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Dal celebrato incontro mondiale sul clima di Parigi, COP21, sono passati 2 mesi, ma non è cambiato proprio nulla. CNS - Ecologia Politica online, - numero 2-2016

“Finita la festa, gabbato lo santo”. Questo proverbio calza a pennello per l’accordo sul clima raggiunto a Parigi nel dicembre scorso, su cui è calato un silenzio di tomba. Tutti d’accordo a parole, ma nei fatti niente è cam

biato: in Italia e in Europa, la politica ruota intorno al debito pubblico, non al debito verso la biosfera. Il debito pubblico fa male ma non è mortale per la popolazione, mentre quello verso la biosfera lo è, perché crea uno squilibrio crescente tra il prelievo di risorse naturali e la capacita di rigenerazione della natura, distruggendo così le condizioni di sopravvivenza delle comunità.
Il grido dell’America latina nella crisi del debito estero degli anni 1970, “Pagar es morir, queremons vivir”, riassume il problema: il destino dei popoli del Sud è segnato in entrambi i casi, perché restituire il debito con gli interessi alle banche straniere significa trasformare l’economia, la società e l’ambiente naturale in funzione dei paesi creditori, invece che delle popolazioni locali. Come spiega Wendell Berry, lo scrittore-contadino statunitense nel suo libro La strada dell’ignoranza, accettare la distruzione delle proprie comunità significa perdere parte della nostra memoria, e dunque di noi stessi.
L ‘imperativo è, oggi come ieri, “salvare le banche, non i profughi”, che muoiono annegati o di fame e di sete, o di freddo, assiepati davanti ai fili spinati alzati in fretta e furia da molti paesi europei, senza che Bruxelles abbia aperto nessuna “procedura d’infrazione”, non prevista dai regolamenti europei. Nessuno parla di come salvare i profughi – i boat people, come quelli della guerra in Vietnam nel secolo scorso, che non si fermeranno quali che siano le politiche di respingimento nei loro confronti. Non ne parla neppure chi riconosce e racconta le condizioni disumane imposte dall’Europa a milioni di vittime di guerre e devastazioni ambientali, causate anche - se non soprattutto - dagli interessi geopolitici dei paesi occidentali.

Riferimenti

Vdi in proposito l;articolo ex ante di Guido Viale e quello ex posto di Paolo Cacciari, quest'ultimo scritto per eddyburg

La nomina dei nuovi organi di gestione pone una sfida nella quale si misurera la saggezza dei decisori: un passo un futuro nel quale tutela e produzione trovino una sintesi o abbandono al degrado di un patrimonio irriproducibile?

Il Parco di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli
diventi un laboratorio per il territorio
Appello della Società dei Territorialisti/e

Il Parco regionale di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli, nato negli anni ’70 grazie a un'ampia partecipazione popolare e all'interesse di intellettuali di prestigio come Antonio Cederna, ha rappresentato una bella pagina nella storia della protezione della natura in Italia: l'area è stata sottratta alla speculazione edilizia e sono stati preservati paesaggi, ecosistemi, testimonianze storiche e biodiversità. Nell'area del parco si giustappongono ambienti naturali notevolmente diversi: due bacini fluviali (Arno e Serchio), la spiaggia e il sistema delle dune, le “lame” retrodunali e i boschi planiziali.

Le moderne opere di bonifica, la vicina città, l'agricoltura e un turismo ormai “storico”, connotano antropicamente il Parco. Inoltre nella stratificazione storica del parco sono visibili i segni “paesaggistici” di diverse civilizzazioni che ne fanno una natura decisamente trasformata: quella rinascimentale, lorenese, piemontese, repubblicana, con una tradizione di parco produttivo, ad esempio nella coltivazione della pineta e nell’allevamento, che ne fa un “parco agricolo” antelitteram.

Il piano per l’Ente parco redatto negli anni Novanta da Pier Luigi Cervellati e Giovanni Maffei Cardellini è stato uno strumento esemplare di conservazione e riproduzione delle qualità territoriali storiche. L’attuale fase di rinnovo degli organi di gestione del Parco (Presidente e Consiglio) prevede l’elaborazione di un nuovo Piano, che dovrà conformarsi alle indicazioni normative, agli obiettivi di qualità e alle regole di trasformazione previste nel nuovo Piano paesaggistico (PIT) approvato dalla Regione nel 2014.

Il Parco di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli è il luogo ideale per sperimentare nuove forme di governo del territorio, che accolgano al tempo stesso le sfide della conservazione dei paesaggi “storici” che lo caratterizzano ( e non di una generica rinaturazione) e della promozione di un’agricoltura e di un’economia autosostenibili, turismo compreso.

La Società dei territorialisti invita quindi la Regione Toscana a fare di quest'area protetta un grande laboratorio, utile a tutta la Toscana. Occorre perciò lanciare una nuova ottica di gestione, uscendo da quella che attualmente mette il Parco in condizioni di estrema difficoltà, a partire dalla necessità di attirare risorse economiche per mantenersi in vita.

Ecco perché ci sembra fondamentale che la Regione ponga estrema attenzione nell'individuare persone di grande competenza, indipendenti e capaci di mettersi in relazione con le forze positive del territorio, con l'ambizione di sviluppare visioni di lungo periodo per la tutela dell'ambiente e lo sviluppo socio-economico dell'area, al di fuori delle logiche dell’appartenenza politica e secondo criteri trasparenti.

Rilanciare il Parco regionale, salvaguardando la sua funzione storica e sviluppando il ruolo di laboratorio di governance territoriale, è una sfida di estremo interesse per arginare il rischio di degrado territoriale e favorire condizioni di coerente sostenibilità ambientale, sociale ed economica.

Annunciata da tempo è stata finalmente pubblicata la legge 221... (continua a leggere)

Annunciata da tempo è stata finalmente pubblicata la legge 221 del 2015, entrata in vigore proprio pochi giorni fa. Oltre a numerose indicazioni di azioni relative alla difesa e al miglioramento dell’ambiente, la legge contiene un articolo 40 che stabilisce “E’ vietato l’abbandono di mozziconi dei prodotti da fumo sul suolo, nelle acque e negli scarichi”. Lo stato si è finalmente accorto della pericolosità dei mozziconi di sigarette, rifiuti subdoli, diffusissimi e invadenti.

Nel mondo si fumano circa seimila miliardi di sigarette all’anno; la felicità dei fumatori viene apparentemente (non lo so di persona perché non ho mai fumato) dal fatto che il tabacco delle sigarette, bruciando lentamente, fa arrivare in bocca e nei polmoni, con una corrente di aria aspirata dall’esterno, varie sostanze chimiche, fra cui la nicotina e molte altre. Dopo qualche tempo, dopo che sono bruciati circa i due terzi o i tre quarti della sigaretta, resta un mozzicone che viene buttato via. In seguito ai continui avvertimenti, da parte dei medici, che il fumo delle sigarette fa entrare nel corpo umano sostanze tossiche e cancerogene, le società produttrici di sigarette hanno cercato di attenuare i relativi danni ponendo, nel fondo delle sigarette, dove vengono posate le labbra, un “filtro” che, come promette il nome, dovrebbe filtrare, trattenere, una parte delle sostanze nocive.

Quando una sigaretta è stata adeguatamente “consumata”, il filtro, con ancora attaccato un po’ di tabacco, viene buttato via; sembra niente, ma la massa di questi mozziconi è grandissima. Ogni sigaretta pesa un grammo, il mozzicone pesa da 0,2 a 0,4 grammi e il peso di tutti i mozziconi di tutte le sigarette fumate nel mondo ogni anno ammonta a oltre un milione di tonnellate. I mozziconi dei circa 80 milioni di chilogrammi di sigarette fumate in Italia ogni anno hanno un peso di oltre 20 mila tonnellate, poche rispetto ai quasi 35 milioni di tonnellate dei rifiuti solidi urbani, ma moltissime se si pensa al potenziale inquinante di tali mozziconi, dispersi dovunque.

I mozziconi sono costituiti in gran parte dal filtro, un insieme di fibre di acetato di cellulosa disposte in modo da offrire un ostacolo alle sostanze trascinate dal fumo delle sigarette verso la bocca e i polmoni dei fumatori. Se si osserva il filtro di un mozzicone, si vede che ha assunto un colore bruno, dovuto alle sostanze trattenute, principalmente nicotina e un insieme di composti che rientrano nel nome generico di “catrame”: metalli tossici fra cui cadmio, piombo, arsenico e anche il polonio radioattivo che erano originariamente presenti nelle foglie del tabacco, residui di pesticidi usati nella coltivazione tabacco e i pericolosissimi idrocarburi aromatici policiclici, alcuni altamente cancerogeni.

La natura e la concentrazione delle sostanze presenti nei mozziconi dipendono dalla tecnologia di fabbricazione delle sigarette che le industrie modificano continuamente per renderle più gradite ai consumatori; la natura di molti additivi e ingredienti è tenuta gelosamente segreta, il che non facilita la conoscenza e la limitazione dell’effetto inquinante dei mozziconi abbandonati. Il disturbo ambientale dei mozziconi delle sigarette viene anche dall’acetato di cellulosa del filtro, una sostanza che nelle acque si decompone soltanto dopo alcuni anni, tanto che alcune società cercano di proporre sigarette con filtri “biodegradabili”, il che farebbe sparire rapidamente alla vista i mozziconi, ma lascerebbe inalterate in circolazione le sostanze tossiche che il filtro contiene.

Proviamo a seguire il cammino di un mozzicone di sigaretta. I mozziconi delle sigarette fumate in casa o nei locali chiusi, in genere finiscono nella spazzatura, ma quelli delle sigarette fumate all’aperto o in automobile finiscono direttamente nelle strade e quindi nell’ambiente. I fumatori più attenti, si fa per dire, all’ecologia hanno cura di schiacciare con il piede il mozzicone buttato per terra, per spegnerlo del tutto ma anche credendo di diminuirne il disturbo ambientale; avviene invece esattamente il contrario: il mozzicone spiaccicato spande tutto intorno per terra le fibre del filtro con il loro carico di sostanze tossiche e il residuo di tabacco che è ancora attaccato al filtro. Alla prima pioggia queste sostanze vengono trascinate nel suolo o per terra e da qui allo scarico delle fogne e da qui in qualche fiume o lago o nel mare. Le fibre del filtro galleggiano e vengono rigettate sulle coste dal moto del mare; a molti lettori sarà capitato di fare il bagno nel mare e di dover spostare fastidiosi mozziconi galleggianti.

Nel contatto con l’acqua le sostanze che il filtro contiene si disperdono o si disciolgono e possono venire a contatto con gli organismi acquatici. Si sta sviluppando tutta una biologia e tossicologia delle interazioni fra i componenti dei mozziconi di sigarette e la vita acquatica, specialmente di alghe e altri microrganismi. Rilevanti effetti tossici sono dovuti alla stessa nicotina e non meraviglia perché la nicotina è stata usata come un antiparassitario proprio per la sua tossicità verso molti organismi viventi. La nuova legge raccomanda la diffusione di posacenere, ma anche così i veleni dei mozziconi non scompaiono: i loro effetti tossici continuano anche se finiscono nelle discariche o negli impianti di trattamento dei rifiuti. C’è bisogno di molta ricerca chimica sui mozziconi di sigarette, ma soprattutto c’è bisogno che le persone fumino di meno: ne trarrà vantaggio il loro corpo e il corpo comune di tutti noi, l’ambiente, le acque, il mare.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

Se manca l'acqua non si mangerà. I guasti che abbiamo compiuto ai ritmi della natura sono tali che oggi possiamo solo imparare ad adattarci. Un'analisi realistica, ma non consideriamola consolatoria. La Repubblica, 1 febbraio 2016

MANCA l’acqua» è ancora più inquietante di «manca il cibo ». Perché la prima frase determina la seconda. Nell’ultimo paio di decenni non sono mancati i segnali del riscaldamento globale, e non erano solo quelli che possiamo percepire contando le alluvioni o misurando i danni. Cambiano - più rapidamente del normale - i nostri paesaggi agrari, si spostano verso nord i limiti delle coltivazioni cosiddette mediterranee, mentre verso sud si combatte sempre di più e sempre più duramente con la desertificazione e l’erosione dei suoli.

Un amico e agricoltore tedesco disse tempo fa in un incontro pubblico: «Noi contadini non siamo parte del passato, ci occupiamo quasi esclusivamente di futuro. Pensiamo al futuro perché abbiamo bisogno di pianificare e perché la maggior parte di quel che facciamo acquista senso e valore anche molto tempo dopo che l’abbiamo fatto. Seminare significa occuparsi di futuro. Arare significa occuparsi di futuro».

Il 2016 non ha ancora potuto collezionare tanti meriti, ma sicuramente ne ha uno: questo inverno così mite, che segue un’estate già tanto asciutta, ci sta facendo pensare al riscaldamento globale molto più di quanto ci abbiamo pensato finora. Perché sta mancando l’acqua, e se manca l’acqua ci manca il futuro. Gli agricoltori devono decidere adesso cosa seminare e quanto far rendere i loro terreni. Senza un qualche livello di prevedibilità sull’acqua, questo non possono più farlo. Possono provare, a loro rischio e pericolo. Ma se il rischio d’impresa, in un’azienda agricola, è già di per sé più alto che nelle altre, in un’epoca di stravolgimenti climatici diventa intollerabile.

L’agricoltura massiva degli ultimi decenni ha provato a credere che industrializzando i processi di produzione, con l’aiuto della chimica di sintesi, fosse quasi possibile azzerare questi rischi pur in presenza di quanto di più rischioso la natura possa immaginare: l’uniformità delle monocolture. Come se riproponendo in campagna i modelli della fabbrica si potesse davvero creare un ambiente isolato dal “qui ed ora”, simile a quello delle fabbriche.

Ma l’agricoltura dialoga con la natura, e in natura solo la diversificazione protegge dal rischio. Questo lo sanno bene e lo praticano le agricolture tradizionali, che hanno sempre visto nella variabilità delle produzioni l’unica forma possibile di assicurazione contro l’imprevisto.

Oggi, allo sgomento che prende tutti noi - produttori e consumatori - davanti all’impossibilità di fare previsioni consolanti, e alla chiara percezione di vivere un momento climaticamente delicatissimo e pericoloso, possiamo reagire solo prendendo atto che l’arma di cui abbiamo bisogno si chiama adattabilità. La nostra agricoltura deve rendersi leggera, adattabile e pronta a trovare soluzioni puntuali a problemi globali. La sola via di buonsenso che abbiamo - se vogliamo sopravvivere fisicamente ed economicamente - è quella di ripensare, subito, il nostro modo di produrre, rendendolo amico e non antagonista dei suoli, dei microorganismi, dell’acqua, dell’aria. Quando capita un guaio occorre fare tre cose e bisogna farle in un ordine ben preciso: innanzitutto rimediare ai danni, poi chiedersi come è successo, e quindi adoperarsi perché non succeda di nuovo. Le emergenze che ci attendono nei prossimi mesi verranno fronteggiate, ma bisogna anche ragionare su quanta parte abbiamo avuto nel causarle e su come cambiare il modo in cui ci comportiamo.

I cambiamenti climatici sono in corso: bisogna essere sufficientemente adattabili per adeguarsi ad essi, ma anche sufficientemente intelligenti da non continuare a peggiorare le cose.

Una prima vittoria contro un grave danno ambientale che è insieme deturpazione del patrimonio comune, omaggio a uno "sviluppo" insensato e violazione dei diritti dei poteri locali. Articoli di Serena Giannico ed Enzo Di Salvatore. Il manifesto, 20 gennaio 2016

LA CONSULTA: «SÌ AL REFERENDUM ANTI TRIVELLE»
di Serena Giannico


«No Ombrina. Via libera al quesito già ammesso dalla Cassazione sulla durata del permesso ai petrolieri. Esultano le nove regioni e le 200 associazioni del fronte No Triv. Battuto il governo che voleva impedire la consultazione. Gli ambientalisti chiedono di fermare le perforazioni fino ad un nuovo Piano energetico nazionale»

Si farà il referendum antitrivelle: esultano 9 Regioni e oltre 200 associazioni di tutta la Penisola. La Corte Costituzionale, infatti, ha dato l’ok all’unico dei quesiti referendari, contro gli idrocarburi, ammesso dalla Cassazione lo scorso 8 gennaio. I giudici hanno deciso, in poco più di tre ore, sulla richiesta di sottoporre alla valutazione popolare il sesto quesito, «quello sul mare».

«I cittadini – spiega in una nota il coordinamento nazionale “No Triv“saranno chiamati a esprimersi per evitare che i permessi già accordati entro le 12 miglia possano proseguire anche oltre la scadenza, per tutta la “durata della vita utile del giacimento”. Rimane fermo il limite delle 12 miglia marine, all’interno delle quali non sarà più possibile accordare permessi di ricerca o sfruttamento. La sentenza della Consulta dimostra come le modifiche apportate dal Governo con la Legge di stabilità – aggiungono — non soddisfacevano i quesiti referendari e, anzi, rappresentavano sostanzialmente un tentativo di elusione».

Tre dei sei quesiti depositati il 30 settembre 2015 sono stati recepiti dalla legge di stabilità, emendata: il parlamento ha modificato le norme su strategicità, indefferibilità ed urgenza delle attività petrolifere, che erano poco garantiste sulla partecipazione dei territori alle scelte. Un altro quesito è stato ora ammesso dalla Corte Costituzionale, mentre sugli ultimi due è stato promosso, da sei Regioni, un conflitto d’attribuzione tra poteri di fronte alla Consulta e nei confronti dell’Ufficio centrale della Cassazione.

I due quesiti riguardano la durata dei permessi e il Piano delle aree che – spiegano i No Triv — obbliga lo Stato e i territori a definire quali siano le zone in cui è possibile avviare progetti di trivellazione. «Si tratta di uno strumento di concertazione che risulta essere fondame ntale soprattutto se con la riforma del titolo V si accentra il potere in materia energetica nelle mani dello Stato». «Sappiamo ora che su uno dei quesiti centrali ci sarà il referendum, a meno che governo e parlamento intervengano sulla materia», afferma l’avvocato Stelio Mangiameli che ha rappresentato i Consigli regionali di Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise di fronte alla Consulta. All’ultimo momento, invece, ha battuto in ritirata l’Abruzzo che, con un voltafaccia del presidente della Regione Luciano D’Alfonso (Pd), si è infine schierato contro il referendum e a fianco del governo.

«Le norme precedenti — prosegue il legale — prevedevano, per i titoli già concessi, proroghe di 30 anni, aumentabili di altri 10 e altri 5. Le modifiche introdotte con la legge di Stabilità eliminano la scadenza trentennale e fanno sì che in sostanza non ci sia più un termine. Su questo punto ci sarà il referendum».

«Il fronte referendario è sul 4–2 nella disputa con il premier — dichiara il costituzionalista Enzo Di Salvatore, docente all’università di Teramo, colui che ha materialmente scritto i quesiti -. Il governo voleva far saltare il referendum, visto che i sondaggi davano la vittoria antitrivelle al 67%».

