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Sarà vero? Sarebbe bello se qualche barlume di ragionevolezza cominciasse ad affacciarsi là dove si decide. Ma l'affare è molto più grosso di quella Grande (e nefasta) opera. Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2015, con postilla

Mentre Matteo Renzi prepara il funerale dell’Imu sulla prima casa, il suo ex braccio destro Graziano Delrio, nella attuale reincarnazione di ministro delle Infrastrutture, ha già celebrato le solenni esequie dellaOrte-Mestre, contanto di petali di asfalto lanciati dall’elicottero. Il promotore della più grande delle grandi opere, Vito Bonsignore, ancora non ci crede. Dopo dodici anni di pressioni lobbistiche, il sogno di costruire la grande arteria da 10 miliardi è definitivamente svanito.

Delrio ha deciso infatti di non riproporre al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) il progetto dopo che per due volte la Corte dei Conti ha ricusato le delibere del Cipe, sponsorizzate nel 2013 e nel 2014 dall’ex ministro Maurizio Lupi e dal ministro ombra Ercole Incalza. Le delibere, senza il visto della Corte dei Conti, non sono perfezionate, quindi è come se non fossero mai esistite. La decisione di Delrio è un segnale inquietante per i tifosi del project financing, la geniale idea di Incalza: l’opera pubblica autofinanziata dal privato che poi si ripaga dei pedaggi. Le recenti traversie della Brebemi, la Brescia-Bergamo-Brescia tutta privata che a un anno dall’inaugurazione l Stato ha dovuto rifinanziare, hanno dimostrato al team di Delrio che il project financing all’italiana è un imbroglio. Nei contratti c’è sempre la clausola miracolosa: se per caso i conti non tornassero, toccherà allo Stato ripianare. Insomma, i guadagni ai privati, le perdite ai contribuenti. Una costosa usanza a cui Delrio mette fine almeno nel caso della Orte-Mestre grazie al privilegio di aver potuto leggere il piano economico-finanziario presentato da Bonsignore, che è segretato per legge ma che verosimilmente contiene la previsione di ampie garanzie statali sui profitti privati.

La Orte-Mestre doveva costare 9,7 miliardi, di cui 7,8 messi dai privati e 1,9 dallo Stato. Date le condizioni della casse pubbliche, nel 2013 il progetto fu cambiato, e il contributo statale convertito in esenzione fiscale per 9 miliardi complessivi per i futuri pedaggi. La Corte dei Conti bocciò la prima delibera Cipe. I magistrati fiorentini che indagavano su Incalza lo intercettarono al telefono con Bonsignore e altri mentre orchestrava una pressione sul Parlamento per un emendamento che sanasse la situazione. Con Bonsignore era in campo il presidente della società cui fa capo il progetto, Antonio Bargone, ex deputato Ds, ex sottosegretario ai Lavori pubblici, dalemiano di ferro nonché presidente della Sat, la società impegnata in un’altra autostrada che non si farà mai (la Livorno-Civitavecchia) ma da anni dà ugualmente lavoro e consulenze a numerosi soggetti. Per la Orte-Mestre Bonsignore e Bargone sono indagati a Firenze, l’accusa (seccamente respinta dagli interessati) è di aver promesso all’ingegnere Stefano Perotti la direzione dei lavori in cambio dei buoni uffici di Incalza per l’avanzamento dell’opera nella burocrazia.

La Orte-Mestre, per dirla renzianamente, rimarrà come museo delle grandi opere della Seconda repubblica nate sotto il cavolo della Legge Obiettivo, il mostro giuridico partorito nel 2002 da Silvio Berlusconi e dal suo ministro dei Lavori pubblici Pietro Lunardi. L’introduzione del general contractor e del project financing per velocizzare le opere contenendone i costi, ha fatto esplodere la spesa.

La Orte-Mestre è coeva della Legge Obiettivo. Se ne parlava da anni come della Nuova Romea, opera effettivamente necessaria che doveva collegare Mestre con la Romagna, propugnata da un’associazione presieduta da Pier Luigi Bersani. Nel 2003 Bonsignore, un centauro, politico e imprenditore insieme, si è preso tutto il banco lanciando il project financing per fare la Nuova Romea e rifare la Cesena-Orte,l’attuale E45.

In questi anni, passando dalla Dc all’Udc di Pierferdinando Casini, poi a Forza Italia e infine al Ncd di Angelino Alfano, ha finanziato tutto il finanziabile, compreso l’attuale sottosegretario Giuseppe Castiglione, oggi sotto inchiesta per il Cara di Mineo. Tutti soldi buttati. Ma almeno stavolta non li ha buttati lo Stato. Salvo penali e indennizzi che Bonsignore si appresta a chiedere.


postilla


Il problema non èBonsignore. I problemi (e gli scandali) che vengono allo scoperto sono due: (1)il carattere devastante dalla mega arteria proposta, combattuta da anni da unadelle più grandi e sapienti reti interregionali di comitati e associazioni (la Retenazionale stop Orte-Mestre), con centinaia di manifestazioni, convegni, analisie documenti; (2) la vera e propria truffa del “project financing
all’italiana",denunciato da anni da insigni studiosi della materia (più incalzante e lucido fra tutti Ivan Cicconi).

Una ricerca di interfaccia anche urbanistico, oltre che politico-amministrativo, tra il nucleo centrale e la cintura esterna, con qualche precisazione. La Repubblica Milano, 19 settembre 2015, postilla (f.b.)

Dice che si potrebbe partire da lì. «Dalle aree attorno alle grandi stazioni di testa della metropolitana ». Come quelle di Molino Dorino sulla linea Rossa, San Donato sulla Gialla e Cascina Gobba sulla Verde. Luoghi di passaggio e di interscambio, dove Milano incontra il suo hinterland e dove, tra vagoni del metrò, parcheggi di corrispondenza e fermate degli autobus, ogni giorno passano milioni di persone. Zone che sono delle piccole terre di nessuno, dove passare e allontarsi in fretta. Ma che potrebbero invece dare alle persone servizi utili ad agevolare la loro vita che corre in fretta.

«Territori che - spiega l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci - richiederebbero uno sforzo congiunto per riuscire a ripensarli. Perché oggi sono spesso zone non valorizzate, tra bancarelle, situazioni un po’ improvvisate, realtà che chiudono. E, invece, proprio per la loro grande accessibilità potrebbero diventare confortevoli, con tutti quei servizi e quelle attività di pregio utili a chi è di passaggio». Solo un esempio di quello che Palazzo Marino vuole riuscire a fare insieme con gli altri Comuni della prima fascia: curare i problemi di quei pezzi di città di confine che, spesso, rimangono sospesi nel nulla.

La riunione è stata convocata per martedì. E l’invito è stato raccolto da tutti i 21 sindaci dei centri che abbracciano la città, ma anche dal vicesindaco della Città metropolitana Eugenio Comincini e dai responsabili del Pim, il centro studi per la programmazione della grande Milano. L’idea: iniziare a costruire insieme, partendo dalle questioni urbanistiche, una sorta di “piano di cintura”. E cominciare anche a fare qualche prova tecnica di Città metropolitana. «Finora - continua Balducci – si è parlato della nuova istituzione più per le questioni burocratiche di statuto, per le difficoltà, per il bilancio. Mi sembra importante, invece, ragionare con i sindaci di tutto quello che riguarda confini amministrativi che non hanno più senso di esistere. E trasformare i problemi in opportunità».

Il modello è quello di Parigi che, in passato, ha fatto partire una collaborazione con i comuni vicini e messo a punto un piano per ridisegnare i propri margini. E, ancora, ha sfruttato la potenzialità delle zone attorno alle stazioni capolinea per riempirle di vita e servizi per i pendolari che, magari, trovano soltanto in quel modo l’occasione per sbrigare commissioni o fare la spesa senza doversi ritagliare spazi in orari impossibili all’interno di giornate già convulse. Anche a Milano sono queste di aree di confine a soffrire spesso «di degrado», o anche soltanto di «poca attenzione o cura», dice Balducci. E il motivo, a volte, è banale: nessuno dei Comuni che le condivide tende ad accendere una luce particolare su quei margini estremi. E, invece, Palazzo Marino è convinto che si possa invertire il rapporto: trasformare luoghi lontani dal punto di vista geografico in nuovi piccoli centri. Per l’assessore la riunione potrebbe servire ad avviare una doppia strategia, con un fronte più concreto e uno di programmazione futura: «Potremmo dare insieme un contributo alla redazione del piano strategico metropolitano segnalando problemi e opportunità. Ma anche studiare una serie di progetti puntuali su singole difficoltà».

Oltre alle zone attorno alle stazioni del metrò, gli esempi di collaborazione potrebbero riguardare il verde la lotta al degrado, l’arredo urbano e le piste ciclabili, e altre forme di connessione. Guardando Parigi, certo, ma anche un precedente più nostrano. «Se ci pensiamo il Parco Nord è un bell’esempio di una forma di collaborazione, che a partire dalle periferie di diversi Comuni, ha trasformato terre di nessuno in un magnifico spazio verde. Dovremmo lavorare in questa direzione».

postilla

Senz'altro positivo che si parta per una migliore integrazione, spaziale e non, fra le circoscrizioni amministrative municipali della città metropolitana, da quei nodi fondamentali che sono le stazioni. Vero e proprio simbolo e sostanza tangibile di separazione, e nel caso specifico (ma succede in vario modo in tantissimi casi italiani analoghi e non solo) di sviluppo suburbano automobilistico. Accade cioè che anche nei casi migliori, ovvero là dove nel tempo si è cercata qualche forma di soluzione dell'accessibilità collettiva ai centri metropolitani, si siano puntualmente concepite queste stazioni solo come nodi di trasporto, secondo il modello della fermata al centro di un lago di parcheggi. Effetto finale, una specie di replica di quei film western alla Mezzogiorno di Fuoco, dove la stazione invece di essere luogo vitale e di incontro sublima al peggio tutte le caratteristiche di una fascia smilitarizzata, che separa anziché unire. La questione non è però solo urbanistica, come si intuisce subito, ma anche trasportistica e organizzativa: cosa metterci, in quei luoghi, a garantire vitalità e migliore svolgimento di quel nuovo ruolo, al tempo stesso garantendo la funzionalità originaria? Ovvero evitando l'effetto centro commerciale di certe grandi stazioni ferroviarie, e magari diventando una pura scusa per realizzare nuovi volumi edificati dietro il paravento di una fantomatica «centralità». Come dice il poeta nazionalpopolare, lo scopriremo solo vivendo, e ovviamente seguendo gli sviluppi di questo TOD all'italiana (f.b.)

Un incidente stradale grave, un «pirata» che fugge nella notte piovosa, questo almeno ci racconta la cronaca, ma non si accorge che il punto e il contesto di quell'incidente sono identici a un altro assai più noto e tragico di due anni fa: da allora non è stato fatto nulla, e tutti si sono dimenticati

La cronaca locale parrebbe quella triste ma prevedibile a cui siamo abituati da lustri: una bambina ansiosa di arrivare a casa, che cammina qualche passo più avanti della mamma e si arrischia a passare il semaforo quando verde non è ancora. In direzione perpendicolare l'auto che, visto il giallo, dà la prevedibile accelerata, e l'impatto è inevitabile: carambola della bambina sul cofano, e fuga nella notte del pirata, magari semplicemente scioccato e in attesa di ripresentarsi scortato da un legale. La notizia starebbe tutta qui, secondo il cronista, nella fuga e quindi nelle classiche indagini degli esperti sulle tracce lasciate dall'auto, di cui conosciamo marca e modello, magari controllo delle telecamere, testimonianze di qualche passante. La bambina se non altro, pur malconcia, non è in pericolo di vita, aspettiamo la conclusione dell'inchiesta ed eventuali sviluppi. Ma c'è un piccolo neo, quando il cronista sbaglia zona, pur azzeccando come da verbale i nomi delle vie, e così facendo fa suonare un campanello: quel posto non è vicinissimo a dove un paio d'anni fa è successa quella vera e propria strage?

a parte i pasticci grafici, a sinistra il primo, a destra quello di ieri

Rapida mente locale, e sì: il posto è a cento, centocinquanta metri da dove in una analoga sera di pioggia di un paio d'anni fa un'auto falciò mamma incinta e bambino che correvano verso la fermata dell'autobus, al terminale Famagosta della MM2 milanese. Ma c'è molto, molto di più, sfuggito al manierismo giornalistico così attento ad altri particolari, perché siamo esattamente nello stesso svincolo autostradale urbano, solo all'altra estremità, dove le auto arrivano in discesa da un sovrappasso anziché in salita da un sottopasso, e la via secondo l'uso toponomastico italiano cambia nome. Fossimo stati negli Usa, magari l'inghippo sarebbe stato più chiaro, svincolo tal dei tali sulla direttrice talaltra, e dinamica evidente. Uguali al caso di due anni fa, anche i particolari, che poi nell'immaginario collettivo possono fare la differenza: nazionalità delle vittime (non italiana, si sa che questi immigrati sono così mal adattati al nostro ambiente), e torto formale di chi sta attraversando in un punto dove non è consentito (l'uso obbligatorio del sottopasso pedonale nel primo caso, il semaforo ancora rosso nel secondo).

Ma quello svincolo autostradale sbattuto in mezzo a un quartiere urbano, o se vogliamo a fare da trait d'union fra due quartieri sulle sponde opposte del Naviglio, quello sembra apparire invece una presenza naturale, nulla da eccepire. Al massimo c'è la velocità eccessiva (che senza svincolo sarebbe meno probabile), o l'omissione di soccorso, a far notizia. Che salti invece all'occhio una lampante inadeguatezza della città costruita attorno all'auto, un'urbanistica che pare ispirata a Filippo Tommaso Marinetti, non lo nota nessuno. Sarebbe invece ora di cominciare a notarlo, invece di blaterare sciocchezze forcaiole sugli omicidi stradali, che intervengono (andrebbe sottolineato) dopo il fattaccio, anziché prevenirlo e evitarlo.

Qui il commento di due anni fa, alla Strage di via Famagosta - Di seguito l'articolo di cronaca locale

Simone Bianchin, «Accelera al semaforo travolge la ragazzina e scappa nella notte», la Repubblica Milano, 14 settembre 2015
Una Bmw di colore blu con un pirata della strada a bordo, che dopo aver investito una bambina è fuggito. L’incidente alle 21 di sabato in viale Giovanni da Cermenate, all’altezza del numero 19, zona Barona, all’incrocio con via Montegani, regolato da semafori.

La Bmw blu, che secondo alcuni testimoni oculari dell’incidente aveva accelerato in prossimità del semaforo all’incrocio per passare con il giallo prima che scattasse il rosso, probabilmente era da poco uscita dalla tangenziale. La bambina, cinese, che era accompagnata dalla mamma (rimasta poco più indietro rispetto a lei) per tornare a casa in via De Sanctis, stava attraversando in prossimità delle strisce pedonali. La macchina ha continuato la corsa diretta verso via Antonini «senza neanche una frenata», fa sapere la polizia locale intervenuta sul posto: «Non andava piano perché arrivava dalle autostrade, da un cavalcavia o da un sottopasso. I testimoni dicono che era in accelerazione e che poi ha pensato di andare via più veloce della luce».

Non escludendo che la persona che era alla guida possa aver cercato un avvocato e decida di presentarsi spontaneamente, è questa la macchina che la polizia locale sta cercando. L’auto, nell’impatto con il corpo della bambina centrata e caricata in parte sul cofano, ha perso per strada uno specchietto retrovisore che potrebbe risultare utilissimo alle indagini per risalire all’intestatario della vettura, senza contare che spesso, in aggiunta, le analisi dei materiali che rimangono sull’asfalto hanno consentito di ottenere anche il numero di telaio dell’auto.

Intanto, le immagini della Bmw i vigili le stanno cercando nei filmati di diverse telecamere, da quelle posizionate lungo le tangenziali a quelle ai caselli di uscita nella periferia sud, alle riprese delle telecamere di diverse banche. I vigili credono che i filmati possano essere utili anche per l’individuazione della targa, soprattutto le registrazioni di una telecamera comunale di via Montegani, da dove pare provenisse la Bmw.

La ragazzina, soccorsa dal 118, è stata trasportata in codice rosso all’Humanitas di Rozzano, dove le sono state riscontrate diverse fratture. Arrivata gravissima, era stata stabilizzata e ieri le sue condizioni destavano minor preoccupazione. Escluso il pericolo di vita, la prognosi riservata è stata sciolta e fissata in 90 giorni.

Un esempio che va oltre il valore locale, di obsolescenza non programmata della città costruita attorno alle automobili: investimenti che al mutare della situazione si rivelano una vera e propria tara per l'efficienza e l'abitabilità. La Repubblica Milano, 7 settembre 2015, con postilla (f.b.)

I collaudi e gli ultimi passaggi burocratici stanno per finire. Poi, tutto sarà pronto per il taglio del nastro. Il tunnel di Gattamelata aprirà entro la fine del mese. Nessuno immagina, però, feste e sfarzi per l’inaugurazione della galleria di quasi un chilometro che collega via De Gasperi a casa Milan e via Gattamelata. L’opera è la tra le più controverse che si siano realizzate in città, per il rapporto tra costi, altissimi e raddoppiati, e utilità, molto dubbia dato il trasloco della Fiera a Rho-Pero. Immaginato da Formentini, il tunnel degli sprechi è stato ereditato dalla giunta Pisapia. La zona è contrarissima.

I collaudi sono agli sgoccioli e la fase attuale, l’ultima, è quella della presa in carico e della gestione degli impianti. Il tunnel di Gattamelata è pronto per essere aperto. La data ufficiale ancora non c’è, si parla del 20 o del 27 settembre come possibili giornate di inaugurazione che comunque, assicurano tutti, avverrà entro fine mese.

Il taglio del nastro non sarà tra feste e sfarzi. La galleria lunga quasi un chilometro che collega via Alcide De Gasperi a via Gattamelata è l’opera più controversa che si sta ultimando in città, tra costi altissimi, e utilità molto dubbia. Pensata da Formentini, decisa da Albertini, portata avanti dalla Moratti ed ereditata da Pisapia: i lavori sono iniziati nel 2006, nonostante fosse già avvenuto il trasloco della Fiera a Rho-Pero e quindi drenare traffico dalla A4 e dalla A8 non fosse una priorità. Si pensò comunque che il tunnel avrebbe potuto alleggerire il nuovo quartiere di Citylife. E oggi, se si facesse davvero lo stadio del Milan al Portello (cosa davvero difficile), potrebbe comunque dare il suo contributo durante le partite. In ogni caso il tunnel — che ha Mm come stazione appaltante — è costato 115 milioni di soldi pubblici, quasi il doppio dei 62 iniziali.

