemos. La intervisto mentre sta per partire alla volta dell’Italia: felice dell’opportunità, entusiasta dell’enciclica.
Che cosa le piace del documento papale sul cambiamento climatico?
«È una vera svolta, una rottura storica, con delle implicazioni importanti: sia politiche che economiche. Papa Francesco fa una lettura radicale dell’emergenza ambientale, nel senso letterale di questa parola: va alle radici della crisi. Ha deciso di chiamare per nome il motore scatenante: il modello economico, un capitalismo fondato sul profitto di breve termine. È un’enciclica da studiare e da digerire bene. Noi viviamo in una cultura che vuol semplificare tutto, il modello sono le famose “listicles” di Buzzfeed. La tentazione è quella di riassumere: le 10 cose che il papa dice sull’ambiente. No, il papa abbraccia la complessità, e i suoi messaggi sono complessi ».
Il suo saggio più recente, “Una rivoluzione ci salverà”, è considerato il più ottimista della sua trilogia. Dunque è possibile salvarci, e salvare il pianeta?
«Sono partita da dove ero rimasta nel mio libro precedente, “Shock economy”, cioè dal fatto che questo sistema economico – basato sulla dittatura del profitto individuale – usa le crisi per arricchire ulteriormente le élite. Il cambiamento climatico non fa eccezione. L’uragano Katrina e quel che da allora è accaduto a New Orleans, ne è una dimostrazione: un sistema economico brutale ha sfruttato il disastro per ulteriori privatizzazioni, un’esasperazione delle diseguaglianze. È lo scenario che ci mostrano i film hollywoodiani di maggior successo popolare, da Mad Max a Hunger Games: un futuro di violenza, brutalità, diseguaglianze sempre più feroci. La sfida è immaginare come possiamo cambiare questo futuro. È questo il tema del mio ultimo libro. Non sono ottimista in senso ingenuo. Non dò per scontato che lo scenario migliore accadrà. Mi collego proprio allo spirito dell’enciclica papale, che affronta i valori culturali e morali dominanti. Il nostro sistema di valori attuale non ci attrezza a cooperare fra noi per la salvezza collettiva».
Lei è severa verso due delle ricette adottate in passato per affrontare il cambiamento climatico: i megavertici internazionali da Kyoto in poi; e i sistemi di regolazione delle emissioni attraverso un mercato, il cosiddetto “cap and trade”, cioè lo scambio di quote di emissione.
«Il limite dei megavertici è lo stesso limite dei governi. Se non hanno la forza di prendere certe decisioni a livello nazionale, perché dovrebbero comportarsi diversamente solo perché si ritrovano insieme in un summit? Le élite sono ancora immerse nell’ideologia neoliberista, non hanno la forza di opporsi alle multinazionali dell’economia carbonica. Vedi l’esempio di Barack Obama, che fa dei bei discorsi sull’ambiente ma poi dà alla Shell il permesso di trivellare nell’Artico: perché dirle di no gli sarebbe molto difficile. In quanto al sistema “cap and trade”, anch’esso è un sintomo della mancanza di volontà di regolamentare le imprese. Si è creato un mercato delle emissioni carboniche che genera nuove occasioni di profitto, e anche tante frodi, invece di stabilire semplicemente delle limitazioni per legge. Quel sistema venne imposto dagli Stati Uniti a un’Europa recalcitrante. Gli europei capitolarono ai tempi dei negoziati sul protocollo di Kyoto (in Germania la Merkel era ministro dell’Ambiente a quell’epoca) in modo da ottenere che gli Stati Uniti firmassero quel trattato. E poi gli americaninon lo firmarono neppure ».
Lei indica invece che le novità più positive sono emerse a livello locale.
«Sì, la mobilitazione dei cittadini dal basso in certi casi ha costretto i politici a dire di no agli interessi del capitalismo carbonico. Un esempio recente dove abita lei, a New York: il governatore Andrew Cuomo voleva autorizzare l’estrazione di gas e petrolio con la tecnologia del fracking, ma i movimenti contrari lo hanno costretto a mettere al bando quella tecnica pericolosa e nociva. Un altro esempio interessante è il forte movimento anti-nucleare in Germania, che dopo la tragedia di Fukushima ha costretto il governo Merkel ad accelerare la transizione verso le energie rinnovabili: già oggi forniscono il 30% del fabbisogno tedesco».
Uno dei temi che solleva papa Francesco in “Laudato Si’”, è la necessità di ripensare le nostre democrazie, insieme con i valori etici che guidano le nostre scelte quotidiane: di consumatori e di cittadini.