«Il presidente Renzi dev’essere contento perché quando il popolo irrompe sulla scena della democrazia, chi è iscritto al Partito democratico dev’essere contento per definizione»: così il governatore della Puglia, Michele Emiliano -. «Per festeggiare il risultato – dichiara — organizzerei un corteo con le automobili. Qui la campagna per il voto comincia subito». E non risparmia di commentare l’abbandono da parte dell’Abruzzo: «È come quando uno si vende la schedina prima della partita, e poi si ritrova col tredici. Lo dico con affetto nei confronti del mio amico Luciano D’Alfonso, che avrebbe potuto gioire con noi». «Non c’è uno Stato centrale che ama l’Italia e un territorio che la odia. L’interesse strategico di un Paese, con lealtà e trasparenza lo si costituisce insieme. E questo è un passo importante», gli fa eco il presidente del Consiglio regionale della Basilicata, Piero Lacorazza (Pd).

«Questa sentenza ci dà lo spunto per rilanciare richieste chiare al governo: rigetto immediato e definitivo di tutti i procedimenti ancora pendenti nell’area di interdizione delle 12 miglia dalla costa (a cominciare da “Ombrina”) e una moratoria di tutte le attività di trivellazione off shore e a terra, sino a quando non sarà definito un Piano energetico nazionale»: così Greenpeace, Legambiente, Marevivo, Touring Club italiano e Wwf accolgono il giudizio della Consulta. «Pur di assecondare le lobby dei petrolieri, l’esecutivo Renzi – attaccano — aveva promosso forzature inaccettabili, come la classificazione delle trivellazioni come “opere strategiche”, dunque imposte. La Corte Costituzionale rimette al giudizio dei cittadini quei meccanismi legislativi truffaldini con cui si è aggirato sino ad oggi un divieto altrimenti chiaro, lasciando campo libero ai signori del greggio fin sotto le spiagge».

UNA PRIMA VITTORIA.
DA BISSARE
di Enzo Di Salvatore

La Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il referendum sulle trivellazioni entro le 12 miglia marine, in relazione alla durata dei titoli minerari, come disposta dalla legge di stabilità 2016. Con l’entrata in vigore di quella legge, infatti, l’articolo 6 — precisamente al comma 17 — del Codice dell’ambiente è stato modificato: i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione sono fatti salvi per tutta la durata di vita utile del giacimento. E questo vuol dire che non hanno scadenza certa. Con un duplice effetto: la possibilità di estrarre senza limite temporale; la possibilità che i permessi già rilasciati restino vigenti oltre la durata già fissata dal provvedimento amministrativo. Evidentemente nella speranza che prima o poi la normativa sul divieto entro le 12 miglia marine cambi.

Nonostante le obiezioni mosse dal governo, e sebbene la sentenza non sia stata ancora depositata, la Corte costituzionale avrà certamente ritenuto che una durata «sine die» dei titoli minerari contraddicesse uno degli obiettivi dei promotori, posto già a base di un altro quesito referendario: quello di contenere la durata di tutti i titoli, attraverso il divieto di rilasciare proroghe oltre i sei anni per la ricerca e oltre i trenta anni per l’estrazione. Ma questo solleva ora un problema ulteriore, giacché la Cassazione ha dichiarato chiuse le operazioni referendarie per tutti gli altri quesiti e, dunque, anche per quello sulle proroghe dei permessi e delle concessioni.

È una contraddizione in termini: a seguito delle modifiche del parlamento, infatti, il contenimento della durata dei titoli riguarderà solo i nuovi «titoli concessori unici», ma non anche i permessi e le concessioni, che potranno beneficiare di proroghe ulteriori.

D’altra parte, insoddisfatta resta anche la richiesta referendaria sul piano delle aree; e ciò perché il quesito proposto dalle Regioni presupponeva necessariamente il mantenimento del piano. Ma la legge di stabilità ha abrogato il piano. Questo vuol dire che è sparita la norma sulla quale far votare i cittadini. Per questa ragione, venerdì prossimo nove regioni (eccezion fatta per l’Abruzzo) promuoveranno dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione, allo scopo di recuperare sia il quesito sulle proroghe sia quello sul piano delle aree.

Rispetto a questo scenario, il governo ha davanti a sé due strade: consentire che si vada a referendum (sul quesito sul mare ed eventualmente su quelli relativi alle proroghe e al piano delle aree, qualora il conflitto di attribuzione si risolva positivamente) oppure modificare nel senso voluto dalle Regioni la normativa oggetto di referendum.

Intervista di Antonio Cianciullo allo storico del clima Pascal Acot. «Il fatto che intere regioni siano state sconvolte da una modifica violenta del ciclo idrico, cioè da una lunga stagione arida o da una moltiplicazione delle alluvioni, ha creato sommovimenti sociali profondi che stanno avendo conseguenze di lungo periodo». La Repubblica, 16 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Non direi che una minaccia è più forte dell’altra. Io vedo una perfetta integrazione tra i due problemi: il cambiamento climatico rafforza il terrorismo e il terrorismo rafforza il cambiamento climatico. Serve una risposta capace di agire su entrambi i fronti». Pascal Acot, storico del clima, commenta le conclusioni del Global Risks Report, stilato da esperti e leader del World Economic Forum, da Parigi, città che nell’arco di un mese è stata vittima del terrorismo e regista del nuovo accordo sul clima.

Anche Obama ha sottolineato il nesso tra la lunga siccità che ha devastato la Siria tra il 2006 e il 2011 e la destabilizzazione del Paese che ha portato alla guerra civile.
«Quello è stato un caso da manuale, ma l’azione del cambiamento climatico è molto più larga, molto più continuativa. Il fatto che intere regioni siano state sconvolte da una modifica violenta del ciclo idrico, cioè da una lunga stagione arida o da una moltiplicazione delle alluvioni, ha creato sommovimenti sociali profondi che stanno avendo conseguenze di lungo periodo. E non dobbiamo dimenticarci che il processo del global warming è destinato ad aggravarsi: una prospettiva molto allarmante».
Il terrorismo rallenta gli sforzi per combattere il cambiamento climatico?
«Certo, perché esaspera le tensioni anziché diminuirle. Il fatto che l’attacco terroristico del 13 novembre abbia rischiato di far saltare la conferenza sul clima è emblematico. E non è un episodio isolato. L’intera azione di Daesh, il sedicente stato islamico, è mirata a scavare fossati là dove bisognerebbe costruire ponti. Per ricreare coesione sociale e per rallentare il cambiamento climatico servono invece azioni ambientali virtuose da organizzare su entrambi i lati del Mediterraneo».
Qual è il suo giudizio sull’azione svolta finora dai paesi europei?
«Pessimo. Finora hanno avuto la meglio logiche legate agli interessi nazionali o di schieramento, come lo sconsiderato attacco a chi combatte Daesh sul terreno. La stessa Francia ha combinato disastri diplomatici e militari sia in Siria che in Libia. Bisogna passare dalla logica dei bombardamenti a quella degli interventi capaci di risolvere i problemi».

Non è facile con la situazione che si è creata in Medio Oriente.
«Proprio l’aver separato i problemi ambientali da quelli politici ha aggravato la crisi. Ora non dobbiamo ripetere lo stesso errore cercando di curare la malattia che abbiamo contribuito a creare».

«Clima. La comunità umana sarà capace di superare le difficoltà del pianeta. E anche se nel testo finale della Conferenza di Parigi le parole agricoltura, biodiversità», coltivazione non compaiono mai, il 2016 sarà un anno positivo, di svolta».Il manifesto, 31dicembre 20152016
Qual è lo stato di salute del pianeta? Questa domanda non è certo di facile risposta, soprattutto perché riguarda una molteplicità di aspetti e di fattori che non è semplice riuscire a considerare in uno stesso colpo d’occhio. Interrogarsi su quale sia la qualità della nostra casa comune, tuttavia, non è solo un dovere che ci tocca come abitanti, ma una necessità sempre più pressante dato che, evidentemente, dallo stato del nostro pianeta dipendono tutte le nostre possibilità di sopravvivenza come specie umana. Forse già qui sta il primo punto di riflessione: a essere a rischio, con i cambiamenti climatici, la distruzione delle risorse naturali, l’ipersfruttamento dell’ambiente a scopo produttivo e l’erosione di habitat fragili a causa della pressione demografica, non è il pianeta ma semmai il futuro della specie umana.

La convinzione stessa che 7 miliardi di uomini possano porre fine alla vita di un pianeta che ha 5 miliardi di anni è, infatti, quantomeno un po’ eccentrica, se non decisamente megalomane. Ed è la stessa premessa culturale che fa sì che il rapporto che abbiamo con la Terra sia spesso predatorio e di dominazione piuttosto che di equilibrio e adattamento.
La realtà è invece ben diversa, perché con ogni probabilità altre specie sul pianeta prenderanno il posto di quelle che stiamo distruggendo con i nostri comportamenti produttivi scellerati, le risorse naturali si ricostituiranno quando noi non saremo più in grado di eroderle ma nel frattempo, speriamo di no, l’unica cosa che si sarà davvero persa per sempre sarà la specie umana, con tutta la sua potenza produttiva e tutta la sua gloriosa civiltà.

È dunque questo il triste destino che ci attende? Penso proprio di no, perché sono convinto che la nostra intelligenza, la nostra capacità di cooperare e il nostro spirito di sopravvivenza faranno sì che sapremo riprendere il contatto con la realtà e invertire questo processo autodistruttivo che affonda le radici nelle rivoluzioni industriali e che nell’ultimo secolo ha subito un’accelerata senza precedenti.

Il punto, infatti, è che come società umana abbiamo reso egemone un modello di relazioni e di interazioni basato su un’economia capitalista che identifica falsamente l’accumulazione di denaro con il progresso ma che in realtà genera la competizione sfrenata, la sopraffazione, l’ingiustizia, la sperequazione, lo spreco, la distruzione, lo sfruttamento, la povertà. Un’economia che uccide, come spesso ha ripetuto Papa Francesco che lo ha anche messo nero su bianco nell’enciclica Laudato Sì. Non solo, ma siamo anche riusciti a convincerci che questo sia il modello «naturale», che non ci sia altro modo di abitare la casa comune e di convivere con i nostri simili e con l’ambiente che ci ospita.

Per fortuna, invece, cambiare direzione si può,ma servono nuovi paradigmi che ci consentano di ricostruire il tessuto del nostro vivere comune su basi nuove, di cooperazione, di sostegno reciproco, di equità. Occorre un percorso comune, in cui però i paesi del nord globale (che sono i maggiori responsabili del deterioramento ambientale e dell’ipersfruttamento delle risorse) abbiano la forza e la dignità di assumersi la guida del cambiamento. Anche perché, non a caso, a subire maggiormente le conseguenze catastrofiche dei cambiamenti climatici saranno proprio quelle popolazioni e quelle aree del pianeta più fragili perché più povere o storicamente instabili.

In questo percorso di rinnovamento, la produzione del cibo può essere un esempio eclatante della forza propulsiva che hanno nuovi comportamenti virtuosi. Oggi il 70% delle risorse idriche è utilizzata per agricoltura e allevamento, fertilizzanti e pesticidi rappresentano una fonte rilevantissima di emissioni di gas serra, gli allevamenti industriali con le deiezioni degli animali sono grandissimi inquinatori delle falde acquifere, per non parlare delle enormi quantità di terreni che vengono utilizzati per la produzione dei mangimi, spesso deforestando vaste aree e utilizzando colture geneticamente modificate che erodono il patrimonio di biodiversità. Nello stesso tempo, però, proprio nella produzione di cibo sono evidenti enormi segnali di riscatto, di novità, di cura e di attenzione, proprio quei nuovi paradigmi di cui tanto sentiamo il bisogno e che spesso non sappiamo dove cercare.

Basti pensare alle esperienze dei milioni di contadini che in ogni angolo del mondo stanno già andando nella direzione della conservazione delle risorse naturali, utilizzando metodi agricoli in armonia con il territorio e con le condizioni ambientali, che non solo non impattano sugli habitat all’interno dei quali si inseriscono, ma al contrario ne aumentano resilienza e durabilità. Non solo, ma al fianco di questi produttori ci sono masse enormi di cittadini che hanno scelto di sostenere questo sforzo, tagliando gli intermediari e pagando un prezzo più alto ai produttori, remunerando in maniera equa il lavoro, pagandone in anticipo il prodotto in modo da non costringerli a prestiti spesso svantaggiosi, valorizzandone il lavoro pulito e promuovendone lo sviluppo. Questo nuovo mondo è già presente, è già diffuso, funziona e genera dignità, sviluppo e soddisfazione in tutti gli attori che vi prendono parte.

Eppure, nel dibattito mondiale sul clima, anche nella recente Conferenza di Parigi che aveva il compito di fissare pratiche e obiettivi concreti per contenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi, il settore dell’agricoltura è stato relegato ai margini. Come già evidenziato più volte, nel testo uscito dai negoziati non compaiono nemmeno una volta i termini «agricoltura», «biodiversità» e «coltivazione». Un ulteriore segno scoraggiante questo, perché esemplificativo di come non ci si renda conto che, per uscire dalla crisi ambientale in cui siamo immersi, non si può non assegnare un ruolo di primissimo piano all’attività necessaria alla sopravvivenza di ogni singolo essere umano: l’atto di nutrirsi.
Tutta l’attenzione è rivolta ai settori dell’energia, dell’industria, dei trasporti; è vero che si parla anche di suolo e di sicurezza alimentare, ma non si riconosce in modo esplicito il ruolo centrale del rapporto diretto fra clima, coltivazione della terra e cibo.

Tornando dunque alla domanda di partenza, probabilmente la riflessione sulla salute del pianeta non può essere compiuta se non ci domandiamo anche quale sia lo stato della comunità umana che lo abita. Quale mondo vogliamo lasciare ai nostri figli, quale idea di felicità vogliamo perseguire e come pensiamo di poterla raggiungere? Io credo fortemente nella nostra capacità di cambiare, di cooperare e di superare le difficoltà e questo mi rende ottimista. Bisogna tuttavia continuare a lottare per favorire la presa di coscienza globale che il feticcio della competizione non è compatibile con una vita degna e felice. In questo senso il 2016 che sta per iniziare sarà un anno di svolta, e sono convinto che lo sarà in termini positivi.

«Una verifica di fatto è già in corso: l’aria delle nostre città ha bisogno di piani di radicale riduzione delle emissioni». Il manifesto, 29 dicembre 2015 (m.p.r.)

I gas serra nel lunghissimo periodo impattano sul clima del vivente umano e non umano, nel breve e nel lungo periodo, fra l’altro, sul respiro e sulla salute della oltre metà cittadina degli umani. La riduzione delle emissioni petro-carbonifere (specie quelle di trasporti e riscaldamento) non serve solo a contenere il riscaldamento del pianeta e i conseguenti costi finanziari e sociali, ma anche a ridurre l’inquinamento atmosferico. Sotto questo punto di vista a Parigi si è capito molto (qui l’adattamento serve a poco) e deciso poco. Lo si capisce ancor meglio ogni giorno che passa a Pechino e a Roma (misurandolo in modo più sofisticato della sola anidride carbonica).

Nei commenti alla Cop21 sono stati sprecati aggettivi storici. Tutti le capitali e le nazioni che ospitano un’importante conferenza Onu vogliono aver lasciato un segno indelebile nel percorso dell’umanità, ogni capo di governo e ogni ministro vogliono poter dire di aver influito su una svolta epocale durante il proprio mandato, ogni militante e ogni interesse costituito vuole non sprecare il proprio tempo. Le categorie del bicchiere mezzo pieno-vuoto, della rivoluzione e del fallimento, di ottimismo-pessimismo ritornano ciclicamente e non aiutano a comprendere. Che la temperatura media del pianeta stia crescendo per comportamenti umani e che il riscaldamento provochi effetti già dannosi e potenzialmente rovinosi è acclarato sul piano scientifico e diplomatico da 25 anni.
L’Onu è un benestante precario corpo di nazioni formalmente unite, da quando è finita la guerra fredda ha cominciato a muoversi, nel 1988 ha legittimato un gruppo mondiale di scienziati che nel 1990 hanno approvato un primo Rapporto sui Cambiamenti Climatici. E nel 1992 ha organizzato a Rio una Conferenza per approvare una conseguente convenzione (insieme ad altri atti e indirizzi su ambiente e sviluppo). Da allora sono seguiti l’entrata in vigore, ben 21 incontri di tutte le “parti” dell’Onu e altri quattro rapporti dell’Ipcc.
Da un quarto di secolo sappiamo con sempre maggiore precisione che la temperatura del 2050 non dovrà aumentare di oltre 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, se vogliamo evitare uno sconquasso ingestibile nell’ecosistema globale e in tante singole aree, ingentissimi costi e migrazioni forzate. Nel 1997 a Kyoto si era adottata una strategia di impegni scadenzati e vincolanti, lì (come primo passo e per un primissimo periodo fino al 2012) solo per i paesi che avevano provocato più emissioni e riscaldamento. Il protocollo è entrato in vigore solo 8 anni dopo e progressivamente quella strategia è stata abbandonata, se ne è abbozzata un’altra da 5-6 anni. Da allora l’essenziale non è stato più negoziato, ovvero obblighi quantificati e scadenzati, globali e differenziati, legalmente vincolanti di riduzione delle emissioni per garantire al pianeta un aumento minimo della temperatura (e minor inquinamento).
Ogni paese farà quanto vuole, si adatterà, volontariamente, questa è la nuova strategia, piani nazionali di mitigazione e adattamento. Il ministro convoca sindaci e governatori ma il suo bel piano di decarbonizzazione non lo ha ben fatto! Ora la nuova strategia ha un minimo percorso legalmente vincolante e qualche punto fermo «politico». Da cinque anni i due punti cruciali e minimali del negoziato sono i soldi e i controlli: quanto e come mettono fondi i paesi ricchi per aiutare quelli poveri; chi e con quali coerenti omogenei strumenti misura l’eventuale riduzione.
Sul piano finanziario è stato trovato un qualche consenso, sia sulla cifra annuale dopo il 2020 sia sulle modalità di versamento prima e dopo il 2020. Sul piano amministrativo si lascia una eccessiva flessibilità: i piani nazionali di impegni volontari che sono stati presentati da 188 paesi, anche se fossero rispettati, provocheranno un aumento della temperatura tra il 2,7 e il 3%. Nel prossimo decennio in ogni paese dovremo ottenere che si faccia prima e meglio. E poi ci sono le «grandes questions oubliées» come le aveva chiamate lo speciale di Le Monde per Cop21: oceani, biodiversità, migrazioni, sicurezza alimentare. Questi temi non figuravano nemmeno all’interno del negoziato climatico, pur essendo strettamente connessi agli impatti e agli effetti dei cambiamenti climatici in corso.
Nel prossimo decennio dovremo ottenere che si apra un serio negoziato globale, i documenti di Parigi non danno certezze su energia e agricoltura, mobilità e migrazioni sostenibili. L’enciclica papale e i documenti di altre religioni (a Istanbul quella dell’Islam) sono essenziali alla nuova strategia, abbiamo un gran bisogno di donne e uomini di buona volontà, credenti e non credenti, per promuovere resilienza degli ecosistemi, biodiversità dei beni comuni, lotta a ingiustizie e inuguaglianze, garanzia globale di libertà di accesso alle risorse, cooperazione (anche decentrata) allo sviluppo sostenibile.
L’accordo di Parigi va ora ratificato (il meccanismo delle ratifiche è simile a quello che approvammo a Kyoto 18 anni fa, solo che ora gli emettitori che contano sono Cina e Usa, mentre allora erano Usa e Russia). Il combinato disposto delle parti «legali» e delle parti «politiche» rende non indispensabile l’iter legislativo americano (Obama è riuscito in una bella operazione). Entro il 2020 dovrebbe entrare in vigore, un po’ prima vi sarà la verifica «politica» dei piani nazionali, un po’ dopo quella «legale» (quinquennale). Una verifica di fatto è già in corso: l’aria delle nostre città ha bisogno di piani di radicale riduzione delle emissioni.