Sbocco del tunnel Gattamelata in quartiere (foto F. Bottini)

Più le bonifiche, un percorso tortuoso durato tre anni e lievitato a oltre 50 milioni. E oggetto di annosi contenziosi (proprio sugli extra costi) con i costruttori (la Claudio Salini), una vicenda che ha tenuto bloccato il cantiere per tre anni spingendo in là la fine dei lavori prevista nel 2009. La giunta Pisapia se l’è ritrovato, il tunnel della discordia e degli sprechi. Il quartiere è sempre stato contrario. Lo ribadisce ancora oggi il presidente di Zona 8, Simone Zambelli: «È uno spreco incredibile, anche aprirlo, non ha alcuna utilità — dice — se non quella di intasare alcune strade intorno a via Gattamelata dove ci sono case e scuole. Chiediamo al Comune di ripensarci e di trovare una destinazione alternativa».

Palazzo Marino assicura che entro settembre si inaugurerà. E che, dalle stime, non ci dovrebbero essere particolari impatti negativi sul quartiere in termini di traffico. «È un’opera che non avremmo mai avviato e che abbiamo ereditato e sicuramente tutti quei milioni sarebbero stati più utili investirli in opere di trasporto pubblico — dice l’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran — . Una volta terminata, però, ha senso comunque aprirla». Resterà chiuso invece il tratto di galleria che avrebbe dovuto sbucare ai parcheggi del Portello quando era polo fieristico, oggi a fondo cieco. Qui negli anni si sono pensate varie destinazioni, dal parcheggio di auto sequestrate a un museo. Oggi l’area è in cerca di una destinazione, probabilmente legata al futuro del Portello, che sia lo stadio (poco probabile) o qualcosa d’altro.

postilla
Anche senza citare il curioso simbolismo/coincidenza del titolare dell'impresa Claudio Salini, appena scomparso proprio in un incidente automobilistico a Roma, dovrebbe saltare all'occhio ormai evidente la discrasia fra l'idea novecentesca di città (e relative norme, pratiche, aspettative) tutta concepita e costruita attorno all'auto e all'umanità stipata dentro quelle auto, e le nuove dinamiche così come abbastanza faticosamente ma decisamente si stanno delineando. Accade in tutto il mondo che le enormi arterie urbane dette freeway o expressway, di raccordo tra la rete autostradale e i punti nevralgici dei centri direzionali, vengano poco cerimoniosamente liquidate con le cariche di dinamite, o riciclate in viali a percorrenza condivisa e velocità assai più contenute di quelle sognate all'epoca di Marinetti e dei razionalisti che ne condividevano il mito dell'azione fulminea. Eppure, nonostante tutto ciò, nonostante il mondo si stia orientando volente o nolente in altre direzioni, vediamo i nostri nuovi o rinnovati quartieri continuare ad avvoltolarsi su quella tara ingestibile, o quasi, di certa accessibilità, certi calcoli sui parcheggi, certi diritti che paiono divini, certe infrastrutturazioni obsolete. Il quartiere descritto dall'articolo è paradigmatico del tema, attraversato da una delle prime sopraelevate italiane, e in genere legato con un solido cordone ombelicale all'anello delle Tangenziali. Ma la cosa si può replicare anche per tanti altri casi milanesi e italiani (la leggendaria sopraelevata genovese tanto per fare un nome), di infrastrutture il cui senso è tutto da pensare, e soprattutto di città da ripensare attorno a quelle infrastrutture, coi loro nuovi flussi, nuovi diritti, e nuove modalità di relazione, fuori dagli abitacoli a motore privati (f.b.)

Politici e imprenditori corrotti,controlli inesistenti, qualità, sicurezza e patrimonio comune sistematicamentesacrificati al maggior lucro di chi è vicino al potere. Cosí va l’Italia furbafoggiata da Craxi, Berlusconi, Renzi. Il Fatto quotidiano, 6 settembre 2015

Mafia, politici corrotti, tecnici venduti, società fittizie, scavi abusivi, ripetuti passaggi illegali di appalti e subappalti, carenza e omissioni nella vigilanza, sindaci inefficienti: tutte le zavorre dell’arretratezza d’Italia sono racchiusi in appena trenta pagine di relazione sull’alta velocità di Firenze stilata dall’autorità nazionale anticorruzione e firmata da Raffaele Cantone lo scorso 4 agosto 2015. E su ogni macigno di quella zavorra c’è un nome. Da quello dell’ex presidente dell’Umbria, Maria Rita Lorenzetti – arrestata nel settembre 2013 – al dominus delle infrastrutture Ercole Incalza, in manette lo scorso marzo, che ha trascinato alle dimissioni l’ex mini
stro Maurizio
Lupi. Dalla so
cietà Coopsette – che è riuscita a rimanere
nell’appalto sep
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chiarato due vol
te il fallimento e
abbia visto finire
in carcere i suoi vertici – alla Nodavia e a Condotte, coinvolta anche nell’inchiesta di Venezia sul Mose. Politica, imprenditori. Tangenti, affari. Il Tav di Firenze sembra una Cornice nel Purgatorio del malaffare nazionale: non esiste l’Inferno e il Paradiso è sempre (e di nuovo) a portata di mano.

L’OPERA è stata assegnata nel 1999 e doveva essere interamente conclusa nel maggio 2015. “Termini che evidentemente non risultano più perseguibili – scrive Cantone – per cui si appalesano rilevanti ritardi nell’esecuzione”. Esecuzione che è al momento ferma: sono scaduti i permessi, i vertici delle società sono stati arrestati, chi per corruzione chi per associazione a delinquere, chi per abuso d’ufficio, chi per tutti e tre i reati e per altri ancora. L’opera doveva costare poco più di 500 milioni, è lievitata fino a 750 prima di essere bloccata e “registrerà ulteriori incrementi”.

Ma il dato più allarmante tra i tanti indicati da Cantone è riferito alla sicurezza dell’opera: il materiale utilizzato è “privo della qualità richiesta”. E, ricorda il presidente dell’anticorruzione, l’opera “sottoattraversa il centro cittadino, interferendo con la falda idrica” e ha già causato “dissesti che hanno interessato la scuola Rosai (chiusa a causa di crepe e smottamenti subiti dai lavori sotterranei-ndr) confermando la delicatezza del contesto”.

È evidente che i “comportamenti dei soggetti preposti all’esecuzione sono finalizzati a conseguire maggiori utili a discapito di una minore qualità dell’opera”. Certo i lavori al momento sono fermi. Ma le aziende interessate vorrebbero portarli a termine, per questo l’autorità presieduta da Cantone è dovuta intervenire. Ha sentito Rete Ferrovie Italiane – che ha affidato l’appalto – e le società coinvolte: Italferr e Nodavia in particolare.

LA PRIMA era quella guidata dalla Lorenzetti, la seconda è rimasta coinvolta in almeno tre inchieste giudiziarie. Per carità, ha sempre rinnovato i propri vertici e allontanato i “beccati”, come scrive Cantone ripercorrendo l’iter complessivo dell’opera. La magistratura interviene già nel 2010 per smaltimenti illeciti dei materiali provenienti dagli scavi. Nel 2013 di nuovo. Nodavia, riporta Cantone, “avrebbe attuato lo smaltimento in modo illecito, con accordi occulti con soggetti formalmente incaricati dello smaltimento, finalizzati a corrispondere agli stessi somme inferiori a quanto stabilito dai contratti stipulati, con retrocessione in nero a favore di Nodavia di ingenti somme di denaro”. Il classico schema. Ma non basta. Prosegue la relazione: “In realtà tali ditte non avrebbero provveduto allo smaltimento in quanto l’attività sarebbe stata gestita da una ditta, da quanto indicato dalla procura, legata ad ambienti della criminalità”.

E dove saranno andati i quintali di rifiuti speciali? E una volta individuata l’attività illecita si è interrotta? No. “è perdurata la gestione abusiva” svolta, fra l’altro, “senza alcuna autorizzazione e con modalità tipiche riconducibili a un trattamento di rifiuto con scarichi non autorizzati, stoccaggi in piscine e dispersione dei fanghi sui piazzali e in falda”.

Le 30 pagine di relazione sono un epitaffio all’opera pubblica. Cantone scrive, fra le altre cose, che sono mancati gli “adeguati controlli”, che le “criticità emerse dalle indagini della Procura non possono ritenersi del tutto superate” ancora oggi, che ci saranno “ulteriori richieste economiche” e molto altro ancora.

Appare dunque una buona notizia scoprire l’inefficienza amministrativa di Palazzo Vecchio. Le società hanno fretta di riprendere i lavori, l’opera è ritenuta fondamentale da Rfi (che, scrive Cantone, potrebbe essere l’unica parte lesa: oltre il Paese) e per questo serve una nuova autorizzazione, chiesta il 2 dicembre 2013. Ma per il via libera servono numerosi pareri tra cui quello del Comune di Firenze oggi guidato da Dario Nardella. Questo è “ad oggi non ancora pervenuto”.

Il giornalista non ha capito niente. Il fatto è che promettono interventi sopratttutto per far piacere ai loro amici, dagli attori degli appalti, giù fino al signore che vuole l'autostrada vicino al suo terrenuccio; ma poi si fanno convincere dai gufi e dai comitatini, e allora ci ripensano. Il Fatto Quotidiano, 11 agosto. 2015

Danno i numeri, letteralmente. Una festosa tradizione alla quale si è unito il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio: “In 20 mesi sbloccheremo opere per almeno 15-16 miliardi”, ha detto in un’intervista a Repubblica.

L'arma segreta è il verbo “sbloccare”, che dà l’idea di un Paese governato con lo Svitol. Non a caso lo slogan pubblicitario del popolare lubrificante è “Serve sempre!”. Ma che cosa vuol dire sbloccare? Niente, come ha spiegato ieri autorevolmente uno dei maggiori sbloccatori di sempre, Corrado Passera: “Il governo non fa che riannunciare opere già annunciate e comunque già sbloccate da governi precedenti”, ha detto ieri il ministro delle Infrastrutture del governo Monti. All’inizio del 2012 spiegò alla Camera: “L’idea è di poter vedere nel corso dei prossimi 12 mesi un ammontare di complessivi 40-50 miliardi di lavori il più possibile avviati”. Venne poi, con il governo Letta, Maurizio Lupi. Appena insediato, maggio 2013, ruppe gli indugi: “La prima priorità è vedere tutto ciò che è cantierabile, sbloccare e revocare se serve”. Un anno dopo lo svitol non aveva ancora fatto effetto, e dunque, con il nuovo premier Renzi, si passò alle maniere forti: il decreto Sblocca Italia. “Lo Sblocca Italia mira prevalentemente a sbloccare la burocrazia”, tuonò Lupi. Era l’agosto dell’anno scorso. L’afa accentuava il bisogno di sbloccare. Renzi annunciò trionfale che con le misure di sburocratizzazione contenute nel decreto avrebbe sbloccato cantieri già finanziati per 30 miliardi e 402 milioni (il dettaglio rende sempre più credibile la sparata) mentre nuove risorse avrebbero sbloccato altri cantieri già finanziati per 13 miliardi e 236 milioni. In tutto 43 miliardi e 638 milioni, per la precisione, il tutto da sbloccare entro 6-12 mesi. Dieci mesi dopo, il 6 luglio scorso, Renzi ha detto: “Per favorire la ripartenza dell'economia italiana si possono sbloccare infrastrutture per circa 20 miliardi: soldi già stanziati per opere al momento ferme”. Viene da chiedersi se i 20 miliardi di Renzi, già scesi a 15-16 nel giro di un mese, con miliardi che vanno e vengono, sono parenti di quei 43 dell’anno scorso. Cioè: sbloccati quei 43 grazie alle mirabolanti sburocratizzazioni dello Sblocca Italia, adesso ne sblocchiamo altri 15 o 16 o 20? O i 15, i 16, i 20, i 43 e i 50 di Passera sono sempre gli stessi, cioè il nulla delle parole al vento buone per catturare titoli agostani?

Passera, che parla con l’autorevolezza dell’inventore del metodo “sblocca continua”, insinua che sia tutta una presa in giro. Quando era ministro aveva istituito il sito “Cantieri Italia”, con l’impegno di informare in modo trasparente sull’avanzamento delle grandi e piccole opere infrastrutturali. L’ultimo aggiornamento del sito è datato 1 agosto 2014. La pagina cantieriecrescita.gov.it che lasciò sul sito del ministero il resoconto dell’attività di Passera è stata cancellata dai successori, come se si fosse spezzata la continuità dello Stato. Così è impossibile sapere come stanno esattamente le cose, proprio a causa dell’opacità di un governo che pure si fonda sulla comunicazione.

Qualcosa però si può intuire osservando le tracce più evidenti dello scollamento tra gli annunci e i fatti. Un anno fa, Renzi annunciò che l’Alta velocità tra Napoli e Bari avrebbe aperto i cantieri a novembre 2015 anziché nel 2018. La nuova ferrovia Palermo-Catania-Messina avrebbe aperto i cantieri a dicembre 2015. Tra poche settimane vedremo dunque i cantieri aperti? Può darsi, ma i 12 miliardi complessivi di costo delle due opere vanno nel conto dei 43 sbloccati da Renzi nel 2014 o dei 15 che Delrio deve ancora sbloccare? E i dieci miliardi di investimenti nelle autostrade –che Renzi sbloccò un anno fa promettendo ai gestori della rete la proroga delle concessioni – come li consideriamo, visto che l’Unione europea ha ribloccato il tutto bocciando l’astuta operazione come aiuti di Stato illegali? Sbloccati o da sbloccare? Il mistero è fitto. Passera ieri ha chiesto trasparenza al governo, sostenendo che è il solo modo per “capire se i 15 miliardi di cui parla Delrio sono investimenti ulteriori rispetto a opere già finanziate o sono come i carri armati di Mussolini”. Ma è evidente che per l’ex ministro, e non solo per lui, la risposta è già chiara.

Twitter@giorgiomeletti

Il veicolo privato a combustione interna con un solo passeggero, attorno a cui si organizza tutto il resto del mondo, pare avviato a un faticoso e drammatico tramonto: quanta fatica però! La Repubblica, 10 agosto 2015, postilla (f.b.)

Il brivido al volante resterà un’emozione virtuale. Da provare quando stai incollato al mouse di un videogioco e ti misuri con i tuoi riflessi. Nella vita reale le auto del futuro sono destinate a velocità ridotte, probabilmente elettriche e sempre più spesso autonome. Guidate da un computer che ti porterà dritto alla meta senza stress, distrazioni e soprattutto consumi. Slowdrive, ecodrive, il driverless da tendenze diventano imperativi per molti governi. Finiscono per condizionare la politica commerciale delle grandi industrie automobilistiche. Perché una riduzione del limite di velocità significa più vita: meno inquinamento, meno incidenti, meno traffico, meno spese per carburanti e assicurazioni.

Anche la Francia, dopo l’Olanda e la Gran Bretagna, ha deciso che la battaglia del sindaco di Valenza, nel Drôme, il repubblicano Nicolas Daragon, non è poi così folle. Anzi, piace a molta più gente di quello che si pensava. Si corre in pista, nelle gare di rally. Su strade e grandi arterie, nella vita di tutti i giorni, meglio portare il limite di velocità dai 120 ai 90. Da sempre scettica, il ministro dell’Ecologia Ségolène Royal alla fine si è convinta e ha deciso di presentare un decreto sulla materia. «E’ necessario - ha spiegato qualche giorno fa adottare delle misure per tutelare la salute delle popolazioni attraversate da tratti di autostrada». Il sindaco della città del sudest francese si batte da anni per allentare la morsa del traffico sulla A7 che sconvolge la sua popolazione. È l’arteria più frequentata d’Europa: un fiume di 70 mila veicoli la solca ogni giorno. Tremila ogni ora, 50 al minuto. L’emissione dei gas di scarico e delle polveri sottili ha un impatto decisivo sulla vita della comunità. Tanto da spingere Daragon ad imputare al traffico la morte per tumore di 55 residenti del circondario.

Forte di tre studi che ha commissionato, il sindaco ha chiesto che il tratto della A7 che taglia la periferia di Valenza abbia un limite di 90 chilometri orari. Si è infatti accertato che anche una riduzione di soli 30 km abbassa del 5 per cento il livello di contaminazione dell’aria. Rilevazioni analoghe svolte a Parigi hanno dimostrato che imporre una velocità di 70 all’ora dagli attuali 80 riduce anche del 23 per cento il numero degli incidenti e del 65 per cento quello dei morti e dei feriti sulle strade. Pochi ci riflettono ma i numeri e i confronti aiutano a capire il male che ci facciamo. In Francia il costo annuale dei danni da inquinamento è di 101,3 miliardi: il doppio del tabacco (47) e tre volte l’alcol (31). Le mini particelle di ozono sono all’origine dei 45 mila decessi legati all’aria che respiriamo. Il decreto dovrebbe essere applicato in 12 grandi città del paese. In via sperimentale. A Parigi ha resistito 18 mesi: guidare sempre e ovunque sotto i 70 all’ora, anche nei Périphériques, ha finito per creare enormi intralci alla circolazione. Sulle autostrade è diverso. Tours, Lione, Reims, Tolone e altri grandi centri sono favorevoli. Renault e Citrôen hanno già messo a punto modelli con limiti di velocità predefiniti. Le altre case costruttrici si stanno adeguando. Fiat Chrysler in testa.

La tendenza è già futuro. Google, con Apple, sta progettando macchine totalmente robotizzate. Un computer non commette gli errori umani che sono la principale causa degli incidenti. A meno di essere hackerato. Ma questo è un altro problema. Sebastian Thurn, coordinatore ricerche mobilità della casa di Cupertino, è certo che le auto automatizzate ridurranno del 90 per cento gli incidenti, del tempo impiegato, dell’energia usata, del numero di veicoli in circolazione. Morgan Stanley ha valutato i vantaggi per una città come New York: un guadagno di 1,3 trilioni di dollari (8 per cento del Pil). Nella Grande mela si è proceduto a una simulazione sui 13 mila taxi che forniscono 500 mila corse al giorno. Per coprire il fabbisogno basterebbero 9 mila auto robotizzate. I tempi di percorrenza si limiterebbero da 5 a 1 minuto; i costi sarebbero ridotti di 7 volte. A Rotterdam ce ne sono una decina, su piccoli e previsti percorsi. Funzionano. Come un orologio. Cala lo stress, cala l’inquinamento. Guidare torna a essere un piacere. Gli unici a remare contro, in un silenzio imbarazzato, sono le assicurazioni: rischiano di perdere il 70 per cento degli introiti. Si stanno rassegnando. Hanno già pensato dove recuperare.

postilla

Come si prova a spiegare secondo varie prospettive da parecchio tempo, il processo della cosiddetta «demotorizzazione» pare ineluttabile, anche se onestamente gli organi di informazione (a differenza delle case automobilistiche e di altri comparti del mercato) e i decisori politici sembrano molto riluttanti ad accettarne il portato culturale. Probabilmente il mito della velocità fisica novecentesco, il famoso
zang-tumb-tumb dei futuristi, della «automobile rombante più bella della Vittoria di Samotracia», sta non solo immerso nella nostra percezione del mondo, ma soprattutto impregna di sé una miriade di rivoli economici che non intendono esaurirsi davanti alla misera questione della propria certificata inutilità. Per esempio qualche giorno fa l'amico ed esperto di trasporti Alfredo Drufuca, leggendo criticamente un documento di programmazione settoriale del centrodestra, scopriva addirittura la categoria della «velocità percepita» come fattore di decisione tecnica, dentro uno di quei progettoni di infinite reti autostradali e corrispondente «sviluppo del territorio» circostante. Ecco quali sono gli ostacoli dell'innovazione tecnologica, sociale, della sostenibilità ambientale. Pare strano, ma davvero «il problema è politico» (f.b.)

