Una prima analisi sulle sconfitte e sulle vittorie del referendum. Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2016 (p.d)
Il referendum è fallito, viva il referendum. Il risultato finale, nonostante il mancato raggiungimento del quorum, è in chiaroscuro: i comitati per il “Sì” ieri hanno senz’altro mancato l’obiettivo di portare a votare la metà più uno degli italiani, eppure la stessa presenza in campo dei quesiti (all’inizio erano sei) ha cambiato le carte in tavola.
Partiamo da cosa non è andato. Il referendum chiedeva agli elettori di abolire la norma che permette di prorogare le concessioni per estrarre gas e petrolio in mare entro le 12 miglia (in questo limite è già vietato concedere nuovi permessi) fino all’esaurimento del giacimento.
Il referendum ha perso: regalo ai produttori
Milioni di italiani si sono schierati per non prolungare a tempo indeterminato lo sfruttamento dei giacimenti esistenti o prorogati all’ultimo secondo come Vega A, impianto Edison in Sicilia che è a processo per smaltimento illecito dei rifiuti (li avrebbero iniettati in un pozzo sterile risparmiando 70 milioni). Il quorum, però, non è stato raggiunto e dunque tutto rimane com’è: le proroghe delle 44 concessioni (con 90 piattaforme e 484 pozzi) potranno solcare i decenni con relativo ampliamento degli impianti fino alla fine della “vita utile del giacimento”. Il ritmo di estrazione, peraltro, continuerà a deciderlo l’azienda: metà delle piattaforme, infatti, sono già ferme e la stragrande maggioranza di quelle attive già oggi produce “sottosoglia”(non raggiunge cioè il limite sopra il quale comincia a pagare le royalties allo Stato).
L’effetto sui posti di lavoro temuto dai sindacati e agitato dal governo non ci sarà: va ricordato che i numeri, nel caso di specie, sono assai ballerini. Assomineraria, per dire, ha stimato gli addetti (indotto incluso) prima in 5mila, poi 13mila; i chimici Cgil dicono 10mila; legambiente 3mila. Per la Fiom Cgil, invece, sulle piattaforme oggi lavorano in 100. Qualunque sia la cifra, non cambierà niente. Le compagnie petrolifere poi, col prolungamento delle concessioni, ci guadagnano il rinvio sine die dello smantellamento di quasi la metà delle piattaforme esistenti classificate “non eroganti” o “non operative”: bonificare quei 35 impianti gli costerebbe almeno 800 milioni, ma bonifica e smantellamento sono fasi a grande intensità di manodopera (tradotto: creano più posti di lavoro per anni).
Rimane in piedi, ovviamente, il rischio ambientale: per Greenpeace - che si basa su dati Ispra raccolti in 34 piattaforme Eni - le cozze cresciute sugli impianti hanno livelli oltre i limiti per almeno una sostanza chimica pericolosa nel 75% dei casi.
Il referendum ha vinto: l’esecutivo ci ripensa
La consultazione di ieri, in realtà, ha vinto anche se è fallita: i 10 consigli regionali che hanno chiesto i referendum avevano infatti presentato sei quesiti sul tema energetico, tutti “ispirati” dalle forzatura del decreto cosiddetto “sblocca Italia” del 2014, il cui fine ultimo era esautorare le Regioni da qualunque processo decisionale. Il governo Renzi ha avuto paura e pian piano ha abolito tutte le norme contestate: solo un trucco per tenere in vita senza limiti di tempo le concessioni entro le 12 miglia ha di fatto imposto alla Cassazione di dare il benestare al voto tenutosi ieri.
Le Regioni, in ogni caso, hanno costretto il governo a fare marcia indietro su temi fondamentali: ad esempio è stata abolita la previsione che le trivelle hanno caratteristica di “strategicità, indifferibilità e urgenza”, il che esautora i governi locali da qualunque decisione e militarizza gli impianti sul modello del Tav Torino-Lione. Anche il “titolo concessorio unico” è stato abbandonato: previsto dallo “sblocca Italia” regalava in sostanza alle compagnie petrolifere il tratto di mare da perforare senza alcun limite di tempo (ora dura 30 anni, ma è vigente pure il vecchio iter prorogabile a piacere dal ministero fino a 50 anni).
Il tema del “Piano delle aree” invece è una vittoria agrodolce. Serviva a decidere una volta per tutte dove si può trivellare e dove no: il governo voleva decidere da solo, Regioni e territori chiedevano di partecipare. Soluzione: il “Piano delle aree” è stato abolito. Curioso che la norma sulle proroghe salvata dal fallimento del referendum potrebbe essere abolita dall’Ue: viola i principi della concorrenza.

Articoli di Norma Rangeri, Maria Rita D'Orsogna, Ilvo Diamanti, Marco Bersani, Massimo Franco, Lina Palmerini. Il manifesto, Comune-info, la Repubblica, Corriere della Sera, Il Sole 24 ore, 19 aprile 2016 (p.d., m.p.r.)
Il manifesto
PERCHÉ RENZI NON HA MOLTO DA FESTEGGIARE
di Norma Rangeri
Lo scrittore francese, poco noto in Italia, Robert Sabatier, amava gli aforismi. Uno calza alla perfezione con gli ultimi avvenimenti: «C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare».
Possiamo analizzare il voto di domenica sotto diversi punti di vista, e probabilmente capiremmo che la ragione, o il torto, non stanno tutti da una parte. In particolare quando si tratta di argomenti sui quali cade il macigno della strumentalizzazione politica, mettendo in ombra il cuore del problema.
Tuttavia su un aspetto dovremmo concordare in tanti: l’invito a non votare, a non partecipare ad un momento importante, tra i più significativi della vita democratica, rappresenta un vulnus per la stessa democrazia E chi sostiene che altrove la bassa partecipazione elettorale è una cosa normale, forse non si rende conto che in Italia questo comportamento determina un distacco crescente dei cittadini non solo nei confronti delle istituzioni, ma dello stesso vivere civile.
Per noi è stata una bella battaglia, tutta da rivendicare.
Una battaglia politica combattuta nel paese ad armi impari, senza poter informare sui temi grandi che sono in campo quando si parla di scelte strategiche per un modello di sviluppo. Questioni importanti affrontate dal presidente del consiglio con l’invito alla cittadinanza di disertare le urne. Salvo apparire in tv, subito dopo i risultati, per dirci che l’appello astensionista gli era costato molto, ma che l’aveva fatto solo per salvare tanti posti di lavoro.
Il giovane cinico della politica italiana deve correre ai ripari («chi vota non perde mai») perché il boomerang astensionista domani potrebbe colpire proprio lui.
Nessuno esce vincitore da questa consultazione. Vediamo perché.
Chi ha promosso il referendum sperava davvero di poter dare una scadenza alle trivellazioni (che adesso avranno vita più facile). Così non è stato. E il quorum è rimasto molto lontano.
Chi pensava di usarlo per una spallata al governo – dalla Lega ai 5Stelle – ha perso la partita. Anche perché non l’ha giocata fino in fondo, come avviene per le elezioni politiche e amministrative, quando è in ballo il potere vero.
Gli oppositori di Renzi hanno utilizzato – soprattutto i 5Stelle – soltanto la mano sinistra. Più che essere attori protagonisti si sono comportati da “spalle”, per saggiare il terreno in vista delle prossime battaglie frontali (sui Comuni e sul referendum costituzionale).
Chi predicava l’astensione sa di aver fatto ricorso a un’arma a doppio taglio. Domani la chiamata alle urne sarà complicata, in particolare nei confronti delle persone indecise: volteranno le spalle a chi pensa di usarle solo per il proprio tornaconto.
Infine, chi crede di aver vinto domenica – in primo luogo il presidente del consiglio – raccoglie un risultato miserrimo, perché la frantumazione della sinistra è evidente, perché il Pd è un partito sfasciato, perché gli oltre 13 milioni di votanti per il Sì non faranno sconti a Renzi (che vinse le europee con 11 milioni di voti).
Il premier ha accusato Michele Emiliano, il governatore della Puglia, di aver condotto una battaglia politica a fini personali, come se Emiliano non fosse un rappresentante eletto dal popolo che, come il voto dimostra, lo aveva delegato a condurla (la Puglia, insieme alla Basilicata, ha avuto la più alta partecipazione, in queste terre siamo al 40 e oltre il 50 per cento). Ma a Potenza, a Matera, a Bari, Renzi preferisce Ravenna, che cita come buon esempio di rifiuto del voto. Dimenticando che già alle ultime elezioni regionali, in Emilia Romagna aveva votato solo il 37 per cento. Già allora, a onor del vero, disse che l’astensionismo non era un problema perché l’importante era portare a casa il risultato. In questo bisogna riconoscergli un pensiero coerente.
Domenica nelle urne ha vinto il grande partito dell’astensione, è questa l’unica vittoria (di Pirro) che può intestarsi il gruppo di palazzo Chigi.
I 16 milioni di italiani che hanno scelto di andare al seggio (l’85% per il si, il 14% per il no) hanno seguito una strada diversa da quella indicata da chi ci governa. Tra questi Romano Prodi, come anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Anche se, per recarsi al seggio, il capo dello stato ha atteso la tarda serata, una scelta curiosa da parte di chi, per tenersi fuori dalla mischia, finisce per distinguersi, in negativo, dal voto mattiniero dei due presidenti del parlamento.
E hanno vinto anche i padroni dei pozzi petroliferi, pur ballando sulla graticola per la vicenda della Total e lo scandalo che sta inchiodando persone importanti. Potranno sfruttare le risorse del territorio a loro piacimento – vita natural durante – e senza creare nuova occupazione. Poi, un giorno, sarà lo Stato italiano a doversi accollare i costi per smantellare gli impianti. Tra l’altro chi sostiene che sono stati salvati posti di lavoro sa – o finge di non sapere – che l’esaurimento delle scorte ridurrà sempre di più il numero di impiegati e operai addetti.
La nuova occupazione si crea progettando cambiamenti duraturi nel tempo. Invece, questo tema, molto forte, è passato in secondo piano. Ma resta un problema centrale, italiano e internazionale. Almeno così pensano quei tredici milioni di italiani che hanno votato Sì.
Certamente non sono tutti ambientalisti, altrimenti avremmo già un partito “verde” rilevante. Tuttavia il “messaggio” lasciato nelle urne è ricco di significati, che solo gli azzeccagarbugli della politica non sono in grado di capire, perché si accontentano di raccogliere le briciole del giorno dopo.
Buon per loro. Non per noi.
Comune-info.net
NON CI SIAMO RIUSCITI.
ANDIAMO AVANTI
di Maria Rita D'Orsogna
Il referendum ha portato il tema petrolio in tutte le case. Gli incontri nei quartieri, lo studio del problema, l’informazione on line sono un patrimonio: occorre andare avanti, concessione per concessione, comunità per comunità
Non ci siamo riusciti. Nonostante tutta la nostra buona volontà e il nostro entusiasmo, la macchina del no, dell’astensionismo, dei geologi al soldo delle fossili, dei lobbisti del petrolio hanno avuto la meglio su di noi. Lo sapevamo tutti che non era una partita alla pari fin dal primo giorno: una data a casaccio, la stampa ufficiale contro di noi, poca e cattiva informazione, gli spauracchi immaginari della disoccupazione e delle luci spente, un primo ministro che invita all’astensione. Onore a noi tutti per averci provato e per averci creduto fino all’ultimo voto.
Mi dispiace molto, e per prima cosa voglio ringraziare tutti quelli che si sono adoperati condividendo post su Facebook, promuovendo incontri di quartiere, facendo passaparola. Voglio ringraziare ogni nipote che lo spiegava al nonno perché votare sì, e ogni nonno che ha capito che era importante. Voglio ringraziare tutti quelli che sebbene lontani da comunità trivellate o trivellande si sono presi la briga di studiare, e sono diventati piccoli attivisti. Anche se non ci siamo riusciti è stato lo stesso una bella pagina di democrazia sana, in cui molti si sono sentiti investiti, con il desiderio di poter far qualcosa di buono.
La sconfitta ci insegna che abbiamo ancora tanta strada da fare. Ma non tutto è perduto. Questo referendum ha avuto il merito di aver portato il tema petrolio nelle case degli italiani, e quantomeno il dubbio che le trivelle non siano benessere e non siano ricchezza per l’italiano medio. Purtroppo per noi, ci sono altre concessioni in terra e in mare previste in varie parti dello stivale per i prossimi mesi, per i prossimi anni. Grazie a tutti i dibattiti referendari quelli che avranno la sfortuna di viverci vicino avranno vita più facile nel contrastare questi progetti, se lo vorranno. Sapranno che si può e si deve lottare, anche se si è in pochi, anche se è difficile. Avranno materiale ed esempi. È tutto scritto, documentato, dai pesci ai terremoti. È scomparso il vuoto mediatico che c’era dieci anni fa e questo anche grazie al referendum che ha obbligato stampa e Tv ufficiali a parlarne, seppure spesso in modo distorto.
A suo modo questa sensibilizzazione è già una vittoria. E adesso cosa fare?Occorre andare avanti, concessione per concessione, comunità per comunità. È persa la battaglia, non la guerra, non la storia.
Anche se Matteo Renzi e Claudio Descalzi andranno a brindare, la storia è dalla nostra parte. Cent’anni fa facevamo buchi perché pensavamo che far buchi fosse lo stato dell’arte. Lo stato dell’arte nel 2016, nonostante il referendum, nonostante chi ci governa, non è fare buchi. È fare tutto quello che abbiamo fatto fino ad oggi con le fonti fossili senza trivellare ad infinitum, senza distruggere la vita di nessuno, senza martoriare l’unico pianeta che abbiamo.
Dobbiamo continuare a opporci alla petrolizzazione d’Italia come fatto finora, ogni santo giorno, e cioè dal basso. Dobbiamo continuare a esigere un ambiente e una democrazia pulite, un Italia che guardi alle rinnovabili e al futuro e non alle trivelle e al passato.
Vinceremo. La storia è più grande di Matteo Renzi.
La Repubblica
L’ANALISI DEL NON VOTO
di Ilvo Diamanti
L’obiettivo prioritario della consultazione si è rivelato quello di mettere in difficoltà il premier: rispetto al risultato del 2011 è significativo che l’astensione sia cresciuta nelle “zone rosse”
Si è conclusa la prima tappa della marcia elettorale che ci attende, da qui fino all’autunno. Dopo il referendum sulle trivelle, infatti, all’inizio di giugno avranno luogo le elezioni amministrative, in alcune città fra le più importanti. Roma, Milano, Torino, Napoli. E in altri tre capoluoghi di Regione: Bologna, Cagliari e Trieste. Infine, in autunno si svolgerà il referendum sulla riforma costituzionale approvata in via definitiva dal Parlamento una settimana fa. Il premier, Matteo Renzi, ne ha fatto il banco di prova definitivo per il proprio governo, ma, prima ancora, per se stesso. In fondo: per la propria leadership. Ogni passaggio elettorale assume, però, lo stesso significato. Diventa, cioè, una verifica del consenso verso Renzi e la sua maggioranza. Il premier, d’altronde, non ha fatto nulla per evitarlo. Al contrario. Anche questo referendum è stato puntualmente orientato in questa direzione. Non tanto per decidere sulle “trivelle”, ma per esprimere dissenso oppure consenso verso Renzi. Partecipare al voto significava, dunque, sfiduciare Renzi. Al contrario: astenersi – in subordine: votare no – gli avrebbe fornito sostegno. Conferma. Ed è ciò che, in effetti, è avvenuto. Perché oggi, l’unico argomento di cui si discute riguarda Renzi. Non certo le trivelle.
Eppure, se si valutano i risultati con qualche attenzione, l’importanza delle “trivelle” appare evidente. Basta considerare la geografia della partecipazione elettorale. I livelli più elevati di affluenza si osservano, infatti, nelle aree maggiormente interessate al problema. Cioè, alle trivellazioni. In particolare, la Basilicata (l’unica dove sia stato superato il quorum del 50% degli elettori aventi diritto), quindi, la Puglia e il Veneto. Fra le regioni che hanno promosso il referendum, emergono livelli di partecipazione molto elevati anche in Molise e nelle Marche. Tra le altre: in Abruzzo ed Emilia Romagna. In altri termini: lungo la fascia adriatica. Tuttavia, se ragioniamo sull’astensione “aggiuntiva” rispetto al referendum del 2011, che riguardava “l’acqua pubblica”, si delinea una mappa diversa. Con una caratterizzazione politica più specifica.
Anche il referendum del 2011 aveva una connotazione “ambientalista”. Per questo è significativo che il peso dell’astensione, nel referendum sulle trivelle, cresca, in misura particolare, nelle “zone rosse”. Ma soprattutto in Toscana. La Regione di Renzi. E ciò conferma come le “trivelle” e l’ambiente siano divenuti un argomento, in qualche misura, strumentale. Ricondotto progressivamente all’obiettivo prioritario di “trivellare Renzi”. A questo proposito, il verdetto della consultazione appare chiaro. Non solo perché alle urne si è recata una minoranza (benché rilevante): poco meno di un terzo degli elettori. Ma perché è difficile riassumere per intero la partecipazione al voto sotto le bandiere dell’anti-renzismo.
Lo suggeriscono i dati di un sondaggio condotto da Demos circa una settimana prima del voto. Certo, fra gli elettori del M5S e dei partiti a sinistra del Pd la quota di coloro che si dicono certi di votare risulta particolarmente elevata. In entrambi i casi, poco sotto il 50%. Mentre fra gli elettori degli altri partiti l’intenzione di partecipare al referendum appare più ridotta. In particolare, nel Pd non raggiunge il 30%. Per questo è azzardato interpretare l’affluenza degli elettori come un indice di “sfiducia” nei confronti del governo e del premier. D’altra parte, tra coloro che, nei giorni scorsi, si erano detti certi di recarsi alle urne, il grado di “fiducia” nei confronti del governo risulta intorno al 30%. Dunque, meno, rispetto alla media degli italiani (39%). Ma non troppo.
Per questo lascia perplessi la traduzione direttamente politica e “personale” che viene data al risultato del referendum. Non da una parte sola, peraltro. Perché Renzi e, in modo ancor più esplicito, i “renziani” hanno rovesciato, a proprio favore, questa impostazione. Con l’effetto, francamente paradossale, di trasformare l’astensione in consenso. Traducendo il dato della non-partecipazione in una misura del sostegno al governo e al premier.
Ovviamente, questa impostazione rischia di produrre esiti singolari. Trasformando un cittadino, qualsiasi cittadino, interessato a fermare la trivellazione nella costa davanti alla sua città in un anti- renziano, tout-court. E un elettore, anche se ferocemente anti-governativo, ma impossibilitato a partecipare al voto, per motivi di forza maggiore, oppure semplicemente, disinteressato al problema, in un partigiano di Renzi. Ma mi sorprende - e inquieta - che lo stesso premier possa vedere nell’astensione - anche se in un caso specifico come questo - una risorsa. Una fonte di consenso politico. Personale.
Personalmente, osservo con qualche inquietudine questa “deriva” del dibattito politico. Che, peraltro, talora in contrasto con le stesse intenzioni dei protagonisti, trasforma e estremizza ogni confronto in senso “personale” e “referendario”. In altri termini, riassume la nostra vita politica in un lungo referendum pro o contro Renzi. Che si snoderà da qui in avanti. Non solo nei prossimi mesi.
Se questa idea fosse fondata, allora sarebbe meglio non nascondere la testa sotto la sabbia. Perché significherebbe che, con il contributo attivo del fronte anti-renziano, ci stiamo avviando verso un “governo personale” del premier. Come ho già scritto in passato: in un premierato – per non dire in un presidenzialismo – “preterintenzionale”. Al di là delle intenzioni: nei fatti e nella pratica. A maggior ragione se si tiene conto degli effetti di “semplificazione” prodotti, nei processi decisionali, dalla riforma costituzionale e dalla nuova legge elettorale.
Personalmente, non ho pregiudizi. Ma se si va verso una democrazia “immediata” e “personalizzata”, allora, forse, sarebbe meglio tenerne conto per tempo. E orientare in quella direzione la “riforma” della Costituzione. Senza riscriverla e ricostruirla un pezzo dopo l’altro. Una spinta dopo l’altra. Un referendum dopo l’altro. In modo preterintenzionale.
Il manifesto
LE RAGIONI DEL QUORUM MANCATO
SULLE TRIVELLE
di Marco Bersani
Un’analisi del voto referendario del 17 aprile richiede una valutazione complessa per le numerose variabili da considerare. Tredici milioni di persone che votano Si in un referendum che si è fatto di tutto per boicottare, non sono poche, soprattutto in un paese dove la disaffezione al voto – frutto della caduta verticale di fiducia verso la politica istituzionale – è diventata di ampia portata e quasi endemica.
Il boicottaggio del voto è stato tanto manifesto, quanto evidenti sono i poteri forti che sono scesi in campo per il mantenimento dello statu quo. Il presidente del consiglio, dapprima con la definizione della data – nessun accorpamento con le amministrative e indicazione della primissima data utile per abbreviare il più possibile la campagna referendaria – poi con la discesa in campo aperto per l’astensione, si è dimostrato un pasdaran della nuova idea di democrazia autoritaria e plebiscitaria che propone al paese.