Riferimenti

Sul fallimento di COP21 vedi su questo sito l'articolo di Paolo Cacciari, Una mano di vernice verde sul nuovo business

Una rigorosa e appassionata analisi della grande truffa perpetrata a Parigi ai danni di moltitudini (oggi i misconosciuti "profughi ambientali", domani anche noi e i nostri posteri) e a vantaggio del nuovo greenbusiness. 20 dicembre 2015

L'accordo di Parigi sul clima è, a dir poco, inadeguato. Il coro entusiasta che si è levato, anche da alcune organizzazioni ambientaliste, è del tutto fuori luogo. A voler essere precisi la Cop 21 segna l'ennesimo tentativo dei governi degli stati del pianeta di prendere tempo e di procrastinare decisioni che sono sempre più necessarie, urgenti ed evidenti.

Obiettivo dei governi: procrastinare.
Ma per molti è già tardi
Per molti il tempo è già ora. I 266 milioni di profughi ambientali (Parlamento europeo, Commissione per l'ambiente, documento 30/9/2015) che negli ultimi cinque anni hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni sono stati inopinatamente cancellati dal testo finale dell'accordo di Parigi. Inesistenti. A loro gli stati rifiutano il riconoscimento di rifugiati climatici.
Non hanno più tempo nemmeno i “Piccoli stati insulari” a rischio di sommersione. Non sto pensando all'isola di Tokelau e agli atolli del Pacifico. E nemmeno a Chalan Beel, negli estuari della rete fluviale del Bangladesh. Ma a Venezia dove le mastodontiche e costosissime dighe mobili verranno sormontate perchè progettate per un orizzonte di efficacia di innalzamento del livello modio del mare di “soli” 80 cm.
Non hanno più tempo le popolazioni asfissiate dai gas di scarico e dai particolati sottili inalabili emessi dalle centrali a carbone, dai cementifici, dagli inceneritori, dalle navi, dagli aerei a cherosene, dalle automobili. Il contatore della Organizzazione Mondiale della Salute che registra le morti premature, l'asma e le bronchiti croniche causate dall'inquinamento atmosferico continuerà a girare. A Pechino come nella Pianura Padana. Le splendide foto degli animali in via di estinzione continueranno a dare spettacolo sul colonnato di San Pietro anche nei prossimi giubilei.
L'accordo andrà in vigore il primo gennaio del 2021. Il primo Global Stocktake è fissato per il 2023. Fino al 2030 i paesi in via di sviluppo potranno aumentare le loro emissioni.

Prosegue la guerra contro la Terra
e i suoi abitanti

La guerra contro la Terra e i suoi abitati scatenata duecento anni fa dai paesi di più antica industrializzazione non si è affatto conclusa. Gli stati maggiori del business a Parigi hanno convenuto di usare nuove armi non convenzionali per continuare a condurre i loro affari. Investiranno in geo-ingegneria e in biotecnologie per tentare di catturare il diossido di carbonio dall'atmosfera e iniettarlo a pressione nel sottosuolo (Carbon Capture and Storage), pianteranno monoculture di alberi transgenici per aumentare la fotosintesi clorofilliana, fertilizzeranno gli oceani per assorbire più anidride carbonica e aumenteranno la nuvolosità diffondendo particelle di acido solforico ad alta quota per manipolare le radiazioni solari e diminuire l'effetto serra. Ci daranno da mangiare hamburger sintetici e ortaggi coltivati senza terra. Chissà che buoni!
Del resto, sull'ultimo lembo dell'ultimo ghiacciaio delle Dolomiti, sulla Marmolada, quest'estate, hanno provveduto a stendere un pietoso telo di nailon nel disperato tentativo di proteggerlo dal sole. Il dott. Frankenstein non si arrende mai, e il mito di Prometeo non accenna a sfiorire nemmeno dopo la prova del nucleare.
L'accordo di Parigi parla chiaro: l'obiettivo non è quello di chiudere le fonti dei gas climalteranti (e lasciare carbone e petrolio riposare sotto terra), ma di raggiungere la “neutralità delle emissioni” (nella seconda metà del secolo) attraverso le compensazioni: tanto gas posso emettere quanto riesco a dimostrare di farlo sparire.
Nessuna autocritica
sui fallimenti del passato
Nessuna considerazione autocritica sui risultati fallimentari fin qui raggiunti dai meccanismi (già previsti dal protocollo di Kyoto e applicati in Europa) di compra/vendita dei “diritti di emissione”(Emission Trading Scheme), ovvero permessi di inquinamento e del loro trasferimento nelle diverse aree del pianeta. Il mercato artificiale dell'“aria fritta” (Cape and Trade) ha aperto una nuovo campo per la finanziarizzazione dell'economia, ma non ha comportato alcuna reale riduzione delle emissioni. Il colonialismo del carbonio impone ai paesi poveri di provvedere a ripulire l'aria che i paesi ricchi sporcano con i loro smodati consumi. Lo stesso meccanismo di computo delle emissioni è una vera e propria truffa ai danni dei paesi produttori di beni che poi vengono consumati altrove.
Un minimo di onestà imporrebbe che fossero i beneficiari finali a pagare le esternalità negative generate lungo la filiera della produzione e della distribuzione delle merci. Gianni Silvestrini, nel suo ultimo lavoro (2C (due gradi), Kyoto Club e Edizioni Ambinete, 2015), propone una sorta di “Imposta progressiva sul carbonio aggiunto” da applicare al prezzo finale delle merci. Senza una vera cooperazione alla pari tra paesi che dispongono di materie prime e paesi che detengono le tecnologie, il previsto “meccanismo di supporto per lo sviluppo sostenibile” e il “trasferimento tecnologico” attraverso il Financial Mechanism non sarà altro che il modo per mantenere rapporti di scambio favorevoli alle grandi compagnie che hanno acquisito diritti di estrazione e brevettato le tecnologie per utilizzarle.
Parole chiave:
Resilienza, Nature&Business
Nell'accordo di Parigi, come noto, è saltato ogni riferimento ai target di riduzione di CO2 e CO2 equivalente. Il motivo è semplice: si pensa di contenere il surriscaldamento del globo “ben sotto i 2 gradi” (a fine secolo) senza diminuire le emissioni totali, ma “catturandole” o/e aumentando la “capacità adattiva” dei territori. “Resilienza” è la nuova parola di moda. Un gioco di prestigio fantasmagorico presentato a Parigi al Gran Palais nella fiera delle green and clear technologies dove erano schierati tutti gli sponsor della Cop 21. Da Google alla Coca Cola, da Apple alla Toyota. Tutti convertiti alla SolarCity. Ma La città del sole di Tommaso Campanella prevedeva che i suoi abitanti (i “solari”) lavorassero quattro ore al giorno e contemplava l'abolizione della proprietà privata.
Un forum ufficiale della Cop 21 si intitolava “Nature & Business”. La preoccupazione costante dei governanti, infatti, sembra essere quella di trovare il modo di garantire crescita economica e profitti aziendali attraverso attività produttive che non peggiorino le condizioni di vivibilità e di funzionalità ecologica del pianeta. Una scommessa assai ardua e al limite dell'impossibile senza avere il coraggio di intaccare quantomeno gli interessi delle Big Oil. Una operazione che dovrebbe portare a spostare ingenti quantità di capitali dalle compagnie che detengono il controllo dei giacimenti fossili a favore dello sviluppo e dell'impiego delle energie rinnovabili.
James Hansen, astrofisico e climatologo, ha fatto una affermazione molto di buon senso: “Fino a che i carburanti fossili saranno più economici, continueranno a essere bruciati”. Un'operazione che richiederebbe l'uso di strumenti come la Carbon tax, ma a Parigi è continua ad essere una parola innominabile. Il potere delle industrie petrolifere continua ad essere tale per cui – constata Marica Di Pierri - “Nel testo di 31 pagine votato a Parigi neppure una volta vengono nominati i termini petrolio, carbone o combustibili fossili”.

Le parole che mancano

Nel testo finale non appaiono nemmeno le parole acqua, agricoltura, trasporti, edilizia e quante altre abbiano a che fare con i modi di vita concreti delle persone e con le politiche pubbliche. Come se i modelli energetici, alimentari, insediativi, economici e sociali non dovessero mutare a seguito della fuoriuscita dall'era tossica dei combustibili fossili.
La decarbonizzazione degli apparati produttivi potrà avvenire solo attraverso un cambiamento dei modelli di business, di impresa, di consumo. Il rientro delle attività umane nei limiti delle capacità rigenerative della biosfera passa attraverso una revisione teorica e pratica del concetto di economia. Dovremmo imparare a soddisfare le nostre esigenze, necessità e desideri, senza intaccare gli stock naturali e compromettere i servizi ambientali. Beni comuni non negoziabili, non mercificabili, non privatizzabili, non dissipabili.

Ignorate le verità proclamate da papa Francesco
e quelle documentate dagli scienziati

A smuovere gli animi dei governati non è bastata né la grande mobilitazione popolare internazionale né le “bolle” di papa Bergoglio. L'accordo di Parigi è un muro di gomma eretto anche contro le osservazioni degli scienziati dell'Ipcc, nominati dagli stessi governi.
Se, da una parte, gli stati non possono più fare a meno di riconoscere che “le attività umane sono la causa principale del riscaldamento osservato” (5° Rapporto Ipcc), dall'altra parte la somma degli impegni (volontari e flessibili) di riduzione delle emissioni che i singoli governi hanno proposto e che la Cop 21 ha accettato come buoni supera di molto (due, tre volte) il limite massimo che gli scienziati ritengono compatibili con un aumento massimo della temperatura di 2 gradi a fine secolo.
Se non ho capito male le raccomandazioni degli istituti di ricerca sul clima, bisognerebbe ridurre le emissioni di origine antropica di CO2 di 8 Giga tonnellate entro il 2020 e di 11 Gt entro il 2030 per rimanere in un tetto di 1.010 Gt di CO2. In altre parole, mentre le stime dei centri di osservazione indicano la necessità di ridurre le emissioni di almeno l'80% entro il 2030, l'ineffabile Accordo di Parigi consente ai singoli stati di continuare ad emetterne quantità superiori. Nessun target quantitativo di riduzione ulteriore delle emissioni è stato fissato.
Il testo, quindi, si caratterizza come una mera petizione di principio e poco più di un auspicio affinché i singoli stati provvedano per conto loro, autonomamente e secondo il loro buon cuore, a fare di più di ciò che si sono impegnati a fare finora. Nel 2023 un gruppo “technical expert review” provvederà a verificare le promesse (pledge and review). Nel frattempo i presidenti e i capi di stato cambieranno e le stesse promesse verranno ripetute dai successori. E' già accaduto nel 1992 quando fu varata la Convenzione sul clima dell'Onu, nel 1997 quando fu firmato (anche da un presidente degli Stati Uniti) il Protocollo di Kyoto e negli interminabili summit successivi. Ha scitto Gunter Pauli, imprenditore ed economista belga, presidente della Novamont: “Stiamo assistendo alla stessa fanfara di 18 anni fa. Purtroppo a questo accordo globale mancano contenuti solidi e impegni inequivocabili” (Left, 19 dicembre 2015).

Basterebbero 4 cose
per essere fiduciosi
Cosa sarebbe stato necessario poter leggere nell'accordo di Parigi per essere più fiduciosi? Poche e semplicissime cose.
Primo, che venisse stabilita una tassa capace di colpire il tenore di carbonio contenuto nei prodotti di consumo da reimpiegare per rendere conveniente l'uso di energie rinnovabili ed evitare la delocalizzazione delle emissioni di carbonio.
Secondo, che venissero premiati i paesi che rinunciano allo sfruttamento dei loro giacimenti di combustibili fossili attraverso una carbon tax da imporre alle compagnie che estraggono combustibili fossili, così da creare una equa socializzazione delle risorse fossili di cui l'umanità non può ancora fare a meno. Ricordo che le imprese petrolifere hanno contabilizzato riserve e patrimonializzato giacimenti di petrolio e gas naturale per una quantità 10 volte superiore alla capacità della biosfera di assorbire e metabolizzare il carbonio che dovesse essere generato dalla loro combustione.
Terzo, che venissero favoriti i sistemi urbani di trasporto collettivi e l'edilizia con la migliore resa energetica.
Quarto, che fosse riconfigurato il sistema agroalimentare sui modelli dell'agricoltura contadina di prossimità, ridimensionando drasticamente la zootecnia intensiva (26 miliardi di animali allevati ogni anno per l'alimentazione umana) se è vero che le stime della Fao e della Oms attribuisco alla filiera delle carni di allevamento una quota del 20% delle emissioni totali di gas climalteranti. Quinto, ma decisivo, che venisse riconosciuto il diritto inalienabile dei popoli nativi di impedire lo sfruttamento da parte di terzi delle risorse naturali forestali, minerarie, marine.
Una (sola) nota positiva
L'unica nota davvero positiva che viene da Parigi è l'apertura di un portale che registra gli impegni extra-accordo che le città, le regioni, le imprese e gli altri operatori economici vorranno autonomamente e indipendentemente assumersi. Già 2.255 comuni di tutto il mondo hanno avviato piani energetici più ambiziosi. Ancora l'imprenditore illuminato Gunter Pauli: “Invece di governi alla ricerca di accordi globali con obiettivi vaghi, abbiamo bisogno dell'alleanza di tutti i sindaci e dei cittadini, per poter agire dove conta e dove le iniziative possono essere prese in pochi giorni”. Speriamo che sotto la spinta della cittadinanza attiva si possa fare di più e meglio.

Intervista a Naomi Klein. «Se permetteremo la crescita delle temperature, non dovremo fare i conti solo con un clima estremo, ma anche con un mondo più estremo». Il manifesto, 15 dicembre 2015


Abbiamo incontrato la giornalista e attivista canadese Naomi Klein a Parigi, all’indomani dell’approvazione dell’accordo intergovernativo, sottoscritto alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici Cop21.

Come valuti gli esiti di due settimane di negoziati.


«Credo che oggi siamo arrivati a un momento chiarificatore. Non siamo venuti qui a pregare i leader di salvare il mondo, perché abbiamo gli occhi ben aperti e sappiamo che ciò che hanno portato al tavolo dei negoziati non ci condurrà ad alcuna soluzione definitiva. C’è ancora un’enorme distanza tra quello che tutti dicono si dovrebbe fare per abbassare le emissioni e per mantenere le temperature al di sotto dell’incremento di un grado e mezzo, da una parte, e quello che sono effettivamente disposti a fare, e il modo in cui si intende procedere, dall’altra. Versione dopo versione, fino al testo finale dell’accordo, non vi è nulla di decisivo sui combustibili fossili, rispetto alla necessità di lasciare nel sottosuolo gran parte delle riserve esistenti di carbone, petrolio e gas naturale. Ma la gente che ha riempito le piazze, qui a Parigi, non si sta piangendo addosso, non è disperata. Siamo invece ben consapevoli che dobbiamo lavorare ancora più duramente. E dobbiamo essere noi a fare quello che i politici non vogliono fare.

Nonostante la situazione creatasi dopo le stragi del 13 novembre, decine di migliaia di persone, dalla Francia e dal Nord Europa, con significative presenze dal Sud del mondo e dal Nord America, hanno reso sabato evidente l’esistenza di un movimento planetario per la “giustizia climatica”, forse oggi l’unico movimento sociale di scala globale. Come può riuscire a essere davvero incisivo?


«Dobbiamo accrescere la nostra forza. E come si possa fare, per riuscire a condizionare le scelte delle multinazionali, l’abbiamo già visto: per le strade, nelle foreste, sui mari. Come gli attivisti in kayak che hanno circondato le piattaforme petrolifere della Shell, costringendola a cessare le trivellazioni in Artico e in Alaska, per non vedere la propria immagina rovinata. O nel caso dell’oleodotto Keystone XL, e di tutte le pipe-line legate all’industria estrattiva delle «sabbie bituminose», ogni singolo tratto ha dovuto fare i conti con le forti proteste di ogni singola comunità locale. A partire da queste esperienze, dobbiamo essere capaci di creare coalizioni sempre più ampie, di cambiare il modo con cui l’attivismo si presenta all’esterno, di esprimere la stessa varietà e diversità che si vede nelle nostre città e territori. Lo sapevamo anche prima, ma ora è più chiaro: non abbiamo dei leader che agiranno per l’ambiente, dobbiamo farlo noi in prima persona.

«La leadership deve venire dal basso, dalle comunità. Praticando azioni dirette. Azioni che devono diventare visibili, nei mercati finanziari e nei tribunali: disinvestire nelle aziende che estraggono combustibili fossili, farli apparire investimenti rischiosi, denunciare le bugie e la disonestà di corporation come la Exxon, portarle davanti ai giudici, dimostrando che conoscevano gli effetti del cambiamento climatico e che hanno mentito di proposito. Dobbiamo cambiare la dinamica, indebolendo il potere degli interessi che stiamo combattendo».

Parigi è stato lo scenario su cui si sono confrontate le scelte politiche dei governi nazionali, il ruolo giocato dalla grandi imprese impegnate, a suon di sponsorizzazioni (penso al ruolo di Total e dell’italiana Eni, contestate da una riuscita protesta all’interno del Louvre), a rifarsi un’immagine “verde”, e l’azione dei movimenti. Con quale bilancio?

«Le ultime due settimane ci hanno offerto proprio lo scontro con quelle «soluzioni», offerte dalle multinazionali, che non sono affatto soluzioni. E che non avranno alcun effetto reale sulle emissioni. Continueranno invece ad arricchire le élite esistenti, le stesse che commerciano sementi ogm, l’industria nucleare, petrolifera. E anche qui hanno usato Le Bourget come il loro megafono, mentre il governo francese ha cercato di imbavagliare chi proponeva soluzioni diverse, come chi si batte per la giustizia energetica, un’agricoltura ecologica e il trasporto pubblico, la proprietà e il controllo delle comunità sulle fonti di energia rinnovabili. Invece abbiamo sentito parlare Bill Gates e Richard Branson, mentre mettevano il bavaglio alle proteste.

«Non è servito a niente, perché le persone erano determinate a scendere in piazza comunque. Il governo francese ha capito che non poteva sostenere politicamente questa scelta. E che scontri con la polizia nell’ultimo giorno di Cop 21 sarebbero stati un disastro per la propria immagine. Per questo, qui a Parigi, hanno dovuto sospendere loro malgrado il divieto a manifestare. E, probabilmente, chiudere al traffico una strada piena di negozi in un sabato pomeriggio pre-natalizio ha fatto di più per la riduzione delle emissioni, di quanto non abbiano realizzato loro alla Conferenza».

