loader
menu
© 2025 Eddyburg

Per far esplodere la guerra civile bisogna essere in due. Da soli non bastano né i terroristi né i fanatici della Grande opera inutile e dannosa. La Repubblica, 20 settembre 2013

CHIOMONTE (TORINO)
E chissà, forse ai sostenitori della Grande Opera potrebbe far comodo ridimensionare a controparte irresponsabile quello che è stato indubbiamente un movimento di popolo No Tav, talmente vasto da avere regalato al Movimento 5Stelle percentuali di voto superiori al 40% perfino in comuni moderati come Susa. Al cantiere di Chiomonte provano la soddisfazione del fatto compiuto: nessuno la fermerà più, la talpa, immenso
trapano teleguidato da una cabina di comando degna di un’astronave. Nel giro di due anni sarà completato il tunnel geognostico che poi dovrebbe diventare una galleria d’emergenza perpendicolare al colosso: il tunnel profondo di 12 km in territorio italiano, sui 54 km totali necessari alla Torino-Lione per correre sotto le Alpi.
Manteniamo il condizionale, dovrebbe, perché nonostante la sicurezza manifestata dal capoprogetto, Mario Virano, c’è chi immagina che la Tav possa finire come il Ponte sullo Stretto di Messina. Cioè che tra qualche anno a Roma il governo accampi ragioni di forza maggiore –la crisi si prolunga, i soldi non ci sonoper dire che non se ne fa più nulla. «Impensabile — replica Virano — siamo confermati fra le priorità della Ue. E la linea ferroviaria attuale andrà comunque a morire, se non la rifacciamo con standard adeguati».
Virano oggi si compiace: i No
Tav non sono riusciti a replicare al cantiere di Chiomonte la spallata riuscita nel 2005 a Venaus, dove le recinzioni furono travolte da una grande manifestazione popolare e i lavori non ebbero mai inizio. Ma resta da chiedersi, mentre la talpa scava, se potrà andare liscia pure a Susa quando, fra non molto, verranno espropriate le aree su cui deve sorgere la stazione dell’Alta Velocità. Per garantire i lavori qui si sono dovuti cintare 7 ettari di vigneto in cui si produce l’ottimo rosso Avanà: le forze dell’ordine filtreranno chiunque partecipi anche alla prossima vendemmia. Tanto basta perché fra i No Tav prenda piede
la tentazione di radicalizzare le forme di lotta. La parola che fa paura, perché ciascuno la intende a modo suo, è: sabotaggio.


Scena seconda, in un appartamento
di Bussoleno.
Beviamo un tè a casa di Valerio Colombaroli a Bussoleno con un gruppo di attempati militanti, quelli che 22 anni fa diedero vita al movimento No Tav, ne hanno allargato le prospettive culturali fino a farne una visione del mondo alternativa e, chissà, forse ora se lo vedono sfuggire di mano. Nel tinello si aggira il cane lupo involontario protagonista di un allarme, lassù alla rete di Chiomonte, dove Valerio lo portava a passeggio. La povera bestia era saltata nel cantiere per far festa a una persona che conosceva bene, il signor Benente, cognato di Valerio e titolare della Geomont, incaricato dei primi sondaggi del terreno. Gran confusione, chiarito l’equivoco. Fatto sta che mentre noi discutiamo le ragioni di un movimento alle prese
con gli ultimi episodi di intimidazione violenta, giù al piano di sotto il fratello della moglie di Valerio conta i danni subiti: la distruzione notturna di due compressori e una trivella.

Lacerazione familiare, se ne contano molte, in valle. Benente subisce accuse di tradimento per il fatto di lavorare alla Tav, il clima si è fatto pesante.
Chiara Sasso, Claudio Giorlo e gli altri “saggi” che hanno costruito il consenso popolare No Tav, definiscono “esagerato” l’allarme del giudice Caselli. Guardano con sospetto alla vicenda del costruttore Fernando Lazzaro, quello che denunciò il clima intimidatorio in tv e la notte stessa subì un attentato. Non aiuta il ricordo degli episodi di 15 anni fa, falsi attentati No Tav dietro cui la magistratura riconobbe l’azione di personaggi legati ai servizi e alle mafie. Non dimenticano che Bardonecchia, qui vicino, è stato il primo comune del Nord sciolto per ’ndrangheta.
Condannare i violenti, oppure limitarsi a denunciare la provocazione come “opera di infiltrati”? Eterno dilemma dei movimenti alle prese con la degenerazione delle forme di lotta. I vecchi No Tav rivendicano di ispirarsi alla nonviolenza di Alexander Langer, ma anche loro declinano quella parola minacciosa, sabotaggio, di cui lo scrittore Erri De Luca s’è vantato solo per il fatto di aver partecipato a un blocco autostradale.


«Sabotaggi popolari notturni ce ne sono stati», spiega Chiara Sasso. «Vi parteciparono una quarantina di persone, tutti dai 50 anni in su. Fu messa fuori uso una torrefaro, tagliate delle reti. Nessun attacco alle persone. Poi si sono innescati episodi più pesanti, come il compressore bruciato dentro il cantiere. Francamente nessuno di noi, e neanche dei centri sociali torinesi, riesce a capire chi possa essere stato».Il sindaco di Avigliana, Angelo Patrizio, e il presidente della Comunità montana, Sandro Plano, sono No Tav moderati, che non esitano a dissociarsi dai violenti, ma aggiungono: «Se qualche ragazzo in vena di teppismo si lascia andare a comportamenti ingiustificabili, potrà magari far comodo a chi addita perfino noi come pericolosi estremisti. Ma il primo blocco da rimuovere è la sordità opposta alle ragioni dei valligiani. Perché abbiamo a che fare con personaggi come Stefano Esposito, deputato del Pd, cui pare
redditizio trasformarci in estremisti ideologi dell’Alta Velocità».


La novità politica è che in Parlamento siede ormai una rappresentanza numerosa di oppositori dell’Alta Velocità. La vedremo in azione fra pochi mesi, quando dovrà essere ratificato il trattato italofrancese senza cui non può costituirsi la società che deve (dovrebbe) avviare i lavori del lungo tunnel-base. Solo allora il braccio di ferro esercitatosi finora intorno a un’opera secondaria come il tunnel geo-gnostico, potrebbe dirsi concluso. Per questo i No Tav guardano con fiducia al loro senatore grillino di Bussoleno, Marco Scibona, che a febbraio ha strappato il seggio a Angelo Napoli del Pdl. Il passaggio attuale è delicatissimo, giacché prima di allora la leader-ship del movimento potrebbe essere spintonata di lato dagli antagonisti che agiscono nell’ombra. E l’accusa di terrorismo, in un drammatico revival delle dinamiche degli anni di piombo, precipiterebbe su tutti loro. Esacerbato da questa manovra, di cui attribuisce la responsabilità a una cricca di politici, imprenditori chiacchierati e mass media, finora il portavoce più
noto dei No Tav, l’ex bancario Alberto Perino, lancia proclami di combattimento ma non accenna dissociazioni nette. Col rischio che a intimidirsi sia la popolazione della Val di Susa: «Se io fossi un Pro Tav, questi terroristi li pagherei», dice il sociologo Bruno Manghi, che resta scettico sulla realizzabilità dell’opera. «Il risultato è che già oggi nel conflitto sono coinvolte in
tutto 500 persone, portate alla ribalta dai giornali e dalla televisione. Passa in secondo piano il sottobosco mafioso affaristico che pure c’è, e che in passato aveva praticato l’incendio delle macchine».


Scena terza, all’Hotel Napoléon
di Susa.
La serata fresca preannuncia l’autunno e, per fortuna, sembra
tranquilla. I poliziotti fuori turno hanno dismesso la divisa e passeggiano in tuta fra il ponte sulla Dora Riparia e l’Hotel Napoléon che li ospita. Ma restano guardinghi perché nel luglio scorso a più riprese i campeggiatori No Tav convenuti da tutta Europa si dilettavano a radunarsi di fronte all’albergo, nel cuore della notte, producendo frastuono per impedire loro di dormire.
«Ci ha fatto male riconoscere fra gli urlatori anche dei nostri paesani», racconta il signor Vanara, titolare da più di 40 anni dell’albergo. «Noi possiamo dire solo meno male che c’è la Tav, perché le fabbriche hanno chiuso e il lavoro altrimenti non ci sarebbe. Ma nel paese si è prodotta una lacerazione dolorosa da cui non so se ci riprenderemo». Gli altri, quelli del movimento, ricordano che apparteneva alla famiglia Vanara un parroco coraggioso partigiano, detto Don Dinamite, e accusano i valligiani che lavorano per il cantiere di intelligenza col nemico. Risuona la stupida accusa di tradimento. La sindaca di Susa è schierata a favore della Tav, ma il quartiere che dovrà subire degli espropri per allestire il terrapieno su cui sorgerà la grande stazione intermedia della Torino-Lione, ha molte bandiere con il treno sbarrato esposte sui balconi.
Riaffiorano vecchie divisioni sul territorio che rischia la militarizzazione già vissute altrove, dall’Alto Adige alla Barbagia all’Aspromonte. «Bastano poche persone a rovinare tutto», si preoccupa Bruno Manghi. «Il barista che rifiuta il caffè al carabiniere. L’imprenditore e il sindaco Pro Tav intimiditi come capitava ai capireparto della Magneti Marelli negli anni Settanta. E, dall’altra parte, le buone ragioni della popolazione schiacciate dall’avanguardismo
estremista».
La Val di Susa è lunga. È già stata traforata da grandi opere che hanno avvantaggiato solo delle
minoranze, creando disagi pesanti. In alto ci sono i paesi benestanti del turismo invernale come Sestrière. discendendo da Susa, dove la presenza operaia e la Resistenza hanno impresso un forte segno rosso nelle comunità, il fondovalle si rivela un’estensione periferica della grande Torino.


Così avverto la strana impressione di una lotta politica, simulacro della vecchia lotta di classe, che da Torino si ritira e si contrae nella retrovia della valle. Con i suoi detriti ideologici, i suoi antichi conti da regolare. C’è chi ricorda la filiera di terroristi di Prima Linea cresciuti a Bussoleno; e chi denuncia improbabili complicità fra i No Tav e la società autostradale Sitaf, che dalla ferrovia veloce sarebbe danneggiata. La dietrologia
impazza. Anche gli apparati repressivi rivivono la stagione in cui dalla Val di Susa transitavano i fuggiaschi che volevano espatriare in Francia. Un sottobosco che ha alimentato settori di imprenditoria malavitosa ingolositi dal nuovo business.

«Lei sbaglia se ci riporta agli anni della sua gioventù », replica Claudio Giorlo. «Qui in oltre vent’anni di lotta è cresciuto davvero un fenomeno nuovo, la cultura dell’economia sostenibile, la democrazia partecipata, la critica feconda del sistema giunto al collasso». Sarà. Purché la valle da cui transitarono le armate di Annibale, Carlo Magno e Napoleone, scavata ora da una talpa d’acciaio che non ha nulla a che fare con quella di Karl Marx, sappia liberarsi dall’invasione straniera dei violenti in cerca di rivoluzione.

Incredibili i nomi delle persone indagate. Speriamo che non sia vero. «Coinvolte le coop rosse. Reati ipotizzati: truffa allo stato, corruzione, frode e associazione a delinquere. 31 indagati». Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2013

Secondo i carabinieri e la Procura di Firenze le gallerie dell’Alta velocità ferroviaria in costruzione a Firenze da parte del general contractor, Nodavia (il cui socio principale è la Coopsette di Reggio Emilia) sono rivestite con materiali che mettono a rischio la sicurezza dei passeggeri dei treni in caso di incendio. Oltre a essere fatti male i lavori del Tav sono pagati troppo perché i costi sono stati gonfiati.

Il costo del passante di Firenze, infatti, è lievitato da 500 milioni a 800 milioni di euro grazie alle riserve, cioè il meccanismo inventato dai grandi appaltatori per sollevare problemi imprevedibili al momento della gara. Fondamentale il ruolo di Maria Rita Lorenzetti. Presidente dell’Umbria per il Pd fino al 2010 è indagata per associazione a delinquere, abuso di ufficio e corruzione in qualità di presidente della società pubblica Italferr. Doveva controllare la Coopsette e invece avrebbe svolto il suo ruolo nell’interesse proprio, della sua famiglia e della coop rossa legata al suo partito. Indagato anche Lorenzo Brioni, responsabile relazioni istituzionali di Coopsette e marito dell’ex sottosegretario e deputato Pd, Elena Montecchi.

Lorenzetti, per i pm, ha agito “nell’interesse e a vantaggio della controparte Nodavia e Coopsette” e ha messo “a disposizione dell’associazione a delinquere le proprie conoscenze personali, i propri contatti politici”. L’ex presidente umbra è indagata anche perché avrebbe conseguito “incarichi professionali nella ricostruzione del terremoto in Emilia in favore del di lei coniuge”, un architetto. Fortunatamente, di fronte a un manager pubblico come la Lorenzetti che fa i suoi interessi e quelli della Coop rossa, interviene l’Autorità il Garante dei lavori pubblici. A favore della stessa coop rossa però. Il membro dell’Autorità di Vigilanza dei Lavori Pubblici in carica, Piero Calandra, scrive un bel parere per favorire la Coopsette permettendole di ottenere il pagamento delle riserve per centinaia di milioni di euro, nonostante la legge del 2011. Piccolo particolare: anche Calandra, ex collaboratore di Cesare Salvi al ministero, è considerato di area Pd. Non basta. Per i pm lo scavo si svolge sotto una scuola in funzione determinando “crepe evidenti che hanno concretamente reso possibile distacchi di intonaco o di parti vetrate che avrebbero potuto seriamente mettere in pericolo la incolumità delle centinaia di persone che frequentavano la scuola, ragazzi e insegnanti”. Per completare il quadro non poteva mancare la criminalità: centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti sono stati smaltiti illegalmente da un’azienda vicina alla camorra.

Eccola qui l’alta velocità all’italiana secondo i pm di Firenze Giulio Monferini e Gianni Tei che coordinano l’indagine del Ros dei carabinieri su 36 persone per associazione a delinquere e altri reati, dalla truffa alla corruzione, dal traffico illecito di rifiuti alla violazione delle norme paesaggistiche.

Prima di approvare a occhi chiusi il Tav in Val di Susa, dove i lavori sono stati affidati con il plauso del Pd a un’altra cooperativa rossa di Ravenna (che certamente userà metodi diversi dalla Coopsette di Reggio Emilia) sarebbe il caso di dare un’occhiata all’inchiesta sul passante di Firenze. Una brutta tegola per il partito di Bersani alla vigilia delle elezioni . Anche se nessun dirigente è indagato, sono decine le telefonate di politici intercettate nel corso dell’indagine e dall’area Pd provengono molti soggetti coinvolti, con l’eccezione rilevante di Ercole Incalza, il “rieccolo” delle indagini sull’alta velocità. Amministratore del Tav, all’epoca di Lorenzo Necci, dal 1991, uscito indenne da una dozzina di indagini, Incalza è stato tirato fuori dalla naftalina da Pietro Lunardi e confermato al ministero da destra e sinistra e infine dai tecnici fino a tutto il 2013 (nonostante il suo nome fosse uscito sui giornali nel 2010 per i rapporti con Diego Anemone) a capo della Struttura tecnica di missione del ministero. Incalza è indagato per associazione a delinquere perché avrebbe favorito la Nodavia di Coopsette insieme a un architetto della sua unità di missione del ministero, Giuseppe Mele, “a cui insistentemente , viene chiesto di firmare una attestazione, preparata dagli stessi uffici di Italferr, in cui falsamente si attesta che i lavori dell’opera sono iniziati entro i cinque anni e che la autorizzazione ambientale e paesaggistica non è scaduta”. La questione più impressionante però è quella del rischio incendio. Scrivono i pm: “la legislazione comunitaria, per prevenire disastri quali quelli avvenuti nella galleria del Monte Bianco, ha imposto specifiche tecniche di resistenza al fuoco e al calore dei materiali di rivestimento”. I quantitativi di materiale ignifugo invece sono “dolosamente ridimensionati... e il risultato non è solo un risparmio economico illecito per il subappaltatore, ma la fornitura di un prodotto concretamente pericoloso”. I manager delle società, compresa quella pubblica che dovrebbe controllare, sono consapevoli del rischio: “come risulta dalle prove a cui i conci (il rivestimento del tunnel, ndr) sono stati sottoposti in laboratori sia in Germania che in Italia. Dai test ripetuti si è manifestato evidente il fenomeno dello spalling, ossia di un collassamento della struttura dovuto al calore e al fuoco”. Per i pm non solo i manager del subappaltatore, Seli, sapevano. I rischi erano noti “anche a Morandini di Italferr”. Tutti però “hanno trovato una compiacente copertura in relazioni tecniche del professor Meda Alberto, leggendo le quali non è dato ricavare l’esito sostanzialmente negativo delle prove eseguite”

Infrastrutture a casaccio, inseguendo gli affari anziché la programmazione, come si fa in Europa ma non in Italia per «scellerate politiche di deregulation che hanno cancellato i pochi strumenti di pianificazione dei trasporti che si era data con fatica». Il manifesto, 13 settembre 2013

Un Paese che guarda al futuro deve avere una struttura di programmazione pubblica in grado di avere il controllo del quadro complessivo delle opere da realizzare in coerenza con l'Europa. E al variare dei parametri in gioco questa struttura dovrebbe essere in grado di compiere scelte nell'interesse generale.