I grandi mass media, dapprima con il totale silenzio sul quesito, poi con la denigrazione dello stesso, hanno fatto ampiamente la loro parte. A tutto questo va aggiunto l’evidente obsolescenza della norma che disciplina i referendum, che mantiene un quorum (50% più 1 degli aventi diritto al voto) da missione quasi impossibile e che facilita la strumentalizzazione della disaffezione elettorale per far fallire ogni esperimento di democrazia diretta.
Questo quadro oggettivo non esime, tuttavia, dal valutare il voto del 17 aprile come una sconfitta. Perché, se sono realtà tutti gli impedimenti sopra descritti, è altrettanto vero che, se si decide di sfidare le politiche governative utilizzando lo strumento referendario, si è consapevoli dell’entità della sfida e occorre di conseguenza prendere atto dell’esito.
Ecco perché vale forse la pena provare a fare una riflessione più ampia in merito a quali condizioni rendano praticabile la sfida e a quali invece ne pregiudichino in partenza l’esito.
La prima non può che riguardare la frammentazione sociale che oltre venti anni di liberismo e la crisi sistemica in atto hanno prodotto nel paese: oggi le persone che hanno una visione d’insieme dei problemi sono una minoranza, mentre per la gran parte della popolazione l’isolamento e l’atomizzazione hanno agito in profondità, al punto da renderle disponibili alla mobilitazione solo di fronte ad un attacco diretto ed esplicito alle proprie condizioni di vita.
Se Eugenio Scalfari può scrivere sulla Repubblica che chi non vive nelle regioni direttamente interessate dalle trivellazioni è bene che se ne disinteressi, è perché ha chiara -e la utilizza pro-Renzi- esattamente questa dimensione di frammentazione sociale.
E’ questa realtà a dimostrare, come oggi una prima condizione sine qua non la sfida referendaria diviene impossibile è che l’argomento da sottoporre al voto degli italiani debba o riguardare un tema che incide direttamente sulla vita di tutte e tutti o, in alternativa, diversi temi dirimenti che, nella loro pluralità, mobilitino ciascuno una fetta di popolazione direttamente interessata.
Il primo caso lo si è visto con la straordinaria esperienza del movimento per l’acqua, non a caso l’unico referendum degli ultimi venti anni ad aver raggiunto il quorum; il secondo caso, ancora da verificare nella sua efficacia, è attualmente in corso con la campagna di raccolta firme, avviata da due settimane, sui referendum “sociali”.
A mio avviso, c’è una seconda condizione irrinunciabile per poter mettere in campo la sfida referendaria: la raccolta delle firme fra i cittadini. È l’unico antidoto possibile alla disinformazione dei mass media e consente, nell’anno precedente al voto, una sorta di alfabetizzazione di massa e un processo di motivazione sociale che divengono dirimenti nella successiva mobilitazione per la partecipazione al voto.
Sono entrambe condizioni assenti nel referendum del 17 aprile e, che, a mio avviso, ne hanno determinato l’impossibilità “strutturale” di un esito positivo.Tredici milioni di persone hanno comunque deciso di scendere in campo e di disobbedire all’indifferenza richiesta dal governo e dai poteri forti di questo paese. A mio avviso si parte da lì.
Corriere della Sera
VITTORIA NETTA
MA DA GESTIRE SENZA IRRITARE GLI SCONFITTI PD
di Massimo Franco
Con una punta di fatalismo, l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi, ha liquidato le polemiche post-referendum commentando: «Il Paese è fatto così». Eppure, nello scontro seguito alla bocciatura del voto sulle trivellazioni, sono emerse due caratteristiche aggiuntive. La prima riflette il modo strumentale col quale la minoranza del Pd ha affrontato il referendum. Ha cercato la saldatura con le opposizioni, sperando di colpire Matteo Renzi e il suo governo, favorevoli all’astensionismo: operazione miseramente fallita. Ma anche il premier, forse, sopravvaluta il proprio ruolo.
Il non voto, che Palazzo Chigi comprensibilmente legge in chiave di partito, avrebbe vinto comunque, visto il tema sul quale si era chiamati a decidere. Anzi, non è da escludersi che la radicalizzazione del confronto abbia portato alle urne più gente di quanta sarebbe andata senza le liti tra Renzi e il fronte antigovernativo. E questo porta alla seconda riflessione, legata allo strumento referendario. Ormai è chiaro che si tratta di un istituto in crisi. Nato all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso per grandi battaglie come divorzio, nel 1974, e aborto nel 1981, ha poi vissuto una rinascita coi referendum elettorali: prima quello di Mario Segni nel 199, poi quelli radicali del 1993.
Sono state le ultime vampate di uno strumento di democrazia diretta, svuotato dall’abuso che ne è stato fatto. E dopo le percentuali bassissime di ieri, appena sopra il 32 per cento, si ripropone il tema di come regolamentarlo. Il tema è quello di conciliare la voglia di cambiare le leggi dal basso, con l’esigenza di non imporre al corpo elettorale di pronunciarsi su temi troppo settoriali e astrusi. Eppure, M5S, di FI e avversari di Renzi nel Pd rilanciano. Puntano a sconfiggere il governo in quello istituzionale di ottobre sulle riforme, tentando una seconda spallata dopo quella appena fallita. Gli oltre 15 milioni di elettori che comunque sono andati a votare sulle trivellazioni vengono presentati come una sorta di avanguardia dell’armata anti-premier. La sconfitta di domenica viene così rimossa e sostituita da una nuova offensiva: confidando magari in un insuccesso del partito del premier alle Amministrative di giugno in grandi città come Milano, Roma e Napoli.
I toni usati dallo stesso Renzi e da alcuni esponenti a lui vicini possono rivelarsi a doppio taglio. La tesi secondo la quale «la demagogia non paga» e che col referendum sono stati buttati 300 milioni di euro, è difficilmente contestabile. Non vedere, però, che in questo modo Palazzo Chigi può esacerbare la minoranza del Pd alla vigilia di elezioni già difficili, è assai rischioso: sebbene gli avversari sottovalutino l’immagine di novità che le riforme, al di là del loro merito, proiettano sul referendum prossimo venturo.
Il Sole 24 Ore
LE DUE VERSIONI SUL QUORUM
di Lina Palmerini
La versione degli sconfitti al referendum è una non-notizia: ossia che nel Paese c’è un’opposizione a Renzi. La versione del vincitore è che negli italiani è prevalso il buon senso sul tema energetico, sulla tutela del lavoro e sullo sviluppo. Per il premier c’è quindi una maggioranza che sostiene la sua spinta riformista contro l’immobilismo.
Versioni che presto saranno verificate alle amministrative e in particolare a Milano e Torino. Perché la questione dell’economia e dell’occupazione, della cultura pro-impresa contro gli sbarramenti dell’ambientalismo è di certo più sentita in quelle aree del Nord che non a caso sono state sempre il terreno più difficile per la sinistra pre-renziana. Ci provò Walter Veltroni nel suo discorso del Lingotto a descrivere un’altra idea di sinistra sullo sviluppo ma, da allora e nonostante il 34% dell’ex leader, il Pd non ha mai vinto le elezioni. Non nel 2008, non nel 2013. E questa resta la prova più ardua anche per Renzi, verificare la credibilità del riformismo del suo Pd. Quello del Jobs act e del taglio dell’Imu, degli 80 euro in busta paga e della promessa del taglio Ires e, magari presto, dell’Irpef. Per non parlare del nome del ministro dello Sviluppo che ancora non c’è. E che sarà un tassello non banale nella squadra di governo anche in un’ottica Sud-Nord.
Per questa ragione in quelle due città in cui si vota a giugno, Milano e Torino, si farà un test importante dal punto di vista dell’approccio renziano all’economia oltre che cruciale sul piano del risultato. Perché se è vero che Napoli e Roma hanno degli alibi, sia pure striminziti, viste le precedenti gestioni e lo stato del partito, in quelle due città Renzi non può perdere. Tra l’altro, erano date vinte in partenza ma più si avvicina il voto – anche se manca ancora troppo tempo - più appaiono in bilico secondo i sondaggi. Si parla di un testa a testa tra Giuseppe Sala e Stefano Parisi, e di uno scarto minimo anche tra Piero Fassino e Chiara Appendino dei 5 Stelle. E non si potrà nemmeno dire che i due candidati sono estranei alla “cultura” renziana visto che il primo è stato scelto proprio dal premier, il secondo è stato con il premier già dalla battaglia congressuale.
E dunque se è vero che il referendum sulle trivelle non ha dato quorum perché, come dice Renzi, c’è un’Italia che ha premiato un’idea di sviluppo e tutela del lavoro piuttosto che le ragioni personali dei suoi oppositori, tanto più dovrebbe ritrovarsi in queste due città del Nord.
Gli sconfitti del referendum ancora ieri agitavano i numeri contro Renzi, chi parlava dei 13 milioni di votanti chi addirittura 16 milioni, ma questo si sapeva già. Perfino alle europee di due anni fa contro il premier ha votato (o non votato) il 60% degli italiani. Il punto è che alle urne di domenica sono rimasti minoranza. E per trasformare questa massa critica in maggioranza servono contenuti che non si vedono e che certo sono mancati nella battaglia referendaria. O almeno che non sono stati convincenti per gli italiani. Oggi si replica. Nel senso che alla non-notizia che esiste un’opposizione nel Paese, si vedrà che esiste anche al Senato ma che non ha i numeri per rovesciare il governo. Nel pomeriggio, infatti, si voterà la mozione di sfiducia contro il governo. Sarà al Senato, Renzi parlerà alle 18, le opposizioni si coalizzeranno contro di lui ma difficilmente le minoranze diventeranno maggioranza. Dunque due esercizi andati a vuoto.
Di portata diversa è stato l’esercizio di ieri di Banca d’Italia che ha messo in dubbio le previsioni del Def considerando i rischi al ribasso sulla crescita determinati dalla complessità del quadro internazionale oltre che interno. Insomma, la battaglia del quorum è stata certamente vinta ma non è detto che le ragioni siano quelle di cui parla Renzi. Si vedrà a giugno, se il premier farà breccia in due luoghi emblematici del Paese.
« Quasi 16milioni alle urne, altro che referendum bufala. La rabbia dei No Trivdella Lucania, unica regione in cui è stato raggiunto il quorum.Scoperchiato il vaso di Pandora delle concessioni scadute: ilministero sapeva. Arriva una nuova richiesta di moratoria. In attesache la Ue apra un procedimento d’infrazione». Il manifesto, 19aprile 2016 (c.m.c.)
I no oil rilanciano. E per Renzi – è quasi una promessa quella che viene fatta il giorno dopo il referendum – saranno seccature grosse. Se il premier pensava che, dopo il voto, il fastidioso refrain del «no alle piattaforme offshore», si sarebbe esaurito, beh, si sbagliava. Perché «il referendum bufala», come lui l’ha definito, in realtà per gli ambientalisti, per tante organizzazioni e associazioni è servito come spinta a proseguire la battaglia contro l’assalto delle compagnie del petrolio alle coste, e non solo, del Belpaese.
«Il quorum – dice il Coordinamento nazionale No Triv all’indomani della consultazione popolare che ha portato alle urne 15.806.788 cittadini su 50.675.406 aventi diritto (31,19%) – non è stato raggiunto a causa dei reiterati attacchi del governo alla democrazia. Inoltre lo smantellamento progressivo dei diritti, il dilagare della precarietà e della disoccupazione di massa, hanno incancrenito livelli inediti di sfiducia nello Stato, relegando alla chiusura in sé quasi il 50% della popolazione. Ancora più grave, in tale contesto, la scelta, contra legem, di un presidente del Consiglio e di un ex presidente della Repubblica, di invitare all’astensione. Ma il referendum – viene aggiunto – non è mai stato un punto di arrivo: è una tappa di percorso, perché la nostra battaglia contro le lobby delle fossili continua».
A rintuzzare l’attacco Enzo Di Salvatore, costituzionalista, autore dei quesiti referendari. Che spiega, al di là delle cifre, l’utilità dell’iniziativa referendaria: «Innanzitutto la Strategia energetica nazionale, avviata da Monti, ha subito modifiche. La questione delle trivelle e della necessità delle rinnovabili pulite è entrata nelle case degli italiani, ha mobilitato i territori – mentre prima questi temi erano relegati alle aule universitarie – e ha conquistato uno spazio centrale nel dibattito politico. Ventisette procedimenti per il rilascio di nuove concessioni in mare sono stati chiusi e alcune compagnie petrolifere, come Shell e Petroceltic, hanno rinunciato a permessi già ottenuti. In Abruzzo è stato bloccato il progetto “Ombrina Mare” sulla Costa dei Trabocchi».
Ancora. È stato scoperchiato il vaso di Pandora delle concessioni scadute in Adriatico, di cui il ministero dello Sviluppo economico sapeva, e rispetto alle quali ha lasciato che l’attività estrattiva «andasse avanti in spregio alla legge». «Io – tuona Di Salvatore – non mi posso permettere di andare i giro con l’assicurazione o la patente scaduta perché scattano sanzioni. Mentre i petrolieri, con le autorizzazioni scadute e non rinnovate – qualcuna addirittura dal 2009 – continuano a tirar fuori idrocarburi». Tutti adesso – viene inoltre sottolineato – «sanno che non c’è da fidarsi dei controlli che vengono fatti e che il ministero dell’Ambiente ignora (come nel caso della piattaforma Basil), lasciando che le multinazionali avvelenino il nostro mare».
«La battaglia contro le trivelle – prosegue Di Salvatore – riparte con più forza: innanzitutto con la messa in mora del Mise rispetto alle concessioni scadute prima del 31 dicembre 2015, che dovranno cessare la loro attività immediatamente e, in seconda battuta, con una nuova richiesta di moratoria delle attività estrattive, sull’esempio di Francia e Croazia». In ballo poi c’è anche l’interrogazione dell’europarlamentare Barbara Spinelli (gruppo Gue/Ngl) che ha chiesto alla Commissione europea se non ritenga di aprire una procedura di infrazione per violazione delle regole sulla concorrenza in merito alla durata delle concessioni fino a esaurimento dei pozzi. «Invitiamo tutti a non abbassare la guardia e a non farsi abbindolare da frasi barzelletta su posti di lavoro e cali sulla bolletta».
Durissimi i No Triv della Lucania, l’unica regione in cui il quorum è stato raggiunto. In un documento attaccano il «governo burattino delle lobby del petrolio che, stando alle inchieste dei carabinieri del Noe e della Direzione nazionale antimafia in atto in Basilicata, mostra di ora in ora la sua vera natura di comitato d’affari. Numeri alla mano, – sottolineano – questo referendum mette definitivamente in minoranza le pulsioni petrolifere del presidente renziano Pittella, che deve smetterla di blaterare di “limite invalicabile” dei 154mila barili giornalieri, ben sapendo che sta chiedendo il raddoppio estrattivo di fatto, in una realtà che ha già dato troppo, in termini di salute, di esodo, di sacrificio della propria autonomia decisionale, economica e democratica! Chiederemo i dovuti e necessari accertamenti sulla situazione delle falde acquifere dopo un secolo di attività estrattive in Basilicata; sulla situazione dei pozzi chiusi, incidentati, abbandonati».
È rabbia pura nel posto d’Italia dove i due terzi del territorio sono stati «sacrificati alle multinazionali del fossile e alle casse del fisco come hub energetico”» Insomma i «4 comitatini» (come li ha definiti Renzi) si sono organizzati…

La cronaca del voto. Il Fatto Quotidiano online, 18 aprile 2016. (p.d.)
Il referendum sulla durata delle concessioni alle trivelle non è valido. Alle urne si è presentato il 32,15 per cento degli elettori aventi diritto, che scende al 31,18 se si tiene conto del (non) voto degli italiani residenti all’estero. In totale si tratta di 15 milioni e 806.788 elettori. I sì sono la maggioranza conl’85,84 delle preferenze (contro il 14,16 dei no), ma l’esito della consultazione non sarà tenuto in considerazione. Solo la Basilicata supera la soglia minima del 50 per cento, segno che ha l’inchiesta sul petrolio ha pesato nelle decisioni degli elettori, anche se non tutte le zone interessate dalla presenza di impianti hanno reagito allo stesso modo (basti pensare al 28,58 di affluenza di Ravenna). Alle 19 aveva votato il 23,5 degli aventi diritto, mentre alle 12 l’8,35.
Hanno votato le più alte cariche dello Stato: in mattinata si sono presentati alle urne i presidenti di Camera e Senato, solo alla sera – intorno alle 20,40 – il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Tra gli altri esponenti politici si sono presentati ai seggi il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, il leader del M5s Beppe Grillo e l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Il Pd aveva dato indicazione di astenersi, ma non tutti gli esponenti hanno rispettato la direttiva. Ha votato il ministro dell’Interno Angelino Alfano, mentre non si è presentato al seggio Silvio Berlusconi.
Pochi minuti dopo la chiusura delle urne, il primo a commentare è stato il presidente del Consiglio Matteo Renzi con un discorso da Palazzo Chigi. E ha attaccato, senza citarlo, il governatore Pd della PugliaMichele Emiliano: “Ha perso chi voleva il voto per motivi personali”. Il presidente Pd, tra i sostenitori del referendum, aveva esultato dopo la prima rilevazione dell’affluenza alle 12 dicendo che “il quorum era un’impresa possibile”. Poi in serata, quando sembrava difficile ottenere il risultato, aveva detto: “Sono soddisfatto, hanno votato 11 milioni di elettori come quelli che hanno espresso la preferenza per il Pd alle scorse Europee. Il governo dovrà tenere conto che milioni di italiani hanno un’idea delle politiche energetiche diverse”. Della stessa opinioni i comitati No Triv che hanno commentato: “E’ già un risultato straordinario quello ottenuto”.
I problemi, al di là del risultato, riguarderanno i contraccolpi all’interno del Partito democratico in vista delle amministrative, ma anche del referendum confermativo sulle riforme costituzionali. Infatti molti esponenti del Pd hanno deciso di andare contro la linea di non andare al voto e nel pomeriggio le polemiche sono scoppiate su Twitter. Il deputato renziano Ernesto Carbone ha canzonato i sostenitori del referendum scrivendo: “Quorum? Ciaone”, ed è stato sommerso dalle critiche. Poco dopo c’è stato un botta e risposta tra Emiliano e il membro dello staff comunicazione di Renzi Francesco Nicodemo.
Superato il quorum in Basilicata e alle isole Tremiti
In Basilicata e alle Isole Tremiti il referendum ha raggiunto il quorum. Entrambe le realtà sono toccate da vicino dalla questione trivelle. Per le Isole Tremiti il pericolo sembra scongiurato vista la rinuncia della società Petroceltic che avrebbe dovuto estrarre idrocarburi al largo di San Domino, mentre nel territorio potentino c’è il Centro Oli di Viggiano al centro delle polemiche per l’inchiesta sul petrolio.
Il paragone con il 1999
L’unico confronto possibile è stato quello con il referendum sul sistema elettorale maggioritario dell’aprile 1999, perché anche in quel caso si è votato un solo giorno: alle 11 di quel giorno l’affluenza era del 6,7%. A fine giornata si arrivò al 49,58%. A un passo dal quorum. Più difficile il paragone con l’ultimo referendum che ha raggiunto il quorum, quello del 2011 su acqua, nucleare e legittimo impedimento: in quel caso si votava anche di lunedì.
Comitato No Triv: "Un successo"
Secondo il coordinatore nazionale del comitato “No Triv” e autore dei quesiti referendari Enzo Di Salvatore “è già un risultato straordinario”: “Su un tema cosi difficile”, ha detto all’agenzia Ansa, “e con poco tempo concesso per far dibattere paese, comunque vada a finire è già un risultato straordinario. Al di là di come finirà, sottraendo il 25% degli elettori che non va a votare calcolandolo sulle politiche, se si supera il 35% è un risultato straordinario, si può dire la maggioranza di quelli che vanno alle urne”. Per Di Salvatore va considerato anche che in passato “si è votato su due giorni e solo una volta in aprile. In questa occasione è stata una campagna breve, e organizzarsi difficile, ma quello che abbiamo fatto in due mesi e mezzo è stato strepitoso”.
PD spaccato, lite su Twitter. Carbone: "Quorum? Ciaone"
Il partito resta profondamente spaccato e i dirigenti Pd non hanno perso occasione di scontrarsi sui social network a urne ancora aperte. A far discutere il tweet del deputato renziano Ernesto Carbone che ha lanciato l’hashtag #ciaone per canzonare i sostenitori del referendum: “Prima dicevano quorum”, ha scritto, “Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l’importante è partecipare”.
Lite su Twitter anche tra il presidente Emiliano e il membro dello staff comunicazione di RenziFrancesco Nicodemo. A provocarlo quest’ultimo che gli ha scritto: “Nonostante i retweet alla gente che odia il Pd, il quorum è lontano. E mo’?”. Il governatore della Puglia ha risposto: “Stanno andando a votare milioni di italiani, non far perdere altri voti al Pd che avete già fatto un danno enorme”. E infine la controreplica di Nicodemo: “Hai attaccato il tuo segretario e il tuo partito. E questo è il risultato. Non ho altro da aggiungere”.