Ci viene detto che siamo in uno «stato di guerra», stiamo forse entrando in un periodo di guerre per il clima?

Il cambiamento climatico ha già contributo a innescare la guerra civile in Siria, che aveva appena sperimentato la più terribile siccità della sua storia recente, con conseguente carestia che ha prodotto migrazioni interne, che hanno coinvolto quasi due milioni di persone. E quando c’è scarsità di risorse si creano inevitabilmente nuove tensioni, che sono andate a sommarsi ai conflitti già esistenti in quella regione, causati a loro volta storicamente dalla lotta per impadronirsi delle risorse energetiche. Si crea perciò un effetto a tenaglia: da un lato l’effetto destabilizzante della caccia ai combustibili fossili, dall’altro gli effetti destabilizzanti prodotti dall’utilizzo di quegli stessi combustibili.

«Quando parliamo di cambiamenti climatici, questi provocano non solo un clima più caldo o l’innalzamento del livello dei mari: provocano anche un’epoca più crudele.

«Una situazione di scarsità come questa non può che creare ulteriori conflitti. Ricordiamo perciò sempre che, se permetteremo la continua crescita delle temperature, non dovremo fare i conti solo con un clima estremo, ma anche con un mondo più estremo».

Si ringraziano per la collaborazione Niccolò Milanese di European Alternatives, Marica Di Pierri di A Sud e Barbara Del Mercato di «Venezia in comune»

La cronaca di Anna Maria Merlo e il commento di Giuseppe Onufrio. Finalmente qualcosa è cambiato. Prodotto di altri cambiamenti e spinte. Il manifesto, 13 dicembre 2015

COP21: C’È L’ACCORDO.
E’ STORICO?

di Anna Maria Merlo
Riscaldamento climatico. Suspense fino all'ultimo. Approvato un testo che fa dei passi avanti e ha vari difetti. Importante perché è un accordo multilaterale e le mentalità stanno cambiando. Adesso ci saranno le ratifiche degli stati. Un successo per la presidenza francese»

Suspense fino all’ultimo, poi un colpo di martello di Laurent Fabius e di Christiana Figueres dell’Onu alle 19,28, la Tour Eiffel scatenata con lampi di luce: l’accordo di Parigi della Cop21 è approvato. Una “svolta storica”, come afferma Fabius, presidente della Cop21, che parla di accordo “giusto, durevole, dinamico, equilibrato, giuridicamente vincolante”? Addirittura “un messaggio di vita”, come lo ha definito François Hollande dopo un riferimento alla “Francia straziata” dagli attentati? Un compromesso con delle pecche, come ha affermato Kumi Naidoo di Greenpeace, che vede “un accordo che mette le energie fossili nella parte sbagliata della storia”, ma “non risponde alla domanda: come arriveremo a realizzare gli obiettivi”? Un testo che non fornisce “nessuna garanzia di sostegno per i più colpiti dall’impatto del climate change”, come ha commentato Tasneem Essop del Wwf? Una delusione, come affermano molti militanti che hanno manifestato ieri a Parigi, che non fermerà il riscaldamento climatico che corre verso +3° al minimo? “Polvere negli occhi”, nel giudizio degli Amis de la Terre? Comunque, come afferma l’ambasciatore del clima Nicola Hulot, la mobilitazione è stata tale che “più nulla la fermerà”.

Dopo due settimane estenuanti, con varie notti bianche, un testo di accordo di 31 pagine e 29 articoli è stato presentato ieri mattina ai delegati, dal ministro Laurent Fabius, con la voce ad un certo punto rotta da un quasi-singhiozzo. La prova, in negativo, che il testo ha un certo peso è venuta ieri pomeriggio: la seduta plenaria per arrivare all’approvazione, che avviene per consenso, che doveva aver luogo alle 15,30 è stata rimandata di varie ore. Fino a sera, ancora chiarimenti su alcuni punti, soprattutto una perplessità Usa (su un “shall” legato ai “targets” dei paesi sviluppati all’art.4.4) per timore di dover passare di fronte al Congresso. L’iter prevede l’adozione da parte dei 195 paesi della Cop21 (più la Ue) durante il 2016. L’accordo sarà operativo quando verrà approvato da almeno 55 paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas a effetto serra, per entrare in vigore nel 2020, alla scadenza del Protocollo di Kyoto, ormai moribondo. “Siamo quasi alla fine della strada, senza alcun dubbio all’inizio di un’altra”, ha riassunto Fabius. “Bisogna finire il lavoro”, ha insistito ieri mattina il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. Le forti tensioni che hanno accompagnato il consenso mostrano un aspetto che non è scritto nero su bianco nel testo: non tutti usciranno vincenti dalla lotta al riscaldamento climatico, è tutto un modello economico che deve essere messo in causa.

«La Francia vi scongiura di accettare il primo accordo universale sul clima», ha chiesto François Hollande, che attende anche ricadute interne di un successo internazionale. La principale qualità dell’accordo è di essere “universale”, cioè un’intesa multilaterale, importante e in contro-tendenza in un periodo di guerre e di divisioni. La Francia ha difatti legato la lotta contro il disordine climatico alla pace. La principale qualità dell’accordo è “di aver svegliato le coscienze”, riassume un militante ecologista presente alla catena umana al Champs de Mars ieri pomeriggio. Tra le mancanze, l’assenza di riferimento ai diritti umani, all’uguaglianza di genere, ai diritti delle popolazioni indigene, alla sicurezza alimentare.

Il testo è un compromesso a 195 e ha tutte le qualità e tutti i difetti di un’operazione diplomatica. “L’accordo non sarà un successo per nessuno se ognuno lo legge alla luce dei propri interessi”, ha avvertito Hollande, facendo riferimento al fallimento di Copenaghen nel 2009. “Il progetto conferma il nostro obiettivo centrale, vitale, di contenere l’aumento della temperatura media ben al di sotto dei 2° e di sforzarsi di limitare l’aumento a 1,5°” ha riassunto Fabius. Nel testo non c’è nessuna cifra precisa sulla percentuale di gas a effetto serra che dovrà diminuire: solo un impegno all’”equilibrio” nella seconda metà del secolo. Sarà la responsabilità degli stati, in 185 hanno preso degli impegni presentando ognuno i propri Indc (Intended Nationally Determined Contributions). Il problema è che, sommando queste promesse, non verrà rispettato l’impegno dei 2° (tanto meno, quindi, di 1,5°), ma il riscaldamento climatico salirà di 3°, se non di più. Il testo è detto “giuridicamente vincolante”: ma non ci sono sanzioni per chi non rispetta gli impegni e l’Onu non ha gli strumenti per farli rispettare. Questo “vincolo” significa in sostanza che ogni paese decide per se stesso sugli sforzi di riduzione di gas a effetto serra. Un meccanismo che diventerà un po’ più impositivo con la “trasparenza” sulle azioni intraprese: ma alcuni paesi emergenti, Cina e India in testa, rifiutano di sottomettersi agli stessi controlli del Nord sul loro operato.

Nel testo finale si istituisce la “revisione” degli impegni, “ogni 5 anni” e “al rialzo”. Per il momento, la prima “revisione” è prevista per il 2025, con un “bilancio” nel 2023. Una cinquantina di paesi (dove c’è la Ue) si sono riuniti in una “grande coalizione” per chiedere un’anticipazione dei tempi della revisione. C’è un’attenzione per le foreste, mentre gli oceani sono assenti, che pure sono i principali ricettori di Co2.

Il testo accoglie la “differenziazione” delle responsabilità, cioè il Nord deve agire con maggiore forza del Sud del mondo. Ma l’accordo resta nel vago, non ci sono precisazioni con delle cifre al riferimento, comunque un passo avanti, alla “necessaria cooperazione su perdite e danni”, a favore dei paesi più colpiti e più poveri. “E’ un accordo dove gli interessi dei più poveri, in particolare l’adattamento (all’impatto del climate change) non è sufficientemente preso in conto – osserva Tim Gore di Oxfam – abbiamo la nozione di perdite e danni, ma non ci sono le compensazioni, non ci sono sufficienti garanzie che i finanziamenti per l’adattamento proseguiranno dopo il 2025, mentre sappiamo che i costi del climate change continueranno a crescere”. Stessa preoccupazione per Samantha Smith del Wwf: “non c’è garanzia di assistenza per i paesi più vulnerabili per adattarsi al climate change”. Non viene detto niente di preciso sui trasferimenti di tecnologia, che il Sud e in particolare il gruppo Like Minded Developing Countries (Cina, India, Argentina, Cuba, Egitto) aspetta, mentre il Nord frena. Nel corpo centrale dell’accordo non c’è il riferimento ai 100 miliardi di dollari l’anno, promessi dal Nord al Sud del mondo a Copenaghen. Questa cifra è relegata in Allegato (su richiesta Usa, cosi’ Obama evita di dover far votare il Congresso, che è dominato dai Repubblicani con una forte presenza di negazionisti del clima), ma definita un “minimo”.

I paesi petroliferi hanno tolto dal testo la parte sul prezzo del carbonio. Si tratta di una tassa, che viene decisa a livello nazionale o per gruppi di paesi. Secondo Bill McKibben, co-fondatore dell’ong 350​.org, “adesso tutti i governi sembrano riconoscere che l’era delle energie fossili deve finire in fretta. Ma la potenza dell’industria fossile trasuda dal testo. La transizione è talmente ritardata, che nel frattempo avranno luogo immensi guasti climatici, perché adesso la questione cruciale è il ritmo, i militanti devono raddoppiare gli sforzi per indebolire questa industria”. Ma in questo periodo il calo del prezzo del petrolio soddisfa i consumatori, che pagano meno la benzina. Una contraddizione tra le tante. Nel testo mancano cifre precise sulle energie rinnovabili. “Conosciamo la strada più breve per andare verso 1,5° di riscaldamento – spiega Jean-François Juillard, direttore di Greenpeace France – passa per la conversione alle energie rinnovabili. Se Parigi deve portare a un punto d’arrivo, l’accordo ci porta fuori dalla strada più corta. Altri protagonisti restano pero’ sulla buona strada”.

CE N'EST QU'UN DEBUT
E ALLORA NON È MALE
di Giovanni Onufrio


A Parigi è successo qualcosa di storico. Anche se il testo approvato dai 195 capi di stato non è quell’accordo vincolante e ambizioso che servirebbe a fermare i cambiamenti climatici al di sotto della soglia dei 2°C — e tantomeno al di sotto di 1,5°C -, comunque mette in moto un processo necessario, anche se non ancora sufficiente, a centrare l’obiettivo.La coalizione, presentata a sorpresa negli ultimi giorni, che riunisce Ue, Usa e Paesi africani, cui si è aggiunto poi il Brasile, porta a casa la citazione dell’obiettivo a 1,5°C (mai rientrato finora in nessun testo).
E porta inoltre a casa un riferimento all’obiettivo di raggiungere emissioni nette nulle nella seconda parte del secolo. Questo secondo obiettivo, vera questione su cui si sono scontrati i diversi interessi in campo, pur scritto in modo non privo di ambiguità (e del resto nessun trattato è del tutto privo di ambiguità) è rilevante.

Infatti, facendo riferimento all’analisi scientifica dell’Ipcc ha però un’implicazione logica: la necessità di eliminare le fonti fossili entro il 2050 e azzerare le altre emissioni entro il 2080, come analizzato dall’Ipcc e sottolineato dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite (Uned) di recente. In questo senso, come ha dichiarato Kumi Naidoo, direttore di Greenpeace International, l’accordo mette dalla parte sbagliata della storia i produttori di fonti fossili.

Sul versante dei contributi finanziari, i 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020 al 2025, che successivamente dovrebbe essere aumentato, non è adeguato alle necessità dei Paesi poveri che pagano e pagheranno i costi più alti dei cambiamenti climatici. Né i riferimenti ai popoli indigeni sono sufficienti, non essendovi un impegno preciso contro la deforestazione, aspetto cruciale per molti di quei popoli.

La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, principale esito della Conferenza di Rio del 1992, rimane nei fatti l’unico vero tavolo negoziale per tentare una governance globale oggi. Dunque ha a che fare anche con le prospettive di pace su scala globale a medio-lungo termine, e il processo che esce da Parigi può consentire di orientare le politiche pubbliche. Tutto ciò non basterebbe a dare speranza se non avessimo, allo stesso tempo, tecnologie e misure che possono dare una risposta sia ai cambiamenti climatici che a maggiore equità e accesso alle risorse energetiche. Su questo c’è oggi ampia consapevolezza, come testimonia un recente rapporto di Goldman Sachs che identifica quattro tecnologie che, in virtù della loro costante riduzione dei costi, possono cambiare le cose: il solare fotovoltaico, l’eolico a terra, i sistemi di illuminazione Led e i veicoli elettrici. Anche se mobilità sostenibile non significa assolutamente solo auto elettriche, queste ne fanno parte.

Nel motore di un’auto elettrica ci sono una dozzina di pezzi e non quasi duecento come in un motore a benzina o diesel. Il punto cruciale per entrare in modo consistente nel mercato sta nel costo e nell’autonomia delle batterie, e nell’esistenza di una rete di ricarica. I costi delle batterie stanno rapidamente scendendo e al contempo cresce la loro capacità, mentre la rete di ricarica è una infrastruttura da sviluppare ma ampiamente fattibile. Inoltre avere auto che si collegano alla rete per ricaricarsi sarà una componente che potrà interagire utilmente nelle nuove reti intelligenti. Questa evoluzione è tecnologicamente fattibile e vicina, con buona pace di Marchionne.
Un cambio di paradigma energetico è già in corso, pur se variamente ostacolato dagli interessi fossili ancora ben presenti nel mercato e nelle politiche, e l’accordo di Parigi dà un riferimento e consente di accelerare un processo e una direzione. Speriamo il governo Renzi si adegui finalmente, cessando di ostacolare le rinnovabili e promuovendo trivelle in ogni dove.

Come già scritto in queste pagine, di per sé quest’accordo da solo non basta e va considerato un punto di partenza: la partita vera per una grande trasformazione energetica e ambientale dell’economia inizia adesso. E non sarà comunque una partita facile.

L'autore è direttore di Greenpeace Italia

«Il grande convitato di pietra si chiama “mercato” con i suoi meccanismi e le sue mani invisibili. Anche nella bozza di accordo finale viene proposta la frase dove si evidenzia come le misure contro il cambiamento climatico non dovrebbero costituire un mezzo di limitazione del commercio internazionale». Comune.info news letter, 11 dicembre 2015

Si è aperta la seconda settimana di negoziato alla Cop21 di Parigi, la Conferenza delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico. L’Ad Hoc Working Group on the Durban Platform for Enhanced Action (Adp), nato a Durban con l’obiettivo di accompagnare il percorso verso Parigi sia per l’accordo post 2020, sia per gli impegni pre 2020. All’ultima sessione di Bonn nell’ottobre scorso, i due co-chair presentarono un “non paper”, una prima bozza, definita da Cina e G77 come inaccettabile. Sono diversi i punti cardine su cui, nei prossimi giorni, si focalizzerà lo scontro interno alla Cop soprattutto dopo la diffusione della bozza di accordo conclusa il 5 dicembre. Sul significato di “accordo vincolante” si giocherà buona parte delle interpretazioni del post Parigi.

La vera questione è che cosa verrà inserito nell’accordo, soprattutto come Annesso, per definire al meglio i termini della questione. Gli Stati Uniti, da una parte, convergono su un accordo legalmente vincolante che non leghi loro le mani per le proprie politiche di riduzione delle emissioni, ma sono contrari a qualsiasi tipo di impegno su tagli decisi e imposti internazionalmente visto il rischio di un veto del Congresso a maggioranza repubblicana. Per questo ritengono che gli impegni vadano comunicati al Segretariato dell’Unfccc, ma al di fuori della cornice dell’accordo che uscirà.

Una posizione alternativa rispetto a quella di diversi “paesi in via di sviluppo”, che al contrario vorrebbero un Annesso specifico sulla falsariga dell’Annex 1 del protocollo di Kyoto, dove gli impegni siano elencati e resi vincolanti. Semplificando, si potrebbe dire che lo scontro concettuale è tra “Accordo legalmente vincolante” e “Accordo con impegni legalmente vincolanti”. Quanto l’accordo rifletterà una reale volontà di impegno dipenderà da molti fattori, tra cui il reale significato di Responsabilità Comune e Differenziata (Cbdr) e di equità, da cui dipenderà l’effettivo ruolo dei Paesi industrializzati nelle politiche di adattamento (leggi risorse economiche stanziate o mobilizzate per far fronte alla catastrofe ambientale) e di mitigazione negli altri impegni necessari alla lotta al cambiamento climatico.

Mentre i paesi industrializzati tendono a ridimensionare gli Indcss, cioè gli impegni nazionali, al semplice taglio delle emissioni climalteranti, buona parte dei paesi del Sud del Mondo ampliano la lista degli impegni alla questione del finanziamento dell’adattamento, al loss and damage e al trasferimento tecnologico.

In tutto questo, il grande convitato di pietra si chiama “mercato” con i suoi meccanismi e le sue mani invisibili. Anche nella bozza di accordo finale viene proposta la frase già presente nel preambolo della Convenzione quadro, dove si evidenzia come le misure contro il cambiamento climatico non dovrebbero costituire un mezzo di limitazione del commercio internazionale (“Unilateral measures shall not constitute a means of arbitrary or unjustifiable discrimination or a disguised restriction on international trade“), come dire “cambiare tutto per non cambiare nulla”.

Non mettere mano ai meccanismi che permettono al sistema economico di consolidarsi significa non risolvere la questione del cambiamento climatico alla radice. La posizione del parlamento europeo di fine ottobre, che ha chiesto dispositivi per tutelare i risultati dell’accordo di Parigi dall’ingerenza dei mercati e soprattutto dall’invasività dell’Isds, l’arbitrato tra investitori e Stati previsto in trattati come il T-tip, è un sintomo del conflitto di modelli che sta dietro a questo evento. Che rischia, dal prossimo venerdì, di sdoganare definitivamente una goovernance globale dove ciò che è vincolante e sanzionatorio riguarderà commercio ed economia, lasciando nel fumoso mondo del volontariato e della discrezionalità la protezione dei diritti e la tutela dell’ambiente.

«Dilemmi. Ridurre l’inquinamento nei Paesi sviluppati non cambierà praticamente nulla. Il paradosso è che nei Paesi poveri si tutela l’ambiente aumentando l’utilizzo di fonti fossili: meglio bruciare il petrolio che intossicarsi in casa con la legna». Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)

La narrazione ha il sapore del déjà vu. Un rituale che si ripete ogni anno dal 1992. Parliamo della conferenza sul clima che si è aperta da poco a Parigi. Per molti è "l'ultima chance di salvare il Pianeta" (come a Copenhagen nel 2009). Dopo, ha detto il presidente francese François Hollande, «sarà troppo tardi». I numeri ci raccontano però una cosa diversa: stando ad una analisi del Mit, se gli impegni volontari presi dalla maggior parte dei Paesi che partecipano alla conferenza saranno rispettati - e i dubbi sono legittimi non essendo previsti meccanismi sanzionatori per le inadempienze - la riduzione della temperatura del Pianeta al termine di questo secolo sarà dell'ordine dei due decimi di grado. Ma i costi complessivi saranno dell'ordine di centinaia di miliardi di dollari all’anno.