Ritorna dunque il nodo scorsoio cui l'Italia è stata appesa dalle scellerate politiche di deregulation che hanno cancellato i pochi strumenti di pianificazione dei trasporti che l'Italia si era data con molta fatica. Era infatti costata venti anni di discussione l'approvazione nel gennaio 2001 del Piano generale dei trasporti e della logistica, un quadro certo imperfetto, ma simile a quelli in uso negli altri paesi europei, e cioè una bussola per orientare il sistema paese. Nel dicembre dello stesso anno nasce la cultura delle «grandi opere» senza alcuna coerenza tra loro ma guidate dagli appetiti delle lobby: Con il secondo trionfo elettorale berlusconiano nasce la legge Obiettivo (443 - dicembre 2001). Con la consueta bravura mediatica subito amplificata dalla disinformazione imperante, quella decisione fu descritta come il passaggio da una "visione burocratica" alla modernità. In realtà era il contrario: si colpiva al cuore la già debole funzione pubblica e ci allontanavamo dai paesi che conservano gli strumenti programmatori.

Un solo esempio. Il primo programma delle infrastrutture strategiche del dicembre 2001 conteneva 115 opere mentre attualmente esse sono diventate 390: un gigantesco puzzle senza coerenza e efficacia. E mentre il primo fiume di soldi pubblici che doveva sostenere le opere spesso inutili era giustificato da segnali economici flebili ma positivi, dal 2008 siamo piombati nella più grave crisi economica mondiale. Eppure tutto continua peggio di prima: il primo programma prevedeva di 126 miliardi pubblici; oggi sono diventati 367. Contemporaneamente si continua a colpire senza pietà il welfare urbano e le reali condizioni di vita dei cittadini.

A causa della crisi economica mondiale, il 21 marzo 2012 il governo portoghese ha annunciato l'abbandono dell'alta velocità ferroviaria e sono note le disastrose condizioni dei paesi dell'Est europeo. La fantastica spina dorsale dell'Europa - così è stata descritta - Lisbona-Kiev si è ridotta alla modesta tratta Torino - Lione. E addirittura il 12 luglio di quest'anno il Sole24Ore riporta la seguente affermazione di Mario Virano, commissario di governo per l'opera: «La ratifica del trattato internazionale da parte di Francia e Italia e l'ok dell'Europa a garantire il 40% di copertura dell'opera» sono le condizioni per partire. Condizioni senza le quali, aggiunge il Sole, «probabilmente i francesi potrebbero tirarsi indietro forse anche prima degli italiani».

Dunque abbiamo una grande "operetta" inutile di fronte ad una prospettiva del corridoio del San Gottardo in grado di garantire l'ancoraggio tra nord e sud Europa entro pochi anni. Se avessimo quella struttura pubblica di controllo scientificamente competente e indipendente dalle lobby che fu cancellata dalla cultura berlusconiana ci sarebbero le condizioni per ripensare il sistema di trasporto transnazionale alla luce delle mutate condizioni. Non se ne vedono le condizioni. Il ministro Lupi presidia la cassaforte per le grandi opere e il governo pensa solo a misure di polizia contro la popolazione della Val di Susa. Ma non è con la criminalizzazione di tutte le persone che non sono d'accordo con i cacciatori di soldi pubblici che si risolvono i problemi di prospettiva del sistema Italia. Bisogna invece prendere atto che è la deregulation che ha dominato il paese negli ultimi 20 anni la causa principale della mancanza di un moderno sistema di infrastrutture e del fallimento economico in cui ci dibattiamo. E' questa l'unica prospettiva per uscire dal tunnel.

Il volto territoriale del capitalismo nell'età della globalizzazione. Per arricchire i potenti a spese dei posteri esportano su tutto il pianeta il modello distruttivo applicato nei "paesi sviluppati", e lo chiamano progresso. Il manifesto, 5 settembre 2013

La recessione continua e la «ripresina» ritarda? Torniamo a un sano interventismo degli stati, magari a partire dalle solite grandi opere. Sembra questo uno dei messaggi emerso dalla preparazione del G20 che si apre oggi a San Pietroburgo, sotto la presidenza della Russia. Riallacciando le discussioni avviate sin dal 2010 sul finanziamento delle infrastrutture nei paesi in via di sviluppo, oggi il G20 eleva questo tema a cardine delle nuove politiche per la crescita.

In realtà a inizio 2013 la presidenza russa aveva intavolato la questione in maniera molto più mirata e pro domo sua: il Cremlino voleva discutere come gestire l'accesso e il transito per nuovi e vecchi oleodotti e gasdotti ed eventualmente come finanziare opere internazionali strategiche nell'energia. Argomento alquanto spinoso, visto che la Russia si è sfilata anni fa dall'unico trattato multilaterale sugli investimenti in vigore, l'Energy Charter Treaty, promosso dalla Ue dopo la caduta della cortina di ferro. Così, per evitare troppi conflitti, il negoziato è stato allargato all'intera questione degli investimenti per le infrastrutture.

Dietro le apparenze, non si tratta affatto di un intervento pubblico «keynesiano». Dopo la privatizzazione delle grandi aziende di stato e delle reti infrastrutturali, le società privatizzate hanno avuto grandi difficoltà a finanziarsi i propri investimenti sul mercato. Da qui la necessità di promuovere partnership pubblico-privato, spesso finite malamente, lasciando un conto salato al pubblico e gran parte dei profitti ai privati. Oggi questo modello non è più possibile, vista l'austerità e i vincoli sui bilanci pubblici. La sfida è come garantire mercati di capitale privati e globalizzati capaci di investire in progetti infrastrutturali privati molto rischiosi nel lungo termine.

Come formulato da Goldman Sachs, la più influente banca d'affari Usa, nel suo rapporto 2010 «Costruire il mondo», lo stato dovrà avere ancor più un ruolo chiave nel creare mercati di capitale privati più estesi e «profondi» tramite cambiamenti nella regolamentazione finanziaria. In questo modo investitori istituzionali, quali i fondi pensione o le assicurazioni, potranno immettere denaro in opere rischiose, o ricevere ulteriori sgravi fiscali. Il tutto per rendere possibili opere gigantesche che oggi il mercato reputa finanziariamente ed economicamente non fattibili, quali la diga di Grand Inga nel bacino del Congo, mega gasdotti nel Centro Asia e connessioni elettriche che attraversano interi continenti. Si tratta di creare le condizioni per una privatizzazione perenne che risolva la crisi di accumulazione in cui versa l'economia mondiale, in presenza di una mole enorme di capitale privato che trova ben poche opportunità di investimento altamente profittevoli.

Lo scorso marzo, al vertice di Durban in Sud Africa, per finanziare solo infrastrutture i paesi Brics hanno addirittura proposto di creare una propria banca multilaterale. Però oggi sembrano rallentare e chiedono alle economie avanzate di cofinanziare un aumento di capitale delle banche internazionali esistenti, quali la Banca mondiale, per far sì che queste ultime sostengano i loro mega progetti. Ma questa volta i paesi «ricchi» non hanno risorse sotto la scure dell'austerità e per tale ragione propongono le alchimie dei mercati finanziari - quali l'ultima trovata dei project bond, già testati in Europa - per soddisfare i paesi emergenti e concedere nuovi extra profitti a Wall Street e alla City di Londra. Ringraziano anche Dubai, Hong Kong e Singapore, piazze del «Sud del mondo» sempre più integrate nella finanza globale predatrice di ricchezza.

Un corridoio autostradale lungo 400 km, con centinaia di cavalcavia e gallerie. Si tratta della più grande opera dopo il Ponte sullo Stretto. Aggirando il patto di stabilità grazie ai privati. La puntuale denuncia da parte di una rete di comitati e associazioni avvalendosi di saperi interdisciplinari. Il manifesto, 17 agosto 2013
La cupola delle grandi opere da realizzare in project financing ha da tempo programmato di sventrare l'Italia da Orte a Venezia con un nuovo corridoio autostradale lungo 396 chilometri, 139 dei quali in viadotti e ponti, 64 in galleria, con 246 tra cavalcavia e sottovie, 83 svincoli, aree di servizio ecc. ecc. Movimentazione di terra per 34 milioni di metri cubi prelevati fin dalla Puglia e - già che ci siamo - dal canale industriale del porto di Ravenna che ha bisogno di dragaggi. Lazio, Toscana, Umbria, Emilia, Veneto attraversate.

Aggrediti ventidue siti di interesse ambientale riconosciti dall'Europa comprese le valli di Comacchio, il parco del Delta del Po, la laguna sud di Venezia, la Riviera del Brenta, le valli del Mezzano e le Foreste Casentinesi negli Appennini Centrali. Anche se ancora poco conosciuta, si tratta della più grande grande opera, dopo il ponte sullo Stretto di Messina, compresa nell'elenco delle 390 «infrastrutture strategiche» dichiarate di «interesse pubblico» e inserite nella Legge Obiettivo in attesa di essere finanziata dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica). Peccato che la nuova autostrada non avrà mai i veicoli/giorno in transito minimi necessari (90 mila contro i soli 18 mila attualmente rilevati, ad esempio, nel tratto veneto) per ammortare i costi di realizzazione e sostenere le spese di gestione dell'opera. Ciò nonostante il progetto preliminare è stato approvato dall'Anas con tanto di attestato di Valutazione di Impatto Ambientale rilasciato dalla Commissione nazionale, che oramai non lo nega a nessuno, neppure a chi chiede di fare un parcheggio nel Colosseo.

Qualche dubbio sembra averlo avuto nel passato governo solo l'ex ministro Barca. Per esplicita ammissione dei proponenti, infatti, il piano economico e finanziario del progetto (ancora riservato) non sta in piedi. Per la precisione, non sarebbe "bancabile". Per esserlo lo Stato italiano dovrebbe impegnarsi a: 1) versare direttamente un generoso contributo a fondo perduto di 1,4 miliardi di euro; 2) detassare le imprese costruttrici rinunciando ad altri 1,5 miliardi di entrate; 3) autorizzare l'emissione di project bond sul mercato finanziario da parte delle imprese, garantiti però dalla Cassa Depositi e Prestiti (con i soldi dei correntisti postali) e assicurati dalla Sace; 4) affidare l'opera in gestione con un contratto che garantisca un minimo di proventi tariffari e, soprattutto, le autorità statali concessionarie dovrebbe fingere di credere che l'opera venga a costare davvero "solo" 10 miliardi di euro.

Insomma, come è stato detto a un recente convegno organizzato a Ravenna dalla rete ambientalista Stop Orte-Mestre (www.stoporme.org), la nuova autostrada è un mostro che dorme sornione, pronto a mettersi in moto al segnale del nuovo, arrembante ministro Maurizio Lupi.

Chi invece non dorme affatto sono i cittadini dei 48 comuni che saranno investiti dai cantieri. Sono questi i veri instancabili presidi democratici a difesa del territorio e dei denari pubblici che da più di dieci anni si battono a mani nude per denunciare la follia di questa grande opera inutile e devastante. Decine di comitati locali sorti un po' per volta, con un passaparola iniziato dal comitato Opzione Zero della Riviera del Brenta. Comune per comune lungo il tracciato, hanno prima conquistato l'appoggio delle grandi associazioni quali Legambiente, Wwf, Lipu, Mountain Wilderness e Pro Natura, poi hanno dato vita ad un coordinamento e alla rete Stop Or Me con la campagna Salviamo il Paesaggio e i gruppi politici che ci sono stati: Movimento 5 Stelle e Alba.

I comitati avrebbero potuto limitarsi a denunciare l'insostenibilità di alcuni impatti quali l'attraversamento dello storico canale navigabile Brenta, in mezzo al paesaggio palladiano delle ville venete, o i viadotti sulle Valli di Comacchio, o le "varianti di valico" sulle Foreste Casentinesi, e sarebbero stati nel giusto. Hanno invece preferito affrontare un lungo percorso di studi multidisciplinari (trasportistici, economici, ambientali, paesaggistici, giuridici) e di autoformazione, scoprendo quanto solitamente non viene detto dai grandi organi di informazione e, tantomeno, divulgato dalle istituzioni politiche. Ad esempio, che promotrice del progetto è la Gefip Holdin, il gruppo di famiglia di Vito Bonsignore, europarlamentare del Pdl, che nel 2003 comprò per 4,5 milioni di euro la prima società promotrice del progetto, la Newco Nuova Romea SpA presenti le maggiori coop rosse Cmc e Ccc. Che, a sua volta, nacque per concretizzare l'indicazione della Associazione Nuova Romea Commerciale, il cui presidente era niente meno che Pierluigi Bersani. Quel che si dice grandi e losche intese!

Grazie al lavoro dei comitati scopriamo che il vice-presidente della allora NewCo, Lino Brentan, e l'amministratore delegato (ora dimissionario) della Mantovani, una delle principali imprese della associazione di imprese promotrici, l'ing. Baita, sono agli arresti per corruzione, associazione a delinquere e frode fiscale. Scopriamo che in realtà le società di progetto sono scatole vuote create dagli intermediari finanziari per farci affluire i finanziamenti bancari. Scopriamo che la finanziarizzazione dell'economia - tanto deprecata a parole - in realtà nasce per mano e per volere dello stato attraverso il meccanismo truffaldino del project financing.

Come non si stanca di spiegare l'ingegnere Ivan Cicconi, la finanza di progetto, figlia della Legge Obiettivo, serve a bypassare i patti di stabilità (che comporterebbero il blocco degli investimenti) concedendo a società di diritto privato la realizzazione e la gestione delle opere (così da evitare persino di cadere nelle maglie dei reati di corruzione) ma pur sempre scaricando, alla fine e tramite i contratti di concessione dell'opera, sulla spesa pubblica allargata i costi della realizzazione e gestione dell'infrastruttura che non dovessero essere coperti dai pedaggi, dalle royalties, dai canoni degli autogrill o delle pompe di benzina... In barba al rischio di impresa! Un keynesismo alla rovescia che gonfia i costi di realizzazione e moltiplica le intermediazioni finanziarie.
Con molto meno si potrebbero realizzare molti più interventi puntuali, a portata del sistema delle piccole imprese, creando lavoro per più persone. Come, ad esempio, mettere in sicurezza le strade esistenti, diversificare il traffico pesante, attrezzare i porti come scali delle autostrade del mare e collegandoli con la rete ferroviarie. La differenza sta tutta nell'obiettivo che ci si pone: aumentare il flusso di denari gestito dal sistema finanziario o migliore la mobilità del maggior numero di persone e la quantità delle merci trasportare per mare e per treno?

Si amplia quantitativamente e si articola qualitativamente la rete del governo del traffico metropolitano, a delineare un piano che va ben oltre il progetto di area C. Corriere della Sera Milano, 17 agosto 2013
Venti nuovi «cancelli» ai confini della città. Varchi con telecamere per controllare l'ingresso dei camion. Il modello della futura politica ambientale del Comune resta Londra: la congestion charge in centro, la tassa sul traffico, e cioè Area C, c'è già. L'evoluzione sarà una «zona a bassa emissione», come nella capitale del Regno Unito. Un territorio molto più ampio, che grosso modo coincide con i confini di Milano, nel quale cercare di ridurre lo smog prodotto dai mezzi pesanti o mezzi da cantiere.

Dai camion, alle betoniere: poco meno di 25 mila mezzi, ma molto vecchi e molto inquinanti, che da soli producono un quarto delle polveri sottili scaricate ogni giorno nell'aria di Milano. Il documento firmato lo scorso 7 agosto dalla Direzione centrale mobilità del Comune (a seguito di una delibera di giugno) è l'atto amministrativo che apre il percorso per la low emission zone milanese. Con l'autunno partirà la gara d'appalto per comprare le prime telecamere e montarle sulle strade.

La seconda «cintura»

Si parte dalle localizzazioni: viale Forlanini, via Gallarate, viale Fulvio Testi, via Ripamonti e altre grandi arterie di accesso in città. I primi varchi saranno 20 e verranno installati molto vicini ai confini di Milano e alle tangenziali. Nel suo sviluppo finale, il progetto prevede 106 telecamere. Solo a quel punto l'intero territorio milanese sarà «blindato» e tutte le strade di ingresso saranno «sotto osservazione». Vista dall'alto, Milano avrà così due cinture di controllo del traffico: quella interna di Area C e quella esterna sui confini. Ma come saranno utilizzate?

La prima fase coinciderà con lo studio della mobilità milanese.

Sarà una fase di conoscenza: l'Agenzia per la mobilità e l'ambiente (a cui il 7 agosto sono stati affidati 352 mila euro per l'avanzamento del progetto) dovrà elaborare tutti i dati raccolti dalle telecamere per capire nel dettaglio quanti mezzi pesanti circolano, quanto impiegano a spostarsi, per quanto tempo restano in marcia ogni giorno. L'obiettivo è avere una conoscenza approfondita della frazione più inquinante del traffico milanese (i mezzi pesanti sono quasi tutti a gasolio e molto vecchi).

Le nuove telecamere potrebbero però essere usate anche per un secondo scopo: controllare il rispetto dei divieti di circolazione per le auto più inquinanti durante l'inverno, tra ottobre e aprile. Quella misura antismog è tra le meno rispettate perché i controlli delle pattuglie in strada sono pochissimi. Il Comune di Milano, stando al progetto, dovrebbe invece cominciare a usare le nuove telecamere anche per i controlli e le multe. L'evoluzione finale è la creazione di una low emission zone vera e propria, con divieti di circolazione o il pagamento di un ticket per i camion.

Grande fratello

I documenti tecnici parlano di «sistemi di tracciamento». I mezzi pesanti che devono entrare a Milano saranno dotati di grossi bollini di riconoscimento (vetrofanie), di diversi colori in base a quanto il mezzo è vecchio e inquinante. Questo è l'aspetto «esteriore» del progetto, che sarà poi alla base delle nuove regole quando il Comune approverà un sistema di regole per ridurre l'inquinamento da mezzi pesanti. Finestre di accesso e tariffe di pagamento saranno infatti legate al tipo di mezzo, che sarà riconoscibile a vista dai vigili proprio grazie alle vetrofanie. Allo stesso tempo, nelle vetrofanie ci sarà anche una sorta di piccolo sistema radio o Gps.