Comitato per il SI denuncia "anomalie" ai seggi
Il Comitato “Vota Sì per fermare le trivelle” ha raccolto numerose segnalazioni da parte di cittadini che denunciano ostacoli nell’esercizio del voto. In particolare a Roma “alcuni cittadini hanno denunciato di aver trovato sbarrato il seggio dove erano soliti votare come nel caso di Via della Magliana 296, senza aver avuto preventiva informazione dell’accorpamento del seggio da parte del Municipio di competenza”. In alcuni seggi starebbero conteggiando, tra i votanti, anche minorenni che non hanno diritto al voto. Grazie a scrutatori attenti, dicono dal Comitato, “è stato possibile riconteggiare correttamente i votanti ai fini del quorum”. Nel pomeriggio il Comitato ha segnalato anche che nei seggi 1719, 1720, 1721 del quartiere Prati (Roma), “l’urna è stata consegnata dopo le ore 8 a più di un’ora dall’apertura. La stessa cosa è accaduta presso laScuola Cairoli per i seggi 1765, 1766, 1767″. Il Comitato ha inoltre denunciato che “a studenti rappresentati di lista è stato vietato di votare perché le deleghe non sono state trasmesse dal comune di Roma”.
Lo scrittore No Tav: « l’Italia reagisce già producendo nuova energia pulita, il premier è spaventato da qualunque dissenso. Domani qualcuno canterà: ’Quorum ingrato’, spero che sia lui». Il manifesto
, 17 aprile 2016 (c.m.c.)
Intervista a Erri De Luca
Lo scrittore Erri De Luca è tra i firmatari dell’appello «Ferma le trivelle, Vota Sì» promosso, tra gli altri, dal Coordinamento nazionale No Triv, Referendum 2016 Trivelle in Mare, Slow Food, Legambiente. Nel video diffuso in rete spiega: «Affolliamo di sì le urne per non svendere il mare nostro e per conservare il reddito della bellezza». Un impegno che prosegue la battaglia contro la Tav, per cui ha subito un processo da cui è uscito assolto a ottobre 2015. Dallo sventrare montagne e territori a perforare i fondali senza limiti di tempo, nei governi italiani sembra esserci continuità.
Legambiente ha disegnato la mappa delle inchieste italiane nel settore idrocarburi: tra gli esempi, l’accusa di smaltimento illegale delle acque provenienti dalle lavorazioni petrolifere al «Centro Oli di Viggiano di proprietà dell’Eni; la questione della piattaforma Vega A al largo delle coste siciliane di Pozzallo della Edison; lo scossone giudiziario che nel 2008 ha coinvolto il gruppo Total per un’inchiesta della procura di Potenza per tangenti sugli appalti per l’estrazione del petrolio in Basilicata».
La ministra Guidi ha dato le dimissioni per l’inchiesta Tempa Rossa ma Renzi rivendica le norme varate dal governo. L’azione dell’esecutivo sembra imbastita sulle lobby.
Come per la fasulla alta velocità in Val di Susa, spacciano vocabolario falso, dichiarano strategiche opere di perfetto spreco delle risorse pubbliche, si intascano tangenti a tutti i livelli di intermediazione: voglio credere che questo referendum dichiari l’Italia fuori della disponibilità di questo curatore fallimentare.
Renzi ha schierato governo e maggioranza Pd per l’astensione. Molti presidenti di regione si tengono lontani dal voto. L’ex presidente Napolitano è intervenuto per bollare la consultazione come «pretestuosa». Perché il quesito preoccupa il governo?
Il governo è preoccupato da qualunque dissenso. In Parlamento se la cava con l’aiuto di tutti quelli che vogliono far durare la legislatura fino all’ultimo spicciolo di stipendio, fuori di lì annaspa. Il referendum di oggi non è necessariamente un voto anti governo, ma l’istigazione a non votare, per sabotare il quorum, lo ha trasformato in un pronunciamento di più vasta portata. Ora il governo è spaventato dal quorum, cioè dai cittadini. Domani qualcuno canterà: «Quorum ingrato», spero che sia lui.
L’informazione mainstream sembra aver sposato la linea del governo. L’opposizione al premier, soprattutto se viene da comitati e movimenti, spesso viene liquidata o oscurata.
L’informazione? Non posso chiamare così il servizio stampa governativo che domina a reti unificate, con giornalieri al seguito. Godiamo ufficialmente della minore libertà di stampa di Europa. Il referendum è un buon assaggio per sapere se possiamo fare a meno dei loro notiziari drogati, se possiamo informarci e avere voce senza di loro.
Estrarre petrolio e gas a costo di rovinare mare, aree paesaggistiche e agricole più la salute dei cittadini, agevolando le compagnie petrolifere, è l’unica via che abbiamo?
E’ l’unica via, anzi l’unico vicolo cieco che vedono loro, la svendita più facile e al ribasso delle nostre coste, della economia di paese, di mare, della nostra salute disprezzata come mai prima nella storia moderna. L’Italia reagisce già producendo nuova energia pulita, scegliendo di dipendere dal sole e dal vento, non dalle trivelle che concedono quel rimasuglio di greggio a petrolieri in via di esaurimento energetico e nervoso.
Matteo Renzi racconta che il referendum «è una bufala». Non dice che il referendum impedirà ulteriori ampliamenti. Mette sul tavolo i posti di lavoro che si perderebbero ma sorvola sul reddito medio in Basilicata: il Texas italiano è tra le regioni più povere del paese.
Ben detto, ma grida vendetta il guasto dell’Eni a Viggiano. Un giorno saranno chiamati a rispondere di crimini di guerra in tempo di pace contro la popolazione civile.

«Far vincere il “Sì”, ossia chiedere lo stop dello sfruttamento dei giacimenti ad infinitum (come pretende la norma della legge di stabilità di cui si chiede l’abolizione), significa innanzi tutto reclamare il nostro diritto di cittadini che non ci stanno a diventare sudditi». Micromega, aprile 2016
Che un presidente del Consiglio dei ministri, davanti a un evento istituzionale, previsto (ancora!) dalla Costituzione, inviti i cittadini a non recarsi alle urne, è fatto grave, che mostra la lontananza del soggetto in questione dalla stessa dinamica del sistema democratico. Che un ex presidente della Repubblica, che in realtà, più di qualsiasi altro suo predecessore, ha svolto un ruolo direttamente politico, legittimi l’astensione dal voto – non l’astensione nel senso della scheda bianca, ma l’astensione dall’andare a votare, cosa che ha un significato e un effetto politico preciso – appare gravissimo. Mi riferisco naturalmente al referendum detto “sulle trivelle”, sottovalutato a torto da non pochi esponenti del mondo culturale di orientamento progressista (se questa parola ha ancora un senso).
Un referendum oggetto di una disinformazione paurosa (al programma tv Agorà su RaiTre il conduttore, Gerardo Greco, è riuscito a dire: “il referendum si terrà in otto regioni” e alla replica giustamente stizzita del presidente della Regione Puglia, Emiliano, ha corretto: “Sì, ma interessa solo otto regioni…”), e soprattutto di un boicottaggio mediatico e politico che ricorda quello famoso su cui Bettino Craxi, che aveva invitato ad andare al mare, subì una bruciante sconfitta. Ebbene, non soltanto occorre augurarsi che lo stesso effetto abbia la spocchiosa dichiarazione di Matteo Renzi e il paludato assist di Giorgio Napolitano, occorre anche e soprattutto mobilitare ogni forza negli ultimi giorni che precedono il voto del 17 aprile.
Occorre ricordare a tutti gli italiani e le italiane innanzi tutto che questo voto ha in primo luogo un valore pratico enorme, a dispetto di chi lo minimizza per disinformazione o per malafede: difendere l’ambiente, e in specie quello marino, dai signori del petrolio, costituisce un’opzione non negoziabile.
In secondo luogo, il referendum ha un valore simbolico-culturale: bisogna far comprendere che sul tema ambientale si giocherà innanzi tutto il futuro non solo italiano, o europeo, ma del globo terracqueo.
In terzo luogo (last, but not least) il referendum ha e avrà un peso direttamente politico, proprio per la arrogante linea “governativa”, da Renzi (e suoi scherani, dalla Serracchiani a Orfini e via seguitando) a Napolitano (e la pletora di commentatori che si inchina al vecchio ma loquacissimo “re Giorgio").
Si deve ricordare, innanzi tutto che la scelta di indire una giornata di voto distinta dalle elezioni amministrative, facendo ricadere sulla collettività un costo ragguardevole (300 mila euro) che si poteva e si doveva evitare, e soprattutto usando poi come argomento contrario al referendum, proprio il suo costo. Un esempio agghiacciante di cinismo e menzogna.
Si deve poi e soprattutto riflettere sul fatto che questo referendum non è che l’antipasto della “campagna d’autunno”, ossia quella volta a procacciare intorno alla infame “riforma costituzionale” Renzi-Boschi-Napolitano un consenso che si cerca di raggiungere minacciando la madre di tutte le crisi, se non vi fosse l’approvazione popolare.
Sono anni che la politologia all’unisono con gran parte del commento giornalistico parla di “ritorno della piazza”, sia constatando un fatto, la ripresa di movimenti di popolo, dal basso, determinata dalla crisi della democrazia rappresentativa, sia, talora, variamente auspicando o persino sostenendo l’agorà, la democrazia diretta, contro le assemblee elettive, sempre più delegittimate dalla vox populi, e dalle inchieste giudiziarie.
Ebbene, il referendum costituisce un meraviglioso punto d’incrocio fra l’azione diretta dei cittadini, la politica dal basso, da un lato, e le istituzioni dall’altro. Non a caso nel progetto costituzionale si prevede di rendere il referendum uno strumento quasi irraggiungibile, perché il potere lo teme. Anche se poi, come accaduto con quello sull’acqua pubblica, fa di tutto semplicemente per disattenderlo, contando che prima o poi, sulla volontà espressa dai cittadini cada un velo di polvere, e si possa procedere del tutto prescindendo da essa.
Rendendo il referendum più difficile, al limite dell’impossibile, il potere si premunisce. D’ora in avanti, se passerà la “riforma” costituzionale, non dovrà più temerli. E noi? Noi cittadini, che faremo? Rimarremo inerti ad aspettare che ci strappino una delle poche armi che la Costituzione repubblicana ci ha donato?
Anche e forse soprattutto per codeste ragioni questo referendum apparentemente limitato nell’oggetto, ha un valore straordinario. Far vincere il “Sì”, ossia chiedere lo stop delle trivellazioni in mare, ossia dello sfruttamento dei giacimenti ad infinitum (come pretende la norma della legge di stabilità di cui si chiede l’abolizione), significa innanzi tutto reclamare il nostro diritto di cittadini che non ci stanno a diventare sudditi. Far vincere il “Sì” oggi significa porre una prima pietra, importante, sulla strada che ci dovrà condurre al “No” alla pretesa “riforma” costituzionale, domani.
Significa dunque la speranza di un cambio di pagina politica di cui il Paese ha bisogno urgente: se al contrario dovesse fallire questo referendum, la prospettiva per il successivo, diverrebbe certamente meno favorevole, per chi ritiene che Matteo Renzi, con Giorgio Napolitano alle spalle, costituisca un pericolo per la vita democratica, per lo Stato sociale, e per quel che rimane della sinistra in Italia.

«Lo studio di "Cittadini per l'aria" con i dati dello European Environment Bureau: "Cambiare le politiche". E l'Italia ha fatto pressione sui Paesi europei per abbassare i limiti. Ora però incombe la procedura d'infrazione sulla questione Pm10.» Il Fatto Quotidiano online, 15 aprile 2016 (p.d.)
Ogni anno in Italia l'inquinamento dell'aria provoca 35mila morti premature. E in Europa nessuno sta peggio di noi. Lo dice uno studio finanziato dal ministero della Salute che sottolinea anche un altro dato: rispettando i limiti di legge, nel 2015 si sarebbero potute salvare 11mila vite. A uccidere sono le micropolveri sottili, il biossido di azoto, l’ozono, ma anche quei gas che contribuiscono alla loro formazione (come ammoniaca e metano). Cosa si sta facendo, allora, per abbattere le emissioni? C'è chi ritiene che l'Italia stia giocando al ribasso la partita in corso a livello europeo. A fine febbraio l'associazione Cittadini per l’Aria ha lanciato un allarme sulla base dei dati forniti dallo European Environment Bureau: “Se il governo non modifica la sua ‘politica’ entro il 2030 in Italia ci saranno 15mila morti premature in più causate dallo smog”.
E se gli ambientalisti accusano le istituzioni di aver "abbassato il livello di ambizione", dal ministero delle Politiche agricole ricordano quanto fatto finora: "Con le Regioni sono stati stanziati 2 miliardi di euro a sostegno di pratiche agronomiche a basso impatto ambientale e nella legge di stabilità c'è un fondo da 45 milioni per il rinnovo delle macchine agricole, che devono essere più sicure e meno inquinanti". L’unica certezza è che ci sono molti interessi in gioco: dalle lobby delle industrie ai vari settori, compreso quello agricolo. Perché è da questo settore, per esempio, che proviene oltre il 90 per cento dell’ammoniaca emessa in atmosfera. Sotto accusa anche gli allevamenti intensivi. Nel frattempo, però, l'Italia continua ad accumulare record negativi e, proprio a causa dello smog, rischia una multa di un miliardo di euro.
La denuncia: nel 2030 15mila morti premature in più
L'allarme lanciato da Cittadini per l’Aria sulle morti premature parla di 15mila decessi, oltre ai 650mila già previsti dalla Commissione europea. Questa proiezione è stata ottenuta comparando alcuni dati, tra cui il tasso di mortalità (obiettivo per il 2030) stabilito dalla Unione europea e i dati pubblicati a fine 2015 dall'Agenzia per l’ambiente europea, dai quali risulta che l'Italia è il Paese dell'Unione con più morti premature. Nel 2012 sono stati 84.400, su un totale di 491mila a livello europeo. Ma in media l'inquinamento accorcia la vita di ciascun italiano di 10 mesi: 14 per chi vive al Nord, 6,6 al Centro e 5,7 al Sud e nelle isole. I risultati del progetto Viias, finanziato dal Centro controllo malattie del ministero della Salute, rivelano che in Italia 30mila decessi all'anno sono causati solo dal cosiddetto "particolato fine".
La direttiva Nec
Secondo la onlus all'Italia una via d’uscita la offre la negoziazione in corso da mesi tra Consiglio, Parlamento e Commissione sulla Direttiva Nec (National Emission Ceilings), normativa che riguarda i nuovi limiti nazionali delle emissioni dal 2020 fino al 2030 con cui l'Ue intende inasprire la lotta all'inquinamento. La trattativa va avanti, ma nel frattempo sono già accadute un po' di cose. Il Consiglio europeo dei ministri dell'Ambiente ha "alleggerito" la revisione della direttiva approvata dal Parlamento europeo il 28 ottobre. La maggioranza qualificata di 24 Paesi membri (tra cui l’Italia) ha abbassato i nuovi limiti di emissioni. Si parla di anidride solforosa, ossidi di azoto, composti organici volatili non metanici, micro polveri sottili (Pm 2.5), ammoniaca e metano, questi ultimi due precursori dell'ozono e delle micro-polveri. "Nel documento adottato – spiega la onlus – sono scritte nero su bianco le percentuali: per il 2030 vanno ridotte del 40 per cento (rispetto al 2005) le emissioni di Pm2.5, del 71 quelle di anidride solforosa, del 65 quelle di ossido di azoto".
Il pressing italiano
Per arrivare a questi limiti si è dovuto fare i conti con le esigenze dei singoli Paesi e dei vari settori. Dai trasporti all'agricoltura, dalla quale dipende il 90 per cento delle emissioni di ammoniaca. Non è un caso se il valore massimo per questo composto è stato fornito direttamente dal ministero delle Politiche agricole. E ancora: l'industria della carne produce il 65 per cento del protossido d'azoto emesso in atmosfera e il 44 per cento del metano. Questi gas contribuiscono alla formazione di micro polveri e ozono. Eppure nel testo adottato dai Paesi europei non c'è più traccia dell’obiettivo di riduzione per il metano, mentre l'Italia ha fatto pressione per abbassare la percentuale per l'ammoniaca dal 22 al 14 per cento. È sceso di 10 punti percentuali anche l'obiettivo per il Pm 2,5. "Il governo ha ridotto il livello di ambizione delle politiche italiane per i prossimi 15 anni" spiega Anna Gerometta, presidente di "Cittadini per l’aria". Di più: insieme ad altri Paesi, "anche l'Italia ha spinto affinché fossero introdotti dei "meccanismi di flessibilità" legati a situazioni straordinarie (vedi estati particolarmente siccitose o inverni molto freddi)" e proroghe per un inquinante in caso di risultati migliori per un altro.
I ministeri: "In Europa siglato un buon accordo"
I rappresentanti del ministero dell'Ambiente che si occupano di Affari europei ritengono che quello raggiunto in Consiglio sia "un buon accordo, perché coniuga un elevato livello di ambizione con la raggiungibilità degli obiettivi", senza posizioni oltranziste "come quelle riscontrate in alcuni settori del Parlamento, che rischierebbero di ottenere un effetto opposto". Il riferimento è a possibili infrazioni in mancanza di un accordo.
La denuncia degli ambientalisti si scontra, inevitabilmente, con gli interessi sì delle lobby, ma anche con le preoccupazione dei vari settori. In primis, quello dell’agricoltura. La stessa Coldiretti ha più volte sollecitato i ministeri dell'Ambiente e delle Politiche agricole a tenere conto di "possibili ripercussioni sul settore zootecnico derivanti dall'adozione di limiti eccessivamente restrittivi". Il Copa Cogeca (Comitato delle organizzazioni professionali agricole e della cooperazione agricola dell'Ue) ha invece ricordato che "le emissioni di ammoniaca in Italia, nel settore agricolo, sono calate del 25 per cento dal 1990 al 2009, particolarmente nell'allevamento avicolo". E il ministero delle Politiche agricole fornisce altri dati: "L’agricoltura italiana ha il 36% di emissioni di gas serra in meno rispetto alla media europea e abbiamo abbattuto del 45% l’utilizzo dei pesticidi nei campi negli ultimi 10 anni".
Nuova procedura d'infrazione: rischio multa da un miliardo
Da Bruxelles, intanto, arrivano brutte notizie. L'Italia rischia una multa di un miliardo di euro a causa dello smog. Le soglie per la concentrazione di Pm10 sono state abbondantemente superate in tutta la Pianura Padana (Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia e Veneto), a Roma e a Napoli, ma anche in altre aree. Il primo richiamo della Commissione europea era arrivato a luglio 2014, ma da allora non è stato fatto abbastanza e ora, a distanza di un anno e mezzo, secondo fonti della stessa Commissione, l'esecutivo comunitario sarebbe pronto a inviare all'Italia un parere motivato, passando così alla seconda fase della procedura di infrazione. Che solitamente anticipa il ricorso alla Corte di Giustizia europea. Non è la prima volta per l'Italia, che già nel 2012 si è vista comminare una sanzione per aver oltrepassato i limiti di Pm10 in 55 zone tra il 2006 e il 2007. E può andare peggio.
«Il significato del voto in occasione di questo particolare referendum, assume una valenza di particolare rilievo etico. Andando a votare in massa, noi dichiariamo che il bene comune è superiore a qualsivoglia ambizione di chi governa». Il manifesto
, 16 aprile 2016 (c.m.c.)
Il referendum di domani, al di là del suo portato specifico, rivela, l’esistenza di due opposte concezioni del mondo, della politica e, in ultima analisi, del senso del vivere nel nostro Paese ma anche oltre i nostri confini. Buon ultimo, il governo Renzi, coerente con i precedenti esecutivi e in ossequienza a tutti coloro che esso rappresenta, – ovvero i grandi interessi industriali e finanziari – è allergico già in prima istanza, a misurarsi con l’espressione diretta della volontà popolare.
Non tragga in inganno il referendum inevitabile sulla “deforma” costituzionale; Renzi non lo vive per ciò che dovrebbe essere, un confronto con la volontà popolare, ma come la proiezione plebiscitaria sulla sua personale narcisistica leadership. Sulle questioni strategiche che attengono praticamente e simbolicamente al futuro delle persone e alla qualità della loro esistenza, ritiene che esprimersi direttamente sia una perdita di tempo. Davvero una singolare idea del valore della democrazia diretta, ma Renzi e i suoi hanno sposato a monte un’ideologia che si fonda esclusivamente sugli interessi dei potentati di ogni settore delle attività economico finanziarie.
L’azione legislativa e la sua comunicazione, si iscrivono in una visione frusta e consunta del modo di governare una società che fa leva sulle presunte ragioni della millantata creazione e/o conservazione di posti di lavoro, come se la prosperità economica potesse essere pensata solo a senso unico. Lo scopo di questa ideologia è quello di fare apparire le alternative all’economia del privilegio come chimere o, peggio, come il frutto di un conservatorismo deteriore nemico dello sviluppo ipercapitalistico dichiarato assiomaticamente come l’unica via possibile, l’unica soluzione virtuosa. Tutto lo sforzo di coloro che si oppongono al confronto sul merito del referendum è di screditarne il valore, di screditare quei cittadini che, con passione civile e non per servire interessi precostituiti e favoriti per titolarità a priori, vogliono il referendum per fare sentire la propria voce.
Qual è la richiesta dei cittadini sostenitori dell’opzione referendaria? Essi chiedono che per ogni decisione che attiene alla salute degli esseri umani e dell’ambiente, sulle questioni che attengono al rapporto fra scelte economiche e qualità della vita, sia garantita la loro partecipazione attiva. Il malcelato sentimento di sufficienza, quando non di disprezzo nei confronti di chi si schiera con impegno per il voto, la dice lunga su come pensano il confronto sui grandi temi coloro che invitano i cittadini italiani a disertare le urne per sabotare il raggiungimento del quorum.