L'aspettativa salvifica nei confronti del summit si aggiunge ai numerosi miti di cui si alimenta il dibattito sui cambiamenti climatici ma che non trovano riscontro negli stessi documenti dell'Ipcc, l'organismo delle Nazioni Unite che di questi cambiamenti si occupa. Al centro dei più recenti negoziati sul clima vi è l'obiettivo di contenere l'aumento di temperatura rispetto ai livelli pre-industriali entro i 2 °C (oggi siamo a circa + 0,9 °C). È questa una soglia da non oltrepassare per nessuna ragione? La scelta sembra essere arbitraria. Nel più recente rapporto dell’Ipcc, le evidenze disponibili sugli impatti dei cambiamenti climatici vengono sintetizzate in un grafico che evidenzia come fino ad un aumento di 2-2,5 °C gli effetti positivi del riscaldamento sono grosso modo equivalenti a quelli negativi.

La ricaduta complessiva di tale aumento di temperatura può essere paragonata a quella di un anno di recessione economica: lo stesso livello di benessere che, in assenza del riscaldamento, sarebbe raggiunto nel 2100, verrebbe raggiunto l'anno successivo. Nel lungo periodo, certo, le conseguenze negative avrebbero il sopravvento. Ma, se guardiamo al presente, il problema ambientale più rilevante è, ancora sulla base dei dati forniti dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, quello dell'inquinamento atmosferico all'interno delle abitazioni dei Paesi più poveri. Inquinamento dovuto non all'eccessivo uso, ma alla indisponibilità di fonti fossili, e al ricorso a combustibili "naturali" (legna ecc.). Il problema interessa quasi 3 miliardi di persone, causa 4,3 milioni morti premature per anno, soprattutto bambini (la concentrazione di polveri sottili nelle abitazioni dei Paesi poveri è di circa 1.000 microgrammi/metro cubo, venti volte superiore a quella che si registra nell'atmosfera di una città dell'Europa occidentale). Per costoro un maggior consumo di combustibili fossili avrebbe immediate ricadute positive.

Questo è il dilemma. La riduzione dei consumi dei "ricchi" non potrebbe modificare, se non in misura molto modesta, le emissioni previste per questo secolo. Il peso dell'Europa sul totale della CO2 emessa a livello mondiale è già diminuito dal 20% del 1990 al 10% attuale e si ridurrà al 7% nel 2030. Circa tre quarti delle emissioni nei prossimi decenni verranno da Paesi a basso reddito. Imporre ad essi drastici tagli significa ostacolare quel processo di miglioramento delle condizioni economiche che ha portato negli ultimi tre decenni a straordinari risultati in termini di riduzione della povertà, della mortalità infantile, di incremento della speranza di vita e della capacità di difendersi da eventi climatici estremi. Il benessere è più correlato al reddito che non al clima: Norvegia e Israele sono caratterizzati da climi diversi ma da analoghe condizioni di vita.

Le politiche attuate finora non hanno avuto né purtroppo avranno effetti apprezzabili sull'evoluzione del clima (solo l'1,5% dell'energia mondiale proviene da solare ed eolico). Come sottolinea l'Economist, sarebbe quindi auspicabile una drastica riduzione dei sussidi che i governi destinano a fonti alternative poco efficienti, carbone e prodotti petroliferi (sussidiati in molti Paesi). Una parte delle risorse così risparmiate potrebbe andare ad attività di ricerca nel settore energetico per sviluppare forme di produzione che siano a minor contenuto di carbonio, meno costose e altrettanto affidabili di quelle oggi garantite dalle fonti fossili.

Un prezzo che può valer la pena pagare per evitare un grave rischio che potrebbe emergere nei prossimi secoli. Una strategia ancora diversa è quella auspicata dal premio nobel Paul Krugman e da William Nordhaus, il primo economista ad occuparsi di cambiamenti climatici: concentrarsi sulla fonte principale di emissioni, il carbone, che tuttavia ha il vantaggio di avere ridotti costi di abbattimento delle emissioni. Gli interessi dei due maggiori produttori di carbone, Usa e Cina, rendono questa strada molto difficile. Una “carbon tax” proporzionata alle emissioni, altra strada raccomandata dalla maggior parte degli economisti perché poco manipolabile dagli interessi costituiti, avrebbe tra i suoi effetti positivi anche quello di orientare le tecnologie verso quelle che generano i costi più bassi per ogni tonnellata di inquinamento prodotta.

«Non esiste nessun approccio geoingegneristico già sperimentato e che funzioni con certezza. È per questo la maggior parte degli scienziati considera gli esperimenti geoingegneristici qualcosa di pericolosissimo, da evitare a tutti i costi». La Repubblica, 3 dicembre 2015 (m.p.r.)

I cambiamenti climatici globali sono una delle forze che condizioneranno maggiormente la vita di tutti gli esseri umani che vivranno nei prossimi decenni. Quasi tutti ne hanno sentito parlare, ma è una materia così complicata e ricca di paradossi che poche persone, al di fuori degli addetti ai lavori, la capiscono davvero. Cercherò di spiegarla nel modo più chiaro possibile, con l’aiuto di un diagramma di flusso della catena di causa/effetto, che può essere usato per seguire la mia spiegazione.
Il punto di partenza è la popolazione mondiale di esseri umani e l’impatto medio di ciascun essere umano (cioè la quantità media di risorse consumate e scarti prodotti per persona e per anno). Tutte queste quantità stanno aumentando, anno dopo anno, e di conseguenza sta aumentando l’impatto umano complessivo sul pianeta: l’impatto pro capite, moltiplicato per il numero di persone che ci sono al mondo, dà come risultato l’impatto complessivo.

Uno scarto importante è il biossido di carbonio o anidride carbonica (abbreviato in CO2), che provoca i cambiamenti climatici quando viene rilasciato nell’atmosfera, principalmente a causa del nostro consumo di combustibili fossili. Il secondo gas più importante all’origine dei cambiamenti climatici è il metano, che esiste in quantità molto più ridotte e al momento rappresenta un problema meno grave della CO2, ma che potrebbe diventare importante per effetto di un anello di retroazione positiva: il riscaldamento globale scioglie il permafrost, che rilascia metano, che provoca ancora più riscaldamento, che rilascia ancora più metano e così via.

L’effetto primario della CO2, quello di cui più si discute, è la sua azione di gas a effetto serra. Significa che la CO2 assorbe una parte delle radiazioni a infrarossi della Terra, facendo crescere la temperatura dell’atmosfera. Ma ci sono altri due effetti primari del rilascio di CO2 nell’atmosfera. Uno è che la CO2 che produciamo viene immagazzinata anche dagli oceani, non solo dall’atmosfera. L’acido carbonico che ne risulta fa aumentare l’acidità degli oceani, che già adesso è al livello più alto negli ultimi 15 milioni di anni. Questo processo scioglie lo scheletro dei coralli uccidendo le barriere coralline, che sono un vivaio di riproduzione per i pesci dell’oceano e proteggono le coste delle regioni tropicali e subtropicali da onde e tsunami. Attualmente, le barriere coralline del mondo si stanno riducendo dell’1-2 per cento ogni anno, il che significa che alla fine di questo secolo saranno in gran parte scomparse. L’altro effetto primario del rilascio di CO2 è che influenza direttamente (in modo positivo o negativo) la crescita delle piante.
L’effetto del rilascio di CO2 di cui più si discute, in ogni caso, è quello che ho citato per primo: il riscaldamento dell’atmosfera. È quello che chiamiamo «riscaldamento globale», ma l’effetto è talmente complesso che questa definizione è inadeguata: è preferibile «cambiamenti climatici globali». Innanzitutto, le catene di causa ed effetto fanno sì che il riscaldamento atmosferico finirà, paradossalmente, per rendere alcune aree di terre emerse (fra cui il Sudovest degli Stati Uniti) più fredde, anche se la maggior parte delle regioni (fra cui quasi tutto il resto degli Stati Uniti) diventerà più calda.
In secondo luogo, un’altra tendenza è l’incremento della variabilità del clima: tempeste e inondazioni sono in aumento, i picchi di caldo stanno diventando più caldi e i picchi di freddo più freddi; questo spinge quei politici scettici che non capiscono nulla dei cambiamenti climatici a pensare che tali fenomeni siano la prova che i cambiamenti climatici non esistono. In terzo luogo, c’è l’aspetto dello sfasamento temporale: gli oceani immagazzinano e rilasciano CO2 molto lentamente, tanto che se stanotte tutti gli esseri umani sulla Terra morissero o smettessero di bruciare combustibili fossili, l’atmosfera continuerebbe comunque a riscaldarsi ancora per molti decenni. Infine, c’è il rischio di effetti amplificatori non lineari di vasta portata, che potrebbero provocare un riscaldamento del pianeta molto più rapido delle attuali, prudenti proiezioni. Fra questi effetti amplificatori c’è lo scioglimento del permafrost e il possibile collasso delle calotte di ghiaccio dell’Antartide e della Groenlandia.
Venendo alle conseguenze della tendenza al riscaldamento medio del pianeta, ne citerò quattro. La più evidente per molte parti del mondo è la siccità. Per esempio nella mia città, Los Angeles, questo è l’anno più secco della storia da quando si sono cominciati a raccogliere i dati meteorologici, nel primo decennio dell’Ottocento. La siccità è un problema per l’agricoltura. Le siccità causate dai cambiamenti climatici globali sono distribuite in modo disuguale nel pianeta: le aree più colpite sono il Nordamerica, il Mediterraneo e il Medio Oriente, l’Africa, le terre agricole dell’Australia meridionale e l’Himalaya.
Una seconda conseguenza della tendenza al riscaldamento medio del pianeta è il calo della produzione alimentare, per la siccità e paradossalmente per l’aumento delle temperature sulla terraferma, che può favorire più la crescita delle erbe infestanti che la crescita di prodotti destinati al consumo alimentare. Il calo della produzione alimentare è un problema perché la popolazione umana e il tenore di vita del pianeta, e di conseguenza il consumo di cibo, stanno aumentando (del 50 per cento nei prossimi decenni secondo le previsioni): ma già adesso abbiamo un problema di cibo, con miliardi di persone denutrite.
Una terza conseguenza del riscaldamento del pianeta è che gli insetti portatori di malattie tropicali si stanno spostando nelle zone temperate. Fra i problemi sanitari conseguenza di questo fenomeno al momento possiamo citare la trasmissione della febbre dengue e la diffusione di malattie portate dalle zecche negli Stati Uniti, lo sbarco della febbre tropicale Chikungunya in Europa e la diffusione della malaria e dell’encefalite virale.
L’ultima conseguenza del riscaldamento medio globale che voglio citare è l’innalzamento del livello dei mari. Stime prudenti al riguardo prevedono che il livello dei mari salirà nel corso di questo secolo di circa un metro, ma in passato i mari sono saliti anche di dieci metri: la principale incertezza in questo momento riguarda il possibile collasso e scioglimento delle calotte di ghiaccio dell’Antartide e della Groenlandia. Ma anche un aumento medio di solo un metro, amplificato da tempeste e maree, sarebbe sufficiente a compromettere la vivibilità della Florida, dei Paesi Bassi, dei bassopiani del Bangladesh e di molti altri luoghi densamente popolati.
Gli amici a volte mi chiedono se i cambiamenti climatici stiano avendo qualche effetto positivo per le società umane. Sì, qualche effetto positivo c’è, per esempio la prospettiva di aprire rotte navali sgombre dai ghiacci nell’estremo Nord, per lo scioglimento dei ghiacci artici, e forse l’incremento della produzione di grano nella wheat belt del Canada meridionale e in qualche altra area. Ma la stragrande maggioranza degli effetti sono enormemente negativi per noi.
Ci sono rimedi tecnologici rapidi per questi problemi? Forse avrete sentito parlare di ipotesi di geoingegneria, per esempio iniettare particelle nell’atmosfera o estrarre CO2 dall’atmosfera per raffreddarla. Ma non esiste nessun approccio geoingegneristico già sperimentato e che funzioni con certezza; inoltre gli approcci proposti sono molto costosi e sicuramente richiederanno molto tempo e provocheranno effetti collaterali negativi imprevisti, tanto che dovremmo distruggere la Terra sperimentalmente dieci volte prima di poter sperare che la geoingegneria, all’undicesimo tentativo, produca esattamente gli effetti positivi desiderati. È per questo la maggior parte degli scienziati considera gli esperimenti geoingegneristici qualcosa di pericolosissimo, da evitare a tutti i costi.
Significa che il futuro della civiltà umana è segnato e che i nostri figli vivranno certamente in un mondo in cui non vale la pena di vivere? No, naturalmente no. I cambiamenti climatici sono provocati principalmente dalle attività umane, perciò tutto quello che dobbiamo fare per ridurli è ridurre queste attività. Vuol dire bruciare meno combustibili fossili e ricavare una fetta maggiore della nostra energia da fonti rinnovabili come il nucleare, il vento e il sole. Se anche solo Stati Uniti e Cina raggiungessero un accordo bilaterale sulle emissioni di CO2, coprirebbe il 41 per cento delle emissioni attuali. Se l’accordo diventasse pentalaterale, con l’adesione dell’Unione Europea, dell’India e del Giappone, coprirebbe il 60 per cento delle emissioni mondiali. L’ostacolo è solo uno: la mancanza di volontà politica.
Traduzione di Fabio Galimberti

«L’Africa ora al centro del vertice. Incontro con le leadership africane e i finanziatori. Dalla Banca Mondiale l’"Africa Business Plan": per risanare il Continente (distrutto dalle multinazionali)». Inizia una nuova fase del business neocolonialista? Il manifesto, 2 dicembre 2015, con postilla

Per la prima volta, l’Africa ha un posto centrale nei negoziati di una conferenza internazionale sul clima. Ieri, François Hollande ha presieduto una riunione alla Cop21 con la presenza di una ventina di capi di stato e di governo africani, che hanno incontrato dei potenziali finanziatori. Sul tavolo, dei progetti concreti: a cominciare dalla costruzione di una «grande muraglia verde» per lottare contro la desertificazione, investimenti sul lago Ciad, che dagli anni ’60 a oggi ha perso circa l’80% della sua superficie e per il fiume Niger, il terzo per importanza del continente, che dalla Sierra Leone alla Nigeria attraversa paesi (Guinea, Mali, Niger) in grandi difficoltà e in preda a conflitti. Questo progetto, in evoluzione, prevede ormai la creazione di «sacche» verdi, molto ravvicinate, con rimboscamento della zona, interventi sull’habitat e sulla produzione di energia. Un’Iniziativa africana per le energie rinnovabili completa il quadro discusso ieri.

È stata esplicitamente fatta una connessione tra effetti deleteri del disordine climatico – distruzione delle fonti economiche, pauperizzazione – e la crescita del terrorismo: il Sahel è una delle aree dove la Francia interviene militarmente in questo momento. In prospettiva, 16 miliardi di dollari dovrebbero venire mobilitati per queste iniziative, con fondi pubblici ma anche privati, solo un inizio visto che il piano dell’Unione africana per le energie rinnovabili prevede costi per 250 miliardi complessivi, tra i 12 e i 20 miliardi per un primo passo entro il 2020 (10 gigawatt supplementari dalle rinnovabili). L’Africa «è il continente che soffre di più del disordine climatico – ha affermato il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim – rispondere a questa sofferenza è una questione di giustizia e una condizione perché la Cop21 sbocchi su un accordo serio».

Hollande ha promesso di raddoppiare i finanziamenti francesi tra il 2016 e il 2020 per sviluppare le energie rinnovabili in Africa, portandoli a 5 miliardi di euro, con almeno un miliardo destinato all’adattamento al cambiamento climatico, il parente povero dell’impegno finanziario (solo il 16% dei fondi mondiali per il clima sono destinati a questo aspetto).

«Oggi sono fiero del mio continente – ha commentato ieri Kumi Naldoo, direttore esecutivo di Greenpeace International, di origine sudafricana – è spesso stato detto che le nazioni africane non hanno la stessa responsabilità storica per agire perché hanno fatto molto poco per causare il problema. Ma oggi si fanno avanti e dimostrano di avere una visione significativa. Gli africani sono sulla linea del fronte del cambiamento climatico. Il piano per sviluppare 300 gigawatt di energie rinnovabili di qui al 2030 è certamente ambizioso. La maggior parte deve venire dal solare e dall’eolico, non dalle grandi dighe. Solo così questa iniziativa avrà un basso impatto energetico per grandi quantità di esseri umani, che non hanno ancora accesso all’elettricità». Per Naldoo, «l’Africa deve diventare il continente dell’energia pulita». In Africa, i due terzi della popolazione – oggi 1,1 miliardi, 2 miliardi nel 2050 – non hanno accesso all’elettricità.

Oggi, il peso dell’Africa nella produzione di gas a effetto serra è inferiore al 4%. La Banca Mondiale ha in programma l’Africa Climate Business Plan, per pilotare nuovi finanziamenti. Al recente vertice Ue-Africa a La Valletta è stato approvato un Fondo d’emergenza per l’Africa di 1,8 miliardi di euro. Anche i paesi del G7 hanno fatto promesse nel giugno scorso.

Adesso bisognerà vedere se si passerà dalle parole ai fatti.

Come ha ricordato il ministro dell’ambiente del Senegal, Abdoulaye Bibi Baldé, «l’obiettivo mondiale dei 2 gradi corrisponde a un aumento reale delle temperature di 3–4 gradi nei paesi costieri dell’Africa, cosa che rischia di causare dei disastri sul piano ecologico. Per questo chiediamo una revisione a 1,5 gradi», richiesta che quasi sicuramente non verrà soddisfatta.

Sul fronte dei finanziamenti, c’è il progetto sostenuto da Bill Gates e altri miliardari (Zuckerberg di Facebook, Jack Ma di Alibaba, l’indiano Ratan Tata, Branson di Virgin, Jeff Bezos di Amazon ecc.) per una Breaktrough Energy Coalition (Coalizione per un’energia di rottura) per coinvolgere gli investimenti privati, far saltare quello che Gates chiama «il muro della morte» e arrivare rendere le energie rinnovabili accessibili a tutti.

Ieri, Obama si detto «ottimista», «riusciremo», sulla Cop21. Sono in corso le riunioni tematiche, tra i 7mila negoziatori presenti al Bourget, in rappresentanza di 196 paesi. Questa fase dovrebbe concludersi sabato 5 dicembre, con la presentazione di un testo – le 55 pagine dell’ultima redazione dell’accordo, ancora piene di parentesi quadre, cioè di punti controversi – al ministro Laurent Fabius. Poi ci sarà la «fase ministeriale» di analisi del testo proposto, fino al 9 dicembre.