È in base a questi segnalatori, e incrociando i dati delle due «cinture» di telecamere, che i tecnici dell'Amat saranno in grado di elaborare i dati per avere un quadro realistico e dettagliato dei flussi del traffico in città. Una parte di fondi per avviare il progetto, poco più di un milione, arriverà dal ministero. Si tratta di risorse vincolate a progetti sperimentali sulla mobilità. Altri finanziamenti spettano a Comune (1,7 milioni) e Regione (1,5).

Dal nuovo inserto del manifesto, che esce ogni giovedì, l'Italia che Va, 1 agosto 2013, due riflessioni, fra cui quella del sindaco di Roma, sul potenziale delle biciclette per le città e l'ambiente (f.b.)

Rivoluzione su due ruote
di Luca Fazio

A parte una buona dose di coraggio, per cambiare profondamente il volto di una città basta un numero magico (il numero 30). E non ci vogliono nemmeno troppi soldi. A Parigi, per esempio, con soli 2,6 milioni di euro di stanziamenti, l'amministrazione di Bertrand Delanoe ha messo a punto un piano rivoluzionario. Un format esportabile in qualunque città europea (Italia compresa): dal prossimo settembre su 560 km di rete stradale il limite massimo di velocità consentito alle automobili sarà di 30 Km/h (il 37% delle strade cittadine). Il nuovo piano "La rue en partage" ("la strada in condivisione", ndr ) non dovrebbe essere un dramma, eppure le questioni della mobilità urbana provocano sempre accesi dibattiti politici e sociologici. Anche a Parigi. Per semplificare, da una parte ciclisti che rischiano la vita e dall'altra adepti del culto motorista sempre più rancorosi e su di giri. E dire che in nessuna metropoli europea la media di chilometri percorsi da un'auto ingolfata nel traffico si avvicina al numero magico: ovunque la bicicletta è il mezzo più veloce per spostarsi nelle aree urbane. A Parigi questo limite verrà fissato in una trentina di quartieri, che vanno ad aggiungersi ad altre 74 zone della città dove la velocità è già regolata in questo modo. Ma non c'è limite al meglio: nella capitale francese sono già attive 23 "zone di incontro" dove le auto non possono superare i 20 Km/h; qui pedoni e ciclisti sono padroni della strada, e le automobili sono "avvisate" da strisce bianche perpendicolari alla carreggiata formate da piccoli rettangoli tipo pixel, una via di mezzo tra segnaletica e arte di strada, un modo poco invasivo per invitare gli automobilisti a rallentare.

L'obiettivo di questo programma che per noi sembra lunare è piuttosto semplice, invitare gli automobilisti a scegliere il mezzo di trasporto più semplice e moderno del mondo: la bicicletta. E a rispettare le due ruote: i ciclisti, nelle zone 30, potranno anche "bruciare" il semaforo rosso per svoltare a destra. Di questo passo, le automobili a Parigi diventeranno un mezzo di trasporto in via d'estinzione, e del resto lo confermano le statistiche: già ora il 60% degli spostamenti si fa a piedi, il 27% con i trasporti pubblici, il 7% in automobile e il 4% in bicicletta. Percentuali impensabili per l'Italia, il paese europeo più in ritardo rispetto allo sviluppo della ciclabilità e alla cultura della mobilità alternativa. Londra, per esempio, giusto per non restare indietro rispetto a Parigi, sta pensando di estendere l'attuale percentuale di zone 30 (oggi circa il 19% delle strade urbane) a quasi tutta la città - rimarrebbero escluse solo le arterie ad alto scorrimento. Possibile? Per Isabel Dedring, responsabile dei trasporti londinesi, non ci sarebbero problemi: «Andrà a finire come capitò con il divieto di fumo nei locali, nessuno lo riteneva possibile fino a quando non è successo».

Bisognerà solo convincere i distretti, ma già alcuni hanno imposto i 20 miglia all'ora in tutte le strade, con risultati molto soddisfacenti e dunque contagiosi. A Monaco, altra città virtuosa, sono così visionari che entro il 2025 puntano ad avere la quota di spostamenti in automobile al di sotto del 20% nelle zone centrali (taxi compresi). Lo ha annunciato Hep Monatzeder, vicesindaco della città dove ha sede la Bmw - provate adesso ad immaginare il sindaco di Torino Piero Fassino e la Fiat di Marchionne. Monaco, per raggiungere l'obiettivo, solo nell'ultimo anno ha già stanziato 10 milioni di euro per la ciclabilità. In Italia (2.556 ciclisti morti negli ultimi dieci anni), sull'onda di un'evidenza che ha trasformato la bicicletta nello strumento più efficace per praticare più che sognare un mondo diverso, soprattutto nelle città, anche la politica si è dovuta accorgere che qualcosa si sta muovendo. Con ritardo e inconcludenza imbarazzanti. A parte i sindaci volonterosi che ci deliziano con improbabili pedalate propagandistiche, diverse associazioni hanno presentato una proposta di legge proprio per introdurre il limite dei 30 Km/h nei centri urbani (già sottoscritta da circa sessanta deputati di tutti gli schieramenti).

L'obiettivo della Rete della Mobilità Nuova, seppure meritevole, dice a che punto siamo rispetto alle esperienze europee: obbligare i sindaci, entro due anni, a far scendere gli spostamenti motorizzati con mezzi privati almeno sotto al 50%. Un'impresa disperata visto che la quasi totalità delle risorse per la mobilità vengono destinate all'alta velocità e alla rete autostradale, anche se le lunghe distanze assorbono meno del 3% degli spostamenti di persone e merci. Eppure, nonostante l'ottusità del sistema, in Italia le campagne di sensibilizzazione per sostenere il limite di velocità di 30 km/h si stanno moltiplicando con diverse iniziative dal basso. Il rischio però è che per un difetto di comunicazione non si riesca a far comprendere la portata di un semplice provvedimento che nelle nostre città sarebbe a dir poco storico, se non irrinunciabile: qui non ci sono in gioco solo i diritti (o le pretese) di qualche scanzonato cittadino che vuole liberarsi dalle automobili per pedalare in santa pace. C'è ben altro.

Proviamo a mettere tra parentesi - anche se è impossibile - lo studio approfondito appena realizzato dall'Istituto dei Tumori di Milano che ha dimostrato una stretta relazione tra l'inquinamento e il rischio di tumori al polmone (300 mila le persone testate, 36 i centri europei coinvolti). È stato misurato l'inquinamento dovuto alle polveri sottili (Pm10 e Pm2,5) causato in gran parte all'emissione dei motori a scoppio e agli impianti di riscaldamento. La conclusione è drammatica: per ogni incremento di 10 microgrammi di Pm10 per metro cubo presenti nell'aria, aumenta il rischio di tumore al polmone di circa il 22%. Sono cifre da ecatombe, questo tipo di tumore rappresenta la prima causa di morte nei paesi industrializzati, e solo in Italia nel 2010 si sono registrati 31.051 nuovi casi. Non bisognerebbe aggiungere altro per imporsi l'obiettivo di rottamare il mezzo di trasporto più mortifero, ma torniamo al limite dei 30 Km/h per entrare nello specifico dei tanti benefici per tutti. Automobilisti compresi. Prima di tutto si abbasserebbe la mortalità. In Europa, tumori a parte, ogni anno muoiono 35.000 persone a causa di incidenti stradali (un milione e mezzo rimangono ferite). L'Italia contribuisce alla statistica con 5 mila morti all'anno (e 300 mila feriti): quasi un quarto delle vittime sono pedoni e ciclisti. Tutta colpa della velocità? Sì.

Come dimostra uno studio londinese, quasi tutti gli incidenti che hanno ucciso ciclisti sono avvenuti in strade con un limite fissato a un minimo di 48 Km/h. I dati sui pedoni sono inconfutabili: se un'automobile investe una persona a 65 Km/h la uccide nel 90% dei casi, a 50 Km/h nel 20% dei casi, a 30 Km/h nel 3% dei casi. Data per scontata la maggior vivibilità delle strade con l'istituzione delle "zone 30" - cosa di per sé gradevole ma che per alcuni potrebbe non essere prioritaria - va sottolineata anche la considerevole riduzione dei costi sanitari a fronte di una diminuzione dei sinistri (il Pil annuale perso a causa degli incidenti viene valutato attorno al 2%). Inoltre, la riduzione della velocità, come dimostrano alcuni studi effettuati ad Amburgo, farebbe diminuire dal 10 al 30% l'emissione di gas inquinanti. Sul banco degli imputati ci sono gli automobilisti che si ostinano a guidare in città, eppure il numero magico funzionerebbe anche per loro: consumerebbero meno carburante (12% secondo una ricerca tedesca) e anche loro morirebbero con minor frequenza.

Il mio sogno: Roma ciclabile
di Ignazio Marino

Quello con la bicicletta è stato un incontro casuale. Non sono un appassionato della prima ora. Ho scoperto la bellezza della pedalata per necessità, solo nel 2002. Mi ero da poco trasferito negli Usa con la mia famiglia. Arrivati a Philadelfia avevamo deciso di acquistare un'auto, poi è stata sufficiente una piccola ricognizione della città per accorgerci che avevamo tutto a pochi chilometri di distanza dalla nostra casa: la scuola di mia figlia e l'ospedale dove sarei andato a lavorare. Decidemmo così di fare a meno delle quattro ruote optando per le due. Da quel giorno non ho più smesso di pedalare. A volte le cose belle capitano per caso e per caso ho scoperto tutti i vantaggi del muoversi in bicicletta: non inquina, non ha costi di gestione, rispetta l'ambiente e aiuta a rimanere in forma. Da sindaco ho un piccolo grande sogno: modificare radicalmente il rapporto tra la città e le due ruote. Basta osservare la città per rendersi conto come in questi anni sempre più persone scelgano la bicicletta per muoversi, e non solo nel centro storico.

Roma, rispetto ad altre città europee, è rimasta indietro. Le piste ciclabili non sono ancora integrate alla viabilità cittadina; il servizio di bike sharing non solo non è mai decollato ma è fallito, con conseguenti danni economici per le casse del comune. Voglio fare solo un paio di esempi per far comprendere a tutti quanto l'uso della bicicletta possa essere rivoluzionario per Roma. Nella Capitale, tra le persone che utilizzano l'automobile, il 60% lo fa per un percorso non superiore ai 5 chilometri. Il nostro compito sarà offrire loro un'alternativa all'auto privata, per mezzo di un servizio di bike sharing capillare in tutta la città e in prossimità delle stazioni della metropolitana. Servono inoltre corsie preferenziali con percorsi protetti e sicuri.

Provvedimenti necessari a decongestionare il traffico nonché a migliorare la qualità della vita nella città e a tutelare la salute di tutti. Ma non solo. La mobilità su due ruote può diventare anche un'attrazione turistica e una risorsa per l'economia romana. Sono sempre più numerosi gli stranieri che visitano Roma in bicicletta, un nuovo modo, ecologico e pulito, per scoprire le bellezze della città. La Giunta comunale, nel corso di questo mandato, dunque, lavorerà per raggiungere alcuni importanti obiettivi: una delle prime azioni sarà investire, seriamente, in un programma finalizzato al rilancio del bike sharing. Roma è una delle poche capitali europee che non lo possiede. Vogliamo, inoltre, ridurre il traffico privato, anche attraverso la realizzazione di aree pedonali sempre più vaste. Non si può prescindere, infine, da un miglioramento e da un potenziamento del trasporto pubblico. Il progetto della pedonalizzazione dei Fori va in questa direzione: chiudere lo spazio alle auto private e restituirlo alle persone, alla storia e alla cultura. Sarà un grande cambiamento per Roma. Sono sicuro che i romani lo apprezzeranno.

Una sacrosanta richiesta di maggiore attenzione e investimenti per un modo di trasporto spaventosamente penalizzato sul versante della sicurezza. Corriere della Sera Milano, 26 luglio 2013 (f.b.)

È successo ancora. L'altra notte un ciclista settantenne è stato travolto e ucciso sul colpo da un'automobile in viale Monza. Sembra che stesse attraversando, esattamente come aveva fatto Beatrice Papetti, la sedicenne di Gorgonzola rimasta vittima, poco più di due settimane fa, di un pirata della strada, sulle strisce pedonali. Si dirà adesso che i passaggi pedonali sono, appunto, riservati ai pedoni, esattamente come i marciapiedi. E si ripeterà anche che i ciclisti — ormai più o meno famigerati, stando alle accuse convergenti di chi va a piedi e di chi va in automobile — non rispettano niente e nessuno, che passano con il rosso, che vanno in contromano, che di notte non hanno luci e che, in sovrappiù, sono anche maleducati.

Tutto vero, ma intanto sempre più si rivelano anello debole della catena del traffico, addirittura più debole dei pedoni, in quanto solo una minoranza osa salire sui salvifici marciapiedi mentre la maggioranza resta allo sbaraglio in strada. Anello debole che soccombe: non a caso ogni giorno in Italia un ciclista perde la vita e quaranta finiscono feriti in ospedale; e la Lombardia si segnala, assieme all'Emilia Romagna e al Veneto — regioni dove per antica tradizione circolano più biciclette — per il maggior numero di vittime.

Che saranno mai, si può pensare, trecentocinquanta ciclisti su un totale di circa seimila morti all'anno per incidenti stradali? Sono, invece, infinitamente troppi: calcolando come valore medio 1, il rischio di mortalità per loro è, infatti, il 2,18, il più alto in assoluto: per i motociclisti è l'1,96, per gli automobilisti lo 0,78 e per i camionisti lo 0,67. E, tanto per aggiungere qualche dettaglio al triste catalogo, si contano più vittime tra uomini e donne sopra i sessantacinque e tra i ragazzini che hanno età compresa fra i nove e i quattordici anni.

Cha fare allora? Che si diano multe a chi pedala contromano, a chi passa con il rosso, a chi al buio non ha luci adeguate, ma che si costruiscano piste ciclabili, possibilmente protette da un cordolo o, in alternativa, che si permetta alle biciclette di salire sui marciapiedi, almeno quelli più larghi. Resterà il problema della maleducazione, della pretesa dei ciclisti, in quanto convinti di essere «virtuosi», di avere più diritti degli altri, ma se ci fosse una legge che proibisce la villania, metà dei cittadini si ritroverebbe, probabilmente, multata, pregiudicata. Quando l'anno scorso una giornalista londinese venne travolta e uccisa da un camion mentre andava in redazione in bicicletta, il suo giornale, ilTimes, lanciò una campagna di sensibilizzazione internazionale per rendere le città più sicure per i ciclisti, che ebbe una certa risonanza anche in Italia, sebbene delle urgenze segnalate dal quotidiano inglese si fosse da noi preso in considerazione praticamente soltanto l'obbligo del casco, del quale, comunque, poi non si è più parlato. Sarà una piccola cosa, per lo più, è vero, detestata dalle signore, però qualche vita di ciclista la potrebbe forse salvare.

Una onesta e persino lucida per certi versi immagine del rapporto fra territorio, sistema socioeconomico, e automobile: la confusione impera, insieme ai rischi. La Repubblica, 22 luglio 2013, postilla (f.b.)

L’auto stavolta è davvero di fronte a un bivio: cambiare o sparire. Dalle nostre parti i problemi sono tanti, i soldi pochi e i mercati saturi. In Italia, il paese più colpito dalla crisi di vendite, c’è una densità automobilistica tra le più alte del mondo (61 ogni 100 abitanti). Così come c’è il carburante più costoso del pianeta, le assicurazioni più care e una quantità di tasse sulle vetture che non hanno uguali in nessun altra parte del vecchio continente. Poi, c’è una certa disaffezione all’automobile così come attualmente concepita messa nel mirino di molti sindaci convinti (spesso a ragione) di dover trovare sempre nuove misure per ridurne l’uso nelle loro città. Purtroppo, però, qualcuno ragiona come fosse il sindaco di una cittadina del nord Europa dove girare in bicicletta è facile e sicuro perché ci sono le piste ciclabili oppure pensa di essere a Londra o Parigi dove il trasporto pubblico funziona, le metropolitane collegano ogni angolo della città e le automobili in giro sono diminuite non per la colpa della crisi ma perché c’è una reale e utile alternativa al loro uso. Ma in Italia si va avanti (anzi indietro) diversamente, facendo finta di non vedere un problema ormai enorme e dalla cui soluzione passa il futuro della mobilità a quattro ruote. Insomma, al momento la sensazione è che ci siano poche idee e per di più confuse.

Gli appelli a moderare o cambiare la tassazione, per esempio, finiscono nel vuoto e spesso diventano patetici. Nascono apposite associazioni per lanciarne di nuovi. E non si sa per quali motivi e con che prospettive dato che quelle istituzionali (Unrae, Anfia) ben più grandi e potenti stanno lentamente scivolando nel dimenticatoio, sempre più incapaci di difendere il settore dell’automobile.

C’è una grande confusione anche sulla politica energetica. In mezza Europa, soprattutto quella che conta, esistono programmi di incentivi ecologici, da noi, invece, ancora niente. Peggio c’è addirittura una frammentazione di vantaggi (o svantaggi). A Roma, per esempio le auto ibride non pagano il parcheggio in fascia blu al contrario di Milano dove entrano gratuitamente nella zona C. Una norma unica no? E non parliamo dell’auto elettrica di cui tutti tessono ogni lode. Zero incentivi all’acquisto e praticamente zero colonnine per la ricarica. Mancano le infrastrutture perché l’auto a emissioni zero possa crescere (anzi, in Italia è il caso di dire “nascere”). Così tra cambiare o sparire, almeno in questo caso, è davvero più facile che sparisca. Purtroppo.