«Grandi opere. Tav, super-tunnel, tram, aeroporti: tanti i progetti avulsi dalla realtà, capolavori dell'anti-programmazione. Il conflitto sull’urbanistica tra politica e università: prevale la logica dall’alto». È ovvio, caro: siamo del feudo dell'Imperatore, lì Lui comanda direttamente, non gli servono vassalli, valvassori e valvassini; al massimo adopererà qualche sgherro per i più riottosi.Il manifesto, 7 agosto 2015

A Firenze è ormai imploso il sistema delle grandi opere; a cui pure il nuovo sistema di potere ren­ziano voleva «dare un ‘acce­le­ra­zione». Invece è tutto fermo o quasi : bloc­cato il pro­getto Tav anche dalle inchie­ste giu­di­zia­rie; stop­pato quello dell’aeroporto dalla com­mis­sione VIA (Valutazione d'Imatto Ambientale) del Mini­stero dell’Ambiente; a rilen­tis­simo, con forti ritardi e disagi, i can­tieri per i tram.

Oggi è in discus­sione l’ampliamento dell’aeroporto, con costru­zione di nuova pista più lunga di quella pre­vi­sta dal piano ter­ri­to­riale regio­nale, con impatti enormi,anche su quello che resta del Parco della Piana e rischi per diverse atti­vità tra cui quelle del nuovo polo uni­ver­si­ta­rio (che si oppone e impu­gna il pro­getto). Un capo­la­voro di anti­pro­gram­ma­zione dei tra­sporti. La Regione Toscana qual­che anno fa , infatti, aveva pro­spet­tato, nell’allora piano regio­nale della mobi­lità, di pun­tare cor­ret­ta­mente sulla cre­scita delle rela­zioni con il già rile­vante hub aero­por­tuale inter­na­zio­nale di Pisa: Firenze doveva limi­tarsi a ristrut­tu­rare l’aerostazione e ottimizzare-senza nuove piste– la capa­cità esi­stente. Miglio­rando appunto la velo­ciz­za­zione e l’intensificazione delle rela­zioni con Pisa. Oggi si sta attuando l’integrazione gestio­nale, vani­fi­cata però dall’ abban­dono della razio­na­lità pro­gram­ma­tica delle scelte, con l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze, che di fatto pro­spetta una logica di con­cor­renza interna, non di inte­gra­zione, con lo scalo pisano; come nelle inten­zioni del mana­ge­ment degli aero­porti toscani, gui­dati da un gruppo di sodali tra i più vicini a Renzi.

Il pro­getto dell’Enac è addi­rit­tura più grande e in con­tra­sto con quanto pre­vi­sto dal PIT Pae­sag­gi­stico, che pure pre­ve­deva un amplia­mento con una nuova pista di «soli» 2 mila metri e la ricerca di una dif­fi­cile com­pa­ti­bi­liz­za­zione con l’esigenze dell’adiacente Parco della Piana, già minac­ciato da altre attrez­za­ture assai impat­tanti. In que­sti giorni il Mini­stero dell’Ambiente– acco­gliendo sostan­zial­mente le Osser­va­zioni alla VIA avan­zate da appo­sito gruppo di lavoro di docenti di Inge­gne­ria– ha bloc­cato il pro­getto, chie­dendo delu­ci­da­zioni sulla sua com­pa­ti­bi­lità pro­gram­ma­tica, sulla coe­renza e sulla pos­si­bile coe­si­stenza con altri stru­menti di piano e con attrez­za­ture già esi­stenti. Soprat­tutto ha mosso rilievi sugli impatti ambien­tali: rumori e vibra­zioni che col­pi­scono abi­tanti e lavo­ra­tori dell’intorno, assetto idro­geo­lo­gico, effetti sugli eco­si­stemi del Parco, insuf­fi­cienti ana­lisi sull’inquinamento atmo­sfe­rico. Sot­to­li­neati anche dall’urbanista e sto­rica Ila­ria Ago­stini.

Ancora i fio­ren­tini stanno facendo i conti con l’avvio dei can­tieri per le nuove linee di tram. Un pro­getto viziato dalla man­canza di un piano orga­nico della mobi­lità tran­via­ria ‚come di un piano di cir­co­la­zione det­tato da oppor­tuni cri­teri di razio­na­lità tecnico-programmatica: si improv­vi­sano le scelte spesso for­zando i mec­ca­ni­smi gestio­nali per “rin­cor­rere” le pre­sunte faci­li­ta­zioni finan­zia­rie det­tate dalla con­tin­genza poli­tica e normativa-nella fat­ti­spe­cie lo «Sblocca Ita­lia». Ma si accen­tuano così i pro­blemi di un pro­gramma già viziato da man­canza di visione gene­rale, oltre che di una pro­get­tua­lità com­ples­siva, da parte di sog­getti tec­ni­ca­mente idonei.

Il gruppo di ricerca «Mobi­lità soste­ni­bile nell’Area Fio­ren­tina» sot­to­li­nea come si sia andati avanti con pro­getti sin­go­lari di pezzi di linea– pure spesso variati– che guar­dano solo a sé stessi, con logica esa­spe­rata dalle esi­genze del project-financing; anche in con­tra­sto, oltre che con le esi­genze gene­rali della mobi­lità, con quelle delle altre linee. Biso­gna fer­marsi un attimo e redi­gere un Piano com­ples­sivo di rete nell’ambito di un piano di mobi­lità inte­grato per la città e l’Area metro­po­li­tana. Intanto, invece che pro­se­guire con la rea­liz­za­zione –invero assai dif­fi­col­tosa come dimo­strano i forti ritardi e i con­ti­nui stop ai can­tieri– di infra­strut­ture assai impat­tanti, si potreb­bero atti­vare subito alcune LAM (Linee ad Alta Mobi­lità)con eco­bus (Auto­bus a bas­sis­simo con­sumo e impatto) su cor­sia riser­vata , che potreb­bero sod­di­sfare una domanda più ampia di quella dei tram, senza can­tieri per nuove opere e disagi per la cit­ta­di­nanza e l’ecosistema urbano; e in attesa di un piano per la mobi­lità cre­di­bile. Infine c’è quello che è ormai diven­tata un’icona del fal­li­mento delle Grandi Opere. Il Grande Buco di Firenze, il super­tun­nel e sta­zione sot­ter­ra­nea TAV. I lavori sono sostan­zial­mente fermi da tempo, per due inchie­ste della magi­stra­tura. Ma ai pro­blemi ambien­tali– irri­solti tut­tora– messi in luce dall’inchiesta (com­pa­ti­bi­lità della fresa con il sot­to­suolo inte­res­sato, carat­te­ri­sti­che dei mate­riali, natura delle terre di scavo, oltre agli aspetti più evi­den­te­mente penali, legati a cor­ru­zione e irre­go­la­rità ammi­ni­stra­tive) se ne sono nel tempo aggiunti diversi altri, pun­tual­mente segna­lati dal Gruppo di lavoro dell’Università sul tema.

Tra que­sti la man­canza di VIA della mega­sta­zione sot­ter­ra­nea; che per­dura , nono­stante le inchie­ste che hanno inve­stito MinAmb pro­prio su que­sto tema. «Se si fa la VIA della Sta­zione Foster non si fa più il Sot­toat­tra­ver­sa­mento!» urlò Matteoli,allora mini­stro ber­lu­sco­niano dell’Ambiente e la VIA non si fece più : anche per­ché avrebbe espli­ci­tato la pre­senza di pro­blemi insor­mon­ta­bili. Ancora non ci sono le Auto­riz­za­zioni Pae­sag­gi­sti­che, il che rende abu­sive le (poche) atti­vità in essere che andreb­bero subito fer­mate. Soprat­tutto, gra­zie agli studi di Teresa Cre­spel­lani e Mas­simo Perini, oltre a Gio­vanni Van­nuc­chi, c’è oggi molta più con­tezza sugli effetti dello scavo dei tun­nel, finora mai avviato: emerge l’incompatibilità della natura e delle dimen­sioni delle ope­ra­zioni pre­vi­ste con le par­ti­co­lari carat­te­ri­sti­che del sot­to­suolo fio­ren­tino; spe­cie in pre­senza di forte urba­niz­za­zione , con patri­mo­nio abi­ta­tivo den­sis­simo, pre­senza di monu­menti diret­ta­mente impat­tati e pochis­sima distanza dal core dell’enorme patri­mo­nio arti­stico del cen­tro Sto­rico. Appare pur­troppo cor­retto pre­ve­dere pic­coli e grandi disa­stri , la cui entità spe­ci­fica è oggi impos­si­bile da sti­mare, a fronte dei più che pro­ba­bili pro­blemi con­ti­nui, lesioni, cedi­menti, crolli. Firenze con­ti­nua a sof­frire il con­ti­nuo ten­ta­tivo di impo­si­zione di “grandi pro­getti”, in realtà ope­ra­zioni quasi sem­pre avulse dalla reale domanda sociale; ma fina­liz­zate a spen­dere a breve, a bene­fi­cio degli inte­ressi spe­cu­la­tivi che ne con­di­zio­nano e distor­cono la gover­nance. Tale logica va abban­do­nata per tor­nare a sce­nari di pia­ni­fi­ca­zione cor­retta e soste­ni­bile del ter­ri­to­rio e dei trasporti.

Non inganni il tono leggero, che illustra un caso locale di un problema universale: di burocrazia e ottusità istituzionale possono morire le persone e la vitalità urbana, altro che. Corriere della Sera Milano, 30 luglio 2015, postilla (f.b.)

Al primo conteggio erano 98, al secondo sono diventati 106, al terzo sono scesi a 102. Che è la media dei tre, quindi lo diamo per buono. Eccolo l’oggetto di metallo avente sezione tondeggiante e sviluppo prevalente nel senso della lunghezza, che piantato in terra per un estremo serve di sostegno. In sintesi, il palo: 102 ce ne sono, più o meno, nel solo largo Cairoli che sta rinnovando la viabilità e di conseguenza anche la segnaletica. Il che certifica due fatti. A) È certo che con tutte quelle indicazioni non ci si può perdere. B) La palite è la nuova malattia della burocrazia automobilistica urbana. Ormai c’è un palo per ogni cartello, o un cartello per ogni palo (sarà nato prima il palo o il cartello?, ah, saperlo!). Solo per i semafori ne svettano 36: possibile che ne servano così tanti in una piazza dal diametro di 50 metri? Tutti indispensabili? Pare di sì.

Poi ci sono tutti i piloni per le piste ciclabili: e via, altri segnali, di divieto, di consenso, di senso unico, di svolta a destra, di svolta a destra ma non a sinistra ma forse solo nei giorni pari. Poi c’è anche la versione nana con i mini pali a indicare gli spartitraffico. E le aste — appena due, tristi, solitarie y final — con gli specchi per i tram, che in realtà son già attrezzati di loro, ma non si sa mai: due specchi riflettono meglio di uno. E poi come non segnalare l’inizio della pista ciclabile e dell’area pedonale e poi la fine dell’area ciclabile e della pista pedonale? L’architetto dell’Expo Gate che guarda al Castello Sforzesco deve aver dato un occhio al paesaggio confinante e ha deciso che lì, in quello slargo, la fiera del palo era perfetta.

Via via che le piazze si rinnovano, l’aumento demografico dei pali cresce incontrollato. Basta fare uno slalom in piazza XXIV Maggio o una gimkana in largo Greppi, davanti allo Strehler. Sarà colpa delle nuove norme europee che spesso fanno a pugni con il buonsenso, ma è un fenomeno inarrestabile che disegna la nuova geografia dell’urbano palinsisto (in psichiatria il palinsisto è la coazione a ripetere nel piantare ogni tipo di palo, roba da Freud più che da assessore ai Lavori pubblici).

Un dedalo infinito di pali grigi, poi forse li dipingeranno — anche se pare che quel colore che sa di provvisorio sia quello definitivo. Intanto ne rimane pure qualcuno di quelli vecchi — giallo estinto tipo taxi — perché i pali nuovi sono quasi sempre un metro più a destra, 70 centimetri più avanti, mezzo metro più a nord di quelli precedenti. Con grande gaudio e soprattutto grande fatturazione per il Fornitore Unico di Pali che, immaginiamo, avrà vinto un appalto (chissà a quanto lo fa un palo, casomai servisse in casa).

La piazza è quasi terminata, con la sua nuova fisionomia a palafitta al contrario. Politicamente corretto e nel rispetto delle singole sensibilità poi che ogni palo sia così valorizzato, ognuno con il suo unico segnale stradale. Guardando meglio però — surprise — c’è un palo che regge due cartelli. Ma sarà di certo un errore.

postilla
Quanti casi analoghi possiamo citare, magari sperimentati di persona in qualche surreale percorso a slalom, di solito da pedoni, o in quelle foto «curiose» sul social che ritraggono la striscia bianca della carreggiata scostarsi rispettosa davanti a San Palo, per poi riprendere la corsa verso l’infinito? Il fatto è che si tratta di un problema serio, di qualità urbana e di sicurezza, se l’ex ministro per le aree urbane Tory, Eric Pickles, ne aveva desunto una vera e propria policy con tanto di rapporti e disegno di legge per l’abolizione delle «carabattole stradali» (street clutter). Non questione solo estetica, ma ostacolo a una autentica fruibilità degli spazi pubblici, ai flussi di traffico intermodale, alla stessa applicazione tecnica di qualche versione locale degli «
spazi condivisi» di Hans Monderman, i pali ubiqui e autoreferenziali sono un problema serio. Da considerare seriamente, e non solo quando ci pestiamo contro la capoccia scendendo dal tram (f.b.)

Un altro scandalo minaccia (per noi "promette") di fermare l'attraversamento sotterraneo del centro di Firenze. Ma il toscano padrone d'Italia non si lascerà fermare da leggi, burocrazie, soprintendenze e così via...La Repubblica, ed. Firenze, 24 luglio 2015

Tav, non solo soldi dietro i ripensamenti di Ferrovie. A 17 anni dall’approvazione del progetto dell’Alta velocità, il vero rischio si chiama adesso ‘autorizzazioni’. Perché il tempo consuma le carte: via via che le tabelle dei tempi venivano gettate al macero e aggiornate con date sempre più futuribili, le autorizzazioni completavano il loro corso di validità. Per cominciare l’autorizzazione paesaggistica, senza la quale non si può neppure avviare lo scavo sotto il ponte al Pino, sotto piazza della Libertà, i viali e sotto (quasi) la Fortezza Da Basso.

La stessa autorizzazione che è costata qualche guaio giudiziario aggiuntivo a Ercole Incalza, l’ex top manager delle infrastrutture arrestato per ordine della procura di Firenze: attestò che l’autorizzazione paesaggistica non era scaduta, mentre invece lo era già. Secondo i No Tav fiorentini, che con Massimo Perini e Tiziano Cardosi hanno pure scritto al Comune di Firenze per chiedere lumi, l’autorizzazione paesaggistica sarebbe scaduta addirittura nel 2005.

Certo, in teoria si può sempre rinnovare. Solo che non è una cosa che si può fare dalla sera al mattino. Occorrono certificazioni, elaborati progettuali. E occorre che si esprima il ministero dei Beni culturali: il bello è che dal primo gennaio 2010, a seguito di un decreto legislativo, è cambiata l’intera procedura di autorizzazione. E se prima il parere del ministero arrivava a seguito dell’esclusiva valutazione e verifica della domanda e della relativa documentazione, dal 2010 in poi è diventato centrale il ruolo della soprintendenza. Con quale normativa si dovrebbe rinnovare adesso l’autorizzazione ambientale?

«A settembre il Cnr avrà classificato le terre di scavo e bisognerà solo vedere se le autorizzazioni valgano ancora». È lo stesso Ad di Rfi Maurizio Gentile ad ammettere che le autorizzazioni potrebbero diventare un problema. Un’altra ‘spada di Damocle’ che pende sul tunnel fiorentino. Non l’unica. Perché quando il Cnr, dopo ormai un anno e mezzo di meditazione, avrà stabilito se i materiali prodotti dalla ‘talpa’ siano rifiuti o semplicemente terre, anche il Put, il Piano di utilizzo delle terre dovrà essere rivisto.

Quello esistente, elaborato dal vecchio consorzio Nodavia (in mano alla Coopsette mentre oggi è di Condotte) nel 2012, fu approvato dal ministero dell’ambiente. Pochi mesi dopo però saltò fuori l’inchiesta della procura di Firenze e, prudententemente, il ministero provvide a sospenderlo. Adesso quel Piano dovrà essere rivisto sulla base delle conclusioni del Cnr e di nuovo valutato. Quanto tempo richiederà? Difficile fare previsioni. Altrettanto difficile prevedere l’avvio dello scavo nel prossimo autunno. Anche se Condotte ci crede: «La nuova fresa ultimata in Germania è già in viaggio per l’Italia e per fine ottobre sarà montata e pronta ad iniziare», annuncia l’impresa. Quanto al rinnovo dell’autorizzazione paesaggistica, fa sapere Condotte con uno slancio di ottimismo, «dovrebbe pervenire in tempo utile per l’avvio degli scavi». Appunto, dovrebbe.

