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Caro direttore, nel 2003 la Coppa America rappresentò un pretesto per stravolgere la pianificazione e realizzare un immenso porto dentro la colmata e parte del parco, ridurre lo stesso parco, aumentare le volumetrie. Stravolgimento formalizzato in un accordo di programma voluto da quello stesso Bassolino che, solo 10 anni prima, aveva fatto del recupero ambientale di Bagnoli lo slogan della campagna elettorale. Oggi la situazione è diversa ma questo non vuol dire meno grave. Diversa perché la giunta ha escluso ogni deroga. Grave perché in venti anni nulla di quanto promesso è stato realizzato. L’errore originario è stato prevedere una società di trasformazione urbana con una mission sbagliata, perché impostata secondo una gestione prevalentemente finanziaria.

I risultati sono: 1) un indebitamento di 339 milioni di euro al 2010 che i revisori dei conti considerano preoccupante; 2) realizzazioni stupefacenti, come la porta del parco, un ettaro di cemento armato - auditorium e centro benessere costruito peraltro ben lontano dalle fonti termali – lì dove il piano prevede "attrezzature di quartiere" (ciò che fa dubitare della conformità urbanistica); 3) grovigli giuridici infiniti (dall’esproprio dei suoli, annullato dal Tar, alla vicenda relativa al porto, la cui ultima versione, il porto partenope, prevista in una recente conferenza dei servizi, è stata giustamente annullata dal Consiglio di Stato); 4) inchieste penali che da anni stanno verificando la correttezza della bonifica, stranamente non ancora concluse; 5) la mancata realizzazione del parco; 6) l’approvazione del progetto del primo lotto del parco di soli 40 ettari, più pavimentato che verde; 7) l’aumento delle cubature residenziali deciso dalla Iervolino; 8) la "seconda" gara in corso per la vendita dei suoli più pregiati di Bagnoli, quelli a ridosso del mare; 9) la realizzazione con sperpero di soldi pubblici di barriere artificiali sulla battigia e coperture della sabbia inquinata con teli e sabbia pugliese per rendere possibile l’elioterapia.

Eredità pesantissima che crea ancora più difficoltà a chi come de Magistris intende finalmente realizzare il progetto originario. La riduzione del parco, l’aumento dei volumi e la trasformazione della colmata in porto erano obiettivi espliciti dell’accordo di programma del 2003. Oggi lo stravolgimento del disegno originario non passa per la Coppa America, ma deriva dalla mala gestione. Certamente se si dovesse utilizzare la colmata come base delle barche la speculazione potrebbe avere un facile pretesto per chiederne la conservazione: sarebbe quindi un errore e occorre trovare una soluzione alternativa.

Ma la vera questione Bagnoli oggi è rappresenta dall’eredità disastrosa (economica, giuridica e amministrativa) che è stata lasciata. Questa eredità costringe la giunta de Magistris a ricercare una difficilissima soluzione alla quale devono partecipare tutte le energie sane della città e tutti coloro che in questi anni si sono opposti con forza a questa gestione. Occorre un radicale cambiamento di strutture, mission, pratiche amministrative sinora seguite e degli uomini, che sia studiato per realizzare quanto promesso da venti anni: rimozione della colmata, ricostituzione della morfologia naturale della linea di costa, come previsto dalla legge dello Stato e dal vincolo paesistico, recupero della balneazione (senza nessun porto) e realizzazione del parco urbano.

L’autore è presidente della commissione Urbanistica del Comune di Napoli

Bene ha fatto Luigi de Magistris a lanciare il cuore oltre l'ostacolo, anche se l'ostacolo è una montagna di spazzatura enorme. Ho sentito molti amici, sostenitori di De Magistris della prima ora, scorati e arrabbiati per la gaffe del sindaco con la sua promessa di superare l'emergenza rifiuti nel giro di cinque giorni.

Personalmente credo che il sindaco di Napoli non abbia nulla di cui pentirsi, nemmeno dell'annuncio. Aveva le carte in regola per farlo, data l'esistenza di un preciso accordo con la Provincia di e la Regione, accordo che non ha avuto seguito non certo per sua responsabilità non avendo l'autorità per controllare e garantire l'effettiva apertura dei siti fuori dal Comune.

Voglio invece insistere sulla legittimità dell'annuncio per due ordini di motivi. Il primo: sottolineare la differenza con gli annunci di soluzioni miracolistiche sistematicamente fatti da Berlusconi. Il secondo è più sottile, forse irrilevante, ma interessante dal punto di vista culturale. Comincio da questo. Dalla scuola di quel grande sociologo e filosofo che era Massimo Troisi ho scoperto l'importanza della scaramanzia, del non dare per scontate anche cose sicure, del non fidarsi del fato e degli uomini perché non si sa mai. Insomma una sorta di pessimismo che lascia solo un angolino alla speranza che l'evento giusto e fortunato si realizzi. Troisi ne diede una lezione magistrale in occasione dello scudetto al Napoli ai tempi di Maradona. Lo scudetto era già stato vinto aritmeticamente con tre domeniche di anticipo e Troisi in una celeberrima intervista a Gianni Minà affermava: «Questa volta penso proprio che forse ce la possiamo fare». La scaramanzia è un dato culturale napoletano - del quale forse faremmo bene a liberarci - nel quale io stesso purtroppo mi ritrovo.

Non così De Magistris. Poteva non fidarsi degli accordi o, per scaramanzia, non parlare troppo, non annunciare la soluzione concordata. Ma perché? Poteva mostrare maggior cautela: forse sarebbe stato più utile e opportuno, o forse no. Comunque, dato il personaggio, non c'era proprio da aspettarselo. Poteva solo con determinazione insistere sul suo progetto e il suo programma e chiedere, a testa alta e senza vittimismi, la collaborazione di chi ha il potere di affrontare l'emergenza (garantendo da parte sua quanto è di competenza del Comune). Questo è ciò che ha fatto. E dobbiamo solo augurarci che Governo, Regione e Provincia facciano la loro doverosa parte, controllando gli attacchi eversivi della Lega.

In questo consiste la differenza con gli annunci miracolistici berlusconiani. Non c'è la genialità di un capo. C'è - e soprattutto ci dovrà essere - il rispetto dei compiti istituzionali di ciascuna delle parti in causa in questo dramma. Più di una volta Berlusconi e Bertolaso hanno affrontato l'emergenza rifiuti "in modo definitivo" (salvo vederla ricomparire a ogni pie' sospinto) manu militari ed extra legem. Gli interventi di Bertolaso e Berlusconi (con la incredibile fiducia accordata al primo anche dalle amministrazioni di sinistra) hanno rappresentato un disastro immane oltre che una pratica diseducativa. Penso a questo riguardo al perennemente richiamato intervento dell'esercito. Ma penso soprattutto alla pratica di operare fuori da ogni regola e ogni norma di legge. I grandi interventi di Berlusconi sono consistiti sostanzialmente nel nascondere la spazzatura sotto il tappeto. Fuor di metafora, la spazzatura - vorrei pregare di non usare il termine monnezza - venne collocata in discariche il cui uso era stato vietato per motivi ambientali o di altro genere dalla magistratura, grazie al controllo militare delle operazioni. Purtroppo, quando questo accadde anche all'epoca del passaggio dal secondo governo Prodi all'ultimo governo Berlusconi molti nella sinistra plaudirono all'iniziativa con una grande e malcelata ammirazione per la virilità con la quale era stata condotta l'operazione. Anche a Caivano e ad Acerra (i siti indicati nell'accordo con la Provincia) si poteva fare la stessa cosa. O no?

Meglio di no. E c'è da auspicare che i nuovi accordi, con il governo e il ministro competente, per il trasporto dei rifiuti fuori dalla regione in questa fase di emergenza siano rispettati. Non sarà facile. Da una parte abbiamo le dichiarazioni di impegno da parte del ministro dell'ambiente per "l'emergenza" e per "l'ordinarietà", dall'altro abbiamo la Lega, altro partito di governo, che butta benzina sul fuoco minacciando dura opposizione a interventi per il trasferimento dei rifiuti fuori della Campania. Benzina sui cassonetti è gettata anche dalle squadracce che cercano di far esplodere la situazione e di delegittimare De Magistris. E qui è bene ricordare che le montagne di rifiuti si sono accumulate a Napoli ben prima delle ultime elezioni, mentre l'incapacità di gestione dello smaltimento dei rifiuti all'interno della regione va attribuita alla giunta regionale (ormai da un bel po') in mano alla destra.

Certo, ci sono colpe e responsabilità antiche. In primo luogo quella di Antonio Bassolino per non aver voluto denunciare subito, appena eletto presidente della regione, lo scandaloso accordo con Impregilo per il monopolio dello smaltimento di tutti i rifiuti della regione tramite un unico - sempre malfunzionante - inceneritore. Se si fosse provveduto a denunciare subito quell'accordo capestro, si sarebbe potuto dare inizio a una nuova politica di gestione dei rifiuti in chiave ambientalista. Ma si è preferito non farlo. Ci sono poi i problemi connessi alla mancata scelta della raccolta differenziata che, tra l'altro, non riguarda solo il comune di Napoli. Su questo c'è l'impegno realistico a operare da parte della nuova giunta. E l'obiettivo di procedere in tal senso evitando il ricorso agli inceneritori - tra lo scetticismo di tutti - non era solo del programma di De Magistris ma finanche in quello del prefetto Morcone.

Su questa linea bisogna andare avanti nella Napoli assediata in primo luogo dalla Lega, ma non solo. La destra sta tentando di organizzare "quinte colonne" sulle quali c'è necessità di investigare. Non si tratta solo di camorra. Ad esempio - mi suggerisce un amico napoletano - una ditta subappaltatrice della Asìa (l'Azienda per la raccolta dei rifiuti) si sarebbe rifiutata di procedere alla raccolta nel centro storico a partire dai giorni dell'elezione di De Magistris. Sarà un caso, ma è significativo dell'assedio. Le clientele napoletane e nazionali di ogni ordine e grado non apprezzano il nuovo stile di governo

Delegittimare il nuovo sindaco ora serve a dare un colpo alla possibilità di affrontare in prospettiva e nell'emergenza la questione dei rifiuti, ma anche a rendere più difficile la possibilità di rinnovamento. De Magistris ha vinto contro le clientele di destra (e la camorra) ma anche contro le clientele di sinistra. La serietà del suo operato nei primi giorni si può vedere dalle nomine per il governo del Comune e degli apparati tecnici, a partire proprio da quelle che riguardano la gestione del problema ambientale e dei rifiuti in particolare. E per ora c'è solo da apprezzarle.

Per dirla ancora una volta con Troisi, «forse questa volta ce la possiamo fare», nonostante l'assedio.

Il Corriere del Mezzogiorno (vedi in calce)ha informato recentemente che il Ministero per i beni e le attività culturali ha dichiarato “bene d’interesse storico-artistico” un cospicuo lembo (7 ettari) di collina, in un’area centrale di Napoli, restato per anni incolto “in attesa di edificazione” nonostante un vincolo paesistico procedimentale e un vincolo a standard decaduto, nel quale la più specifica salvaguardia urbanistica disposta dalla variante di prg del 1998 ha indotto i proprietari a reimpiantare l’antica vigna scomparsa. Abbiamo chiesto a Giovanni Dispoto, che ha seguito la vicenda negli ultimi lustri, di raccontarla (e.)

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Descrizione dell’area



La Vigna s’identifica topograficamente con gran parte del pendio esposto a sud-est che raccorda i margini settentrionali dei quartieri Spagnoli (corso Vittorio Emanuele III) del centro storico, con la certosa di San Martino e castel Sant’Elmo, il complesso monumentale che sorge al culmine della collina del Vomero. L’area è altresì delimitata a Est e a Ovest da due storici percorsi pedonali: i gradoni della Pedamentina e quelli del Petraio. Questi, partendo entrambi da San Martino, si divaricano raggiungendo in basso il Corso Vittorio Emanuele III, il primo in corrispondenza di Montesanto, il secondo in corrispondenza di Cariati, dove si trovano anche il complesso monastico di San Nicola da Tolentino e l’ex complesso monastico di suor Orsola Benincasa, oggi sede universitaria. Adiacenti ai due percorsi, i tracciati rispettivamente della funicolare di Montesanto e della funicolare Centrale che collegano la città bassa e la città alta.

Il Prg del 1972



L’area era individuata nel Prg del 1972 come zona omogenea I1- Parco di particolare valore paesistico ed ambientale- e la sua attuazione era subordinata, come anche l’attuazione del Prg per l’intero territorio cittadino, alla redazione di piani urbanistici esecutivi che non furono mai elaborati. Con la prima giunta Valenzi venne considerata anche la possibilità di procedere all’esproprio dell’area per la realizzazione di un parco pubblico, ricorrendo alla legge 1/78 che avrebbe potuto consentire l’intervento anche in deroga al Prg. Tuttavia una accurata valutazione dei luoghi (un paesaggio di coltivi terrazzati in pieno centro storico che risalendo il ripido pendio culmina con la passeggiata dei monaci della certosa di san Martino) mise in evidenza la difficoltà di conciliare la conservazione dei caratteri paesaggistici, morfologici, agronomici dell’area ed un suo eventuale utilizzo come verde pubblico da standard che all’epoca s’identificava tout court con il cosiddetto “verde attrezzato”, con l’immancabile presenza di cavee, laghetti e verde ornamentale. In altri termini i tempi non apparivano ancora maturi per un progetto anche gestionale, che considerasse la campagna urbana come un bene di pubblico interesse anche ai fini dello standard urbanistico. L’obiettivo dell’amministrazione di realizzare un grande parco urbano fu così indirizzato al bosco esistente sulla collina dei Camaldoli, dove in quegli anni l’abusivismo edilizio minacciava di far sparire la selva di castagno ceduo che la ricopriva. Un progetto esecutivo elaborato dall’amministrazione e approvato all’unanimità dal consiglio comunale ai sensi della legge 1/78, consentì poi alla cassa per il Mezzogiorno di procedere agli espropri e alla realizzazione del parco boschivo dei Camaldoli (137 ha).

Dal punto di vista della tutela dell’area dall’abusivismo, la vigna San Martino, soprattutto per la sua posizione e il fragile equilibrio dei luoghi, appariva correre minori rischi . Vincolata ai sensi della legge 1497/39 con decreto del 22 novembre 1956, risultava appartenere per intero ad una società con sede all’estero.

La variante di salvaguardia e la variante al Prg



Con la variante di salvaguardia approvata il 29.06.1998, l’area viene compresa nella zona omogenea nEa –Area agricola. La perimetrazione dell’area rispetto al Prg del 1972 viene ampliata lungo il bordo meridionale attestandosi sui confini della cortina edificata al piede della collina, lungo il corso Vittorio Emanuele III (convento di San Lucia al Monte).

E’ in questo periodo che avviene l’acquisto del terreno da parte dell’attuale proprietario che reimpianta quasi subito la vigna e torna a coltivare i terrazzamenti prima abbandonati.

Con la variante al Prg approvata nel 2004, l’area viene assoggetttata alla disciplina della zona omogenea Ad – Agricolo in centro storico- e contemporaneamente individuata tra le aree reperite come standard di verde di quartiere.

I tempi sono maturi per conciliare la tutela e la permanenza della campagna urbana e in generale dei valori testimoniali del paesaggio agrario, con il dimensionamento degli standard urbanistici nel nuovo piano regolatore. Questo, anche in considerazione dei nuovi indirizzi comunitari sulla multifunzionalità dell’agricoltura specie in area urbana (agriturismo, attività didattica, vendita diretta dal produttore al consumatore, eccetera), e della possibilità di attuare forme di fruizione dei terreni, coltivati e non, con l’assoggettamento all’uso pubblico attraverso la stipula di convenzioni tra pubblico e privato, ipotizza che l’intero sistema collinare dei terreni ancora liberi, ivi compresa l’area della vigna San Martino, venga perimetrato come parco di interesse regionale (art.1 delle n.t.a.).

In ordine a tale scelta del Prg, la regione Campania con legge regionale 17 del 7 ottobre 2003 e successivamente con decreto di giunta regionale n. 853 del 16 giugno 2004, ha provveduto all’istituzione del parco metropolitano delle colline di Napoli che comprende nel suo perimetro anche la Vigna San Martino.

La stesura definitiva del Prg e l’istituzione del parco regionale ha dato, rispetto alla variante di salvaguardia, ulteriori e definitive certezze all’iniziativa del privato circa la coerenza esistente tra la strumentazione urbanistica vigente e le attività che l’imprenditore intende svolgere nella sua proprietà. Il recente vincolo dell’area, in quanto “Bene di interesse storico e artistico” da parte del ministero competente è, a ben vedere, il coronamento di un costante e coerente percorso di pianificazione urbanistica svoltosi nell’arco degli ultimi quaranta anni.

Bagnoli è uno dei quartieri più belli di Napoli. I Campi Flegrei, storia e futuro della città. Doveva essere l’occasione per la rinascita partenopea. Città della scienza, bonifica dell’area, cultura, innovazione tecnologica, attività sportive, piccole e medie imprese, commercio, turismo, il porto, unità abitative residenziali. Napoli tra ricchezza della sua storia e progresso. Bagnoli ha ottenuto il più cospicuo finanziamento di fondi europei della storia dell’Unione. La politica, attraverso il partito unico trasversale della spesa, ha sostanzialmente fallito, al di là di qualche risultato. Bagnoli è servita per creare l’ennesima società per azioni, BagnoliFutura spa, il solito giro di professionisti e politica, mentre Napoli e i napoletani possono attendere. Ma questa non può essere solo la solita storia, sia pur grave, dell’ennesima occasione perduta, servita solo a consolidare il potere di pochi. È giunta l’ora di chiedere il conto – politico e istituzionale – sotto un duplice aspetto. Il primo. La Corte dei conti, la commissione e il Parlamento europeo hanno evidenziato gravi irregolarità nella gestione dei fondi pubblici. Chi intende assumersi la responsabilità politica? Chi pagherà contabilmente, chi risarcirà il danno? Mi auguro che la magistratura ordinaria verifichi la sussistenzadi condotte che possano avere rilevanza penale.

Il secondo. Circolano dati allarmanti sui quali si deve fare chiarezza e solo la magistratura, nella sua indipendenza, può verificare se Bagnoli sia divenuta una bomba ecologica a orologeria. Buona parte dei terreni dell’area, dichiarati bonificati e certificati da BagnoliFutura, sarebbero caratterizzati da concentrazione di composti e sostanze dall’elevata potenzialità tossica (idrocarburi, IPA e PCB) che eccedono i limiti di legge imposti per un uso residenziale/verde pubblico e spesso anche per uso commerciale/industriale. Il terreno risulterebbe, quindi, in diverse aree contaminato e non bonificato contrariamente a quello che si vuol far credere. Una valutazione del rischio sanitario-ambientale in caso di uso residenziale/verde pubblico conduce, secondouno studio della cui attendibilità non abbiamo motivo di dubitare, a un rischio rilevante per la salute umana da sostanze cancerogene per bambini e per adulti sia per brevi che per lunghe esposizioni. Si parla di un rischio oggettivo di un cospicuo aumento di decessi l’anno per coloro i quali frequenteranno i settori: infrastrutture pedemontane, Porta del Parco e strutture turistiche, Parco urbano lotto 1 e Parco dello Sport. Il rischio sarà elevato anche per i lavoratori qualora si scelga un’esclusiva destinazione industriale/commerciale.

La situazione rappresentata evidenzia, paradossalmente, un generale peggioramento post-bonifica delle condizioni ambientali. Va inoltre rappresentato che, inizialmente, il progetto di bonifica è stato avviato tenendo presente che le concentrazioni di sostanze non erano compatibili con un uso residenziale/verde pubblico (previsto per gran parte dell’area una volta completata la bonifica) ma solo con un uso industriale/commerciale del sito. Oggi, per aggirare artificiosamente la situazione, si intende risolvere il problema della mancata bonifica attribuendo ai suoli una fittizia destinazione d’uso industriale/commerciale, mentre nella realtà si registra un aumento della volumetria destinata a unità abitative. I napoletani non possono essere accerchiati da bombe ecologiche. Bagnoli non può trasformarsi da mancata occasione di sviluppo del Sud intero a ordigno ambientale. Ci auguriamo che le istituzioni tutte, in primo luogo la magistratura, facciano chiarezza su una storia che non ci lascia tranquilli.

Caro direttore,

conosco la zona cosiddetta della "ferrovia" (piazza Garibaldi e dintorni) da molti anni. La "abito" da sempre, si può dire, per lavoro e la attraverso come tutti per gli spostamenti cittadini e no. In questi anni, è stato possibile osservare come questo spazio urbano sia diventato sempre più un raccoglitore di una umanità complessa, sofferente, povera e vulnerabile. E mi meraviglia che i discorsi sulla riqualificazione della zona siano solo incentrati sulla tematica del commercio e del parcheggio, quasi si trattasse di uno spazio bianco nel quale disegnare a mano libera. Senza cioè ragionare sulle vite che questi luoghi non si limitano ad attraversarli per prendere un treno.