Postilla

Con buona pace degli onesti ed entusiasti militanti del ciclismo terzo millennio, e dei loro benintenzionati guru in sedicesimo da social network, la mobilità ha ancora a che vedere col muoversi, e muoversi significa andare da un posto all'altro per motivi che di solito hanno poco a che vedere con l'immagine, ma c'entrano col lavoro, i servizi, fatti propri difficilmente riconducibili al sostegno di grandi principi. Ergo con l'auto privata, o con l'auto in generale, con il sistema territoriale e socioeconomico che si tira appresso, dobbiamo fare i conti: magari invocare davvero un “nuovo paradigma”, ma non individuarlo nell'allegra pedalata fino al bar dell'angolo, se quel bar (che magari è il posto di lavoro per mantenersi) sta a un angolo distante trenta chilometri da casa e in cima a una montagna innevata. Esagerazioni a parte, come ho provato già a esemplificare in qualche articolo sulla demotorizzazione, abbandonare il comparto dell'auto, e tutto ciò che da esso dipende, al proprio destino, pensando ad altro, non sta né in cielo, né in terra, né soprattutto nella logica di un pensiero progressista e propositivo (f.b.)

Nuovi inequivocabili segnali della crisi e dei cambiamenti che induce negli stili di vita. Si riuscirà per una volta a leggerli in modo propositivo? La Repubblica, 19 luglio 2013, postilla (f.b.)

A Roma, secondo gli ultimi dati dell’Aci, lo scorso anno le auto circolanti sono diminuite di circa settantamila unità (da 1.937.783 a 1.867.520), ma altrettanto è accaduto a Milano, Torino, Genova, Bologna, Napoli e Palermo. È scesa ulteriormente anche la percorrenza media degli italiani: dai 10.900 km del 2011 ai 9.500 dell’anno scorso. Prime e vistose conseguenze di una crisi dell’auto senza precedenti, che negli ultimi cinque anni in Italia ha dimezzato le vendite, passate da 2,5 milioni del 2007 a un milione e 400 mila del 2012 con una previsione di una perdita di altre 150 mila vetture per l’anno in corso.

Uno degli effetti di tutto questo è, appunto, il primo calo in assoluto del parco circolante a cui si aggiunge una diminuzione del traffico dovuta sì alla crisi, ma anche alle varie politiche comunali che sull’esempio di Parigi dove il traffico dal 2001 ad oggi è diminuito di un terzo e solo un cittadino su due possiede un’auto, si stanno moltiplicando le zone a traffico limitato, quelle pedonali e, nello stesso tempo, alzando i pedaggi dei parcheggi, delle fasce blu e il costo delle multe.

Per tornare ai numeri, secondo l’indagine annuale Inrix Traffic Scorecard (agenzia internazionale che visualizza la congestione stradale come indicatore economico del Paese) il traffico in Italia è crollato del 34%. Molto al di sopra di quanto registrato in Europa, dove il calo è stato mediamente del 18%. Non solo. I modelli di traffico di quest’anno procedono con un trend a spiraleverso il basso, con il primo trimestre che mostra un’ulteriore diminuzione di 23 punti percentuali con una conseguente riduzione delle ore passate in macchina: 27 in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il che significa che, escludendo Spagna e Portogallo, il nostro Paese ha registrato la maggiore diminuzione del traffico rispetto a tutto il resto dell’Europa.

AlixPartners, altra grande agenzia di consulenza internazionale, ha spiegato il fenomeno della demotorizzazione italiana con tre fattori: la crescita dei costi di gestione di un’auto, l’aumento della pressione fiscale e la riduzione della disponibilità economica delle famiglie causata dalla recessione. «Questi tre fattori — sostiene un loro studio — hanno determinato un atteggiamento meno positivo verso l’auto che si è tradotto nel rinvio della sua sostituzione e, quindi, nel crollo delle vendite ». Ma non solo. C’è anche una crescente disaffezione nei confronti dell’automobile, soprattutto da parte dei giovani (il numero delle patenti rilasciate nel 2012 è sceso del 19,3 per cento): sono sempre meno quelli che se la possono permettere e sempre più quellipronti a sostituirla con altri beni di consumo come computer, smartphone e tecnologie che rendono più accessibile la comunicazione e inutili molti spostamenti.

Così le città si svuotano, almeno dalle automobili, e la mobilità individuale cambia pelle. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, che sta per avviare la pedonalizzazione dei Fori imperiali, ha dichiarato che proverà a togliere dalla capitale nei prossimi cinque anni il 20per cento delle auto. «Convincerò i romani a usare i mezzi pubblici rendendoli più efficienti ». Lui, intanto, preferisce girare in bicicletta, mezzo che, a proposito, sempre quest’anno in Italia ha superato nelle vendite proprio le automobili. Non accadeva dal 1953. Un altro segno della demotorizzazione?

Postilla
Probabilmente, volendo, qualche curioso che si andasse a spulciare vecchi numeri di quotidiani (all'epoca Repubblica non era stato ancora inventato) dei primi '70, troverebbe considerazioni simili, al netto di linguaggio, contesto, riferimenti sociali specifici. E cresce il vago fastidio perché ancora una volta pare non si colga l'aspetto di occasione positiva, oltre quello evidentemente negativo segnalato dal calo di consumi anche per un bene durevole e strumentale come l'auto. L'unica traccia davvero lasciata dalle lontane ere delle prime domeniche a piedi per la crisi petrolifera, è lo sdoganamento della bici elegante, di tendenza, non segno di povertà. Il resto, dalle ricerche sul risparmio energetico, agli stili di vita che oggi si chiamano sostenibili, sparito nel nulla, almeno sul versante dei mercati e della consapevolezza di massa. Ancora oggi, certi approcci alla mobilità urbana continuano tranquillamente a colpi di opere, progetti, interventi puntuali senza alcuna strategia di fondo, magari con investimenti corposi (metropolitane in sotterranea ad esempio) giusto per alleviare il traffico privato, e magari lasciar spazio a nuove auto. Non è il caso di riflettere anche sulla storia recente, e cambiar marcia? (f.b.)

Come porre tutte le precondizioni perché si riduca, drasticamente, la circolazione delle auto private in città e nell'area metropolitana? Tante soluzioni coordinate, ma resta un mistero ..

Il comune di Milano dopo una gestazione che si sarebbe forse voluta più breve, si dota finalmente di un nuovo Piano per la mobilità. Forse i lettori si ricordano di quando, proprio in assenza di tale piano a coordinare i singoli interventi, la cosiddetta Area C, ovvero l'accesso a pagamento alla zona centrale più interna, aveva rischiato di naufragare per il ricorso di un gestore di parcheggi, economicamente danneggiato (e per forza, che altro?) dai flussi di traffico ridotti. Con il Piano urbano integrato dei trasporti invece, si riconosce la natura complessiva di programma per migliorare salute, benessere, qualità abitativa dell'area metropolitana, dell'insieme così come delle singole parti componenti.

Se ne possono citare alcune, di queste componenti, ricordando che prese singolarmente in fondo significano poco più di esperimenti puntuali, nessuna esclusa. Ci sono le cosiddette Zone 30 dove anche grazie alla conformazione stradale i veicoli possono entrare ma non scorazzare. Oppure i mezzi pubblici non solo rafforzati e coordinati in rete, ma anche gestiti con un occhio di riguardo a una utenza post-industriale, ovvero su tempi diversi da quelli classici, e con sistemi tariffari coerenti. Naturalmente nel piano si dà massima attenzione alla mobilità non motorizzata, fornendole aree di condivisione, percorsi dedicati per pedoni e ciclisti, spazi e attrezzature per intermodalità. E sostegno e innovazione nei servizi di bike sharing e car-sharing, oggi alle fasi sperimentali iniziali.

Poi c'è il rapporto fra le scelte sui trasporti e l'urbanistica vera e propria, quella che regola le trasformazioni edilizie e le localizzazioni. Qui non è chiarissimo quanto si vogliano davvero legare due aspetti di solito e perniciosamente slegati. Ad esempio l'ultimo numero del Journal of the American Planning Association - monografico sulla mobilità - propone un interessante articolo che esamina sistematicamente il rapporto non sufficientemente studiato fra spazio e flussi, ovvero sino a che punto le amministrazioni cittadine hanno saputo tradurre le potenzialità di questa nuova forma organizzativa in norme e standard urbanistici, a partire dai parcheggi. Più in generale, è il coordinamento fra la relativa rigidità della conformazione fisica, e l'estrema variabilità dei flussi che la attraversano, la sfida del futuro: che ne sarà dei contesti ancora sostanzialmente auto-oriented? Faranno fallire anche le migliori intenzioni, con la loro rigidità? Per Milano di questo non si parla molto, o forse non si parla affatto.

E ecco invece un esempio di contraddizione, forse piccola ma sintomatica. Quasi contemporaneamente agli annunci sull'approvazione del PUMS, i giornali pubblicavano un'altra piccola notizia: nel plinto urbano dei giganti terziari del quartiere di Porta Nuova si farà un Superstore Esselunga. Chiunque conosce quel formato commerciale, sa benissimo quanto faccia a cazzotti con mobilità dolce e mezzi pubblici. Un solo esempio delle tante cose da cambiare, prima o poi. Qui non abbiamo riportato gli articoli dei giornali, che tendevano a soffermarsi appunto e soprattutto su aspetti parziali, fornendo una immagine poco realistica-. Abbiamo per una volta scelto di far riferimento alla documentazione ufficiale: il Piano del traffico lo si può leggere tutto nei particolari a questo LINK (f.b.)

«Ovvero grandi opere, capitalismo post-fordista e corruzione liquida dello Stato post-keynesiano». Lo schema della relazione che il massimo svelatore italiano delle truffe nei lavori pubblici e nelle G.O. terrà domani al convegno indetto Ravenna contro lo spiedo Orte-Mestre, inviato il 24 maggio 2013

La grande impresa del capitalismo globalizzato è caratterizzata da una organizzazione fondata sul cosiddetto “outsourcing”, che sta ad identificare un processo di scomposizione e svuotamento della fabbrica fordista che passa da un'organizzazione “a catena piramidale” ad un sistema “a rete virtuale”. La piramide dell'impresa fordista si è decomposta in una enorme ragnatela formata da tante ragnatele sempre più piccole, con al vertice il ragno più grande, collegato alle altre ragnatele con tanti ragni sempre più piccoli.

Questo modello di impresanon può che essere orientato sempre più al controllo dei fattori finanziari edi mercato e sempre meno ai fattori della produzione. Una grande impresa virtuale, orientata solo al mercato e allafinanza, scarica inevitabilmente, attraverso una ragnatela di appalti e subappalti,la competizione verso il basso e induce anche nella piccola e media impresa unacompetizione tutta fondata sui fattori più poveri e di basso profilo chealimentano lavoro nero, lavoro grigio, lavoro precario, lavoro atipico.
La grandeopera è l'unico prodotto che può consentire a questo modello di impresavirtuale di massimizzare i profitti o addirittura semplicemente di funzionare.La stessa grande opera realizzabile da questo modello di impresa devecaratterizzarsi per alcuni elementi essenziali: non può essere un grandeintervento diffuso sul patrimonio esistente, ma deve essere un opera nuova econ scarse interferenze con l'esistente.
La grandeopera sollecitata dall'impresa post-fordista deve avere un valore innanzituttoper il presente, prescinde dal passato e dal futuro: è la protesi dellaincapacità di progettare il futuro e del suo totale sganciamento da un passatonegato o rimosso.
La grande opera è pure quella che consente alla classedirigente politica (sempre più caratterizzata da marioli) e imprenditoriale(sempre più caratterizzata da faccendieri) di scaricare sul debito pubblico lerisorse erogate oggi a questi parassiti del nostro futuro. L'alleato deimarioli e dei faccendieri è il finanziere d'accatto di questo mondo bancarioche costruisce l'affare della grande opera sul debito, con il cosiddetto“project-financing”, una locuzione tutta e solo italiana e che, priva di riscontronella terminologia anglosassone, assomiglia tanto alla “zuppa inglese”, nota inItalia e sconosciuta in Inghilterra.
LaOrte-Mestre, come il TAV, come il ponte sullo Stretto di Messina, come laQuadrilatero, come tutte le grandi opere oggi, in un contesto di consumo delterritorio che non ci possiamo più permettere, è il piatto più ambito econsumato sulla tavola della nuova tangentopoli nella quale i faccendieripost-fordisti possono azzannare beni e risorse pubbliche con i marioli deipartiti virtuali dello stato post-keynesiano. Siamo dunque all’esattoribaltamento delle politiche Keynesiane del secolo scorso. Prima si consegnanosoldi e affari alla casta dei burocrati super retribuiti delle imprese scatolevuote e delle banche e poi si chiede ai cittadini di ripianare il debito, ilkeynesismo alla rovescia, si da ai ricchi e si fa pagare ai poveri: questo èesattamente il cosiddetto project- financing.
Con ilproject-financing, e la esplosione delle società di diritto privato controllateo partecipate dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti locali, le politicheKeynesiane alla rovescia si stanno diffondendo in modo devastante a livellolocale. Siamo infatti allo stesso livello della ricontrattazione del debito conle operazioni dei “derivati” che scaricano sui debiti futuri gli oneri diconvenienze virtuali immediate. Qui però stiamo parlando non di qualche decinadi miliardi di euro, bensì di centinaia di miliardi di debiti che si sono giàaccumulati e che emergeranno solo fra qualche anno nei bilanci correnti degliEnti Locali che si sono avventurati in queste operazioni. Stiamo parlando di unnumero semplicemente straordinario di contratti e di società che operano in unregime di diritto privato, che sono fuori dalle regole e dal controllo della contabilitàpubblica.
Una marea diattività economiche, controllate, determinate e gestite da Presidenti eConsigli di Amministrazione nominati dai partiti, da questi partiti, e nellequali il ruolo ed i rapporti fra politici, tecnici e imprenditori si confondonoe diventano sempre più intercambiabili e intercambiati. La spesa pubblica nonpiù dunque pilotata dalla transazione occulta della tangente, ma che diventatapuramente e semplicemente carne di porco azzannata direttamente e senzaintermediazioni da partiti, imprese e boiardi.
Lacorruzione: tutto continua come prima, ci raccontano le voci bipartisan diquesto sistema liquido dei partiti. In realtà la triangolazione tipica delsistema di tangentopoli è stata ampiamente sostituita da un sistema di relazionie di convenienze più immediato e più complesso, nel quale gli illeciti corronosul filo della illegalità e comunque sono molto più difficilmentecontrastabili. In questo contesto, la mafia e la borghesia mafiosa trovanospazi straordinari nella frantumazione e fuga dalle regole delle imprese, nellairresponsabilità dei tecnici nella gestione delle risorse, nella presenzadiffusa, confusa e mascherata, della partitocrazia nelle istituzioni e nellespa collegate, con i partiti frantumati, assenti nella società, vivi e vegeti eradicati solo nelle istituzioni e nelle spa lottizzate.
I partiti comela corruzione sono diventati un sistema liquido che prende solo la forma deicontenitori della spesa pubblica. Se i partiti della cosiddetta primarepubblica sono scomparsi, con loro sono scomparse anche le prassi che li hannostoricamente caratterizzati, statuti e regole che garantivano selezione epartecipazione. Quello che la Costituzione indica come lo strumentofondamentale per la formazione del consenso e per il concorso democratico deicittadini per il governo delle istituzioni, è invece oggi qualcosa diindefinito, potendo essere tutto ed il contrario di tutto. Partiti che, inquesta condizione, e dato il contesto descritto, sono strutturalmente orientatialla illegalità, anzi catalizzatori di illegalità.
La nuovatangentopoli post-fordista e post-keynesiana si è popolata di un numeroimpressionante di faccendieri senza imprese e di marioli di partiti liquidi,che occupano e sono occupati dalla spesa pubblica. Il sistema si è popolato diun esercito di ladri di istituzioni e di servizi pubblici, di ladri di verità edi memoria, di ladri di politica e di democrazia.
LaOrte-Mestre è la grande opera che serve solo a soddisfare gli appetiti dellagrande impresa virtuale post-fordista, ed è il piatto tipico dello statopost-keynesiano che consente ai faccendieri ed ai marioli di questa nuovatangentopoli di soddisfare un appetito vorace guidato da un egoismo cieco chevive solo nell'oggi, che ignora e cancella le nostre storie, che consuma eipoteca il nostro futuro.
 Fermiamoli prima che sia troppo tardi.
qui il programma del convegno nazionale di Ravenna e il sito della rete noOr-Me

«La “finanza creativa” per le grandi infrastrutture serve assai più a mascherare i veri costi per lo Stato e la collettività, che ad aumentare l’efficienza degli investimenti. E il cosiddetto Project Financing (PF), la compartecipazione pubblico-privato nelle infrastrutture è l’emblema più noto di una fantasia che teoricamente nasce con intenti virtuosi, ma di fatto è la fabbrica del nuovo debito pubblico occulto che rischiamo di lasciare ai posteri.». Il Fatto quotidiano, 15 maggio 2013

La “finanza creativa” per le grandi infrastrutture serve assai più a mascherare i veri costi per lo Stato e la collettività, che ad aumentare l’efficienza degli investimenti. E il cosiddetto Project Financing (PF), la compartecipazione pubblico-privato nelle infrastrutture è l’emblema più noto di una fantasia che teoricamente nasce con intenti virtuosi, ma di fatto è la fabbrica del nuovo debito pubblico occulto che rischiamo di lasciare ai posteri.