Due giorni verranno dati agli stati per studiare nei dettagli le implicazioni giuridiche del testo, nella speranza che venerdi’ 11 dicembre venga firmato un accordo generale.

postilla
Invece di impegnarsi a esportare in Africa le energie rinnovabili servirebbe che: (1) smettessero di esportare i modelli nostrani del primo mondo: di vita, di consumo, di organizzazione degli insediamenti, follemente energivoro; (2) promuovessero le pratiche di impiego saggio e durevole delle risorse naturali proprio di numerose culture africane; (3) oltre, e forse prima, di rendere più largamente utilizzabile l'energia elettrica si preoccupassero di garantire l'accesso all'acqua potabile e lo smaltimento dei rifiuti.

COP21. Il devastante tentativo di operare sui problemi della nostra epoca immaginando che il capitalismo possieda la stessa utilità sociale di tre secoli fa e che il pianta Terra sia rimasto quello di allora. Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2015
Il “vertice blindato” sul cambiamento climatico a Parigi mostra, perfino dal punto di vista semiotico, la coazione a ripetere della nostra modernità capitalistica. Un modello di sviluppo immaginato durante la rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo, quando i beni comuni ecologici e sociali erano sovrabbondanti (foreste, acqua, fauna, flora, villaggi, clan, gilde) mentre il capitale era scarsissimo. Da allora i giuristi, insieme a filosofi e scienziati, hanno lavorato alacremente per concentrare il potere al fine di trasformare i beni comuni in capitale, ossia il valore d’uso in valore di scambio.

Concentrare il capitale era necessario per risolvere bisogni collettivi importanti, dal cibo al rifugio, dalla sanità ai trasporti. I giuristi occidentali, hanno svolto un lavoro prodigioso per creare le basi istituzionali dello sviluppo capitalistico: proprietà privata, sovranità pubblica, libertà contrattuale, responsabilità limitata ai casi di colpa, società per azioni, sono talune delle principali istituzioni che hanno conquistato il comune sentire.

Oggi le condizioni sono opposte. Il capitale concentrato è abbondantissimo (quello finanziario stimato in dieci volte il Pil del mondo) e i beni comuni, ecologici e sociali, sono tutti in crisi terminale, vittimizzati rispettivamente dall’inquinamento e dall’individualizzazione capitalistica. Il riscaldamento climatico e l‘impronta ecologica dimostrano che occorre invertire la rotta.

Sostenendo di volerlo fare, i titolari della sovranità pubblica, le cui azioni sono oggi più che mai determinate dai desideri delle grandi concentrazioni di capitale privato (corrporazioni transnazionali) si blindano in un vertice dal quale molti sperano ancora possa uscire una soluzione dall’alto, magari tradotta in diritto sotto forma di trattato internazionale fra Stati. Qui sta la coazione a ripetere. Il vertice costituisce infatti l’immagine della concentrazione del potere. La blindatura è l’essenza dell’esclusione. Oggi tuttavia la funzione del diritto dovrebbe essere quella di trasformare capitale in beni comuni, creando istituzioni fondate sulla diffusione del potere e sull’inclusione collettiva.

Per invertire la rotta servono principi opposti a quelli che hanno consentito al capitalismo di realizzarsi e naturalizzarsi come pensiero unico, producendo un’ideologia di estrazione e sfruttamento tecnologico che noi occidentali cerchiamo di imporre a tutto il mondo col nome di crescita e sviluppo. Dobbiamo prima di tutto capire che la nostra stessa idea del diritto come prodotto del potere politico concentrato imposto dall’alto in basso è parte del problema e non può dunque essere la soluzione.

Il diritto non va più visto come astrazione formale, come una griglia di regole del gioco tracciate dai potenti ai sensi delle quali misurare e classificare come legali o illegali i comportamenti del corpo sociale. Il diritto deve essere cultura della legittimità sostanziale, traduzione in comportamenti del corpo sociale di una certa visione del mondo, ecologicamente sostenibile, capace di diventare egemonica. È Il diritto stesso dunque a necessitare una risistemazione ecologica complessiva in cui le sue basi vengano ridiscusse alla luce di mutamenti drammatici che hanno prodotto bisogni sociali letteralmente opposti rispetto ai tempi della rivoluzione industriale.

Il diritto deve essere prodotto dal basso attraverso la diffusione del potere, l’accesso e l’inclusione di quanti, e sono molti al mondo, hanno già maturato una soggettività ecologica. Costoro sfidano a buon diritto la legalità distruttiva del capitalismo. I loro comportamenti sono tanto illegali quanto quelli di Rosa Parks che resisteva l’apartheid per darci un mondo più giusto.

«Si sente spesso dire, in Europa e negli Stati Uniti, che la Cina ora è il primo inquinatore a livello mondiale e che adesso tocca a Pechino e agli altri Paesi emergenti fare degli sforzi. Dicendo questo, però, ci si dimentica di parecchie cose». La Repubblica, 1 dicembre 2015 (m.p.r.)

Dopo gli attacchi terroristici, ci sono purtroppo seri rischi che i dirigenti francesi e occidentali abbiano la testa altrove e non facciano gli sforzi necessari perché la Conferenza sul clima di Parigi vada a buon fine. Sarebbe un esito drammatico per il pianeta. Innanzitutto perché è arrivato il momento che i paesi ricchi si facciano carico delle loro responsabilità storiche di fronte al riscaldamento climatico e ai danni che già adesso arreca ai paesi poveri. In secondo luogo perché le tensioni future su clima ed energia sono gravide di minacce per la pace mondiale.

A che punto è la discussione? Se ci atteniamo agli obbiettivi di riduzione delle emissioni presentati dagli Stati, i conti non tornano. Siamo avviati lungo una traiettoria che porta verso un riscaldamento superiore ai tre gradi e forse più, con conseguenze potenzialmente cataclismatiche, in particolare per l’Africa, l’Asia meridionale e il Sudest asiatico. Anche nell’ipotesi di un accordo ambizioso sulle misure di mitigazione delle emissioni, è già sicuro che l’innalzamento dei mari e l’aumento delle temperature provocherà danni considerevoli in molti di questi Paesi. Si calcola che sarebbe necessario mettere in campo un fondo mondiale da 150 miliardi di euro l’anno per finanziare gli investimenti minimi necessari per l’adattamento ai cambiamenti climatici (dighe, ridislocazione di abitazioni e attività ecc.).
Se i Paesi ricchi non riescono nemmeno a mettere insieme una somma del genere (appena lo 0,2 per cento del Pil mondiale), allora è illusorio pretendere di convincere i Paesi poveri ed emergenti a fare sforzi supplementari per ridurre le loro emissioni future. Al momento le somme promesse per l’adattamento sono inferiori a 10 miliardi.
Si sente spesso dire, in Europa e negli Stati Uniti, che la Cina ora è il primo inquinatore a livello mondiale e che adesso tocca a Pechino e agli altri Paesi emergenti fare degli sforzi. Dicendo questo, però, ci si dimentica di parecchie cose. Innanzitutto che il volume delle emissioni dev’essere rapportato alla popolazione di ogni Paese: la Cina ha quasi 1,4 miliardi di abitanti, poco meno del triplo dell’Europa (500 milioni) e oltre quattro volte di più del Nordamerica (350 milioni). In secondo luogo, il basso livello di emissioni dell’Europa si spiega in parte con il fatto che noi subappaltiamo massicciamente all’estero, in particolare in Cina, la produzione dei beni industriali ed elettronici inquinanti che amiamo consumare.
Se si tiene conto del contenuto in CO2 dei flussi di importazioni ed esportazioni tra le diverse regioni del mondo, le emissioni europee schizzano in su del 40 per cento (e quelle del Nordamerica del 13 per cento), mentre le emissioni cinesi scendono del 25 per cento. Ed è molto più sensato esaminare la ripartizione delle emissioni in funzione del paese di consumo finale che in funzione del paese di produzione.
Constatiamo in questo modo che i cinesi emettono attualmente l’equivalente di 6 tonnellate di anidride carbonica l’anno e per persona (più o meno in linea con la media mondiale), contro 13 tonnellate per gli europei e oltre 22 tonnellate per i nordamericani. In altre parole, il problema non è solamente che noi inquiniamo da molto più tempo del resto del mondo: il fatto è che continuiamo ad arrogarci un diritto individuale a inquinare due volte più alto della media mondiale.
Per andare oltre le contrapposizioni fra Paesi e tentare di far emergere delle soluzioni comuni, è essenziale sottolineare anche che all’interno di ciascun Paese esistono disuguaglianze immense nei consumi energetici, diretti e indiretti (attraverso i beni e i servizi consumati). A seconda delle dimensioni del serbatoio dell’auto, della grandezza della casa, della profondità del portafogli, a seconda della quantità di beni acquistati, del numero di viaggi aerei effettuati ecc., si osserva una grande diversità di situazioni.
Mettendo insieme dati sistematici riguardanti le emissioni dirette e indirette per Paese e la ripartizione dei consumi e dei redditi all’interno di ciascun Paese, ho analizzato, insieme a Lucas Chancel, l’evoluzione della ripartizione delle emissioni mondiali a livello individuale nel corso degli ultimi quindici anni. Le conclusioni a cui siamo arrivati sono chiare. Con l’ascesa dei paesi emergenti, ora ci sono grossi inquinatori su tutti i continenti ed è quindi legittimo che tutti i paesi contribuiscano a finanziare il fondo mondiale per l’adattamento. Ma i paesi ricchi continuano a rappresentare la stragrande maggioranza dei maggiori inquinatori e non possono chiedere alla Cina e agli altri paesi emergenti di farsi carico di una responsabilità superiore a quella che gli spetta.
Per andare sul concreto, i circa 7 miliardi di abitanti del pianeta emettono attualmente l’equivalente di 6 tonnellate di anidride carbonica per anno e per persona. La metà che inquina meno, 3,5 miliardi di persone, dislocate principalmente in Africa, Asia meridionale e Sudest asiatico (le zone più colpite dal riscaldamento climatico) emettono meno di 2 tonnellate per persona e sono responsabili di appena il 15 per cento delle emissioni complessive. All’altra estremità della scala, l’1 per cento che inquina di più, 70 milioni di individui, evidenzia emissioni medie nell’ordine di 100 tonnellate di CO2 pro capite: da soli, questi 70 milioni sono responsabili di circa il 15 per cento delle emissioni complessive, quanto i 3,5 miliardi di persone di cui sopra.
E dove vive questo 1 per cento di grandi inquinatori? Il 57 per cento di loro risiede in Nordamerica, il 16 per cento in Europa e solo poco più del 5 per cento in Cina (meno che in Russia e in Medio Oriente, con circa il 6 per cento a testa). Ci sembra che questi dati possano fornire un criterio sufficiente per ripartire gli oneri finanziari del fondo mondiale di adattamento da 150 miliardi di dollari l’anno. L’America settentrionale dovrebbe versare 85 miliardi (lo 0,5 per cento del suo Pil) e l’Europa 24 miliardi (lo 0,2 per cento del suo Pil).
Queste conclusioni probabilmente saranno sgradite a Donald Trump e ad altri. Quel che è certo è che è arrivato il momento di riflettere su criteri di ripartizione basati sul concetto di un’imposta progressiva sulle emissioni: non si possono chiedere gli stessi sforzi a chi emette 2 tonnellate di anidride carbonica l’anno e a chi ne emette 100. Qualcuno obbietterà che criteri di ripartizione del genere non saranno mai accettati dai Paesi ricchi, in particolare dagli Stati Uniti. E infatti le soluzioni che saranno adottate a Parigi e negli anni a venire probabilmente saranno molto meno ambiziose e trasparenti. Ma bisognerà trovare delle soluzioni: non si riuscirà a fare nulla se i Paesi ricchi non metteranno mano al portafogli.
L'articolo è stato pubblicato da Le Monde. Traduzione di Fabio Galimberti

Secondo un nuovo rapporto dell'Agenzia europea dell'ambiente (Aea), nel nostro paese, nel 2012, sono morte prematuramente 84.400 persone a causa dell'aria inquinata (in Europa 491 mila). La pianura padana ancora una volta si conferma come il territorio più esposto ai veleni delle automobili e degli impianti di riscaldamento». Il manifesto, 1 dicembre2015

Siccome sappiamo che dobbiamo morire ma non quando dobbiamo morire, questi dati continuano a non spaventarci: secondo un rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea), nel 2012 l’Italia ha segnato il record europeo di morti premature causate dall’inquinamento dell’aria. Sono 84.400 persone morte in un anno su un totale di 491 mila in Europa. Nel mondo sarebbero 7 milioni le persone morte per l’aria inquinata (fonte Oms). Della strage si sapeva da tre anni (i dati non sono proprio freschi) eppure non si è registrata alcuna ondata di panico nell’opinione pubblica, né una sincera presa di coscienza da parte di organismi politici internazionali, stati più o meno sovrani e pubblici amministratori.

Le emissioni mortali sono note. Le micro polveri sottili (Pm 2.5), il biossido di azoto (NO2) e l’ozono che si forma nell’atmosfera (O3) sono responsabili rispettivamente di 59.500, 21.600 e 3.300 morti all’anno in Italia. Le micro polveri sottili, prodotte dalle automobili e dagli impianti di riscaldamento, nell’Ue provocano 403.000 vittime all’anno: nel 2013, secondo l’Oms, l’87% della popolazione urbana europea ha respirato concentrazioni di Pm 2.5 superiori ai limiti consentiti.

L’epicentro dell’ecatombe è come sempre il territorio della pianura padana per la sua conformazione orografica, con le aree intorno a Torino, Milano, Monza e Brescia che superano il generoso limite della Ue che fissa la soglia a una concentrazione media annua di 25 microgrammi per metro cubo d’aria (Venezia lo sfiora appena). In realtà i gas mortiferi uccidono ben al di là della pianura padana se è vero che l’Oms raccomanda una soglia massima di emissioni di 10 microgrammi e che presto queste soglie di allarme dovrebbero essere riviste al ribasso: Roma, Firenze, Napoli, Bologna e Cagliari sono abbondantemente oltre.

“Nonostante i continui miglioramenti registrati negli ultimi decenni — ha dichiarato il direttore esecutivo dell’Aea Bruyninckx — l’inquinamento atmosferico interessa ancora la salute generale degli europei poiché riduce la loro qualità della vita e l’attesa di vita. Ha anche effetti economici considerevoli, aumentando le spese mediche e riducendo la produttività per i giorni di lavoro persi”. Gli inquinanti atmosferici possono causare o aggravare diverse patologie cardiovascolari e polmonari (infarti e aritmie).

Queste sono giornate parigine di grandi appelli alla responsabilità per salvare il pianeta e i suoi abitanti, ma è improbabile che il rapporto dell’Aea costringa la Ue ad imporre limiti più rigidi sulle emissioni dei veicoli inquinanti se è vero che ultimamente proprio l’Europa ha proposto di rivedere al rialzo lo sforamento fino al 210% nelle emissioni di ossidi di azoto nei test delle auto Euro 6 (solo l’Olanda ha rifiutato la proposta).

Eppure ormai esiste una vasta letteratura scientifica sugli effetti nocivi e sui costi dell’inquinamento atmosferico che si spingono ben oltre il dato sulle morti premature per malattie polmonari e cardiache. Secondo uno studio condotto dall’università del Montana e reso pubblico la scorsa primavera da una rivista di psichiatria americana durante la conferenza di Haifa, polveri sottili e idrocarburi entrando nel circolo sanguigno potrebbero “inquinare” alcune funzioni del cervello e contribuire a generare depressione e psicosi. Tra gli altri effetti accertati di alcuni composti chimici provocati dagli idrocarburi ci sarebbe anche la capacità di influire sul sistema endocrino dei feti e dei neonati aumentando il rischio di contrarre alcune malattie nel corso della vita adulta.

Ma piangere i morti quando escono le statistiche non serve a nulla se l’Europa continua ad agevolare la lobby dell’industria automobilistica senza investire sulla mobilità leggera. Bruno Valentini, sindaco di Siena e delegato Anci all’Ambiente, ieri ha chiesto una conferenza nazionale sulla salute nelle città. “E’ sempre più urgente dotarsi in Italia di una legge sulle città. Se avessimo responsabilità chiare e le risorse potremmo lavorare per avere città con aria pulita, soprattutto con piani di gestione del traffico e politiche della mobilità capaci di cambiare questi trend. Chiederemo a tutte le istituzioni interessate risposte concrete rispetto alle procedure di infrazione comunitaria cui è già esposto il nostro paese”.

«La triangolazione Obama-Xi-Modi riassume i problemi reali, offre uno spaccato del mondo com’è davvero». La Repubblica, 30 novembre 2015 (m.p.r.)

Occhio a quei tre. Oggi il primo giorno del vertice sul clima si gioca tra Stati Uniti, Cina, India. Due vertici bilaterali, tra Barack Obama e Xi Jinping, poi tra Obama e Narendra Modi, racchiudono il nucleo della sfida. Sono il nuovo club dei Grandi Inquinatori del pianeta. Quel che si diranno è essenziale. Il summit ha rinunciato in anticipo alla strategia – perdente – di Kyoto e Copenaghen, quella che inseguiva impegni vincolanti giuridicamente, tetti alle emissioni di CO2 imposti dalla comunità internazionale ai singoli paesi. Quell’opzione si è dimostrata irraggiungibile. Proprio per questo diventa essenziale la volontà politica, l’approccio strategico che le singole superpotenze decidono di adottare.