Provo a essere più chiaro prendendo spunto da un antropologo noto a tanti, Marc Augé che ha definito come non-luoghi quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Sono tra gli altri dei non-luoghi, nella definizione di Augè, le strutture necessarie per la circolazione delle persone e dei beni, quegli spazi in cui le persone si incrociano senza entrare in relazione sospinte dal desiderio di consumare o di muoversi. Da qui viene da dire che la zona della ferrovia è invece un luogo abitato da identità precise che non hanno relazioni solo perché espulse dagli altri spazi della città o perché ai margini del tessuto produttivo e commerciale.

Oggi la zona non è più popolata solo dai senza fissa dimora, da donne e minori stranieri condannati alla prostituzione, tossicodipendenti e parcheggiatori abusivi. Una nuova umanità ha preso vita tra le bancarelle che si affollano nella piazza e nelle sue strade laterali. I migranti si sono organizzati qui in mercati etnici altrove impossibili e sono nati anche negozi e attività da loro gestiti direttamente.

Qui dormono i senza fissa dimora che non trovano accoglienza da parte dei servizi sociali, così come vengono a "farsi" i tossicodipendenti che non hanno alternativa. Le badanti, che rendono possibile l’assistenza ai nostri anziani, altrimenti condannati all´abbandono, hanno la ferrovia come punto di incontro il giovedì e la domenica. Vengono qua perché per molte di loro la città non offre altri spazi e altri luoghi.

Ma tra le bancarelle di ieri è possibile anche riconoscerne di nuove, molte gestite da italiani. Uno di questi, un conoscente di vecchia data che sapevo impegnato in un’attività commerciale "strutturata", mi ha candidamente raccontato del suo fallimento, causa crisi, e del suo tentativo di ripartire. E anche lui riparte da qui, da questo posto che sembra non avere limiti ad accogliere chi è espulso dagli altri luoghi della città.

Ora mi chiedo se è possibile pensare a dare un volto nuovo a questa città e a questa zona, senza pensare di dare una risposta alle vite che la abitano e una difesa alla loro vulnerabilità. Possiamo spostare questo disagio, nasconderlo in qualche altra periferia o raccoglierlo con qualche retata dei vigili urbani. O potremmo, forse, con una diversa politica della città, che rifiuti l’idea della urbanistica della separazione e che non voglia nascondere con una mano di vernice i problemi della città.

Guardata dal punto di vista dell’urbanistica e del progetto urbano, la parabola delle amministrazioni di centrosinistra a Napoli può essere delimitata da due fatti urbanistici ben definiti. Il primo è la disordinata e spiacevole vicenda di Bagnoli, emblema fisico, nei proclami demiurgici di fine anni Novanta, di quella che doveva essere la rinascita e la riconversione di un pezzo di città. L’ultimo è il Grande Programma per il centro storico, un arcipelago di progetti e di idee in attesa di finanziamenti.

Questa parabola, lunga circa quindici anni, è stata inframmezzata da proposte e progetti "decisivi", "imperdibili", "cruciali", "pronti" e rimasti sistematicamente vuoti annunci: l’inutile e sbracata variante urbanistica à la carte con la quale ci si propose di accogliere la Coppa America a Bagnoli; la strana fretta con cui si stava cercando, in modo stravagante, di realizzare un nuovo stadio, con annessi mega-servizi, nellìarea delle caserme a Secondigliano; il concorso di architettura, vinto dal francese Michel Euvè, per il nuovo waterfront e la riqualificazione dell’area monumentale del porto, sprecato assieme ai soldi investiti per la progettazione; le decine di milioni di euro ingoiati dal restauro dell’Albergo dei Poveri senza che nessuna funzione sensata vi sia stata ancora allocata, reiterando da anni un curioso vuoto di idee e fatti (Città dei Bambini, Stoà e altre genericità); il recupero delle Vele, edifici ingiustamente simbolo del degrado della periferia pubblica napoletana, martoriate prima da giudizi architettonici sommari, poi dal tritolo, poi da fasulli progetti di riconversione e riutilizzo (università, protezione civile); persino l’ampliamento del Centro Direzionale, già esecutivo e appaltato, è fermo in incomprensibili incognite burocratiche e nuove incertezze relative al project financing.

In questo vasto, e solo parziale, repertorio di occasioni annunciate e sistematicamente mancate, il Grande Programma sarebbe potuto ancora diventare una buona, ultima, opportunità, per la città, in grado di costruire almeno una "visione" credibile di futuro. In questo senso, proprio su questo giornale Carmine Gambardella proponeva utilmente l’immagine di una Napoli "città-fabbrica della conoscenza", da attuare promuovendo soprattutto azioni immateriali e non soltanto "fisiciste". In ultimo, la notizia del blocco, da parte della nuova giunta regionale, dei 222 milioni di fondi europei per il centro storico, non può che allarmare, perché ancora una volta strategie politiche poco comprensibili vengono fatte a spese della collettività.

È all’interno di questa cornice instabile, nella quale i ritardi che si stanno accumulando sono già insostenibili, che si discuterà, negli incontri che si terranno il 3 e 4 giugno a Napoli e Ravello, in occasione dell’ennesima visita in città della commissione Unesco, per valutare in che modo e in che tempi il "patrimonio" del centro storico di Napoli (del quale, è forse utile ricordarlo, solo il 16 per cento è interessato dal Grande Programma) sarà tra le azioni prioritarie dell’amministrazione comunale e del nuovo governo regionale. In particolare, come hanno già fatto gran parte degli altri siti italiani "patrimonio dell´umanità" (Firenze, la Val d’Orcia, Assisi), si dovrà discutere della redazione del cosiddetto Management plan (Piano di Gestione), che rappresenterà il riferimento normativo e prestazionale al quale dovranno adeguarsi tutte le azioni, materiali e immateriali, che riguarderanno il centro storico, garantendo la coerenza degli interventi. L’alternativa, già paventata, è la graduale espulsione dalla lista del patrimonio Unesco.

E questo mentre dovunque il marchio "Unesco" viene utilizzato come brand, attraverso il quale vendere il prodotto "città", o "territorio", e attorno al quale vengono modellati i progetti-guida, i canali prioritari di finanziamento, le politiche e persino i programmi politici, che di un tale marchio fanno elemento di comunicazione e diffusione di idee. Tra l’altro, come già denunciato nella precedente visita congiunta degli ispettori Unesco e Icomos del dicembre 2008, a Napoli appare ancora insufficiente il coinvolgimento trasparente di quanti possono fornire contributi a questo processo, aumentando la condivisione delle informazioni e delle soluzioni.

Con quali argomenti l’amministrazione comunale interagirà con i sempre più meravigliati delegati Unesco? La giunta Caldoro ha valutato con rigore gli esiti di scelte che rischiano di diventare poco strategiche e ulteriormente penalizzanti la città? Come evitare, insomma, che anche quanto programmato per il centro storico sia catalogato anch’esso, e tra non molto, fra i progetti soltanto enunciati o malamente portati a termine?

Una telefonata al 1515, da parte di numerosi cittadini allarmati, il sopralluogo della Guardia Forestale, guidata dal comandante provinciale Vincenzo Stabile, il sequestro dell’area e la denuncia alla Procura del responsabile del procedimento. Ieri è stata una giornata da dimenticare per Bagnolifutura, la società di trasformazione urbana partecipata dal Comune di Napoli, dalla Provincia e dalla Regione e incaricata della bonifica dell’area ex Italsider. In via Cocchia gli uomini della Forestale hanno constatato che erano stati già tagliati 250 alberi trentennali - pini domestici, pini d’Aleppo ed eucalipti - per un’area di disboscamento pari a 7500 metri quadri. «I funzionari di Bagnolifutura», dice il capitano Stabile, «non sono stati in grado di esibire alcuna autorizzazione. Avrebbero dovuto chiederla alla Soprintendenza, come prevede la legge 42 del 2004».

Le prime segnalazioni su quel che stava accadendo in via Cocchia risalgono al 18 marzo. Vincenzo Bellopede, consigliere della Municipalità per i Comunisti italiani, aveva scattato anche una foto. «Tutto in regola», aveva detto all’epoca e ripete oggi Bagnolifutura. «L’area in oggetto— sostiene— è destinata dal Piano Urbanistico non a verde ma ad edificazioni. E’ stata venduta al Consorzio costituito da Camera di Commercio e Centro di competenza Amra che ivi costruiranno il Polo Tecnologico dell’Ambiente».

Aggiunge: «Nell'area di Bagnoli sono già sorti circa 30 ettari di Parco dello Sport nei quali vi è un’estesa diffusione di piante e verde pubblico e proprio negli ultimi giorni è stato dato il via alla gara per la progettazione esecutiva, realizzazione e gestione per i primi tre anni del primo lotto di un Parco Urbano che, solo per quanto riguarda l'area di proprietà di Bagnolifutura, avrà un’estensione di 120 ettari». Inoltre,«l'area nella quale si è proceduto all'abbattimento dei pini è stata recentemente interessata da carotaggi e attività di bonifica comprendenti anche movimentazioni di mezzi pesanti che hanno inevitabilmente creato a molti di questi alberi seri problemi, anche di sicurezza. Pertanto si è deciso di intervenire rapidamente a tutela della pubblica incolumità». Troppo rapidamente, verrebbe da dire alla luce del sequestro operato ieri dalla Forestale.

Una figuraccia che si sarebbe dovuta evitare, quella di una società pubblica, dove il rispetto delle regole dovrebbe essere Vangelo, pescata ad abbattere in clandestinità 250 alberi come il peggiore dei costruttori abusivi. Tanta fretta si spiega— secondo indiscrezioni interne alla società— con la richiesta da parte dell’acquirente dei suoli di disporre quanto prima dell’area senza quei pini che intralciavano il costruendo Polo Tecnologico e dell’Ambiente.

Nelle vicende politiche che hanno caratterizzato gli eventi sfociati nel rimpasto della giunta Iervolino aleggiava, anche se non esplicitato, un problema di fondo: l'avversione, covata in ambienti di destra e di sinistra, nei confronti del Piano Regolatore vigente che ha bloccato la speculazione edilizia. Dalle prime forme di intolleranza da parte di numerosi architetti, spesso altresì docenti universitari, si è passati alle interessate nostalgie di costruttori e politici per i progetti del cosiddetto "Regno del Possibile" (estesi sventramenti del centro storico, tutelato dal predetto P. R. e dall'Unesco), e riproposti con nette e perentorie dichiarazioni ("Corriere Mezzogiorno" 21-2-2007) da Lettieri, presidente, ora confermato, dell'Unione industriali. Progetti quindi destinati ad approdare nel programma politico-amministrativo dello stesso Lettieri, quale candidato sindaco di Napoli per la destra, designato dallo stesso presidente del Consiglio dei ministri.

Come accennato, anche nell'ambito del centrosinistra non mancano gli affossatori vecchi e nuovi del Piano Regolatore, definito quanto meno vincolistico dimenticando che Napoli è la città più cementificata d'Italia. Qualche esempio: l'ex potente assessore al bilancio, Cardillo, ha pubblicato nel 2006 un libro (Napoli, l'occasione postindustriale da Nitti al piano strategico ) in cui afferma che "il primo e il maggiore errore della sinistra" era stato quello di aver prima appoggiato e poi demolito il Regno del Possibile. Quindi, per Cardillo, evviva gli sventramenti e la speculazione edilizia invece bloccati dal Piano Regolatore. Cardillo si è poi dimesso perché incriminato nella vicenda Romeo. La catena di Sant'Antonio di Romeo, ma al di fuori dei problemi giudiziari, comprende anche l'assessore regionale Velardi, che non perde occasione per sentenziare che il Piano Regolatore è una gabbia e "va cambiato perché non crea sviluppo" ("Corriere Mezzogiorno" 11-12-2008). Sviluppo-speculazione edilizia è l'equazione sconcertante ma non insolita nella visione anche di persone considerate "intelligenti". Più ambigue e pericolose le idee di sociologi come Paola De Vito, la quale si diletta di urbanistica e noncurante dell'esistenza del P. R. propone tra l'altro ("Repubblica" 27-11-2008) per definire una identità del centro storico di "osservare "buone pratiche" di rigenerazione urbana e dei centri storici (rilevo che è ancora una volta la terminologia adottata dal Regno del Possibile per gli sventramenti) in uso in altre città europee e del mondo e trarne degli insegnamenti".

Tornando al sindaco Iervolino, essa ha invece dimostrato di aver un buon intuito, del resto tipicamente femminile, tenendosi lontana dalle trame delle operazioni politico-affaristiche, meglio definite di "corruzione ambientale" dai pubblici ministeri della Procura di Napoli. Insomma questa signora per bene, considerata influenzabile e condiscendente, dove si va a impuntare? Nella difesa a spada tratta del Piano Regolatore. In una città per tanti versi improponibile, la Iervolino è stata ed è consapevole che un merito fondamentale non può essere negato alla giunta da lei guidata. E cioè l'approvazione, dopo dieci anni di intenso dibattito, di un Piano Regolatore improntato a una idea forte per il rilancio della città: il restauro conservativo del centro storico, la tutela delle superstiti aree verdi, il rinnovamento di periferie e aree industriali, il completamento della rete metropolitana per garantire la mobilità. E mal gliene incoglie al vicesindaco Santangelo per aver dichiarato a sua volta ("Repubblica" 21-9-2008): "Il Piano Regolatore non si tocca. Non consentiremo un altro sacco della città". Non a caso, infatti, da parte di dirigenti del Pd era stato chiesto che Santangelo non venisse riconfermato nella carica di vicesindaco.

Completiamo il quadro. Non si può non riflettere sulla circostanza che è senza precedenti l'attuale scontro tra "Il Mattino" e la Iervolino. Il sindaco ha dichiarato ("Repubblica" 19-9-2008) che il Forum delle culture del 2013 non può diventare un nuovo sacco della città tornando alla sua cementificazione, e ha aggiunto: "Via i faccendieri dalla politica". Non ha fatto nomi, ma rispondeva all'industriale Lettieri che aveva chiesto le sue dimissioni attraverso le pagine de "Il Mattino". Poi, in un'intervista rilasciata su "Repubblica" (edizione nazionale 5-12-2008) ha denunciato "gli appetiti per un nuovo Piano Regolatore che condizionano l'informazione e le opinioni di alcuni organi di stampa", riferendosi al costruttore Caltagirone, editore del "Il Mattino". Sul quotidiano si sono susseguite infine le dichiarazioni di uomini di cultura di grande prestigio, quali Biagio de Giovanni e Aldo Masullo, i quali, a sostegno della campagna del giornale, hanno chiesto le dimissioni del sindaco. Essi dovrebbero però sapere ("Repubblica" 28-12-2008) che esiste un contenzioso tra il Comune di Napoli e la Cementir di Caltagirone per i suoli industriali di Bagnoli di proprietà della società. Un'ordinanza del sindaco del 24-4-2008 impone la rimozione, dai suoli del sito industriale non attivo, dei materiali che risultano cancerogeni (amianto) con "conseguente pericolo per la popolazione". La Cementir non ha ancora adempiuto all'ordinanza e il Comune si è riservato di trasmettere le carte alla Procura di Napoli.

Insomma siamo tutti consapevoli che l'amministrazione comunale di Napoli esce, come è stato detto, da "un campo di macerie", ma non si può non accordare il tempo necessario per valutare con quale progetto politico-amministrativo si presenta la nuova giunta in cui è stato assicurato anche l'auspicato impegno della società civile. Nel persistere invece nella critica acrimoniosa nei confronti della Iervolino sembra che una sindrome del cupio dissolvi si sia impadronita di alcuni uomini di cultura di sinistra, ai quali indirettamente ha risposto Pietro Soldi della scuola di Francesco Compagna ("Repubblica" 30-12-2008): "C'è rischio di consegnare la capitale meridionale nelle mani della destra nel momento a lei più favorevole". Soprattutto è innegabile che il primo atto dell'eventuale nuovo sindaco di Napoli (Lettieri o non Lettieri) sarà quello di cestinare il Piano Regolatore. Si può essere così ciechi da non rendersi conto che stiamo dando l'avallo a un nuovo sacco edilizio di Napoli?

L’autore è Presidente di Italia Nostra Napoli

È la storia a parlare attraverso la voce corposa di Ermanno Rea. E la questione Napoli diviene il tassello di un puzzle chiamato corso degli eventi: «Vorrei sapere se è una conversazione rilassata. Perché ecco, ho le mie piccole idee, non sono certo il depositario di verità acquisite, ma ho una mia analisi». Abbiamo tempo e lo scrittore napoletano, nato nel 1927, autore di un romanzi cult come Mistero napoletano, La dismissione e oggi in concorso al premio strega con l'ultimo lavoro Napoli ferrovia, non ha bisogno di domande, fa da sé. «Benissimo allora vorrei iniziare con una lettura dei discorsi parlamentari di Giorgio Amendola, in particolare della seduta del 20 giugno, quando alla fine del conflitto mondiale spiega i motivi sul perché il Pci si oppone all'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno». La lettura va avanti come una musica per un po', poi Rea d'improvviso si ferma: «E' questo il passo, lo rileggo: 'con il pretesto di dare mille miliardi di lire cercate di creare un organismo che sarà pericoloso strumento di corruzione e asservimento delle popolazioni meridionali da parte di quelle forze sociali, esse stesse responsabili della situazione'. Lui si riferiva agli imprenditori settentrionali e ai latifondisti. Ci siamo. Quasi 60 anni fa Amendola riusciva a prevedere quello che sarebbe avvenuto. La fonte originaria di tanto sviluppo della camorra e di interessi particolari. Qualcuno arriccerà il naso sentendomi parlare della questione Meridionale, visto che ormai è stata bandita dal lessico politico e addirittura si è capovolta in maniera inquietante nella questione settentrionale, ma non essendo mai stata risolta con la modernizzazione del Sud e l'adeguamento degli standard con il resto del paese, ci troviamo inesorabilmente di fronte alla Napoli di oggi».

Un epilogo inevitabile?

Assolutamente. E mi permetto di usare un altro mio cavallo di battaglia: la teorizzazione della democrazia bloccata per tutto il periodo della guerra fredda. E come è possibile farlo se non si è in presenza di un regime totalitario? Svendendo la legalità, lasciando le malefatte impunite per acquisire consenso. Non poteva non accadere quello che vediamo oggi nella nostra città. Monnezza, traffici illegali, camorra, sono processi assolutamente intrecciati, ma invece di affrontarli da un punto di vista politico e dalla prospettiva economica meridionale, si è preferito elargire prebende e sovvenzioni a pioggia favorendo la corruzione. E ora? le problematiche meridionali vengono descritte come questioni locali. Se è così la mia conclusione è pesante: ha ragione Bossi, dividiamoci. Se ho una gamba putrefatta delle due l'una, o la curo o procedo all'amputazione. E' chiaro che sono un sostenitore del corpo unico, la questione del Sud è nazionale. E mi pare di essere in buona compagnia da Guido Dorso a Salvemini, da Gramsci a Giustino Fortunato, uomini che nessuno ha il diritto di mettere in soffitta.

Intanto però passa pericolosamente il messaggio che il problema siano i napoletani.

E' il vecchio e maledetto trucco. Dando per scontato che si tratta del pensiero di una subcultura che non ci appartiene è chiaro che quando non si intraprendono i sentieri giusti, si inquinano tutti i processi negandoli. Si dice spesso che una cosa sia lo zingaro che delinque un'altra quello che vive onestamente, stesso vale per l'italiano, il napoletano, ce ne sono di ogni specie. Oggi però non esiste nemmeno più lo stereotipo di napoletano da cartolina, tollerante, disponibile e accogliente. Prendiamo per esempio i fatti di Ponticelli, io tendo a distinguere poco quanto accaduto dallo scempio dei rifiuti. Entrambi i fenomeni hanno una radice comune di degrado antropologico. Ma sono convinto che Napoli resti meticcia e il suo sarà un futuro di massima apertura.

Nello scandalo immondizia secondo lei Bassolino è un capro espiatorio o ha effettivamente grosse responsabilità?

Vorrei superare gli eventi, non conosco i fatti specifici e non mi interessano. Trovo invece interessante analizzare il suo percorso politico, con un piccolo riassunto. Napoli è stata pietrificata dalla guerra fredda, una volta caduto il muro è stata travolta, come il resto del paese, da tangentopoli. Spazzati via i vecchi centri di potere dai Gava ai Pomicino, si sono spezzati molti dei legami con il passato. E' stato allora che è nato un movimento fortunato, ribattezzato con uno slogan stupido come «rinascimento napoletano». Ma si trattava di un fermento, di una mobilitazione della popolazione che voleva combattere l'illegalità. Bassolino ne è stato il conduttore politico poi ha sbagliato. Invece di consapevolizzare la popolazione ha tentato di mettere un freno. La politica che rassicura, quindi tappa, per ottenere consensi è perdente in sé. Faccio un esempio: possibile che nessuno fosse a conoscenza degli sversamenti tossici delle imprese settentrionali nel nostro territorio? Che c'è voluto un giovanotto come Roberto Saviano per raccontarci quanto accadeva? Dove era la politica? La stampa? Quando ho letto gli ultimi capitoli di Gomorra sono saltato dalla sedia, non ne sapevo nulla.