«La documentazione di valutazione di impatto ambientale prodotta da Enac, braccio armato della Toscana Aeroporti di Marco Carrai, non convince il ministero dell'ambiente. Entro 45 giorni Enac deve rispondere a numerose, e gravi, criticità del Masterplan del futuro scalo». Il manifesto, 24 luglio 2015

L’assoluto non­senso di un nuovo scalo inter­con­ti­nen­tale in un’area den­sa­mente urba­niz­zata, e ambien­tal­mente già con­ge­stio­nata, con­vince anche il mini­stero dell’ambiente a dare un pesante colpo di freno al pro­getto del nuovo aero­porto Vespucci. Se ne farà una ragione Toscana Aero­porti, gui­data da Marco Car­rai. Il cui vice­pre­si­dente Roberto Naldi, inter­vi­stato nei giorni scorsi dal Tg3 toscano, assi­cu­rava l’inizio delle opere pro­pe­deu­ti­che già a fine ago­sto. In tempo per non per­dere i 50 milioni inse­riti nello Sblocca Ita­lia dal governo di Mat­teo Renzi, prin­ci­pale fan dell’opera.

Nelle sedici pagine di richie­ste di inte­gra­zione alla docu­men­ta­zione di valu­ta­zione di impatto ambien­tale pro­dotta dall’Enac, brac­cio armato di Toscana Aero­porti, il mini­stero impal­lina il Master­plan aero­por­tuale. Il Master­plan, per­ché del pro­getto defi­ni­tivo – sui cui in teo­ria dovreb­bero essere fatte le Via – non c’è trac­cia. Una pro­ce­dura così ano­mala da far scri­vere all’arrabbiatissima Uni­ver­sità di Firenze, il cui pre­sti­gioso Polo scien­ti­fico fini­rebbe vii­ci­nis­simo allo scalo: “Si ritiene che, già sin d’ora, nella pro­ce­dura di Via, siano rile­va­bili evi­denti pro­fili di ille­git­ti­mità, tali da giu­sti­fi­care un parere nega­tivo”.

Su que­sto tema, per ora, i tec­nici del mini­stero non si espri­mono. Lo fanno invece su quanto pro­dotto da Enac, l’Ente nazio­nale avia­zione civile, che da tempo lavora per far rea­liz­zare, per “motivi di sicu­rezza”, la nuova pista paral­lela all’autostrada A11 Firenze-Mare lunga ben 2.400 metri. Più altre cen­ti­naia di metri per vie di fuga e altri “accor­gi­menti tec­nici”. Ben oltre quanto deciso dalla stessa Regione Toscana, che nel suo Piano di indi­rizzo ter­ri­to­riale sull’area ha posto come limite mas­simo una pista di 2.000 metri. Fatto che porta subito il mini­stero a chie­dere: “Il pro­po­nente (cioè Enac, ndr) prov­ve­derà a chia­rire quali sono le moda­lità pre­vi­ste per la riso­lu­zione dell’incongruenza rile­vata con le pre­vi­sioni del Pit”.

Pagina dopo pagina, i tec­nici pro­se­guono nel loro lavoro di demo­li­zione: “Il pro­po­nente non espli­cita in modo chiaro e det­ta­gliato le inte­ra­zioni, le cor­re­la­zioni e la coe­renza delle opere idrau­li­che pre­vi­ste nel Master­plan, con i pro­getti di altre pia­ni­fi­ca­zioni e e pro­gram­ma­zioni che insi­stono sull’area di influenza dell’aeroporto. In par­ti­co­lare si evi­den­zia di chia­rire, da un punto di vista pro­get­tuale e quindi sugli impatti ambien­tali attesi, in primo luogo le rela­zioni con la terza cor­sia auto­stra­dale dell’A11 (Firenze-Mare) da Firenze a Pistoia. Con l’inceneritore e la disca­rica di Case Pas­se­rini. Con la pia­ni­fi­ca­zione dei Comuni inte­res­sati. Con il Pit della Regione Toscana sulle opere di gestione delle pro­ble­ma­ti­che del sistema idrico”.

Un sistema assai com­plesso, visto nella Piana fio­ren­tina inci­dono nume­rosi corsi d’acqua e in par­ti­co­lare quel vero e pro­prio mini-fiume che è il Fosso Reale. Di qui l’osservazione: “La scelta di deviare il Fosso Reale secondo il trac­ciato pre­sen­tato, e le solu­zioni scelte per supe­rare l’interferenza con l’autostrada A11, non risul­tano det­ta­glia­ta­mente moti­vate”. Quanto alla pia­ni­fi­ca­zione dei Comuni inte­res­sati, basta chie­dere ai “ribelli” di Sesto Fio­ren­tino, che hanno defe­ne­strato la sin­daca ren­ziana Sara Bia­giotti anche per la sua ina­zione sul tema.

Non è finita: sulla qua­lità dell’aria nella zona, già oggi al limite, si sco­pre che Enac ha por­tato solo i dati dell’anno 2010: “Le ana­lisi vanno fatte su un arco di tempo di almeno dieci anni – replica il mini­stero – sullo sce­na­rio futuro di traf­fico aero­por­tuale più gra­voso, e gli effetti vanno con­si­de­rati su una distanza minima di tre chi­lo­me­tri”. A seguire la rispo­sta a un’altra fur­be­ria di Enac: “Le con­cen­tra­zioni degli inqui­nanti ven­gono simu­late senza con­si­de­rare i livelli di fondo dell’area. Che vanno mostrati, e poi sepa­rati da quelli che saranno pro­pri dell’aeroporto”. Tanto basta per­ché i con­si­glieri della sini­stra cit­ta­dina Tom­maso Grassi, Gia­como Trombi e Donella Verdi, così come l’urbanista Ila­ria Ago­stini di Peru­nal­tra­città, tirino le somme: “I tec­nici del mini­stero ridi­co­liz­zano il Master­plan”. Per giunta le rispo­ste di Enac devono arri­vare, al mas­simo, entro 45 giorni.

Riferimenti
Vedi su eddyburg gli articoli di Ilaria Agostini e di Paolo Baldeschi. Numerosi altri nella cartella muoversi accedere spostarsi

«Il Pd di Sesto Fiorentino si ribella al progetto di Renzi di fare del Vespucci uno scalo intercontinentale. Verso la sfiducia della sindaca Sara Biagiotti, del giglio magico. Nel mentre Marco Carrai va alla guida di Toscana Aeroporti». Il manifesto, 16 luglio2015
Qual­cosa si è rotto? Anche se lo schiac­cia­sassi dell’aeroporto “made in Renzi” va avanti, l’assoluto non­sense di un nuovo scalo inter­con­ti­nen­tale in un’area den­sa­mente urba­niz­zata sta pro­vo­cando crepe impen­sa­bili. L’ultima è la ribel­lione di una parte deci­siva del Pd di Sesto Fio­ren­tino. Una presa di posi­zione che mar­tedì potrebbe por­tare alla caduta della sin­daca Sara Bia­giotti, socia fon­da­trice del giglio magico. Per Sesto­grad, comune fedele alla linea dal 1945, equi­vale a una rivo­lu­zione. Ma nel cal­colo fra il dare e l’avere, i 50mila sestesi pen­sano di aver già dato abba­stanza accet­tando in casa il maxi ince­ne­ri­tore di Case Pas­se­rini. Men­tre non hanno mai nasco­sto il dis­senso al maxi amplia­mento del Vespucci pro­get­tato da Toscana Aero­porti, crea­tura di Marco Car­rai e del potere ren­ziano. In alleanza, stra­te­gica, con Eduardo Eur­ne­kian e Roberto Naldi di Cor­po­ra­ciòn Ame­rica.
A Pisa, dove l’aeroporto inter­con­ti­nen­tale toscano c’è da un pezzo, la sini­stra di Una città in Comune e Rifon­da­zione ha fatto la radio­gra­fia del cda di Toscana Aero­porti, votato in que­ste ore dai soci della nuova società unica aero­por­tuale. Soci che si chia­mano Cor­po­ra­ciòn Ame­rica Ita­lia (51,13%), So.Gim (5,79%), Fon­da­zione Ente Cassa di Rispar­mio di Firenze (6,58%), Regione Toscana (5,03%), Pro­vin­cia di Pisa (4,91%), Fon­da­zione Pisa (4,57%), Camera di Com­mer­cio di Firenze (4,51%), Comune di Pisa (4,48%) e Camera di Com­mer­cio di Pisa (4,17%).

“L’operazione – osserva la sini­stra pisana che ha bat­tez­zato il suo docu­mento “Tutti gli uomini del pre­si­dente” — porta ai ver­tici una galas­sia di figure legate diret­ta­mente all’attuale pre­si­dente del con­si­glio: pre­si­dente diventa Marco Car­rai, con lui Jacopo Maz­zei, (pre­si­dente dell’Ente CariFi) e Leo­nardo Bas­si­li­chi (pre­si­dente della Camera di com­mer­cio di Firenze e ad dell’azienda omo­nima). Tutti soste­ni­tori della Fon­da­zione Big Bang, che ha finan­ziato le cam­pa­gne di Renzi e la ker­messe della Leo­polda. Senza dimen­ti­care Eli­sa­betta Fab­bri, ad del gruppo Sta­rho­tels, nomi­nata l’anno scorso dal governo Renzi mem­bro del cda di Poste Ita­liane”.

Il pac­chetto di mischia di Toscana Aero­porti è, come si vede, robu­sto. E ha l’aiuto dell’Enac, l’Ente nazio­nale avia­zione civile, pronta a ricor­rere con­tro la deci­sione presa lo scorso anno dalla Regione Toscana di limi­tare la lun­ghezza della nuova pista a 2.000 metri. Men­tre Enac — e Toscana Aero­porti – la vogliono lunga 2.400 metri. Più altre cen­ti­naia di metri di vie di fuga e altri “accor­gi­menti tec­nici”. Uffi­cial­mente per motivi di sicu­rezza. Nei fatti crendo un dop­pione del’aeroporto inter­con­ti­nen­tale Gali­lei di Pisa.

Sulll’intero pro­getto dovrà arri­vare il giu­di­zio sulla Valu­ta­zione di impatto ambien­tale. Nelle cui pie­ghe sono arri­vate le osser­va­zioni dell’Università di Firenze, il cui Polo scien­ti­fico e tec­no­lo­gico è a un tiro di schioppo dal Vespucci. “Mal­grado l’Università di Firenze – replica infa­sti­dito Car­rai — gli ultimi quat­tro governi (di destra e sini­stra) hanno deciso di rite­nere stra­te­gico il sistema aero­por­tuale for­mato da Firenze e Pisa, e l’Ue lo ha inse­rito nella Rete Ten-t come nodo Com­pre­hen­sive”. Ma il mano­vra­tore più stiz­zito è Roberto Naldi, neo vice­pre­si­dente di Toscana Aero­porti, che ha bol­lato come “man­cante di dati scien­ti­fici” una pun­tuale radio­gra­fia delle enormi cri­ti­cità dell’operazione fatta dall’urbanista Ila­ria Ago­stini.

“In realtà – replica Clau­dio Greppi della Rete dei comi­tati per le difesa del ter­ri­to­rio e dell’ambiente – di dati scien­ti­fici ce ne sono fin troppi. I pro­fes­sori dell’ateneo fio­ren­tino che hanno redatto il cor­poso pacco di osser­va­zioni a nome del ret­tore hanno ela­bo­rato un docu­mento di 300 pagine, arti­co­lato in 11 osser­va­zioni e un con­gruo numero di alle­gati tec­nici. E chiu­dono il loro lavoro segna­lando, per giunta: ‘Si ritiene che, già sin d’ora, nella pro­ce­dura di valu­ta­zione dell’impatto ambien­tale rela­tiva al pro­getto, siano rile­va­bili evi­denti pro­fili di ille­git­ti­mità, tali da giu­sti­fi­care un parere nega­tivo da parte dell’autorità com­pe­tente’”. Tutti mec­ca­ni­smi che a Sesto Fio­ren­tino sono ben conosciuti.

Sulla pesante infrastruttura, prepotentemente imposta dal gruppo di potere renziano, che devasterà la Piana di Sesto. Il Fatto Quotidiano, blog, 13luglio 2015

Sul legame tra l’attuale sindaco Nardella e il suo predecessore Matteo Renzi è sufficiente scorrere le intercettazioni pubblicate in questi giorni dal Fatto Quotidiano. Quanto è avvenuto in questi giorni a Firenze dimostra che lo spregiudicato gruppo di potere non è disposto a tollerare più alcuna critica sul suo operato. Il più grande progetto di trasformazione della città di cui si parla da venti anni è l’ampliamento dell’aeroporto di Peretola con la costruzione di una nuova pista. Il progetto ha sempre avuto una forte opposizione dal mondo dell’Università e degli urbanisti fatta di argomentazioni di merito, perché il luogo in cui sorge l'aeroporto è molto fragile dal punto di vista idrogeologico ed è troppo vicino al centro della città.

Ripeto, critiche note d tempo riconducibili alla normale dialettica tra chi esercita il potere e la società civile. Ma questo valeva prima che Renzi diventasse primo ministro e oggi a criticare si rischia grosso. Ne sa qualcosa Ilaria Agostini, architetto e docente di urbanistica, che sulle pagine locali de la Repubblica l’8 luglio scorso si è esercitata a ripercorrere tutte le criticità del progetto. Apriti cielo. Il giorno successivo sulle stesse pagine Marco Carrai replica molto risentito con un titolo che è un programma di governo “Perché si deve fare la nuova pista”. Carrai non è l’ultimo venuto. Non solo era il proprietario dell’alloggio generosamente messo a disposizione dell’allora sindaco Renzi, ma sta per assumerela guida della società cui sarà affidata la gestione del rinnovato aeroporto: la Toscana aeroporti spa.

Il Carrai muove due ordini di critiche. Non è vero che l’aeroporto è privato: è soltanto affidato in concessione ad una società che lo gestirà. Carrai fa una sorta di “chiamata di correo”, affermando che ciò vale per tutti gli aeroporti italiani. Vero. Solo che la collettività italiana ci mette anche un bel pacchetto di soldi e, dato il verminaio della commistione tra pubblico e privato che emerge in ogni affidamento di opere in concessione, è indispensabile chiudere la voragine dei conti pubblici: Renzi, e cioè la collettività italiana, con lo Sblocca Italia ci mette 50 milioni di euro, ma per Carrai la cosa non può essere neppure discussa.

E se Carrai tocca aspetti generali, il compito di intimidire Ilaria Agostini se lo assume l’ing. Roberto Naldi, numero uno di Corporacion America-Italia, una delle società che gestirà l’aeroporto. L’area prescelta per la realizzazione della nuova pista si trova in un luogo molto delicato dal punto di vista idrogeologico: la piana di Firenze è come noto un luogo delicato e la nuova pista di cemento armato lunga 2 chilometri e quattrocento metri sconvolgerà –oggettivamente- lo stato dei luoghi. Menzogne. Naldi afferma sempre su Repubblica che il nuovo progetto migliorerà lo scorrimento delle acque! Renzi fa miracoli e solo i gufi non lo vedono. Ed eccoci allo scoglio su cui si infrangerà il progetto. Ai sensi della procedura, i lavori dovranno iniziare entro il mese di agosto, ma la verifica degli impatti ambientali non è ancora espletata. Lo dice con molta onestà Naldi, anche se contemporaneamente minaccia querele verso l’Agostini rea di avere detto le stesse cose. Vedremo se i nulla osta ambientali verranno espressi in tempo.

Resta infine la questione gigantesca del sorvolo su Firenze. L’Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile) ha affermato che la nuova pista non sarà monodirezionale e cioè verso Prato, ma dovrà essere utilizzata nei casi in cui il vento o altri fattori lo impongano anche in senso contrario, e cioè da e verso Firenze. E’ una questione decisiva, sempre negata dai promotori del progetto. Ma il documento è ufficiale: il potenziamento dell’aeroporto avrà effetti negativi sulla vita della città di Firenze e rischiamo di veder sfrecciare sopra la cupola di Brunelleschi Renzi, Nardella, Carrai e Adinolfi. Un motivo in più per non portare avanti l’inutile e dispendioso progetto

Guai a criticare il progetto dell'aeroporto di Firenze, per quanto fragili siano le sue basi economiche e devastanti le conseguenze territoriali. Il Capo lo vuole, irresistibilmente. Dunque, chi lo critica o è un gufo oppure non è abbastanza "scientifico".

Alle critiche sollevate da Ilaria Agostini nell’articolo, Le 10 cose da sapere sul nuovo aeroporto di Firenze, pubblicato l’8 luglio su la Città invisibile e ripreso da eddyburg, ha replicato sulla stampa locale Roberto Naldi, presidente di Corporacion [sic] America Italia, vice presidente in pectore della nuova società unica Toscana Aeroporti. Naldi ha contestato «la totale assenza di un supporto scientifico a sostegno delle accuse» (la Repubblica, ed. Firenze 10 luglio 2015

Allora vediamo che cosa dicono gli esperti dell’Università di Firenze, che il 25 maggio (in
piena campagna elettorale per le amministrative) hanno presentato un corposo pacco di osservazioni a nome del Rettore.

Si tratta di membri del Dipartimento di Ingegneria Industriale (Prof. Ing. Monica Carfagni , Dott. Ing. Francesco Borchi, Ing. Chiara Bartalucci, Ing. Alessandro Lapini), del Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile ed Ambientale (Prof. Ing. Lorenzo Domenichini , Dott. Giovanni Pedaccini, Prof. Ing. Enio Paris, Dott. Ing. Simona Francalanci) e del Dipartimento di Fisica e Astronomia (Prof. Giovanni Modugno), che hanno presentato un documento di 300 pagine (troppe, per i nostri politici?) articolato in 11 osservazioni e un congruo numero di allegati tecnici.
In precedenza altre osservazioni, come quella presentata dalla "Rete dei comitati", contestavano la procedura seguita nel procedimento VIA, considerando il progetto del tutto illegittimo: è stata più volte denunciata (si vedano gli articoli di Paolo Baldeschi del 4 giugno e del 13 giugno) la sistematica confusione fra progetto preliminare e definitivo così come la mancanza di occasioni di partecipazione e dibattito sul progetto come era previsto dalla Regione.
I colleghi dell’Università di Firenze entravano invece nel merito del progetto stesso, sviluppando una serrata analisi critica degli elaborati proposti (preliminari o definitivi che fossero) con una competenza specifica in materia di Ingegneria per la Tutela dell’Ambiente e del Territorio, Ingegneria dei Trasporti, Ingegneria Idraulica, Acustica.

Quella che segue è una sintesi delle osservazioni presentate dall’Università di Firenze. In essa per Master Plan 2014-2019 si intende la variante al PIT che nel luglio 2013 definiva i termini per la “qualificazione dell’aeroporto di Firenze”. Per SIA si intende lo Studio di Impatto Ambientale presentato da Aeroporto di Firenze (ora Toscana Aeroporti), in vista di una VIA affidata ad Autorità competente.

Si noterà che se alcune osservazioni prevedono eventuali adeguamenti e rimedi, altre sono del tutto incompatibili con qualsiasi progetto di pista parallela.