«Sì, la questione della democrazia è centrale. Un esempio di attentato alle democrazia: una multinazionale svedese ha fatto ricorso contro la Germania accusandola di ledere i propri diritti, quando Berlino ha deciso di abbandonare il nucleare. Le democrazie nazionali, anche quelle che funzionano meglio, possono essere minacciate dai nuovi trattati di libero scambio con le clausole a favore delle grandi imprese. Una delle qualità di questa enciclica papale è il suo approccio olistico, che tiene insieme ambiente, economia, politica. Sono dimensioni inscindibili. Mentre invece quando c’è una crisi economica la si affronta per compartimenti stagni. Vedi la crisi dell’eurozona: i tagli ai bilanci pubblici sono diventati il pretesto per ridurre il sostegno alle energie rinnovabili, rilanciare le trivellazioni marittime, penalizzare i trasporti pubblici alzandone le tariffe. Quando parliamo dei danni provocati dall’euro-austerità ci dimentichiamo regolarmente questo: il danno all’ambiente».
LIBRO E CONVEGNO Naomi Klein, scrittrice canadese, è considerata la sacerdotessa dei no-global. Il Vaticano la ha invitata a parlare a una conferenza del Consiglio pontificio per la Giustizia e la Pace . Nel 2015 Rizzoli ha pubblicato il suo ultimo libro, “Una rivoluzione ci salverà”
Un'enciclica scomoda per molti. Soprattutto per chi si lascia manovrare dal grande Burrattinaio: il capitalismo, baby. Il Fatto Quotidiano, Blog "Ambiente e veleni", 26 giugno 2015
Non deve sfuggire come la nostra stampa abbia sorvolato sullascomodissima Enciclica “Laudato Si’”. In successione temporale registriamo: uno scoop di anticipo dei contenuti del testo del “papa verde”, con un po’ di irrisione e banalizzazione nelle intestazioni poste a corredo delle citazioni ad opera del vaticanista Sandro Magister dell’Espresso; titoli di spalla sulle prime pagine dei quotidiani per la durata delle prime 24 ore; dal giorno immediatamente dopo, spostamento dell’attenzione da una riflessione sconvolgente e articolata in oltre 200 pagine sul degrado della “casa comune” alla diatriba su gay e coppie di fatto, con definitiva metabolizzazione dell’Enciclica nel rullo compressore delle informazioni correnti.
Tutte le emittenti Tv, immancabilmente elettrizzate dalle visite in Vaticano dei premier di turno, nei Tg hanno dato la notizia solo in posizioni arretrate e non si sono affatto premurate di aprire i loro monotoni talk-show a temi come la giustizia sociale e climatica o ildestino del pianeta. Insomma, l’Enciclica è stata ridotta ad una mera “curiosità”, un colpo d’ala francescano da considerare fuori dalla mischia che ci viene giornalmente esibita.
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Eppure, è fuor di dubbio che due voci – pur su piani diversi – guardano oggi al futuro con una irriducibilità totale al pensiero unico:Bergoglio e Tsipras. Con una radicalità che mette in imbarazzo i governanti di mezzo mondo e i loro consiglieri che si riuniscono assieme ai Ceo delle multinazionali ai meeting delBilderberg.
Ascoltare queste voci e quanto sostengono come alternativa possibile è intollerabile per troike, banche, corporation privatizzatrici di beni comuni, governi tecnici e politici obbedienti, che citano numeri e regolette quando si tratta di persone e della loro vita (e morte). Di conseguenza, non devono essere presi sul serio, nemmeno quando le loro indicazioni e le loro battaglie hanno radici popolari e sono sostenute dal mondo scientifico e da quella parte del mondo economico che non si schiaccia sul presente, ma guarda al futuro e alle emergenze da affrontare. Le “truppe” che li potrebbero sostenere vanno messe fuori gioco in anticipo, come se si muovessero su un terreno assolutamente impraticabile, come sta succedendo a quelle di Tsipras che si sono illuse di autorappresentare il loro destino.
Nel caso clamoroso di Francesco – senza voler richiamare la battuta di Stalin su quante truppe avesse il Papa – il tratto eminentementesecolare di una chiamata alle armi per salvare il Pianeta, viene depotenziato come opzione ideologica a cui precludere basi sociali di massa. Eppure l’argomento ha una logica inconfutabile, per credenti e non: nemmeno l’uomo si salva se non si salva il pianeta.
Una presa di posizione così senza mezze misure non può che essere contestata nel campo dei conservatori. John Vidal e Suzanne Goldenberg su The Guardian elencano le opposizioni a partire dagli Stati Uniti, terreno decisivo per lo scontro aperto. John Boehner, leader repubblicano del Congresso, e Rick Santorum, candidato alla Presidenza, cattolici dichiarati e negazionisti sul clima, non hanno tardato ad esprimersi contro. Stephen Moore, un economista cattolico, definisce Francesco “un autentico disastro, parte di un movimento radicale verde anticristiano e anti progresso”. Mentre James Inhofe, il capo della commissione ambiente al Senato americano, ha dichiarato: “Il Papa dovrebbe fare il suo mestiere”. L’American Petroleum Institute, una lobby potentissima ha controbattuto che “l’uso del carbone aiuta i poveri a migliorare le loro condizioni”. Ma la debolezza di questi avversari è quella di appartenere tutti alle lobby sotto accusa quando si parla di responsabilità umana sull’ambiente.