Dal 15 aprile in parlamento c'è una sensazione di solitudine che diventa quasi clandestinizzazione nella sinistra «rossa». Un'epoca è finita anche in Campania.

A 81 anni sono ormai un uomo con un piede per tre quarti nel passato, non riesco a fare distingui, per me la sinistra ha avuto uno smacco e questo provoca gli stessi sentimenti di solitudine generalizzata. Non posso concepire un moderatismo di sinistra. Anzi mi chiedo se esiste una sinistra moderata. Non capisco Veltroni, sono figlio di un'unica sinistra molto consapevole e costituzionalista. Lo stesso vale per la questione campana, una regione d'Italia e non un'isola sperduta, dove si dispiegano le stesse dinamiche, con le dovute varianti, della Lombardia o della Sicilia. Noi prima ancora del manifesto di Marx avevamo come vangelo la costituzione, dunque l'unità nazionale e per questo la crescita del Sud.

E Berlusconi a Napoli?

Un colpo di teatro, una bella scampagnata.

Caro eddyburg, ti chiediamo di contribuire a diffondere, attraverso un sito che noi consideriamo punto di riferimento insostituibile per le battaglie in difesa delle nostre città, il nostro messaggio.

Rivolgiamo un appello affinché il progetto di destinare il complesso monumentale di S.Paolo Maggiore a “Cittadella degli Studi”, con residenza per studenti e docenti, trovi la ferma opposizione della Quarta Municipalità. Tale progetto è portato avanti dal Master di Studi Superiori di Architettura, coordinato dal Preside di Architettura della Federico II e da altri illustri professori.

La chiesa di S.Paolo, con chiostri e giardini, siano recuperati ad uso pubblico e aperti soprattutto per donne, bambini e anziani, oltre che al turismo colto. Napoli deve conservare integro e fruibile ai cittadini il suo Centro Storico, unico, ricco di suggestioni e mistero, di storia e di arte.

Partire da questo, significherebbe affrontare sicuramente meglio le tante questioni storicamente irrisolte di Napoli. Le politiche sociali non vanno rivolte specificamente verso l’Università, ma devono riguardare l’intera area metropolitana della città.

Politiche sociali che richiederebbero una classe politica che non navigasse nei rifiuti!

Ricordiamo che il vigente P.R.G. di Napoli prevede il trasferimento delle strutture universitarie della vecchia Facoltà di Medicina con la demolizione delle Cliniche nel cuore del Centro Storico.

Al posto del Policlinico universitario sorgerebbe un Parco Archeologico che potrebbe estendersi anche in aree selezionate attorno agli antichi decumani di quella che era Neapolis: dall’Acropoli alla zona dei teatri, dall’Agorà alle Terme di via Carminiello ai Mannesi, fino al tempio di Augusto, scavato sotto piazza Nicola Amore durante i lavori in corso della Metropolitana.

La Facoltà di Medicina verrà trasferita fuori dal Centro Storico; come è stato negli anni ‘60 per Ingegneria a Fuorigrotta e, più recentemente, per molte altre facoltà a Monte S.Angelo.

Il Centro Storico è già saturo di foresterie con il proliferare di bed and breakfast. E’ assai diffuso, poi, il grave fenomeno di alvearizzazioni e microristrutturazioni edilizie che deturpano edifici storici per ospitare i numerosi studenti fuorisede che pagano costosi affitti non dichiarati dai proprietari. Contestualmente alla tutela e al restauro degli innumerevoli monumenti religiosi e laici stratificatisi dal Mondo Antico fino all’Età Moderna, deve attuarsi una politica della casa che consenta la permanenza dei ceti popolari, essenza del Centro Storico di Napoli. La riqualificazione del Centro storico di Napoli parte dalla pulizia, dall’igiene edilizia e dal disinquinamento di ogni suo vicolo! Fondamentale è pure la ricostituzione dell’ identità e della memoria collettiva perduta con la disgregazione sociale cresciuta negli ultimi decenni. Si ricostituisca la maglia di quelle produzioni sostenibili e di bassissimo impatto ambientale non solo fondate sulla tradizione, ma anche dovute alla formazione dei giovani sulle nuove tecnologie: non solo maestri tessitori, ebanisti, muratori che recuperino antica sapienza, ma anche tecnici formati ad installare impianti e componenti per il risparmio energetico e la riduzione di emissioni nocive. Gli studenti del Master di Studi Superiori hanno mai sentito parlare della delinquenza giovanile, organizzata e non, che serpeggia per interi quartieri di Napoli al centro e in periferia? Delle sue cause?

Da cittadini democratici, chiediamo la costruzione di città universitarie nelle aree dimesse della periferie occidentale e orientale di Napoli che diano impulso alla loro riqualificazione; di promuovere una grande gara di progettazione sostenibile costruendo case dello studente, aule, laboratori, biblioteche e attrezzature per sport, svago e tempo libero, dotati di standard congruenti; di consentire il diritto allo studio con affitti e tasse pagati in base ai redditi delle famiglie.

In Europa le città universitarie sono elemento di modernità e qualità urbana di molte grandi città.

Il Centro Storico di Napoli va tutelato come patrimonio collettivo (lo è già dell’Umanità per l’UNESCO) recuperandone significati simbolici e valenze di qualità urbana: giardini pubblici, musei, biblioteche, servizi sociali per adulti e bambini, fruibili nel presente da tutti i cittadini e da un turismo più maturo, meno massificato, organizzato per piccoli gruppi e singoli visitatori.

Il Centro Storico di Napoli rimanga patrimonio collettivo abitato dal popolo napoletano!

Napoli, gennaio 2008.

Al di là del problema urbanistico che, comunque, è già stato compiutamente definito dall’attuale, recente P.R.G. di Napoli che l’appello giustamente richiama, assolutamente urgenti appaiono progetti per quella che si potrebbe definire “riqualificazione sociale” dell’area del centro storico partenopeo. Le soluzioni possono essere molte e non necessariamente escludentesi: è importante che se ne discuta e che, anche in tempi così difficili, riemerga la volontà dei cittadini di occuparsi del destino della propria città. (m.p.g.)

La marcia su Chiaia come banco di prova. Come simbolo di una riscossa, che unisce tutta la città. Mancano 24 ore alla grande manifestazione organizzata dal comitato cittadino della prima Municipalità (partenza domani alle 11 da piazza dei Martiri) e la protesta del quartiere "elegante" catalizza l attenzione, la voglia di riscatto, la rabbia di decine e decine di associazioni cittadine, dal centro storico alla remota periferia. Sono movimenti diversi, con anime diverse. Ma confluiranno tutti in piazza dei Martiri. Ci sono comitati civici, ambientalisti, gruppi di pensionati, di consumatori, circoli culturali e associazioni di quartiere. Ieri sera i preparativi finali. E oggi volantinaggio fino all ultimo minuto.

«Napoli o si salva tutta o è perduta per intero - dice don Fulvio D Angelo, uomo simbolo della Secondigliano che si ribella - Si deve creare una rete tra le periferie e il centro. Il grido di allarme di Chiaia non può e non deve essere sottovalutato, perché è il grido della città che soffre. Ovviamente ogni quartiere hai i suoi problemi specifici, ma se ognuno lotta solo per sé si rischia l isolamento».

La solidarietà a Chiaia non arriva solo da Secondigliano. «Saremo a Chiaia - dicono da Soccavo-Pianura, dal Vomero e dal Centro Storico - perché siamo stanchi, perché da qualche parte bisogna cominciare. Proviamo a farlo da Chiaia, un quartiere in genere privilegiato. Se vinciamo la prima battaglia, magari alla fine vinceremo la guerra: gli obiettivi sono comuni». Per domani quindi si stanno organizzando diverse delegazioni di altri quartieri. «I problemi in città sono gli stessi da Chiaia al Vomero - dice Vincenzo Perrotta, Ascom-Vomero - perciò non possiamo mancare l appuntamento». «Stiamo cercando di contattare anche gli amici di Scampia», dice Stefania Martuscelli, di "Minerva Donne", che da quest estate ha messo in piedi un network di 102 associazioni e ora sta lavorando gomito a gomito con Giuseppe Marasco e Paolo Santanelli, gli organizzatori della marcia su Chiaia.

Il 10 novembre diventa il giorno del riscatto, su cui si catalizzano i più disparati punti di crisi cittadini. «Ci saranno per esempio anche i rappresentanti dei tassisti - dicono gli organizzatori - con la Fastaxi, presieduta da Salvatore Augusto». Una rabbia comune che si amplifica nella grande rete di Internet: sul blog http://noipernapoli. splinder. com si confrontano le voci di commercianti, consumatori, associazioni civiche. L emergenza e la voglia di legalità si allarga da Chiaia a tutta la città. «Siamo nati un anno fa - dice Antonio Di Dio, presidente del comitato Bagnoli Punto a Capo - Quando si parla di Bagnoli ora si pensa solo all arenile, dimenticando l intero quartiere. Il comitato cerca di risolvere i problemi di vita quotidiana, non eclatanti come la colmata a mare, e quindi poco considerati. Abbiamo però ottenuto una farmacia notturna, e presto avremo un ufficio postale». Associazioni e cittadini uniti, anche se c è chi alza la voce fuori dal coro. Sono i Comunisti Italiani del gruppo consiliare della I municipalità Chiaia-San Ferdinando: «La battaglia per la civiltà, quando si realizza in uno dei cosiddetti salotti della città, non può trasformarsi in uno scontro privato tra gli "alti borghesi" e i "briganti di strada"».

È tornato a Napoli dopo quasi cinquant’anni. Un tempo normalmente sufficiente a suturare o anche solo a lenire le ferite. E invece, niente. «La verità, caro Caracas, è una sola», scrive Ermanno Rea a pagina 141 di Napoli Ferrovia, il suo nuovo libro (Rizzoli, pagg. 357, euro 19), ed è che «io non sento di appartenere più a questa comunità. Tra noi, tra me e la città, è accaduto qualcosa di irrevocabile che rende impossibile ogni ipotesi di ritorno: sarebbe come votarmi a una tragica infelicità. Ormai io sono uno straniero, anzi un rinnegato che si è fatto straniero».

Napoli Ferrovia è il resoconto dello struggente tentativo di tornare non solo fugacemente nei luoghi abbandonati mezzo secolo prima. Un tentativo che mescola la città alla propria vita, i cui primi trent’anni furono in gran parte spesi in quel poligono austero e fatiscente che si chiude fra piazza Cavour, il quartiere Sanità e poi via Foria, piazza Principe Umberto e quindi la Duchesca e piazza Garibaldi. Qui, appunto, è la Ferrovia, un nome che nella toponomastica partenopea designa non tanto un luogo, ma una vasta conurbazione antropologica, che nei decenni ha cambiato la sua fisionomia e oggi è il cuore del grande melting pot mediterraneo, con le parlate napoletane che inseguono gli idiomi maghrebini e mediorientali.

Con Ermanno Rea parliamo di questo libro nella sua casa romana, a cento metri dalla Porta Angelica e dal Vaticano. Rea ha ottant’anni e i capelli candidi. Napoli Ferrovia chiude un ciclo che avvolge la sua geografia e la sua storia. Mistero napoletano (Einaudi, 1995) raccontava il suicidio di Francesca Spada, una giornalista dell’Unità di cui era stato amico, una donna che caricava sulle sue fragili spalle il peso di redimere gli ultimi. La dismissione (Rizzoli, 2002) narrava invece l’infrangersi del sogno di una Napoli operaia, raffigurato nello smantellamento dello stabilimento siderurgico dell’Italsider e nella storia personale di Vincenzo Buonocore addetto a smontare la fabbrica per venderne i pezzi alla Cina.

«Avevo in mente un personaggio letterario», racconta Rea, «quello di un super operaio che racchiudesse i simboli e le speranze di cui ci eravamo nutriti da giovani, immaginando un destino della città non necessariamente plebeo. L’ho trovato frequentando la mensa e il piazzale dell’Italsider e alla fine l’ho trovato e gli ho cambiato il nome. E ho potuto verificare che quell’idea non era campata in aria».

Nasce così anche Caracas. Il protagonista di Napoli Ferrovia cercava qualcuno che lo accompagnasse nella città oscura e minacciosa, e ha immaginato che questo qualcuno fosse uno straniero, un venezuelano convertito all’islam, "un integralista romantico" con un passato da naziskin, ammiratore di Yukio Mishima e anch’egli, come Francesca di Mistero napoletano, schierato dalla parte degli ultimi: «Scendo con lui nell’inferno, e lui me lo spiega, mostrandomelo così come lo vede con i suoi occhi: senza rancore per nessuno, disprezzo per nessuno, gelosia per nessuno». Caracas è un nome di fantasia dietro il quale si cela una persona reale, una persona che ha letto questo libro mano a mano che vedeva la luce e che ha avuto - come Rea racconta nelle ultime pagine del libro - una reazione di rigetto, sparendo in quel nulla nel quale era stato raccolto. Come per Mistero napoletano e per La dismissione, anche qui Rea incrocia l’universo letterario e la realtà, ma con una forte intensità nello stile, utilizzando l’autobiografia al pari di uno strumento che fortifica la facoltà di conoscenza e senza mai scivolare in una lingua sciatta.

Con Caracas, il protagonista (qui Rea mette in scena sé stesso e l’incarico ricevuto nel 2002 di presiedere il Premio Napoli) comincia a realizzare il progetto che ha preso forma dentro di lui diventando sempre più impellente mano a mano che si avvicinava il giorno in cui, ancora una volta, ma stavolta per sempre, avrebbe abbandonato la città: ritrovare le origini, i luoghi dell’infanzia, per capire che cosa abbia voluto dire per lui vivere e invecchiare. Alla figura di Caracas si sovrappone quella di un amico della Napoli di allora, lo scrittore Luigi Incoronato, che muore suicida nel 1962, attaccandosi al tubo del gas esattamente un anno dopo la Francesca di Mistero napoletano, entrambi nei giorni a ridosso di Pasqua. Scala a San Potito, il migliore dei suoi romanzi, un libro sconsolato, racconta di un giovane attratto da un sordido ospizio per poveri, luogo derelitto frequentato da uomini senza speranza. In quegli stanzoni aveva vissuto Giovanni, un suo amico, da poco scomparso. Al quale, una sera, si era rivolto con un’espressione: «Se mi capita di poter fare qualcosa per te, che ne dici?». In quella frase, scrive Rea, «a me pare riconoscere tutta intera la mia giovinezza, assieme a quella di Incoronato e non so di quanta altra gente che, come noi, considerava il prossimo suo, la società, non semplici astrazioni concettuali, ma insiemi di persone vere, in carne e ossa».

La Napoli alla fine degli anni Quaranta e per buona parte del decennio successivo è il luogo in cui, essendovi alloggiata la più imponente base americana del Mediterraneo, si vive il senso di separatezza che reca con sé la Guerra Fredda (di questo Rea ha parlato a lungo in Mistero napoletano). Ma è anche il luogo in cui si spezzano nella miseria del dopoguerra quelle reti che avevano consentito alla parte più debole della città di barcamenarsi. «Sai cosa facevamo, non dico tutti i giorni, ma spessissimo, due, tre volte a settimana?», domanda Rea a Caracas. «Andavamo nei vicoli più bui a predicare. Anzi no, non a predicare, ma a portare la speranza. La speranza nel vicolo. Non era mai successo. Dicevamo alla gente, al disoccupato, alla madre di sette figli, al ragazzo analfabeta: guardate gente che voi siete degli esseri umani, con gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri».

Quest’opera di apostolato sociale era poi finita in cenere. Il comunismo in cui quei giovani credevano si era rivelato una sanguinaria utopia. Ma quell’afflato continuava a pulsare, non poteva essere sistemato in un polveroso archivio della memoria. Ed è per capire cosa ne è rimasto che il protagonista di Napoli Ferrovia cerca un Caracas che lo accompagni a scoprire quanto di quelle speranze, sotto le quali sono rimasti schiacciati Francesca e Luigi, sopravviva nei vicoli incrostati di vecchia e nuova sofferenza.

Ma l’esito non può che essere una nuova fuga. La Napoli contemporanea imbarbarisce a vista d’occhio, annota Rea. E lui non sopporta più «i sorrisi molli della gente» di fronte al degrado. Maledice la tolleranza che si manifesta verso l’arbitrio lungo tutta la scala gerarchica, dal basso fino ai luoghi del potere. «Come è successo che questo germe, questa malattia della tolleranza è penetrata dentro di noi fino a condizionare la nostra stessa antropologia?». La sua requisitoria si specchia, pur non collimando, in quella di un altro scrittore disincantato, Luigi Compagnone, che declinava verso l’invettiva disperata, condensata nel titolo di un libro: «Odio Napoli». Che era un modo diverso, aggiunge Rea, per gridare: «Amo Napoli».

«Il cosiddetto rinascimento napoletano è stato una fonte di equivoci a non finire», dice ora Rea guardando un punto fisso nella parete di fronte a lui. «Sarebbe stato necessario orientare la città verso un impegno collettivo nel senso di un recupero della legalità. Ma invece di rivoltarla come un calzino, Napoli è stata oggetto di rassicurazione». Rea ci ha provato finché ha diretto il Premio Napoli, ha organizzato questionari sulla legalità, ha allestito circoli di lettura, uno dei quali nel carcere di Secondigliano. Ma un giorno, dopo aver tentato di medicare la ferita che cinquant’anni prima lo aveva indotto a fuggire, ha finito di scrivere la lettera di dimissioni che aveva iniziato chissà quante volte. E l’ha spedita.

A Francesco Rosi – che sarà oggi a Napoli a Palazzo Reale per il convegno degli Annali sulla Grande Napoli: centro storico e aree est e ovest – è forse necessario proporre una riedizione del celebre "Mani sulla città", ma con una tesi opposta. Occorre cioè rimettere oggi le mani sulla città perché v´è troppa inerzia urbanistica, soprattutto sul capitolo "centro storico" che rischia di morire per eccesso di tutela. Non si preoccupino i difensori della conservazione (e chi scrive, tra questi).

Le mani di cui parliamo sono quelle della storia, quelle dal tatto sensibile, in grado di distinguere il significato, la qualità e il carattere innovativo dei progetti da realizzare, le mani che nei secoli hanno costruito la Napoli di cui menar vanto. Non quelle avide e rozze d´un recente passato contro cui sibilò invettive Roberto Pane e tuonò Luigi Cosenza e che diedero vita alla parte di città di cui vergognarsi. Il piano regolatore vigente non ci aiuta in questa direzione, interventista ma con discernimento critico, perché sul centro storico fornisce infinite regole ma non idee e prospettive generali. Le immagini di Napoli che oggi vedremo, girate da Mario Franco e commentate in sala da Rosi, ci dicono in modo inequivocabile che "bisogna rimettere le mani sulla città".

Rimetterle innanzitutto sul centro storico, superando la sindrome da Regno del Possibile. Il controverso progetto d´iniziativa accademico-imprenditoriale della seconda metà degli anni Ottanta ha finito per condizionare venti anni di politica urbanistica, fornendo tra l´altro l´alibi culturale e metodologico a una sostanziale inattività operativa. Nulla s´è fatto, ma ben poco c´era da fare: questa potrebbe essere la laconica sintesi del problema. Invece, con tutta evidenza, c´era e c´è molto da fare. Quanto alle risorse disponibili, si parla di 200 milioni d´euro dei fondi europei destinati al centro storico di Napoli; si ha inoltre notizia d´un recente accordo tra Regione, Comune e Curia napoletana per interventi su beni ecclesiastici. Non sappiamo come saranno distribuiti questi fondi né i particolari dell´accordo. Con buona pace del metodo "partecipato" e delle decisioni "condivise" che celebrarono la loro epifania nei Forum pre-elettorali del 2006.

Rimetterle sulla zona orientale, il nostro "non luogo" per antonomasia, tra depositi carburanti, aree dismesse, quartieri popolari un tempo d´esemplare decoro e un litorale che a fabbriche chiuse attende facoltà universitarie e porti turistici. Il piano regolatore prevede nell´area delle ex raffinerie un grande parco di 150 ettari collegato a piazza Garibaldi con un lungo viale in rettifilo e alberato. Sembra un frammento dell´utopia ottocentesca di Lamont Young che immaginava per la Napoli del futuro grandi boulevard, metropolitane sopraelevate e canali navigabili. Allo stato delle cose, l´iniziativa più concreta è un accordo con le società petrolifere per la delocalizzazione degli impianti entro i prossimi due decenni.

Rimetterle infine sulla zona occidentale, Bagnoli-Coroglio, area simbolo dell´urbanistica napoletana fin dagli anni della dismissione dell´Italsider. Rimetterle per dare lena a programmi che accusano dieci anni di ritardo tra operazioni di bonifica terrestre e marina, concorsi annullati per imperizia gestionale e poi rifatti, rimozioni controverse di colmate a mare e porti-canale di dubbia realizzabilità. È cronaca di questi giorni il rinvio della scelta del progetto vincitore del porto-canale per un supplemento di istruttoria tecnica sui quesiti: il porto-canale si interra oppure no? I progetti presentati sono compatibili con le esigenze della tutela paesaggistica? Cose non di poco conto ma da risolvere entro poche decine di giorni, si dice ora in un sussulto d´efficienza decisionista. In ogni caso, il progetto è avviato e non resta che seguirne gli sviluppi e gli esiti che si sperano corretti.