La prima osservazione si riferisce alla “definizione di aeroporto strategico”, che non risulta applicabile al caso di Firenze: questa infrastruttura infatti sarebbe a meno di 70 km da altre due similari (Pisa e Bologna), con le quali entrerebbe dunque in conflitto: mancano i requisiti di cui al Regolamento UE n. 1315 del 2013[1]. In sostanza questa previsione “non è stata preceduta da un’adeguata pianificazione finanziaria e un’adeguata ottimizzazione dell’uso di fondi pubblici”. L’osservazione contesta quindi la violazione del Regolamento UE citato e dunque la possibilità di accedere ai finanziamenti destinati alle infrastrutture aeroportuali. In più se ne deduce che una simile mancanza di adeguata pianificazione preventiva non potrà comunque essere rimediata a posteriori.
La seconda osservazione contesta la mancata osservanza delle prescrizioni del PIT della Regione, cioè del Master Plan 2014-2019, in quanto il SIA “non ha previsto un percorso di integrazione fra gli aeroporti di Pisa e Firenze che garantisca l’utilizzazione più sostenibile, dal punto di vista ambientale ed economico, della capacità aeroportuale complessiva”, e addirittura si sarebbe basato “su un’errata costruzione dei modelli previsionali di sviluppo, non coerenti con la dimensione dell’aeroporto proposta dal Master Plan 2014-2019[2]”. I modelli previsionali non tengono conto delle caratteristiche di City Airport a cui è destinato lo scalo fiorentino.
La terza osservazione contesta la metodologia seguita nel calcolo del coefficiente di utilizzazione della nuova pista. Il tema è molto tecnico: riguarda l’orientamento della pista rispetto ai venti dominanti. L’osservazione introduce alla successiva.
Qui (quarta osservazione) si ritorna sull’incoerenza del progetto con il PIT della Regione che come è noto stabiliva una lunghezza di 2000 metri e in particolare imponeva un utilizzo esclusivamente monodirezionale. Dagli allegati si evince che l’uso monodirezionale, con provenienza solo da e per Prato, ridurrebbe il coefficiente di cui sopra: dunque aumenterebbe – anche rispetto all’attuale pista del Vespucci – il rischio di dover dirottare voli su altri scali. L’inconveniente sarebbe rimediabile solo se la pista potesse essere utilizzata occasionalmente anche in direzione di Firenze: si stima questa eventualità nell’ordine del 12 % dei voli. Dunque la molto sbandierata assicurazione della monodirezionalità non è altro che un bluff: un volo su otto potrebbe sorvolare Firenze. Va da sé che se la nuova pista si giustifica solo nell’ipotesi di utilizzo “prevalentemente” e non “esclusivamente” monodirezionale, tutte le valutazioni di impatto e di rischio andrebbero completamente riviste.
Qui si considera l’impatto del progetto sulla sicurezza, rispetto al rischio di catastrofe aerea, dei frequentatori delle aree vicine e in particolare del Polo Scientifico. Si osserva che il progetto non tiene sufficientemente conto di questi rischi. Le carenze in questo caso riguardano sia Il PIT che il SIA.
Analogamente non sono stati adeguatamente valutati i rischi dovuti ai pericoli per la navigazione aerea presenti nell’area, quali edifici previsti come l’inceneritore di Case Passerini. Negli allegati si considera in particolare il rischio del bird strike, dovuto alla presenza delle aree naturalistiche, anche di quelle che il progetto ritiene di poter spostare.
Sull’impatto del progetto sull’equilibrio idrogeologico e idrografico della Piana di Sesto. Qui si tocca un punto decisivo per quanto riguarda l’assetto del territorio. L’osservazione rileva rilevanti criticità, che sono ben documentate negli allegati. In particolare la deviazione del Fosso Reale, che raccoglie tutto il sistema delle acque alte, comporterebbe un delicatissimo sottopasso dell’autostrada A11 in prossimità del casello di Prato est, dove mancherebbe l’altezza necessaria per assicurare un manufatto adeguato al regime delle piene. Nell’allegato tecnico si dimostra che il problema potrebbe essere risolto solo alzando il livello dell’autostrada di almeno 70 cm. Non è compito degli osservanti valutare i costi aggiuntivi di una simile operazione, ma viste le carenze del progetto anche dal punto di vista delle previsioni economiche e finanziarie, non c’è dubbio che si tratterebbe di un ulteriore aggravio piuttosto rilevante.
Per quanto riguarda l’inquinamento acustico si osserva che gli elaborati presentati non tengono conto delle particolari criticità legate alla presenza nel Polo Scientifico di attrezzature didattiche e scientifiche, per le quali non sono previste (e non sarebbero neppure prevedibili) efficaci misure di mitigazione.
Altre carenze riguardano il riassetto della viabilità a seguito dell’inserimento della nuova pista fra autostrada e rete urbana della Piana di Sesto. Soluzioni migliori possono essere studiate, sempre però con relativo aumento dei costi.
Al punto 10 si mette in evidenza come la nuova pista metterebbe in crisi non solo l’attuale assetto del territorio, ma in particolare gli sviluppi già programmati del Polo Scientifico fino alla compiuta realizzazione delle strutture didattiche e tecnologiche previste (e finanziate).
L’ultima osservazione riguarda la “difformità del progetto presentato per la VIA rispetto al PIT della Regione Toscana e alle prescrizioni presentate in sede di VAS”. E dunque “se ne desume che il progetto di qualificazione dell’Aeroporto di Firenze non può essere ritenuto assentibile in questa sede”

Le conclusioni sono drastiche: “Alla luce di tutto quanto rilevato, si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di valutazione dell’impatto ambientale relativa al progetto siano rilevabili evidenti profili di illegittimità tali da giustificare un parere negativo da parte dell’Autorità competente”.

Come sono state accolte le osservazioni dell’Università? Con sufficienza, naturalmente: lasciamoli dire, tanto poi si adegueranno; ne terremo conto come prescrizioni da affrontare in sede di esecutivi. Del resto anche l’Università, che nel frattempo ha eletto il nuovo Rettore, non si è fatta più sentire. Lanciato il sasso, ritirata la mano? Viene da pensare che siano state offerte adeguate contropartite, se vogliamo pensar male. Ma noi vogliamo pensar bene: crediamo che i colleghi che hanno esaminato e demolito il progetto della nuova pista siano davvero i migliori esperti scientifici su questi temi. Certo, Ilaria Agostini è urbanista, come Paolo Baldeschi, Tomaso Montanari è storico dell’arte: io poi sono un geografo esperto di paesaggi e cartografia. Ma sappiamo riconoscere un discorso scientifico da un minestrone politico-affaristico, quale il progetto della nuova pista.

Credetemi, alla mia età posso ben dire di aver visto cose che voi umani …: una pista sulla vetta della Calvana (1963, qualcuno la prendeva sul serio), un’altra a San Giorgio a Colonica vicino a Poggio a Caiano (1965, ma disturbava la ciminiere dei lanifici di allora). Ma il tempo porta consiglio, e la soluzione piano piano è venuta da sola, in un certo senso: l’aeroporto c’è già ed è quello di Pisa che una volta si chiamava di San Giusto. Negli anni Settanta si poteva fare il check-in a Santa Maria Novella e arrivare in treno fin dentro l’aeroporto. Troppo comodo. In seguito hanno fatto di tutto per smantellare i collegamenti ferroviari, fino a eliminare il raccordino stazione di Pisa – aeroporto per sostituirlo in futuro con un cosiddetto people-mover, tanto per evocare qualcosa di molto moderno.

La soluzione ci sarebbe: ristabilire il collegamento ferroviario delle città toscane (non solo Firenze) con l’aeroporto Galilei, investire sulla rete del ferro che non serve solo i Vip ma anche i pendolari.

[1] “Gli aeroporti sono conformi ad almeno uno dei seguenti criteri:
a) per gli aeroporti adibiti al traffico passeggeri il volume totale annuo del traffico passeggeri è almeno pari allo 0,1 % del volume totale annuo del traffico passeggeri di tutti gli aeroporti dell’Unione, a meno che l’aeroporto in questione si trovi fuori da un raggio di 100 km dall’aeroporto più vicino appartenente alla rete globale o fuori da un raggio di 200 km se la regione nella quale è situato è dotata di una rete ferroviaria ad alta velocità;.
b) per gli aeroporti adibiti al traffico merci il volume totale annuo del traffico merci è almeno pari allo 0,2 % del volume totale annuo del traffico merci di tutti gli aeroporti dell’Unione.”

[2] “Articolo 5 bis. Obiettivi strategici per la qualificazione Aeroporto di Firenze-Peretola
Sulla base del quadro conoscitivo, con riferimento all’intervento di qualificazione dell’aeroporto di Firenze-Peretola, il presente masterplan individua i seguenti obiettivi
strategici:
− l’aumento dei livelli di competitività del territorio regionale, con particolare riferimento all’area metropolitana, in coerenza con la programmazione regionale;
− l’integrazione del sistema aeroportuale fiorentino con lo scalo pisano attraverso forme dicoordinamento operativo, e gestionale delle infrastrutture e dei servizi;
− la qualificazione dell’aeroporto con funzioni di city-airport nell’ambito del sistema aeroportuale toscano, migliorandone la funzionalità;”

Dieci semplici domande, dietro le quali trapela una lunga storia di errori e, soprattutto, di intrecci tra affari, poteri, istituzioni e uomini noti. Come al solito paghiamo noi, quelli di oggi, di domani e di dopodomani. La città invisibile, 6 luglio 2015
1) Il nuovo aeroporto di Firenze è affare di un’impresa sostanzialmente privata. Questi gli azionisti della “Toscana Aeroporti”, società di gestione degli aeroporti di Firenze e Pisa, presieduta da Marco Carrai, sodale del presidente del consiglio: l’argentina Corporacion America Italia Spa rappresenta il 51,13%, Ente Cassa di Risparmio di Firenze 6,58%, So.Gim. Spa 5,79%, “altri” 31,5%; infine, dopo la svendita di Rossi agli argentini, un misero 5% della Regione Toscana.

2) La nuova pista subparallela all’autostrada, lunga 2400 metri (anziché i 2000 indicati dalla variante al PIT), non sarà unidirezionale come promettono i proponenti: lo ha dichiarato ufficialmente l’Enac. Il “Rapporto ambientale” approvato dalla Regione Toscana prevede il sorvolo a bassa quota di Firenze, con aerei intercontinentali, a un tiro di schioppo dalla Cupola: Rovezzano, Stadio, Le Cure, Rifredi, Firenze Nova.

3) Il nuovo orientamento della pista innalza il rischio idraulico della Piana. Per consentire l’inserimento della pista, il complesso sistema di drenaggio dovrà essere ridisegnato: le residue aree umide scompariranno, per aggirare la pista il Fosso reale sarà deviato, stessa cosa per il Collettore delle acque basse; mancherà lo spazio per le casse di espansione del polo universitario.

4) Non esiste alcun serio studio di fattibilità dei lavori propedeutici alla costruzione della pista. Il nuovo assetto idraulico è vagamente tratteggiato: il Fosso reale può veramente passare in discarica quando, viceversa, la normativa ambientale impedisce che le discariche ricadano in aree esondabili (DL 36/2003, all. 1, p. 1.1)?

5) Malgrado l’avvio dei lavori previsto entro l’agosto 2015, del nuovo aeroporto non esiste un progetto esecutivo. In assenza di studi che dimostrino l’effettiva necessità di un aeroporto interno all’area urbana, il Master plan del proponente «è assunto al pari del progetto preliminare/definitivo».
6) Comunque sia, il progetto non sarà sottoposto a una valutazione ambientale propriamente detta. Lo stratagemma del progetto “preliminare/definitivo” consente infatti un aggiramento delle regole, per cui entra nella valutazione come preliminare e ne esce come definitivo, dopo contrattazione tra commissione Via ed enti interessati, che hanno espresso pesanti riserve sui contenuti del progetto e dello Studio di Impatto Ambientale allegato: infrastrutture viarie non conformi col PIT, criticità sanitarie segnalate da ASL e ARPAT, rischio idraulico. Però il parere è positivo.

7) In fondo, è la stessa storia della TAV in Mugello. Come in quel caso, il progetto fiorentino è stato approvato rimandando alle «prossime fasi autorizzative» la verifica delle criticità segnalate in sede di conferenza dei servizi, dove si indicano «prescrizioni realizzative» la cui attuazione non sarà mai verificata. Ma a verbale l’Enac afferma: è «prassi consolidata».

8) Il procedimento che porterà all’esecuzione dell’aeroporto non è democratico. Secondo la normativa europea, un progetto di questa portata deve essere sottoposto a un processo di partecipazione. Nella variante al PIT, la Regione si era impegnata a sottoporre il progetto a dibattito pubblico, come prevede la stessa legge toscana. Eppure questo non sta avvenendo.

9) L’aeroporto (privato) lo pagheremo con soldi pubblici. I costi per l’ampliamento saranno essere a carico del proponente. Tuttavia i costi per il riassetto idraulico della piana e per il riassetto della mobilità ricadranno sui contribuenti. Dal momento che i 50 milioni stanziati dallo Sblocca Italia per l’impresa fiorentina violano le regole europee sulla concorrenza, Renzi ricorre alla soluzione emergenziale proponendo Firenze come città ospite del G8 nel 2017.

10) La “grande opera aeroporto” condanna ogni possibile alternativa di riscatto per la Piana. In una situazione urbana già congestionata, e nella quale si prevede una pesante presenza di cantieri (linea 2 della tramvia, nuovo svincolo di Peretola, nuovo stadio, inceneritore a Campi e, forse, terza corsia autostradale), si aggiunge il carico di inquinamento aeroportuale: polveri, carburanti, solventi/antigelo per la pista, inquinamento luminoso, rumore etc.

«La nuova frontiera del low cost. Tariffe basse per viaggiare nelle principali città. Ma con l'incremento del trasporto su gomma a perderci sarà l'ambiente». Ci avevano già tolto i treni per tutti, adesso ci restituiscono un po' d'inquinamento in più, e arricchiscono qualche supporter del governo. Il manifesto, 24 giugno 2015
Adesso c’è un’alternativa per chi trova l’Alta Velo­cità Torino-Milano-Roma troppo costosa: arri­vano i mega­bus. L’omonima com­pa­gnia, ope­rante già da oltre un decen­nio in Usa e in Nord Europa, avvia infatti la sua atti­vità nel cen­tro­nord del nostro paese, con auto­mezzi che tra­spor­tano un cen­ti­naio di per­sone, un prezzo low cost di 15 euro a tratta e tempi poco meno che doppi rispetto a quelli della AV. Ma con un incon­ve­niente non da poco per le infra­strut­ture e l’ecologia del Bel­paese: lo sdo­ga­na­mento, pure incen­ti­vato ed isti­tu­zio­na­liz­zato, dell’incremento del traf­fico col­let­tivo su gomma; con tanti saluti ai pro­blemi di inqui­na­mento e con­ge­stione connessi.

Esulta — insieme al governo — l’Associazione Nazio­nale Auto­tra­sporto Viag­gia­tori, che auspica addi­rit­tura una forte cre­scita del com­parto; sistema che invece, secondo l’ultimo Piano Gene­rale Nazio­nale della Mobi­lità e dei Tra­sporti (2001, ormai pre­i­sto­ria), doveva essere addi­rit­tura ridi­men­sio­nato fino all’abbandono.

Col­pi­sce su que­sti temi (come su molto altro) l’insipienza e l’ignoranza del governo, sod­di­sfatto; che non perde occa­sione per mostrare la pro­pria inca­pa­cità e mio­pia poli­tica, non solo sui temi ter­ri­to­riali ed infra­strut­tu­rali, ma in gene­rale su qual­si­vo­glia capa­cità di espri­mere uno strac­cio di pro­gram­ma­zione inno­va­tiva ed orien­tata ai pro­blemi reali. A meno che que­sta capa­cità di vedere solo nel bre­vis­simo periodo (il treno costa troppo? Pren­dete l’autobus!) senza alcuna stra­te­gia eco­no­mica, né let­tura delle con­se­guenze, non sia inten­zio­nale; det­tata dagli inte­ressi finan­ziari spe­cu­la­tivi, legati a varie lobby, non solo mas­so­ni­che; evi­den­te­mente in grado di deter­mi­nare le azioni dell’esecutivo.

A parte infatti l’iniquità sociale del treno “più moderno e con­for­te­vole” acces­si­bile solo agli abbienti (con spe­re­qua­zioni esa­spe­rate dall’abolizione della quasi tota­lità degli inter­city e inter­re­gio­nali) – e al di là del soste­gno all’aumento di vet­tori pro­gram­ma­ti­ca­mente supe­rati e ad alto impatto, come i grandi bus – è da tempo che si regi­stra il ritorno, soprat­tutto pri­vato, al traf­fico su gomma, come con­se­guenza dei nuovi assetti fer­ro­viari a domi­nanza TAV, e delle nuove con­di­zioni fun­zio­nali e tariffarie.

Da Bolo­gna o da Firenze, per esem­pio, rag­giun­gere Roma e Milano in treno, fre­quen­te­mente o perio­di­ca­mente, è diven­tato scon­ve­niente da quando gli Euro­star si sono ride­no­mi­nati “Alta Velo­cità”, con abbas­sa­mento di qual­che minuto nei tempi di per­cor­renza e costi del biglietto di viag­gio più che rad­dop­piati. Il ritorno alla mobi­lità pri­vata su gomma — spe­cie della domanda a più forte con­no­ta­zione sociale — riguarda il traf­fico regio­nale e locale del cen­tro nord, per i motivi citati; con un gene­rale sbi­lan­cia­mento degli inve­sti­menti verso la moda­lità Alta Velo­cità, rispon­dente a quote assai basse dell’utenza. Ma avviene anche al sud, dove a fronte di incre­di­bili tagli al set­tore, anche per la regio­na­liz­za­zione del tra­sporto locale su ferro, si è regi­strato un crollo gene­ra­liz­zato degli investimenti.

In realtà, come per la poli­tica urba­ni­stica, una poli­tica dei tra­sporti manca total­mente, fin dall’avvento nel 2001 della ber­lu­sco­niana legge Obiet­tivo. Che oggi Can­tone defi­ni­sce “cri­mi­no­gena” e prin­ci­pale ali­mento “dell’enorme cor­ru­zione nazio­nale”. Ma che Renzi e Del Rio non hanno abo­lito, ma solo ridi­men­sio­nato; solo per ren­derla più cre­di­bile dal punto di vista della cre­di­bi­lità eco­no­mico finan­zia­ria. Men­tre giace in Par­la­mento la pro­po­sta di legge sul con­te­ni­mento del con­sumo di suolo, si per­si­ste con le vec­chie logi­che legate alle grandi opere inu­tili (com­preso l’assurdo e deva­stante Sot­toat­tra­ver­sa­mento TAV di Firenze, bloc­cato dalla magi­stra­tura ed evi­den­te­mente abu­sivo, pro­getto che Renzi cono­sce bene, ma non si decide a cancellare).