Il Papa, invece, ha dalla sua una strategia di lungo periodo, che non si rivolge solo a 5000 vescovi e ad un miliardo e duecentomila fedeli. Accanto al ghanese Peter Turkson, presidente Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, all’Arcivescovo del PerùPedro Barreto Jimeno, al cardinale honduregno Oscar Maradiaga, a Neil Thorns, autorevolissimo esponente della diplomazia vaticana e al preside dell’università cattolica di Buenos Aires Agosta Scarel, si stanno muovendo a sostegno autorevolissimi scienziati e riconosciuti economisti. Nessuno può sottovalutare che Ban Ki-moon, presidente Onu e i direttori della Fao e dell’Ipcc hanno espresso apprezzamenti calorosi. Perfino lo speaker repubblicano John Boehner, un cattolico praticante e dichiarato, dà per vinta la partita per Francesco.
E mentre, nonostante l’ostruzionismo di piccolo cabotaggio, verrà “bucata” a più livelli la ribalta dei media, l’Enciclica avrà il suo impatto pubblico massimo nell’incontro del Papa con Obama a settembre e nel suo intervento al Congresso Usa e all’assemblea generale dell’Onu, con l’ambizione non dissimulata di mettere un carico da novanta sullo svolgimento del convegno mondiale sul clima previsto per dicembre a Parigi (Cop 21).
Una partita cruciale a cui la politica locale e internazionale, definita “non all’altezza della sfida” farebbe bene a non sottrarsi. Intanto, tranne pochissime rare eccezioni (proprio ieri Stefano Fassina), continua a macerarsi nelle dinamiche di un potere in allontanamento dalla società.
Una interessante lettura ambientalista dell'enciclica di papa Francesco. La ricostruzione storica di un tentativo di affrontare l'argomento, con l'apporto della cultura ecologista italiana, nel periodo «iniziata con l’enciclica giovannea Mater et magistra del 1961 e conclusa con il pontificato “normalizzatore” di Karol Wojtyla».
Al di là del suo contenuto è la scelta in sé di dedicare all’ambiente un’enciclica a indicare da parte di Bergoglio una volontà di rottura, il desiderio di una discontinuità. Certo, tutto questo non si può dire apertamente: la retorica della Chiesa è infatti sempre sotto il segno della continuità, le sue parole sono volte a esprimere un’unica e immutabile verità che parla via via il linguaggio dei tempi. E, come in tutti i grandi documenti vaticani, anche in questo caso abbondano le citazioni di testi precedenti (da San Francesco e dalla Bibbia fino a Giovanni XXIII e ai più recenti scritti di Wojtyla e di Ratzinger), a indicare l’eterna presenza - nel messaggio cristiano - di ciò che ora viene detto solo in modo nuovo e forse un poco più esplicito, consapevole e articolato che in passato.
Ma se la Chiesa cattolica coltiva questa costante premura per la continuità, per un eterno che essa disvela via via in forme storiche, chi osserva il passato in modo laico sa bene che nella chiesa le discontinuità e i conflitti non sono mai mancati. Al contrario, gli ultimi sessant’anni sono stati particolarmente ricchi di conflitti e di cambi di scenario sotto l’impetuosa pressione di un mondo che cambiava a ritmi inediti: ritmi sempre più rapidi ma spesso anche non lineari. E lo storico sa anche che la discontinuità più sorprendente per vastità e audacia è stata nel Concilio Vaticano II, frutto di un contesto storico di una vivacità irripetibile e presto depotenziato. Le aperture del Concilio sono state infatti sottilmente negate già poco dopo la sua chiusura e nei decenni successivi sono state messe lentamente e tacitamente relegate tra le ingenue o pericolose utopie del Novecento.
Gran parte del magistero di Bergoglio riprende al contrario i temi e lo spirito del Concilio anche senza rivendicarlo troppo apertamente. Una rivendicazione del genere significherebbe infatti ammettere l’esistenza di una serie di discontinuità costantemente negate persino da papi come Woytila e Ratzinger che hanno operato attivamente per liquidare molte delle maggiori novità conciliari, soprattutto in campo sociale.
Anche l’enciclica “Laudato sì”, anche se in modo inconsapevole, riprende uno sforzo post-conciliare della Chiesa. Uno sforzo di chinarsi sulla questione ambientale che però era rimasto tuttavia incompiuto, interrotto.
Molti in realtà rivendicano da tempo le progressive aperture di Wojtyla e Ratzinger all’ecologia e lo fa, in nome della continuità, anche Bergoglio. Credo si possa dire che queste aperture siano state delle petizioni di principio rare e timide che non hanno mai impegnato seriamente la Chiesa verso la questione ambientale. Molto diverso è il caso, ormai da mezzo secolo, di altre importanti questioni sociali come la pace, la povertà e i diritti e soprattutto delle questioni riguardanti la vita e la famiglia che costituiscono il nucleo dei cosiddetti “principi non negoziabili”, i soli su cui la Santa Sede chiama i credenti alla mobilitazione attiva.