È opinione corrente che a Bagnoli-Coroglio si giochi il futuro della città, ma questa è una tesi non condivisibile. Il futuro di Napoli è nel restauro del suo centro storico, nella rigenerazione funzionale dei 1917 ettari di città pregiata per storia, arte, ambiente e paesaggio nei quali vivono centinaia di migliaia d´abitanti. Napoli può rinascere se il suo centro storico, da grande questione rimossa dell´urbanistica napoletana, diviene la priorità assoluta, più di Bagnoli, più della zona orientale, più della stessa politica dei trasporti.

Postilla

È un articolo esemplare per disinformazione. La nuova normativa del piano regolatore (basata sull’analisi e la classificazione tipologica, come nelle migliori e più note esperienze italiane), ha liberato il centro storico dall’obbligo della preventiva approvazione di piani particolareggiati, che nessuno era in grado di formare, e ha perciò finalmente consentito una vera e propria esplosione di interventi di restauro, manutenzione, conservazione, come sanno tutti gli operatori del settore e come trapela, pur nell’ormai generalizzata scarsa attenzione ai problemi urbanistici (quelli veri), anche dalle cronache cittadine. Chi insiste perché ci sarebbe un eccesso di tutela, o non sa quel che dice, oppure, gratta gratta, rimpiange proprio “Il regno del possibile”. Il che è confermato dall’auspicio di nuove idee per il centro storico. Quali idee? Quelle dello sventramento? Nessuna idea concreta è neanche vagamente accennata, se non quella di un indistinto (e pertanto ancor più pericoloso) appello al “fare”, al costruire. In alternativa ci sono solo la conservazione e il restauro, come prescrive il nuovo piano regolatore. E lo spot, veramente ignobile, “mettere le mani sul centro storico”, al di là della distorsiva piaggeria nei confronti di un film che ha invece combattuto tenacemente la Napoli del cemento ad ogni costo, si apparenta piuttosto ad un più consono “mettere le mani in pasta”: attività di rinnovato successo sotto il Vesuvio.

Il canone più prudente prescrive di raccontare la speranza. Sei qui per questo, non per altro. Racconta di casa Jonathan che sta in piedi senza soldi pubblici. Parla del generoso coraggio di Vittorio Merloni e della Fiat di Marchionne che, nel colpevole deserto di politiche pubbliche, offrono ancora un’opportunità ai "piccoli criminali" che abitano quella casa - "piccoli" perché quattordicenni o non ancora diciottenni e "criminali" perché assassini, rapinatori, stupratori, soldatini di latta della cinica camorra dei "grandi", spacciatori di eroina, di cocaina, spesso tossici loro stessi. Merloni e Marchionne li lasciano lavorare nelle loro fabbriche come operai tra gli operai senza chiedere del loro passato accontentandosi soltanto, con fiducia, del loro desiderio di ricominciare da un’altra parte un’altra storia, un’altra vita. Racconta la speranza, mi ripeto, mentre ritorno a Napoli da Scisciano nella piana del Vesuvio, dov’è la casa. E già so che non ci riuscirò perché la sola parola - speranza - mi appare una menzogna, una retorica progressista che non ha più niente a che fare con realtà. Dov’è la speranza? Quali sono le ragioni per averne? Da due giorni la parola che ascolto con più frequenza è morte, ecco la verità. Questi bambini - perché i "piccoli criminali" altro non sono: hanno faccia da bambini; si muovono impacciati come bambini; riescono nonostante le loro storie a essere timidi o entusiasti come bambini quando ti spiegano il loro lavoro nella falegnameria - dicono «morte» con la naturalezza con cui io e voi diciamo pioggia o vento, senza alcun emozione e drammaticità o stupore. Sembra che siano nati e vissuti accanto a quella nera presenza. «Mio padre? È morto, l’hanno ucciso e anche mio fratello hanno ucciso…». «Alberto era il mio migliore amico, gli hanno sparato, poi l’hanno gettato in un pozzo». Dicono di Giovanni. Era «un terremoto». «Nemmeno in carcere lo volevano più». Venne qui e chiese che si avesse per l’ultima volta ancora fiducia. Promise che «nessuno si sarebbe vergognato di lui».

Fu di parola, l’ometto, perché nessuno ebbe a vergognarsi di lui nel periodo che visse a casa Jonathan. Poi quel tempo finì e ritornò da dov’era venuto, nelle stesse strade, tra la stessa gente. Lo ritrovarono in un vicolo, con due proiettili in testa. Ricordano Marcello S. che era felice di vivere nonostante tutto, era forte come un toro, mai prepotente, coraggioso e mai aggressivo. Premuroso con i più piccoli, «dava sempre una mano». Non aveva paura di nulla e sapeva che cos’era giusto e ciò che non lo era. Mai nessuno, dicono, avrebbe potuto sparare a Marcello guardandolo negli occhi. Così gli mandarono sotto un suo amico, Luigi G., un altro ragazzo della casa. Marcello, che gli si era affezionato, lo abbracciò quando lo vide dopo tanto tempo e, quella sera, si accompagnò a lui. Luigi G. gli sparò alla nuca, appena lo vide distratto.

Non si può cancellare l’esistenza di questo orrore. Soltanto liberandosi dall’illusione che ci sia una speranza, dall’alibi che rappresenta quest’idea confortevole, si può misurare il vuoto assoluto, immune da ogni possibile scelta tra bene e male, dove esplode una ferocia che lascia increduli. «Bene» e «male» sono qualifiche insensate in questo mondo che non prevede conflitti interiori, domande, via di fuga. Marco M. dice che «accade e basta». «Vuoi fare la buona vita e l’unica opportunità che hai per averla è la mala vita. Tutto qui. Così è stato per me, così è per tutti. Non hai niente e vuoi avere tutto. Vuoi l’auto più grande, il rolex più prezioso, una camicia elegante, le scarpe più lussuose, le ragazze più belle e andare al mare e alzarti all’ora del pranzo come fanno quelli - tutti, dal più "grosso" al più fesso - che sono nel giro della droga a Scampia. Epperò tu non hai dieci euro in tasca e pensi che sei un niente, che non meriti nemmeno il saluto di chi ti incontra e vuoi tutta quella roba per essere rispettabile, per sentirti vivo perché se la vita non è buona che vita è? Cominci a rubare un’auto, a rapinare un supermercato. Quegli altri, i capi, i "grossi", ti stanno a guardare da lontano e apprezzano la decisione con cui fai il tuo lavoro e il rispetto che hai per la loro autorità. Se rivogliono l’auto rubata indietro perché non possono fare brutta figura nella loro zona, gliela restituisci. Se ti chiedono di rubarne una per un lavoretto, tu gliela "regali", se sei furbo. Un giorno, il tuo miglior amico ti chiede se sapevi che, sparando al cervello di un cristiano, senti uno sfiato come in un pallone bucato e ti dici che, tranquillo, tutto è a posto, che è così che va la vita. I "grossi" ti chiedono di fare allora qualche pezzo - sì, qualche morto - e tu gliene fai anche cinque, sei e non pensi mai che più ti dai da fare più ti metti nei guai perché quelli, i "grossi", a un certo punto, non si fideranno più di te perché ormai hai imparato a sparare bene e ti possono venire in testa anche manie di grandezza e, una notte, ti manderanno sotto casa uno come te, magari al suo primo pezzo e la giostra continuerà a girare e tu sarai solo uno che, come altri prima e dopo di te, è caduto con la faccia a terra e non si è più rialzato».

«Guarda», dice Marco e mostra una medaglia che ha al collo con una piccola foto: «Questo era Pasquale». «Guarda», dice e mostra un tatuaggio sul braccio e su un fianco con quel nome. «Non posso pensare a Pasquale senza farmi venire le lacrime agli occhi. Eravamo tre amici, io, Pasquale e Nino. Siamo cresciuti insieme da sempre, eravamo alti così. Ci siamo divisi il pane, quando c’era, e una risata, quando non c’era. I "grossi" hanno messo contro Nino e Pasquale e, una notte, Nino ha aspettato Pasquale e gli ha sparato. Io allora ho capito e mi sono tirato da parte, per quel che ho potuto. Dovevo scegliere: o diventare Pasquale, stecchito, o Nino, assassino del mio sangue. Preferisco essere quel che sono e sapere che la malavita è soltanto mala vita e che la buona vita che ti promettono è una bolla d’aria. Finora mi è andata bene. Ho una mia attività commerciale e mi lasciano tranquillo, ma fino a quando durerà? Il marito di mia sorella, il padre di mio nipote è, come tutta la sua famiglia, dentro la camorra. Possono ammazzarmi solo per questo e io posso ammazzare se facessero orfano mio nipote o se venissero a pretendere i soldi per quel lavoro che mi sono costruito con fatica. Non posso dire di essere salvo. Posso soltanto sperare di esserlo un giorno dopo l’altro».

La camorra, in queste parole, non è un’organizzazione criminale, non è un ricco affare illegale, non è un "nemico" che si affronta con l’eroismo dei coraggiosi. È un pensiero. Un pensiero di affermazione di sé che rende - necessario - il dominio sugli altri e - tassativo - il possesso di quei luccicanti oggetti superflui che rendono poi superflua anche la vita. È un’idea distruttiva del corpo comunitario. Immagina che esista soltanto un codice che regola i rapporti con il mondo: il potere che hai su chi ti vive accanto; un potere da ribadire ogni giorno, pena perdere tutto, con una presenza violenta e magnificamente abbigliata. In questo mondo insensato si uccide per invidia. «Giacomino - raccontano - fu ucciso alla Sanità perché era troppo bello, piaceva a tutti e tutti gli sorridevano e lo salutavano contenti. Giulio se ne fece un’ossessione, a lui nessuno lo salutava, manco lo vedevano, era come trasparente e così, per liberarsi da quel cattivo pensiero che gli faceva veleno nel sangue, si liberò di Giulio. Gli sparò». Si fa un pezzo per pagarsi la macchina nuova e più potente. Si fa un’estorsione per comprarsi un "dolcegabbana" o un altro paio di "hogan". Si fa una rapina per comprarsi "o rolex" che costa di più. Soltanto un corpo senza vita in una pozza di sangue è realtà nella totale irrealtà che governa la vita di questi adolescenti vittime e innocenti come agnelli il giorno di Pasqua, feroci e avidi e stupidi come borghesi piccoli piccoli. C’è uno scarto incommensurabile tra la concretezza delle vite spezzate e la "bolla d’aria" in cui vivono decine di migliaia di adolescenti armati di coltello o, se vogliono, di pistola. L’atroce è l’esito dell’assoluta irrealtà di un desiderio di oggetti che solo, a parer loro, concede valore. Al possesso di quegli oggetti è appesa la loro vita, il dolcegabbana, la mercedes, la smart, il rolex, la catena d’oro, il sogno di diventare come i guaglioni che lavorano a Scampia nella droga, «loro sì che fanno i soldi e, se stai appena più su nel controllo della "piazza" di spaccio, facile ti metti tre, quattro milioni da parte in poco tempo…».

Quale nome dare a questo scarto tra un destino di morte e un’irrealtà scandalosa? Ci si aggrappa di solito alla sociologia per spiegare questa catastrofe umana; si invocano i deficit dell’economia, la debolezza del mercato del lavoro, l’impotenza di una politica fatta di parole e cucita con gli interessi privati o di consorteria. Bisogna forse avere il coraggio di parlare di antropologia. Bisogna prendere molto sul serio finalmente, e con indignazione, l’ipotesi che si è consumato in questo angolo della Penisola un «mutamento antropologico» che, a guardarlo da vicino, toglie il fiato. Anche qui, che cosa c’è di nuovo? Soltanto i poeti sono capaci di profezie e il vaticinio di Pier Paolo Pasolini ha ormai più di 35 anni. La «tribù dei napoletani» che «irripetibile, irriducibile, incorruttibile» vive nel ventre di una grande città di mare ha deciso di estinguersi, scrisse. Quelli che verranno dopo non saranno «napoletani trasformati». Saranno «altri», predisse. Sono altri napoletani, ma nessuno si illuda di poter volgere lo sguardo da un’altra parte. Quel che accade qui è affare di tutti perché - ha ragione Giorgio Bocca - «Napoli siamo noi»: questi altri napoletani annunciano altri italiani; le patologie napoletane dicono dei morbi che affliggono gli italiani.

Vincenzo Morgera e Silvia Ricciardi, che hanno costruito casa Jonathan, non hanno bisogno di lezioni di disincanto. Sono disincantati per esperienza e non si sono mai illusi di aver trovato la soluzione definitiva di quel che si definisce «reinserimento e inclusione di ragazzi a rischio penale». In un cesto raccolgono le lettere - centinaia - scritte da chi non ce l’ha fatta, e sono i più. Fino a quando sono in casa, i ragazzi sembrano poter cambiare la loro vita, aver compreso la necessità di farlo. Poi Rocco scrive: «Mi trovo in carcere perché ho fatto un’altra rapina di gioielleria e mi hanno anche sparato e ringraziando a Dio, non è molto grave…». Giuseppe si vergogna: «Scusatemi, Vincenzo, avevo dato la parola a voi che non sarei tornato dentro, non l’ho mantenuta, spero mi perdonerete… Ho solo diciotto anni e non ho mai capito niente che mi volevate bene e mi viene da piangere a pensare quel che ho gettato via. Qui non mi viene a trovare nessuno e i miei problemi in questo carcere sono molto gravi e non mi dite niente che sono finito ancora qui, sono un uomo di merda…». Eugenio non cerca scuse: «Mi brucia aver perso la vostra fiducia, ma chi fa cose brutte, si deve prendere le conseguenze anche se qui ci sono tanti pezzi grandi e io non mi trovo tanto bene…». Dice Vincenzo Morgera che soltanto il lavoro e una comunità che possa restituire identità e appartenenza, alternative all’ambiente d’origine, alla famiglia, all’identità virtuale che inseguono, può offrire ai ragazzi dannati l’opportunità di cambiarsi la vita. «Vittorio Merloni, che da queste parti ha due stabilimenti Indesit, è il primo che ha creduto al nostro progetto. Io credo che la fabbrica, il lavoro comune possa offrire un esempio credibile». Dice Vincenzo che non vuole convincere nessuno. Dice che troppe sono le cose che dovrebbe aggiustarsi, sparire o apparire dal nulla, per avere speranza. Ma la sua non è speranza, dice, è soltanto una piccola ostinata disperazione che gli impedisce di credere che non si possa almeno tentare, ragazzo dopo ragazzo, vita dopo vita. Silvia dice che Angela T, che ce l’ha fatta, forse può spiegare quanto quell’ostinata disperazione possa, in qualche caso, aver successo.

Angela è a Fabriano, al lavoro alla catena di montaggio della Indesit, 1500 euro al mese, lei che duemila euro li spendeva in un giorno nella più bella piazza di Napoli, tra Dolce&Gabbana e Vuitton e Ferragamo. Chiamo Angela. Ha una voce allegra anche se quel che racconta non lo è. «La mia famiglia, mia madre, i miei cinque fratelli, le mie sette sorelle, tutti hanno sempre spacciato eroina, a chili, a San Gregorio Armeno per conto del clan Giuliano. Ricordo che andavo ancora alle elementari e la mattina quando bevevo la mia tazza di latte prima di andare a scuola, in cucina c’era tutta una frenesia per preparare le bustine della giornata. Era il mio mondo, ci sono cresciuta dentro, non ci ho fatto mai caso, era normale. Come era normale per me, diventata più grande, spacciarla e anche farmela con un mio fratello che è poi morto di Aids. Solo quando mi hanno tolto la libertà - e, con me, alle mie sorelle, ai miei fratelli, a mia madre - ho capito che quella vita non l’avevo scelta io. Apparteneva agli altri e, senza farmi una domanda, l’avevo accettata. La domanda sarebbe stata: vuoi davvero essere così? Ci ho messo anni per farmela venire in mente così netta e affilata. Quando ci sono riuscita mi sono sentita come soffocata dalla spazzatura. Il tempo, da allora, è passato a rimuovere dalla mia testa rifiuto dopo rifiuto per fare spazio a nuovi pensieri. Modesti, ma puliti. Lavorare in fabbrica è duro, ma mi dà ordine e mi piace perché quel che mi è mancato nella mia vita precedente sono le regole, accettare che soltanto con le regole si può vivere con gli altri, sapere che gli altri possono renderti felice. I soldi sono importanti, ma i miei 1500 euro mi fanno più soddisfatta delle migliaia di euro che spendevo. Ne ho la conferma quando vado a trovare, qualche volta, mia madre. Vive di pensione, non ha più i suoi ori e i suoi gioielli e si vergogna. Povera donna, ha 73 anni e non sa né saprà mai che cos’è la vita e la libertà. Io, a volte, ora credo di saperlo».

Mi chiedo, allora: è Angela, la speranza? Può solo una piccola, giovane donna tenersi sulle spalle il peso di quella parola?

La proposta è una vera e propria variante per Bagnoli. Porta la firma di 13 sigle. Tra le prime l´Acen diretta da Ambrogio Prezioso, il Gruppo giovani costruttori, guidato da Alfredo Letizia, la Borsa immobiliare di Napoli, la Camera di Commercio. «Il piano regolatore non è un monolite intangibile, ma deve essere strumento capace di offrire sviluppo sociale ed economico» ha detto Prezioso al sindaco Rosa Russo Iervolino, che ha presenziato a tutta l´assemblea dei costruttori. Occasione, anche, per inaugurare la nuova, ultrachic, sede dell´Acen, al primo piano di Palazzo Partanna. Ospite anche il presidente nazionale dell´Ance, Palo Buzzetti. «A Napoli - ha detto - c´è carenza di infrastrutture, indispensabili per lo sviluppo».

«Il piano regolatore non è un dogma», è stata la conciliante risposta del sindaco. Feeling a tutto vapore tra Comune e costruttori, dopo il litigio con il numero uno degli industriali, Gianni Lettieri. «Questa categoria non è mai stata sull´Aventino - ha notato il sindaco -, ma ha avuto sempre un rapporto propositivo e anche critico, ma costruttivo con l´amministrazione. Qui c´è gran voglia di lavorare e l´Acen è una forza viva della città che svolge il proprio ruolo».

Il progetto per cui si chiede la variante è Creanapoli, ipotesi di trasformazione urbana di un´area di circa 20 ettari in viale Giochi del Mediterraneo, con un boulevard attrezzato, terrazza sul mare, nuovo laboratorio creativo per la città, in vista del Forum delle Culture del 2013. «La candidatura di Napoli avanzata dal governo italiano come sede ospitante - ha detto il sindaco - è un fatto importante. Barcellona, grazie a questo evento, ha mobilitato oltre mille miliardi di euro, cambiando il volto di parte della città». Creanapoli prevede aree verdi, libere, attraversabili, un grande "tetto-giardino", piste ciclabili, servizi urbani, parcheggi, residenze, ricavate e protette dai tessuti degli spazi pubblici. Un disegno "modello Valencia" firmato Calatrava. Qui hanno lavorato l´architetto Cherubino Gambardella e l´esperto di marketing territoriale, Raffaele Cercola, presidente della Mostra d´Oltremare.