La democrazia che vogliono è quella dei governi non eletti, o dei governi eletti da elezioni formali, esito di una routine di cui si è perso il senso, visto che la classe politica è sempre più lontana dagli elettori e sempre più impegnata in un’autoperpetuazione svuotata di significato. Colpisce e sconcerta qualunque cittadino si sia formato attraverso l’insuperato ammaestramento della nostra mirabile Costituzione, la protervia con cui un presidente del consiglio che ha ricevuto la fiducia da un parlamento delegittimato per essere stato invece eletto con una legge vergognosa definita dal suo stesso estensore una porcata, invita alla diserzione dall’atto di massima espressione di una democrazia autentica.
Il significato del voto in occasione di questo particolare referendum, assume una valenza di particolare rilievo etico. Andando a votare in massa, noi dichiariamo che sono i cittadini a decidere l’ordine delle priorità, che il bene comune è superiore a qualsivoglia ambizione di chi governa, che la volontà dei cittadini partecipanti si oppone all’improntitudine di chi la considera irrilevante. Dichiariamo che noi non siamo i sudditi degli interessi di pochi potentati, che le migliori scelte economiche sono quelle che si rivolgono alle opportunità offerte da uno sviluppo economico fondato sul benessere delle persone e la salute del pianeta, a fortiori oggi dopo la conferenza sul clima di Parigi che, pur con tutti i suoi limiti, ha affermato l’urgenza della questione ecologica.
Il decisionista di Rignano sull’Arno ci vuole far credere che lui ritiene inutile questo specifico referendum, ma non è così. Non è difficile intuire cosa il Matteo nazionale pensi per esempio del referendum sull’acqua pubblica che vide una travolgente partecipazione degli italiani che, quasi unanimemente chiesero che l’acqua fosse bene pubblico. È in questa direzione che intende andare il governo? Neanche per sogno. Quindi non è difficile intuire che per il nostro presidente del consiglio la partecipazione attiva e diretta dei cittadini sia solo un fastidioso ingombro ed è allarmante constatare che lo stesso pensiero sprezzante animi il nostro ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
C’è seriamente da chiedersi: ma noi italiani, per oltre un settennato abbiamo avuto un Presidente della Repubblica super partes o un ottimizzatore di governi con legittimità a scartamento ridotto?
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«Se non si raggiunge il quorum si manda un pessimo segnale a chi ci ha creduto e si è speso per utilizzare questo che rimane uno dei pochi strumenti di democrazia reale, oltre naturalmente a rafforzare il governo Renzi nella sua deriva autoritaria». Il manifesto, 15 aprile 2016 (c.m.c.)
Ho discusso in queste ultime settimane con i miei studenti della specialistica e mi sono accorto che sul referendum del 17 Aprile regna una grande confusione, grazie all’azione diseducativa svolta dalla gran parte dei mass media. Rispetto al referendum sull’acqua pubblica ci troviamo in una situazione di svantaggio.
In primis, non è così chiaro e dirompente il tema che si affronta: non si bloccano le trivellazioni in generale ma solo le future concessioni e solo nell’area marina di pertinenza del demanio. Per la maggioranza della popolazione la questione delle trivellazioni marittime è molto specifica, tecnica, non affronta un tema universale come quello dell’acqua “bene comune”. Non ha la sua forza evocativa, né la sua carica emozionale: sembra un problema che riguarda solo gli addetti ai lavori o le popolazioni che vivono lungo le coste dell’Adriatico e dello Jonio.
Teniamo presente, inoltre, che portiamo sulle spalle l’onta della non applicazione al livello locale (con qualche lodevole eccezione come Napoli) del risultato del referendum del giugno del 2011 che portò 26 milioni di cittadini alle urne. Questo fatto ha prodotto, bisogna riconoscerlo, una sorta di sfiducia generalizzata sull’efficacia di questo tipo di consultazione. Infine, anche se pochi se ne sono accorti, non c’è stata la mobilitazione del M5S che sul referendum sull’acqua “bene comune” si era speso in tutte le aree del nostro paese, con un impegno capillare, costante, incisivo.
Per tutte queste ragioni siamo in tanti ad essere preoccupati per il non raggiungimento del quorum. Sarebbe una iattura. Questo referendum, infatti, ha una valenza simbolica di grande rilevanza. Se non si raggiunge il quorum si manda un pessimo segnale a chi ci ha creduto e si è speso per utilizzare questo che rimane uno dei pochi strumenti di democrazia reale, oltre naturalmente a rafforzare il governo Renzi nella sua deriva autoritaria.
Se non raggiungiamo il quorum rafforziamo la lobby petrolifera che si convincerà che non ha più ostacoli in questo paese, che può pensare tranquillamente ad altri programmi di trivellazione anche sulla terraferma. Sicuramente gioirebbe il presidente del Consiglio che potrebbe cogliere questo risultato come un buon auspicio, una sorta di prova generale del più impegnativo referendum confermativo di ottobre. Anche se non sarà stato lui a convincere gli italiani a non andare a votare potrebbe facilmente intestarsi il successo.
Per questo vale la pena spendere questi ultimi giorni ed ore per convincere gli indecisi ad andare a votare. Non necessariamente a votare Si, ma ad andare a votare comunque per non farsi togliere, svilire, uno strumento fondamentale per la democrazia.
Il Capo comincia a temere d'essersi sbilanciato troppo. Anche Franceschini e Madia non voteranno. Laura Boldrini invece si: «è un dovere per tutti». Intanto si scopre che le concessioni erano illegittimeArticoli di Andrea Colombo e Serena Giannico. Il manifesto, 15 aprile 2016
REFERENDUM. ORA RENZI TEME
IL PASSo FALSO
di Andrea Colombo
Il premier preoccupato: la sua sovraesposizione con l’invito all’astensione a rischio boomerang. Anche i ministri Franceschini e Madia annunciano che si terranno lontani dalle urne. La presidente della camera Laura Boldrini: «Non votare è la conferma del disamore per la politica»
Il Tar del Lazio ha respinto i ricorsi del Codacons e dei radicali sulla scelta di fissare il referendum in data diversa da quella delle elezioni comunali. Il voto sulle trivelle resta convocato per domenica prossima. Poco male se lo scherzetto costerà 300 milioni. L’importante è evitare che i votanti superino il 50%, e non si badi a spese.
Nel quartier generale di Renzi sono contentoni. Ci voleva una notizia rassicurante, tanto più perché da quelle parti si è diffuso un tangibile nervosismo, la sensazione, condivisa dallo stesso capo, di aver sbagliato strategia. Gli ufficiali renziani ancora non temono il raggiungimento del quorum, che per il premier sarebbe disastroso, però danno per possibile l’afflusso del 40% di votanti: l’asticella che separa un risultato accettabile da una sconfitta politica secca, pur se non esiziale come sarebbe il superamento del quorum e la vittoria dei «sì». Anche perché, segnalano alcuni dei più vicini al capo, una percentuale alta di votanti renderebbe poi inevitabile il paragone con quanti voteranno nel referendum del prossimo ottobre, e se in quell’occasione la percentuale dovesse scemare, sarebbe imbarazzante.
Insomma, siamo alle previsioni metereologiche. I renziani contano su una domenica di caldo eccezionale, prevista dai nipotini del colonnello Bernacca, e si fregano le mani: saranno in tanti ad andarsene al mare. Spiano i sondaggi, che nei giorni roventi di Tempa rossa erano arrivati sulla soglia del fatidico 40% ma ora sono lievemente scesi. Si complimentano con se stessi per aver spostato con le cattive il voto sulle mozioni di sfiducia a martedì prossimo, dopo il referendum. Con il sottosegretario targato Pd Vito De Filippo, ex presidente della Basilicata, indagato per Tempa rossa, il dibattito sarebbe stato la miglior pubblicità possibile per il referendum. Ma la paura resta.
Lui, Renzi, non lo ammetterebbe mai apertamente, ma dicono che oggi consideri uno sbaglio l’essersi esposto tanto su quel referendum. Un po’ perché gli sarebbe stato facile lasciare libertà di voto tirandosi fuori dalla mischia, e molto perché proprio la sua discesa in campo spinge anche la destra verso le urne. Gli esponenti della Lega e di Fi annunciano voti diversificati: Brunetta per il no, la Brambilla per il sì e così via. Però molti andranno a votare non per le trivelle ma per Renzi, e se la scelta dovesse essere fatta anche da molti elettori di destra del nord, dove il problema trivelle è assai meno avvertito che nel sud, allora sì che sarebbe un guaio.
Inoltre, è stata sempre la sovraesposizione del premier a rendere la faccenda un caso istituzionale di rilievo. Ieri la presidente della Camera Laura Boldrini è tornata sull’argomento: «Andrò a votare perché ritengo che sia un dovere. Non andare a votare è la conferma del disamore per la politica e della disillusione». Per quanto il Pd ci voglia girare intorno, lo spettacolo dei quattro vertici istituzionali, il capo dello Stato, i presidenti delle camere e quello della Consulta, che vanno a votare mentre il premier e i suoi ministri di fiducia invitano all’astensione sarà giocoforza parecchio increscioso.
Ieri altri due ministri renziani di peso, Franceschini e Madia, hanno annunciato che domenica si terranno lontani dalle urne. La Boschi farà lo stesso, ma senza nemmeno avere il coraggio di dirlo apertamente come i colleghi in questione: «Seguirò le indicazioni del mio partito».
Il quale però è tanto spaccato da far sì che questo referendum sia anche una prova generale del prossimo, quello di ottobre sulla riforma costituzionale. L’area che domenica intende andare a votare, sia pure in modo differenziato, con Bersani per il «no» e Speranza impegnatissimo sul fronte opposto, è la stessa che non ha ancora sciolto la riserva sul voto autunnale, in attesa di una provvidenziale modifica dell’Italicum. Quella revisione non arriverà, Renzi lo ha garantito una volta di più proprio ieri. Ma se la minoranza voterà no al referendum sulla riforma costituzionale, tanto più in una prova che lo stesso Renzi ha trasformato in plebiscito su se stesso, la convivenza nello stesso partito diventerà impossibile.
«QUELLE TRIVELLAZIONI
ERANO ILLEGALI»
di Serena Giannico
Adriatico. 44 concessioni petrolifere sanate dall'allora ministra Guidi con la legge di stabilità. Accusa di Sel-Si
Quel comma salvaguai… «Nove delle 44 concessioni, oggetto del prossimo referendum, erano già scadute a fine 2015, alcune anche da vari mesi, altre da anni (una addirittura dal 2009). Ciononostante le compagnie petrolifere hanno continuato ad operare. Queste piattaforme sono nel mare di quattro regioni dell’Adriatico: Abruzzo, Marche, Veneto ed Emilia Romagna. L’ultima Legge di stabilità (nell’articolo 1, comma 239, che consente di protrarre la durata delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa ‘per la durata di vita utile del giacimento’, ndr) ha sanato queste irregolarità come si evince dal Bollettino degli idrocarburi del ministero dello Sviluppo economico della ministra Guidi, in data 31 dicembre 2015. Si è cioè sanato a posteriori l’illegalità, attraverso la modifica della disciplina della normativa sulla durata delle concessioni e legando questa alla vita utile del giacimento, con effetto retroattivo: un bel dono alle compagnie petrolifere! Ciò, ora, è oggetto del referendum del 17 aprile». Attacca così l’interrogazione a risposta scritta inoltrata al presidente del Consiglio dei ministri da Sel -Sinistra italiana.
A firmare l’atto il deputato Gianni Melilla. Alla vigilia del referendum antipetrolio salta fuori l’ennesimo scandalo legato alle trivelle. Ventiquattro piattaforme marine – tutte produttive – legate alle 44 concessioni che sono oggetto della prossima consultazione popolare hanno continuato a lavorare, anche per anni, senza avere la proroga necessaria. Con le autorizzazioni scadute. Altre 9 piattaforme, su 4 concessioni non produttive, sono rimaste in acqua senza titolo per farlo. Le aziende avevano fatto richiesta di proroga nei tempi stabiliti, ma il ministero dello Sviluppo economico non ha risposto. Le compagnie estrattive, a questo punto, avrebbero dovuto bloccarsi e aspettare le decisioni del Mise. Ma hanno proseguito con le estrazioni. E alla fine del 2015 è arrivata, magica, la Legge di stabilità che – sembrò strano e inspiegabile – ha legato le concessioni alla «durata di vita utile del giacimento». Le ha in sostanza prorogate ad oltranza. Senza limiti.
Un regalo alle multinazionali, e future scartoffie, e inadempienze, in meno per il Mise. «Fondato il sospetto – dice Melilla – che si sia voluto scongiurare l’ipotesi di un imminente smantellamento delle piattaforme, a costi elevati per le società». Eni in pole position, ma anche Edison. «Il fatto che sia arrivata la benevola sanatoria dal 1 gennaio 2016, con effetto retroattivo, rende ancora più evidente la opacità del comportamento del Mise e dei suoi uffici preposti all’esame delle autorizzazioni e delle proroghe alle compagnie petrolifere».
Al premier si chiede «quali iniziative intenda assumere per accertare la gravità dei fatti sopra denunciati e di rimuovere i responsabili di questo comportamento al fine di fare chiarezza e affermare l’interesse generale al risanamento ambientale e alla libera concorrenza del mercato». «Il governo deve rispondere al Paese per quanto è accaduto. Davanti a un fatto di tale gravità è doverosa la rimozione del responsabile della direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche, Franco Terlizzese», tuona Enrico Gagliano, del Coordinamento nazionale dei No Triv. Quel comma nelle Legge di stabilità? «Spuntato dal nulla, di cui nessuno ha voluto parlare. Serviva forse a rimettere in carreggiata le concessioni, quasi tutte targate Eni? E’ proprio su questo – evidenzia – che gli italiani sono chiamati a votare il 17 aprile. Sono chiamati a ristabilire una data di scadenza certa per la fine della concessione, come previsto anche dall’Unione Europea». Ma se non fosse raggiunto il quorum? «Sarebbe un omaggio alle società del greggio e del gas».
Norma sotto accusa, dunque. Della cui «sospetta illegittimità, poiché una durata a tempo indeterminato delle concessioni violerebbe le regole del diritto Ue sulla libera concorrenza», parla anche l’eurodeputata Barbara Spinelli (Gue/ngl) che, con un’interrogazione, fa giungere la questione trivelle – con annesso referendum – sui tavoli della Commissione europea. «Nonostante la Convenzione di Aarhus sia stata ratificata dall’Ue nel febbraio 2005 e recepita dall’Italia con decreto legislativo dell’agosto dello stesso anno – scrive – l’Italia non ha rispettato i propri obblighi, sanciti dalla stessa Convenzione, di consentire la partecipazione del pubblico al processo decisionale in materia ambientale». L’europarlamentare quindi chiede se, esaminati gli atti, «… si intenda promuovere una procedura di infrazione contro l’Italia e se, in ogni caso, si voglia esortare il governo italiano a modificare tale comma».
Referendum del 17 aprile «E’ necessario che tutti partecipino. Questa cosa ci riguarda perché è legata alla cura della “casa comune”, come papa Francesco definisce la terra nell’enciclica Laudato sì». La Repubblica, 14 aprile 2016 (c.m.c.)
Meno tre al referendum anti-trivelle, e nel fronte del Sì si alza ancora una volta la voce della Chiesa. «E’ necessario che tutti partecipino. Questa cosa ci riguarda perchè è legata alla cura della “casa comune”, come papa Francesco definisce la terra nell’enciclica Laudato sì» scrive la diocesi di Fano, nelle Marche, una delle regioni nel cui mare operano gli impianti di estrazione sottoposti alla consultazione. Il documento contiene un esplicito invito a votare Sì, «perchè il mercato non è in grado di difendere l’ambiente», oltre che a «modificare gli stili di vita».
Il caso di Fano è la traduzione in pratica della strada indicata dalla Cei: i vescovi parlino ai fedeli e li sensibilizzino. La parola-guida che in questi giorni muove il segretario della Cei Nunzio Galantino è «confrontarsi». E cioè «coinvolgere gli abitanti, chi di quel mare vive. Gli slogan non funzionano, bisogna creare spazi di incontro e confronto». I vescovi, in ogni caso, si sono espressi in maggioranza per il Sì.In questo senso va interpretata anche una pagina di Avvenire
che promuoveva inchieste sui luoghi interessati dall’effetto-trivelle.
Intanto il Tar ha respinto la richiesta di un election day per accorpare il referendum alle amministrative di giugno. I ricorsi contro la data del 17 aprile erano di Codacons e Radicali. La linea del governo è il non voto ed è stata ribadita ieri dalle ministre Maria Elena Boschi («Seguo le indicazioni») e Beatrice Lorenzin («Il non voto è una scelta politica»). Intenzionati a disertare le urne sono anche Dario Franceschini e Graziano Delrio.
Roberto Speranza, capo della corrente di minoranza del Pd Area riformista, si batte invece per il Sì: «L’astensione è un grave errore - scrive ai militanti -. Spero che il popolo del Pd corregga i dirigenti».
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Argomentate risposte alle riserve sollevate su quesiti importanti:l lavoro, l'indipendenza energtica, quella economica, il ruolo dello stato. E una domanda soprattutte: Dobbiamo dirigerci verso un futuro di maggiore spreco di risorsr irriproducibili, o dobbiamo finalmente risparmiarle? Internazionale.it, 12 aprile 2016 (m.p.r.)
Il referendum del 17 aprile riguarda l’estrazione di idrocarburi offshore entro le 12 miglia nautiche dalla costa. Dunque riguarda il futuro di 88 piattaforme oggi esistenti entro le 12 miglia, che fanno capo a 31 concessioni a “coltivare” (la coltivazione indica la zona dove una compagnia ha il permesso di estrarre gas o petrolio), oltre a quattro piattaforme relative a permessi di ricerca ora sospesi. Sono in buona parte nell’Adriatico, un po’ nello Ionio e nel mare di Sicilia, come si vede da questa mappa interattiva.
In questione c’è la durata delle concessioni. Il quesito infatti chiede di abrogare la norma, introdotta nella legge di stabilità entrata in vigore il 1 gennaio 2016, che permette di estendere una concessione “per la durata di vita utile del giacimento”, cioè per un tempo indefinito. Se vincerà il sì quella frase sarà cancellata. In tal caso torneremo semplicemente a quanto previsto in precedenza dalla normativa italiana e comunitaria: tutte le concessioni per lo sfruttamento di idrocarburi o di risorse minerarie, a terra o in mare, hanno durata di trent’anni, con possibilità di proroghe per altri complessivi venti.
In altre parole, sarà cancellata un’anomalia. In effetti è insolito che una risorsa dello stato, cioè pubblica, sia data in concessione senza limiti di tempo prestabiliti (ed è per questo che la corte costituzionale ha giudicato ammissibile il quesito). Tra l’altro, è un privilegio accordato alle sole concessioni entro la fascia di 12 miglia, non a quelle a terra o in mare più aperto.
Dunque, se vince il sì le piattaforme oggi in attività continueranno a lavorare fino alla scadenza della concessione (o dell’eventuale proroga già ottenuta), ma non oltre. Certo, in gioco c’è molto di di più. I sostenitori del sì rimandano alla politica energetica del paese, parlano di energie rinnovabili, di investimenti in efficienza energetica. Ma sono accusati di mettere a repentaglio attività economiche e posti di lavoro.
Il referendum è inutile?
Chi si oppone alla consultazione ricorda che la legge di stabilità 2016 ha già bloccato il rilascio di nuovi titoli (permessi) per estrarre idrocarburi entro le 12 miglia. La durata della concessione però non è irrilevante, e ha risvolti molto pratici. Infatti, il blocco di nuove concessioni non impedisce che all’interno di concessioni già esistenti siano perforati nuovi pozzi e costruite nuove piattaforme, se previsto dal programma di lavoro. Potrebbe essere il caso della concessione Vega, nel mar di Sicilia, dove l’Eni progetta da tempo una nuova piattaforma (Vega B) da aggiungere a quella oggi in esercizio (la concessione scade nel 2022).
Ancora più importante: prolungando la durata della concessione si rinvia il momento in cui le piattaforme obsolete vanno smantellate e rimosse. È un’operazione costosa che da contratto spetta alle aziende concessionarie insieme al ripristino ambientale, quindi la spesa dovrebbe essere già inclusa nei bilanci. “Sospetto che le compagnie petrolifere puntino anche a questo, a rinviare in modo indefinito il momento in cui dovranno smantellare piattaforme obsolete”, dice Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia.
Se vince il sì chiuderanno piattaforme operative e perderemo posti di lavoro?
È una delle obiezioni di chi è contrario al referendum. Ma si può confutare. Primo, la vittoria del sì non significa la chiusura immediata di tutte le attività in corso: le concessioni oggi attive scadranno tra il 2017 e il 2034. Il referendum poi non mette in questione le attività di manutenzione né, ovviamente, quelle di smantellamento e ripristino ambientale.
Quanto ai posti di lavoro, i numeri sono incerti. Assomineraria, l’associazione delle industrie del settore, parla di 13mila persone; la Filctem, la federazione dei lavoratori chimici della Cgil, parla di circa diecimila addetti solo a Gela e Ravenna. L’Isfol, ente pubblico di ricerca sul lavoro, parla di novemila occupati in tutto il settore (mare e terra).