E’ molto probabile invece che l’enciclica di Bergoglio intenda indicare ai cattolici come al resto del mondo un deciso cambiamento di passo. Accanto al “ritorno” fortemente enfatizzato al centro dell’azione e della parola della Chiesa di temi conciliari come il disarmo, la lotta alla povertà, i diritti umani, ecco insomma “l’arrivo” dell’ecologia, che era la grande assente nella parabola conciliare iniziata con l’enciclica giovannea Mater et magistra del 1961 e conclusa con il pontificato “normalizzatore” di Karol Wojtyla.
Ma è anche bene ricordare che la sollecitudine per l’ambiente avrebbe potuto appropriatamente stare dentro lo spirito e le preoccupazioni dell’età conciliare e che anzi quella assenza non fu totale. Vi fu infatti una brevissima stagione in cui qualcuno, dentro la Chiesa, tentò di innestare l’ecologia sul tronco conciliare e di fornirle pari dignità rispetto a temi strategici quali la pace, la giustizia sociale, i diritti umani, la democrazia. Questa stagione si chiuse tuttavia molto presto e quel tentativo fallì lasciando incompiuta l’agenda conciliare.
Consapevolmente o meno Bergoglio sta forse oggi tentando di compiere quel passo che allora non riuscì e che anzi fu fatto naufragare. In questo senso, insomma, anche l’enciclica Laudato sì può essere considerata come la riapertura di un cantiere conciliare.
La vicenda del tentato innesto dell’ecologia nell’agenda conciliare è nota soltanto a un pugno di addetti ai lavori e ai pochi protagonisti che ancora sopravvivono; è quindi utile riassumerla rapidamente partendo dall’inizio[1].
Nella discussione e nei documenti elaborati nel corso del Concilio, dall’ottobre del 1962 al dicembre 1965, non fu fatto alcun cenno alla questione ambientale. Erano proprio quelli gli anni in cui per la prima volta l’ecologia iniziava a fare la sua comparsa nel dibattito pubblico - Silent Spring era uscito proprio un mese prima dell’apertura del Concilio - e la Chiesa, che solo con fatica e con molti contrasti interni tentava di captare i principali “segni dei tempi”, non aveva antenne sufficientemente sensibili per capire che anche quello dell’ambiente era un importante “segno dei tempi”. Un segno destinato peraltro a esplodere a livello mondiale di lì a pochissimi anni.
La copiosa documentazione prodotta dai padri conciliari e i fondamentali documenti di poco successivi come l’enciclica Populorum progressio (1967) di Paolo VI non contenevano insomma alcun cenno esplicito né alcun stimolo consapevole riguardo alla tutela dell’ambiente. Vista da questa prospettiva la Chiesa cattolica mostrava di essere in grave ritardo rispetto alla già notevole elaborazione di teologia dell’ambiente proveniente dal protestantesimo statunitense.
Il silenzio dei documenti conciliari non dipendeva tuttavia soltanto dall’incapacità di percepire il sorgere di una problematica nuova come quella ambientale.
Tali documenti, che pure comprendevano e illustravano bene molte delle principali contraddizioni politiche e sociali del mondo moderno, erano infatti largamente permeati del clima di speranza degli anni del dopoguerra, della distensione e della crescita economica e mostravano una sostanziale fiducia nel progresso tecnico e scientifico. Tale fiducia, messa in ombra solo qui e là da qualche considerazione più pessimista e preoccupata, finiva col rinforzare uno degli elementi fondanti di tutto il pensiero cristiano: l’antropocentrismo. La visione, cioè, che la Terra fosse creata per il godimento dell’uomo, immagine di Dio e vertice della Creazione, e che tutt’al più all’uomo spettasse una responsabilità di saggia e rispettosa manutenzione del Creato medesimo.
L’idea che l’uomo, e che soprattutto il moderno progresso scientifico, potesse invece costituire di per sé un elemento profondamente perturbante per l’equilibrio del pianeta – come aveva scritto esattamente un secolo prima George Perkins Marsh – non sfiorò neppure la mente dei padri conciliari.
Va aggiunto però che la Chiesa del Concilio e del dopo-Concilio era troppo sensibile a tutto ciò che travagliava l’esistenza materiale dell’umanità per rimanere totalmente impermeabile alle sollecitazioni politiche e culturali che crescevano di giorno in giorno sul fronte dell’ambiente.
Fu così che verso la fine degli anni Sessanta finirono col convergere due piccoli rivoli usciti dal Concilio e che andavano nella direzione di una in carico della questione ambientale da parte della Chiesa.