Prezioso ha sollecitato l´amministrazione a riprendere il Piano delle cave, «anche per contribuire a risolvere l´emergenza rifiuti». Napoli, città «deteriorata e compromessa» da criminalità e rifiuti, ma anche «ricca di risorse e positività». Con «rammarico e sofferenza», Prezioso ha lanciato un affondo: troppi ostacoli «bloccano ancora lo sviluppo». Comune e i privati collaborano in maniera positiva, «attivando anche progetti in project financing, su iniziative che per dimensioni risultano in testa alla graduatoria nazionale». Gli imprenditori, però, sono costretti «a fare i conti con tempi sempre incerti, costi di bonifica, oneri di urbanizzazione e contributi», che il più delle volte rendono impraticabili gli investimenti. Iervolino non ha negato i problemi, tuttavia, «la nostra città non ha bisogno di sterili dibattiti e ulteriori divisioni. Compito della sua classe dirigente, delle forze politiche, sociali ed economiche, è quello di portare il confronto sul terreno del fare, magari dividersi sulle proposte, ma poi trovare una sintesi». «Per l´area Est - ha proseguito il presidente dell´Acen - i progetti sono in controtendenza perché prevedono investimenti privati, creando nuova occupazione, sviluppo della competitività, e miglioramento della qualità della vita». Rallentarli o, addirittura, bloccarli «è delittuoso». Tra i punti, anche la bonifica dei suoli inquinati, che «va affrontata e risolta con il ricorso a nuove e moderne tecnologie». La Iervolino sarà oggi a Roma. Un carnet pieno di impegni: firma dell´accordo per la rimozione della colmata di Bagnoli per realizzare la Darsena di levante, il punto sui finanziamenti per il teatro San Carlo, e ricognizione sulle risorse per il metrò.

postilla:

Corsi e ricorsi

È il richiamo della foresta. Finora Napoli, dove la qualità della vita urbana è infima (e non solo per la tragedia dei rifiuti), poteva vantare un solo primato, quello di essere l’unica grande città italiana dotata di un rigoroso piano regolatore recentemente approvato, e rigorosamente gestito. Non poteva durare, il capoluogo della Campania si allinea adesso alla mala urbanistica di Milano, di Roma, di quasi tutte le altre grandi città italiane strozzate dalla rendita fondiaria, di cui eddyburg dà tempestivamente notizia. Stiamo tornando ai bei tempi di una volta, quelli di Neonapoli, del Regno del possibile, quelli travolti dalle indagini della magistratura, i tempi in cui erano i costruttori a dettare l’agenda della politica. Come nei bei tempi andati, il sindaco dichiara insensatamente che il piano regolatore non è un dogma. L’ultimo tentativo di stravolgere il piano di Bagnoli fu nel 2003 quando Napoli era candidata a ospitare la coppa America, poi fortunatamente approdata a Valencia. Allora un nutrito e qualificato gruppo di intellettuali, urbanisti, ambientalisti (fra i quali Piero Craveri, l’ex ministro Edo Ronchi, il direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis, Desideria Pasolini presidente di Italia nostra, Vittorio Emiliani presidente del Comitato per la bellezza, e tanti altri) sottoscrissero un severo appello al sindaco di Napoli e al presidente della Campania affinché si opponessero “ai tentativi in atto di modificare il piano urbanistico di Bagnoli, grazie al quale è possibile restituire ai napoletani una magnifica spiaggia e un grande parco pubblico”. E chiesero di respingere “il miraggio della grande occasione” che avrebbe determinato “incalcolabili danni ambientali e un arretramento della coscienza civile e morale”. Serve un altro intervento del genere.

Vezio De Lucia

Strepitoso successo di Elio e le Storie Tese al Festival della canzone napoletana con la riedizione regionale de "La terra dei cachi". Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, Casalnuovo abusivo, palazzi sì, palazzi no, perché la terra dei cachi è la terra dei cachi. Colmata sì, colmata no. Chi colma e chi dice calma. Bagnolifutura, Bagnolipassata, datti una colmata. Pecoraro sì, Scanio no. I Nerli a fior di pelle. Un roseto a Bagnoli. Telefonami fra vent´anni. Quanti problemi irrisolti, ma un sindaco grande così. Poteri speciali, doveri speciali, foulard speciali. La voce speciale. Una donna per tutti gli annali. Non fa bene, ma non fa male. Non si spiega e non si spezza. Ci mette una pezza. Mese per mese, sciacqua Rosa e bive Agnese. Piani, programmi, progetti e rigetti. L´arredo urbano, una mano di colla e poi tutto crolla. Ma avanza la metro, il fiore all´occhiello, l´occhiello di triglia. Calcinacci e transenne, il buio perenne del Plebiscito. La piazza non vale senza la montagna di sale. Via dalla piazza folle, galeotto è il deserto e chi lo volle. Chi spara e chi spera. Esercito sì, Esercito no. Inviati speciali. La terra dei cachi. Lo stadio a Scampìa. Caserme sì, caserme no. Lo stadio di Fuorigrotta. Tornelli sì, Bucchi no, Calaiò, Calaiò. Coroglio che cede, occhio non vede. Cinesi dovunque, la zona orientale. Buche dovunque, la zona accidentale. Rifiuti sì, rifiuti no. Bertolaso: l´aso nella manica, l´aso in mezzo ai suoni. Osservatorio dei rifiuti, Catasto dei rifiuti, cataste di rifiuti. Rosso di Serre, rifiuti senza terre. Termovalorizzatori sì, termovalorizzatori no. Più balle che eco. La politica. Papaveri e capi, la razza impunita, ma questa è la vita. Sono sempre gli stessi (bisogna farsene una Regione). Le solite facce e un uomo sodo al comando. L´imperatore. Piace alle bionde e piace alle more. Guerra e piace. La grinta dei duri, lui dura. Nel paese dei cachi. Ci sta molto bene, ha messo radici, circondato da amici, il giro pasciuto del potere assoluto. Il rivale è servito, ma l´irpino forbito s´è presa metà della torta creando sul posto un papa di scorta, Sua Sanità, l´assessore alla salute campana. La terra dei cachi. Cachi amari per tutti. Napoli sì, Napoli no. Appalti annullati, parcheggi irrisolti, pali crollati, siamo tutti assediati. Vigili sì, vigili no. La razza pregiata degli uomini colpiti all´incrocio da stress assoluto. Chiedono aiuto e si ritirano stanchi. Il Corpo municipale dei cachi più neri che bianchi. Promesse, programmi e annunci a sacchi. La terra dei pacchi.

Stella Cervasio, Transenne ai portici del Plebiscito

La piazza simbolo transennata. Somiglia a una foto del primo Dopoguerra, scattata dal celebre reporter Troncone e conservata proprio nell´archivio Parisio, che domina piazza Plebiscito. Quello era filo spinato, in verità, ma anche qui, da ieri, non si passa più, come allora. Il Plebiscito, il colonnato che per anni hanno rappresentato il senso dell´era Bassolino - il quale per primo aveva liberato lo spazio scenografico della piazza da un immane parcheggio - condannati a restare nell´ombra anche a Pasqua e poi per il Maggio dei Monumenti, se i lavori non cominceranno in tempo utile.

«È l´anticamera della periferia in pieno centro di Napoli», dicono in coro gli abitanti. Fanno eco gli operatori che vi hanno investito e che oggi vedono ancora una volta deluse le loro aspettative. Ieri mattina una squadra di operai ha transennato gli ingressi al colonnato al di sopra delle scalinate per tutelare i passanti dalla caduta di calcinacci della struttura monumentale che fa ala alla chiesa di San Francesco di Paola. «La mia soprintendenza - dice Enrico Guglielmo - alla quale è assegnata l´alta sorveglianza sulla chiesa, di proprietà del Fondo Edifici di Culto del ministero dell´Interno, e sul colonnato, che appartiene al Demanio, ha provveduto a mettere in sicurezza l´area della caduta di calcinacci dalle cornici con un transennamento provvisorio. I lavori non competono a noi. Ma vanno eseguiti, come abbiamo scritto nelle nostre lettere al Demanio, sollecitandone l´inizio già da qualche settimana».

«Ho speso 800 euro per le fioriere e ho anche aumentato l´illuminazione molto scarsa. Volevo rendere più accogliente il colonnato ora che la bassa stagione sta per finire. Ma ieri mattina ho trovato questa nuova sorpresa: mi lasciano un ingresso solo perché io pago al Demanio». Non ha fortuna Salvatore Piccolo, che aveva aggiunto al ristorante "Al Plebiscito" di piazza Carolina l´affaccio sulla piazza maggiore e l´anno scorso si era visto murare l´ingresso perché abusivo. La sua birreria alle forti critiche iniziali ha visto aggiungersi mille e più difficoltà di gestione. Quando piove i ragazzi giocano a pallone sotto i portici, dribblando fra i tavolini, mandando in frantumi gli arredi minimi, ma segnale di buona volontà del gestore. Basta fare pochi passi per vedere i materassi dei clochard: il colonnato è anche una camera da letto, oltre che il posto dei graffiti - dei vandali, non degli artisti di strada.

«Ci vogliono procedure urgenti», dice il gallerista Giangi Fonti, che ha gli uffici su via Chiaia e dai balconi guarda il leone di pietra al confine tra piazza Carolina e il Plebiscito. La faccia bella della piazza, quella dell´arte, che per anni ha significato le opere di artisti storici del contemporaneo, è mortificata come ogni altro suo aspetto. «Il lavoro di Serra diventò un orinatoio, quello di Sol LeWitt uno sversatoio di rifiuti. Bisogna metterci mano in modo radicale, non con il solito intervento lampo», aggiunge Fonti, «il degrado urbano è connesso con il problema sicurezza: insieme ai monumenti che cadono a pezzi a far da cartellone pubblicitario c´è sicuramente l´immagine che più si vede in giro anche da queste parti: quella della Vespa con a bordo tre persone senza casco, di cui magari uno è un bambino di pochi anni. Ma se si pensa che fino a un anno fa piazza Carolina era un parcheggio abusivo invaso dagli ultras della Brigata Carolina, ora si può dire che la situazione è migliorata».

È ancora aperto il bando del Comune per un caffè letterario, un ristorante etnico e alcune botteghe artigiane. Ad oggi c´è questo e altri progetti. Come quelli che da anni vorrebbe giocarsi Stefano Fittipaldi, titolare degli archivi Troncone e Parisio, i giacimenti di tesori fotografici più importanti di Napoli e di un laboratorio che potrebbe essere più che un assaggio di storia della fotografia. «L´idea del ristorante etnico può funzionare di sera, ma il porticato deve vivere di giorno», osserva Fittipaldi. «E quello che finora possiamo notare, è che non ha una vera vocazione commerciale». Ne sa qualcosa la libreria Treves, che sotto sfratto da via Roma, ha ricevuto in concessione i locali del Comune e ora, per la fatalità della pioggia di calcinacci, vede sbarrata la strada ai clienti.

«Il peggiore dei guai della piazza - fa ancora notare Salvatore Piccolo - è l´illuminazione che non c´è. La messa in sicurezza del colonnato si è resa necessaria, ma ci preoccupano i tempi dell´intervento per fermare i crolli. Del resto ci siamo abituati: anche l´anno scorso, proprio a Pasqua, quando l´arrivo dei turisti diventò massiccio, furono aperti i cantieri di piazza Municipio. Se passerà molto tempo, allora vuol dire che su quel colonnato c´è davvero una maledizione».

Massimiliano Palese, Il patrimonio minacciato

I "Patrimoni dell´Umanità" sono luoghi di particolare pregio, scelti per quel programma internazionale dell´Unesco che dal 1972 (soltanto, purtroppo) ha lo scopo di preservare siti di eccezionale importanza naturale o culturale. Questi siti devono soddisfare molti dei rigidissimi criteri che l´Unesco ha fissato per la selezione: devono rappresentare un capolavoro del genio creativo umano (un edificio, una basilica, o un insieme di opere d´arte) o apportare una testimonianza d´eccezione su una particolare tradizione culturale (solo un castello o un insediamento intero); devono offrire un esempio, ma eminente, di costruzione architetturale o del paesaggio (un parco, una villa, tutta una costiera) o possono essere "paesaggi culturali".

Cioè paesaggi che offrano buon esempio di interazione umana con l´ambiente (un monte, una valle e, perché no?, una foresta); devono essere vestigia di grandi epoche storiche (vedi alcuni importanti siti archeologici) o contenere gli habitat naturali più rappresentativi della conservazione delle biodiversità. E l´Unesco spesso dà rilievo, considerazione e un punteggio maggiore agli "spazi minacciati".

La lista dei "Patrimoni dell´Umanità" è lunga, istruttiva, e fa girare la testa: si va dalla foresta tropicale di Sumatra ai monasteri dell´Armenia, dalla barriera corallina australiana al centro di Vienna, dai giardini di Schönbrunn alle mangrovie del Bangladesh, dalla Grand Place di Bruxelles alla foresta vergine bielorussa, dal ponte di Mostar alla Muraglia Cinese, da Canterbury alle Seychelles. Insomma dalla reggia di Versailles al campo di Auschwitz, dalle piramidi a Valparaíso, passando per Gerusalemme, Brasilia e Macao. Al 2006 la lista è composta da 830 siti di 138 nazioni del mondo, e l´Italia detiene il bel primato di paese col maggior numero di luoghi inclusi. Le incisioni rupestri della Valcamonica e la laguna di Venezia. I Sassi di Matera e i trulli di Alberobello. La Valle dei Templi e le necropoli etrusche. Le residenze sabaude e le delizie estensi.

Sono patrimoni italiani alcune località di estremo pregio naturale come le Cinque Terre e le Isole Eolie. O produzioni del genio umano come le ville palladiane e quelle di Tivoli. Per la concentrazione di opere d´arte sono state inserite nella lista Unesco centri storici di grande importanza (Roma, Firenze, Urbino, Modena, Pisa, Siena, Siracusa, Pienza, San Gimignano), e intere città (Ferrara, Verona, Vicenza). Addirittura uno stato (Città del Vaticano). E la Campania dà lustro al patrimonio mondiale con la Costiera Amalfitana e il Parco Nazionale del Cilento. Con i siti archeologici di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata. Con Paestum, Velia, e Padula. Con la reggia di Caserta e il complesso di San Leucio. E il centro di Napoli.

Ebbene sì, dal 1995 anche il centro storico di Napoli è "Patrimonio dell´Umanità". Con Piazza del Gesù che di notte diventa un parcheggio abusivo. L´inquinamento atmosferico che rovina i marmi, quello acustico che lacera i timpani. Altro che Ztl, troppo poco. Si dovrebbe chiuderlo al traffico - sbarrarlo, serrarlo - un patrimonio dell´umanità. Il Traffico della Zona sarà Limitato, ma traffico resta. Intanto per cardini e decumani i motorini sfrecciano e le macchine intasano. Gli automobilisti se la prendono con le strade: «´A colpa è ‘a lloro, so´ tropp´ strett´». Ma è certo che le vie sono strette. Sono state concepite due millenni e mezzo fa da gente e per gente che a suo tempo andava a piedi, al massimo in dorso a un asino. Non possono contenere un Suv con nove persone dentro. Non possono accogliere un camion, ancorché piccolo. E che dire del Sacro Tempio della Scorziata che cade in pezzi, della Chiesa dei Gerolamini chiusa dal terremoto, di Santa Maria in Vertecoeli mai più riaperta, del Museo Filangieri di cui non si hanno più notizie? Facciamo richiesta all´Unesco di inserire il centro storico di Napoli nella lista di patrimoni minacciati, ma in una sottolista "a minaccia immediata". E di tutelare noi napoletani come "umanità minacciata da se stessa".

Il grottesco di Bagnoli

Cesare De Seta

La querelle sulla colmata di Bagnoli assume di giorno in giorno toni sempre più grotteschi. Qui non c´è nulla di poco chiaro, a me pare tutto di una trasparente evidenza: ma gli amministratori, l´Autorità portuale, i vari responsabili ai livelli ministeriali sembrano voler fare di tutto (del tutto involontariamente) per imbrogliare le carte in un modo così parossistico da non venirne più fuori.

Una cosa risultata chiara dalle indagini scientifiche che si sono fatte sui contenuti chimici di quella "bella terrazza a mare", come ha detto pure qualcuno incline al Bello. È quella colmata un serto di veleni che per tale ragione - se una ragione ancora c´è e ancor più il semplice senso comune - essa va semplicemente rimossa e non trasferita in altro sito del golfo (quale che esso sia), perché non farebbe che riproporre gli stessi problemi ecologici che pone dove sta, cioè a Bagnoli. Se si accetta l´ipotesi del trasferimento nel golfo (malaugurata ipotesi) vuol dire che fin qui si è giocato con i soldi dell´erario come alla roulette.

La confusione che regna è resa in modo chiarissimo da una pagina che un quotidiano locale ha dedicato ai favorevoli alla rimozione e ai contrari: sono tutti uomini d´onore sa va sans dire. Ma sgomenta il fatto che sono contrari alla rimozione della colmata persone autorevolissime che hanno avuto responsabilità dirette importanti nella gestione trascorsa di Bagnolifutura. Cosa può aver indotto il vice sindaco Sabatino Santangelo, uomo saggio e prudente, che è stato presidente di Bagnolifutura a cambiare opinione? Mi pare che il sindaco Rosa Russo Iervolino ha la mano ferma e continua a sostenere quello che il buon senso (oltre che le indagini scientifiche) richiedono, cioè la rimozione.

È evidente che c´è uno scontro all´interno dei Ds e della sinistra con responsabilità di governo di cui non si capiscono le ragioni, sempre che abbia senso stare a invocare la ragione come mi ostino a fare. Da uomo della strada non riesco a capire dove possa tale scontro andare a parare. Nell´incontro di mercoledì a Roma tutte le parti in causa - locali e nazionali - decideranno speriamo per il bene della città: ma se c´è ragione nella testa di costoro (e non ne dubito) la soluzione è una sola: la rimozione e l´allontanamento dal golfo di Napoli di questa bomba inquinante. I cinquanta intellettuali e tecnici che hanno firmato un documento sui nodi irrisolti di Bagnoli dicono cose sagge: non conosco il documento nella sua integrità, ma i problemi sollevati sono importanti e meritano risposta. A cominciare dal quel porto-canale che subito denunciai come pure stupidità più che follia quando comparve alla ribalta. Tuttavia un´opinione chiara e inequivocabile mi sarei atteso da questi cinquanta volenterosi e valenti sulla questione cruciale della colmata, della sua rimozione e del suo trasferimento irrinunciabile dal golfo di Napoli.

La città sia chiamata a scegliere

Lucio Iaccarino

Eternamente sospesi tra l´utopia ambientalista e le razionalità urbanistiche, corriamo il rischio di ritardare ulteriormente la riqualificazione di Bagnoli. E prima di archiviarla, per lasciare campo aperto ai disfattisti o agli opportunisti, sarà bene mantenere alto il livello d´attenzione, e riflettere sui tratti di questa politica pubblica e trarne qualche lezione per il futuro. Mentre la società civile napoletana sembra aver sposato le ragioni dell´ambientalismo, con un quartiere ostaggio di visioni post-industriali, autorevoli figure istituzionali manifestano forti perplessità sulla necessità di rimuovere la colmata a mare. Se i piani in vigore sono espressione della razionalità dei primi pianificatori, oggi collidono con le visioni urbanistiche di quelli in carica. Ammettendo pure che rimossa la colmata non vi siano altri sedimenti sui fondali, tali da compromettere la sicurezza dei bagnanti, ulteriori rischi si nascondono dietro le faraoniche opere di bonifica, tanto invocate dalle Assise cittadine.

Nel luglio 2003, l´allora vicesindaco ebbe a dichiarare: «Non so se ci sia la necessità della bonifica dei fondali. Che un fondale dal punto di vista tecnico possa essere bonificato, non so se sia possibile. C´è un problema di rimozione della colmata. I metalli pesanti, in quanto pesanti, vanno giù nell´acqua. Se si mette mano alla rimozione della colmata, bisogna far sì che questa rimozione avvenga in un´area esterna a quella marina. Voglio dire che bisogna fare movimenti di terra sempre in area non marina, perché se si sbaglia la rimozione della colmata, i materiali in essa contenuti entrano nel circuito marino causando l´inquinamento del mare. Bonificare i fondali è una cosa difficile. Non vorrei che ci fosse qualcuno che pensi che Bagnoli debba diventare una specie di isola felice, all´interno di un mondo tutto inquinato» ("La rigenerazione", Ancora del Mediterraneo, p.162). I dubbi sui rischi d´inquinamento nelle zone marine circostanti andrebbero dissipati con la stessa urgenza assunta dalla disputa tra Darsena di Levante e Piombino.

È paradossale assistere ad una contesa istituzionale volta all´aggiudicazione di 200 mila metri cubi di materiali inquinanti. Evidentemente, la posta in gioco sono gli appalti e le somme da stanziare per l´eliminazione e il trasporto della colmata bagnolese. La Bagnoli dei ritardi si conferma, ancora una volta, come una formidabile opportunità per recuperare finanziamenti pubblici. Da questo punto di vista, per quanto riguarda gli ultimi tre lustri non si può certo dire che non sia convenuto aspettare. E le alternative non si riducono a colmata sì o colmata no, poiché anche per lasciarla lì dov´è, sarebbe necessaria una messa in sicurezza per ridurne l´impatto ambientale. Mancano, quindi, gli elementi necessari a chiarire i termini della comparazione tra la soluzione toscana e quella campana; termini che dovrebbero ruotare attorno tre variabili: la durata delle operazioni, i costi e rischi.

L´urbanistica è una politica costitutiva ma non è certo la Costituzione. Per variarla, anziché appaltare strabilianti progetti d´idee alla creatività urbanistica, basterebbe mettersi d´accordo, magari prima ascoltando più attentamente i bisogni del territorio. Se oggi si vuole cambiare rotta, occorre convenire sulle modalità di progettare il futuro di Bagnoli (in quel poco che resta di non deciso o negoziabile) e l´intelligenza delle istituzioni dovrebbe manifestarsi proprio dinanzi ai paradossi normativi che gli attuali piani sollevano. La dilatazione temporale è imputabile alla riqualificazione regolativa intrapresa dall´establishment bassoliniano il cui imperativo è stato quello di costruire delle regole sufficientemente forti da reggere dinanzi ai continui salti in avanti, oltre agli interessi sottesi a tali spinte immaginifiche. Niente più del litorale di Coroglio, infatti, per il suo spettacolare panorama mozzafiato, è in grado di risvegliare appetiti speculativi e progetti altisonanti.