Obama-Xi-Modi: il futuro della specie umana, dell’abitabilità del pianeta per noi, è nelle loro mani. La Cina è la prima generatrice di emissioni carboniche; superò gli Stati Uniti nella grande recessione occidentale nel 2008. L’India rincorre la Cina, quest’anno la supera in velocità di crescita del Pil, i consumi energetici ne sono il riflesso. L’India è già numero tre se l’Unione europea non si considera come un’entità singola. Gli americani restano però i massimi inquinatori su base individuale.
L’americano medio produce il triplo di gas carbonici di un cinese e il decuplo di un indiano. L’anacronismo è evidente. L’insostenibilità politica anche. La sfida riguarda il pianeta, il genere umano, gli oceani e i ghiacciai, l’atmosfera e le temperature; cose che non conoscono confini nazionali. Ma continuiamo a misurare le emissioni di CO2 su base nazionale. Nascono da qui i paragoni inaccettabili: 315 milioni di americani si confrontano con 2,5 miliardi tra cinesi e indiani.
In queste misurazioni l’Europa finisce ai margini. Il Vecchio continente produce “solo” il 9% di tutte le emissioni di CO2. Può nascerne un senso di impotenza: per quanto facciano gli europei, pesano poco.
Ma anche qui le illusioni ottiche distorcono la percezione. Quel 9% di emissioni carboniche è il frutto della “decrescita” europea, così come il sorpasso Cina-Usa avvenne quando l’economia americana si fermò. Se l’Europa dovesse ritrovare lo sviluppo – cosa che si augurano i suoi giovani disoccupati – anche le sue emissioni torneranno a salire. L’altra illusione ottica viene dalla deindustrializzazione. L’Europa ha smesso di ospitare molte produzioni manifatturiere ad alta intensità di consumo energetico. Ma ogni volta che un consumatore europeo compra un prodotto “made in China” (o in Corea, Bangladesh, Vietnam) contribuisce alle emissioni carboniche che l’Occidente ricco ha delegato alle economie emergenti.
La triangolazione Obama-Xi-Modi riassume i problemi reali, offre uno spaccato del mondo com’è davvero. Il premier indiano Modi può irritare con il suo nazionalismo rivendicativo, che ne ha fatto il leader del Sud del pianeta. Può disturbare un atteggiamento che trasforma la sfida ambientale in una partita contabile: dimmi quanto mi paghi, e ti dirò quanto sono disposto a fare. È il nodo dei trasferimenti Nord-Sud, i 100 miliardi di dollari promessi alle nazioni emergenti per finanziare la loro riconversione a uno sviluppo sostenibile; fondi insufficienti; e comunque stanziati solo in piccola parte. Questa partita Nord-Sud è circondata di sospetti reciproci. Quanta parte di quei fondi serviranno a esportare tecnologie “made in Usa”, “made in China” o “made in Germany”? Quanta parte finirà assorbita dalla corruzione di classi dirigenti predatrici?
C’è però dietro il dibattito Nord-Sud una realtà innegabile. Basta ricordare un esercizio che i lettori di
Repubblica conoscono, perché più volte è stato fatto su queste colonne: le fotografie del pianeta scattate dai satelliti di notte. L’intensità delle luci artificiali riflette la distribuzione della ricchezza. Chi sta meglio illumina meglio. Vaste zone della terra sono sprofondate in un’oscurità quasi totale: gran parte dell’Africa, ed anche una porzione consistente del subcontinente indiano. Quelle immagini vanno affiancate al discorso rivendicativo di Modi. È un diritto umano basilare, avere una lampadina accesa la sera in casa per fare i compiti e ripassare la lezione. Il problema è quando la lampadina in casa serve per una nazione con 1,2 miliardi di abitanti. L’energia meno costosa per loro è il carbone. La peggiore di tutte.
La Cina è già un passo più in avanti. La lampadina ce l’hanno quasi tutti, anche il frigo, la lavatrice e l’auto. Il prezzo da pagare è un’aria così irrespirabile, che ormai l’élite cinese compra seconde case in California non solo come status symbol ma come una polizza assicurativa sulla propria salute. Perciò Xi ha deciso che la riconversione dell’economia cinese è una priorità, non una concessione all’Occidente. Lui può operare queste svolte senza i vincoli del consenso che ha Obama. In nessun altro paese al mondo è attiva una furiosa campagna negazionista sul cambiamento climatico, come quella condotta dal partito repubblicano. I suoi finanziatori della lobby fossile non arretrano davanti a nulla.
La multinazionale petrolifera Exxon falsificò per decenni le conclusioni dei suoi stessi scienziati, che coincidevano con quelle della comunità scientifica mondiale. Esiste un altro capitalismo americano, guidato da Bill Gates, che mette in campo vaste risorse per finanziare l’innovazione sostenibile. È un passaggio importante: uno dei problemi delle energie rinnovabili è che le sovvenzioni pubbliche, pur sacrosante, stanno rallentando il ritmo del progresso tecnologico necessario per renderle più competitive, e risolvere problemi come l’immagazzinamento dell’energia pulita.
L’Onu definisce l’appuntamento di oggi a Parigi come «la nostra ultima speranza». Di certo è l’occasione per i leader mondiali di dimostrare che la sfida ci riguarda tutti, e chi pensa di lasciare ad altri le scelte difficili non fa un investimento lungimirante neppure nell’ottica del suo interesse nazionale.
Per Vandana Shiva, intervistata da Giuliano Battiston, «il modello energetico basato sui combustibili fossili è un modello che ha generato dipendenza, fame, povertà, dissipato energia e creato le culture della paura e dell'insicurezza, insieme al caos climatico». Il manifesto - supplemento clima, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

Per Vandana Shiva, l'ecologista indiana simbolo della battaglia contro la mercificazione dei beni comuni, fondatrice dell'associazione Navdanya International per la salvaguardia delle sementi, le conseguenze del caos climatico sono il frutto di un modello economico basato sullo sfruttamento e su una logica estrattiva e una delle maggiori sfide del ventunesimo secolo. Ma rappresentano anche l'occasione per archiviare il vecchio paradigma energivoro e meccanicista della civiltà industrializzata in favore di «un nuovo patto con la Terra basato sulla reciprocità».

L'abbiamo intervistata alla vigilia della conferenza Cop 21 di Parigi, dove gli esponenti della rete Navdanya pianteranno un Giardino della speranza «per una nuova cittadinanza Planetaria per un'unica Umanità, con il Pianeta come nostra casa comune, simbolo del patto che stipuliamo con la Terra per proteggerla».
In genere si tende a usare il termine «cambiamento climatico», che suona piuttosto neutrale, mentre lei preferisce «caos climatico» e «catastrofe climatica». Perché?
Con cambiamento climatico generalmente viene indicato l'aumento delle temperature medie e il relativo aumento delle emissioni di gas a effetto serra. Io credo invece che il cambiamento climatico non abbia a che fare soltanto con l'aumento della temperatura. Riguarda anche i picchi estremi climatici, l'incertezza climatica. Considero il termine caos climatico più appropriato perché, sulla base di ciò che sta accadendo e che accade in particolare a comunità e in luoghi specifichi, si tratta di processi che conducono alla catastrofe. Inoltre, cambiamento implica che si possa prevedere ciò che accadrà. Caos rimanda invece a una totale imprevedibilità.
Di recente ha scritto che il caos climatico «è diventato una questione di vita e di morte». Quali sono gli impatti del caos climatico sulle comunità locali, e quali comunità o categorie sociali ne pagano di più o ne pagheranno le conseguenze in futuro?
Il modello energetico riduzionista basato sui combustibili fossili, inaugurato due secoli fa nei Paesi industriali e poi diffuso in Paesi come l'India attraverso la globalizzazione, è un modello che ha generato dipendenza, fame, povertà, dissipato energia e creato le culture della paura e dell'insicurezza, insieme al caos climatico. Le comunità più vulnerabili sono quelle che vivono nelle montagne, nelle aree costiere, nelle zone aride. Particolarmente vulnerabili sono le donne e i contadini. Le faccio qualche esempio. Nel 1999, nello stato indiano dell'Orissa si è registrato un super-ciclone con una velocità doppia rispetto al normale. Ha ucciso 30.000 persone. Nel 2007, nel Ladakh, in una zona desertica molto alta, si sono registrate alluvioni. Nel 2010, di nuovo, si sono verificate altre alluvioni e 200 persone sono state spazzate via. Oggi è lo Yemen a subire le alluvioni. Ma nel deserto non dovrebbero avvenire alluvioni. Per questo dico caos climatico. In India, i monsoni durano 4 mesi. Nel 2013, nei primi due giorni della stagione monsonica si è registrata una quantità di pioggia del 350% maggiore rispetto alla media. Le alluvioni nel bacino del Gange, nella mia regione del Garwal Himalaya, hanno spazzato via 20.000 persone. Una vera e propria catastrofe climatica. Non è finita qui. I raccolti invernali ormai si fanno ad aprile. Quest'anno, i tradizionali festival del raccolto non si sono tenuti, a causa delle piogge e delle grandinate fuori stagione. Per la prima volta nella mia vita ho assistito ai suicidi perfino tra i contadini benestanti del bacino fertile e produttivo del Gange, dove finora i raccolti erano sempre stati buoni.
Ci spiega meglio cosa intende quando sostiene che il caos climatico «è un sintomo dei sistemi di violenza e irresponsabilità che si appropriano dei benefici, privatizzandoli, ed esternalizzano i costi sociali ed ecologici»?
Il caos climatico è un sintomo di un problema più profondo: il problema di un sistema economico fondato sulla violenza contro la terra e sulla violenza contra la gente. È un sistema che dichiara la Terra materia inerte, da sfruttare brutalmente, senza limiti. È un sistema inaugurato nel 1493 con la bolla papale Inter caetera (la bolla con cui papa Alessandro VI regolò la contesa sui territori del "Nuovo Mondo" tra il regno del Portogallo e quello di Castiglia, ndr), un sistema che si è sviluppato poi con gli accaparramenti di terra nei periodi coloniali e che è continuato con l'industrialismo, basato sulla schiavitù. È un sistema che consente a pochi di appropriarsi e di privatizzare i regali della natura e il benessere prodotto dalla gente. Un sistema che esternalizza i costi sociali ed ecologici. Perché inquinare l'atmosfera con i gas a effetto serra equivale a un'appropriazione dei beni comuni atmosferici. Promuovere il commercio delle emissioni è un'altra forma di privatizzazione. Tentare di possedere e di commercializzare le funzioni ecologiche della natura è un'appropriazione dei processi rigenerativi della vita.
Sin dai tempi in cui scrisse The Violence of the Green Revolution, lei tende a sottolineare il legame tra i conflitti e le conseguenze ecologiche del modello economico predatorio nel quale viviamo. Dovremmo aspettarci ulteriori, nuovi conflitti legati al caos climatico, se non lo affrontiamo in fretta e adeguatamente?
Il cambiamento climatico inizia dai cambiamenti nella terra – dal modo in cui usiamo il suolo, dalla questione di chi possiede e controlla la terra. La degradazione del suolo e il land grabbing sono già ora delle fonti di conflitto. Allo stesso modo, un utilizzo non sostenibile della terra contribuisce alle emissioni di gas a effetto serra, le quali a loro volta conducono al cambiamento climatico. E il cambiamento climatico destabilizza le comunità, crea scarsità e conflitti. Per cui sì, certo, possiamo aspettarci di vedere altri conflitti, se non affrontiamo il problema alle radici.
Ritiene che oggi la giustizia climatica debba diventare una componente essenziale nella rivendicazioni per la giustizia sociale globale? È ora che le forze progressiste vi si concentrino con più convinzione?
Dal momento che il cambiamento climatico è il risultato di un modello economico basato sullo sfruttamento e su una logica estrattiva – i cui effetti più deleteri ricadono sulle spalle di coloro che meno vi contribuiscono – le questioni climatiche sono una componente essenziale del movimento per la giustizia sociale ed ecologica globale. La giustizia sociale e quella ecologica sono due facce della stessa medaglia.
Di recente, ha scritto che «la maggior parte delle discussioni e dei negoziati sul come affrontare e mitigare il cambiamento climatico nell'ambito della COP 21 si è limitata al paradigma commerciale ed energivoro proprio di una visione del mondo riduzionista e meccanicista e di una cultura consumistica». Le soluzioni emerse finora rischiano di ribadire il paradigma che ha originato i problemi attuali?
È evidente che le discussioni e i negoziati siano limitati al paradigma riduzionista, meccanicista e alla cultura consumistica. Veniamo definiti come consumatori di energia. Non veniamo visti come generatori di energia creativa attraverso un lavoro creativo degno di rilevanza. Ciò che non viene messo in discussione è proprio il nostro consumismo, e neppure il fatto che, se stabiliamo un'equivalenza tra un alto consumo di energia e lo «sviluppo», ciò significa che i privilegiati si accaparrano, per il proprio consumo, le risorse dei poveri. Intendo dire che le questioni della giustizia climatica in queste discussioni vengono sistematicamente eluse. La maggior parte delle soluzioni statali o private al cambiamento climatico si concentrano su strumenti «più puliti», su mezzi e tecnologie più efficienti.
Le sembra una tendenza legittima o ritiene invece che dovremmo considerare non solo gli «strumenti», ma anche e soprattutto gli scopi dei nostri sistemi economici e sociali, ripensando lo stesso significato di concetti come produttività e progresso?
Sotto questo aspetto, ritengo che le crisi climatiche rappresentino un sintomo dell'elevazione degli strumenti a nuova religione: la religione della tecnologia. Invece di una valutazione intelligente, responsabile ed etica sul come certi particolari strumenti di trasformazione delle sementi e del nostro cibo, del nostro suolo e della nostra acqua influiscano sulla struttura della vita, sulle altre specie, sui contadini e sul benessere umano, gli strumenti vengono innalzati al di sopra di ogni giudizio, oltre il «dharma», oltre il giusto o sbagliato, al di là della domanda fondamentale sul dove debba orientarsi la vita umana, sugli scopi dei sistemi che costruiamo, ai quali i nostri strumenti dovrebbero adeguarsi. Non viceversa. Il cambiamento climatico non è dunque una semplice questione di tecnologia. È una questione di Right Livelihood, di un corretto sostentamento in opposizione al dominio dell'avidità, del potere, del controllo, della hubris umana. Riguarda il nostro dovere di prenderci cura della Terra e dell'intera famiglia terrestre, inclusi gli essere umani, in opposizione alla mancanza di cura e alla violenza esercitata nelle relazioni con le altre specie e all'interno della comunità umana.
Lei è convinta che l'agricoltura industriale globalizzata stia contribuendo in modo diretto al cambiamento climatico. Come? E in che modo l'agroecologia e l'agricoltura rigenerativa possono contribuire alla resilienza climatica?
L'agricoltura industriale globalizzata contribuisce al cambiamento climatico perché si basa sui combustibili fossili, che oltre alle emissioni di Co2 producono le emissioni provenienti dai fertilizzanti azotati. Come ho scritto nel mio libro del 2007 Soil not Oil (Ritorno alla Terra, Fazi 2009), le emissioni causate dall'agricoltura industriale e dal sistema alimentare globalizzato rappresentano il 40% delle emissioni totali. Oggi considero quella stima al ribasso. La falsa retorica dominante suggerisce che l'agricoltura industriale usi meno terra per produrre maggiore quantità cibo, e che in questo modo riesca ad affrontare il problema della fame. La realtà ci dice invece che la produzione mercificata per il sistema industrializzato globale sta conducendo alle invasioni delle foreste e delle praterie, e che il cambiamento d'uso della terra contribuisce per il 18% a tutte le emissioni di gas a effetto serra. Il metano usato nelle aziende agricole contribuisce dall'11 al 15%, i trasporti per il 6%, i processi di lavorazione, confezionamento e refrigerazione per circa il 14% e lo spreco di cibo per il 4%. L'agroecologia e l'agricoltura rigenerativa contribuiscono alla resilienza climatica sbarazzandosi degli input chimici e integrando allevamenti e coltivazioni. Attraverso l'intensificazione della biodiversità e dell'intensificazione ecologica – anziché dei combustibili fossili e dell'intensificazione chimica – l'agroecologia e l'agricoltura rigenerativa riparano il carbone e l'azoto «danneggiati». Espellono il Co2 in eccesso dall'aria, dove non dovrebbe stare, e lo ricollocano nel suolo, a cui appartiene. In un decennio, una transizione generalizzata all'agricoltura ecologica e ai sistemi alimentari locali sarebbe in grado di rimuovere tutte le scorte in eccesso di Co2 presenti nell'atmosfera.
Sembra che per lei affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici non sia soltanto una delle maggiori sfide del ventunesimo secolo, ma anche un'occasione per archiviare il vecchio paradigma della civiltà industrializzata, in favore di quel «nuovo patto con la Terra basato sulla reciprocità» di cui l'organizzazione da lei fondata, Navdanya International, parla nel «Manifesto Terra Viva»....
Le profonde crisi che affrontiamo come specie rappresentano anche un'opportunità per compiere un cambiamento di visione e di paradigma. Da padroni e conquistatori della terra a co-creatori e co-produttori, insieme alla Terra. Dobbiamo smettere di pensare a noi stessi come parti dipendenti all'interno di una macchina globale delle corporation, o come consumatori del loro cibo spazzatura, del loro abbigliamento spazzatura, della loro plastica spazzatura. Come dice il nostro Manifesto Terra Viva, abbiamo la possibilità di creare economie che guardino al futuro, nuove democrazie, e tramite esse una nuova Democrazia della Terra. Per queste ragioni, a Parigi pianteremo un Giardino della speranza per una nuova cittadinanza Planetaria per un'unica Umanità, con il Pianeta come nostra casa comune, oltre che come simbolo del patto che stipuliamo con la Terra per proteggerla. Facendolo, ci proteggiamo l'un l'altro.

«Il fondatore della rete Slow Food, intervistato da Rachele Gonnelli, lancia l’appello online: "Non Mangiamoci il Clima". È grave - per Carlo Petrini - che il paradigma del summit sia legato al business. L’unico che parla di biodiversità è il papa». Il manifesto, 29 novembre 2015

«Non si comincia mica bene». Il vertice dell’Onu sul clima a Parigi non è ancora cominciato e Carlin Petrini, fondatore di Slow Food e eco-gastronomo di fama internazionale, è preoccupato.

Perché non si comincia bene?

«Nelle 54 pagine del testo che apre i lavori non c’è la parola “agricoltura”, neanche una volta, non si cita mai il problema della biodiversità. È una carenza grave perché si tagliano fuori miliardi di persone e poi segnala un errore di impostazione. Perché agricoltura significa cibo, economia locale, significa sovranità alimentare dei popoli.

«L’agricoltura è insieme vittima del cambiamento climatico, e anche, in parte, corresponsabile del problema. È vittima in quanto ogni aumento di un grado della temperatura media determina uno spostamento delle coltivazioni di 150 chilometri verso il nord geografico e di 150 metri più in alto. Questo slittamento vuol dire perdita di prodotti in aree tipiche, distruzione di zone rurali, impoverimento di intere comunità e conseguente migrazione delle popolazioni che non riescono più a vivere dove vivevano un tempo.

«Nello stesso tempo l’agricoltura, per come si è andata configurando negli ultimi cinquant’anni, ha incorporato lo spirito e il senso dell’economia industriale, è diventata per la maggior parte un’agricoltura che mira al massimo profitto a una produzione massiva che non ha a cuore la difesa della natura e la salvaguardia delle risorse della terra.

«L’agricoltura intensiva insieme all’allevamento industriale sono responsabili del 70% del consumo di risorse idriche e la zootecnia da sola della produzione del 14% delle emissioni di gas serra. Sappiamo quanto siano disastrosi questi allevamenti, non solo per il benessere degli animali, ma anche per l’impatto che hanno sull’ambiente. Il modello che intensifica le produzioni non rispettando i ritmi naturali , le stagioni, i raccolti, è lo stesso che ci porta sulla tavola ogni giorno qualsiasi tipo di cibo, anche dal più sperduto buco del mondo, come fosse una cosa normale».

Come se non avesse un costo sociale, un ultra-prezzo? Non ci siamo un po’ abituati a tutto questo? ( pioggia autunnale come un monsone, pesci tropicali nel Mediterraneo, insetti e piante di altri climi).

«Sì, come ci hanno abituati a considerare normale che il 35% del cibo prodotto venga buttato, uno spreco che equivale alla distruzione delle colture di 1,4 miliardi di ettari di terra. Coltivazioni che hanno prodotto emissioni nocive. Perciò bisogna cambiare logica rispetto al mantra che ci impone solo di consumare, consumare, consumare.

Nell’agenda del summit di Parigi ci saranno anche gli incontri dell’Ifad, l’agenzia dell’Onu che chiede investimenti a vantaggio dei piccoli agricoltori per combattere la desertificazione, Slow Food può farsi sentire lì?