Quanti di questi posti siano legati alle piattaforme entro le 12 miglia è opinabile. Il sindacato dei metalmeccanici Fiom Cgil afferma che sono meno di cento. «Considerando l’indotto, arriviamo a una stima massima di circa tremila persone», dice Giorgio Zampetti, esperto di questioni petrolifere per Legambiente.
Una cosa certa è che le attività sulle piattaforme non sono labour intensive (cioè basate soprattutto sulla forza lavoro). Per lo più sono manovrate in remoto: gli addetti lavorano soprattutto nella fase di trivellazione, ma intervengono ben poco nella produzione (darebbe lavoro, casomai, smantellare i vecchi impianti). Gli attivisti di Greenpeace sono rimasti sorpresi, l’anno scorso, quando sono riusciti ad avvicinarsi alla piattaforma Prezioso, di fronte a Gela nel mar di Sicilia, l’hanno scalata e vi hanno appeso un gigantesco striscione, senza trovare ostacoli né risposta: il fatto è che non c’era proprio nessuno.
Quanto petrolio e quanto gas contengono i fondali italiani?
Non poi tanto. La produzione delle piattaforme attive entro le 12 miglia nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di smc (standard metro cubo) di gas. In questi giorni circolano molti dati, ma attenzione a non fare confusione. L’intera produzione italiana, a terra e in mare, arriva a circa sette miliardi di smc di gas e 5,5 milioni di tonnellate di olio greggio, secondo l’ufficio per gli idrocarburi e le georisorse (Unmig) del ministero per lo sviluppo economico.
Però la produzione nella fascia protetta delle 12 miglia, oggetto del referendum, è una parte minore del totale. Se paragonata ai consumi, copre meno dell’1 per cento del fabbisogno nazionale di petrolio, e circa il 3 per cento del fabbisogno di gas. Insomma: rinunciare alla produzione entro le 12 miglia avrebbe un peso irrilevante sul bilancio energetico italiano.
Uno degli argomenti contro il referendum è che l’Italia, con una vittoria del sì, rinuncerebbe a una risorsa importante. Davvero? L’insieme delle riserve certe nei fondali italiani (entro e oltre le 12 miglia) ammonta a 7,6 milioni di tonnellate di petrolio, secondo le valutazioni del ministero dello sviluppo economico. Al ritmo attuale dei consumi, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole sette settimane. Sommando le riserve su terraferma si arriverebbe a 13 mesi. Quelle di gas arrivano a 53,7 miliardi di smc: neppure un anno di consumo italiano. In termini d’indipendenza energetica è ben poca cosa.
Intanto lo scenario dell’energia cambia. Negli ultimi dieci anni il consumo italiano di idrocarburi è calato, osserva Legambiente riprendendo dati del Mise. Oggi l’Italia consuma in un anno 67 miliardi di smc di gas, e 57 milioni di tonnellate di petrolio: rispettivamente il 21 e il 33 per cento in meno rispetto ai consumi di dieci anni fa. Invece, è aumentata la parte delle fonti rinnovabili, arrivate a coprire il 40 per cento dei consumi elettrici (nel 2005 era al 15,4) e il 16 per cento dei consumi energetici finali (nel 2005 eravamo al 5,3).
Gli idrocarburi portano ricchezza all’Italia?
Neppure questo è tanto vero. L’Italia impone royalty (la somma versata in cambio dello sfruttamento commerciale di un bene) tra le più basse al mondo, pari al 7 per cento del valore del petrolio estratto in mare e al 10 per cento del valore del petrolio estratto a terra e del gas (a terra o in mare). Le royalty e i canoni (sull’occupazione del terreno) pagati dalle aziende sono poi detratti dal reddito su cui le aziende verseranno le tasse. Nel 2015 l’insieme delle royalty pagate allo stato e agli enti locali ammontava a 351 milioni di euro. La royalty si calcola sul prezzo di vendita del petrolio o del gas, al netto di alcune deduzioni. Su ogni giacimento però c’è una franchigia: sono esenti da royalty le prime 50mila tonnellate di petrolio e i primi 80mila metri cubi di gas estratti offshore.
Il risultato è che molte piattaforme non pagano affatto. Secondo elaborazioni del Wwf sui dati del Mise, solo 18 concessioni in mare versano royalty, su un totale di 69 (entro e oltre le 12 miglia), ovvero appena il 21 per cento. Su 53 aziende estrattive, solo otto pagano royalty limitate e sono le più grandi (Eni, Shell, Edison, Gas Plus Italiana, Eni mediterranea idrocarburi, Società Ionica Gas, Società Padana Energia). A terra, solo 22 concessioni su 133 pagano royalty. È chiaro che alle aziende conviene prolungare la vita di pozzi che estraggono poco, perché restano sotto la franchigia.
Le piattaforme hanno avuto una valutazione d’impatto ambientale?
Che età hanno le piattaforme disseminate nei mari italiani? Anche questo punto ha risvolti molto pratici, nota l’ultimo studio pubblicato dal Wwf. Dai bollettini del ministero per lo sviluppo economico infatti risulta che 42 piattaforme (su 88) sono state costruite prima del 1986, quando è entrata in vigore la legge che istituisce le procedure di valutazione di impatto ambientale (Via). Tra queste, 26 appartengono all’Eni (o alle sue controllate), nove all’Edison e cinque all’Adriatica gas.
In altre parole, quasi metà delle piattaforme esistenti entro le 12 miglia non è mai stata sottoposta a una valutazione di impatto ambientale. Sembra impensabile, ma è così (il ministero dell’ambiente non ha nulla da obiettare?).
In generale, l’età media delle concessioni è piuttosto alta, 35 anni, e quasi la metà supera la quarantina. Su quel totale di 88 piattaforme, otto sono definite “non operative”, cioè non in produzione, e 31 (tutte a gas) sono “non eroganti” (cioè sono ferme per manutenzione o hanno cessato la produzione).
«Ci chiediamo perché le compagnie petrolifere tengano inattivi così tanti impianti», dice Fabrizia Arduini, autrice di questo studio insieme a Stefano Lenzi. «Il ministero dello sviluppo economico dovrebbe esaminare la situazione, prima che questi relitti obsoleti collassino nei nostri mari». Arduini cita il regolamento offshore sulla sicurezza, emanato dalla Commissione europea nel 2011 e poi diventato una direttiva: il regolamento “riconosce che il rischio di cedimenti strutturali dovuti al logorio degli impianti è uno dei principali fattori di rischio di incidente. Ed è chiaro che un incidente avrebbe conseguenze tanto più gravi se avvenisse vicino alla costa, cioè proprio nella fascia delle 12 miglia”.
Poi c’è il “normale” inquinamento. Il mese scorso Greenpeace ha ripreso i dati delle analisi compiute dall’Ispra (l’istituto di ricerca ambientale collegato al ministero dell’ambiente) su campioni di cozze raccolti intorno ad alcune piattaforme dell’Eni nell’Adriatico, dati mai resi pubblici: rivelano che i campioni contengono metalli pesanti e idrocarburi aromatici in quantità molto superiori ai limiti accettabili (quelle cozze sono normalmente messe in commercio, costituiscono il 5 per cento della produzione annuale della Romagna).
Ha senso continuare a puntare sulle energie fossili?
La decisione di bloccare ogni nuova attività estrattiva nei mari italiani entro le 12 miglia dalla costa risale al 2010: l’aveva deciso il governo Berlusconi sull’onda dell’allarme provocato dal disastro della Deepwater Horizon nel golfo del Messico (risale ad allora anche il regolamento europeo sulla sicurezza offshore). Due anni dopo il governo Monti ha riaperto la strada a nuove concessioni, e nel 2014 il governo Renzi ha addirittura definito l’estrazione di idrocarburi una “attività strategica”, quindi non vincolata al consenso delle regioni (che infatti hanno prima impugnato la norma, poi deciso di promuovere il referendum).
Ora le nuove concessioni sono bloccate, ma quelle in corso diventano “a tempo indeterminato”. Ma ha senso continuare a puntare sulle energie fossili? Molti, non solo gli ambientalisti, sono convinti che concentrarsi sulle energie rinnovabili e sull’efficienza energetica garantirebbe posti di lavoro, sviluppo, innovazione.
«Ferma le trivelle. Tutti i referendum indicano un cambiamento, sono un inizio non la conclusione della loro realizzazione. Saranno i rapporti di forza a segnare la portata del risultato». Il manifesto, 12 aprile 2016 (c.m.c.)
Domenica prossima non andremo a votare solo per chiedere l’abrogazione di una norma (quella che prevede l’estensione delle concessioni per le attività estrattive entro le 12 miglia nautiche). Saremo principalmente chiamati ad esprimerci sui nostri valori di fondo.
Ogni referendum abrogativo, in effetti, ha per sua natura una doppia dimensione: quella strettamente normativa e quella propriamente emblematica che ne esprime l’essenza prevalendo sempre sulla prima, incorporandola e dando senso alla specifica richiesta di abrogazione. Questo plusvalore dei referendum (valgono per ciò che dicono, ma anche per ciò che sottendono) è una costante, contrassegna ogni “appello al popolo”.
Si pensi in Italia ai referendum più noti, anche a quelli i cui quesiti erano diretti ed espliciti. Il referendum sul divorzio, ad esempio, non può essere ridotto al pur importante quesito sull’istituto giuridico dello scioglimento del vincolo matrimoniale, esso ha segnato – soprattutto – un passaggio tra due modi di intendere i rapporti tra coniugi, ha affermato una diversa visione del mondo e dei rapporti tra le persone. Quello sull’aborto non si è limitato a sancire il diritto all’interruzione della gravidanza, ma ha coinvolto il modo di pensare al corpo delle donne, il loro ruolo entro una società, ponendosi come terminale simbolico di una lunga lotta di emancipazione.
La scelta sul nucleare, poi, che ha riguardato disposizioni in sé marginali rispetto alle politiche energetiche (tant’è che nessuno ricorda più su quali quesiti siamo andati a votare), ha avuto un immediato e profondissimo riflesso sulle concrete scelte, sull’idea stessa di sviluppo economico, impedendo l’uso di una risorsa (il nucleare) in base ad una scelta – per una volta – non di mercato, bensì di valore.
L’ultimo referendum, quello sull’acqua, è forse stato il più esplicito nel collegare il voto alla visione del mondo che si poneva a suo fondamento. “Acqua-bene comune” era la formula prescelta dal comitato promotore, il quesito coinvolgeva non solo il servizio idrico, ma anche la questione più ampia dei servizi pubblici locali (una valenza generale che fu riconosciuta dalla Corte costituzionale in sede di ammissibilità dei quesiti). La prospettiva esplicitamente dichiarata era quella di esprimere un altro modello di sviluppo rispetto a quello di privatizzazione neoliberista dominante.
Né può dirsi che il plusvalore simbolico sia meno rilevante a secondo dei tipi – abrogativi od oppositivi – di referendum. Anche quello costituzionale del 2006 ha visto, in fondo, contrapporsi due mondi: da un lato chi pensava alla Costituzione come uno strumento di governo (del governo) per garantire la stabilità del potere, dall’altro chi riteneva all’opposto che le costituzioni servono per limitare i poteri e garantire i diritti dei cittadini nei confronti dei governanti. Un tema che sarà al fondo anche del prossimo scontro sulla riforma costituzionale.
Ogni volta che si è pensato si potesse limitare la portata del referendum al solo quesito si è commessa una ingenuità. Il caso dei referendum elettorali del 1993 è esemplare in tal senso. La critica ai partiti, la volontà di cambiamento, la crisi delle strategie politiche di riforma sociale si posero alla base di un plebiscito che travolse non solo il sistema elettorale di natura proporzionale allora vigente, ma anche tutti gli equilibri politici, trasformando per intero la nostra democrazia reale.
Gli effetti di quella scelta non sono stati più assorbiti: la riduzione degli spazi della rappresentanza, l’isterilimento degli organi parlamentari, il deterioramento progressivo dei partiti come strumenti di partecipazione, la fine della mediazione politica e l’imporsi della immedesimazione leaderstica, non sono certamente il frutto di quella scelta (ben più profonde le cause del deperimento in corso), ma è vero che lì trovarono una loro fondamentale legittimazione popolare. Quanti sono oggi i pentiti del ’93? L’errore fu pensare al quesito e non anche al suo significato sistemico.
Ed è proprio sugli effetti di sistema che si gioca la partita dopo il referendum. Senza illusioni e con realismo bisogna anche dire che l’appello al popolo non è mai definitivo. Anche in questo caso basta guardare la storia che è alle nostre spalle per comprendere limiti e virtù dello strumento referendario.
Radicalmente diversi sono stati gli esiti nel caso del sistema elettorale e in quello dell’acqua-bene comune. Nel primo il cambiamento è andato ben al di là di quanto veniva richiesto, all’opposto nel secondo nulla è mutato. I referendum, in effetti, sono una prospettiva di cambiamento, non la sua realizzazione; un inizio, non la conclusione di una lotta per l’affermazione di una diversa visione del mondo. Saranno poi i soggetti reali, i rapporti di forza politici, le condizioni culturali a segnare il futuro e la portata del cambiamento.
Lo scontro reale, nel voto di domenica, non riguarderà tanto le concessioni alle imprese petrolifere, bensì coinvolgerà per intero le prospettive di sviluppo: devono queste continuare ad essere basate sulle fonti energetiche tradizionali, sul petrolio, ovvero è giunto il tempo di cambiare investendo nelle fonti alternative, recuperando il gap che vede il nostro paese tra gli ultimi nelle politiche energetiche non inquinanti. Entro questa più ampia visione cadono molte obiezioni che sono state sollevate: la questione della perdita del lavoro causato dalla fine delle concessioni (che non sarebbe comunque immediata), ad esempio, è chiaramente mal posta. Si dovrebbe più correttamente pensare alle possibili ricadute in termini di sviluppo: come riconvertire il nostro sistema energetico.
Si tratta evidentemente di politiche economiche da rilanciare, altre da abbandonare. Solo chi ritiene che esiste un’unica razionalità economica, un’unica ragione del mondo, può affermare che la chiusura protratta nel tempo delle piattaforme di perforazione in profondità per la ricerca di idrocarburi costituisca un serio problema per l’occupazione. Solo chi non ha interesse a rilanciare lo sviluppo su nuove basi più consone al rispetto dell’ambiente può pensare che è necessario continuare sino all’esaurimento dei giacimenti l’attività di estrazione, in eterno dunque. Solo chi non pensa di poter cambiare può essere preoccupato per i posti di lavoro che il settore petrolifero – compreso l’indotto – oggi garantisce, rinunciando così a fornire un diverso futuro a questi lavoratori che ben potrebbero costituire la base di una occupazione ecologicamente compatibile. Solo chi vuole mantenere le attuali storture può essere contro i referendum.
Lo scontro, dunque, è ancora una volta tra chi vuole preservare gli assetti di potere esistenti e chi crede in un altro mondo possibile.n questa prospettiva deve essere valutata anche la portata in sé ridotta del quesito. Se l’effetto del referendum si limitasse ad escludere le proroghe delle concessioni estrattive entro le dodici miglia marine non avremmo fatto granché in tema di risanamento e sviluppo complessivo. Ma qui è appunto la sfida da raccogliere: questo non è che l’esordio di una lotta politica di civiltà, per tentare di risalire la china che ci ha portato all’attuale degrado ambientale, contro la miopia di un ceto politico, nuovo solo a parole, ma che continua a porre resistenza al cambiamento e non vuole progettare il futuro, riproponendo le stesse ricette al servizio dei soliti interessi.
Per cambiare non basta un solo giorno, né un solo quesito, c’è bisogno di una organizzazione sociale, di una cultura diffusa, di un ceto politico in grado di tradurre in politiche realmente innovative la volontà espressa dal corpo elettorale. Per questo possiamo dire che il sì contro le trivelle «ce n’es qu’un début»: altri referendum sono già pronti, altre politiche devono essere immaginate.

«L'analisi contenuta nel progetto CoCoNet, finanziato dall'UE: cosa accadrebbe in caso di un imprevisto in fase estrattiva o di trasporto? A causa dell’andamento delle correnti marine, l'entità monetaria del danno è, secondo gli esperti, non calcolabile». Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2016 (p.d.)
“Un incidente petrolifero? Va messo in conto. E i danni non sarebbero limitati al litorale italiano, ma causerebbero un disastro nell'intero Mediterraneo orientale, con costi ambientali incalcolabili”.
Ferdinando Boero parla con cognizione di causa. È docente di Zoologia e Biologia Marina all'Università del Salento, associato all'Istituto di Scienze Marine del Cnr ed è uno dei massimi esperti italiani di biodiversità marina e funzionamento degli ecosistemi. Mostra una cartina: frecce che si rincorrono, correnti, inabissamenti. In tempi non sospetti, ha svolto simulazioni per dimostrare cosa potrebbe accadere in caso di perdite di idrocarburi da petroliere in transito nel basso Adriatico.
Poi, specie in Puglia, è arrivata la pioggia di richieste di permessi di ricerca dell’oro nero una spanna più avanti delle 12 miglia. Colossi americani, soprattutto. “La realtà che supera l’immaginazione”, sorride il professore. È una battaglia, quella, ancora in corso nell'ambito delle procedure di valutazione di impatto ambientale pendenti. Nel frattempo, restano i rischi legati alle piattaforme già attive al di qua e al di là di quel limite di 12 miglia lungo tutto il mar Adriatico. Lo dice CoCoNet, il progetto coordinato dallo stesso Boero e finanziato con 11 milioni di euro dall'Ue per la realizzazione di reti di aree marine protette nel Mediterraneo e nel Mar Nero, oltre che per lo studio di fattibilità di installazione lì di piattaforme eoliche offshore come fonte di energia pulita. Nell'ambito di CoCoNet, la ricerca pilota sulle perdite di idrocarburi, sconosciuta ai più, si è concentrata sull'Adriatico meridionale, che è lo snodo fondamentale, il luogo in cui si ha il fenomeno di sprofondamento delle acque dense nord adriatiche nella pancia dello Ionio. È quello, insomma, il punto di transito del movimento d’acqua che dà vita agli abissi del Mediterraneo. Cosa accadrebbe in caso di incidenti in fase estrattiva o in fase di trasporto? La risposta è nel gioco di correnti marine.
Da Gibilterra, l’acqua atlantica penetra nel bacino mediterraneo con un flusso superficiale. Attraversato il canale di Sicilia e raggiunta la parte più orientale, vicino al Libano, la corrente torna indietro a circa 500 metri di profondità (corrente intermedia levantina). In questo modo l’acqua del Mediterraneo viene rinnovata nei primi 500 metri. In assenza di altre correnti importanti, al di sotto di quella soglia, non essendo ricambiata, andrebbe incontro a fenomeni di anossia (carenza di ossigeno) dovuti alla presenza di animali, che consumano ossigeno, e all'assenza di vegetali, che lo producono. Questa eventualità sarebbe fatale, dunque, per la vita al di sotto dei 500 metri.
Ciò si evita grazie al rinnovamento delle acque profonde. Avviene tramite i “motori freddi”. Nel Golfo del Leone, per il Mediterraneo occidentale, e nel nord Adriatico, per quello orientale, i venti freddi causano aumenti di salinità e diminuzioni di temperatura. Questo porta alla formazione di acque dense superficiali, che tendono a scorrere verso i fondali più profondi, portandovi ossigeno e spingendo verso l’alto le acque che ne sono carenti, perché possano riossigenarsi. Dall'Adriatico settentrionale, quelle acque seguono due autostrade marine, una prossima alle coste albanesi e l’altra a quelle italiane, attraverso il Canyon di Bari e il Canale d’Otranto. Da lì, si inabissano nello Ionio, raggiungendo le massime profondità, che toccano il picco dei 5 mila metri nella fossa del Peloponneso.
È grazie a questo flusso che, ad esempio, possono prosperare i coralli bianchi ionici e quelli ritrovati di recente nel basso Adriatico. Lo stesso copione si ripete, ma con importanza ritenuta minore, a partire dal nord Egeo. “È chiaro dunque – spiega Boero – che se nell'Adriatico dovesse verificarsi un incidente, il petrolio andrebbe a inserirsi nella corrente che alimenta la parte più profonda del Mediterraneo, che invece di ricevere ossigeno riceverebbe idrocarburi. L’eventualità che questo accada non può essere esclusa. Calcolare l’entità monetaria dei danni causati da una simile eventualità è sterile: non ci sono soldi che possano ripagare gli ambienti che sarebbero gravemente danneggiati”.
Occorre un sì deciso al referendum del 17 aprile, non solo contro la distruzione della bellezza, ma per una uscita progressiva dalla dipendenza dal petrolio, e la crescita di un movimento globale per la salvezza del pianeta. Il manifesto, 10 aprile 2016.(c.m.c.)
«Keep the oil under the soil». Lasciamo il petrolio sottoterra, urlavano gli attivisti di mezzo mondo a Parigi poco prima dell’inizio della Ventunesima Conferenza delle Parti sui Cambiamenti Climatici, la Cop21. È un movimento globale per la giustizia climatica, una realtà reticolare, che lega comunità e organizzazioni del Nord e del Sud del mondo.