Il PF vuole sfruttare l’efficienza e il know how del privato, incentivato in modo opportuno, per ovviare ai difetti delle gestioni pubbliche. Il concessionario privato sarà motivato a minimizzare non solo i costi di costruzione, come nei normali appalti, ma anche di gestione del progetto, cercando di massimizzare l’utenza, essendo ripagato dalle tariffe. Il problema di tale schema applicato alle infrastrutture è nel “rischio commerciale” (o “rischio traffico”). Il concessionario privato ha strumenti per ottimizzare gli aspetti costruttivi e gestionali (i “rischi industriali”), ma non per condizionare la domanda di traffico. Se dunque il “rischio commerciale” per le infrastrutture, è lasciato dal concedente pubblico interamente al soggetto concessionario privato, questi dovrà cautelarsi, alzando i corrispettivi richiesti e/o chiedendo garanzie contro una domanda inferiore al previsto, flessibilità tariffaria o di durata della concessione.

Domani è un altro giorno
Dal lato del concedente pubblico, spesso l’obiettivo è aggirare vincoli di bilancio. Schemi di PF si prestano bene a tale scopo: è sufficiente fornire al concessionario garanzie adeguate, per minimizzarne i rischi, e l’opera può essere subito cantierizzata, rimandandone i costi reali per lo Stato a tempi così lunghi da essere politicamente irrilevanti. In Italia nel secolo scorso vi furono massicce emissioni di obbligazioni garantite dallo Stato per diverse autostrade,basate su piani di rientro irrealistici. I costi pubblici finali di riscatto delle obbligazioni furono altrettanto elevati quanto occulti. Anche l’Alta velocità ferroviaria si basava inizialmente su obbligazioni garantite che non sarebbero mai state ripagate dai ricavi da traffico e dovette intervenire l’Europa a porre fine a quello schema: lo Stato dovette pagare nei primi anni 2000 12 miliardi cash alle Ferrovie dello Stato (in seguito FS), la notizia meritò solo un trafiletto sul Sole 24 Ore.

Le difficoltà finanziarie delle casse pubbliche, connessa alla bassa redditività degli investimenti, hanno stimolato la fantasia di promotori e costruttori, con un dispositivo “creativo” di finanziamento noto come “canone di disponibilità” (inventato per il progetto del Ponte di Messina): il gestore dell’infrastruttura (Rete Ferroviaria Italiana-FS, nel caso del Ponte), non paga un pedaggio variabile al costruttore dell’opera, ma una quota fissa annuale. Che, per definizione, non dipende dal traffico. L’opera si realizza se si determina un “canone di disponibilità” tale da ripagarla. Se poi il traffico sarà inferiore al previsto, peggio per l’ incauta FS. Il principio del PF è salvo, e il vincolo di bilancio aggirato (FS è una SpA, formalmente assimilabile a un privato). Lo schema può funzionare in quanto FS è in realtà pubblica e percepisce alti trasferimenti dallo Stato, pagatore di ultima istanza dell’operazione. Sembra che per la ferrovia Av Milano-Genova si sia tentata tale operazione, ma i risultati siano apparsi così indifendibili data la scarsità dei ricavi previsti, che si è scelto di addossare allo Stato il 100 per cento dei costi.

Il caos nei cantieri
Per le metropolitane il sistema è diverso, ma la sostanza identica: i sussidi pubblici al servizio sono assimilati a ricavi tariffari privati e sono commisurati, a volte, al traffico di passeggeri, comunque “garantito” ex-ante, a volte addirittura alle singole vetture che percorrono la linea (cioè all’offerta, non alla domanda). Basta calibrare il tutto, per garantire al concessionario un flusso di ricavi adeguato. Quanto alle autostrade, la crisi economica, con il conseguente calo del traffico e l’aumentato costo del denaro, ha messo in crisi i piani finanziari di molte opere in PF, soprattutto in Lombardia dove molti cantieri sono stati aperti con prestiti-ponte. Emerge quindi l’incongruenza tra rendimenti attesi per le ferrovie e per le autostrade: i fondi pubblici assegnati fin dall’inizio a queste ultime sono solo parziali, al contrario di quelli per le ferrovie. E in nessuno dei due casi commisurati alla utilità sociale. La decisione di quante risorse assegnare dovrebbe essere affidata ad autorità terze che facciano analisi costi-benefici imparziali e comparative, che ne verifichino l’utilità (risparmi di tempo, ambiente ecc.)

Forse “si stava meglio quando si stava peggio”: gare normali per gli appalti, al massimo oggi integrate con la gestione, e il rischio traffico attribuito a chi se lo può davvero assumere, cioè allo Stato.

Tutto giusto. Solo che i conti andrebbero fatti un po’ diversamente. Vedremo come, secondo noi. Arcipelago Milano, 14 maggio 2013.

Le posizioni espresse recentemente su ArcipelagoMilano a proposito del traffico e della mobilità (dall’ottima Maria Berrini ma in diverse forme anche da altri) sono certo “politically correct”, ma un po’ inquietanti per un economista che si occupa di politiche pubbliche: le macchine devono essere più represse di quanto sono ora, (anzi se possibile sarebbe meglio proibirle del tutto, ma questo non si può dire troppo). Il fatto che il settore automobilistico generi allo Stato qualche decina di miliardi all’anno, mentre gli utenti del trasporto pubblico paghino solo una piccola quota dei servizi che usano, costando a tutti gli altri cittadini con le tasse (a Milano più di un milione di euro al giorno), sembra un aspetto totalmente irrilevante.

Anzi, questa situazione deve essere ulteriormente squilibrata. La nuova normativa che i promotori della recente manifestazione ciclopedonale promuovono infatti recita: “…. una legge di iniziativa popolare che vincoli almeno i tre quarti delle risorse statali e locali disponibili per il settore trasporti a opere pubbliche che favoriscono lo sviluppo del trasporto collettivo e di quello individuale non motorizzato” (questo ultimo settore, poverino, è innocente, richiedendo pochi soldi pubblici).

Ora, alcune cose di questa proposta di legge non sono irragionevoli, per esempio quando parlano di uno squilibrio tra spese per infrastrutture di lunga distanza e infrastrutture di breve, dove si svolge la maggior parte del traffico e c’è la maggior parte dei problemi. Ma anche qui, la logica proposta è indifendibile: ci sono infrastrutture per la lunga distanza che forse possono essere utili. Occorre decidere sempre sulla base di analisi costi-benefici comparative e “terze”, non su allocazioni arbitrarie delle risorse pubbliche. Queste analisi oggi comprendono ovviamente anche gli aspetti ambientali, e darebbero molte sorprese proprio ai difensori a oltranza dell’ambiente. E poi c’è il piccolo dettaglio che per le autostrade si richiede che le paghino gli utenti per almeno il 50%, mentre per le ferrovie questa percentuale scende un po’, siamo intorno allo 0%, ma generalmente anche meno, visto che si richiedono molti soldi pubblici persino per farci andare sopra i treni. Tutto benissimo, se i soldi pubblici fossero abbondanti, o non ci fossero altre drammatiche priorità sociali. Questi lussi potremmo permetterceli.

E a proposito di socialità, come si può ignorare la ricerca del CENSIS sui pendolari, che testimonia che il 10% va in treno, il 20% in bus, e il 70% in auto, ma non solo: gli operai vanno molto di più in auto, gli impiegati e gli studenti, lavorando e studiando in aree più centrali, usano molto di più i mezzi pubblici. L’argomentazione che con i soldi pubblici si potrebbe fornire più servizi anche alla mobilità operaia, e più in generale nelle aree a bassa densità, è indifendibile: per motivi di reddito, infatti gli operai risiedono e lavorano in tanta malora (cioè generano una mobilità estremamente frammentata), che non è servibile dai trasporti collettivi se non in piccola parte.

Tutti i modelli di simulazione mostrano che lo spostamento modale ottenibile, con costi pubblici molto alti, sarebbe di pochi punti percentuali, e moltissimi operai e cittadini “esterni” dunque continuerebbero a spostarsi in macchina, pagando un sacco di soldi per la benzina e stando sempre più in coda (se questa curiosa legge passasse). Gli impiegati, e chi ha potuto comperarsi una casa in città, sarebbero invece molto più contenti.

Si noti poi che questa politica di altissima tassazione del modo automobilistico, e di elevatissimo sussidio al trasporto pubblico, è in atto da decenni, con risultati modesti o nulli. Forse dunque le ragioni strutturali illustrate sopra, che rendono difficile lo spostamento dell’utenza sul trasporto pubblico, hanno qualche fondo di verità.

Ovviamente c’è poi il problema ambientale, che è massimo nelle aree urbane dense a motivo dell’”effetto canyon”: tanta gente esposta alle emissioni su strade relativamente strette, dove queste emissioni fanno fatica a disperdersi. Qui è ragionevole e funzionale limitare l’uso del mezzo privato (cfr. l’Area C), ma forse non irragionevole sussidiare in modo mirato con le tariffe del trasporto pubblico solo le categorie sociali più deboli (perché sussidiare i ricchi che vivono in centro?).

E infine non si può dimenticare che il traffico motorizzato è il settore inquinante che “internalizza” più di tutti gli altri i costi ambientali che genera (secondo il principio, equo ed efficiente, noto come “polluters pay“). Ma già, dimenticavo: cosa importa chi paga? Decide il principe….

Come insegnano i principi base dell'analisi territoriale, esiste un metodo sicuro per verificare l'esattezza o meno di certi assunti: andare a vedere. Il TAV, per esempio. La Repubblica, 30 marzo 2013 (f.b.)

Nell’armamentario del buon giornalismo è il primo strumento a portata di mano. A prima vista, anche il più semplice e neutro. Eppure, la domanda «Esattamente, di cosa stiamo parlando?» è spesso sufficiente a far luce su problemi intricati e spinosi. Con risultati, a volte, devastanti. Anche quando il tema è la Torino-Lione e l’interminabile, ingestibile scontro sull’alta velocità in Val di Susa. Una tratta ferroviaria, ha ripetuto nei giorni scorsi il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, in una intervista a La Stampa, che «pone l’Italia al centro dell’asse verticale e di quello orizzontale» dei traffici europei. Di cosa sta parlando, esattamente, Passera? Dell’equivalente ferroviario di una leggenda metropolitana, rispondono, in sostanza, Andrea De Benedetti e Luca Rastello, due giornalisti che hanno appena dedicato un libro alla Torino-Lione e alla sua estensione europea.

Questa estensione, dicono, è puramente immaginaria. L’asse orizzontale, il Corridoio 5, dove l’import export europeo dovrebbe viaggiare sui binari, da Ovest a Est, da Lisbona a Kiev non esiste e, probabilmente, non esisterà mai. Nessuno lo pretende e lo esige a Bruxelles, nessuno lo vuole a Lisbona, Madrid, Lubiana e Budapest. Peraltro, questo trampolino da cui le merci europee dovrebbero lanciarsi per il continente a 250 chilometri l’ora, probabilmente, neppure servirebbe. In particolare, alle merci. Per capire di cosa si stia parlando, De Benedetti e Rastello hanno scelto l’opzione “testimoni oculari”: in altre parole, hanno provato davvero a percorrerlo, il Corridoio 5, in borsa un sacchetto di caffè sottovuoto, prima merce a battezzare il fatidico asse Lisbona-Kiev. Cosa hanno trovato, lo dice il titolo del loro libro (Binario morto, Chiarelettere) che prende il via da un’inchiesta apparsa sulla Domenica di Repubblica nel maggio dell’anno scorso.

Ma fermarsi al titolo non rende giustizia al racconto, da dove risulta che al Corridoio 5 quello che manca sono, troppo spesso, proprio i binari. A partire dall’inizio, da Lisbona e dalle onde dell’Atlantico. Il governo portoghese, nel pieno della crisi economica, ha sepolto qualsiasi progetto di alta velocità. Niente Lisbona, dunque. Ma anche in Spagna non va molto meglio. Di alta velocità si comincerà a parlare a Granada. Ma, verso Barcellona, è un susseguirsi caotico di tratti a uno o due binari, a scartamento ridotto o meno, finché, nella capitale catalana, non si scopre che l’alta velocità, per arrivare al confine con la Francia e ai suoi Tgv non c’è e il governo di Madrid ha scarsissima voglia di spenderci dei soldi.

Insomma, a Ovest della Torino-Lione c’è, in buona sostanza, soltanto la Francia. E a Est? Anzitutto, molti problemi, raccontano De Benedetti e Rastello. Non si è ancora capito come il treno dovrebbe passare sotto Torino, senza comprometterne le falde acquifere. Idem dall’altra parte, oltre Milano, dove c’è da attraversare Vicenza e passare sotto il Carso. E dopo Trieste, alle porte di quello che, nel 2007, Piero Fassino definiva “l’Eldorado” per l’economia italiana? De Benedetti e Rastello non incontrano più problemi, ma, semplicemente, il nulla. I collegamenti ferroviari fra Italia e Slovenia sono soppressi: l’ultimo treno per Lubiana è partito nel dicembre del 2011, senza lasciare, a quanto pare, troppi rimpianti. Gli sloveni, del resto, sembrano più interessati a coltivare i collegamenti con Vienna e la Germania. Dopo di loro, gli ungheresi ai treni non ci pensano neppure. I soldi del Corridoio 5 vengono impiegati per tangenziali e autostrade.

A Bruxelles, nessuno fa una piega: non sta scritto da nessuna parte che quei finanziamenti europei debbano essere impiegati obbligatoriamente per i treni ad alta velocità. D’altra parte, se il punto sono i traffici di merci, andare a 250 chilometri all’ora è antieconomico. «Oltre gli 80-90 chilometri all’ora, i costi che si scaricano sul trasporto sono troppo alti», dicono gli esperti. Per chi non ha seguito da vicino le vicende della Torino-Lione, orientarsi nel racconto di Binario morto non è agevole. Chi è già a Tav 2.0, invece, può capire meglio il senso della risposta alla domanda iniziale. Sgombrato dal tavolo il Corridoio 5, quello di cui stiamo, esattamente, parlando si riduce alla Torino-Lione e, anzi, dopo gli ultimi aggiustamenti di progetto, a un tunnel e 57 chilometri ad alta velocità, collegati alla rete dalle tratte convenzionali già esistenti. Vale la pena? A Rastello e De Benedetti la Tav in Val di Susa non piace, e si vede. Dalla loro parte, però, ci sono i dati. Il traffico passeggeri è talmente moscio, che le ferrovie italiane hanno sospeso i collegamenti Torino-Lione.

Quello merci è in calo costante dalla metà dello scorso decennio. Lo scenario in cui è nata la Tav di Val di Susa — il Corridoio 5 e il boom dei traffici — oggi non esiste. È una sentenza definitiva? Al fondo della crisi più pesante dal dopoguerra, i dati di oggi hanno un valore relativo. In più, le infrastrutture sono strumenti imprevedibili, capaci di crearsi da sole, spesso, il loro futuro. All’Eurotunnel Parigi-Londra non ha creduto, praticamente, nessuno, fino a che non ha cominciato a funzionare. Fuori dalla retorica dell’“asse orizzontale” si potrebbe discutere pacatamente se è questa la scommessa da fare o se non ci sono, invece, infrastrutture più urgenti.

Peccato che l'autore, da bravo economista conformista, non abbia titolato “i costi collettivi dello sprawl”. Ma a qualche conclusione corretta si arriva lo stesso. Corriere della Sera, 24 marzo 2013 (f.b.)

Dai 14 milioni di pendolari stimati in Italia quelli che stanno pagando di più i costi della crisi usano l'auto per recarsi ogni giorno sul posto di lavoro. Molti di loro sono operai perché le fabbriche ormai sono tutte fuori dei centri abitati, il resto sono lavoratori «flessibili» che devono timbrare il cartellino in orari non coperti dal servizio di trasporto pubblico. Un pendolare con auto ha subìto l'incremento delle tariffe autostradali e della benzina, usa la sua vettura e quindi spende di più in manutenzione ordinaria. In più sia con l'accisa sulla benzina sia con la fiscalità generale partecipa al sussidio del trasporto locale. Eppure non si aggrega, non protesta e di conseguenza non ha voce in capitolo.

La seconda tribù di pendolari è quella che si reca a lavoro con un bus extraurbano. Le tariffe sono in media +30% rispetto alle ferroviarie nonostante che i costi di produzione siano inversi, 15 euro a km per il treno e 3 euro per il bus. Come il pendolare in auto quello in bus è scarsamente organizzato, le proteste hanno come controparte naturale gli autisti dei bus e la relazione informale che si crea con loro serve a mitigare le inefficienze e ad apportare correzioni in corsa. In Lombardia i pendolari in bus sono stimati in circa 1 milione contro 760 mila in treno e la parte del leone la fa il traffico su Milano. La città del Duomo, infatti, attira giornalmente 900 mila pendolari complessivi che sono altrettanticity user in aggiunta ai residenti (1,3 milioni scarsi). Lo spostamento progressivo di popolazione da Milano verso l'hinterland e la provincia trova le motivazioni negli alti costi della città (innanzitutto nell'immobiliare) e nella possibilità di usufruire nei piccoli centri di preziose reti di supporto familiari e non.

Arriviamo ai pendolari in treno che sono l'ala più organizzata, «i duri». In Italia sono circa 3 milioni. Le prime proteste partivano come estensione delle lotte operaie e culminavano nel blocco dei binari. Poi via via il pendolarismo delle tute blu si è spostato su auto e bus e il treno è diventato interclassista. È facile trovare in carrozza persino magistrati e avvocati che quando vestono i panni del pendolare sono i più rapidi nel promuovere vertenze e cause. Grazie a Internet i pendolari dei treni hanno migliorato la loro organizzazione e ormai attorno a Milano esiste una ventina di comitati. Idem nel resto d'Italia con circolazione immediata delle notizie e addirittura una classifica delle tratte peggio servite o delle linee a binario unico come, per restare in Lombardia, quelle che angustiano i viaggiatori da Cremona a Milano o i pendolari di una parte della Brianza.