«Abbiamo con l’Ifad una partnership diretta. Quando organizziamo, annualmente, Terra Madre partecipa sia l’Ifad sia la Fao. Aggiungo che un mese fa al meeting Terra Madre indigenous abbiamo radunato 145 comunità indigene di 40 paesi del mondo. Anche da lì è nato il nostro appello “Non mangiamoci il clima” che rivolgiamo ai governi riuniti a Parigi.

«L’appello è già sottoscritto da centinaia di associazioni e movimenti e ora sul sito www .slowfood .it attende la firma dei cittadini. Penso che la presenza operativa della società civile si debba far sentire, adesso o mai più. Non è possibile che Cop21 parta dando per scontato che, se va bene, il pianeta si surriscalderà di 2 gradi. Se poi i limiti di emissione dei gas serra, come sembra, non saranno vincolanti, non so dove si andrà a finire».

Se invece che di biodiversità e land grabbing, si parlerà soprattutto di agrofuel e carbon markets, non è perché le grandi company del nucleare, dell’acqua, delle auto nel voler “dare il loro contributo alla causa ecologica” stanno facendo lobby? L’ong Transnational institute dice che sono loro ad aver sostenuto come sponsor il 20% delle spese del summit.

Non mi stupisce. Già sei-sette mesi fa avevamo segnalato come certe sponsorizzazioni di multinazionali non fossero un buon segnale. Ma sono i governi che devono prendere le decisioni, a loro ci dobbiamo rivolgere.

Lo slogan dei movimenti che saranno in piazza oggi è “system change not climate change”. D’accordo? Si deve cambiare sistema?

«Non c’è ombra di dubbio. Bisogna cambiare paradigma, dico io. Si deve capire che le cattive pratiche, basate solo sul business, generano iniquità e sconquassi ambientali. Bisogna anche capire che si tratta di cambiare stile di vita. Ora sappiamo tutti dell’allarme dell’Oms sull’eccessivo consumo di carne. Ma si deve anche sapere che se in Europa il consumo medio pro capite in un anno è 100 chili e negli Usa 125 chili, non si può chiedere agli africani, che ne consumano in media 5 chili l’anno, di ridurlo perché inquina.

«Il ragionamento deve essere: contrazione per che chi consuma troppo e convergenza per chi non ne ha a sufficienza. Questa è una vera governance mondiale. Ma attualmente l’unico capo di Stato che sostiene un paradigma di equità e sostenibilità è il pontefice romano. L’enciclica Laudato Si è un documento straordinario di riflessione sul cibo, la biodiversità, la povertà, su come tutto sia connesso».

Per una governance mondiale ecologica non servirebbe, come in Bolivia, una sorta di tribunale dell’Aja per i reati ambientali?
Può essere una via. La scorsa settimana in Brasile c’è stato un immane disastro ambientale e i responsabili non sono punibili in base alla legge brasiliana. Non lo sarebbero stati fino a vent’anni fa neanche in Italia.

«In Italia ancora manca una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sempre più invasi dalla cementificazione. Se continuiamo così oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento».

«Francia. Alla Conferenza sul clima, 196 delegazioni, con 150 capi di stato e di governo presenti. Lo scopo: trovare un accordo per garantire un avvenire alla Terra e ai suoi abitanti». Il manifesto, 29 novembre 2015

L’ultimo atto del multilateralismo, ormai messo in difficoltà su tutti i fronti nel mondo, si apre purtroppo in una città blindata dove vige lo stato d’emergenza, ancora in preda alla paura degli attentati, con 120mila uomini armati, tra polizia e esercito, schierati in Francia, più di 10mila solo a Parigi per proteggere i grandi del mondo, mentre la società civile è relegata in secondo piano, le manifestazioni bloccate a causa del terrorismo.

La Cop21 accoglie oggi al Bourget 196 delegazioni di stati, con circa 150 capi di stato e di governo presenti. Sulla ventunesimo appuntamento della «Conferenza dei pari», organizzata dall’Onu, si sono concentrate le speranze di trovare una soluzione globale per impedire un riscaldamento climatico, ora in crescita esponenziale, che minaccia di travolgere a breve (e in parte già travolge) milioni di persone, causando disastri umani e economici, flussi di rifugiati, in prospettiva 400 milioni di persone a rischio.

La Cop21 non è un appuntamento importante solo perché ha luogo a Parigi, non è il senso del teatro tipico della Francia a farne un momento-chiave: la data del 2015 come punto di svolta per trovare un accordo che dovrebbe entrare in vigore nel 2020, era stata decisa nel 2011 a Durban, in seguito allo scottante fallimento della riunione di Copenaghen, nel 2009, che si era conclusa con un breve documento di tre pagine. «Più tardi, sarà troppo tardi», ha riassunto il ministro degli esteri, Laurent Fabius, che dirige i lavori e che ritiene che ci sia «un obbligo di successo« alla conclusione l’11 dicembre.

In gioco alla Cop21 c’è la sicurezza.

Quella di assicurare un avvenire possibile alla Terra e ai suoi abitanti. Ma nell’immediato, la sicurezza è legata alla lotta al terrorismo. Per garantire questa sicurezza, il governo ha proibito le manifestazioni previste, la marcia di oggi e quella conclusiva il 12 dicembre. Ieri, i «zadistes» (militanti per le «zones à défendre») hanno alla fine ottenuto di poter organizzare un pic nic a Versailles. Greenpeace ha mandato in aria una mongolfiera alla Tour Eiffel, che da stasera sarà illuminata di verde (passando dal buio del dopo-attentati e dal blu, bianco e rosso del tricolore in omaggio alle vittime), con interventi artistici successivi.

Stamattina, alcune organizzazioni, a cominciare da Attac, invitano a formare una «catena umana» da place de la République sul boulevard Voltaire.

Ma il governo è nervoso: mille persone, ha rivelato ieri il ministro degli Interni Bernard Cazeneuve, sono state impedite di entrare in Francia negli ultimi giorni, e nei negozi della regione Ile-de-France non sono più in vendita i prodotti infiammabili. Su più di 400 iniziative militanti, almeno un centinaio sono state cancellate.

Il Prefetto ha caldamente consigliato ai parigini di non muoversi di casa, salvo «assoluta necessità», sia oggi che lunedì, anche se il métro è gratis, perché alcuni grandi assi stradali saranno chiusi o con circolazione limitata a causa del passaggio delle delegazioni verso il Bourget.

I negoziati avverranno sotto una cappa, nell’isolamento del Bourget, attorno a un testo preparatorio di 55 pagine, ancora pieno di parentesi quadre (con opzioni divergenti).

Le delegazioni avranno di fronte le insegne delle grandi imprese mondiali, dai produttori di energia alla grande distribuzione, gli sponsor della Cop21, che hanno messo in campo una enorme operazione di ipocrita greenwashing. Stando ai «contributi nazionali» che sono arrivati a Parigi, da 183 paesi, l’obiettivo minimo — mantenere il riscaldamento climatico sotto l’aumento di 2 gradi — non potrà essere raggiunto entro fine secolo. Al meglio ci sarà la «catastrofe» di +3 gradi. Non è certo se l’eventuale accordo sarà giuridicamente vincolante, poiché alcuni paesi, a cominciare dagli Usa, hanno difficoltà a far approvare un trattato internazionale.

La Francia si accontenterebbe di un accordo che obblighi almeno alla «trasparenza» delle azioni e a un meccanismo vincolante di revisione degli impegni presi dagli stati ogni cinque anni, ormai accettato anche dalla Cina. Sul tavolo c’è la più che spinosa questione dei finanziamenti: chi deve pagare per la lotta all’effetto serra? A Copenhagen il Nord del mondo aveva promesso 100 miliardi di dollari al Sud. Per avvicinarsi a questa cifra, sono stati addizionati contributi e aiuti di ogni tipo, anche quelli che hanno poco a che fare con la lotta al riscaldamento climatico. Il parente povero di questi trasferimenti sono i finanziamenti all’adattamento delle società colpite (pari solo al 16% degli impegni), concentrate nei paesi più poveri.

I principali responsabili di produzione di Co2 sono Cina, Usa, Ue, India, Russia, Indonesia, Giappone. Se calcolato pro capite, in testa ci sono gli Usa, ma anche i paesi del Golfo, l’Australia, il Canada. Enormi interessi economici si scontrano, sia al Nord che al Sud, nei paesi produttori di petrolio, negli emergenti. La «crescita verde», termine adottato nel 2005 alla conferenza di Seul, è in parte ancora nel cassetto — il Pil è legato al consumo di energia e l’energia è a maggioranza di origine fossile — anche se molti economisti e ormai qualche industriale fanno intravvedere grandi possibilità di ripresa economica. La riconversione verso energie rinnovabili è solo all’inizio, ha ancora costi alti (e alcuni paesi, Francia in testa, vantano le qualità del nucleare «pulito» in Co2). Sul tavolo dei negoziati c’è il «prezzo» del Co2, che per il sistema economico dominante sarebbe la strada maestra per uscire dalla crisi, cioè colpire il portafoglio per convincere obtorto collo a investire nelle energie rinnovabili.

«Fondamentale, oggi più di ieri, operare una forte pressione popolare sui governi che a Parigi avranno la responsabilità di decidere del futuro dell’umanità ed è per questo che il 29 novembre è stata indetta una marcia mondiale per il clima». Il manifesto, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

A pochi giorni dagli attentati terroristici di Parigi, Beirut, Bamako e Tunisit la Francia ospiterà la COP21, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima.

Non sarà facile raggiungere un accordo vincolante per limitare il riscaldamento climatico globale sotto i 2°C o opporsi al modello «dell’iperproduzione e dell’iperconsumo» quando la Francia e l’Occidente sembrano accecati dall’odio e parlano esclusivamente il linguaggio della vendetta. Quando il socialista Hollande chiama l’intera Europa, l’occidente e i suoi alleati ad una nuova guerra infinita ed intanto vieta tutte le manifestazioni pubbliche, vara leggi speciali e lo stato di emergenza, sospende le democrazia o quando il capo del governo francese, Valls, annuncia possibili attacchi chimici, contribuendo ad alimentare la paura che ci spinge a modificare i nostri stili di vita, ad abbandonare «lo spazio pubblico» e rinchiuderci ulteriormente nel privato.

Il clima di terrore nel quale siamo precipitati aumenta il rischio di fallimento della Conferenza di Parigi. D’altronde, già prima che le spese finanziarie per pagare eserciti e guerre fossero escluse dal patto di stabilità, così come approvato pochi giorni orsono dalla Commissione Ue, gli impegni finanziari erano molto al di sotto dei 100 miliardi necessari, come le misure concrete per ridurre le emissioni di gas serra e la dipendenza dai combustibili fossili e dal nucleare, che sono tra le cause principali delle innumerevoli guerre oramai giunte nel cuore dell’Europa, e che ancor oggi godono di 5 volte i sussidi pubblici rispetto alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica. Infatti, nel 2013 Gran Bretagna, Germania, Italia, Giappone e Francia hanno bruciato il 13% di carbone in più rispetto al 2009. Me la Spagna di Rajoy mette addirittura una tassa sull’energia solare evidenziando una vera volontà politica per non far decollare le rinnovabili.

In Italia Renzi autorizza le trivellazioni contro la volontà di intere comunità. Ennesimo atto di arroganza del governo, che si presenterà alla conferenza di Parigi portando in dote questo regalo fatto alle multinazionali del petrolio, a cui si aggiungono i continui colpi inferti alle rinnovabili.

Se si superassero i 2°C di aumento della temperatura il livello del mare aumenterebbe di 5 metri entro il 2065, con un aumento di 4°C sarebbero a rischio i paesi del Mediterraneo, Nord Africa, Medio Oriente e America Latina. Se a questo aggiungiamo altre variabili, quali le guerre per l’accaparramento delle risorse naturali, il consumo di suolo, la carenza di risorse idriche, la cementificazione dei territori, le pratiche di «land grabbing», le conseguenze sulla parte più indifesa delle popolazioni potrebbero essere enormi, tanto da provocare una vera e propria crisi umanitaria. Centinaia di milioni di profughi in prospettiva.

Diventa, dunque, fondamentale, oggi più di ieri, operare una forte pressione popolare sui governi che a Parigi avranno la responsabilità di decidere del futuro dell’umanità ed è per questo che il 29 novembre è stata indetta una marcia mondiale per il clima. In tante capitali del mondo i movimenti e la società civile scenderanno in piazza per far sentire la voce dei popoli, per ridurre il riscaldamento climatico sotto l’1,5°C, per un modello alternativo al neoliberismo, per la difesa dei beni comuni, contro il terrorismo, contro le guerre, contro il razzismo e per la libera circolazione dei migranti, contro le politiche securitarie e il drastico restringimento delle libertà collettive e individuali.
È giunto il momento di contribuire, ognuno per la propria parte, alla ricostituzione di un movimento capace di coniugare le battaglie globali sul clima e la giustizia ambientale e le azioni a difesa del territorio e la giustizia sociale.

Non c’è un gran clima in giro per il mondo ed ecco perché il 29 Novembre i movimenti e le associazioni italiane scenderanno in piazza a Roma — alle 14 da Campo de’ Fiori ai Fori Imperiali — per il clima e per la pace, facciamo sì che questa giornata segni l’inizio di un nuovo e inedito protagonismo della società civile italiana!

«L’agricoltura e l’allevamento sono i più grandi utilizzatori di acqua dolce, Per questo abbiamo diffuso il manifesto “Non mangiamoci il clima”. La Repubblica, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

Che cosa c’entra il clima con la coltivazione della terra e con il nostro cibo quotidiano? Alcuni numeri possono dare una prima risposta. Su scala mondiale, l’agricoltura e l’allevamento sono i più grandi utilizzatori di acqua dolce, consumando il 70% delle risorse idriche disponibili. I fertilizzanti a base di azoto rappresentano il 38% delle emissioni dell’agroalimentare. Allevamenti industriali sempre più grandi producono grandi quantità di deiezioni, creando problemi di inquinamento e smaltimento; il mangime arriva da monocolture intensive, spesso lontane centinaia o migliaia di chilometri, e causa di deforestazione. Il settore zootecnico - di conseguenza - è responsabile del 14% dei gas serra.

Eppure, nel dibattito mondiale sul clima (in vista dell’appuntamento di Parigi, dove si incontreranno i governi di tutto il mondo per tentare di trovare un accordo, dopo oltre 20 anni di dibattiti, mediazioni e forum fallimentari) il settore dell’agricoltura è relegato ai margini. Nelle 54 pagine del testo dei negoziati, non compaiono nemmeno una volta i termini “agricoltura”, “biodiversità” e “coltivazione”. L’attenzione si concentra sui settori dell’energia, dell’industria pesante, dei trasporti; si parla anche di suolo e di sicurezza alimentare, ma non si riconosce in modo esplicito il ruolo centrale del rapporto diretto fra clima, coltivazione della terra e cibo.
La produzione del cibo, in realtà, rappresenta una delle principali cause e una delle prime vittime del cambiamento climatico. Le siccità sempre più frequenti, le inondazioni e il caldo estremo condizionano ogni produzione, sia vegetale sia animale. L’aumento di 1°C della temperatura media equivale a uno spostamento delle colture 150 chilometri più a nord e 150 metri più in alto. La biodiversità sta registrando livelli di erosione che non si erano mai verificati in passato. Secondo la Fao, negli ultimi 70 anni abbiamo perso i tre quarti dell’agrobiodiversità che i contadini avevano selezionato nei 10.000 anni precedenti.
Ogni giorno, milioni di persone perdono terra, fonti d’acqua, cibo, e rischiano di trasformarsi in veri e propri profughi climatici. Secondo un rapporto della Banca Mondiale le conseguenze del cambiamento climatico potrebbero portare alla povertà oltre 100 milioni di persone entro il 2030. E queste comunità si trovano nelle regioni più svantaggiate del pianeta. In gioco, quindi, c’è anche la giustizia sociale. L’equilibrio fra uomo e natura si è rotto quando abbiamo iniziato a gestire le fattorie come industrie. L’industria non tollera i tempi della natura.
L’agricoltura industriale è nata dopo la seconda guerra mondiale per riconvertire l’industria bellica. Il nitrato di ammonio, principale ingrediente degli esplosivi, era infatti anche un’ottima materia prima per produrre i fertilizzanti, che hanno affiancato i fosfati minerali, introdotti in agricoltura 150 anni fa. Prima di allora si arricchivano i terreni grazie alla rotazione con le leguminose e al letame. Da quel momento, abbiamo iniziato a comprare fertilizzanti chimici di sintesi. E poi pesticidi, diserbanti e carburanti per la meccanizzazione. Abbiamo puntato sempre più su monocolture e produzioni di massa, a scapito di suolo, acqua, foreste e oceani.
L’impatto ambientale di questo modello riguarda la produzione, ma anche il trasporto e la distribuzione degli alimenti. Siamo abituati a disporre di qualunque prodotto in ogni stagione e così i prodotti percorrono migliaia di chilometri, attraversano gli oceani e consumano quantità enormi di combustibili fossili. Questo modello si basa su un’idea di crescita infinita. Produrre sempre di più e sempre più velocemente, inoltre, non ha risolto il problema della fame, anzi.
Il paradosso più stridente è che, da un lato, la quantità di cibo prodotta nel mondo supera il necessario (potrebbe sfamare addirittura 12,5 miliardi di persone, ben più dei 7 miliardi attuali), ma dall’altro, 800 milioni di persone continuano a soffrire la fame. L’altra faccia di questo sistema iperproduttivistico, infatti, è lo spreco. Ogni anno, buttiamo via circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, ovvero un terzo degli alimenti prodotti. A livello europeo, si possono attribuire circa 170 megatonnellate di CO2 allo spreco alimentare, equivalente al totale delle emissioni della Romania o dell’Olanda nel 2008. Il cibo prodotto ma non consumato usa quasi 1,4 miliardi di ettari di terra, che rappresentano quasi il 30% dell’area coperta da terreni agricoli nel mondo.
Per affrontare concretamente il problema del riscaldamento climatico, è necessario cambiare radicalmente paradigma - economico, sociale e culturale - promuovere un’agricoltura basata su pratiche agroecologiche e un sistema diverso di produzione, distribuzione e accesso al cibo. La società civile è impegnata su questi temi da tanti anni e, anche in occasione della conferenza di Parigi, si stanno mobilitando associazioni di produttori, di consumatori, di ambientalisti di tutto il mondo.
Come Slow Food, ci rivolgiamo ai rappresentanti dei paesi e delle istituzioni internazionali riuniti a Parigi e chiediamo che l’agricoltura sia posta al centro del dibattito. E per questo abbiamo diffuso il manifesto “Non mangiamoci il clima”, che è già stato sottoscritto da centinaia di organizzazioni e associazioni e che invitiamo tutti quanti a firmare, andando sul sito www.slowfood.it
Riferimenti

Sullo stesso argomento un punto di vista complementare sul ruolo dell'agricoltura sui cambiamenti climatici è quello proposto su eddyburg dal nostro opinionista Piero Bevilacqua, Economia estrattiva e beni comuni. Sul rapporto tra cibo e petrolio si veda anche l'opinione di Giorgio Nebbia Ricordando il petrolio. Sul superamento dell’attuale modo di produrre e di consumare si veda di Guido Viale Il clima (e non solo) a Parigi.
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