L’idea di mantenere il petrolio sottoterra nacque in Ecuador, paese assai dipendente dall’oro nero. «Yasunizzare», dal nome del parco Yasuni, riserva biologica sotto la quale si trovano importanti giacimenti petroliferi, significava lasciare il petrolio sottoterra, optare per un’altra via, quella del riconoscimento del debito ecologico, e della promozione di energie alternative. Quel petrolio non estratto avrebbe rappresentato un patrimonio in termini di emissioni evitate e di protezione della biodiversità, in cambio del quale la comunità internazionale si sarebbe impegnata a versare contributi su un fondo internazionale per la tutela di Yasuni e la promozione di energie rinnovabili. Non se ne fece nulla, ed oggi le compagnie petrolifere straniere stanno accaparrandosi quelle concessioni.
Territori sotto assedio, come quello di Sarayaku, o del popolo Sapara, che hanno già annunciato che difenderanno con i denti la loro terra.
Dall’Amazzonia all’azione di disobbedienza civile contro la megaminiera di carbone di Ende Gelaende, alle mobilitazioni dei Mohawk a Montreal contro la Transcanada Pipeline, è un susseguirsi di azioni, iniziative, mobilitazioni.
Era stato detto a Parigi e fatto seppur simbolicamente: tracciare una linea rossa, oltre la quale sarebbe scattata la disobbedienza civile di massa, per tutelare un bene prezioso, l’equilibrio dell’ecosistema, e la salute delle generazioni a venire. È il riconoscimento dei diritto alla resistenza civile nonviolenta per tutelare i «commons» che ispirerà migliaia e migliaia di attivisti che in ogni parte del mondo si mobiliteranno per un’intera settimana a maggio nell’azione globale «Break Free from Fossil Fuel». Sono previste azioni dirette nonviolente presso siti di estrazione ed infrastrutture petrolifere ed in sostegno a fonti energetiche pulite in Australia, Brasile, Canada, Germania, Indonesia, Israele/Palestina, Nigeria, Filippine, Sudafrica, Spagna, Turchia, e Stati Uniti.
Lasciare il petrolio sottoterra significa mettere sé stessi tra la Terra ed il cielo, prendere posizione dalla parte del cielo e della Terra, e produrre «dal basso» uno shock necessario per invertire la rotta. Come sottolinea in un importante articolo la rivista Nature, per provare a contenere l’aumento della temperatura globale entro 2 gradi centigradi ai livelli preindustriali sarebbe urgente rinunciare ad un terzo delle riserve petrolifere, la metà di quelle di gas e l’80 per cento del carbone entro il 2050. (si noti bene che a Parigi ci si è impegnati «in linea di massima» a contenere l’aumento della temperatura a 1,5 gradi). Invece le imprese transnazionali del settore continuano a investire cifre ingenti nella ricerca e prospezione, spendendo ogni anno qualcosa come 800 miliardi di dollari alla ricerca di nuovi giacimenti contro i 100 miliardi impegnati dalla comunità internazionale in sostegno al Fondo Verde per il Clima. Non tutte però: accanto alla disobbedienza civile dei movimenti è cresciuto progressivamente il movimento per il disinvestimento, al quale di recente si è unita anche la potente famiglia Rockefeller, magnati del petrolio per eccellenza.
E a casa nostra? La crescita del movimento globale per la giustizia climatica, la settimana di azione contro i combustibili fossili, le campagne di disinvestimento dimostrano che anche in Italia ci potrà essere vita dopo il referendum contro le trivelle. Un sì deciso significa quindi non solo un no alla distruzione della bellezza, o delle coste, è un sì alla necessaria ed urgente transizione ecologica, un piccolo passo verso la progressiva uscita dal petrolio, un tassello in più in uno movimento globale che si fa sempre più forte.
La Francia dice stop alla ricerca di idrocarburi in mare e chiederà che il divieto venga esteso a tutto il Mediterraneo. «Troppo alti i rischi ambientali» afferma la ministra dell'ambiente e dell'energia. Il manifesto, 9 aprile 2016 (c.m.c.)
La ministra dell’Ambiente e dell’Energia, Ségolène Royal, ha comunicato ieri la decisione di mettere immediatamente in atto una moratoria sulle ricerche d’idrocarburi nel Mediterraneo. Il provvedimento è stato reso noto nel corso della seconda Conferenza Nazionale sulla Transizione Ecologica del Mare e dell’Oceano, tenutasi a Parigi. Il comunicato della ministra non lascia spazio ai dubbi. «In considerazione delle drammatiche conseguenze che potrebbero colpire tutto il Mediterraneo in caso d’incidente dovuto alle perforazioni petrolifere - si legge nel testo diffuso dal dicastero dell’ambiente - Ségolène Royal decide di applicare una moratoria immediata sulle ricerche di idrocarburi nel Mediterraneo, sia nelle acque territoriali francesi, sia nella zona economica esclusiva». Inoltre, la ministra Royal «chiederà che questa moratoria sia estesa all’insieme del Mediterraneo, nel quadro della Convenzione di Barcellona sulla Protezione dell’Ambiente Marino e del Litorale Mediterraneo».
La conferenza nazionale di ieri costituiva la seconda edizione di quella già tenutasi, sempre sul tema della transizione ecologica del mare, nell’agosto scorso. Come allora, anche ieri erano invitate Ong, accademici e vari operatori ed esperti. In quell’occasione erano state stabilite le cosiddette «dieci azioni per una crescita blu».
Ségolène Royal non è nuova a prese di posizione contro le energie non rinnovabili. Basti ricordare il suo intervento all’Assemblea Nazionale del 12 gennaio scorso, al suo rientro da New York, dove aveva incontrato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, per dare corpo alle decisioni prese alla Cop 21 di dicembre. In quell’occasione, la ministra del governo Hollande aveva affermatoche nessun ulteriore permesso di ricerca d’idrocarburi sarebbe stato accordato dall’esecutivo. «Se bisogna ridurre la quota di energie fossili, perché continuare ad autorizzare ricerche d’idrocarburi convenzionali?» si domandava allora la responsabile dell’ambiente. Secondo i dati del ministero, il 1° luglio 2015 si contavano 54 permessi di ricerca attivi e 130 domande di permesso in corso di valutazione.
Le sue parole non erano rivoluzionarie, ma davano semplicemente seguito agli obiettivi previsti dalla legge sulla transizione energetica dell’agosto 2015. Il provvedimento punta a dimezzare entro il 2050 il consumo totale d’energia della Francia, oltre a diminuire sino alla soglia del 30% entro il 2030 la percentuale di energia prodotta da fonti fossili non rinnovabili. Sempre per il 2030, al contrario, dovrà essere del 32% sul totale nazionale l’energia prodotta da fonti rinnovabili. In questa prospettiva, la ministra sta lavorando per una grande campagna di sostegno al fotovoltaico e all’eolico. Per quel che riguarda l’energia solare, meno di tre settimane fa, Ségolène Royal ha lanciato a Marsiglia il progetto delle «strade solari», cui saranno consacrati, per il momento, 5 milioni di euro, con l’ambizione di arrivare in cinque anni ad avere 1000 chilometri di pannelli fotovoltaici, su tutto il territorio nazionale.
Rispetto all’energia eolica, invece, il documento finale della conferenza di ieri, mostra una determinazione nell’implementare parchi eolici off-shore. Dieci progetti hanno vinto una gara d’appalto in questo settore specifico nel 2015. Un’altra gara d’appalto è stata lanciata per l’anno in corso. La zona individuata per l’installazione degli impianti fissi è a largo di Dunkerque, sul canale della Manica. L’Atlantico davanti alle coste bretoni e il Mediterraneo, ospiteranno, invece. delle fattorie eoliche sperimentali galleggianti, si legge ancora nel documento conclusivo della conferenza.
Al di là della questione strettamente ambientale, quello che sembra, almeno sulla carta, un cambio di passo nell’approccio alla questione della protezione del mare, potrebbe avere ripercussioni interessanti per il settore della pesca. La moratoria, infatti, disinnescherebbe de facto una recente tesi, frutto della bizzarra convergenza tra petrolieri e alcune Ong ambientaliste, in base alla quale la pesca, senza distinzioni, sarebbe dannosa per l’ambiente marino.
Chi oggi comanda in Italia, in Europa e nel resto del mondo obbedisce agli interessi dei petrolieri e perciò ci sta portando alla catastrofe. Ecco una ragione in più per votare contro le trivelle. Il manifesto, 8 aprile 2016
Al vertice sul clima di Parigi i “capi” di 192 paesi hanno preso degli impegni enormi: mantenere l’aumento della temperatura del pianeta sotto 2 e possibilmente vicino a 1,5 gradi centigradi. Per questo bisogna evitare di disperdere nell’atmosfera più di mille miliardi di CO2 equivalente di qui al 2100 (ne produciamo 35 miliardi all’anno). Per raggiungere l’obiettivo i contraenti hanno presentato dei piani nazionali (detti Indc) molto generici, perché non ne viene indicato il “soggetto attuatore” che, per il pensiero unico dominante, non può che essere “il mercato”; non gli Stati né i loro governi, né tantomeno il “popolo sovrano” e le sue comunità, ma la finanza.
Il non detto di quei piani è questo: gli interessi dell’industria petrolifera sono talmente grandi che a metterli in forse in tempi rapidi, anche oggi che il prezzo del petrolio è ai minimi, si rischia il tracollo dell’economia mondiale. Solo a lasciare sottoterra le riserve di idrocarburi che non dovrebbero essere più bruciati per non superare la quantità di emissioni climalteranti che ci separano dai due gradi in più di temperatura si mandano in fumo decine di migliaia di miliardi già quotati in borsa. Poi ci sono gli impianti (trivelle, pipelines, miniere, flotte, raffinerie, centrali termiche, ecc.): altre decine di migliaia di miliardi ancora da ammortizzare (e quando lo sono già, vere mucche da mungere per fare profitti, anche se vanno in pezzi).
Quei piani sono comunque insufficienti a raggiungere l’obiettivo; per cui si è già stato stabilito che nel 2020 dovranno essere rivisti al rialzo. E lo si dovrà fare per forza, perché il clima sta già precipitando verso un disastro irreversibile per il pianeta e per la vita umana su di esso, cioè per tutti noi, i nostri figli, i nostri nipoti. Niente sarà più come prima (“This changes everything”) come ha scritto Naomi Klein: sia che si cerchi di proseguire sulla strada del business as usual (BAU), facendo precipitare la crisi climatica; sia che si decida di perseguire una vera transizione energetica verso efficienza e fonti rinnovabili: che può essere realizzata solo cambiando radicalmente consumi, prodotti, processi di produzione e soprattutto sistemi di governo dell’economia: nella forma di una vera democrazia partecipata.
“Una rivoluzione”: la scelta obbligata che, seguendo il titolo che è stato data alla traduzione italiana del libro della Klein, “ci salverà”. Le tecnologie per realizzarla sono già disponibili, e potrebbero moltiplicarsi se si dedicasse loro l’attenzione e le risorse che meritano. I costi sono perfettamente affrontabili e i risparmi che ne possono derivare li ripagherebbero in tempi ragionevoli. Quello che manca è l’organizzazione, che non è la green economy (investire dove i ritorni sono immediati e lasciar perdere tutto il resto), ma la democrazia economica: il controllo delle comunità sulle attività che le vedono impegnate. In termini sintetici: tutto ciò che prolunga in qualsiasi forma la dipendenza dai fossili non fa che ritarare la transizione e renderla più costosa domani, in termini economici, ambientali, umani.
Alcuni driver di una transizione del genere sono peraltro già all’opera: le assicurazioni sono a mal partito per i danni creati dagli eventi estremi provocati dai mutamenti climatici; è in corso un processo di disinvestimento dalle risorse fossile da parte degli organismi più avvertiti: dai Rockfeller alla Norvegia, il paese con la popolazione più ricca del mondo grazie al petrolio. I costi impiantistici delle rinnovabili scendono a picco mentre quelli dell’inquinamento da petrolio e carbone vanno alle stelle…
Per questo appare paradossale che, appena rientrato da Parigi, dove come al solito aveva spiegato che nel campo della conversione energetica l’Italia, cioè lui, è più avanti di tutti (tesi ripetuta pochi giorni fa), Renzi e il “cerchio magico” del suo Governo si siano dati da fare per spremere fino all’ultima goccia il petrolio che sa sotto i mari e il suolo dell’Italia. Cercando prima di eludere i referendum contro le trivelle a mare, per poi aprire uno scontro frontale contro i suoi promotori. E riconfermando e peggiorando il progetto, messo a punto a suo tempo dall’ex ministro Passera, di trasformare il nostro paese in terminale e deposito in conto terzi (cioè per tutta l’Europa) del gas importato dalla Russia e dal Nordafrica; anche a costo di scassare il territorio con un gasdotto e degli stoccaggi che minacciano l’Italia nelle sue zone più sismiche, come l’Aquila e l’Emilia.
D’altronde si tratta di quello stesso Renzi che adora Marchionne (quello che ha assunto 1000 nuovi operai dopo averne messo alla porta 20.000 in meno di dieci anni) invece di spiegargli che né l’Italia né il resto del mondo hanno bisogno di una jeep per andare a fare la spesa o portare i bambini a scuola; e che prima o poi quei mastodonti dovranno rimanere fermi. E con loro gli operai che li fabbricano. Insomma, più si sbraccia a presentarsi ed esaltarsi come innovatore e più Renzi si abbarbica alla più superata e nociva delle opzioni economiche: tenere in vita, in tutti le forme possibili, l’economia del petrolio e delle fonti fossili.
Questa è la vera posta in gioco del referendum del 17 aprile: non le misere royalties ricavate dal petrolio, che non valgono il costo che Renzi fa pagare agli italiani per non aver accorpato referendum ed elezioni amministrative; non i pochi, sporchi e insalubri posti di lavoro che verranno a mancare quando arriveranno a scadenza le concessioni che lui vorrebbe confermare a tempo indeterminato; bensì le decine di migliaia di nuovi occupati che un programma di riconversione energetica potrebbe creare – e che in parte avevano cominciato a esser creati prima che Renzi spostasse le sue fiches dalle energie rinnovabili al petrolio, facendone già perdere quasi 80mila – oltre a tutti quelli (turismo, pesca e agricoltura) che il petrolio distrugge; ma, soprattutto, il ritardo e il danno che l’attaccamento alle risorse fossili finirà per imporre a un paese escluso da una riconversione energetica ormai irrinunciabile.
Questo è il tema di fondo, quello che fa della campagna contro le trivelle un momento di informazione, di riflessione e di auto-educazione su una questione ineludibile su cui il governo – ma non solo lui – ha steso un velo mentre avrebbe dovuto metterlo al centro di tutto il suo operato. Poi viene il resto, che non è poco: cioè il modo in cui petrolio e risorse energetiche vengono estratte e sfruttate, il seguito di inquinamento, di degrado ambientale, di danni alla salute, di vite distrutte, di corruzione e di deficit democratico che l’economia degli idrocarburi si porta dietro. Non solo in Italia. Il petrolio, come è noto, è la merda del diavolo: che ha fatto piombare tutti i paesi dove viene estratto e lavorato in uno stato di degrado ambientale, sociale e istituzionale tanto maggiore quanto più è consistente la finta ricchezza di cui dovrebbero beneficiare: che è ricchezza per chi se ne appropria, non per chi vive su quei territori. Guardate il golfo persico, l’Arabia Saudita, l’Iraq, l’Iran, la Nigeria, la Libia, il Texas e le regioni del Canada devastate dall’estrazione delle sabbie bituminose; ma anche la fatica del Venezuela per cercare di liberarsi dal cappio politico del dominio degli Stati uniti sulle sue riserve; e vedrete quasi soltanto distruzione di interi dei territori e dei paesaggi più belli del mondo, miseria e oppressione delle comunità che hanno la sfortuna di abitarli, prepotenza di che si avvantaggia di quelle risorse a loro spese.
Così anche l’Italia, nonostante che le sue riserve siano infime, è riuscita a importare – cercando beninteso di tenerle nascoste – buona parte delle disgrazie che accompagnano lo sfruttamento degli idrocarburi in tutto il pianeta: in quel campo “il mercato” è questo; e la “concorrenza” si fa così: corrompendo, inquinando e massacrando cittadini e lavoratori. Perché quando in gioco ci sono “scambi di favori” un’impresa vale l’altra: Eni e Total pari sono; e quella ricchezza nazionale che il governo dice di voler mettere a frutto può tranquillamente defluire verso le raffinerie e le reti di un concorrente: l’importante è che gli amici degli amici - o i coniugi dei ministri - ne ricavino il loro tornaconto.

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Più che mai è importante andare a votare per questo referendum per dimostrare che non si abbandona il paese in mano a chi vuole mercificare qualsiasi cosa senza rispetto e che esiste ancora la volontà e la forza di cambiare rotta». Il manifesto
, 8 aprile 2016 (c.m.c.)
L’attuale vuoto politico, che rischia di diventare catastrofico, e di cui la cosiddetta sinistra è al tempo stesso vittima e corresponsabile, fa emergere con forza la valenza probabilmente decisiva delle prossime consultazioni referendarie.È sempre più evidente che dal loro esito dipenderanno (per dirla in modo un po’ enfatico) le sorti del paese. In questo quadro, è difficile non prendere atto del fatto che quella fra loro che riguarda il problema delle trivellazioni marine (17 aprile) stenta a decollare, quasi che il quesito fosse di significato e dimensioni minori.
Io penso che non sia così, almeno per due buoni motivi.
Il primo è più specifico, anche se presenta anch’esso valenze generalissime. Questo governo, e il partito che in questo momento esso rappresenta, esprimono la posizione più risolutamente antiambientale (attenzione: antiambientale, non semplicemente antiambientalista), che nel nostro paese sia stato dato di vedere da molti decenni (forse da sempre?). L’ambiente, il paesaggio, il territorio, i beni culturali sono considerati, nel migliore dei casi, come degli oggetti o realtà morte, in cui investire più che si può, per ricavarne più che si può (spesso, però, sbagliando anche il calcolo dei rapporti fra investimenti e ricavati). Se una società petrolifera o un consorzio di palazzinari glielo chiedesse, pianterebbero trivelle o edificherebbero ecomostri anche di fronte a Piazza San Marco a Venezia o in Piazza della Signoria a Firenze.
Il caso lucano è ormai sotto gli occhi di tutti, non si può più girare la testa dall’altra parte.
Osservo che, della stessa natura del caso delle trivelle, sono altri casi clamorosi come quelli del sottoattraversamento ferroviario di Firenze e dell’ampliamento sconsiderato e dissennato dell’aeroporto di Peretola, anch’esso a due passi da Firenze (la quale rischia di diventare la “città martire”, e come tale meriterebbe d’esser proclamata, di questa fase produttivistico-ambientale). Del resto, in ambedue questi casi basterebbe scavare appena più a fondo (non dico «più a fondo»; dico: «appena più a fondo»), per arrivare a scoprire le stesse logiche che hanno sovrainteso alle operazioni speculative lucane.
Per cui: chi vota sì al referendum sulle trivellazioni marine, vota contemporaneamente contro tutto questo, – contro tutto questo, e contro il suo probabile, anzi, facilmente e assolutamente prevedibile, peggioramento. Anche a tremila metri c’è dunque un interesse profondo (è il caso di dirlo) a votare al prossimo referendum sulle trivelle sottomarine.
Il secondo motivo è di carattere politico generale Non s’è mai visto in questo paese un governo che inviti la cittadinanza a non andare a votare a una forma di qualsiasi consultazione elettorale. Questo governo conta sulla stanchezza, la disaffezione, lo scontento, persino sull’incazzatura («vadano tutti al diavolo, non voglio più saperne!»), per continuare a governare.
Qui, a proposito delle trivelle, – tema, come ho già detto, apparentemente marginale e interesse di pochi, – si manifesta la stessa linea, non soltanto politica, ma ideologico-culturale, che si manifesta a proposito della materia dei referendum d’autunno, e cioè: quanto più si restringe la base del potere, tanto meglio è per chi governa. Può governare meglio, con meno impacci e più libertà di movimento e di azione. Per esempio: fare quel che si vuole dell’ambiente italiano, se petrolieri, palazzinari e costruttori di strade e autostrade glielo chiedono (oppure, magari, prendere l’iniziativa di andarglielo a chiedere, se il giro dei soldi, degli investimenti e delle ricadute di potere, dovesse troppo abbassarsi). Ma di più, molto di più: fare quel che si vuole in ogni ganglio dell’azione di governo, accantonando o eliminando del tutto controlli, verifiche, inutili discussioni (perdite di tempo, gufismi d’altri tempi).
Di fronte a questo stato di cose, e a questa prospettiva, più si vota meglio è. Nonostante tutto, perdura qualcosa di vivo anche nella stanchezza, nella disaffezione, nello scontento, persino nell’incazzatura. Bisogna che venga fuori, per riprendere la strada comune, comune per noi, certo, ma, a pensarci bene, persino per gli altri che non la pensano come noi.
«La vittoria del SÌ al referendum del 17 aprile potrebbe dare una spallata ad un castello di bugie e mostrare che la strada verso la democrazia energetica, verso una promozione sostenibile dei talenti sani dei nostri territori è segnata e che non si torna più indietro», Sbilanciamoci.info, newsletter 467, 31 marzo 2016
Pensavo fosse incompetenza o mancanza di visione. Fresca di laurea, folgorata sulla via dell’energia come “madre di tutte le battaglie” da combattere (contro le crisi internazionali, i ricatti dei potenti detentori delle risorse, contro le crisi sociale, ambientale e poi anche economica), ero ingegneristicamente innamorata dell’idea che sole, vento, biomassa, maree e calore della Terra, assieme alle intelligenti evoluzioni della tecnologia, avrebbero mostrato di lì a poco la via per costruire una nuova “democrazia energetica” e, ingenuamente, pensavo il freno fosse causato “solo” dalla manifesta incapacità strategica di un apparato politico/burocratico stanco, cinico e clientelare.