I viaggiatori da treno hanno il vantaggio di avere una controparte visibile (i gestori ferroviari) e di utilizzare le stazioni come «cattedrali» della protesta, i pendolari in auto alle prese con un ingorgo ovviamente non sanno con chi prendersela. La particolarità italiana è data dai larghi contributi statali e regionali al trasporto pubblico, cresciuti negli anni: in Lombardia dal 2001 al 2010 l'incremento è stato del 61% contro un'offerta di treni/km cresciuta solo del 30% e un aumento delle tariffe del 51% (l'inflazione ha inciso solo per 21 punti). La crisi se ha aumentato i costi del pendolarismo in auto ha decongestionato le autostrade e persino le tangenziali con l'eccezione delle ore di punta. Ma ha anche frantumato il lavoro e moltiplicato gli spostamenti. Sia chi opera nel terziario debole (partite Iva, precari) chi nel terziario forte (consulenti, professionisti) raggiunge più posti di lavoro o clienti in ore sempre meno canoniche. I comitati dei pendolari denunciano a più riprese che i treni a loro riservati sono vecchi e sporchi (pulizie e degrado) ma soprattutto sono lentissimi e poco puntuali, nonostante che in più di qualche caso i gestori abbiano allungato (sugli orari) i tempi di percorrenza.

Secondo Dario Balotta di Legambiente «il 2012 è stato l'anno che ha dato più problemi degli ultimi dieci». Consultando Pendolaria, una sorta di libro bianco del trasporto ferroviario, si scopre che l'anno scorso molte Regioni hanno deciso di tagliare corse e treni e ritoccare gli abbonamenti. Nel solo Piemonte 12 linee e il 90% dei treni sulla Napoli-Avellino è stato depennato. Ma il cambiamento più significativo lo si deve sicuramente all'avvento della Tav e ai riflessi che ha avuto sul traffico pendolari. La forte distanza tra la serie A del trasporto e la serie B è percepita da tutti, si sa che la Tav ha convogliato su di sé gli investimenti ed è diventato un business redditizio, tanto che su quelle linee in soli 5 anni l'offerta è aumentata del 395%. In parallelo il trasporto locale è stato lasciato degradare davanti ai super-treni che hanno l'assoluta precedenza perché devono arrivare in orario per non perdere competitività.

«Come conseguenza si è ridotta la velocità all'interno dei nodi urbani come Milano, andando più piano i treni pendolari hanno saturato gli spazi della rete e al minimo ritardo si genera un effetto di propagazione sull'intero traffico. E 15-20 minuti in più per un pendolare sono una tragedia, specie se si ripetono con una certa frequenza» sostiene Andrea Boitani, docente alla Cattolica di Milano e autore del pamphlet «I trasporti del nostro scontento». I clienti dell'Alta velocità pagano bei soldi e se il servizio ritarda magari tornano all'aereo, invece i pendolari «esprimono una domanda più rigida, che non ha alternative più convenienti e quindi su di essa si scaricano le inefficienze».

Ma se le cose stanno così come si possono risolvere i problemi dei pendolari? Ci vorrebbero più treni, più rapidi e nuovi almeno nelle 20 principali linee dei pendolari dove l'affollamento sta diventando sempre di più ragione aggiuntiva di ritardo. Quanto al recupero di velocità c'è molto da fare, oggi siamo a una media di 35,5 km l'ora contro i 51,4 della Spagna, i 48,1 della Germania e i 46,6 della Francia. Negli anni scorsi ha preso piede la pratica dei bonus di compensazione, che ha raggiunto il culmine con la Caporetto della Trenord lo scorso dicembre. I disservizi prolungatisi per 7 giorni hanno portato alla riduzione del 25% del costo dell'abbonamento. Ma il bonus chi lo paga? Non certo i dirigenti che hanno causato l'inefficienza ma si scarica sulla fiscalità generale. Lo paghiamo tutti. «E comunque sono soldi sottratti alla manutenzione, alla pulizia, alla qualità del servizio e al rinnovo del materiale rotabile. Il bonus è stato un punto di mediazione tra la politica e i comitati pendolari, rischia però di essere l'alibi della deresponsabilizzazione tanto paga Pantalone» commenta Balotta.

E allora? Come si può incidere veramente e cambiare la vita dei milioni di pendolari giornalieri? Il professor Boitani prova a mettere in fila le priorità. «Cambiare le regole di circolazione soprattutto nei grandi nodi per velocizzare il traffico in sicurezza. Accelerare gli investimenti per ampliare la capacità dei nodi metropolitani. Introdurre le gare per l'affidamento dei servizi bus e treni per stimolare l'efficienza e ridurre i sussidi. Rendere più attrattivi gli hub del traffico pendolare trasformandoli in veri e propri centri di servizi». È una lista da libro dei sogni o può trovare ospitalità in qualche agenda di governo?

Fra due giorni potrebbe essere dato il via definitivo a una nuova distruttivaGrande opera, combattuta da tutti i comitati che ne conoscono il percorso. Ringraziamo l’autore del reportage diAltraEconomia, che lo ripropone oggi (16 marzo 2013) all’attenzione dei lettori di eddyburg
Premessa

Il percorso accidentato della “nuova Autostrada del Sole”, la Orte-Mestre, potrebbe arrivare al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), che il prossimo 18 marzo dovrebbe approvare il progetto preliminare del percorso, 400 chilometri attraverso cinque regioni.
L'articolo fa riferimento a un intervento da 8,7 miliardi, mentre il ministro Corrado Passare, in Parlamento, aveva parlato di 10: quel che è certo, è che il piano economico-finanziario dell'opera è -al momento- sconosciuto, che i flussi di traffico attesi sono modesti e che lungo la tratta verrebbero compromessi terreni agricoli di pregio ed aree protette. Il reportage “Il casello incantato” è apparso sul numero di novembre 2012 di “Altreconomia”, mensile d'informazione indipendente. All'articolo di Luca Martinelli, che riproponiamo, si accompagnano un video reportage (guardalo al link altreconomia.it/video/ortemestre) e un reportage fotografico geo-localizzato lungo la Orta-Mestre (guardalo al link www.altreconomia.it/orme). (l.m.)

“Gli interessi di pochi sulla pelle di molti. No Romea commerciale”. Lo striscione è appeso lungo il Naviglio del Brenta. Dietro ci sono campi coltivati. A poche centinaia di metri il campanile e il municipio di Mira Taglio. Accanto una delle Ville venete che attirano i turisti sulla Riviera del Brenta. “Dov’è appeso passerà la nuova autostrada” dice Rebecca Rovoletto. È la portavoce di “Opzione Zero”, che riunisce quelli che non vogliono la costruzione della lunghissima arteria tra Mestre, in provincia di Venezia, e Orte, nel Lazio. Quasi 400 chilometri attraverso cinque regioni. La nuova Autostrada del Sole. Per qualcuno, l’A2. Tra gli sponsor, anche il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani, presidente dell’Associazione Nuova Romea (un altro dei nomi con cui è conosciuta l’autostrada). Che è un “intervento prioritario”, stando all’Allegato infrastrutture 2013-2015, un documento dell’aprile 2012 del ministero dell’Economia. Cantieri aperti entro il prossimo anno, ha assicurato intorno al 10 settembre il viceministro per le Infrastrutture Mario Ciaccia: “Sono fiducioso che al prossimo Cipe porteremo a casa la Orte-Mestre, il cui valore si attesta a 10 miliardi di euro”. Oggi è il 18 ottobre, e la promessa riunione del Cipe (sigla che indica il Comitato interministeriale per la programmazione economica) non c’è stata. Avrebbe dovuto tenersi entro fine settembre.

Così, in attesa di informazioni realistiche dal ministero (che è stato contattato e poi più volte sollecitato, ma non ha mai risposto), “Altreconomia” ha percorso tutta la Orte-Mestre. Da Nord a Sud, e a passo lento. Tre giorni per osservare, e documentare, il territorio destinato ad essere stravolto. In Veneto e in Emilia-Romagna, tra acqua e terra. La laguna di Venezia, canali e fiumi -il Brenta e il Bacchiglione, l’Adige, il Po e infine il Lamone-. Le valli di Comacchio e del Mezzano. Terra di bonifica, campi arati, poche case sparse e qualche cittadina. Fino a Ravenna l’autostrada è tutta nuova. Dalla Romagna, invece, segue l’E45, la Ss 3 bis. Che dopo Cesena sale sull’Appennino, fino a sfiorare il Parco nazionale delle Foreste casentinesi, e scendere in Toscana e in Umbria.
Paesaggi che quando (e se) l’autostrada si farà, percorreremo in poco meno di 4 ore. Oggi però Mira (Ve), Adria (Ro), Cavarzere (Ve), Comacchio (Fe), Ravenna, Cesena, Perugia non sono caselli d’uscita. Ma nomi, quelli dei “nodi” della rete Stop Or_Me (www.stoporme.org), e numeri di telefono.

Il primo che componiamo è quello di Mattia Donadel, di “Opzione Zero” (www.opzionezero.org). Seduto in un bar di Mira, lungo il Naviglio, racconta: “Siamo nati nel 2004, come Rete NO-AR (No Autostrada Romea, ndr). Volevano realizzare un’autostrada che unisse Mestre e Ravenna”. Ci spostiamo davanti allo striscione che dice no alla Romea Commerciale, che chiamano così perché corre parallela alla Ss 306 “Romea”. “È l’unica area libera rimasta tra Mira e Dolo. Un corridoio verde. Per questo la nuova autostrada passerà di qui. Secondo il progetto preliminare, il Naviglio del Brenta dovrebbe essere sotto-attraversato. La galleria inizierà a oltre un chilometro dall’acqua” spiega Mattia. Oltre Mira e i campi, la Orte-Mestre “incrocerebbe” il Passante di Mestre. “Ma i dati di traffico non giustificano l’esigenza di una nuova autostrada”, spiega Mattia, rifacendosi a quelli elaborati nel 2010 da Polinomia per conto del Wwf: “18mila passaggi al giorno, in Veneto. Un traffico locale, che intasa la strada durante i fine settimana estivi, per andare a Sottomarina, verso le spiagge”. Ci sono i camion, è vero ma potrebbero essere dirottati sulla vicina A13: “Se prendi un punto qualsiasi lungo la Nuova Romea e misuri la distanza dalla Padova-Bologna la troverai che corre tra i 20 e i 30 chilometri” conclude Mattia.

In questa storia però i numeri non contano. Anche perché la “legge obiettivo” consente alla Orte-Mestre una corsia preferenziale. Per questo vale la pena partire da altro: dalla terra. “Mira è un ‘nodo’ strategico tra Padova e Venezia -riprende il filo del discorso Rebecca Rovoletto-: con l’attraversamento della Romea Commerciale, che incrocia la cosiddetta ‘Camionabile’, che dovrebbe correre lungo l’idrovia dall’interporto di Padova a Venezia, nascono progetti giganteschi come Veneto City a Dolo, che prevede quasi 2 milioni di metri cubi di nuove costruzioni e interessa tutta la Riviera del Brenta, e un polo logistico da 460 ettari. Insediamenti che nascono nelle aree prossime alla nuova viabilità”. L’equazione ritorna: strada più svincolo uguale cemento. “Il caso del polo logistico di Dogaletto è esemplare -riprende Mattia-: si tratta di 460 ettari, all’incrocio tra Romea Commerciale e Camionabile”. Un’immensa area agricola, tra l’altro vincolata nel Piano di area lagunare (Pal). “L’intervento sarebbe funzionale ad un altro mega-progetto, quello di realizzare un porto off shore per Venezia” spiega Mattia. Per “denunciare” il progetto Opzione Zero, insieme a Mira 2030, lista di cittadinanza attiva, ha promosso l’iniziativa “pane logistico”: “Un progetto di filiera corta. Coltiviamo il grano su un terreno agricolo attiguo a quello che verrebbe trasformato. Abbiamo calcolato che con 200-260 ettari di terreno agricolo, nella zona lagunare, riusciremmo a dare pane a tutti i cittadini di Mira (circa 40mila, ndr), per un anno”.
A Sud di Mira c’è Campagna Lupia. È attraversato dalla Romea, e ci passerebbe anche la nuova autostrada. Chiamiamo Paolo Perlasca, direttore dell’Oasi del Wwf di Valle Averto: “Questa è l’unica oasi protetta dell’intera laguna. Sito d’interesse comunitario e zona di protezione speciale, perché ci sono migliaia di esemplari e specie protette. Un’arteria autostradale potrebbe aver un impatto sulla biodiversità e sull’inquinamento”. Dall’alto di una torretta, muniti di cannocchiale, ci mostre le tre “valli”. Sullo sfondo Venezia e le ciminiere di Porto Marghera. Se volgessimo lo sguardo dall’altra parte, vedremmo passere i camion: “Se per la Orte-Mestre venisse scelto un tracciato contiguo alla Romea, l’autostrada entrerebbe dentro la Riserva, mangiandosi una porzione di territorio. Per questo il Wwf preferisce un’altra opzione, che passa per un miglioramento della viabilità esistente, vincolando il traffico merci lungo l’autostrada A13”. Per non perdere 500 ettari classificati come Zona umida d’importanza internazionale, protetta nell’ambito della convenzione Ramsar.
Fuori dall’Oasi ci sono le frecce. Quella verso sinistra dice “Venezia 31”. L’altra indica “Ravenna 109”. Prima di Chioggia, però, abbandoniamo la Ss Romea diretti a Cavarzere. Seguiamo lo stesso percorso della Romea Commerciale. Che corre in mezzo ai campi. Fino a Cavarzere, estremo lembo meridionale della provincia di Venezia. L’architetto Carlo Costantini, tra gli animatori di AltroVe-Rete dei Comitati per un altro Veneto, ci dà appuntamento in piazza. A 50 metri dell’argine del fiume Adige. “Questo è un territorio marginale. Dov’è ancora forte il mito dell’autostrada che porta lavoro.
Per conto della Provincia di Venezia, nell’ambito del Piano territoriale di coordinamento provinciale, ho svolto uno studio sul collegamento tra la parte Sud del territorio e Ferrara e Rovigo. Non abbiamo bisogno di quest’autostrada”. Che passa troppo vicino alle case, a meno di un chilometro in linea d’aria. E che -spiega Costantini- “verrebbe costruita tutta in rilevato. Hai visto quanti corsi d’acqua più o meno grandi? Siamo in una zona mediamente sotto il livello del mare, il cui equilibrio idraulico dipende dalle pompe. L’autostrada sarebbe ‘una frattura’, e lo studio d’impatto ambientale non ne tiene conto”. Al bar di Cavarzere ci raggiunge Don Giuseppe Mazzocco. Regge la parrocchia “Cristo divin lavoratore” di Adria, a una decina di chilometri. Don Giuseppe è parte della Rete dei comitati per l’ambiente del Polesine. Ci spostiamo nei pressi di Adria, su un cavalcavia. “Questo raccordo a quattro corsie è stato costruito dieci anni fa. Adesso arriva un nuovo progetto, che dovrebbe correre in parallelo e che raddoppierà l’impatto ambientale. Qui sotto -racconta Don Giuseppe- passa il Canalbianco, il canale navigabile che da Mantova raggiunge il mare”. E che sembra suggerire anche un’alternativa per spostare le merci. Peccato la vedano solo i comitati: Adria è il punto in cui la Orte-Mestre dovrebbe incrociare la Nogara-Mare, un’autostrada da due miliardi di euro che dovrebbe tagliare in diagonale il Polesine, da Legnago in provincia di Verona. E a Ravenna il vicesindaco Giannantonio Mingozzi giustifica l’autostrada perché collegherebbe “il porto di Venezia a quello di Ravenna. E non parlerei di Orte-Mestre, ma di Cesena-Ravenna-Ferrara: sarebbe già una conquista, un’alternativa all’attuale Romea”. È la logica dei “lotti funzionali”, partire per partire: “Una tratta che il Cipe non disdegna -spiega Mingozzi-. Se non hai investimenti pubblici un’autostrada del genere te la sogni, anche se si mettono insieme tutti i privati che han fatto autostrade in Italia”. E Mingozzi fa il nome di Vito Bonsignore, eurodeputato Pdl. Mingozzi lo ha incontrato qualche volta a Ravenna, Bonsignore, che è azionista di Management Engineering Consulting (Mec) spa, una delle società che figurano nel gruppo dei promotori della Orte-Mestre. Tra le altre c’è anche Banca Carige, di cui Bonsignore controlla l’1,01% attraverso Gefip Holding s.a. che, si legge sul sito della Consob, è “soggetta al controllo del sig. Vito Bonsignore indirettamente, attraverso la società Mec spa”.
“Il progetto è ormai in dirittura d’arrivo e a breve, spero nell’arco di un paio di mesi, ci daranno l’ok definitivo -spiegava il presidente di Carige, Giovanni Berneschi, a Il Sole 24 Ore, nel febbraio 2011-. Ottenuto il disco verde, valuteremo come procedere: se costruire direttamente con la nostra partecipata Ili Autostrade o se cedere il progetto a un soggetto interessato che, a quel punto, sarà vincolato a realizzare comunque l’opera”. Dagli uffici dell’Anas, a Roma, fanno sapere che non è proprio così: “Il promotore non è l’aggiudicatario. Sulla base di quella proposta, una volta ottenuto l’ok del Cipe, si farà una gara”. Torniamo in Romagna: a Nord di Ravenna, l’autostrada attraverserà la Valle del Mezzano, “un’area bonificata per dar lavoro alle persone. Cosa giusta o sbagliata, è stata fatta, e questo sito è rimasto un’area molto speciale” racconta Marino Rizzati, di Legambiente Comacchio. È una Zps, zona di protezione speciale. “Il più grande vuoto d’Europa” la definisce Valter Zago, già presidente del Parco del Delta del Po. Un’area, cioè, completamente non antropizzata. “È un’isola dove gli agricoltori possono far crescere alberi da frutto, che poi vengono trapiantati nei campi. Nella Valle del Mezzano non vengono intaccati da certi batteri” riprende Rizzati. Poco importa. La Orte-Mestre passerà giusto in mezzo.