Oggi il rilan­cio del traf­fico su gomma col­let­tivo costi­tui­sce l’ulteriore corol­la­rio di tutto ciò. Con tanti saluti all’ecologia e buona pace, oltre che del Santo Padre, anche di que­gli eco-ottimisti, che non mol­lano il par­tito della nazione, osti­nan­dosi a vedere il “bic­chiere mezzo pieno”. Le con­di­zioni sociali, eco­no­mi­che e ter­ri­to­riali impon­gono invece il ritorno a una cate­go­ria tanto igno­rata quanto invisa al nostro pre­mier: la pia­ni­fi­ca­zione. Senza una pro­gram­ma­zione ter­ri­to­ria­liz­zata, mirata al pae­sag­gio, anche le istanze della green eco­nomy e della smart city diven­tano occa­sioni per le scor­re­rie della spe­cu­la­zione finan­zia­ria, più o meno cor­rotta, più o meno criminale.

Una interpretazione economica e post-crisi della ripresa automobilistica lascia forse troppo poco spazio al vero spunto nuovo, sociale e tecnologico, così importante per le discipline urbane. La Repubblica, 21 maggio 2015, postilla (f.b.)

Sarà connessa, economica, automatica. Soprattutto utile. La crisi ha cambiato il nostro rapporto con le quattro ruote. Oggi che le vendite tornano a salire anche in Italia (segno di una piccola ripresa dopo la crisi) scopriamo che nulla sarà più come prima. Che l’auto-identità, l’auto simbolo di benessere, l’auto che ti colloca in un preciso scalino della piramide sociale, sta lentamente tramontando. Finisce un’epoca e se ne apre un’altra: quella dell’auto “prendi e lascia”, dell’auto strumento e non oggetto di desiderio. Fino alla clamorosa scomparsa del volante, scenario non più tanto futuribile che cambierà per sempre il senso del verbo guidare: da attivo a passivo. Sarà l’auto che si guida da sola. Nel futuro sparirà anche la patente?

I dati del mercato italiano parlano di una ripresa impetuosa delle vendite. Sono salite del 24 per cento ad aprile, erano cresciute a due cifre anche nei mesi precedenti. La rincorsa italiana era iniziata nella seconda metà del 2014. L’anno nero è stato il 2013: 1,3 milioni di auto immatricolate, quasi la metà del livello del 2007 che aveva portato l’asticella a 2,5 milioni, l’anno. Un vero exploit che aveva fatto a pezzi i precedenti record degli anni 60 e 70, quelli del boom economico, della Fiat 500, della motorizzazione di massa. Poi, dopo la vetta, il precipizio. Gli impiegati di Lehman Brothers impacchettavano i loro scatoloni e i concessionari hanno cominciato ad abbassare le saracinesche. La crisi ha colpito tutti, privati e enti pubblici. Tra il 2007 e il 2013 le vendite di camion e autobus si sono ridotte da 283 mila all’anno a 117 mila. Anche i Comuni hanno finito i soldi e i mezzi pubblici non sono stati sostituiti. Il quadro generale dei sette anni di vacche magre lo propone Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor: «Gli italiani hanno risparmiato tenendo le auto in garage. Ma non le hanno vendute. Hanno scelto di usare un po’ di più i mezzi pubblici. La riprova? In tutto questo periodo, mentre crollavano le vendite di auto nuove, il parco circolante italiano è rimasto praticamente intatto tra i 36 e i 37 milioni di autovetture ».

Vecchia, tossicchiante e magari più inquinante di un tempo, ma la cara auto di proprietà ha resistito. E anche quelle recenti sono state utilizzate con grande parsimonia. Un’auto nuova acquistata nel 2000 percorreva in media 12.800 chilometri nel primo anno se alimentata a benzina e 25.400 se diesel. Nel 2013 l’auto a benzina nuova percorreva nel primo anno 9.900 chilometri e quella diesel 19.100 Eppure, anche oggi che le vacche magre sembrano alle spalle, qualcosa è cambiato per sempre. La modifica più vistosa è l’uso che delle automobili fanno le nuove generazioni. I dati dell’Unrae, l’associazione dei costruttori stranieri in Italia, dicono che negli ultimi anni i giovani e i semigiovani hanno significativamente ridotto l’acquisto di auto nuove. «I giovani - dice Quagliano - sono stati più colpiti dalla disoccupazione e dalla precarietà del lavoro. Spesso non possono permettersi di comprare l’utilitaria a rate perché nessuno fa credito a chi non ha una busta paga sicura. Così capita che si intesti l’auto ai genitori o addirittura ai nonni». Risultato: nel 2005 i ragazzi tra i 18 e i 29 anni acquistavano il 13,8 per cento delle vetture nuove mentre gli over 65 comperavano il 9,4 per cento. Nel 2014 i ruoli si sono invertiti: i giovani hanno acquistato l’8 per cento delle auto nuove e gli anziani il 15,8.

Oltre all’effetto precarietà, interviene sulla scelta dei ragazzi quella che Vanni Codeluppi, so- ciologo dei consumi, chiama «la perdita del ruolo identitario dell’automobile. Nonostante gli sforzi delle case per rendere comunque appetibili i loro nuovi modelli, è passata nelle giovani generazioni dell’Occidente l’idea che l’auto è un mezzo di trasporto non ecologico e molto dispendioso dal punto di vista energetico. I ragazzi hanno oggi una idea profondamente diversa della mobilità. Vivono in un mondo connesso in cui è sempre meno necessario recarsi fisicamente in un luogo per agire e comunicare. E anche quando la Rete non è più sufficiente e bisogna davvero spostarsi fisicamente, ci sono molti modi alternativi all’auto, soprattutto nelle grandi città. L’auto è stata uno status symbol tra gli anni 60 e 80 in Italia. Poi è diventata un prodotto maturo e oggi direi che è ormai più che maturo, destinato a un lento declino ». Eppure le cifre del mercato sembrerebbero dire il contrario. Non tanto per i dati della ripresa europea, che sta sostanzialmente recuperando, e solo in parte, il terreno perduto negli anni bui della crisi. Ma per quello che accade a livello mondiale dove il totale delle auto vendute (siamo intorno gli 80 milioni) è in continua crescita, soprattutto per effetto dell’espandersi dei nuovi mercati. «Questo è vero - ammette Codeluppi - ma dobbiamo considerare che i cinesi stanno vivendo ora la fase in cui l’automobile è il simbolo del risveglio dell’economia, della nuova ricchezza di chi la possiede. Diciamo che nei Paesi emergenti si sta verificando sul piano simbolico ciò che da noi era accaduto nella seconda metà del Novecento».

Se c’è un nuovo modo di considerare l’auto, il mercato sta adattandosi rapidamente. Il primo segnale di cambiamento è quello della scelta dei carburanti. Il passaggio dalla benzina al diesel era già avvenuto negli anni 90 quando era stata ridotta la tassazione sul gasolio e aveva motivazioni essenzialmente economiche. Oggi nella scelta pesa ancora il ragionamento sui costi ma incide anche una diversa coscienza ecologica. Dal 2011 al 2014 tra le nuove auto vendute, quelle diesel sono rimaste ferme intorno al 55 per cento del mercato. E’ invece crollato il numero di vetture nuove a benzina, passate dal 39 al 29 per cento, è triplicato il numero delle auto alimentate a gpl (dal 3,2 al 9,2) ed è raddoppiata la percentuale del metano (dal 2,2 al 5,3). «Va osservato - dice Quagliano - che le auto ad alimentazione alternativa hanno una tassazione sui carburanti molto bassa o addirittura inesistente. Se il trend proseguirà, lo Stato dovrà risolvere il problema delle minori entrate». Troppo virtuosi? Secondo i dati del Centro Promotor, sui 62,5 miliardi di carburante spesi dagli italiani nel 2014, 36,1 sono finiti nelle casse del Tesoro. Nel futuro senza benzina e gasolio una buona fetta di quei 36 miliardi rischia di andare in fumo.

La seconda rivoluzione è quella della connettività e del servizio. L’auto fa da sola sempre più cose: ti dice con una telecamera se stai parcheggiando bene, ti avvisa nella nebbia se un veicolo precede, ti legge gli sms in arrivo. Sempre più cambia le marce da sola, rompendo l’attaccamento molto italiano alla cloche. E sempre più non è la tua. E’ in affitto. Per tre anni, con l’auto a noleggio ora accessibile anche ai privati: basta un canone mensile e si paga solo il carburante. Al resto pensa la società di noleggio. O anche in affitto per poche ore: car sharing soprattutto nella versione a parcheggio flessibile, raggiungibile con le mappe degli smartphone. «In sostanza, il car sharing è una sorta di taxi fai da te», sintetizza Quagliano. Il futuro è oltre. E’ nell’auto che si guida da sola, in sostanza l’autista robot. Mercedes ha presentato un prototipo al Salone di Ginevra. Si sale e si continua a lavorare sul computer mentre l’automobile si muove nel traffico. I vantaggi? Ci sta pensando una società come Uber che starebbe lavorando con Google per l’auto-auto. Taxi senza conducente insomma: niente licenza e niente polemiche con i tassisti tradizionali. Semplice no?

postilla
Insomma, alla fin fine le «cattive» Uber e Google parrebbero virtuosamente alleate in una joint venture destinata a dare una mazzata finale a un paio di cose novecentesche che parevano immortali: il culto dell'auto proprietaria e identitaria, il suo mercato compulsivo e attorno al quale ruotava praticamente tutto, dall'energia alle guerre all'organizzazione della città e del territorio. Se si colgono queste potenzialità, invece di straparlare a vanvera di sharing economy quando qualcuno ti affitta la camera online senza pagare le tasse, magari ci portiamo avanti. Per portarsi avanti aiuterebbe, anche, provare a superare certi schematismi novecenteschi rispetto al ruolo maledetto dell’auto privata nel plasmarsi un universo a propria immagine e somiglianza, e alla natura di antidoto rappresentata invece dal mezzo pubblico su rotaia o dalla ciclabilità in sede propria. Anche chi lega la crisi dell’auto ad una ipotetica crisi del modello suburbano, forse sarà obbligato a ricredersi, almeno in parte. Insomma c’è molto da riflettere, e sarebbe meglio iniziare a farlo in fretta (f.b.

In padania, come altrove, chi pedala rischia, ma pare che l’unica risposta delle istituzioni per ora sia solo burocratica e pure un po’ ottusa: facciamo piste ciclabili, a caso e dove capita. Corriere della Sera Lombardia, 15 maggio 2015, postilla (f.b.)

Più piste ciclabili: 283 chilometri ultimati nel 2014 in Lombardia, con una spesa di 31,2 milioni di euro della Regione, che ha investito anche su bike sharing e posteggi ad hoc per le biciclette. Più soldi ai Comuni per la mobilità dolce: 3 milioni di euro concessi quest’anno dal Pirellone per finanziare 37 progetti, in aggiunta ai 3,5 milioni erogati a 13 comuni nel 2014.
È una doppia mossa quella della Regione per sostenere la sfida dei ciclisti a traffico e smog, dopo che il dossier su biciclette e incidenti stradali, realizzato (su dati Istat) dal Centro di monitoraggio per la sicurezza stradale insieme a Éupolis, ha scattato una fotografia da allarme rosso per la Lombardia: un ciclista morto ogni settimana, 12 feriti in media ogni giorno e 12 incidenti ogni ventiquattr’ore con una bicicletta coinvolta.

Cifre impressionanti che spingono il Pirellone ad accelerare su nuovi progetti per tutelare gli amanti del pedale. Spiega l’assessore alla sicurezza, Simona Bordonali: «È quasi pronta la mappa delle strade regionali in base all’incidentalità. Questa classificazione ci servirà per capire quali sono quelle più pericolose e poi intervenire. Inoltre, in collaborazione con Inail e Aci, stiamo organizzando una serie di iniziative ed eventi sulla sicurezza stradale rivolti ai lavoratori». Ma, nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni dal Pirellone, per le biciclette le nostre città rimangono ancora delle trappole mortali: infatti nel 2013 su 49 ciclisti morti in incidenti stradali, 32 (il 65%) hanno perso la vita sulle arterie urbane dei centri abitati, laddove è accaduto anche il 92% dei sinistri (pari a 4.268), contro i 345 verificatisi fuori dai centri abitati, dove le vittime sono state diciassette.

È vero che nelle nostre città l’indice di mortalità per i ciclisti negli ultimi quattro anni è in continuo calo: dallo 0,81% del 2010 si è scesi allo 0,75% del 2013. Ma è altrettanto vero che la sicurezza per le biciclette è una strada ancora tutta in salita. Anche perché in Italia, come sottolinea Giulietta Pagliaccio, presidente della Fiab (Federazione italiana amici della bicicletta), «non c’è mai stato un governo che abbia dettato una politica nazionale per lo sviluppo della bici come mezzo di trasporto». Di conseguenza, ciascun ente locale ha sempre fatto da sé. Con il risultato che, da un lato, i Comuni si dividono sul 30 all’ora in città, con alcuni (Lecco, per esempio) che dicono sì al traffico slow, mentre altri (Varese, in testa) bocciano la riduzione della velocità in centro perché «è una misura inutile». Dall’altro, le piste ciclabili (2.800 chilometri totali in Lombardia) sono state costruite a macchia di leopardo, tanto che non mancano casi in cui i percorsi protetti terminano o contro un muro, o nel deserto.

postilla
Se non altro (e non era scontato) giusto alla fine dell’articolo si ricorda il fatto, innegabile, che tutti i soldi sinora spesi per le famose piste dedicate sono stati sostanzialmente buttati nel lavandino. L’equazione tra soldi investiti, chilometri realizzati, e sicurezza, per non parlare della qualità urbana ignorata da tutti, pare una specie di fede cieca burocratica e ottusa: da un lato morti, feriti, paura, difficoltà, dall’altro questo flusso automatico di denaro e progettini tecnici, con o senza cordolo di cemento, con o senza fondo rossastro, ma puntualmente pronti a svanire nel nulla vuoi per difficoltà finanziarie, vuoi quando si arriva a quegli ostacoli concettualmente insormontabili che sono un confine comunale, o un semplice incrocio, ovvero nei punti in assoluto più pericolosi, che alimenteranno fatalmente le prossime statistiche ospedaliere e cimiteriali. Un bel circolo vizioso, se non si inizia a prendere la cosa da un verso meno burocratico, schizofrenico e sostanzialmente senza obiettivi salvo quello di dimostrare attivismo (f.b.)

Indubbiamente una delle questioni centrali della mobilità motorizzata è da sempre quella dell’incolumità di chi circola, ma focalizzarsi su un solo per quanto importante aspetto rischia di trascurarne altri. La Repubblica, 6 maggio 2015, postilla (f.b.)

C’è chi fa gli scongiuri, c’è chi si annoia: la sicurezza stradale è un tema difficile ma va affrontato con forza e per forza. I numeri parlano chiaro: ogni anno nel mondo muoiono per incidenti stradali qualcosa come 1,3 milioni di persone, oltre 3.000 vittime al giorno, con circa 30 milioni di feriti l’anno.
E se in Europa e negli Usa la situazione è in netto miglioramento, nel resto del pianeta i numeri sono completamente senza controllo, in forte aumento: se non si adottano subito drastici provvedimenti si arriverà a breve ad avere gli incidenti stradali come quinta causa mondiale di morte, con 2,4 milioni di vittime all’anno. Non è un caso che il 90 per cento delle vittime su strada arriva dalle nazioni più povere, dove peraltro risultano immatricolate meno della metà delle vetture circolanti nel mondo. I dati arrivano dall’Onu che così ha deciso di intervenire con “forza”: nel marzo del 2010, ha adottato la risoluzione 64/255 “Miglioramento della sicurezza stradale nel mondo” con cui ha proclamato il periodo 2011-2020 “Decennio di Azione per la Sicurezza Stradale”.

In che consiste? In una vera rivoluzione, divisa in cinque grandi settori: gestione della sicurezza stradale nel suo complesso; mobilità più sicura; veicoli migliori; automobilisti più attenti; risposta immediata agli incidenti.
Ecco in questo contesto si inserisce la famosa “Settimana mondiale della sicurezza stradale” con la quale da lunedì scorso fino a domenica le Nazioni Unite cercano di focalizzare l’attenzione sul tema. L’evento è spinto con forza anche dalla Fondazione Ania per la sicurezza Stradale che per prima ha iniziato a investire pesantemente in campagne sociali (l’ultima ispirata ai dieci comandamenti).

Il tema sul tappeto oggi punta sugli incidenti per i più giovani visto che ogni giorno sulle strade del mondo muoiono 500 bambini e adolescenti con meno di 18 anni: un totale di oltre 182mila giovani vittime della strada. Un dramma che coinvolge anche l’Italia dove, guardando al 2013, sono morti una media di oltre 2 bambini a settimana, per un totale di 123 vittime con meno di 18 anni. Di queste, ben 47 avevano meno di 14 anni.

L’obiettivo dichiarato è quello di abbattere drasticamente il numero di vittime, ed è un obiettivo realizzabile vista l’esperienza dell’Unione Europea che come dicevamo dieci anni fa si era posta l’obiettivo — praticamente raggiunto — di dimezzare le morti per incidenti stradali entro il 2010. Ecco quindi per questa settimana un sito dedicato (www. savekidslives2015. org), dal quale è possibile scaricare la “Dichiarazione dei bambini per la sicurezza stradale”, una petizione rivolta ai leader di tutti i paesi membri e un hastag #SAVEKIDSLIFE. Perché — si sa — ormai le grandi campagne sociali passano tutte per la re- te.

Il punto però è cosa fare davvero. Quali strategie — a livello globale — mettere in campo. Su questo le Nazioni Unite sembrano avere le idee piuttosto chiare visto che puntano sulla pianificazione urbana e dei trasporti, sulla creazione di autorità indipendenti in materia di sicurezza stradale per la valutazione dei nuovi progetti di costruzione, sul miglioramento delle caratteristiche di sicurezza dei veicoli e sulla promozione del trasporto pubblico.

Ma ancora non basta: è stato individuata anche la necessita di avere il controllo efficace della velocità da parte della polizia e mediante l’uso di misure per decongestionare il traffico, l’approvazione e l’osservanza di leggi che stabiliscano l’uso della cintura di sicurezza, del casco e dei seggiolini per i bambini, l’imposizione dei limiti del tasso alcolemico e il miglioramento delle cure rivolte alle vittime degli incidenti automobilistici. Sembra impossibile ma nel mondo ci sono ancora molti Paesi che non hanno normative su questi temi.