Il passato di Bagnoli imponeva, tuttavia, una scelta ponderata, basata su vincoli di natura razionale, tradottisi in impegni prescrittivi, grazie alla frangia più intransigente dell´urbanistica italiana. Garante di questo disegno è stato Vezio De Lucia, guru del rispetto paesaggistico. In questo percorso sofferto di trasformazione urbana, gli abitanti del quartiere, privati della loro centrale lavorativa, dovevano essere risarciti con la forza riparatrice dei piani, capaci di privilegiare l´interesse pubblico su quello privato. Ma ben presto, a questa presa di coscienza, se ne è affiancata un´altra. Tutte le volte che il processo decisionale si è inceppato, si è ricorso ad un accordo di programma per sbloccarlo. Gli accordi si fanno per aggirare norme, per fare in fretta e per recuperare nuovi investimenti.

Così sono arrivati gli accordi per assestare la Fondazione Idis, garantendo la sua presenza sulle rive di Coroglio, fino a quando i suoi investimenti non saranno ammortizzati. Accordi per sbloccare dai veti del centrodestra nazionale la tranche dei 75 milioni di euro e completare la bonifica. Accordi per far transitare l´imponente colmata verso i lidi della Toscana. E, chissà, accordi anche per prelevare la sabbia da Castelvolturno, dissipando i potenziali attriti provenienti dal litorale domizio. Accordi e disaccordi, come è emerso dal ricorso presentato dagli ex proprietari dei suoli della dismissione per avvalersi nei confronti dell´ente pubblico espropriante, e rivendicare il proprio diritto a negoziare un indennizzo più alto. Il paradosso vuole che proprietarie fossero le industrie di Stato, per cui al cittadino è sfuggito del tutto, dove si annidasse l´interesse pubblico. Pezzi di Stato che fanno causa ad altri pezzi? A vantaggio di chi? Non sarebbe stato meglio accordarsi prima? E non dimentichiamo Coppa America, la cui collocazione bagnolese avrebbe significato il sovvertimento subitaneo del lungo e faticoso lavoro per approvare il Prg. L´unica strada per uscire dal dilemma tra pianificazione e negoziazione è la partecipazione.

La colmata della discordia

Patrizia Capua

Le Assise di Palazzo Marigliano chiedono le dimissioni del vicesindaco Tino Santangelo dopo le sue dichiarazioni sulla colmata di Bagnoli. «Da cittadino napoletano dico - aveva affermato - che la colmata ex Italsider deve restare dov´è, perché una terrazza sul mare di tale bellezza non ce l´ha nessuna città al mondo ed è un peccato che venga rimossa». Dichiarazione particolarmente grave, secondo le Assise, perché il vicesindaco deplora e contesta le decisioni assunte dallo stesso Consiglio comunale e più recentemente anche quelle del ministro dell´Ambiente, Pecoraro Scanio, che sostiene l´ipotesi di portare i materiali inquinanti a Piombino. Grave sul piano della correttezza amministrativa e politica, insistono le Assise, in quanto Santangelo «dovrebbe essere il garante dell´attuazione del Piano regolatore. A questo punto dovrebbe comprendere che la sua posizione non è compatibile con la sua carica. Si dimetta, dunque», esortano, «tenendo anche conto che non è stato eletto al Comune dai cittadini napoletani».

Posizioni contrastanti con quelle dello stesso sindaco Iervolino che ieri non ha perso tempo e ha frenato Santangelo. «Lasciatemi dire una cosa su Bagnoli - ha detto il sindaco nel corso del congresso della Margherita a Città della Scienza - vorrei proprio pregare di non aizzare più polemiche sul tema. Ci sono ormai progetti che sono partiti e che vanno governati, senza strattoni alimentati dalla stampa. Dico a tutti che il confronto va fatto nelle istituzioni, non a colpi di spot sui giornali».

Bellissima terrazza a mare o un milione e 200 mila metri cubi di sedimenti tossici dell´ex acciaieria, che impediscono il recupero della linea di costa e della spiaggia? Scontro a Palazzo San Giacomo ma anche al ministero dell´Ambiente, all´Authority portuale, al commissariato per le bonifiche della Regione. Più di dieci anni di polemiche, la città divisa in due blocchi trasversali. Il sindaco Rosa Russo Iervolino ribadiva che «per Bagnoli bisogna spegnere le polemiche e attuare i piani di disinquinamento già approvati». Francesco Nerli, presidente del porto, giudica valido l´accordo del 2003 per il riutilizzo della colmata nella Darsena di Levante.

Le Assise hanno ricordato che Santangelo nel mese scorso aveva detto di voler sollecitare un´altra relazione tecnico-scientifica. «Il vicesindaco tratta Bagnoli come una collezione di gouaches» affermano Donatone, Francesco de Notaris, Nicola Capone, Francesco Iannello e Luigi De Falco.

Sulla polemica interviene il deputato Marcello Taglialatela, componente della commissione parlamentare Bilancio e coordinatore cittadino di Alleanza Nazionale. «Il vicesindaco Santangelo prende finalmente atto della realtà di Bagnoli e ci dà ampiamente ragione sulla questione della colmata e sulla scelta negativa intrapresa dal centrosinistra di rimuoverla. La rimozione peraltro - aggiunge Taglialatela - richiede tempi lunghi e allungherà inevitabilmente quelli per il definitivo rilancio e sviluppo dell´area di Bagnoli».

Rimuoverla è velleitario e frutto solo dell´ideologia

Benedetto Gravagnuolo

Circa due anni fa, in un´intervista a "Repubblica" (18 febbraio 2005) fui tra i primi a sollevare dubbi sull´opportunità di rimuovere la colmata a Bagnoli. Proposi di valutare di trasformare quell´informe massa di terriccio in un gradevole giardino sul mare, applicando collaudate tecniche biologiche di disinquinamento dei detriti, mediante adeguate essenze arboree. Mi fu obbiettato che le mie erano osservazioni tardive, avendo il Consiglio comunale già deliberato di procedere a un immediato sgombero di quell´ingente massa di detriti dell´ex Italsider al fine di ripristinare la naturale linea di costa.

Per il rispetto che nutro verso le istituzioni, preferii non insistere sulla mia proposta. D´altronde il mio voleva essere solo un contributo teso a favorire la rapida e piena attuazione dell´obbiettivo primario del piano, vale a dire la realizzazione del grande parco sul sedime delle fabbriche dismesse. L´ostinazione polemica avrebbe allora potuto dare adito al sospetto di volere alimentare una strumentale controversia per rallentare i lavori.

Sta di fatto però che la colmata è ancora lì. Ed è divenuta anzi il pomo della discordia tra tecnici e politici che remano sulla stessa barca. Sperando dunque di non fomentare dissidi, provo a riproporre in estrema sintesi le mie considerazioni.

Innanzitutto, se valutata nei termini del rapporto tra costi e benefici, la rimozione della colmata appare con tutta evidenza un´opera ciclopica, per non dire velleitaria. Rimuovere circa 220 metri quadrati (tralasciando la disputa sui mezzi di trasporto e scartando per ovvie ragioni i camion) comporta una spesa già di per sé ingente, alla quale va aggiunto il costo dell´immissione di una notevole quantità di sabbia nuova per ridare una forma plausibile alla spiaggia da ripristinare. Si sa che il fine giustifica i mezzi. Ma, in questo caso, c´è da chiedersi che cosa giustifica il fine.

La volontà di riportare la linea di costa a uno stato di natura preesistente agli insediamenti industriali novecenteschi è una buona intenzione, ma in palese contraddizione logica con la volontà di realizzare più avanti un porto-canale che recherebbe un vulnus in un tratto di linea di costa non ancora alterato. Come hanno dimostrato vari esperti (con reiterate osservazioni tecniche, senza mai ricevere repliche) il disegno del porto-canale non è solo "contro legge", ma anche "contro logica". Questo tipo di porto implica l´incisione di un lungo taglio nella morfologia esistente, disattendendo così la legge n.582/96, nonché i vincoli sanciti dal Piano Paesistico del 1999. Ancor più paradossale è constatare che per la sua stessa conformazione, tale "canale" produrrebbe insabbiamenti e altre inefficienze nautiche.

Di "naturale" peraltro è rimasto ben poco in quel sito. Dagli stessi assertori del ripristino della linea di costa preesistente viene vantato con orgoglio il recupero del Pontile-Nord, vale a dire di un artefatto industriale che si protende per circa 900 metri tra le onde del mare. Senza contare che Nisida era un´isola ("e nessuno la sa", come canta Bennato).

Insomma, non è comprensibile l´accanimento a volere rimuovere a tutti i costi (è proprio il caso di dirlo) la colmata, lasciando però inalterati tutti altri segni della trasformazione del luogo recati dall´uomo nel corso del tempo. Le risorse pubbliche stanziate per tale opera ciclopica, potrebbero (forse) più utilmente essere finalizzate ad altri interventi per attuare (in tempi ragionevolmente programmati) l´anelato disegno della trasformazione di Bagnoli. D´altronde, un giardino sul mare resta un´ipotesi altrettanto "naturalistica" del grande parco retrostante.

Perché allora non provare a discuterne tecnicamente, senza innalzare barricate ideologiche? In fin dei conti, il Consiglio comunale potrebbe legittimamente emendare alcuni aspetti tecnici del piano esecutivo precedentemente approvato, laddove riscontrasse l´opportunità di miglioramenti attuativi. Non si tratta di rimettere in dubbio le scelte di fondo, ma anzi di rafforzarne la validità attraverso correttivi ben calibrati e condivisi.

Ma se non verrà rimossa il mare non sarà balneabile

Guido Donatone

Ci domandiamo che cosa debbano pensare gli imprenditori e i futuri investitori, che hanno da tempo mostrato interesse per il piano comunale di recupero di Bagnoli e dell´area occidentale di Napoli, di fronte alle ricorrenti dichiarazioni rese alla stampa dal vicesindaco Tino Santangelo, il quale ancora una volta ha dichiarato ("Repubblica" dell´11 marzo) a proposito della colmata a mare di Bagnoli: «... deve restare dov´è perché una terrazza sul mare di tale bellezza non ce l´ha nessuna città del mondo».

È probabile che Santangelo non abbia consapevolezza alcuna delle decennali istanze ambientaliste accolte dal Consiglio comunale di Napoli di cui fa parte. Le finalità delle associazioni ecologiche per la riqualificazione dell´area occidentale di Napoli prevedevano precise priorità: la rimozione della colmata dell´ex Italsider, il disinquinamento dei fondali marini e il ripascimento degli arenili; tutte necessarie per la restituzione del mare e della spiaggia alla libera fruizione dei cittadini.

Il vicesindaco Santangelo evidentemente non segue nemmeno il dibattito politico-culturale che si svolge sulla stampa.

Su "Repubblica" del 23 febbraio scorso, Giovanni Squame, già presidente del Consiglio comunale, ha infatti sottolineato che da parte del Comune sono necessari «forti segnali di affidabilità per gli investitori... circa il grande progetto di riconversione urbana in via di attuazione».

Quello di Bagnoli, appunto, su cui, aggiunge Squame, «c´è un accordo di programma e un cronoprogramma sui quali dar conto alla città: il Consiglio comunale eserciti la sua funzione di controllo per garantire sul perseguimento coerente di scelte ampiamente condivise, e degli accordi sottoscritti tra le pubbliche istituzioni».

Sempre su "Repubblica" (22 febbraio scorso) avevamo ricordato a Santangelo che la rimozione della colmata è prevista dalla legge 582 del 1996, che impone il risanamento ambientale del litorale e dei fondali marini, nonché il ripristino della morfologia naturale della linea di costa a Bagnoli.

Tutto ciò è stato anche recepito dalla normativa urbanistica del vigente piano regolatore di Napoli, con cui Santangelo dovrebbe avere qualche dimestichezza dal momento che ricopre pure la carica di assessore all´Urbanistica.

Lo stesso sindaco Rosa Russo Iervolino è stata votata dalla maggioranza dei napoletani perché nel suo programma era indicata come prioritaria l´attuazione del piano regolatore. E va dato atto al sindaco per la sua coerenza in quanto la sua posizione, anche recentemente ribadita, è quella della attuazione del piano regolatore e in particolare della sollecita rimozione della colmata.

Nella seduta di ieri delle Assise di Palazzo Marigliano sono state rilette le risultanze della relazione tecnico-scientifica del professor Benedetto De Vivo, docente di Scienze della Terra e già componente della commissione di controllo e monitoraggio delle attività di bonifica di Bagnoli, che hanno evidenziato una contaminazione delle acque profonde per la presenza di sostanze tossiche: idrocarburi policiclici e fluorantene nell´area della colmata, per cui senza la rimozione della stessa il mare di Bagnoli non sarà mai balneabile. E a tal proposito va sottolineato che quella di Coroglio è l´unica spiaggia a disposizione dei napoletani.

Di fronte alle predette provocatorie dichiarazioni di Santangelo, che ostenta un estetizzante disinteresse per la salute pubblica e non sembra rendersi conto che il vicesindaco dovrebbe essere il garante dell´attuazione del piano regolatore, le Assise di Palazzo Marigliano hanno approvato all´unanimità un ordine del giorno in cui si chiedono le sue dimissioni dalla carica di vicesindaco di Napoli.

Lo studio di fattibilità è sul tavolo di Bassolino, l´allarme per il recupero dei lidi è tra le mani di Pecoraro. Uno racconta perché la colmata di Bagnoli non andrà più alla Darsena Levante con percorsi e costi alternativi, l´altro riferisce che la bonifica non funziona. I dati dell´Arpac, riferiti in un promemoria al ministro dell´Ambiente, sono espliciti: «I risultati - c´è scritto nella relazione - sono lontani da quelli attesi. Il livello di inquinamento residuo da idrocarburi policromatici totale resta sempre del 90 per cento». Significa che la macchina "soil washing" utilizzata dalla ditta De Vizia - una variante al progetto di partenza - non riduce l´inquinamento presente nella sabbia. Secondo la relazione che Pecoraro può leggere da qualche giorno, ai veleni dell´Ilva l´intervento di pulizia gli fa il solletico: «Gli abbattimenti sono poco significativi». È una resa definitiva all´idea di recuperare la sabbia di partenza. Esistono due date da rispettare: il 30 aprile è prevista la consegna degli arenili di Coroglio Nord, il 30 maggio quelli di Coroglio Sud. La soluzione che si profila? «Sabbia da scavi di sbancamento». Così dopo l´erba sintetica, Bagnoli avrà pure la spiaggia d´importazione. Costa 3 euro ogni metro cubo.

Portar via la colmata costerà invece dai 94 e ai 155 milioni di euro. Dipende dalla soluzione che si intenderà sposare. È l´esito dello studio di fattibilità commissionato a Sviluppo Italia Aree Produttive. È il documento da cui proviene l´indiscrezione del trasferimento a Piombino di cui s´è parlato giorni fa. È una delle quattro ipotesi dello studio, consegnato a Bassolino con una certezza di base e una acquisita. La colmata va rimossa perché non esistono attualmente informazioni che indichino se il sistema di messa in sicurezza del 2003 abbia prodotto o meno un lavaggio dei sedimenti e dei suoli; inoltre i tempi per la realizzazione della Darsena Levante all´interno del porto di Napoli si sono prolungati, e non coincidono più con le esigenze della bonifica di Bagnoli. Ecco perché bisogna rinunciare a quel progetto, approvato appena il 21 dicembre 2005.

Al suo posto spuntano 4 possibilità. Uno: la trasformazione della colmata in inerti e il recupero come materiale da costruzione. Due: lo smaltimento nella discarica di Pianura. Tre: il trasporto in Danimarca. Quattro: Piombino. L´ultima è la più economica, ed è il motivo per cui da qualche giorno ci si lavora. Costa 94 milioni e 46 mila euro, di cui 58 da spendere per la rimozione, 4 e mezzo per opere accessorie, 32 per trattamento, trasporto e conferimento. C´è già la disponibilità dell´Autorità portuale toscana e del sindaco Ds, Gianni Anselmi, neppure quarant´anni, ex dee jay di una radio locale ed ex calciatore della squadra cittadina. Cosa ne farebbero lì della colmata dell'Ilva, pare ormai certo. I materiali trattati sarebbero usati in parte per una nuova opera di banchine, in parte per la realizzazione del prolungamento di una strada statale, la 398, nel tratto tra Montegemoli e il porto della città.

Scartata la Darsena Levante per i suoi ritardi, l´idea di utilizzare la colmata per farne un pezzo di strada era stata presa in considerazione anche per la Campania. Per la Caserta-Benevento o per la variante della Statale VII quater. Il punto dolente è lo stesso del porto. I tempi di Bagnoli non coincidono con quelli delle infrastrutture: sarebbe stato necessario dotarsi di un´enorme area di stoccaggio, e figurarsi. Ma la trasformazione in inerti e in materiale da costruzione - secondo lo studio di Sviluppo Italia - potrebbe tuttora far comodo al litorale di Castelvolturno, dove è previsto un progetto di ripascimento per l´arretramento della battigia per un´intensa azione erosiva. Lì, la "post colmata" farebbe da base per la sabbia e per il rimodellamento dei fondali. Il costo previsto è 107 milioni di euro. Con un ostacolo di non poco conto. Il trasporto via terra di due milioni di metri cubi di materiale. Con la capienza attuale dei camion, significa che occorrono 140 mila viaggi, che divisi per la durata dei lavori prevista in 18 mesi fanno 252 al giorno, cioè 25 all´ora. Più o meno un camion ogni due minuti sulle strade di via Nuova Bagnoli, via Coroglio e via Cattolica. Motivo che ha portato Sviluppo Italia a scartare in partenza, senza neppure azzardare un preventivo, l´ipotesi di un trasferimento nella discarica di Pianura. «Costi sociali altissimi», scrivono i tecnici a Bassolino. E allora? La colmata viaggerà via mare. Il materiale sarà stoccato e trasportato separatamente, secondo il suo grado di inquinamento. Per la rimozione si suggerisce di agire da terra con 5 escavatori per agitare meno acqua possibile. Prima si rimuove la massa di materiale, poi la scogliera, quindi si passa alla bonifica dei fondali, a cominciare dagli arenili disponibili. Il programma prevede anche la ricerca di ordigni bellici con il Side Scan Sonar, una sonda acustica che rileva le anomalie dei fondali e che consente a un computer di ricostruire i dati sotto forma di immagini. Portare la colmata in una stazione di conferimento rifiuti in Danimarca, analogamente al modello seguito dall´Autorità portuale di La Spezia, costerebbe 155 milioni di euro. Portarla a Piombino 94. Cinquanta milioni sarebbero a carico del ministero, 10 in quota Regione, circa 23 da parte del commissariato di governo, gli altri 35 dall´ex articolo 1 comma 3. Ora lo studio passa all´attenzione del commissario alle bonifiche, Arcangelo Cesarano. Oggi è a Napoli il ministro Pecoraro.

Postilla

Dunque, dopo quasi quattro lustri dalla chiusura dei due altoforni dell'acciaieria (1989) e oltre dieci anni dalla variante PRG del 1996 che stabiliva il programma di riqualificazione urbana e ambientale dell'area, questi sono i risultati: la bonifica dei lidi è fallita, la colmata a mare continua a diffondere nell'ambiente circostante i veleni dei suoi idrocarburi e i recentissimi scavi per la costruzione di una fogna a Coroglio hanno rivelato altissime presenze di amianto, venefico lascito dell'ex Eternit (la Repubblica, ed. Napoli, 27/2/2007). In compenso il CdA della Società di Trasformazione Urbana “Bagnolifutura” è paralizzato da mesi in una infinita e molto prosaica querelle su designazioni e compensi dei consiglieri.

Davvero Bagnoli rappresenta l'epitome del degrado dell'area metropolitana napoletana e dell'inefficienza della sua pubblica amministrazione.

E del triste declino di una stagione politica, ideologicamente ormai lontanissima: la svolta ambientalista della prima giunta Bassolino era stata accompagnata dalle famose assemblee popolari attraverso le quali il mito dell'industrializzazione cominciò ad essere sostituito dall'esigenza e dall'aspirazione ad una diversa e migliore qualità della vita urbana. Bagnoli divenne uno dei punti di forza di quella politica simbolica del così detto 'rinascimento' napoletano capace di suscitare un clima istituzionale di grande fiducia nel nome di una solidale appartenenza comunitaria.

Oltre ai danni ambientali, uno dei risultati più pericolosi del fallimento che vive quest'area consiste proprio nel tradimento di queste attese: recenti ricerche demoscopiche (la Repubblica, ed. Napoli, 25/2/2007), illustrano con chiarezza come per i cittadini della zona disillusione e perdurante crisi economica abbiano ormai portato ad accantonare la questione ambientale; e si riaffacciano prepotenti le paure collegate all'ascendente controllo del territorio da parte della criminalità organizzata. Il disincanto de “La dismissione” aleggia sui fantasmi di questa bonifica infinita.

Non tutti però, sono pessimisti: Emma Marcegaglia, vicepresidente di Confindustria, ha dichiarato (Il Mattino, 9/3/2007): «I grandi progetti di riconversione industriale come Bagnoli e la zona orientale costituiscono una grande occasione di sviluppo per Napoli. C’è una grande opportunità che deriva, per il territorio, dalla possibile attuazione dei grandi progetti di riconversione».