Il primo rivolo era quello del “gruppo sulla povertà”, operante all’interno del Concilio sin dalle sue primissime fasi. Questo gruppo aveva avuto un peso notevole nell’orientare i lavori conciliari riguardo alle questioni della giustizia sociale e nell’ispirazione della costituzione pastorale Gaudium et spes, l’ultimo grande documento approvato dai padri conciliari. In gran parte da questo gruppo, dai suoi membri e dalla sua ispirazione era poi sorta la pontificia commissione “Iustitia et pax”, l’organo mondiale della Chiesa chiamato da Paolo VI a occuparsi delle grandi problematiche sociali del mondo moderno. Una delle animatrici prima del “gruppo sulla povertà” e poi di “Iustitia et pax” era una famosa economista britannica, collaboratrice dei principali organismi mondiali e autrice di libri tradotti e venduti in tutto il mondo: Barbara Ward. Proprio a Barbara Ward, nel corso del 1969, il coordinatore di quella che sarebbe poi stata nel 1972 la grande conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano di Stoccolma affidò l’incarico di preparare un ampio documento preparatorio che divenne anch’esso un best-seller: Only One Earth. The Care and Maintenance of a Small Planet, uscito proprio alla vigilia della conferenza Onu. A Stoccolma, Ward sarebbe poi stata una delle figure centrali nella mediazione tra le varie linee che si confrontavano, ma all’interno della Chiesa avrebbe più in generale tentato per qualche anno di fare in modo che la “Iustitia et pax” assumesse in pieno la questione ambientale tra i propri obiettivi prioritari.
Il secondo rivolo si manifestò proprio in vista della conferenza di Stoccolma, pur avendo anch’esso qualche radice più lontana nel tempo. Come il primo rivolo, esso è legato ad alcuni personaggi precisi. Due in particolare: padre Bartolomeo Sorge e il professor Giorgio Nebbia, uno dei primi ambientalisti italiani di formazione tecnico-scientifica.
Nella prima metà del 1970 padre Sorge, colto e sensibile gesuita stretto collaboratore di Paolo VI, aveva percepito l’importanza politica e sociale ma anche culturale e teologica della questione ambientale. Probabilmente su stimolo di una prima corrispondenza con Nebbia, egli aveva probabilmente suggerito al Papa di affrontare l’argomento nel corso di un suo discorso alla FAO. Visti i rapporti tra Paolo VI e Sorge non è da escludere che quel discorso, il primo in cui un pontefice parlava di ecologia, fosse stato proprio redatto, o quantomeno strutturato, dal gesuita. Qualche giorno dopo Sorge aveva pubblicato un ampio, maturo e informato commento al discorso papale che per la prima volta poneva ai lettori della “Civiltà cattolica” il problema del degrado ambientale e del ruolo dell’uomo in esso. Grazie a questi precedenti la Santa Sede gli affidò il compito di coordinare un gruppo di lavoro incaricato di redigere il contributo ufficiale della Santa Sede alla conferenza di Stoccolma. Nebbia fu il principale animatore e ispiratore della redazione del testo, che si sarebbe rivelato uno dei più circostanziati e avanzati tra quelli prodotti dalle delegazioni nazionali al consesso dell’Onu.
Negli anni immediatamente successivi, anche se in modo non del tutto evidente ed esplicito, due tendenze si scontrarono all’interno della Chiesa. La prima tendeva a legittimare e istituzionalizzare l’impegno ecclesiastico in campo ambientale; la seconda invece tendeva a mettere la sordina, nella Chiesa come nel mondo, all’attenzione verso l’ambiente. I protagonisti della prima tendenza provarono a consolidare e ad ampliare il peso dell’ambiente nell’agenda di “Iustitia et pax” e per qualche anno ottennero dei piccoli risultati, apparentemente promettenti. I protagonisti della seconda tendenza iniziarono invece, appena dopo la fine della conferenza di Stoccolma, a circondare di cautele politiche e teologiche la questione ambientale. Essa infatti oltre ad essere poco compresa e poco sentita veniva identificata con il pericolo di diffondere nell’opinione pubblica mondiale e nei governi idee favorevoli alla limitazione delle nascite, che la Chiesa considerava una pratica immorale e pericolosissima, da combattere con tutte le forze.
Questa preoccupazione e questa battaglia contribuirono a far considerare l’ecologia – che già toccava poche corde cattoliche – come una specie di cavallo di Troia dei “malthusiani”. La seconda tendenza – sostenuta dai vertici della Chiesa – finì così col prevalere, e le timide aperture ottenute dalla prima tendenza furono presto accantonate. Alla metà degli anni Settanta il discorso era sostanzialmente chiuso.
È stato questo complesso di eventi, assieme al progressivo abbandono dello spirito, delle istanze e delle priorità del Concilio Vaticano II, a relegare fino ad oggi l’ecologia lontano dalla sensibilità e dalle priorità della Chiesa e dei cattolici. E ciò nonostante qualche timida e formale affermazione di Wojtyla e di Ratzinger nel corso degli ultimi trent’anni.
Dentro la sua ripresa dei temi e dello spirito del Concilio Vaticano II Jorge Bergoglio sembra dunque voler riannodare un filo interrotto. Con quali risultati, si vedrà.