E invece sbagliavo di grosso. La strategia esiste. Esiste e appare dettata da un potere apartitico (evidente se si analizza l’assoluta continuità nelle scelte fossili degli ultimi 4 governi, dalla destra di Berlusconi/Romani, ai tecnici Monti/Passera, passando per la “sinistra” di Letta/Zanonato, fino al governo del partito della “nazione” di Renzi/Guidi, il più fossile di tutti) gestito attraverso schiere di azzeccagarbugli che usano la normativa contro i cittadini, contro la partecipazione, contro le migliori idee ed energie del Paese.
L’ascolto è riservato esclusivamente ai soliti noti, per i quali un varco nel ginepraio della burocrazia si riesce sempre ad aprire (le autostrade, gli inceneritori, il cemento, le trivelle dello “sbloccaItalia” ne sono la manifestazione plastica).
La “strategia” esiste, e ci sono almeno due campi di gioco.
Il primo campo è quello del sistematico affossamento di uno dei settori economici più promettente del nostro Paese, quello delle fonti rinnovabili, che hanno l’enorme colpa di aver iniziato a dimostrare di essere pronte, da subito, a fare la propria parte (il 40% dell’energia elettrica prodotta in Italia nel 2014 deriva da fonti rinnovabili), senza restare confinate nella nicchia che si era pensata per loro. Lungi dal considerare un successo questa straordinaria progressione, ci si è immediatamente preoccupati per la progressiva inutilità delle turbo-gas a metano, installate come funghi nel recente passato.
Ne è seguita una campagna mediatica impressionante che punta il dito sul “costo delle rinnovabili in bolletta”, che sarebbero le responsabili della pesantezza della spesa energetica sulle famiglie italiane; si tace però sul fatto che le risorse fossili ricevono dallo Stato agevolazioni di ogni genere e finanziamenti diretti/indiretti stimati in circa 14 miliardi di euro/anno, e che il grande beneficio delle rinnovabili sul prezzo dell’energia all’ingrosso rimane spartito nel mercato dei grossisti, a causa di un complicatissimo meccanismo con il quale tale prezzo viene stabilito.
Alla campagna mediatica si sono associate azioni gravissime:
- sistemi di incentivazione di respiro breve/brevissimo (in primis il conto energia per il fotovoltaico), modificati “in corsa” senza interlocuzione con gli operatori e poi troncati (persino sugli interventi che consentivano le bonifiche di coperture in eternit),
- normative monche che paralizzano per anni settori promettenti (solare termo-dinamico e bio-metano, ad esempio),
- incapacità del sistema di tenere sotto controlli i tempi per le autorizzazioni (eolico o idroelettrico), anche per la presenza di interlocutori multipli e ridondanti, con procedure variabili nei diversi territori.
Come se non bastasse, grazie al governo Renzi, è arrivato lo “spalmaincentivi” che ha ritoccato retroattivamente al ribasso, su impianti già attivi, il valore dell’incentivo previsto; poi i bastoni tra le ruote all’autoconsumo, poi gli attacchi all’efficienza energetica, poi il nuovo decreto sulle rinnovabili non fotovoltaiche in cui spicca un contributo esplicito per gli inceneritori. Poi una lista che potrebbe continuare per pagine di rabbia, il cui effetto si può facilmente sintetizzare con un paio di numeri: investimenti passati dai 31 miliardi di dollari del 2011, a meno di un miliardo nel 2015, decine di migliaia di posti di lavoro persi (con un nucleo attualmente resistente di circa 75.000 addetti, ma un potenziale occupazionale incredibilmente maggiore, che non aspetta altro di essere liberato da trappole e trucchi, per poter correre correttamente sul mercato).
Sul campo numero due si gioca la partita che interessa più direttamente il referendum: la costruzione del miraggio della irrinunciabilità, per il nostro sistema Paese, dell’utilizzo delle fonti fossili (metano e petrolio) presenti nel sottosuolo.
Il governo Monti, con il decreto sviluppo, riaprì la strada a permessi di ricerca e coltivazione (estrazione) entro le 12 miglia marine dalla costa, che la Prestigiacomo, sull’onda del terribile incidente nel golfo del Messico, aveva bloccato; più recentemente, nello sbloccaItalia di Renzi, sono arrivati una serie di “semafori verdi” per rilanciare lo sfruttamento degli idrocarburi (attività con una filiera ad altissimo impatto ambientale e a bassissima densità lavorativa), agendo pesantemente anche sulla possibilità delle Regioni di partecipare almeno “alla pari” alle decisioni relative ai permessi.
Il tutto per favorire lo sfruttamento di risorse fossili che darebbero all’Italia una “indipendenza energetica” complessiva di alcune settimane, in un reale “accanimento terapeutico” contro l’ambiente (espressione di Leonardo Maugeri, per 10 anni direttore delle strategie di ENI), per cercare di prolungare di qualche anno un sistema per il quale molti territori italiani hanno già pagato e stanno pagando un prezzo altissimo (come la Basilicata: 80% della produzione nazionale di petrolio, il PIL tra i più bassi d’Italia, zone spopolate a causa dei gravissimi danni ambientali e preziosissime falde acquifere a rischio; Regione in prima linea contro il governo).
Si vuole, cioè, insistere con un sistema che si inchina alle compagnie a svantaggio dei territori, con le royalties tra le più basse al mondo drogate da agevolazioni che prevedono che le prime 20.000 ton di petrolio e 25 milioni di Smc di gas estratti in terraferma, come le prime 50.000 ton e 80 milioni di Smc in mare, siano esenti dal pagamento di aliquote.
Stiamo parlando, attualmente, di un introito complessivo nelle casse dello Stato che oscilla tra i 300-400 M€/anno (più o meno la stessa cifra che il governo ha “bruciato” in un solo giorno, per evitare l’accorpamento del referendum con le elezioni amministrative).
Quello che il governo non si aspettava è stato il trovarsi sbarrato il passo da una corposissima azione su più livelli (campagne di associazioni ambientaliste, comitati spontanei e organizzati, raccolte firme per attivare referendum popolari, cortei nazionali come quello di Lanciano con 60.000 persone in strada) che è confluita nella decisione di ben 10 Regioni (in molti casi a guida politica del medesimo colore del governo) a ricorrere all’estrema ratio del referendum.
Grazie a quest’onda d’urto, il governo ha dovuto rimangiarsi gran parte delle scelte fatte (in particolare circa la strategicità delle opere e circa la possibilità di riaprire il campo a moltissime concessioni entro le 12 miglia), scegliendo però un’azione legislativa all’interno della legge di stabilità molto poco trasparente, che, di fatto, nel cedere su più punti alla pressione #NOTriv, ha creato le condizioni per un vero e proprio condono alle concessioni già attive entro le 12 miglia.
Le compagnie concessionarie, improvvisamente e contro ogni principio di gestione dei beni pubblici e della concorrenza, in barba ad ogni considerazione relativa al rispetto dei parametri ambientali concordati (il 70% delle piattaforme operano in gravissimo sforamento dei parametri) vedrebbero cambiare i termini del contratto, avendo la possibilità di gestire le concessioni “fino ad esaurimento dei giacimenti”.
Un regalo che si tradurrebbe in una pericolosa incertezza circa gli obblighi di messa in sicurezza delle aree e di ripristino delle condizioni ambientali a fine concessione, in una riduzione ulteriore delle royalties (nel combinato disposto di tempi più lunghi e della citata “franchigia” sui primi quantitativi estratti), e che farebbe rientrare dalla finestra, potenzialmente, persino la realizzazione di nuovi impianti di estrazione, in barba al divieto entro le 12 miglia, purché previsti dalle concessioni già attive.
Il voto del 17 aprile sarà centrato sulla richiesta di annullare i benefici di tale condono. Ma la partita che si gioca, nell’ottica della strategia complessiva qui sinteticamente descritta, è di tutt’altro livello.
Il cavallo di battaglia dei promotori del “no” (o, peggio, dell’astensione), sarebbe quello dell’inutilità di questo quesito, descritto come il suicidio di un popolo che rinuncia al proprio futuro: in pochissimi, però, ricordano che una scelta del genere arriverebbe in assoluta coerenza con i recentissimi impegni che il nostro governo ha sottoscritto assieme ad altri 194 Paesi durante la COP21 di Parigi, che a dicembre scorso ha messo per sempre le fossili “dalla parte sbagliata della storia”.
Per contenere i cambiamenti climatici entro una soglia sostenibile per il pianeta (2 gradi centigradi di innalzamento della temperatura media, ma meglio se 1,5), il processo strategico di decarbonizzazione dell’economia deve vedere un’immediata e importantissima accelerazione che prevede, tra le altre cose, che i 2/3 delle risorse fossili (metano compreso) debbano restare nel sottosuolo, senza “se” e senza “ma”.
La vittoria del si bloccherebbe progressivamente, in circa 10 anni, la produzione di quantitativi di gas metano pari al 3% del consumo nazionale e di petrolio di meno dell’1%: in un tempo decisamente minore si può compensare tale perdita con interventi minimi di efficientamento energetico (di strutture pubbliche, di processi produttivi, di abitazioni), potenziando un settore strategico, perfettamente in grado di riassorbire le eventuali perdite di posti di lavoro “oil&gas”.
Davvero un Paese che dovrà, assieme all’Europa, ridurre le proprie emissioni almeno del 60-70% entro il 2050 può temere un impegno così contenuto?
Davvero, in un Paese che ha pagato lo scorso anno il prezzo di 84.400 morti premature per inquinamento, si vuole credere che esista ancora una possibilità di cedere al ricatto salute-lavoro?
Davvero si pensa che il lavoro o l’indipendenza energetica verranno da un’industria fortemente sovvenzionata, destinata inesorabilmente ad esaurirsi, mentre si sceglie di riempire di zavorra i percorsi di costruzioni delle filiere industriali nazionali legate alle rinnovabili, all’efficienza energetica e si dimentica sistematicamente di investire su quei sistemi di mobilità nuova e sostenibile che ridurrebbero i consumi e gioverebbero a salute e benessere?
Questo referendum, dalla gittata apparentemente contenuta, ha invece un potere dirompente, perché la vittoria del SI può dare una spallata ad un castello di bugie, può mostrare che la strada verso la democrazia energetica, verso una promozione sostenibile dei talenti sani dei nostri territori (paesaggio, cultura, turismo, pesca e agricoltura sostenibili, eccellenze agro-alimentari) è segnata e che non si torna più indietro.
Un “sì” fermo e collettivo può essere il sasso che Davide scaglia contro Golia. Può essere la mossa del cavallo, che balza fuori dal piano della discussione su cui fittiziamente vuole tenerti l’avversario, e vince la partita intera.
«Referendum trivelle. Lo stato dell’arte è il seguente: ad oggi nessuna società petrolifera può chiedere nuovi permessi e nuove concessioni. Ma quel che la legge non consente non significa che venga impedito. Ad alcune condizioni». Il manifesto, 29 marzo 2016
Il prossimo 17 aprile i cittadini italiani si recheranno alle urne per decidere se cancellare la norma che attualmente consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Lo stato dell’arte è il seguente: ad oggi nessuna società petrolifera può chiedere nuovi permessi e nuove concessioni. Ma quel che la legge non consente non significa che venga impedito. Ad alcune condizioni.
I procedimenti amministrativi che erano in corso al momento dell’entrata in vigore della legge di stabilità 2016, finalizzati al rilascio di nuovi permessi e di nuove concessioni, sono stati chiusi; le attività di ricerca e di estrazione di gas e petrolio attualmente in essere sono state tuttavia procrastinate dalla legge di stabilità 2016 senza limiti di tempo, ossia per tutta la “durata di vita utile del giacimento”. Ciò significa che quelle attività cesseranno solo in due casi: qualora le società petrolifere concluderanno che sia ormai antieconomico estrarre oppure qualora il giacimento sarà esaurito.
Dal punto di vista normativo, aver procrastinato senza limiti di tempo quelle attività non può dirsi del tutto coerente con la ratio che informa la decisione legislativa, in quanto il divieto di effettuare nuove ricerche e nuove estrazioni si giustificherebbe sulla base di “gravi ragioni di carattere ambientale”; così almeno si leggeva nella relazione illustrativa al decreto sviluppo adottato dal Governo Monti, con il quale si introduceva il limite delle 12 miglia marine. Eppure, tertium non datur: o quelle ragioni sussistono sempre o quelle ragioni non sussistono mai.
Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi – che ha definito il referendum “inutile” – è però di altro avviso: egli sostiene che l’attuale quadro normativo sia perfettamente coerente, in quanto, nonostante le attività di estrazione già autorizzate e ricadenti entro le 12 miglia marine potranno continuare ad essere esercitate, non sarà più possibile installare nuove piattaforme e perforare nuovi pozzi. In altre parole, non sarà più possibile “trivellare”.
Questa affermazione è, però, inesatta: attualmente, la legge non consente che entro le 12 miglia marine siano rilasciate nuove concessioni, ma non impedisce, invece, che a partire dalle concessioni già rilasciate siano installate nuove piattaforme e perforati nuovi pozzi. La costruzione di nuove piattaforme e la perforazione di nuovi pozzi è, infatti, sempre possibile se il programma di sviluppo del giacimento (o la variazione successiva di tale programma) lo abbia previsto. Questa conclusione è avvalorata anche da un parere del Consiglio di Stato del 2011, reso al Governo Berlusconi, che chiedeva lumi sulla portata del divieto di ricerca ed estrazione di petrolio entro le 5 miglia marine introdotto l’anno prima nel Codice dell’ambiente. La risposta del Consiglio di Stato è stata la seguente: il divieto non riguarda i permessi e le concessioni già rilasciati e non ricomprende le seguenti attività: l’esecuzione del programma di sviluppo del campo di coltivazione come allegato alla domanda di concessione originaria; l’esecuzione del programma dei lavori di ricerca come allegato alla domanda di concessione originaria; la costruzione degli impianti e delle opere necessarie, degli interventi di modifica, delle opere connesse e delle infrastrutture indispensabili all’esercizio; i programmi di lavoro già approvati con la concessione originaria; la realizzazione di attività di straordinaria manutenzione degli impianti e dei pozzi che non comportino modifiche impiantistiche.
Ora, è sufficiente andare a verificare quali siano le concessioni tutt’ora vigenti (e ricadenti entro le 12 miglia marine) e leggere l’originario programma di sviluppo del giacimento per capire che nuove trivellazioni ci saranno eccome. Basti pensare alla concessione C.C 6.EO nel Canale di Sicilia, che interessa le 12 miglia marine per circa 184 kmq: rilasciata nel 1984, essa ha ottenuto una proroga il 13 novembre scorso, con scadenza al 28 dicembre 2022. Ebbene, in base a tale proroga, la società Edison potrà costruire una nuova piattaforma – denominata Vega B – e perforare 12 nuovi pozzi.
Se vincerà il “no” (o se il referendum non raggiungerà il quorum) la piattaforma potrà essere realizzata, i pozzi perforati e l’estrazione potrà darsi senza limiti di tempo, fino a quando la società petrolifera lo vorrà; se, al contrario, vincerà il “sì”, potrebbero profilarsi due differenti epiloghi: o si riterrà – come sarei propenso a ritenere – che la piattaforma Vega B non potrà essere realizzata, i pozzi non potranno essere perforati e l’estrazione non potrà essere avviata (e questo in quanto il quesito originariamente proposto dalle regioni aveva ad oggetto anche l’abrogazione della norma sui “procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi” e sulla “esecuzione” delle attività relative); oppure dovrà ritenersi che la Edison potrà comunque completare la sua attività, ma fino alla scadenza della proroga, e cioè fino al 2022; il che, per ragioni di mero calcolo economico, potrebbe anche comportare una rinuncia preventiva da parte della società petrolifera alla realizzazione degli impianti e all’estrazione del greggio. Ma quale che sia l’epilogo, una cosa sembra certa: che il referendum del 17 aprile proprio inutile non sarà.
17 aprile: l'evento che il governo Renzi e i padroni degli affari petrolieri vorrebbero nascondere Domande e risposte sulla consultazione perché tutti comprendano che occorreun SI per salvare i nostri mari. Il manifesto, 17 marzo 2016
Il 17 aprile si andrà alle urne contro le trivelle e la petrolizzazione offshore. Abbiamo chiesto alcuni chiarimenti al coordinamento nazionale «No triv».
Di che si tratta?
E’ un referendum abrogativo, e cioè di uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che la Costituzione italiana prevede per richiedere la cancellazione, in tutto o in parte, di una legge dello Stato. Perché la proposta soggetta a referendum sia approvata occorre che vada a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto e che la maggioranza si esprima con un «Sì». Hanno diritto di voto tutti i cittadini italiani, anche residenti all’estero, che abbiano compiuto la maggiore età. Scrivendo «Sì» sulla scheda i cittadini avranno la possibilità di eliminare la norma sottoposta a referendum.
Dove si voterà e cosa si chiede esattamente con questo referendum?
Si voterà in tutta Italia e non soltanto nelle regioni che hanno promosso il referendum per chiedere di cancellare la norma che consente alle multinazionali del greggio di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia dalle coste del nostro Paese senza limiti di tempo.
Qual è il testo del quesito?
Il testo è il seguente: ’Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ’Norme in materia ambientale’, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016), limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?’.
È possibile che qualora il referendum raggiunga la maggioranza dei «Sì» il risultato venga poi «tradito»?
A seguito di un esito positivo del referendum, la cancellazione della norma che al momento consente di estrarre gas e petrolio senza limiti di tempo sarebbe immediatamente operativa. L’obiettivo del referendum mira a far sì che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto. Come la Corte costituzionale ha più volte precisato, il Parlamento non può successivamente modificare il risultato che si è avuto con il referendum, altrimenti lederebbe la volontà popolare espressa attraverso la consultazione. Qualora però non si raggiungesse il quorum previsto perché il referendum sia valido (50% più uno degli aventi diritto al voto), il Parlamento potrebbe fare ciò che vuole: anche mettere in discussione la zona offlimits.
È vero che se vincesse il «Sì» si perderebbero posti di lavoro?
Un esito positivo non farebbe cessare immediatamente, ma solo progressivamente, alla naturale scadenza, le attività petrolifere interessate dal provvedimento. Prima che il Parlamento introducesse la norma sulla quale gli italiani sono chiamati al voto, le concessioni per estrarre avevano normalmente una durata di trenta anni (più altri venti, al massimo, di proroga). E questo ogni società petrolifera lo sapeva al momento del rilascio della concessione. Oggi, di fatto, non è più così: se una società petrolifera ha ottenuto una concessione nel 1996 può – in virtù di quella norma – estrarre fino a quando lo desideri. Se, invece, al referendum vincerà il «Sì», la società petrolifera che ha ottenuto una concessione nel 1996 potrà estrarre per dieci anni, ancora e basta, e cioè fino al 2026. Dopodiché quello specifico tratto di mare interessato dall’estrazione sarà libero per sempre.
L’Italia dipende fortemente dalle importazioni di petrolio e gas dall’estero. Non sarebbe, quindi, opportuno investire nella ricerca degli idrocarburi ed incrementarne l’estrazione?
Gli idrocarburi presenti in Italia appartengono al patrimonio dello Stato, ma questo dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti esistenti. Ciò significa che le multinazionali divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano. Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7% del valore della quantità di petrolio estratto o al 10% del valore della quantità di gas estratto. Non tutta la quantità di petrolio e gas estratto è però soggetta a royalties. Le società petrolifere, infatti, non versano niente per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas tirati fuori ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo. Nell’ultimo anno dalle royalties provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati nelle casse pubbliche solo 340 milioni di euro.
Il rilancio delle attività petrolifere non costituisce un’occasione di crescita per l’Italia?
Considerando tutto il petrolio presente sotto il mare italiano, questo sarebbe appena sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale di greggio per 7 settimane. Le riserve di gas per appena 6 mesi.
Cosa ci si attende?
Il voto referendario è uno dei pochi strumenti di democrazia diretta a disposizione degli italiani ed è giusto che i cittadini abbiano la possibilità di esprimersi anche sul futuro energetico del nostro Paese. Nel dicembre del 2015 l’Italia ha partecipato alla Conferenza Onu sui cambiamenti climatici tenutasi a Parigi, impegnandosi, assieme ad altri 194 Paesi, a contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi e a seguire la strada della decarbonizzazione. Fermare le trivellazioni in mare è in linea con gli impegni presi a Parigi e contribuirà al raggiungimento di quell’obiettivo.

Un fervido appello di Alex Zanotelli perchè il 17 aprile, sconfiggendo l'ostruzionismo del governo nazionale e dei gruppi petrolieri, tutti votino SI alla richiesta di abrogazione della norma che consente l'ulteriore estrazione del petrolio sulle coste italiane
Il 17 aprile dobbiamo tutti/e prepararci ad andare a votare il nostro SI’per il Referendum, proposto da nove regioni e dai comitati No Triv .
Ricordiamoci che si tratta di un Referendum abrogativo di una legge del governo Renzi sulle trivellazioni petrolifere, per cui è da votare SI’ all’abrogazione!)