Eppure a chi, incamminatosi lungo il pontile nord, si volti all'indietro ad osservare quei lidi disastrati questo spazio sprigiona, con quella mixitè così struggente di archeologia naturale e archeologia industriale, un potere evocativo davvero straordinario che ci ricorda impietosamente, incessantemente, come la strada del ritorno dai disastri dell'insipienza umana sia lunghissima e tortuosa. (m.p.g.)

Dopo l´assalto edilizio a Capodimonte, che, con il poco verde che gli è rimasto, si candida a diventare - senza che nessuno intervenga - la centrale del business dei matrimoni, ora tocca ai Camaldoli. Ventimila metri quadrati di verde a cui dire addio, in pieno Parco metropolitano delle colline di Napoli, istituito il 16 giugno 2004. Un altro pezzo di città che si trasforma in cemento. A dimostrare che ormai a Napoli il mattone è libero, basta percorrere qualche chilometro in tangenziale, allungandosi sulla bretella che congiunge il Vomero a Pianura, a metà dello svincolo si vedrà chiaramente che il paesaggio ha cambiato forma. Un vero e proprio villaggio è sorto in viale delle Bucoliche, nei pressi delle cave di Verdolino di età romana. Si trova ai piedi della montagna che appare alle spalle di via Epomeo, in una posizione che ricorda quella delle case distrutte dalla furia dell´alluvione a Sarno. Dista pochi metri il sito archeologico che ogni anno (forse da quest´anno non più) rientrava nei percorsi archeologici del Maggio dei monumenti del Comune.

Fino ad aprile 2006, quando si è consumata la sua ultima primavera, quell´area era una distesa di fiori bianchi di decine e decine di alberi di prugne. In un battibaleno i terreni sono stati venduti e lottizzati e al posto dei fiori in pochi mesi sono sbocciate venti villette monofamiliari a un piano, ciascuna da 80 a120 metri quadri circa. Per difendersi dai curiosi che vogliono assistere al miracolo di una città che continua a edificare in barba a vincoli e divieti, i fortunati abitanti dei villini si sono barricati con severe cancellate. Ma a guardare attraverso le sbarre ci si accorge che otto edifici sono già abitati mentre quattro sono ancora liberi, e il resto dell´area disboscata si intuisce che sarà teatro di una operazione simile di qui a poco. «Su questo c´è il massimo impegno nostro, dei carabinieri, del Comune, ma qualcuno lì ha avuto una sospensiva del Tar - dice il presidente del Parco collinare, architetto Agostino Di Lorenzo - Il dramma è che non si tratta di un´edilizia di necessità, quindi se anche la borghesia ricorre all´abuso, vuol dire che è un momento particolarmente difficile. Occorrerebbe che i livelli amministrativi competenti si facessero carico di superare i limiti delle attuali procedure amministrative che sempre più spesso finiscono col tutelare e non perseguire chi commette reati».

Degli abusi denunciati da "Repubblica" finora un solo abbattimento è stato ordinato, quello della sopraelevazione di un edificio di via Sanità, visibile dal ponte della Sanità e la vista della retrostante collina di Capodimonte per fortuna è salva. Così non è stato per una sopraelevazione in pieno centro, in via Nardones, 48 visibile fin da San Martino: un attico abusivo di quasi 260 metri quadrati, sorto a partire dalla fine del 2006. Nasce dalla sicurezza di un cantiere sequestrato nel ’94.

Campeggiano come baite delle Dolomiti le costruzioni sorte al posto delle due ex serre De Luca, al tondo di Capodimonte, che, nonostante numerose visite delle forze dell´ordine, sono state completate sotto la pioggia battente. Il ristoratore che le ha realizzate, forte di un dissequestro della Procura, e in possesso di una Dia e di un provvedimento di messa in sicurezza ai sensi della normativa antisismica, dovrà rispettarne almeno la destinazione d´uso: vivaio. Ma la pizza e i fiori non sembrano compatibili. Nessuno ha voluto, a un passo dal Real Bosco di Capodimonte, neppure far rispettare a questi signori l´estetica dei luoghi, che appare gravemente compromessa.

Sul fenomeno dell'abusivismo in Campania, in eddyburg

Mentre il frastuono della politica rende indistinguibili le voci del governo locale, l´accattivante suono delle sirene edilizie si appresta a conquistare sia il terreno materiale dei suoli edificabili sia quello simbolico dell´interesse collettivo. La perdita dello scettro da parte del principe, la fibrillazione delle corti impegnate a disegnare nuove fazioni politiche, e l´incapacità dei vassalli di ingaggiare una lotta credibile per il cambio di vertice, lasciano ai cavalieri del mattone l´arduo compito di mettere le fondamenta per un futuro migliore.

Lo scetticismo è d´obbligo, almeno da parte di quanti rivedono sulla periferia le antiche mani che furono capaci di trasformare la città in modo irreversibile, o per quanti preferirebbero parchi e verde pubblico pensando ancora di avere i vandali in casa.

È forse giunto il momento di considerare la periferia oltre che come contorno, «anche come baluardo: non-luogo decentrato che permette di osservare la realtà da un punto di vista atipico, magari con lo sguardo strabico che punta verso il centro eppure si apre a nuove prospettive». Se così fosse, osservando ciò che circonda il mondo, non scorgeremmo più solo processi marginali ma figure potenti e capaci di attrarre addirittura le aspirazioni di successo tipiche del centro. Nelle parole dello scrittore Angelo Petrella si scorge un laboratorio di costruzioni letterarie mai così vivace come in questa stagione, nella quale la scrittura, della e sulla periferia, diventa emblema del discorso metropolitano. Dalla periferia avanzano immagini che riescono a smuovere la stagnante economia campana, sovrapponendo alla crisi segnali di ripresa, ospitando totem di presunta civiltà, dotati di una forza espressiva assolutamente ineguagliabile, volti a debellare l´immagine di un´economia regionale come culla del primordiale.

Più che sventolare grandi annunci o altisonanti recuperi urbani, la novità risiede nell´imponenza delle opere già costruite e di quelle in costruzione. Il ruolo del settore edile comincia ad assumere una centralità indiscutibile, che si tratti delle joint venture della riqualificazione della periferia orientale di Napoli o dei vulcanici territori nolani, vi è sempre la costante dei privati che riconquistano la scena. L´edicola locale si riempie di opere imponenti che rimbalzano sui giornali come fiori all´occhiello, dal complesso alberghiero del casertano del gruppo Coppola al Vesuviello di Renzo Piano che affiancherà i non luoghi del Cis-interporto di Nola. E la priorità di questa fase diventa, quasi naturalmente, allargarsi ulteriormente, anziché regolare il caos dilagante nel costruito esistente.

Le opere sono templari e sono capaci di riprodurre miti e luoghi sacri della città al di fuori delle sue mura come lo stadio San Paolo di Fuorigrotta, sempre se si farà nelle vie più periferiche di Miano, sempre se l´Uefa darà una semifinale a Napoli, dopo che si sarà consumata l´ennesima sfida di marketing urbano. Guardando le foto sui giornali viene da chiedersi se l´anglosassone conformazione dello stadio riuscirà mai a modernizzare le tribali abitudini della tifoseria più brutale, con le tribune che lambiscono il manto erboso, e con la tifoseria a distanza di uno spintone dai giocatori in campo. L´utopia di azzerare la violenza abolendo il suo rituale potrebbe materializzarsi in una delle periferie più estreme, rendendo territori dimenticati, salotti del mondo del pallone.

Di certo il nuovo stadio potrebbe rendere meno periferiche le attuali periferie, ma potrebbe privare anche antichi centri della loro centralità, creando un´inestricabile competizione tra nuove e vecchie periferie. Il risultato potrebbe essere quello dell´ennesimo conflitto urbano di difficile soluzione, da risolvere tra qualche anno, quando il motore dell´economia non farà più lo stesso rumore. La previsione non sembra essere una dote del pianificatore locale se l´imponente complesso sportivo che attende di transitare fuori dall´area flegrea necessita di nuove regole, mentre quelle appena approvate dovranno fare i conti con un nuovo vuoto dalle dimensioni colossali.

Pare insomma che al cambiamento di forma se ne accompagnino diversi e profondi anche nella sostanza. Con una politica incapace di imprimere direzione, il rischio è di affidarsi completamente al mercato sperando che tutto questo almeno crei posti di lavoro sufficientemente attraenti per tirare i giovani più periferici dalle strade. Un destino diverso potrebbe toccarci qualora le poste in gioco fossero più alte, se all´investimento privato corrispondesse un intervento a favore della cultura o del sociale. È un po´ quello che potrebbe succedere qualora i privati colonizzassero il consiglio d´amministrazione del San Carlo, approntando un credibile piano aziendale, in netta controtendenza, rispetto alle scelte di governo della massima istituzione culturale meridionale. E se al fianco di ogni grande investimento vi fosse una Fondazione in grado di finanziare con i profitti in esubero la soluzione dei problemi territoriali, allora avremmo almeno a che fare con un´impresa più responsabile, in grado di rilasciare sul territorio esternalità positive, per promuovere benessere, assistenza, ricerca e ancora cultura.

Sì ci vado, ci vado a Scampia, nessun problema, ci parlo con la gente. Il mio mestiere è scrivere, ma per scrivere bisogna saper ascoltare, guardare, capire.

E allora ci vengo, ci vengo anche il 13 Agosto con un calore che scioglie le pietre e raffiche di vento leggero che asciugano il sudore, in cerca di «sorprese» in cerca di «verità», in cerca di chi?, di cosa?

La dichiarazione di un sindaco che meriterebbe un premio almeno per la migliore gaffe estiva, mi regala questa possibilità di raccontare ancora il paradosso e la tristezza. Sono un privilegiato, io la racconto e loro la vivono. Non farei a cambio.

Casermoni ormai simbolo del degrado. Il sindaco che si lascia scappare la provocazione «io chi le ha progettate lo fucilerei... ». E il «repertorio» della periferia: spaccio, camorra, niente servizi. «Soluzione? Ci portassero tutti a Sorrento e poi ci buttate una bella bomba. Ma non si può fare, perché qua è bbuono per loro... ».

Le parole un po' avventate del primo cittadino che voleva fucilare un'architetto morto, per il «danno» fatto a Scampia, danno che ripetiamolo ancora, storicamente hanno fatto loro, i politici, isolando questa zona per sempre dalla civiltà e dalla città. Tali vicende in questo scampolo d'estate mi offrono dunque questa passeggiata di fuoco, riportano l'attenzione su Scampia e mi danno da lavorare e a Napoli chi sei sei il lavoro è prezioso.

Il salto è un vero viaggio astrale, un planare nell'impotenza dei fatti e nella battaglia estrema dello scrittore per non ripetersi su di un tema logoro, per non arrendersi alla retorica, per non lasciare perdere e cambiare mestiere. Ma non posso, come non può Salvatore L., l'unico povero cristo che parlerà con me, andarsene dalla «Vela» gialla, (per chi non lo sa ve ne sono di diversi «colori» ) e allora nemmeno io posso sottrarmi a questa sfida.

Tutta, tutt'Italia sa tutto di questo luogo infausto, sa della droga in ogni angolo, delle condizioni disumane di vita, del fatto che le vele sono alveari per uomini e della camorra che impera. Sa perfino della «resistenza» vera o presunta, della musica degli «A 67» e della micro farsa dei «ragazzi di Scampia» a Sanremo. Forse sa dell'Arci-Scampia, della associazione «Hurtado» e delle altre coraggiose associazioni di quartiere, sa che a Scampia si lotta e si vive e che ci abitano tante persone degne e non solo i camorristi. La gente le sa queste cose, e allora? Le «Vele» stanno ancora qua e ci resteranno a lungo pare, e allora? Allora cammino, cammino nel sole, senza cellulare, senza portafogli, senza orologio, e il perché lo potete immaginare, cammino e guardo e penso e mentre mi aggiro mi volto e vedo un giapponese, (o è un cinese?) con tanto di macchina fotografica a tracolla, zaino e probabilmente denaro, che saltella fuori dalla stazione metro di Piscinola e scende «giù» a Scampia, dove si prendono i bus per le «Vele».

Che diavolo ci fa qui? Si è perso? Lo avvicino? Lo avverto? Tiro un sospiro, per fortuna torna indietro. Ma chi ha ragione lui o io? Io! mi dico forte, e per sostenere la mia tesi pavida ma realista, penso al tema di Mario, 11 anni, di una scuola media di Secondigliano. Opera che ho letto in rete dal titolo: «Cosa faresti se fossi invisibile?». Svolgimento: «Essere invisibile è molto bello perché nessuno non ti vede in mezzo alla via e così posso rubbare i portafogli di tutte le persone in mezzo alla via. Poi vado in una gioielleria e mi rubbo tutti gli gioielli che c'erano nel magazzino di Napoli. Poi mi rubbo gli anelli di tutte le persone che stanno in mezzo alle vie. E poi vado a rubbare cioccolatini panini caramelle e gomme».

Bello Mario, bravo, 10, non avrei fatto di meglio, nessuno farebbe di meglio se fosse nato qui. Sono casi rari quelli dei reduci vittoriosi o degli impegnati nel sociale. Fa ridere il tema di Mario? Fa riflettere? Fa pensare? Fa dire ah? Oh? Guarda un po'? Marcello d'Orta ci volesse fare un altro libro? Mondadori ovviamente. Sì?

Fa piangere il tema di Mario? Non lo so. Qua il sudore diviene sangue, le lacrime riso, la verità un falso studiato. Cammino, cammino e penso che se vivessi qui non c'è la farei, se vivessi qui non so cosa farei, se vivessi qui odierei, rubare non mi basterebbe. Bravo Mario, crescerai Mario e mi capirai, ma per allora la vita nella «Vela» ti avrà stracciato mezz'anima, si può vivere con mezz'anima così come con mezzo cuore? Chissà, divago, scusate, sarà il caldo...

Passano due ragazzi in vespa, rallentano, so cosa pensano. Pensano se «mi sanno» «se appartengo a qualcheduno» e se sì, a chi? Proseguono, mi avranno scambiato per qualcun altro, ma è stata una svista a mio favore evidentemente. Una volta conoscevo uno che per otto giorni era dovuto stare nascosto come un topo perché somigliava a uno della «nuova famiglia» al tempo della grande guerra con i Cutoliani, altri tempi. Poi ammazzarono quello vero e lui riuscì a tornare alla luce del sole. Se fosse accaduto oggi lo avrebbero ammazzato lo stesso, solo per la somiglianza con «quella faccia di merda». Bei tempi quelli.

Cammino. Che cazzo di calore. Sono arrivato su delle lunghe e insensate autostrade di polvere e nulla che collegano internamente le vele rimaste in piedi. La notte sono gli autodromi di corse in moto e a cavallo, dicono, mai venuto a giocare qui ma c'è chi ne ha scritto e c'è che le corse le fa e chi ci gioca i soldi. Il cinese l'ha scampata comunque, certo che se la cercano...

Comunque, a Napoli la miseria è sempre stata inspirazione, diviene musica, libri, inchiesta, documentari, film, reportage giornalistici. Ci copriamo con la nostra immondizia e ne facciamo pubblico sfoggio. Già, questa è vera arte della sopravvivenza, siamo maestri, è noto, ma è anche serio? Che caldo. Dove vado? Non ci sono punti di riferimento, cerco di ricordare il lungo cammino all'inverso per ritornare alla stazione della metropolitana di Piscinola, a qualche chilometro. L'hanno chiamata stazione di Scampia, credono di poter prendere in giro la gente, la metro fino alle «Vele» non ci arriva, ma è già tanto così, fino a poco tempo fa non c'era nemmeno quella... Bassolino ha «investito» più soldi di Mecenate nella sua passione estrema per l'arte contemporanea e a Napoli ci ha fatto fare delle mostre alla stazione di Piscinola, o comunque le farà possiamo esserne certi, in questa stazione capolinea che sembra quella di una città svedese per eleganza e pure per pulizia. Con qualche soldo in più rifacevano il quartiere, ci mettevano qualche servizio, uno, due, le cose essenziali. La rabbia mi sale alla testa, di chi è la colpa? Dio sa se non lo fucilerei anche io...

Un ragazzo appena adolescente si rimira nello specchietto retrovisore del motorino, più in là, fermo al margine della carreggiata deserta. Si aggiusta i capelli impomatati, «sei bello?» ma sì, sei bello! Ma chi è stato? Chi è stato a farci questo? O è stato sempre così e lo abbiamo dimenticato? Sulla lunga dirittura da far west, da sfida all'«Ok Corral», in senso inverso mi si avvicina un uomo, mi sembra. Dove va? Qua non c'è niente, cosa fa? I casermoni in cemento sono ad almeno 500 metri. C'è l'ha con me? Forse è una visione, un miraggio in questo deserto.

All'improvviso mi ricordo del mio proposito di parlare con la gente, anche uno solo è la gente? Sì, anche io sono la gente. Allora lo fermo. «Lei abita qui?». Mi guarda con un sorriso pacato, con una certa compassione, si asciuga il sudore con un fazzoletto lindo e bianchissimo nel sole. «No, sono in vacanza» mi risponde tomo in un italiano senza alcuna inflessione dialettale. Scoppiamo a ridere insieme, tutti e due, nel mezzo del niente assoluto.

«Ma dove va?» protesto. «Io là» risponde indicandomi una indistinguibile fermata d'autobus a un centinaio di passi, «ma lei invece dove va ?». «'Cca nun ce sta niente» mi risponde d'acchito recuperando il dialetto per paura di non essere compreso, e allungando un braccio in gesto plateale verso il mostro di cemento, «solo 'e ccase» conclude. Le case, sì, le «Vele». Annuisco. «Io veramente volevo fare qualche domanda parlare con chi abita nelle vele». «Lei è scrittore, giurnalista?». Annuisco ancora, mi si è seccata la lingua, c'è troppa polvere sulla strada.

«Andiamo, vieni vieni, ti dico io». Ci incamminiamo verso la fermata fantasma e allora Salvatore inizia a parlare, ma la sua vita in Germania non è fondamentale per questa storia. Solo quando arriva un aeroplano la discussione si anima. «Lo vedi quell'aereo? A noi ci dovrebbero portare tutti come stiamo stiamo a Sorrento e poi cheti cheti ci buttate una bella bomba qua sopra e non se ne parla più. delle vele né niente e risparmiano pure, ma non si può fare e lo sai perché? Perché qua è buono per loro!».

Resto a bocca aperta mentre come un calesse fantasma un autobus arancione spunta lontano sullo stradone, in fondo. «Salvatore ma per chi è buono? A chi fa comodo?».

«A loro» risponde secco Salvatore e a chi se no? A mme?

«Ma a loro chi? Ai camorristi, al governo, agli amministratori, alla gente, a chi?»

«Ehhhh! A lloro! Ma come sei giornalista e nunn'o 'ssai ? 'Cca pe' lloro è bbuono!».

Salvatore sale su di un'autobus che non faccio nemmeno in tempo a capire dove possa mai andare e scompare con la sua diligenza. Io non salgo, resto. Guardo l'orologio ma l'ho lasciato a casa, mi voglio chiamare un taxi ma non ho il cellulare con me, ammesso che mi venga mai a prendere qui dove sono, ma dove sono? Vorrei un bar, un caffè, un litro d'acqua, una panchina, un albero. Sfrecciano due altri giovani in motorino. «Stai cercando a' rrobba?». Scuoto la testa. «E allora vattene va che cazzo vuo’?».

Annuisco di nuovo e stavolta parlo. «Aspetto il pulmann» faccio un ghigno. «Il prossimo».

Il ragazzo avrà forse quattordici anni, ma ha un viso duro, selvaggio. Sputa per terra guardandomi in faccia. Si asciuga. «È vire e fa ampresso va!».

Fare presto, già, è una parola adesso. Intanto oggi è 13 agosto 2006 alle “Vele”.

Domani ne abbiamo 14.

Le novità introdotte nel metodo della pianificazione dei trasporti avviata a Napoli a partire dal 1994 sono sostanzialmente due. La prima è che la mobilità, i trasporti e l’urbanistica hanno fatto parte di un unico processo di pianificazione. La seconda è che si è elaborato un piano di sistema, e non un elenco di opere tra esse separate e scoordinate, che ha disegnato le reti del trasporto collettivo e individuale utilizzando al meglio tutte le infrastrutture su ferro esistenti ed eliminando alcuni assi stradali invadenti.

Il primo atto di indirizzo sulle politiche del territorio, approvato dall’Amministrazione comunale alla fine del 1994, ha esposto con grande chiarezza le motivazioni e la necessità del connubio dell’urbanistica con la mobilità e i trasporti per ottenere una pianificazione credibile, in linea con le esigenze della città sostenibile auspicata dalla comunità europea nell’ultimo decennio. E’, infatti, un compito preciso della pianificazione e della progettazione urbana comprendere come il sistema delle reti infrastrutturali si relazioni con il territorio attraversato nei suoi punti nodali di connessione o nei suoi rapporti continui lineari, trasformando il territorio stesso in modo casuale o inducendo trasformazioni programmate per la riqualificazione urbana.