[1] La vicenda ricostruita qui solo per brevi cenni è raccontata in dettaglio e con tutte le necessarie pezze d’appoggio in un saggio dal titolo “Only One Earth: The Holy See and Ecology”, in corso di pubblicazione negli atti del convegno Environmental Protection in the Global Twentieth Century: International Organizations, Networks and Diffusion of Ideas and Policies (Berlin 25-27.10.2012), a cura di Jan-Henrik Meyer e Wolfram Kaiser, per i tipi di Berghan Books, Oxford-New York.
La giusta sottolineatura di un elemento centrale dell'enciclica di Francesco: le «rilevanti implicazioni di tipo politico generale che possono apparire “rivoluzionarie” rispetto alla normale cautela della Chiesa verso la politica». "Cautela" che caratterizza, ahimè, la massima parte della cultura laica, a partire dall'Accademia e dalla Politica. Il Fatto Quotidiano, Blog "Ambiente e veleni", 26 giugno 2015 .
A mio sommesso avviso, il maggior pregio della recente enciclica papale sull’ambiente Laudato si’ consiste nel quadro complessivo che viene delineato, da cui derivano rilevanti implicazioni di tipo politico generale che possono apparire “rivoluzionarie” rispetto allanormale cautela della Chiesa verso la politica.
In realtà, i singoli temi rilevanti ci sono tutti. Ne cito qualcuno:
L’acqua non può essere privatizzata o trasformata in “merce soggetta alle leggi di mercato”'; i mari stanno trasformandosi in“cimiteri subacquei” a causa delle attività umane; l’era del petrolio e dei combustibili fossili deve essere sostituita “senza indugio” dalle energie rinnovabili'; ‘Le leggi ambientali possono essere redatte in forma corretta, ma spesso rimangono lettera morta'; netta condanna del consumismo e dell’attuale ‘modello distributivo in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare…'; valorizzazione della ricerca; preoccupazione per il ‘tremendo potere’ della tecnologia accentrata in ‘una piccola parte dell’umanità'; ripudio della‘concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese e degli individui'; proclamare la libertà economica quando si riduce l’accesso al lavoro ‘diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica’.
Per la Chiesa, invece, ‘la cultura ecologica non si può ridurre a una serie di risposte urgenti e parziali ai problemi che si presentano riguardo al degrado ambientale, all’esaurimento delle riserve naturali e all’inquinamento. Dovrebbe essere uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico. Diversamente, anche le migliori iniziative ecologiste possono finire rinchiuse nella stessa logica globalizzata. Cercare solamente un rimedio tecnicoper ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale‘.
Insomma, occorre una profonda trasformazione politica, che abbandoni i dogmi della crescita, del mercato e del Pil. Infatti, ‘è realistico aspettarsi che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni? All’interno dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano. Inoltre, quando si parla di biodiversità, al massimo la si pensa come una riserva di risorse economiche che potrebbe essere sfruttata, ma non si considerano seriamente il valore reale delle cose, il loro significato per le persone e le culture, gli interessi e le necessità dei poveri’.
Il progresso, cioè, è cosa ben diversa dalla crescita e ‘dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo ad un’altra modalità di progresso e di sviluppo’. Per questo è fondamentale il ruolo della politica. Infatti ‘non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale’.
Tanto più che ‘una strategia di cambiamento reale esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere capace di assumere questa sfida’. In questo quadro, ‘la sobrietà vissuta con libertà e consapevolezza è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità, ma tutto il contrario’.
Sembra di risentire Enrico Berlinguer quando, molti anni fa, affermava che “la politica di austerità quale è da noi intesa, può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura…».
All’epoca nessuno lo ascoltò. E oggi? E’ prevedibile una totale inversione di rotta da un governo che, tanto per fare qualche esempio, punta tutto sulla “crescita”, che autorizza trivellazionipetrolifere nei nostri mari più preziosi, che propugna “tutto inceneritori” – e, quindi, il massimo del consumismo con usa e getta, o ci sforna leggi ambientali mal fatte eliminando quei pochi organi di controllo (come il Corpo Forestale dello Stato) esistenti sul territorio?
Secondo l'ambientalista del Worldwatch Institute, tra le emergenze globali spiccano demografia, povertà, energia e suoli. Il resto viene da sé, ma il dibattito politico pare schivare in massa ogni ostacolo. Corriere della Sera 27 giugno 2015 (f.b.)
La «Grande Siccità» del 2012, negli Stati Uniti, ha fatto salire i prezzi del mais ai massimi storici; eppure le quotazioni dei prodotti alimentari sul mercato globale, già raddoppiate nel corso dell’ultimo decennio, sono destinate ad aumentare ancora. scatenando così una nuova ondata di rivolte per il cibo. La penuria del raccolto di mais registrata anche quest’anno non farà che accelerare la transizione dall’era dell’abbondanza e dei surplus a un’era di scarsità cronica. L’impennata dei prezzi alimentari si accompagna a una sempre più intensa competizione internazionale per il controllo di terra e risorse idriche. In questa nuova realtà globale, l’accesso al cibo si sostituisce all’accesso al petrolio quale preoccupazione principale dei governi. Il cibo è il nuovo petrolio, la terra è il nuovo oro: benvenuti nella nuova geopolitica alimentare.