Infine, occorrerà anche porre molta attenzione alle campagne di sensibilizzazione della popolazione: tra le misure da adottare per raggiungere gli obiettivi fissati in tema di riduzione di incidenti e vittime questa è considerata una delle più importanti.

Chi crede comunque che il problema della sicurezza stradale sia “solo” (anche se basterebbe) di morti e feriti sbaglia di grosso: tutte queste iniziative se messe in pratica porteranno ad un enorme risparmio economico: è vero che la cifra da mettere in bilancio sarà di circa 200 milioni di dollari all’anno per ogni Paese, vale a dire circa 2 miliardi di dollari nell’arco di un decennio, ma è anche vero che queste campagne porteranno grandi benefici per le casse dei vari Stati visto che gli incidenti stradali valgono, da soli, dall’1 al 3 per cento del Pil di ogni Paese. Una cosa difficile da far capire a chi ci governa come è stato difficile convincere gli automobilisti a usare la cintura di sicurezza.

postilla
Forse al lettore di Eddyburg basta tornare un istante a una non lontanissima polemica di tipo paesaggistico, per cogliere la possibile parzialità e squilibrio di questa idea di sicurezza stradale, pur articolata su vari punti strutturali e comportamentali. Polemica sul paesaggio che riguardava quelle norme del Codice della Strada che, se applicate alla lettera, avrebbero eliminato virtualmente qualsiasi alberatura, in quanto ostacolo a tracciati e curvature sicure, visibilità eccetera. E del resto sempre in nome di una guida sicura vediamo tante nuove arterie realizzate in territori rurali assumere forme piuttosto surreali con opere e accessori che fanno a pugni col contesto, dai doppi guard-rail zincati, agli accessi poderali ridotti a feritoie, e via dicendo. Basta questo esempio, che riguarda appunto solo ed esclusivamente questioni estetiche e di inserimento visivo, tra le tante, per sottolineare quanto quei cinque punti citati (gestione, veicoli, comportamenti, servizi, contesti) debbano e possano evitare poi di assumere forme distorte e parziali. Come per esempio l’analoga campagna per salvare i ciclisti viene spesso rigidamente interpretata (anche ai sensi del solito Codice della Strada inadeguato) esclusivamente per promuovere opere per costosi percorsi riservati di dubbia utilità, sia per il territorio che per la sicurezza. Insomma, quando si ragiona su qualcosa, considerarne la complessità aiuta a non combinare guai, anche con le migliori intenzioni (f.b.)

Si veda in questo sito anche Antonio Cederna col suo Caccia all’Albero (1966) e relativi links

La Orte-Mestre in pista: PD, Lega, NCD e FI contro il ritiro del progetto megautostradale, tra i più devastanti del decennio. Comunicato Rete nazionale Stop OR_ME, 15 aprile 2015

Il Governo toglie dal DEF la Orte-Mestre, ma i partiti di maggioranza mantengono in pista la nuova autostrada. Ieri alla Camera erano infatti in votazione le mozioni parlamentari del Movimento 5 Stelle e di SEL che chiedevano il ritiro definitivo del progetto, e che se fossero state approvate avrebbero scritto la parola “fine” sulla Orte-Mestre.

Peccato che PD, NCD e FI, sempre uniti quando si tratta di grandi opere”, abbiano votato contro respingendo i due documenti; a dar loro manforte anche la Lega Nord che infatti in Veneto, con in testa il presidente Zaia, continua a sponsorizzare la Romea Commerciale e tutte le altre nefandezze partorite nell’epoca di Galan e Chisso.

Ma non è tutto, perché sia il gruppo parlamentare della Lega che quello del PD hanno presentato sullo stesso tema delle mozioni alternative molto ambigue; e se la proposta della Lega è stata respinta per ragioni di schieramento, quella del PD è invece passata a larga maggioranza con voto bi-partisan. Nel testo approvato, oltre a difendere lo strumento truffaldino del “project financing”, si chiede al Governo di trasformare la Romea in una non meglio precisata “arteria veloce a basso impatto ambientale” che con ogni probabilità sarà a pagamento.

A sostegno di questa iniziativa numerosi onorevoli del PD eletti in Veneto come, il segretario del PD regionale Roger De Menech, Andrea Martella, Michele Mognato e l’ex presidente della Provincia di Venezia Davide Zoggia. Incredibile poi che tra i firmatari della mozione figuri anche Ermete Realacci, il presidente onorario di Legambiente, già protagonista del voto favorevole sullo Sblocca Italia, nonostante l'associazione si sia schierata contro l'opera.

Il segnale politico che esprime questo voto è fin troppo chiaro: mettiamo in congelatore la Orte-Mestre fino a quando si saranno calmate le acque agitate delle varie inchieste in corso, poi al momento opportuno la scongeliamo con il microonde.

“Li aspettavamo al varco – commentano Rebecca Rovoletto e Lisa Causin di Opzione Zero - perché sapevamo che del Governo Renzi e della sua maggioranza non ci si può mai fidare: il fatto che l’opera non sia inserita nel DEF rallenta per ora l’iter di approvazione del progetto, ma fino a quando la Orte-Mestre rimarrà nel PIS (Piano delle Infrastrutture Strategiche) non potremmo mai abbassare la guardia, e il voto di ieri lo dimostra”.

Va giù duro anche Mattia Donadel, presidente del comitato: “Non se ne può più di questa politica viscida e putrefatta. Le forze politiche che ieri alla Camera hanno votato contro il ritiro definitivo della Orte-Mestre bocciando le mozioni presentate da SEL e Movimento 5 Stelle ora devono assumersi tutta la loro responsabilità di fronte ai cittadini. Non daremo loro tregua, smaschereremo in ogni occasione la loro ipocrisia. Invitiamo fin da ora i nostri sostenitori e in cittadini a non votare per questi partiti, per chi continua con la logica delle grandi opere e della devastazione del territorio, a cominciare dal PD , dalla Lega Nord e dai loro candidati alla presidenza Moretti e Zaia”.

Riferimenti
Tra i numerosi documenti su eddyburg vedi l'articolo di Luca Martinelli, quelli di Paolo Cacciari, e di Daniele Martini,.

Un'altra delle micidiali formule inventate per trasferire, con la copertura della legge, risorse pubbliche a rapaci mani private è una legge non solo criminale ma generatrice di crimini. Si provvederà finalmente a cassarla? Lupi non lo avrebbe fatto. Vediamo il suo successore. Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2015

Il presidente dell’Anac Cantone ha definito criminogeno l’istituto contrattuale utilizzato per realizzare le grandi opere della legge obiettivo. Una magra consolazione per chi ne ha descritto questo carattere fin dalla sua codificazione nel 2002. Dopo i recenti arresti e le sciocchezze sciorinate sul tema dal ceto politico che, dopo 13 anni, scopre che il contraente generale produce quello che fin dall’inizio era del tutto evidente, merita comunque chiarire bene il punto.

La definizione è stata data con la legge obiettivo (443/2001) in questo modo: “Il contraente generale è distinto dal concessionario di opere pubbliche per l’esclusione della gestione dell’opera eseguita”. Nella relazione introduttiva al decreto legge 190/2002, con il quale si è dato corpo alla definizione, si arriva addirittura a sostenere che questa nuova figura è espressamente prevista nelle direttive europee. Una pura e semplice invenzione.

Nelle direttive i contratti tipizzati sono il contratto di “appalto” e quello di “concessione”. Della concessione è data una definizione inequivocabile: “La concessione di lavori pubblici è un contratto che presenta le stesse caratteristiche dell’appalto a eccezione del fatto che la controprestazione dei lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo”. La differenza fondamentale con il contratto di appalto è data dalla “controprestazione” offerta al contraente. Nell’appalto è un “prezzo”, mentre nella “concessione” consiste “nel diritto di gestire l’opera”. La definizione del contraente generale ci propone invece un soggetto per il quale l’oggetto del contratto è quello della concessione mentre il corrispettivo è esattamente quello dell’appalto. La stessa definizione era già stata sperimentata negli Anni 80 e, a fronte dei fallimenti registrati, indusse il Parlamento ad intervenire con la sua cancellazione, considerando proprio questa come uno dei pilastri fondamentali di tangentopoli. Le funzioni affidate dalla legge obiettivo al contraente generale sono esattamente quelle che il legislatore definì nel 1987 con la legge n. 80 (Norme straordinarie per l’accelerazione dell’esecuzione di opere pubbliche).

A proporre la norma fu il ministro dei Trasporti dell’epoca (Claudio Signorile, tecnico di fiducia Ercole Incalza) con l’esplicita motivazione di utilizzare tale procedura per le infrastrutture per il Treno ad Alta velocità. I contratti erano definiti dalla legge “concessioni di progettazione e sola costruzione” con l’esplicita esclusione della gestione.

Concessioni analoghe furono adottate anche nella sanità. In questo caso gli analoghi compiti affidati ai contraenti generali assumevano la forma della cosiddetta “concessione di committenza”. Su queste concessioni il Parlamento intervenne con una legge ad hoc, la 492/1993, con la quale si stabiliva addirittura l’annullamento retroattivo delle concessioni che il ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino, di concerto con quello della Sanità Francesco De Lorenzo, aveva affidato a tre general contractor. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nella relazione al Parlamento sui meccanismi di Tangentopoli (luglio 1992), proprio in relazione alle distorsioni della concessione, scriveva: “La pratica degli affidamenti in concessione per l’esecuzione di opere pubbliche si è sviluppata in aperto contrasto con le norme comunitarie (e con la stessa normativa nazionale di recepimento) che limitano la figura della concessione ai soli contratti nei quali il corrispettivo delle attività svolte dal concessionario è rappresentato, in tutto o in parte, dal diritto di gestire l’opera realizzata. In base a tali norme, quindi, tutte le diverse forme di concessione a costruire, non accompagnate dalla gestione dell’opera, devono ritenersi equiparate all’appalto e come tali regolate”. Non a caso, nel complessivo riordinamento della materia, con l’emanazione della legge quadro sui lavori pubblici anti-tangentopoli (l. 109/94), furono espressamente soppresse sia la concessione di committenza che quella di sola costruzione.

La legge obiettivo per le grandi opere ha semplicemente resuscitato queste concessioni anomale attribuendo al contraente generale una condizione di assoluta libertà prevedendo espressamente che il contraente generale: “Possa liberamente affidare a terzi l’esecuzione delle proprie prestazioni”. Può affidare a trattativa privata qualsiasi attività come e a chi vuole.

La non responsabilità sulla gestione dell’opera determina una assenza di interesse anche sulla qualità e affidabilità dell’opera. Mentre nel caso dell'appaltatore questi esegue l’opera sulla base di un progetto esecutivo ed è sottoposto a un controllo costante del committente in fase di esecuzione attraverso il direttore dei lavori, nel caso del contraente-generale invece il controllo della esecuzione è in capo a esso stesso con tutte le conseguenze ovvie di tale paradossale situazione.

Nei casi delle opere nelle quali i contraenti generali hanno affidato la direzione dei lavori alla società dell’ing. Perotti tutti questi caratteri anomali della relazione contrattuale si ritrovano interamente e puntualmente. Come si ritrovano puntualmente ed inevitabilmente fenomeni di relazioni corruttive. A oltre 12 anni dalla introduzione nel nostro ordinamento di un istituto contrattuale palesemente criminogeno, non solo le forze politiche e le associazioni di rappresentanza delle imprese e dei lavoratori, ma addirittura l’Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici prima e l’Autorità per Vigilanza sui contratti pubblici dopo non si sono mai espresse in merito consentendo l’applicazione di una norma palesemente criminogena che ha già prodotto enormi danni erariali, ambientali e sociali. Già nel 2006, nel programma elettorale del centrosinistra, vi era l’impegno a cancellare questa norma. Rimase lettera morta. Chissà se questa sarà la volta buona.

Prosegue indefessa la ricerca per rafforzare la "infrastruttura globale" rete di siti d'eccellenza e connessioni veloci materiali e immateriali, costruita per i pochi che detengono potere e ricchezza, e i loro servi più prossimi. Servizio di Sergio Pennacchini e commento di Michele Smargiassi, la Repubblica, 29 marzo 2015

Da Los Angeles aSan Francisco in quarantacinque minuti e, in futuro, dalla Grande Mela fino a Pechino (passando dall’Alaska) in due ore e mezza. In treno, o qualcosa di molto simile. Ecco il sogno di Elon Musk, imprenditore seriale americano con una passione per la tecnologia e un sogno nel cassetto: costruire un treno capace di muoversi a una velocità di oltre mille chilometri orari, con la promessa in futuro di arrivare fino a cinquemila chilometri all’ora. Il vulcanico Musk, “il Tony Stark d ei nostri tempi” secondo il Time , dopo aver rivoluzionato i pagamenti con PayPal, scosso l’industria dell’automobile con l’elettrica Tesla e siglato un accordo con la Nasa per portare astronauti nello spazio con il suo razzo SpaceX, potrebbe stravolgere il modo in cui ci spostiamo con Hyperloop, un treno a levitazione magnetica che viaggerà dentro un tubo di vetro a bassa pressione, senza la resistenza dell’aria. Sembra fantascienza o una boutade per farsi un po’ di pubblicità. Ma Musk ha intenzioni serissime.

«Per velocizzare lo sviluppo di Hyperloop, costruiremo un tracciato di prova» ha twittato il presidente di Tesla. Verrà realizzato vicino alla cittadina di Quay Valley, negli Stati Uniti, e sarà lungo circa otto chilometri. Servirà a mettere alla prova l’idea dell’imprenditore americano. Il treno è composto da capsule capaci di trasportare ventotto persone, che siedono quasi sdraiate. Sui tubi saranno installati dei pannelli fotovoltaici. Il convoglio accelera lentamente per arrivare alla velocità di crociera, in modo da proteggere al massimo il comfort dei passeggeri. I “binari” saranno costruiti all’interno di speciali tubi di vetro a bassa pressione: l’assenza quasi totale dell’aria annullerà la resistenza aerodinamica e permetterà a Hyperloop di raggiungere velocità da fantascienza. Le carrozze si muoveranno grazie alla levitazione magnetica, una soluzione importante anche per la sicurezza perché garantirà sempre la giusta posizione della capsula all’interno del tubo, impedendole di toccare le pareti.

Hyperloop Transportation Technologies, la società fondata per portare a compimento la visione di Elon Musk, conta di completare il tracciato e il primo test entro il 2018. E non è l’unica a credere nel treno “sottovuoto” come il mezzo di trasporto più rapido del nostro futuro. Negli Stati Uniti infatti c’è chi promette di raggiungere velocità ancora superiori: la ET3 sta sperimentando una soluzione simile a quella di Hyperloop, con l’obiettivo di raggiungere una velocità di seimila e cinquecento chilometri orari. Quanto basta in teoria per coprire la distanza dagli Stati Uniti alla Cina in meno di due ore con un progetto che è per il momento solamente teorico, che prevederebbe il passaggio attraverso un tunnel di novantuno chilometri sullo Stretto di Bering tra Alaska e Russia fino all’Asia.

Entrambi questi progetti sfruttano la levitazione magnetica. Una tecnologia che elimina l’attrito che si crea tra le ruote e i binari creando un campo gravitazionale che di fatto solleva il treno e lo fa scivolare in avanti. L’assenza di attrito con i binari permette di raggiungere velocità nettamente superiori rispetto ai sistemi tradizionali. Una soluzione antica, sperimentata già a inizio Novecento negli Stati Uniti, ma che fino a oggi non ha trovato molte applicazioni. Sono poche le tratte commerciali in cui già si usa, e sono tutte molto brevi, come la linea che collega l’aeroporto internazionale di Pudong con Shanghai: circa trenta chilometri a levitazione magnetica per il treno più veloce del mondo con quattrocentotrentuno chilometri orari di velocità di crociera. «Il problema della levitazione magnetica è che oltre certe velocità la resistenza dell’aria si fa troppo forte e il sistema diventa poco efficiente», scrive sul suo blog il dottor Deng Zigang dell’università di Jiaotong, in Cina. «A quattrocento all’ora l’ottantatré per cento dell’energia prodotta viene sprecata per colpa dell’aria che diventa sempre più densa». Il dottor Zigang sta lavorando a un progetto simile a quello di Hyperloop, denominato Super-Maglev, che si pone come alternativa per il trasporto del futuro. «Per essere davvero efficienti e commercialmente vantaggiosi, i treni a levitazione magnetica devono poter raggiungere velocità molto superiori e l’unica strada possibile è ridurre al massimo la resistenza dell’aria viaggiando dentro tubi a bassa pressione», conferma il dottor Zigang.

In Giappone, però, non sono d’accordo. La Central Japan Railway Company ha da poco concluso i primi test del nuovo Shinkansen a levitazione magnetica, trasportando cento persone su un tracciato di ventisette miglia alla velocità di oltre cinquecento chilometri orari. L’obiettivo è collegare le città di Tokyo e Nagoya entro il 2027, per poi allargare la rete “maglev” a tutto il paese sostituendo le linee esistenti e, di fatto, accorciando i tempi di percorrenza del quaranta per cento. Quando entrerà in servizio, sarà il treno più veloce del mondo con una velocità di crociera di cinquecentotré chilometri orari. Il Giappone potrebbe essere la prima nazione ad adottare la levitazione magnetica anche sulle lunghe distanze. Eppure, secondo Zidang, il punto non è tanto unire Roma e Milano, per questo tipo di distanze il treno è già oggi una valida alternativa all’aereo. «Quello che noi vogliamo fare è creare un treno in grado di connettere continenti in poche ore, di viaggiare a velocità supersoniche per arrivare dal centro di New York al centro di Londra. Con un mezzo di trasporto che è più veloce, economico e rispettoso dell’ambiente rispetto agli aerei», conclude. «Ci vorrà del tempo, ma ci arriveremo».

Intanto toccherà accontentarsi del treno su binari. Per ora il più veloce del mondo è l’Agv della Alstom, lo stesso utilizzato dalla compagnia italiana Italo. Raggiunge i trecentosessanta orari. Ancora pochini...