Senza un serio strumento di pianificazione integrata tra i trasporti e urbanistica, inoltre, non sarebbe stato possibile programmare le priorità di intervento nel campo delle infrastrutture per il trasporto su ferro e su gomma. Gli investimenti per le opere infrastrutturali richiedono finanziamenti molto consistenti, i meccanismi legislativi per poter accedere a tali finanziamenti sono molto complessi e lunghi temporalmente. Di conseguenza, senza programmazione non sarebbe stato possibile far convergere tutti i possibili finanziamenti regionali, nazionali ed europei sulle opere infrastrutturali ritenute assolutamente necessarie per liberare la città dalla morsa del traffico automobilistico. Tra queste, i completamenti delle linee metropolitane 1 e 6, la chiusura dell’anello della linea metropolitana 1 e la stazione d’interscambio Cilea tra la Circumflegrea e la linea metropolitana 1.

Il Piano comunale dei trasporti e il Piano della rete stradale primaria hanno accompagnato l’azione urbanistica condotta attraverso le varianti al Piano regolatore generale per perseguire l’obiettivo di trasferire molti spostamenti dal traffico privato a quello collettivo e di alleggerire il centro storico dalla circolazione e dalla sosta di ingombranti vetture per restituirlo in gran parte ai pedoni. Insieme, urbanistica e trasporti, hanno proposto di decentrare funzioni importanti e pregiate dal centro verso la periferia e di potenziare e di riqualificare le infrastrutture ferroviarie e stradali per realizzare un sistema di trasporto pubblico a rete, intermodale e interconnesso. Insieme, ancora, hanno proposto e stanno sperimentando di utilizzare le reti infrastrutturali del trasporto come strumenti di organizzazione del territorio intorno alle stazioni, ai nodi dell’interconnessione e ai luoghi dello spazio fisico da essi intercettati.

La costruzione della rete è fondata sulla valorizzazione di una delle più ricche dotazioni di linee su ferro della penisola. Linee abbastanza rispettose della complessa orografia del territorio e che spesso attraversano territori di grande bellezza, ma che non riescono a definire una rete per la loro limitata capacità di interconnessione e per l’assenza di intermodalità. La valorizzazione di questo patrimonio infrastrutturale così prezioso il Piano propone che avvenga attraverso il recupero di tratte ferroviarie liberate dal traffico di lunga percorrenza, la realizzazione di piccole bretelle, il rilancio di vecchie linee con l’innesto di nuove stazioni, la connessione di linee su ferro oggi separate tra loro e di linee ferroviarie con gli assi stradali mediante la formazione di nodi d’interscambio. Il vero valore aggiunto è dato dai piccoli interventi ad alta connettività di rete, dai numerosi nodi d’interscambio ferroviario e modale che consentono itinerari flessibili, e dalla predisposizione alla promiscuità di esercizio delle ferrovie esistenti o in costruzione. Il piano ha coinvolto tutto il territorio cittadino, unificando centro e periferia, da sempre separati più che avvicinati dalle numerose infrastrutture che sovrastano, senza alcuna utilità trasportistica e con danno urbanistico e socio-economico, parti consistenti della città.

L’accessibilità. L’elemento strategico della politica territoriale integrata trasporti e urbanistica che si è portata avanti con il piano comunale dei trasporti, con il Piano della rete stradale primaria e con le Varianti al piano regolatore generale, per conseguire l’obiettivo della riqualificazione urbana, è l’accessibilità ai diversi luoghi e alle svariate attività pubbliche e private della città e non la mobilità fine a se stessa. E l’accessibilità si costruisce attraverso la diversità dei modi di spostamento e la ricchezza delle connessioni tra le diverse modalità di trasporto. Ma non solo, si costruisce anche con la qualità delle relazioni di tipo funzionale, morfologico e percettivo con il contesto territoriale in cui si collocano le stazioni e i nodi d’interscambio della rete infrastrutturale. Solo così si rende attraente l’uso alternativo del trasporto pubblico. Più diffusa è la serie di stazioni e di nodi d’interscambio, più è possibile l’accesso ai posti più lontani in tempi ragionevoli, senza costi eccessivi e senza troppa fatica. E in questo modo si può affrontare anche il problema cruciale del rapporto fra gli abitanti e i luoghi. Estendere il numero dei punti di accesso, costituiti dalle stazioni e dai nodi, alla rete del trasporto collettivo in tutta la città equivale a creare nuove occasioni di centralità, e individuare i luoghi dove trasferire le funzioni pregiate che possono avvicinare coloro che abitano lontano dal centro alle immagini più cariche di storia della città, riunificando la identità urbana molto spesso dimenticata per la distanza.

Le stazioni e i nodi d’interscambio. La rete su ferro disegnata dal Piano comunale dei trasportiincontra il territorio cittadino in 96 punti con altrettante stazioni. Di queste stazioni, 18 sono nodi d’interscambio e collegano le diverse linee ferroviarie trasformate in 8 linee metropolitane. E 16 parcheggi, localizzati in prossimità delle stazioni più lontane dal centro, interconnettono la rete su ferro con la rete primaria stradale.

Non c’è dubbio che rispetto alla situazione attuale, nella quale le 12 linee su ferro hanno 45 stazioni e solo 5 punti d’interconnessione, il Piano comunale dei trasporti ha finalmente fatto diventare rete un insieme di linee ferroviarie e di assi stradali sconnessi, portando il sistema dei trasporti nella modernità. Ma la sola valorizzazione funzionale trasportistica, che deriva dalla interconnessione tra i vari modi di trasporto e tra flussi di traffico di diversa natura, non basta per indurre processi di riqualificazione urbana negli ambiti territoriali attraversati dalla rete. E’ la valorizzazione del livello di accessibilità alle stazioni e ai nodi d’interscambio, garantito dalla intermodalità, che può far decidere di intervenire con la pianificazione urbanistica nei luoghi dell’interconnessione per definire funzioni, localizzazioni e nuove qualità insediative. Come vantaggio di ritorno, la riqualificazione urbana intorno ai luoghi delle stazioni e dei nodi potenzia la qualità del sistema trasportistico reticolare. In tal modo, gli aspetti tecnici e specialistici della rete e il contesto fisico in cui i suoi punti nodali emergono contribuiscono a far diventare tali nodi i luoghi privilegiati e prioritari per la trasformazione e la riqualificazione urbana, e per la ricerca dei più opportuni strumenti di pianificazione in grado di confrontarsi con essi.

La Variante al piano regolatore generale di Napoli, coerentemente con l’indirizzo politico sulla pianificazione integrata fra trasporti e urbanistica di cui si è prima detto, assume al suo interno il Piano comunale dei trasporti e il Piano della rete stradale primaria. Inoltre introduce nella normativa due articoli specifici sulle stazioni e sui nodi d’interscambio. Le norme regolano la possibilità d’interventi che garantiscano la massima accessibilità dei territori serviti, la riqualificazione dell’edilizia e della viabilità ricadente nel loro ambito e la introduzione di nuove funzioni e di nuovi servizi che siano d’impulso per localizzazioni di attività economiche finalizzate alla valorizzazione dei luoghi dell’interconnessione.

La riqualificazione urbana. La variante al piano regolatore generale è un piano di riqualificazione in quanto esclude l’espansione, tutela e valorizza il sistema delle aree verdi, salvaguarda l’identità culturale del centro storico, regola le trasformazioni delle aree industriali dismesse e accoglie la riorganizzazione del sistema dei trasporti centrata su una forte rete su ferro, su una riequilibrata rete stradale e sulle connessioni tra esse.

Il sistema della mobilità assunto nella pianificazione urbanistica si trasforma in una infrastruttura fondamentale per la riqualificazione dei nuclei storici e dell’espansione recente della periferia, per la valorizzazione dei nuovi parchi territoriali, per il restauro del centro storico e per l’armatura dei nuovi insediamenti nelle aree di trasformazione urbana.

Una strettissima relazione tra urbanistica e trasporti si osserva nelle proposte per il centro storico dove, per le parti più complesse del tessuto, quali le aree archeologiche e delle murazioni, si propone una configurazione a sistema continuo di aree ad altissima valenza monumentale che si giova della strategia della mobilità su ferro per facilitare la percorrenza dell’intero tessuto storico cittadino. In sostanza, il recupero e la rivitalizzazione delle parti più problematiche del centro storico, dove le esigenze di tutela e di conservazione degli edifici e dell’impianto insediativo apparentemente sembrano contrastare le spinte di valorizzazione del tessuto economico-sociale, si affidano alle soluzioni sistemiche della rete e a quelle puntuali delle stazioni e dei nodi individuate dal piano dei trasporti. Infatti, dal punto di vista operativo, si esplicita con chiarezza che ogni piano esecutivo del centro storico deve tenere conto delle previsioni derivanti dai progetti dei nodi urbani di accesso.

La sequenza delle aree monumentali da recuperare è formata dalla piazza Mercato e dal quartiere degli orefici che si collegano con i tratti sud e nord delle murazioni che si snodano da piazza Garibaldi. Seguono l’Acropoli e l’antico largo delle Pigne e i percorsi per i teatri dell’impianto greco-romano fino al complesso di S. Lorenzo, luoghi che trovano un ulteriore accesso da piazza Dante. La sequenza si chiude con i due musei Nazionale e di Capodimonte. “Così i piani urbanistici esecutivi destinati a rivitalizzare la lunga linea delle mura si inseriscono del tutto in un percorso possibile da piazza Mercato a Capodimonte, attraverso la connessione della rete metropolitana su ferro e della linea dei due musei, passando per il recupero e la valorizzazione della collina dei Miracoli e della Specola; i piani urbanistici esecutivi delle aree archeologiche si strutturano in una maglia centrale servita in testa dalle stazioni e dai nodi previsti” (cfr. Variante al Prg di Napoli).

Le stazioni delle linea 1 della metropolitana. Fulcro del piano comunale dei trasporti è la linea metropolitana 1, circolare, con 25 stazioni, di cui 8 formano altrettanti nodi d’interscambio con stazioni di altre linee su ferro e 4 formano nodi d’interscambio modale con le strade della rete primaria attraverso adeguati parcheggi. La linea originariamente era denominata collinare, in quanto connette l’altopiano a nord della città attraverso la collina del Vomero con il centro storico e con l’inizio della pianura paludosa del Sebeto corrispondente all’area della stazione centrale. Con il piano dei trasporti si è deciso di chiudere ad anello la linea metropolitana e la ferrovia Alifana proveniente da Aversa, congiungendo la stazione Garibaldi alla prima stazione Piscinola a nord, mediante l’esercizio promiscuo dell’Alifana, adeguando al tal fine le previsioni del progetto di ristrutturazione della ferrovia concessa. In tal modo la linea metropolitana 1 connetterà la periferia nord della città con il quartiere Vomero, con il centro storico, con la stazione centrale, dove si attesterà la linea dell’alta velocità, e con l’aeroporto. Con un solo interscambio sarà possibile raggiungere la zona occidentale o la zona orientale.

Dal punto di vista costruttivo, la linea è tutta in galleria profonda . Solo la tratta finale verso nord, per circa 4 chilometri, è in viadotto e attraversa il vallone S.Rocco, uno dei luoghi più suggestivi dal punto di vista paesaggistico del sistema orografico napoletano.

Il progetto originario della linea metropolitana prevedeva un percorso da piazza Garibaldi ai Colli Aminei, nei pressi della zona ospedaliera cittadina. La linea era interamente in galleria e le 15 stazioni erano tutte di tipo profondo, a eccezione dell’ultima, che arrivava in superficie. La progettazione delle stazioni fu affidata dalla società Metropolitana milanese a gruppi di professionisti napoletani, ingegneri e architetti, con il compito di provvedere alla definizione degli spazi interni dal mezzanino alle uscite, delle finiture e degli impianti del piano banchina e degli altri livelli. Successivamente fu previsto il prolungamento della linea da Colli Aminei a Piscinola-Scampia per poter localizzare il deposito e le officine per la manutenzione dei treni. Le tre stazioni su viadotto furono progettate dalla Metropolitana milanese e dai tecnici comunali. Infine, nell’ultimo periodo l’Amministrazione comunale, quale concedente dell’opera, ha richiesto alla società concessionaria di affidare ad architetti altamente qualificati la progettazione delle uscite e delle sistemazioni esterne delle stazioni che attraversano il centro storico e alcune delle sue piazze più significative.

Ci sono tre aspetti della progettazione delle stazioni della linea metropolitana 1 che è utile evidenziare.

Il primo riguarda la localizzazione e l’inserimento urbanistico delle stazioni in relazione alle diverse parti della città attraversate dalla linea. Le stazioni a servizio della città storica e della città consolidata fino all’immediato dopoguerra sono ben localizzate in quanto ubicate nelle piazze del tessuto edificato, mentre quelle a servizio della città di espansione, dalle speculazioni degli anni ’50 e ’60, agli abusi edilizi degli anni ’70 e ’80 e agli interventi di edilizia residenziale pubblica della periferia, sono di difficile accessibilità, in quanto localizzate in punti lontani dalle residenze e dai servizi e non immediatamente identificabili dalla viabilità principale. Queste ultime stazioni, servendo parti di città che possono essere definite veri e propri non luoghi urbani, non incrementano mediante la loro ubicazione la fruibilità della rete trasportistica e non diventano quell’elemento attrattivo capace di restituire a un luogo una immediata riconoscibilità e identità.

Il secondo aspetto, strettamente connesso al primo, riguarda la qualità architettonica delle stazioni che si differenziano secondo la tipologia costruttiva della linea in galleria o su viadotto. Gli spazi che definiscono le stazioni profonde, sia dal punto di vista compositivo quanto da quello formale, sono stati risolti con soluzioni tradizionali e omogenee, non attribuendo a questi luoghi del movimento una vera e propria dignità architettonica. Gli spazi di banchina e di collegamento con il mezzanino sono determinati esclusivamente dalle esigenze strutturali, impiantistiche e della sicurezza, mentre gli spazi dei mezzanini si differenziano in funzione delle esigenze determinatesi in fase di costruzione in relazione all’inserimento delle macchine di scavo e di estrazione dei terreni. Le uscite generalmente sono costituite da scale protette da una recinzione in muratura. Sostanzialmente , si vestono con finiture più o meno gradevoli e durevoli le superfici degli spazi determinati esclusivamente da esigenze costruttive e tecnologiche. Le stazioni su viadotto sono costituite prevalentemente dalle pensiline protettive delle banchine di attesa dei treni e dagli edifici di connessione del viadotto con la strada.

L’ultimo aspetto riguarda il mutato atteggiamento nel tempo sul tema della progettazione delle stazioni della metropolitana da parte delle committenza. Come si è già accennato l’impostazione progettuale originaria, risalente agli anni ’70, è stata di tipo ingegneristico. Di fatto, di fronte agli alti costi di costruzione di una linea metropolitana, il progetto delle stazioni doveva rispondere a una esigenza, peraltro largamente condivisa culturalmente, di contenimento dei costi. Solo recentemente, a seguito della messa in esercizio della prima tratta e della contemporanea costruzione della seconda, la città ha cominciato a porsi delle domande su quale sarebbe stato l’impatto delle stazioni della metropolitana sulle piazze di grande valore storico e urbanistico, quali piazza Dante, piazza Cavour, piazza Municipio, piazza della Borsa, eccetera. Viene messo in crisi il modello standardizzato delle stazioni connotate secondo criteri tipologici propri della funzione di circolazione e caratterizzate da qualità formali indifferenti all’identità della città esterna. L’estraneità e l’anonimitàevidenti delle stazioni nei confronti dei luoghi di gran carattere come piazza Cavour e piazza Dante hanno indotto la committenza a cambiare rotta rispetto al considerare la stazione principalmente come elemento tecnico che assicura l’accesso e il passaggio verso l’esterno. Si è così deciso di assegnare alle stazioni anche la valenza di luogo in cui si compie il processo di connessione con il tessuto urbano che la linea incontra, e conseguentemente di avvalersi di architetti che si fossero già cimentati con tali tematiche.

La stazioni nel centro storico. La revisione dei progetti delle stazioni di Salvator Rosa, Materdei, Museo e Dante, affidata all’atelier Mendini e a Gae Aulenti, è stata avviata a realizzazionequasi ultimata. La concezione di stazione appartenente all’infrastruttura e rispondente unicamente a criteri tecnico-costruttivi e funzionali legati al transito, unifica i caratteri formali, decorativi e di segnaletica proposti dai progetti originari. Le banchine, i corridoi e le scale di collegamento, i mezzanini, le finiture, le scritte sono uguali in tutte e quattro le stazioni. Solo per Salvator Rosa l’uscita è costituita da un edificio, mentre negli altri tre casi gli accessi sono banalmente ubicati sui marciapiedi delle piazze di riferimento.

I nuovi progetti, quindi, non intervengono sugli spazi fisici interni già definiti nelle strutture e nella organizzazione funzionale, ma sovvertono la concezione che nega la specificità delle singole stazioni della linea. Le finiture, le decorazioni e le scritte si differenziano in tutti gli spazi interni: le banchine, i collegamenti e i mezzanini. Si introducono opere degli artisti napoletani contemporanei nelle due stazioni di Salvator Rosa e Materdei, si riempiono con sculture e calchi offerti dal Museo archeologico i collegamenti e gli atri della stazione omonima e si espongono i ritrovamenti degli scavi effettuati in situ negli spazi interni della stazione Dante. Finalmente gli utenti non avranno bisogno di uscire dalla Metropolitana per identificare la diversità dei luoghi urbani che la linea attraversa.

La forte inversione di tendenza che i quattro progetti rappresentano è nel rapporto delle stazioni con l’esterno e nella riqualificazione degli spazi urbani circostanti. Le uscite sono degli edifici che si misurano con il tessuto urbano con le emergenze monumentali che incontrano nel caso di Salvator Rosa e di Museo, mentre emergono come sculture nel semplice spazio della piazzetta di Materdei e nella spettacolare piazza Dante. Molto differenti sono i contesti urbani circostanti le stazioni e quindi le soluzioni progettuali per la loro riqualificazione, anche se tutte affrontano il tema della riorganizzazione dell’accessibilità pedonale.

L’intervento di Salvator Rosa riunifica lo spazio esterno costituito da frammenti di aree assolutamente disomogenei che difficilmente avrebbero potuto essere riqualificati in assenza dello stimolo prodotto dalla metropolitana. Si passa da porzioni del bellissimo giardino di villa Maio a ruderi di edilizia moderna e di infrastrutture di epoca romana abbandonati, a interstizi di collegamenti tra gli alti edifici della speculazione degli anni sessanta. Il progetto urbano connette tutto lo spazio circostante la stazione, creando un’area attrezzata per il gioco dei bambini e per passeggiare nel verde, inoltre riqualifica tutti i passaggi di collegamento tra la parte bassa e la parte alta del quartiere e realizza anche una scala mobile per superare un consistente salto di quota, e in tal modo aumenta il raggio di influenza annettendo tutta l’utenza della piazza Leonardo.

A Materdei, il quartiere circostante la stazione è un ordinato insediamento dei primi del '900 fortemente integrato con il tortuoso tessuto storico di cui fa parte. Il progetto riqualifica e pedonalizza la viabilità di connessione con delicati interventi di arredo urbano per sottrarre soprattutto alla sosta gli spazi viari che vengono destinati all’accessibilità pedonale.

Infine, gli interventi di riqualificazione e di riunificazione attraverso la linea metropolitana sotterranea delle due piazze storiche Cavour e Dante, oggi così diverse ma originariamente uguali nella loro connotazione di larghi fuori le mura della città greco romana e di impluvi naturali per le acque che scendevano dalla collina di Capodimonte e dalle attuali via Tarsia e il Cavone. Della evoluzione storica e urbanistica delle due piazze, di cui ci informano Villari, Buccaro e Di Mauro, il progetto urbano tiene conto ribadendo la estraneità della piazza Cavour dalla città greco romana e dall’acropoli attraverso la strada per la percorrenza primaria delle automobili, e valorizzando l’appartenenza di essa al borgo dei Vergini attraverso la viabilità locale che sale verso la collina di Capodimonte. Viceversa l’annessione alla città operata nel '700 da Vanvitelli viene confermata dall’intervento di Gae Aulenti che elimina la viabilità parallela all’esedra vanvitelliana e crea un unico spazio pavimentato come capolinea pedonale dei percorsi da e verso le aree monumentali, del commercio e degli affari del centro storico.

Con questi primi progetti urbani si può affermare che sono iniziati gli interventi per il recupero e il restauro del centro storico in linea con le proposte del piano urbanistico approvato dalla Giunta comunale e in discussione in Consiglio. La mobilità sta determinando le priorità d’intervento nel tessuto urbano, in quanto solo dotando il centro cittadino di un serio e forte sistema di trasporto pubblico è possibile liberare dalla morsa automobilistica le piazze, le strade, gli slarghi e i giardini dell’impianto storico e restituire all’originario splendore i luoghi pubblici connettivi e gli edifici e i monumenti che su di essi si affacciano.

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