Oltre Cesena, l’autostrada non è tutta nuova. Prende il posto della E55, la superstrada a due corsia per senso di marcia che collega la Romagna all’A1. Succede, però, che l’arteria dovrà essere adeguata. Oggi misura tra i 15 e i 17 metri, e passerà a una larghezza tra i 20 e i 25. Numeri che pesano come il cemento armato dei viadotti su cui poggia arrampicandosi verso la Toscana: “Tra gli sponsor del progetto nel cesenate c’è Davide Trevisani -racconta Davide Fabbri, già consigliere comunale dei Verdi a Cesena e oggi del Forum ‘Salviamo il paesaggio’-, per trent’anni al vertice della Cassa di risparmio di Cesena e della omologa fondazione, che con il Gruppo Trevi realizza gallerie e viadotti”.

Tornati in pianura, il problema principale nel tratto umbro della E55 è la variante di Collestrada, alle porte di Perugia. E non solo perché attraversare l’ennesima area protetta. Basta un nome: “Ikea -racconta Alessandra Paciotto, presidente di Legambiente Umbria- aveva scelto un’area agricola ‘a ridosso’ del tracciato in variante per aprire un nuovo centro commerciale”. Anche in Umbria vince l’equazione asfalto uguale cemento. Per questo è meglio frenare. Restiamo in statale o in superstrada, dove il limite non è ai 130 chilometri all’ora.

Un po' penalizzata dall'approccio limitatamente ricreativo, comunque buona l'idea di rivitalizzare il rapporto organico fra mobilità e territorio. Corriere della Sera, 2 marzo 2013 (f.b.)

Mentre l'alta velocità impazza nel mondo, chi si ricorda più delle vecchie ferrovie locali, quelle dove sovrana era la bassa velocità? Oggi nella penisola sono seimila i chilometri di binari dimenticati. Alcune di quelle linee non hanno mai visto il passaggio di un treno, altre sono state attive solo per pochi anni, altre ancora hanno prestato a lungo il loro dignitoso servizio prima di essere messe in pensione. Ai binari del tempo perduto è dedicata la sesta Giornata delle Ferrovie dimenticate, che si celebra domani in tutta Italia. A promuoverla Co.Mo.Do., una confederazione di associazioni che si battono per la mobilità alternativa, il tempo libero e l'outdoor.

Il reticolo ferroviario dismesso, quasi sempre con la logica poco lungimirante di favorire il mezzo privato a motore, è ormai entrato a far parte del paesaggio, disegnandovi, viadotti, gallerie, binari, caselli, stazioni. Se meno probabile, soprattutto in tempi di crisi, appare la riapertura della rete secondaria, che potrebbe costituire l'indispensabile complemento dell'alta velocità, le associazioni aderenti a Co.Mo.Do., fra cui il Touring, il Club Alpino, Legambiente, Italia nostra e Wwf, chiedono la difesa e la valorizzazione delle linee dismesse. La ferrovia costituisce infatti un'importante testimonianza dell'impegno infrastrutturale per l'unificazione nazionale seguito al 1861. Si può dire che il Paese si sia unificato viaggiando in treno e tanto spesso lo abbia fatto proprio lungo quelle sonnolente linee locali, con i riti di incontri, la contemplazione del paesaggio, la vita di provincia descritti da tanti scrittori, a partire dal Cassola di Ferrovia locale. Una locomotiva, un vecchio viadotto, un binario abbandonato diventano così i segni di quella cultura materiale che ha accompagnato la vita della gente e che non deve andare perduta.
Con un paziente lavoro di schedatura, le decine di associazioni che afferiscono a Co.Mo.Do hanno censito questi manufatti, che si trovano di solito in zone periferiche risparmiate dal degrado ambientale che ha infierito sui centri maggiori, talvolta perfino all'interno di riserve naturali o di aree protette. Queste linee dismesse possono oggi trasformarsi in percorsi ciclistici o in itinerari escursionistici, consentendo di percorrere il paesaggio lontano dalle grandi arterie, immersi in una pace d'altri tempi, incontrando via via le testimonianze di una civiltà del trasporto che non c'è più. E proprio la loro collocazione periferica le rende occasioni di rilancio e occupazione per realtà spesso tagliate fuori dai flussi del turismo tradizionale.
Fra le proposte messe a punto dalle varie associazioni che aderiscono a Co.Mo.Do. per questa sesta Giornata delle Ferrovie dimenticate c'è solo l'imbarazzo della scelta. Vaca Mora era il nome con cui il popolo indicava il trenino a vapore, che si arrampicava dalla pianura veneta fino sull'Altipiano di Asiago. Il tratto tra le stazioni di Cogollo e di Campiello della Rocchette-Asiago era provvisto di cremagliera per far superare al treno un dislivello di quasi 700 metri in poco più di 6 chilometri. Si viaggiava a dieci chilometri all'ora. Oggi nei tratti Rocchette-Arsiero e Campiello-Asiago sull'antico sedime ferroviario sono state ricavate delle piste ciclabili, su cui domani si avventureranno gli escursionisti. Si sale fra paesaggi di montagna, mentre la vista si allarga sulla pianura sottostante. Sulla linea si disputa la Cicloturistica Vaca Mora, un tuffo nel passato, che quest'anno è programmata per il 7-8 settembre.
In Umbria è di scena la Spoleto-Norcia, chiusa nel 1968, che metteva in collegamento la Roma-Ancona con la Valnerina. La chiamavano «la ferrovia svizzera», perché superava i contrafforti appenninici con vertiginosi tratti elicoidali, arditi ponti e gallerie. L'escursione di domani si svolge lungo la prima parte del sedime in fase di recupero, visitando la galleria di Caprareccia, la più lunga del percorso. In Sicilia ancora la mountain bike è protagonista sulla ex-tratta a scartamento ridotto Ciccio Pecora, che va da Giarratana a Chiaramonte Gulfi. Siamo in una zona tra le più remote dell'isola e il percorso si svolge con frequenti passaggi in galleria. Le grandi città sono lontane, il mare si staglia all'orizzonte e i silenzi sono quelli verghiani di Jeli il pastore.

Piccola vittoria locale oppure “effetto Shard” che potrebbe estendersi a macchia d'olio su progetti e norme urbanistiche? Un caso da non perdere di vista. Corriere della Sera Milano, 24 febbraio 2013, postilla (f.b.)

Bocciati i parcheggi per il futuro Pala Armani. Tutti, quelli per vip, sportivi, giornalisti, all'interno dell'impianto sottoposto a ricostruzione, e i microparcheggi ipotizzati attorno all'impianto a macchia di leopardo. La zona 8 ha votato all'unanimità la richiesta del Comune di mettere mano al progetto di MilanoSport. C'è da chiedersi come potrà mai il nuovo palazzetto dello sport ottenere senza posti auto l'omologazione per gare di una certa rilevanza (Gold). Il regolamento della federazione di pallacanestro, infatti, richiede parcheggi e percorsi separati per le varie categorie.

L'assessore allo Sport, Chiara Bisconti, che domani incontrerà i cittadini, chiarisce: «Il lavoro non si ferma, ci sono ragioni giuste per rimodernare il palazzetto. Ma il progetto va totalmente cambiato. Ho già fatto una riunione. Non ci saranno macchine nel Lido. Sarà rivisto. Mai nella vita metterò le auto dentro ai vialetti. Iniziamo a studiare ipotesi alternative». Nuovo progetto ma non si torna indietro. Nonostante i residenti propongano «una piscina nelle fondamenta del palazzetto smantellato, come probabilmente era in origine».

Di vero c'è che «il progetto non era mai stato visto in zona e pare neppure dal Comune», spiegano i cittadini dei quartieri Fiera e Qt8. A metterli sul chi vive era stato un blitz datato 27 dicembre 2011. Quando il verde di piazza Stuparich era stato recintato e raso al suolo. «In tre giorni, senza cartelli né spiegazioni, era stato predisposto il cantiere per realizzare una maxi rotonda in piazza Stuparich, hanno abbattuto dodici alberi ad alto fusto, sradicato arbusti, tolto panchine, decorticato terreno coltivo — spiega Alda Damiani —. Tre mesi fa, poi, i lavori sono stati sospesi». E si scopre così che c'è una porzione di cantiere destinata alla maxi rotonda «contesa» dal vicino cantiere del Palalido.

Un fazzolettino di terra che ospita cedri del Libano maestosi che nel progetto viabilistico del Comune ospiterebbe percorsi ciclopedonali ma che è incompatibile con l'altro progetto di studio della viabilità annesso a quello del nuovo Palalido che indica questa stessa area come «in fase di acquisizione». Insomma, un pasticciaccio. Enrico Fedrighini, il verde che ha portato in zona 8 la proposta di delibera contro i grandi e piccoli nuovi parcheggi al Palalido, spiega: «I posti per vip richiedono la demolizione di camerini, spogliatoi e della terrazza della piscina. Il nuovo Palalido è nato male e progettato peggio».

Postilla

Quello dell'accessibilità in auto alle funzioni di qualche rilevanza economica è un tema che, almeno dagli anni '60 del '900, ha finito per determinare localizzazioni, trasformazioni di interi quartieri, processi di degrado incredibili o di dispersione insediativa, di fronte al dogma del veicolo privato come motore immobile dell'organizzazione del territorio. Poi a qualcuno, di fronte al cappio di svincoli piazzali bretelle deserti d'asfalto magari vuoti per settimane, è venuto in mente di gridare: il re è nudo! Ovvero, che accessibilità non significa diritto a andarci con le sacre quattro ruote di famiglia.. Adesso vediamo se, come per l'altro diritto di famiglia, la costituzione formale (le regole) saprà incorporare in fretta l'innovazione: a questo servono i casi singoli locali, a diventare un caso (f.b.)

Davvero surreale a modo suo, che quasi tutta la politica tanto attenta ai “mercati” sia così praticamente sorda a una palese indicazione di mercato. La Repubblica, 23 febbraio 2013, postilla (f.b.)

«Ogni volta che vedo un adulto in bicicletta penso che per il genere umano ci sia ancora speranza », diceva lo scrittore inglese Herbert George Wells. E forse un po’ di speranza c’è davvero. In bilico tra hobby e sport, è adatta a tutte le età, a ogni livello fisico e si usa con la frequenza che si preferisce. Ecologica, pratica e soprattutto economica. Sarà per il prezzo impossibile della benzina, sarà per un maggiore rispetto verso madre natura, fatto sta la bici ha superato l’auto. Stando ai dati del Censis, infatti, nel 2011 sono state 1.748.143 le vetture immatricolate, contro le 1.750.000 bici vendute.

Uno scarto minimo, ma significativo. Qualcosa sta cambiando. C’è una rivoluzione positiva. Le più acquistate sono le “city bike”, perfette per gli spostamenti urbani. Soprattutto nella versione pieghevole. Facili, leggere (dai 9 ai 12,5 chili), le bici formato tascabile sono il must del momento. Le marche sono tante. Ma la sfida è tra le due regine del mercato, la Brompton e la Dahon, che solo da noi vende più di 2500 pezzi l’anno. Piacciono perché permettono di spostarsi rapidamente. Si aprono e chiudono in pochi gesti. E si trasportano in una comoda borsa. Entrano in macchina e sui mezzi pubblici, non ingombrano in ufficio o a casa. Una vera mania.

Ora però a fargli concorrenza c’è l’ultimo fenomeno su due ruote: la bici “a scatto fisso”. Arrivata in Italia dagli Stati Uniti, non ha freni al manubrio, si rallenta pedalando all’indietro. Tra i giovani è di gran tendenza perché costa poco, e per l’allettante possibilità di farsene una riciclando la vecchia bici abbandonata in cantina. Con un restyling creativo e i pezzi giusti, rinasce come mezzo di design dal fascino d’antan. Tutti in sella insomma. Si pedala per andare al lavoro, per fare una gita e spostarsi in città. I produttori ne fanno di elettriche, a tre ruote, dal look rétro, griffate dalle case di moda o hi-tech. Per farsi un’idea sulle ultime novità, c’è il Florence Bike Festival (Bicifi, 1-3 marzo, bicifi.it) alla Fortezza da Basso, un viaggio tra accessori, associazioni, volti e modelli, con la possibilità di provare le ultime bike su sentieri particolari. E il 2 marzo ci si mette alla prova con il Granfondo, su quella che sarà la pista dei Mondiali: si pedala dalla Fortezza, attraverso il centro storico e poi sulle colline fino a Radda in Chianti, per tornare a Firenze. Due i percorsi: 130 chilometri per i più allenati e 80 per gli altri.

Troppa fatica? Con il motto “Il ciclismo siamo noi”, in tv è appena nato Bike Channel (canale 237 di Sky) il primo canale dedicato agli appassionati di ciclismo. Trasmette filmati storici, gare, documentari e tendenze dal mondo della bicicletta. “Simbolo”, per dirla con Marc Augè, “di un futuro ecologico per la città di domani e di un’utopia urbana in grado di riconciliare la società con se stessa”. Peccato però che quel futuro non sia ancora arrivato. E che la carenza di piste ciclabili trasformi le città italiane in un inferno per i ciclisti.

Postilla

Ricapitoliamo: c'è una gigantesca spinta di consumo, che potrebbe spingere innovazione, stimolarla in tantissimi altri settori (le nuove tecnologie della cosiddetta smart city tanto per fare un esempio), ed è così solida da affrontare quotidianamente un vero e proprio inferno metropolitano, oltre che un piccolo salasso di portafoglio in termini di rapporto reale fra spesa e livello dei prodotti/servizi complessivi. E la domanda è: perché nessuno neppure prova a sfruttare questa spinta in modo intelligente, come fondamento di una politica urbana, che poi è politica tout court? Ormai lo dicono anche i costruttori che bisogna passare dalle grandi opere alla rete delle piccole, al coordinamento, insomma implicitamente dal progetto al piano. Invece, tutti zitti, a imprecare contro l'antipolitica che monta: non è che ci si perde qualcosa per strada? (f.b.)

Due notizie buone e una impressione di vaghezza: la mobilità è integrata o non è, e qui si interviene per sostituzione, non per integrazione. La Repubblica Milano, 26 gennaio 2013, postilla (f.b.)

UNA flotta di mini auto è pronta a sbarcare in città. Vetture agili da prelevare per la strada con una tessera - o addirittura con lo smartphone - e da restituire dove è più comodo, ideali per spostamenti brevi e senza l’obbligo di prenotazione e l’aggravio di abbonamenti. Il car sharing in tutta libertà, sul modello berlinese dove sono addirittura cinque gli operatori che si contendono questo business.
Il rilancio del servizio di auto in condivisione passerà (anche) dai privati. È questione di settimane e il mercato delle auto in condivisione cittadino si aprirà ad altre società: probabilmente con un avviso pubblico, da parte di Palazzo Marino, con facilitazioni per chi è interessato a investire in città. E di candidati ce ne sono diversi. Car2Go, del gruppo Daimler- Mercedes, ha già iniziato a farsi promozione: con l’anno nuovo sono spuntati un “ufficio dedicato” nel concessionario Smart di piazza XXIV Maggio - su una vetrina campeggia fin d’ora la scritta “Registrati qui” e alcune city car esposte per strada. In più, corre voce che centinaia di mini auto siano già state trasferite nell’hinterland. Potrebbero essere interessate anche altre società, come la Zip Car, e giovani universitari imprenditori ideatori di una startup.

Comunque andrà, sarà una decisione che cambierà radicalmente questo servizio. Oggi in città c’è GuidaMi, gestito da Atm, che funziona pur con il limite della restituzione dell’auto nello stesso stallo dove la si è prelevata e la prenotazione obbligatoria. Gli abbonati sono saliti a 5.500, quasi il doppio dei 3mila del 2010 (anche se le auto restano 130). Secondo Amat, l’agenzia per la mobilità del Comune, la richiesta in città è tuttavia ancora più alta: 16mila i clienti potenziali, per i quali servirebbe una flotta di circa 600 auto. Già a ottobre l’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran, si era espresso a favore della liberalizzazione di questa fetta di mercato per potenziare il servizio. Una strada che apre a uno o più operatori, con il rischio di concorrenza in casa (in Atm il primo azionista è proprio Palazzo Marino) anche se, per gli esperti, le due tipologie di car sharing avrebbero utenti diversi: GuidaMi, che prevede un abbonamento di 120 euro e un costo orario, si offre più come un sostituto dell’auto privata, mentre questo nuovo servizio sarebbe più complementare, per utilizzi brevi e costi vantaggiosi, in media 0,30 centesimi al minuto.

Un costo che, soprattutto in caso di traffico e di tragitto breve, sarebbe competitivo rispetto al taxi. «Per noi — ragiona Salvatore Luca, tassista dell’Unione artigiani — potrebbe essere in effetti una concorrenza, anche se credo che i nostri clienti non avranno voglia di cercare parcheggio. Certo, ai cittadini ruberebbero altri posteggi. Sarebbe un guaio per noi, invece, se anche le nuove auto dei privati, come succede già con le auto GuidaMi, potessero viaggiare sulle corsie preferenziali».
Guardando alle esperienze europee, i nuovi operatori in genere pagano all’amministrazione un forfait per la sosta delle auto sulla strada, possibile su strisce gialle e blu. Nel caso milanese, questa cifra comprenderebbe anche la quota di Area C: le nuove microcar potranno così girare libere in tutta la città.