I nuovi carnivori
Per gli americani — che spendono solo il 9% del proprio reddito per il cibo — il prezzo raddoppiato dei prodotti alimentari non è un grosso problema. Per coloro che, invece, impiegano il 50-70% del budget disponibile per la spesa alimentare, è un danno grave. Questi ultimi hanno ben pochi margini di manovra per compensare l’aumento dei prezzi spendendo di più: devono mangiare di meno. Con i prezzi in aumento, molte delle famiglie più povere del mondo avevano già ridotto i consumi alimentari a un pasto al giorno. Purtroppo. In un’alta percentuale di casi non possono più permettersi neppure quello. Così milioni di nuclei familiari danno ormai per scontato che ogni settimana dovranno trascorrere giornate intere senza cibo. Secondo Save the Children, in India il 24% delle famiglie si astiene abitualmente dal mangiare; in Nigeria lo fa il 27%; in Perù il 14%. In un mondo affamato, la denutrizione ha spesso il volto di un bambino: milioni di piccoli sono pericolosamente denutriti, e spesso così debilitati da non riuscire neppure ad andare a scuola a piedi.
In molti casi soffrono di ritardi fisici e mentali. Mentre la fame dilaga, gli agricoltori devono affrontare nuove sfide su entrambi i versanti dell’equazione alimentare. Sul versante della domanda, intervengono due fattori di crescita. Il più antico è l’incremento demografico: ogni anno la popolazione mondiale aumenta di circa 80 milioni, e stasera si siederanno a tavola 219 mila persone in più rispetto a ieri, molte delle quali davanti a un piatto vuoto. Il secondo fattore di crescita e la tendenza dei consumatori a salire lungo la catena alimentare: con l’aumento dei livelli di reddito, crescono anche i consumi di pollame e altri alimenti di origine animale a impiego intensivo di cereali. Nelle economie emergenti, in particolare, il fenomeno riguarda almeno 3 miliardi di persone, ma la maggiore concentrazione dei nuovi carnivori si rileva in Cina, che ha ormai raddoppiato il consumo di carne rispetto agli Stati Uniti. Oggi, inoltre, i cereali vengono utilizzati come carburante per le automobili: nel 2011 gli Usa hanno raccolto qualcosa come 400 milioni di tonnellate di granaglie. (...) Sul versante dell’offerta, poi, gli agricoltori si trovano ancora di fronte all’antica minaccia dell’erosione del suolo. Circa il 30% delle terre coltivabili sta perdendo lo strato superficiale produttivo a un ritmo più rapido della sua rigenerazione naturale. E si stanno formando due enormi «catini di polvere» ( dust bowl ), uno nella Cina nordoccidentale e l’altro in Africa centrale. (...)
Mangiare a scuola
Sul versante della domanda si presentano quattro necessità impellenti: la stabilizzazione della popolazione mondiale, l’eliminazione della povertà, la riduzione dell’eccessivo consumo di carne e la revisione delle politiche sui biocarburanti (che incentivano l’utilizzo di beni alimentari, terreni e risorse idriche utilizzabili invece per sfamare la popolazione).
Occorre agire su tutti questi fronti contemporaneamente. I primi due obiettivi sono strettamente collegati: la stabilizzazione demografica dipende infatti dall’eliminazione della povertà.
Basta un rapido sguardo ai tassi di crescita della popolazione per rendersi conto che i Paesi in cui il numero degli abitanti è stabile sono praticamente tutte nazioni ad alto reddito. Viceversa, quasi tutti i Paesi con alti tassi di crescita demografica si collocano agli ultimi gradini della scala economica globale.
Il mondo deve impegnarsi a colmare le lacune nell’accesso ai servizi di salute riproduttiva e di pianificazione familiare e battersi per sconfiggere la povertà: i progressi nell’uno e nell’altro campo si rafforzano a vicenda. Due sono i presupposti fondamentali per eliminare la povertà: far sì che tutti i bambini, maschi e femmine, ricevano almeno un’educazione scolastica elementare e le cure sanitarie di base. Nei Paesi più poveri, inoltre, occorre avviare programmi di alimentazione scolastica sia per incoraggiare le famiglie a mandare i propri figli a scuola sia per mettere questi ultimi in condizione di imparare una volta che vi accedono.