La sola domanda referendaria su cui dovremo esprimerci sarà : “Si può estrarre petrolio fino all’esaurimento dei pozzi autorizzati che si trovano lungo le coste italiane entro le 12 miglia?” [vedi l'esatta domanda referendaria in calce- n.d.r]
Inizialmente erano sei le domande referendarie proposte dalle nove regioni (Basilicata, Puglia, Molise, Veneto, Campania, Calabria, Liguria, Sardegna e Marche). Ma la Cassazione ha bocciato l’8 gennaio le altre cinque domande perché il Governo Renzi, nel frattempo, aveva furbescamente riscritto due commi del Decreto Sblocca Italia 2016. Per cui ne rimane una sola.
Le ragioni date dai comitati NO TRIV per votare SI’ sono tante: il pericolo di sversamenti di petrolio in mare con enormi danni alle spiagge e al turismo, il rischio di movimenti tellurici legati soprattutto all’estrazione di gas e l’alterazione della fauna marina per l’uso dei bombardamenti con l’aria compressa.
Ma la ragione fondamentale per votare SI’ è ,che se vogliamo salvarci con il Pianeta, dobbiamo lasciare il petrolio ed il carbone là dove sono, cioè sottoterra! Il Referendum ci offre un’occasione d’oro per dire NO alla politica del governo Renzi di una eccesiva dipendenza dal petrolio e dal carbone per il nostro fabbisogno energetico. Gli scienziati ci dicono a chiare lettere, che se continuiamo su questa strada, rischiamo di avere a fine secolo dai tre ai cinque centigradi in più. Sarà una tragedia!
Papa Francesco ce lo ripete in quel suo appassionato Laudato Si’:”Infatti la maggior parte del riscaldamento globale è dovuto alla grande concentrazione di gas serra emessi soprattutto a causa dell’attività umana. Ciò viene potenziato specialmente dal modello di sviluppo basato sull’uso intensivo dei combustili fossili(petrolio e carbone) che sta al centro del sistema energetico mondiale.” Il Vertice di Parigi sul clima , il cosidetto COP 21, dello scorso dicembre , lo ha evidenziato , ma purtroppo ha solo invitato gli Stati a ridurre la dipendenza da petrolio e carbone. E così gli Stati, che sono prigionieri dei poteri economico-finanziari, continuano nella loro folle corsa verso il disastro. Per questo il Referendum contro le trivellazioni diventa un potente grimaldello in mano al popolo per forzare il governo Renzi ad abbandonare l’uso dei combustibili fossili a favore delle energie rinnovabili.
Trovo incredibile che il governo Renzi non solo non abbia obbedito a quanto deciso nel vertice di Parigi, ma che non abbia ancora calendarizzato la discussione parlamentare per sottoscrivere gli impegni di Parigi entro il 22 aprile. In quel giorno infatti le nazioni che hanno firmato l’Accordo di Parigi si ritroveranno a New York per rilanciare lo sforzo mondiale per salvare il Pianeta. Sarebbe grave se mancasse l’Italia.
Per questo mi appello alla Conferenza Episcopale Italiana perché, proprio sulla spinta di Laudato Si’, inviti le comunità cristiane ad informarsi su questi temi vitali per il futuro dell’uomo e del Pianeta, e votare quindi di conseguenza.
Mi appello a tutti i sacerdoti perché nelle omelie domenicali spieghino ai fedeli la drammatica crisi ecologica che ci attende se continueremo a usare petrolio e carbone.
Mi appello alle grandi associazioni cattoliche (ACLI, Agesci, Azione Cattolica…) a mobilitare i propri aderenti perché si impegnino per la promozione del SI’ al Referendum.
“Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti….Gli atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione, anche fra i credenti, vanno dalla negazione del problema all’indifferenza, alla rassegnazione comoda o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche. Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale. Come hanno detto i vescovi del Sudafrica” I talenti e il coinvolgimento di tutti sono necessari per riparare il danno causato dagli umani sulla creazione di Dio.”
Diamoci da fare tutti/e, credenti e non, per arrivare al Referendum con una valanga di SI’ per salvarci con il Pianeta.
IL QUESITO sul quale bisogna votare SI è il seguente:
«Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?»
. Questo è il testo del quesito, promosso da 9 regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise), che rappresentano anche il comitato ufficiale per il SI.

Gli sfruttatori delle risorse dei popoli impoveriti dallo sfruttamento avevano minacciato la dirigente ambientalista di farle fare la fine degli altri attivisti delle comunità indigene. Nonostante la "vigilanza" del governo lo hanno fatto. Articoli di F. Martone e G. Colotti. Il manifesto, 4 marzo 2016
LA VIOLENZA DEL «CAPITALISMO ESTRATTIVO»
di Fracesco Martone
Honduras. L’impatto di quella che David Harvey ha definito la seconda fase del capitalismo, quella «estrattivista». È piuttosto questione di vita o di morte come dimostra la tragica notizia di ieri dell’assassinio della leader indigena dell’Honduras Berta Caceres, ennesima cronaca di una morte annunciata. Insignita lo scorso anno del prestigiosissimo Goldman Environmental Prize
, Berta era un esempio, un punto di riferimento, una compagna per chi lavora accanto a comunità indigene, chi sostiene la resistenza contro le grandi opere, il diritto all’autodeterminazione
Ha suscitato ammirazione il discorso di accettazione del premio Oscar per
The Revenant nel quale Leonardo di Caprio esprime il suo sostegno ai popoli indigeni, alle loro lotte contro le imprese multinazionali, e per proteggere la Terra dai cambiamenti climatici. Non va però dimenticato che non è un pranzo di gala la realtà sul terreno, per le migliaia e migliaia di indigeni, campesinos, uomini e donne che soffrono un impatto devastante.
L’impatto di quella che David Harvey ha definito la seconda fase del capitalismo, quella «estrattivista». È piuttosto questione di vita o di morte come dimostra la tragica notizia di ieri dell’assassinio della leader indigena dell’Honduras Berta Caceres, ennesima cronaca di una morte annunciata. Insignita lo scorso anno del prestigiosissimo Goldman Environmental Prize , Berta era un esempio, un punto di riferimento, una compagna per chi lavora accanto a comunità indigene, chi sostiene la resistenza contro le grandi opere, il diritto all’autodeterminazione.
Nel 2010 aveva partecipato come testimone alla sessione del Tribunale Permanente dei Popoli dedicata alle imprese europee in America Latina, in occasione del vertice- Euro-Latinoamericano di Madrid. Dal 2013 in Honduras erano state assassinate altre tre donne compagne di Berta, che lottavano accanto a lei contro la diga di Agua Zarca sul fiume Gualcarque, dalla quale proprio a seguito delle campagne di pressione di Berta e delle reti di solidarietà internazionali si erano ritirate la International Finance Corporation della Banca Mondiale e l’impresa statale cinese Sinohydro. Va sottolineato che dal golpe del 2009 che portò alla destituzione del presidente Zelaya il paese ha registrato un aumento esponenziale di progetti idroelettrici per la generazione di energia a basso costo necessaria per alimentare le attività di estrazione mineraria.
Ed è proprio da allora che il mondo sembra essersi dimenticato dell’Honduras. Poco più di una settimana fa Berta e 200 esponenti delle comunità indigena del popolo Lenca vennero fatti oggetto di gravi intimidazioni da parte dei sostenitori della diga, in occasione di una loro manifestazione di protesta quando vennero fatti scendere a forza dai bus e costretti a camminare per cinque ore attraverso zone infestate dai paramilitari. Sempre a febbraio alcune comunità del popolo Lenca erano state espulse dalle loro terre con la forza. Oggi la notizia del suo assassinio nella sua casa nel paesino di Esperanza, Intibucà. Il suo nome si unisce a quelle decine di difensori della terra che ogni anno cadono per mano di sicari, forze di sicurezza, «pistoleros» di imprese o di grandi latifondisti.
Secondo l’ONG Global Witness solo nel 2014 sono caduti 116 difensori della terra, in una media di due a settimana. Il 40% erano indigeni la cui unica colpa era quella di opporsi a progetti idroelettrici, minerari o di estrazione mineraria nella maggior parte dei casi imposti violando le Convenzioni internazionali sui diritti dei popoli indigeni ed il loro diritto al consenso previo libero ed informato. 3/4 dei casi registrati da Global Witness erano in Centramerica ed in Sudamerica. Dal 2004 al 2016 solo in Honduras hanno trovato la morte 111 leader ambientalisti ed indigeni. Una strage silenziosa quella dei difensori della terra, denunciata più volte, ad esempio in occasione delle iniziative parallele alla COP20 di Lima, funestate dalla notizia dell’uccisione di Josè Isidro Tendetza Antun, leader Shuar ecuadoriano trovato morto pochi giorni prima di recarsi a Lima per testimoniare ad una sessione del Tribunale dei Diritti della Natura e delle Comunità Locali, che ha in cantiere proprio una sessione dedicata ai difensori della Madre Terra.
Nel 2014 Edwin Chota, leader della comunità Ashaninka nell’Amazzonia peruviana venne ucciso assieme ad altri tre suoi compagni per essersi opposto all’estrazione di legname dalle sue terre. Tomas Garcia compagno di lotta di Berta assassinato nel 2013 o Raimundo Nonato di Carmo che si opponeva alla diga di Tucurui, o Raul Lucas e Manuel Ponce uccisi nel febbraio del 2009 per essersi opposti alla diga di Parota ad Acapulco, Una sequela interminabile di omicidi collegati alla costruzione di dighe o altri progetti di sfruttamento delle risorse naturali.
Andando ancora indietro nel tempo, e riaprendo gli archivi del genocidio Maya perpetrato in Guatemala dalle varie dittature militari, riemerge la storia delle centinaia di indigeni Maya Achì, 376, sterminati dall’esercito per far posto alla diga di Chixoy, allora costruita dalla Cogefar Impresit, grazie a finanziamenti della Banca mondiale e poi anche della cooperazione italiana. Solo qualche mese fa, dopo venti anni, i parenti di quei morti hanno iniziato ad ottenere un risarcimento dal governo guatemalteco.
HONDURAS,
LA TOMBADEGLI AMBIENTALISTI
di Geraldina Colotti
Honduras. L’Honduras è uno dei paesi più pericolosi al mondo per gli ambientalisti. Secondo la ong Global Witness, tra il 2002 e il 2014 nel sono stati ammazzati 111. Solo nel 2014 - segnala la ong - in America latina sono stati uccisi 88 ecologisti, il 40% dei quali indigeni
La dirigente indigena Berta Caceres è stata uccisa in Honduras mercoledì scorso nella città di Esperanza, dipartimento occidentale di Intibucá, dove viveva. Due uomini armati le hanno sparato nella notte, eludendo la sorveglianza di una guardia armata, ora sotto inchiesta. Anche il fratello è rimasto ferito. Una morte annunciata, che chiama in causa le responsabilità dello stato, visto che la storica leader del Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras (Copinh) era sottoposta a misure cautelari dopo l’ennesimo processo subito per la sua attività in difesa delle risorse naturali. Per questo, l’anno scorso ha ricevuto il premio Goldman, il massimo riconoscimento mondiale per un’ambientalista. Durante la consegna del riconoscimento ha denunciato: «Mi seguono, minacciano di uccidermi, di sequestrarmi. Minacciano la mia famiglia. A questo dobbiamo far fronte». La Commissione interamericana dei diritti umani, aveva ordinato al governo neoliberista di Juan Orlando Hernandez di garantire la sua sicurezza.
L’Honduras è uno dei paesi più pericolosi al mondo per gli ambientalisti. Secondo la ong Global Witness, tra il 2002 e il 2014 nel sono stati ammazzati 111. Solo nel 2014 – segnala la ong – in America latina sono stati uccisi 88 ecologisti, il 40% dei quali indigeni. Una cifra che equivale ai 3/4 degli assassinii commessi contro ambientalisti in qualunque parte del mondo. La resistenza organizzata delle popolazioni indigene contro le grandi imprese idroelettriche e minerarie – che devastano il territorio e obbligano gli indigeni ad andarsene -, ha però realizzato anche vittorie importanti, seppur pagate a caro prezzo. Caceres, il Copinh e le comunità indigene in lotta per la difesa dei propri territori ancestrali, sono riusciti a fermare la multinazionale Sinohydro: che ha deciso di ritirare la partecipazione nella costruzione del Rio Gualcarque a cui era interessata anche la Corporazione finanziaria internazionale, istituzione della Banca Mondiale. Un progetto che, oltre a privatizzare il fiume, avrebbe distrutto le attività agricole intorno per vari chilometri.
L’ultima lotta a cui ha partecipato Berta è stata quella contro l’attività di una impresa idroelettrica in una comunità indigena del Rio Blanco, a Santa Barbara. La settimana scorsa, aveva denunciato in una conferenza stampa che quattro dirigenti della sua comunità erano stati assassinati e altri minacciati. E nelle ultime settimane la repressione si era intensificata. Il 20 febbraio, nel rio Blanco, i nativi sono scontrati con l’impresa honduregna Desa, che gode di grandi finanziamenti internazionali e che ha preso di mira il fiume Gualcarque.
La coordinatrice del Copinh è stata anche in prima fila nella resistenza al colpo di stato contro l’allora presidente Manuel Zelaya, deposto dai militari il 28 giugno del 2009. Il pur moderato “Mel” aveva avuto l’ardire di volgersi alle nuove alleanze solidali dell’America latina come l’Alba, ideate da Cuba e Venezuela. Da allora, in un paese sempre più povero e ingiusto, le concessioni senza regole alle grandi multinazionali sono aumentate in modo esponenziale, distruggendo la possibilità di sopravvivenza dei popoli originari. Quasi il 30% del territorio nazionale è stato destinato a concessioni minerarie, e centinaia di progetti idroelettrici sono stati approvati, privatizzando fiumi, territori e obbligando all’esodo le comunità native.
Il progetto Agua Zarca, destinato a prender forma sul fiume Guarcarque, sacro per i nativi, è stato approvato senza alcuna consultazione del popolo Lenca, in palese violazione ai trattati internazionali che regolano i diritti dei popoli indigeni. Nonostante vari pronunciamenti delle organizzazioni internazionali per i diritti dei nativi, i grandi interessi economici hanno continuato a imporsi con violenza.
L’anno scorso, Honduras e Guatemala sono stati attraversati dalla protesta degli indignados, scoppiata a seguito di grandi scandali per corruzione che hanno interessato gli alti vertici dello stato. A maggio del 2015, il Movimiento Oposicion Indignada ha effettuato diverse marce contro l’impunità dopo l’esplosione di uno scandalo per una truffa milionaria all’Instituto Hondureno de Seguridad Social (Ihss). La principale richiesta è stata quella di una Commissione internazionale contro l’impunità in Honduras (Cicih), simile a quella che hanno creato con il Guatemala le Nazioni unite nel 2006. Il presidente Hernandez, però, ha chiesto l’appoggio dell’Osa e dell’Onu, per richiudere con un’operazione di facciata gli spiragli aperti dalle proteste. E i movimenti hanno rifiutato i palliativi. Tuttavia, a fine febbraio l’Osa e l’Onu hanno installato la missione anticorruzione in base a cinque punti, che prevedono “raccomandazioni” e la creazione di un Osservatorio sulla giustizia, composto da organizzazioni accademiche e della società civile, deputate a valutare i progressi della riforma del sistema giudiziario honduregno.
Una parata di alto bordo per salvare la faccia a un regime che risponde alle oligarchie e agli interessi sovranazionali, composta da rappresentanti del Dipartimento di Stato Usa e dall’Osa che da sempre ne dipende: e che contrasta per questo ogni tentativo di governare altrimenti i conflitti e le relazioni in America latina. Un tentativo di tenere a freno la polveriera centroamericana dove il vento del Socialismo del XXI secolo non si è diffuso, ma che guarda al campo progressista e ai movimenti che lo animano come a uno stimolo per resistere e per progettare. Dopo la deposizione di Zelaya, i movimenti di resistenza sono andati avanti, cercando una sponda politica anche istituzionale. Nonostante brogli e aggressioni, alle ultime elezioni Xiomara Castro, moglie di Zelaya, che ha corso per il partito Libre, ha raccolto un grande consenso.
Il sostegno dei paesi dell’Alba non è mai venuto meno. Zelaya, che abbiamo incontrato a dicembre in Venezuela, è stato uno degli osservatori internazionali alle ultime elezioni legislative, e ha sostenuto il chavismo. Berta Caceres ha viaggiato molto per incontrare i movimenti dell’Alba in America latina. Che ora ne piangono la scomparsa.

Sarà una resistenza durissima fino a quando la religione de Denaro non sarà stata sconfitta e il sistema capitalistico superato da uno finalmente umano. La Repubblica, 2 marzo 2016
«GLI STRANIERI hanno una visione finanziaria della terra. Per loro è moneta. Per noi è vita ». Nicholas Fredericks lotta da anni perché ai Wapichan venga riconosciuto legalmente il diritto alle loro terre ancestrali nella Guyana. Dieci anni fa furono le guide del suo popolo a guidare il team dello Smithsonian Institution che individuò il lucherino rosso, uccello che si credeva estinto. Eppure le loro foreste sono a rischio. «Sono la nostra vita, ma ci sono state tolte».
Oltre la metà delle terre di questo pianeta sono protette dai popoli indigeni e dalle comunità locali. Due miliardi e mezzo di persone che ogni giorno preservano gli ecosistemi più importanti del mondo, spesso a costo della vita. I Wapichan della Guyana, gli Yanomami e i Kayapó del Brasile, i Kui della Cambogia, i Masai del Kenya o i Garifuna del Belize. Sono loro i “custodi del pianeta” che ogni giorno combattono in prima fila contro i cambiamenti climatici, la povertà e l’instabilità politica, ma che rischiano di perdere tutto perché il loro diritto alla terra viene riconosciuto dai governi solo in un decimo dei casi. È di loro che parla il rapporto “Common ground”, diffuso oggi da Oxfam insieme all’International Land Coalition (Ilc) e all’Istituto di ricerca statunitense Rights and Resource Initative (Rrri), che segna il lancio della campagna Lands Rights Now in difesa del diritto alla terra dei popoli indigeni e delle comunità locali. L’obiettivo è raddoppiare entro il 2020 le terre di loro proprietà.
Da quando, negli anni Ottanta, il governo brasiliano ha riconosciuto agli indios del Brasile la titolarità di oltre 300 territori, pari a circa un quinto dell’Amazzonia, il tasso di deforestazione in queste aree è diminuito di oltre un decimo, mentre il resto è stato devastato in gran parte dai coltivatori di soia, dai minatori d’oro o dai rancher. Nella Repubblica Democratica del Congo e in Indonesia i territori indigeni trattengono una quantità di carbonio pari a circa 1,5 volte le emissioni mondiali. Senza una protezione legale, c’è il rischio che vengano rasi al suolo e che la temperatura globale superi i 2°C provocando calamità. «Land Rights Now è una campagna globale per rendere sicuri i diritti alla terra dei popoli indigeni e delle comunità locali contro ogni forma di accaparramento», spiega Luca Miggiano, responsabile del rapporto di Oxfam. «Non è solo giusto, è anche una strategia fondamentale per combattere la fame nel mondo, fermare il cambiamento climatico e conservare l’ambiente così com’è».
In Cambogia è una donna, Yaek Chang, ad avere sfidato due aziende di produzione dello zucchero di canna che nel 2011 avevano ottenuto la concessione di 18mila ettari di terreno, comprese le “Rolumtung”, le foreste degli spiriti sacre per il popolo Kui. E quando l’esercito dello Sri Lanka ha espropriato le loro terre per costruire un resort turistico sulla costa Est del Paese, sono state le donne di Paanama a opporsi al progetto. «Dobbiamo vincere questa battaglia per avere giustizia non solo per noi stesse, ma anche per i nostri figli e per le generazioni precedenti che hanno preservato queste terre per noi», racconta Rathnamali Kariyawasam. «Per questo siamo salite sui tetti del villaggio e ci siamo rifiutate di scendere finché le autorità non ci avessero risposto ». All’inizio del 2015 il governo neoeletto ha dato loro ragione, ma un anno dopo le autorità locali non hanno ancora restituito loro le terre. «Gli accaparramenti della terra non sono “gender- neutral”», spiega Victoria Tauli-Corpuz, relatrice speciale dell’Onu sui diritti dei popoli indigeni. «Sono le donne a rischiare di perdere i loro mezzi di sussistenza tradizionali, come la raccolta del cibo, la produzione agricola e la pastorizia».
Riconoscere il diritto alla terra dei popoli indigeni e delle comunità locali non solo proteggerebbe la biodiversità, ma renderebbe il mondo più equo. E sicuro. Dal 2002 a oggi la ong Global Witness ha documentato oltre mille morti di attivisti per il diritto alla terra o ambientalisti. Per questo, afferma Mike Taylor, direttore di Ilc, «è in gioco la vita di persone che su queste terre comunitarie dimorano e grazie ai frutti di queste terre si sostengono. Se non ci battiamo per assicurare i loro diritti umani fondamentali, non facciamo altro che voltare le spalle a queste comunità e non tutelare l’ambiente».
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Nelle terre riconosciute agli indios in Amazzonia, la deforestazione è diminuita di un quinto I Wapichan della Guyana: “Per gli stranieri la terra è moneta, per noi invece è vita”
NOMADI
Una donna della tribù indiana Van Gujjar. Le foto sono tratte dal rapporto “Common ground”
FOTO: © MICHAEL BENANAV