Postilla
La cosa interessante è che entra in campo il mercato. La cosa discutibile è che entra in campo il mercato, coi suoi criteri economici. Interessante è che, ad esempio dopo lo scandalo dell'autonoleggio ciellino lombardo, e dei suoi appalti truccati a danno del resto del mondo (vedi il pezzo di Roberto Rotondo riportato alla fine di questa Postilla) una sana concorrenza fra vari operatori nel campo dei nuovi segmenti della mobilità metropolitana faccia capire al consumatore che si aprono davvero nuove prospettive. Sarebbe davvero ora di iniziare ad uscire dalle sole chiacchiere e azioni dimostrative, in materia di automobilismo (o di ciclismo) urbano e iniziare con le pratiche, magari tallonate col fiato sul collo da ricerche interdisciplinari sul campo e politiche pubbliche di sostegno e stimolo. Ma è discutibile che, come ci spiega l'articolo, si continui a ragionare da un lato sul solo mercato “denso” del nucleo metropolitano centrale, e lo si faccia puntando sul medesimo target degli utenti di taxi, ovvero evitando quelle fasce di potenziali utenti davvero innovativi che sarebbero i residenti di periferia extraurbana e/o attualmente proprietari di vetture usate prevalentemente per spostamenti interni. Dal punto di vista economico succede un po' come con la grande distribuzione: si distruggono posti di lavoro da una parte, e se ne creano di innovativi (ma un po' di meno) dall'altra. Dal punto di vista ambientale, territoriale, della ricerca e sperimentazione di nuovi modelli, l'avanzamento è minimo, se invece della fila di taxi trovo quella delle automobiline da guidare da solo. Si spera che emerga presto, se esiste, la serie delle innovazioni di processo proposta dal Comune, e magari in prospettiva da condividere almeno con le amministrazioni di prima fascia metropolitana, perché sarà una meraviglia del mercato, ma è davvero una sciocchezza, dover mollare l'automobilina in mezzo alla strada, magari sotto la pioggia, solo perché da quel punto in poi comanda un altro Sindaco … (f.b.)

Roberto Rotondo, L'auto elettrica non s'accende: il «flop» delle eco-utilitarie, Corriere della Sera Lombardia, 26 gennaio 2013
MILANO — È gestito da una società mista pubblico-privato, e ha visto in due anni migliaia di euro di investimenti. Ma il car sharing regionale, funziona oppure no? La domanda torna alla ribalta oggi, dopo l'arresto di Massimo Vanzulli, 49 anni, amministratore delegato della Sems, l'azienda nell'orbita delle Fnm regionali, che gestisce appunto il servizio di auto ecologica «E Vai», piccole automobili elettriche in grado di affrontare, senza inquinare, le insidie del traffico. In realtà, le vicende salite all'onore della cronaca giudiziaria sono del tutto separate. Nell'inchiesta milanese è stata coinvolta soltanto la società Kaleidos di Saronno (legata alla Compagnia delle Opere, di cui Vanzulli è manager), che però partecipa al 31,5 per cento con Fnm alla società del car sharing.

E dunque, in molti si chiedono se la sua presenza in una ditta che investe soldi pubblici sia giustificata. La risposta non è tuttavia semplice. Innanzitutto, la Sems non ha fornito al Corriere, che li aveva richiesti, i dati del servizio del car sharing «E Vai». Ma abbiamo comunque avuto modo di conoscerli grazie ad un'altra fonte. L'impressione di un esperto del settore è che il servizio sia ancora, quanto meno, sottoutilizzato.

Vediamo i numeri. Il car sharing parte nel dicembre del 2010. Qualche mese dopo, nell'agosto del 2011, ci sono 1.048 abbonamenti e vengono effettuati 108 noleggi singoli in tutta la Lombardia (sul territorio regionale vivono oggi poco più di 10 milioni di abitanti). Siamo agli albori del progetto, sono cifre ancora piccole. Ma a dicembre gli abbonamenti sono 3.048, e i noleggi 237. Nel corso del 2012 gli abbonamenti passano dai 3.210 di gennaio, a 3.615 ad aprile e poi iniziano a salire in modo esponenziale (anche gli utilizzi, che restano però intorno alla media del 10 per cento). Il bilancio di Sems pubblicato nel sito Internet delle Fnm indica che gli investimenti sono stati ingenti e vi è un utile ante imposte in leggera decrescita, 474 mila euro, rispetto ai 494 mila euro del primo semestre 2011: «Nel corso del primo semestre 2012 il servizio è stato esteso presso le stazioni di Lodi e Legnano, e sono stati acquisiti ulteriori 14 veicoli con un investimento complessivo di 343 mila euro».

L'esperto di mobilità sostenibile è Andrea Poggio, 56 anni, vicepresidente nazionale di Legambiente. Osserva che i risultati non sono ancora soddisfacenti: «Oggi il servizio è sottoutilizzato — afferma — e può stare in piedi solo perché c'è un forte investimento iniziale. Considerando che la Sems, fino a un mese fa, aveva 37 parcheggi in Lombardia, dai dati emerge che gli utilizzi sono inferiori a uno al giorno per parcheggio. Non è un buon risultato, ma può certamente migliorare, tenendo anche conto che l'utenza non è abituata alla presenza di una nuova opportunità di mobilità. La sostenibilità futura dipenderà dagli investimenti. Che in questo caso si può ipotizzare siano prevalentemente a carico della società pubblica».

Nella mobilità, come in ogni altro campo, l'ideologia contabile egemone ci nasconde le esternalità scomode: parliamone, invece. Corriere della Sera Milano, 15 gennaio 2013 (f.b.)

Ci provarono a Bologna quarant'anni fa; fu un grande successo, ma dopo tre anni si dovette fare marcia indietro per problemi di bilancio. Sembra un'altra epoca, un altro mondo. E invece nel mondo alcune città stanno ripercorrendo quella strada. Ultima città che, per combattere l'inquinamento e scoraggiare i cittadini a usare l'auto, ha introdotto la gratuità sul trasporto pubblico è stata la capitale dell'Estonia, Tallinn, dove, dall'inizio dell'anno si viaggia gratis su bus e tram. Immediatamente si è verificato un netto aumento degli utenti tanto che il sindaco ha dovuto annunciare l'aumento delle corse per far fronte all'accresciuta domanda.
Tallinn ha poco più di 400 mila residenti, circa un terzo di quelli di Milano, che oltretutto deve fare i conti con un pesante pendolarismo quotidiano che incide pesantemente sul trasporto pubblico locale.

Ma il caso Tallinn non deve essere rimosso solo per questo. Il concetto di funzione pubblica è molto poco di moda negli ultimi anni; la privatizzazione di molti servizi pubblici (troppo spesso si confonde la funzione con il servizio, e cioè la modalità con cui l'amministrazione pubblica declina la funzione) è ormai il main stream del nostro Paese, alle prese con i vincoli di una Europa che rappresenta l'8% della popolazione mondiale, produce il 25% del Pil globale e assorbe il 50% delle spese sociali complessive: 8-25-50, i tre numeri che non lasciano presagire una inversione di tendenza, a meno che non si ridefiniscano le priorità. Cosa significa ridefinire le priorità? Significa quantificare le esternalità sociali e ambientali legate alle modalità di esercizio delle funzioni pubbliche.

Parliamo di trasporti; investire miliardi di euro per nuove autostrade, che devono ripagare gli investimenti per la loro realizzazione, significa rinunciare ad altrettanti miliardi che potrebbero coprire il bisogno di mobilità della comunità. Se si calcolassero non solo i costi di realizzazione, ma anche le conseguenze, le scelte potrebbero cambiare. Nuovo traffico privato implica necessità di parcheggi, nuovo inquinamento, nuova urbanizzazione e nuovo consumo di suolo, molto superiore al suolo necessario per costruire la nuova infrastruttura. Quanto risparmierebbe il Comune di Milano se il 30 per cento dei cittadini rinunciasse all'auto?

Andrebbe fatto uno studio, ma se si considerassero solo le variabili economiche probabilmente il prodotto interno della città diminuirebbe. Ma la qualità della vita aumenterebbe a dismisura.
Non è solo Tallinn, città relativamente piccola a sperimentare la logica del trasporto pubblico gratuito. A Sydney e a Melbourne, metropoli con il triplo degli abitanti di Milano sono attive alcune linee gratuite per gli spostamenti in centro. Ragionare, senza pregiudizi ma con analisi reali delle conseguenze di scelte innovative che vadano in questa direzione rappresenta un passo concreto per definire la città del futuro.

L'ennesimo spreco di risorse nel Mezzogiorno: la linea Napoli-Bari, megaprogetto caro al ministro per la coesione territoriale. Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2012 (m.p.g.)
È una questione di giustizia territoriale: se si buttano i soldi pubblici dalla finestra a nord, con le linea ferroviaria Torino-Lione (in Francia gli studiosi indipendenti non ridono meno di quelli italiani alla vista dei dati di quella linea), sembra giusto sprecarli anche al sud, con la nuova linea Napoli-Bari. Questo mega-progetto è caro al ministro Fabrizio Barca, certo attento ad attirare denari pubblici al mezzogiorno, ma, sembra, meno attento a verificare l’utilità delle opere a cui questi soldi sono dedicati. Lavoce.info pubblicò un anno fa una critica allo studio presentato da Fs per giustificare questo progetto. Fs non replicò mai. E perché mai avrebbe dovuto farlo, essendo Fs il soggetto economico destinato a ricevere quei soldi, e rischiando in più di evidenziare l’inconsistenza dell’analisi da lei stessa presentata, in palese e clamoroso conflitto di interessi?

Per i dettagli tecnici, si rimanda ovviamente a lavoce.info. Ci si limita a riassumere qui gli aspetti più clamorosi e intuitivi di quella critica. Lo studio Fs riguarda la fattibilità socioeconomica dell’opera (“analisi costi-benefici per la collettività”). Non sono stati presi in esame gli aspetti finanziari dell’opera (soldi che entrano ed escono per lo Stato), dato che si assume che non vi siano ritorni finanziari di sorta, e che dunque lo Stato paghi tutto, fino all’ultimo euro.

Dunque, il raddoppio ad Alta Capacità/Alta Velocità della linea Napoli-Bari, lunga 162,3 chilometri, aveva un costo previsto al momento dello studio di 4,052 miliardi di euro. Lo studio è stato fatto da RFI (sezione di FS che si occupa di infrastrutture) un paio di anni fa. Dallo studio Rfi l’opera risulta fattibile, con un beneficio netto per la collettività di 683 milioni di euro. L’analisi critica della Voce, basata su una tesi del Politecnico di Milano, portava il risultato netto per la collettività da +683 milioni di euro a -837 milioni. Cioè l’infrastruttura determinerebbe una vistosa perdita netta di benessere sociale, uno straordinario spreco di soldi pubblici. Ma questo eliminando solo alcuni errori materiali riscontrabili (i principali legati ai costi ambientali), senza entrare in merito all’aspetto più spinoso della faccenda: le previsioni di traffico.

La nuova linea fa risparmiare, sulla base dei dati ufficiali, un’ora e un quarto ai treni passeggeri, e probabilmente un po’ di meno ai treni merci (il dato per questi non è specificato). L’esperienza e la letteratura internazionale evidenziano che se il tempo di viaggio dimezza, il traffico può anche raddoppiare. Ma qui siamo lontanissimi da quel valore! Il traffico previsto dallo studio FS arriva a quadruplicarsi con la nuova linea. Non vengono fornite spiegazioni sul modello usato per raggiungere quell’inverosimile valore. La sensazione è che si tratti di una lieve confusione tra l’offerta possibile (quanti treni ci possono passare), e la domanda (cosa verosimilmente ci passerà).

Ovviamente, se nella revisione dei calcoli sopra presentata si fosse assunta una domanda “verosimile” sulla nuova linea, i benefici sociali prima citati sarebbero ulteriormente crollati, a circa un quarto di quelli stimati (e da noi assunti comunque come veri per essere prudenti nel criticare uno studio altrui).

Uno degli argomenti in difesa delle grandi opere è il seguente: intanto facciamole, poi la domanda arriverà. Illuminante a questo proposito è la linea AV Milano-Torino, costata 8 miliardi, con una capacità di 330 treni al giorno: dopo quattro anni, ne passano 22. Meglio non parlare poi degli aspetti occupazionali: per euro pubblico speso, queste opere occupano pochissima gente.

Ma nei due anni trascorsi da quell’analisi qualcosa è cresciuto: non la domanda di traffico, purtroppo, ma i costi previsti, che sono passati da 4 a 7 miliardi. E parliamo solo di previsioni, i consuntivi tendono ad essere un po’ più alti. Le popolazioni locali qui non protestano, al contrario che nella Valsusa: la situazione economica e sociale è tale che qualsiasi euro pubblico è il benvenuto, e il settore delle opere civili a sud di Roma è spesso controllato da soggetti sociali che non è prudente contrastare, come dice la stessa Corte dei Conti.

Meglio non continuare a chiedere all’oste se il vino è buono.

Ambiguità, perplessità e balle dei governi: ciò che continuano a chiamare TAV. Avanti a tutti i costi pur di far guadagnare i ricchi e impoverire i già poveri. Il Fatto quotidiano, 5 dicembre 2012

I presidenti Mario Monti e François Hollande, nel vertice francese di due giorni fa, hanno fermamente deciso che la controversa linea Torino-Lione per le merci (non alta velocità, il nome Tav è una delle tante cose inesatte), s’ha da fare e si farà. Questa dichiarazione è talmente solida, che è stata già fatta un gran numero di volte negli anni passati, senza che sia successo poi molto. Soprattutto in termini di soldi veri allocati. Ma si è deciso di raddoppiare il tunnel autostradale, pare.
Molte perplessità sono legittime. I tempi: Hollande sembra che abbia chiesto di posporre la data di avvio dei lavori veri, già spostata al 2014.

Le ragioni sono una complicata revisione delle priorità dei progetti francesi ma anche severi vincoli di bilancio e crescenti perplessità interne, espresse in modo molto duro dalla Corte dei conti e dai Verdi, parte del suo governo. I lavori iniziati finora dai due versanti della Alpi sono solo tunnel esplorativi poco costosi (nonostante si tenti di affermare cose diverse).
I due governi poi “auspicano” che l’Unione europea paghi il 40 per cento degli 8,5 miliardi di euro che costa l’opera. Cioè 3,5 miliardi. Il ministro dello Sviluppo Corrado Passera ha dichiarato, interrogato in proposito, che “non vuole nemmeno pensare che questi soldi non arrivino”.

Ma i Paesi europei sono 27, ognuno con diversi giocattoli tipo Tav, e il bilancio europeo è oggetto di un pesante conflitto mirante a una sua riduzione (ai Paesi anglosassoni non piace che i soldi europei vengano spesi in questo modo, e forse non hanno tutti i torti). Dell’opera poi non è noto alcun piano finanziario degno di questo nome. È noto invece che gli utenti sono così ansiosi di usare la ferrovia, che se devono pagare anche una piccola quota dei costi di investimento, scappano come lepri. Al contrario degli utenti delle autostrade. Ma i treni fanno bene all’ambiente, giusto? Quindi il dettaglio che debbano pagare tutto le casse pubbliche non è considerato un problema.
C’è anche un altro dettaglio che forse Hollande non ha potuto esplicitare: le efficientissime e sussidiatissime ferrovie francesi hanno perso il 40 per cento del loro traffico merci nell’ultimo decennio, la crisi attuale c’entra poco. Non certo un buon auspicio per il traffico prevedibile sullalinea Tav. Il sistema caro ai francesi della cosiddetta “autostrada viaggiante” (camion interi caricati sul treno), una delle motivazioni dell’opera in questione, si è dimostrata non solo un disastro economico, e non era difficile prevederlo, ma con aspetti funzionali problematici.

Vediamo i veri aspetti ambientali del progetto: dovrebbe togliere molti camion dalla strada e spostarli sulla ferrovia. Questo risultato è altamente ipotetico, sia per lo scarso interesse delle imprese a usare il treno, sia perché il traffico totale dei camion su quella direttrice è modesto, e non in crescita. Inoltre i benefici ambientali riguarderanno aree non certo densamente popolate. Le merci che arriveranno in treno a destinazione dovranno poi rispostarsi sui camion e il danno ambientale nelle aree abitate sarà comunque molto più alto. Perché ritenere prioritario questo progetto, rispetto ad accelerare il progresso tecnico sui veicoli? Un camion vecchio inquina dieci volte più di un camion nuovo. E accelerare il rinnovo delle flotte costa molto.
I danni ambientali del nuovo tunnel sono invece certi. Non quelli a valle (il progetto attuale prevede il solo tunnel di base, ed è quindi molto meno impattante del precedente da 23 miliardi). Ma le ricerche recenti, soprattutto svedesi, dimostrano che i cantieri delle opere ferroviarie generano emissioni di gas serra molto superiori a quanto si pensasse. Danni ambientali certi e rilevanti, dunque, a fronte di benefici ambientali dubbi.

Ultima perla: il secondo tunnel autostradale non dovrà fare la concorrenza al treno e perciò avrà tariffe tali da impedire che il traffico aumenti. Dunque servirà pochissimo, se mai riusciranno a mettere in pratica questa stravagante idea.
I costi dell’opera, anche grazie alle molte obiezioni tecniche fatte, sono stati parecchio ridotti. Non altrettanto i tempi: almeno dieci anni. Il rischio maggiore, molto realistico date le esperienze italiane precedenti nel settore, è che si incominci a costruirlo, magari sotto elezioni. Poi i soldi finiranno e l’opera si trascinerà per ere geologiche. Senza che ovviamente alcuno alcuno risponda dell’ulteriore spreco di denaro pubblico che questo comporterebbe.

© 2025 Eddyburg