Si afferra con maggiore pienezza la portata eversiva dell'enciclica Laudato si' di Papa Francesco – rispetto a tutta la tradizione millenaria della chiesa - se si tiene conto della storia del pensiero ambientalista... (continua a leggere)
Ora è vero che nel frattempo la Chiesa ha mutato la sua visione della natura.In questa enciclica Francesco ricorda i primi contributi “ambientalisti” di Paolo VI, quelli di Giovanni Paolo II, di Bendetto XVI. Ma la sua posizione è oggi dirompente: «Siamo cresciuti - scrive, a proposito della Terra - pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla.» Ma non solo non siamo più padroni incontrastati, siamo fatti della stessa materia che stiamo distruggendo: «Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora». Qui papa Francesco fa proprio il più avanzato pensiero scientifico ambientalista. Si pensi alle affermazioni sorprendenti a proposito della biodiversità:««Probabilmente ci turba venire a conoscenza dell’estinzione di un mammifero o di un volatile, per la loro maggiore visibilità. Ma per il buon funzionamento degli ecosistemi sono necessari anche i funghi, le alghe, i vermi, i piccoli insetti, i rettili e l’innumerevole varietà di microorganismi.» Anche se non appare citato Edgar Morin, con i sui studi pubblicati nei volumi della Méthode, o la vasta letteratura ecologista radicale, l'impronta a ma pare onnipresente. Non meno coerente con tale impostazione appare la critica alla cultura dominante: «La tecnologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri.».
Ma un altro aspetto della radicalità eversiva di questa enciclica risiede a mio avviso nel fatto che papa Francesco evidenzia costantemente la connessione tra la violenza alla natura e dominio di classe: lo sfruttamento esercitato dalle potenze economiche del nostro tempo contro i poveri della terra. Egli coglie «l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta» e mette in luce come il saccheggio delle risorse colpisce l'economia delle popolazioni, mentre l'inquinamento danneggia in primo luogo i più deboli. E non rimane nel vago.E' il caso di una risorsa come l'acqua. « Un problema particolarmente serio è l’acqua disponibile per i poveri, che provoca molte morti ogni giorno. » Problema che non è frutto della fatalità: «Mentre la qualità dell’acqua disponibile peggiora costantemente, in alcuni luoghi avanza la tendenza a privatizzare questa risorsa scarsa, trasformata in merce soggetta alle leggi del mercato. In realtà, l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani.»
Infine un altro elemento sembra dare a questa enciclica un profilo politico di assoluta novità. E' la denuncia, se non di un nemico, certamente di un avversario.Sappiamo che in passato la Chiesa non ha mancato di esprimere denunce serrate alla società capitalistica e alle sue ingiustizie. Nella sua dottrina sociale, negli ultimi decenni, è venuta accentuando la radicalità di queste critiche. Ma alla fine una sintesi ecumenica finiva col rendere indistinguibili i responsabili.Gli agenti, i reali vessatori, assumevano un profilo evanescente.
Il papa, naturalmente non può scendere in casi particolari, ma denuncia apertamente – come ha ricordato E.Scandurra( Il manifesto, 23/6) - che «Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi ». E il problema del debito dei paesi è lumeggiato come meglio non si poteva:«Il debito estero dei Paesi poveri si è trasformato in uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il debito ecologico. In diversi modi, i popoli in via di sviluppo, dove si trovano le riserve più importanti della biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei Paesi più ricchi a prezzo del loro presente e del loro futuro. La terra dei poveri del Sud è ricca e poco inquinata, ma l’accesso alla proprietà dei beni e delle risorse per soddisfare le proprie necessità vitali è loro vietato da un sistema di rapporti commerciali e di proprietà strutturalmente perverso.»
E poiché il papa ha parole per tutti, non manca di ricordare le responsabilità dei governi e del ceto politico del nostro tempo:«La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente.»
Dunque, la Chiesa, la più antica istituzione di potere della storia umana,per due millenni strumento di controllo e conservazione sociale, rovescia il suo passato e lancia la sua sfida aperta ai poteri del mondo laico. Lo fa, naturalmente col suo linguaggio, che può essere quello di tutti, credenti e non credenti:«Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale.». Credo che la sinistra debba cogliere questa svolta culturale che fa epoca. Essa può ritrovare il suo universalismo perduto, quell'”internazionalismo proletario” , naufragato con l'involuzione autoritaria dell'URSS, che era stato la stella polare di diverse generazioni.
In 'Italia ha un grande precedente storico cui ispirarsi. Quando, ai primi anni '60, emerse la figura di Papa Giovanni e si aprì il Concilio Vaticano II, il Partito comunista avviò un ampio dialogo con il mondo cattolico, sui temi della pace nel mondo e dell'emancipazione sociale.Ne seguirono conseguenze politiche di grande portata, con tante nuove forze che entrarono nella lotta politica progressista. La salvezza della casa comune della Terra oggi è il nuovo terreno di dialogo. Ma occorre un mutato paradigma e nuovi dirigenti politici all'altezza della sfida, che non possono certo essere i giovani “rottamatori”di oggi, in realtà rappresentanti del fronte avversario, tardi epigoni di una cultura senza avvenire.