MI ACCONTENTEREI
DEL BOLOGNA-MODENA IN 28 MINUTI

di Michele Smargiassi

BEH, CERTO, PIACEREBBE ANCHE A ME f re l’esperienza del trenosiluro, scivolare in quei tubi senza attrito come una supposta di glicerina hi-tech, farmi risucchiare come uno stantuffo in un concerto di fruscii dentro una capsula di posta pneumatica... Se una cosa del genere si può ancora chiamare treno, avrei pure qualche prelazione da vantare: secondo i miei calcoli prudenziali, ormai ho viaggiato in treno per l’equivalente di sette giri del mondo, tra casa e università, poi tra casa e lavoro. Ecco, sarebbe meglio se il fantatreno, invece di scarrozzarmi da New York a Pechino, tratta che diciamo frequento un po’ poco, mi portasse semplicemente al lavoro, ogni giorno, lungo quei 40 chilometri che conosco a memoria. Ci metterebbe 28,8 secondi. Suvvia, gliene concedo anche 30, per far cifra tonda. Ma questi sogni non possiamo permetterceli noi pendolari, sono roba da trascontinentali, da ceto globale business class. È per loro che il mondo viene deformato nelle sue relazioni spazio-temporali, avvicinando New York a San Francisco più di Modena a Bologna. Un mappamondo ridisegnato secondo i tempi di viaggio non sarebbe più una sfera ma una mostruosità bitorzoluta dove gli spazi corti sono i più lunghi e quelli lunghi si contraggono fin quasi a sparire. Li voglio vedere, però, i businessmen appena scesi dai loro proiettili prendere un taxi a Pechino e accorgersi che ci vuole più tempo a raggiungere l’albergo nell’ora di punta che a fare il giro del mondo. Chissà poi se si può leggere un libro, dentro la pallottola-treno, non saprei, se si può sonnecchiare guardando il panorama dal finestrino, direi di no, chissà se l’ansia dell’ipervelocità lascia il tempo di godersi quel tempo inutile del viaggio, quello che gli ingegneri cercano affannosamente di far implodere, credendo di farci un favore, per liberarci dal peso dell’inazione, mentre noi che ne abbiamo perso tanto, di tempo, sui treni, abbiamo imparato che il tempo inutile del viaggio è un tempo diversamente utile, guadagnato, strappato all’agenda, un tempo che siamo costretti a dedicare a qualcosa che nel tempo utile-utile non abbiamo il tempo di fare: anche solo parlare un po’ con noi stessi. Ma no, lasciatemelo allora, questo tempo obbligato e liberato, non li voglio i vostri 28,8 secondi, mi accontento dei 28 minuti da tabella dei miei “regionali veloci” (che soave ossimoro), ecco, mi basterebbe che fossero davvero quelli, e non diventassero 38, o 48, o 58, come accade quasi tutti i giorni. “Trenitalia si scusa per il disagio”, mi basterebbe trovare un posto a sedere in carrozze pulite, con bagni funzionanti e porte che si aprono. Lo so, lo so, è fantascienza. Ma lasciateci sognare, noi pendolari incalliti, mentre sonnecchiamo con la fronte appoggiata al finestrino di un treno superlento.

Riferimenti
A proposito del nuovo assetto del'habitat dell'uomo vedi gli scritti di Saskia Sassen e di David Harvey raccolti in eddyburg, inserendo i nomi degli autori nel "cerca in cima alla pagina. Vedi anche nella cartella "città quale futuro?", nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg. Vedi anche l'articolo di E,. Salzano "Il territorio globale".

L'attenzione alla vita quotidiana e lo spirito critico sono due buoni punti di partenza per scoprire le magagne della città e della società, e intravedere i modi per la loro neutralizzazione. La Città Conquistatrice, 29 marzo 2015

Stanotte in Europa abbiamo tirato avanti le lancette degli orologi, inaugurando tecnicamente e ufficialmente l’offerta primavera-estate del nostro sistema socioeconomico. Sui giornali a questo proposito leggiamo che la European society for biological rithms (Esbr) ha promosso un appello per l’abolizione dell’ora legale, che come dimostrato da anni e anni di ricerche sconvolge il nostro orologio biologico, con gravi ripercussioni sulla salute. Facilmente immaginabile però, lo si precisa, non è tanto la questione dell’ora legale in sé ad essere dannosa, ma lo sfasamento artificialmente indotto fra ritmi biologici rigidamente individuali, e quelli massificati altrettanto rigidamente alieni imposti dalla civiltà industriale.

La stessa che, interpretata per parecchi decenni dalle culture ingegneristiche e urbanistiche prevalenti, ha prodotto la macchina urbana che attorno a noi ci scandisce volenti o nolenti quei ritmi, sonno, veglia, ora di punta e di morta, pausa, ripresa …
Più o meno a metà di questo percorso sadomasochistico è entrata in campo l’automobile, componente strutturale della Grande Macchina Metropolitana ma dotata di una propria individualità (e forse meccanoritmo, corrispondente al nostro bioritmo) in grado di iniziare a modificare l’ambiente a sua immagine e somiglianza. L’ha fatto con tanta efficienza e pervasività, da farci ormai accettare alcuni eventi come fossero destino immutabile, a cui adeguare la nostra sensibilità, e non l’ennesima pazzia sado-maso.

Cronaca di una fotocopia annunciata

Ieri due donne sono state falciate da un’auto nel centro della carreggiata, in cima a un cavalcavia di Milano. L’automobilista si è immediatamente fermato a soccorrerle, ma non c’è stato niente da fare. Di sicuro qualsiasi polemica e discussione pubblica sull’evento si esaurirà una volta verificato se ci sono o meno estremi di colpevolezza per il conducente riguardo alla velocità, che essendo la strada urbana è di 50kmh.

E resta però aperta una duplice questione. La prima riguarda i ritmi inconciliabili fra la velocità dei mezzi e quella degli esseri umani, identica alla discrasia fra il ritmo della produzione (l’ora legale) e quello individuale (l’orologio biologico). La seconda riguarda le forme specifiche dell’ingranaggio urbano che ci sballotta tutti quanti, quando andiamo a notare come quell’incidente sia la fotocopia esatta di quello che un paio d’anni fa suscitò infinite polemiche: la donna incinta falciata da un “pirata” mentre attraversava le corsie del viale di circonvallazione, verso la fermata dell’autobus sull’altro lato. Anche le due donne falciate in cima al cavalcavia, tentavano di raggiungere una analoga fermata, identicamente posta nel punto di minima visibilità e massima velocità dei veicoli.
Ma c’è dell’altro, ed è il contesto: siamo sul medesimo anello di circonvallazione, anche se a qualche chilometro di distanza, ma soprattutto siamo su un identico innesto di raccordo autostradale alla viabilità ordinaria: le zone di massima frizione fra i due “bioritmi”, della città auto-oriented e del pedone vivente (almeno finché non arriva in contatto col ritmo del cofano).

Aboliamo l’ora legale dell’automobile

E viene per l’ennesima volta da chiedersi: si poteva evitare? O meglio, si potrebbe evitare, sempre, di mettere le condizioni per cui si sviluppano tutte le situazioni di contesto in cui aumenta la probabilità di un incidente simile? C’è una carreggiata larghissima, un dislivello (nel primo caso un cavalcavia, in quello precedente un sottopassaggio a svincolo) che fa crollare la visibilità degli automobilisti, e due fermate del mezzo pubblico sui due lati della stessa carreggiata, carreggiata che in un modo o nell’altro le auto interpretano come prolungamento della non lontana corsia autostradale, anche se siamo in pieno in un quartiere urbano.

Di norma, qui arrivano la mente ingegneristica e/o lo psicologismo comportamentale più conservatori, a dirci le solite cose: è vietato attraversare la strada se non c’è il passaggio pedonale, c’è il cartello col limite di velocità, e se proprio vogliamo si deve mettere una passerella, o altro tipo di infrastruttura dedicata per i pedoni. Tra le infinite repliche suggerite dalla pura evidenza, si risponde a questi psicoingegneri (di solito improvvisati) che le auto comunque superano regolarmente e di molto quella velocità, che anche restando nei limiti una botta da cinquanta all’ora di un cofano nella panza fa malissimo, e che anche dove si sono realizzate costose passerelle marchingegno, la gente continua a non usarle, a rischiare la pelle e a volte lasciarcela.
Che si fa? Ragioniamo contro l’evidenza, come quelli del vendicativo reato di omicidio stradale, o cominciamo anche noi con l’abolizione dell’ora legale automobilistica? Ovvero, ripensiamo gli spazi, regoliamo gli orologi senza penalizzare nessuno, salvo certa idiozia meccanicista che ci ha guidato troppo a lungo nell’autoflagellazione, a nostra insaputa.

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qui in Eddyburg l'incidente citato di qualche anno fa è descritto in Città: coraggio, fatti ammazzare

Poco a poco emerge il vero scandalo: non è l'affollamento di marioli nel palcoscenico della politica, ma il fatto che si decidano opere che non servono a vivere meglio e far funzionare meglio il territorio, ma solo ad arricchire i corrotti. Un servizio di Giorgio Meletti e un commento di Marco Ponti. Il Fatto quotidiano, 21 marzo 2015

INFINITE E COSTOSE
ECCO LE OPERE INUTILI A SPESE DEICITTADINI
di Giorgio Meletti

Da Orte-Mestre a Expo: i progetti che non hanno mai sentito la crisi, finanziati da tutti i governi

L’ arma retorica è sempre la stessa, il “partito del no” come male assoluto. Meno di un mese fa Raffaella Paita, candidata Pd alla Regione Liguria, l’ha sfoderata per difendere il Terzo Valico, una ferrovia inutile che da 35 anni fa sognare il partito del cemento. “Quando una forza di sinistra dice no al Terzo Valico fa una cosa di destra”. Errore blu. Nessuno a destra dice no al Terzo valico. A meno che non si sostenga che la Procura di Firenze abbia fatto una cosa di destra arrestando il capo del “partito del sì”, Ercole Incalza.

In attesa del vaglio giudiziario sulla sua presunta corruzione, sotto processo insieme alle persone fisiche ci sono proprio le grandi opere. Non perché in esse si può essere annidato il ma- laffare, ma proprio perché è il malaffare – stando ai primi risultati dell’inchiesta fiorentina – a farle decidere e progettare. E soprattutto a farle piacere ai politici, di destra, centro e sinistra: quando c’è da far colare cemento dissanguando le casse dello Stato vanno sempre d’accordo. I pm di Firenze indicano gli scempi con nomi e cifre. Dei progetti indagati ce ne sono quattro fondamentali.

I LAVORI PER L’EXPO di Milano, un paio di miliardi già spesi, rappresentano plasticamente il primo cancro dei lavori pubblici all’italiana: i tempi infiniti. Ormai è tardi per dare lo stop, ma è tardi anche per l’Expo: inizia a maggio e i padiglioni dell’esposizione non saranno pronti. La disperata accelerazione finale dei cantieri fa impennare i costi, ed è il secondo cancro. Terminare i lavori per l’Expo dopo l’Expo sarà l’apoteosi dell’inutilità, il terzo cancro.

IL TERZO VALICO è affetto da tutti e tre i cancri. Tempi biblici: l’opera fu annunciata come necessaria e urgente nel 1982 dai presidenti di Lombardia e Liguria, Giuseppe Guzzetti e Alberto Teardo. Il primo è oggi padre-padrone delle Fondazioni bancarie. Il secondo, antesignano del craxismo disinvolto, fu arrestato poco dopo il fatidico annuncio.

Infatti il Terzo Valico porta male. Dopo Teardo sono finiti in galera quasi tutti i principali tifosi della grande opera inutile, da Luigi Grillo (democristiano, poi berlusconiano, infine alfaniano, per anni presidente della commissione Lavori pubblici del Senato) a Claudio Scajola. L’opera piace anche a sinistra: prima di Paita l’ha sostenuta per vent’anni il governatore uscente della Liguria, Claudio Burlando. La grande opera non cammina senza accordi trasversali: tutti si danno ragione e rispondono con le supercazzole a chi osi chiedere perché si butti tanto denaro per niente. Adesso tocca a Matteo Renzi metterci la faccia e dire se ha senso spendere 6,2 miliardi per una ferrovia di una sessantina di chilometri che collegherà il porto di Genova con la ridente Tortona. Dicono che servirà a far defluire meglio i container dal porto di Genova, ma non spiegano perché spendono 60 milioni a chilometro per una ferrovia ad alta velocità: vogliono mandare i container a 300 all’ora? Ecco il quarto cancro: progetti vaghi, approssimativi.

IL TUNNEL SOTTO FIRENZE dell’alta velocità ferroviaria ha un costo previsto di 1,5 miliardi ed è simbolo della progettazione alla speraindio. Tanto che l’inchiesta da cui scaturisce l’arresto di Incalza parte dalla Italferr, società di progettazione di Fs. Nel settembre 2013 hanno arrestato la presidente Maria Rita Lorenzetti, politica ammanigliatissima che si vanta nelle intercettazioni di poter mettere tutto a posto grazie ai rapporti con Incalza. E da mettere a posto c’era un progetto che fa acqua da tutte le parti per un’opera voluta a tutti i costi dopo decenni di dubbi sulla sua fattibilità. L’hanno fermata i magistrati un anno e mezzo fa.

LA ORTE-MESTRE è affetta da tutti i quattro cancri già detti più un quinto, il peggiore: il project financing, la finzione del finanziamento privato che serve solo a rinviare alle prossime generazioni la presentazione del conto. Come dimostra il caso Brebemi, se si consente ai privati di farsi prestare i soldi da banche che pretendono e ottengono la garanzia dello Stato, è chiaro che il rischio dell’operazione pesa sul contribuente. Se, come nel caso della Brebemi, l’affare va male, lo Stato viene chiamato a pagare tutto. La Orte-Mestre - figlia del centro-destra veneto e della sinistra emiliana guidata da Pier Luigi Bersani - costerà 10 miliardi, due dei quali pubblici. Sugli otto miliardi privati c’è garanzia dello stato? Il promotore Vito Bonsignore (uomo Ncd con amicizie trasversali) giura di no. Ma i documenti che potrebbero rassicurare i contribuenti sono segretati, perché così vogliono le sacre regole del project financing. Scritte dal loro profeta, Incalza.

LE VERE COLPE DEL MINISTERO
SPRECARE MILIARDI
È ANCHE PEGGIO CHE RUBARE
di Marco Ponti

Forse non hanno rubato niente. Ma hanno fatto danni economici molto più gravi al Paese, ai contribuenti e agli utenti delle infrastrutture. Consideriamo la “madre di tutti gli sprechi”, l’alta velocità ferroviaria (AV). Le stime variano, ma i sovracosti rispetto ai preventivi sono stati dell’ordine del 100%. C’è da credere che un manager privato che sfori il preventivo di un investimento del 30% sia rapidamente accompagnato alla porta dal padrone furioso, ma non succede lo stesso nel settore pubblico, sembra.

PARTE DI TALI SOVRACOSTI sono frutto di una nobile iniziativa ambientalista: richiedere alle linee AV pendenze e curvature che consentano il transito anche dei treni merci, ha comportato un sovracosto almeno del 30%, così il progetto accanto alla sigla AV ci ha potuto mettere anche AC (per Alta Capacità), a futura memoria. Peccato che treni merci in grado di viaggiare ad alta velocità non esistono. E se ci fossero sfascerebbero i binari. Poi la Regione Toscana, con uno sforzo di fantasia veramente incredibile, ha chiesto ed ottenuto che le gallerie tra Firenze e Bologna consentissero anche il transito di treni merci supervoluminosi (sagoma C++), dilatando ulteriormente, e di molto, i costi per quella tratta.

Se qualcuno però avesse dubbi sull’ordine di grandezza di tali extracosti, esiste la famosa analisi comparativa del Sole 24 Ore tra la linea Milano-Torino, e una analoga linea AV di pianura in Francia (non in Bangladesh): i costi sono risultati quadrupli. Basta vedere gli infiniti sovrappassi stradali, che collegano risaie con altre risaie. Ogni tanto vi transita qualche veicolo. Ma purtroppo la linea ferrovia- ria è rimasta quasi deserta: vi passa poco più del 10% del traf- fico che potrebbe sostenere (40 treni al giorno su 330 circa di capacità). E questo con tariffe che coprono probabilmente appena i costi di esercizio della linea, ma nemmeno un euro degli 8 mi- liardi circa che l’investimento è costato ai contribuenti. Se le tariffe, come per le autostrade, do- vessero coprire una quota di qualche consistenza dell’investimento, e quindi essere molto più alte delle attuali, non vi passerebbe nessun treno, a riprova di quanto poco i viaggiatori siano in realtà disposti a pagare per quel servizio.
Ma nessuno ha risposto per questo folle spreco dei nostri soldi. Anche le autostrade deserte sono uno spreco, ma nei peggiore dei casi gli utenti ne pagano il 60%, che è diverso dallo 0% per la linea di AV presa ad esempio. Però adesso anche nelle autostrade, meno micidiali per i contribuenti, provano a spremere gli utenti rendendo a pedaggio strade che prima non lo erano, come la Tirrenica, e che hanno un traffico modesto.

NEL CASO DI TUTTE LE INFRASTRUTTURE, occorre fare sempre congetture, rischiando di prendere cantonate: le ferrovie non hanno obblighi di fare analisi trasparenti ex-ante, né economiche e neppure finanziarie (toccherebbero al ministero dei Trasporti, che però non le fa). Ma non fa neppure analisi ex-post, per analizzare come i soldi dei contribuenti sono stati spesi. E i piani finanziari delle concessioni autostradali sono addirittura secretati per legge. Queste sono responsabi- lità gravissime del ministero dei Trasporti. Da sempre: la situazione non è cambiata da quando vi lavora l’ingegner Ercole Incalza, che, si ripete, forse non ha rubato nemmeno un euro.

Guardiamo ancora i numeri: solo per la linea AV Milano-Torino sono stati sprecati 6 miliardi (probabilmente di più: dato il traffico, bastava velocizzare la linea esistente). La letteratura sulle tangenti parla di un massimo del 10% (a chi scrive, ex-consulente delle ferrovie, era stato detto in via confidenziale un più modesto 6%, ma era la sola quota per i politici). Sarebbero 800 milioni di tangenti. Molto meglio allora le tangenti che le progettazioni sovradimensionate al di là di ogni logica. Se poi va male, i corrotti a volte li prendono.

Chi decide, pianifica, finanzia e approva grandi opere inutili non dovrà rispondere mai, farà anzi probabilmente carriera, e si farà legittimamente molti amici, tra i costruttori e nella sfera politica, che serve ai tecnici per passi successivi di carriera. Ma il consenso e le amicizie si estendono anche alla sfera sindacale, che ha sempre appoggiato grandi spese, si spera solo per motivi occupazionali.

BUTTAR VIA soldi dei contribuenti per comprarsi il consenso è storia antica: in America ha persino dei nomi tecnici: “pork-barrel policy”, “revolving doors”, “logrolling”. Ma buttarli via quando son scarsi, e servono a bisogni sociali essenziali, è un po’ più difficile da accettare. L’ex ministro Maurizio Lupi, sicuramente in buona fede, ha dichiarato: “Per le grandi opere non serve che ci sia traffico, si fanno e poi il traffico arriverà”. Era un convegno del Pd sulle ferrovie. Applausi scroscianti.

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