Un bilancio preventivo del Grande Evento Expo che, senza strafare, molto probabilmente e saldamente ancorato a un approccio empirico, ci azzecca. La Repubblica Milano, 11 febbraio 2105
C’è stato il messaggio del Papa, quello di Lula, si elaborerà la Carta di Milano per il cibo sostenibile e per tutti, nutrire il pianeta: Viva Expo. Si sono cementificati ettari ed ettari agricoli per costruire nuove autostrade inutili. E per fare un enorme villaggio espositivo su terreni privati non urbanizzati mentre si poteva fare su terreni pubblici già urbanizzati: Abbasso Expo. Mai si è parlato e si parlerà così tanto di spreco di cibo e di come produrlo e distribuirlo in modo sostenibile: Viva Expo. Nulla è ancora cambiato nei cicli del cibo, neanche nell’area milanese nei mesi precedenti l’Esposizione: il tema dell’Expo è solo un pretesto. Non è vero, abbi fede, intanto Milano Ristorazione ha distribuito sacchetti salva-cibo nelle scuole milanesi, così i bambini portano a casa pane e frutta.
Expo è un traino. Sì, ma le multinazionali che lo sponsorizzano sono quelle degli Ogm o della privatizzazione dell’acqua e dei semi. Era ed è molto meglio Terra Madre. E qua i contadini dove sono (chiede Petrini)? Abbasso l’Expo, fiera alimentare, scatola vuota. E delle aree comprate a caro prezzo che ne faremo? Finiranno abbandonate con padiglioni cadenti come a Siviglia. No, ci potrebbe andare l’Università, un meraviglioso campus, ci faranno anche gli orti. E così via, potremmo continuare col botta e risposta.
Le ragioni dei No Expo, se sommiamo quelle critiche a priori nei confronti di questo tipo di grandi eventi internazionali con le ragioni contrarie alla impostazione impressa soprattutto dal Formigonismo al concreto svolgersi di Expo 2015, sembrano robuste. Se poi consideriamo i cosiddetti scandali, tangenti e turbative d’asta, e l’assurda opera fine a se stessa del canale Vie d’acqua potremmo addirittura vedere l’impopolarità circondare Expo. Eppure, eppure... Il richiamo commerciale turistico su cui ha sempre fatto conto il progetto Expo sta crescendo grazie alla pubblicità e alla copertura mediatica. E forse anche a qualcosa di più, al bisogno che ogni tanto emerge di avere qualcosa di unificante e facile a cui aggrapparsi per risollevarsi dalla crisi. Vorrei fare una previsione, poi se sbaglio pazienza.
Inizia a ricomporsi in uno schema più articolato la discussione attorno alla proposta di nuovo stadio per l'area di riqualificazione del Portello, con certo altrettanto discutibili progetti. Corriere della Sera Milano, 10 febbraio 2015 (f.b.)
Il Magnete, pieno di tecnologia e musica. Il Village, grande «oratorio laico» dove incontrarsi e praticare sport d’ogni sorta. Oppure il chilometro verde della «Milano alta», con l’annessa offerta di benessere e ristoranti. Altro che stadio. Ci sono buone probabilità che nel futuro del Portello ci sia una di queste proposte. Perché sebbene il progetto presentato dal Milan e Arup abbia innescato suggestioni urbanistiche, sogni di grandeur rossonera e apprensioni dei residenti, chi ha più dimestichezza con planimetrie, cantieri, business plan , regolamenti comunali e compatibilità ambientali è pronto a scommettere che, alla fine, il bando per la riqualificazione degli ex padiglioni 1 e 2 della Fiera se lo aggiudicherà uno degli «altri» tre progetti. Perché uno stadio è comunque una presenza ingombrante, in una zona dove già gli abitanti delle nuove case devono fare i conti, per esempio, con l’assenza quasi totale di negozi, e anche perché l’operazione pensata dal Milan comporterebbe l’abbattimento totale delle strutture esistenti, con costi e disagi notevoli. In quegli spazi, quindi, è più facile che trovi casa uno degli altri progetti in gara, diversi tra loro, ma che hanno in comune hotel, ristoranti e spazi per la salute o il benessere. Il verdetto del Comitato esecutivo di Fondazione Fiera è atteso per la fine di marzo.
La proposta presentata dal Gruppo Prelios si chiama Magnete, ed è (faticosamente) riassumibile nell’immagine di un parco tecnologico e musicale, con una sorta di museo digitale, negozi con articoli ad alta tecnologia (dalla robotica ai droni): «L’idea è quella di creare in quello spazio un luogo per fare attività — spiega Luca Turco, che si occupa dei nuovi progetti di Prelios —. Non sarà un’offerta non profit ma neanche una specie di Mirabilandia della tecnologia». Cioè, per intendersi, si paga ma non per una semplice passeggiata tra effetti speciali. Il
progetto prevede anche un hotel da 250 camere (pensato in sinergia con il vicino centro congressi Mico), una struttura medica per prestazioni ambulatoriali e in day hospital, un negozio di alto livello dedicato alla bicicletta che vorrebbe proporsi come «polo della cultura delle due ruote» e, anche, una serie di spazi per la musica, con il coinvolgimento delle scuole musicali di tutta Milano». Il tutto alimentato e illuminato dal sole.
C’è un albergo (140 camere low cost) anche nel progetto del consorzio creato appositamente da Cile, Arcotecnica e Pkf. Secondo la dittatura anglofona, si chiamerebbe Community hub, «ma a me piace pensare a una specie di grande oratorio laico — dice Paolo Viola di Arcotecnica —, cioè a uno snodo di incontro di interessi diversi, soprattutto dei giovani tra 15 e 30 anni, in un’area ben collegata alla città ma anche ben accessibile per chi arriva da fuori». Un biglietto d’ingresso consente di accedere a una vasta area riservata allo sport indoor: free climbing, skateboard, vasche con onde artificiali per il surf e altri sport d’acqua, simulatore di Formula Uno curato direttamente alla Ferrari. Lungo le balconate, negozi dedicati alle stesse attività sportive, bar e ristoranti. Al piano superiore, invece, un’area dedicata «per il benessere del corpo e dello spirito», con area termale, Spa, fitness center, un centro di medicina sportiva, spazi per lo studio, il gioco, la musica e corsi.
Il tratto che caratterizza il progetto depositato da Vitali Spa è una linea verde che scorre longitudinalmente accanto alla struttura del Portello. Per ora si chiama Green street, ma è destinata a essere ribattezzata «Milano alta», e rappresenta un chilometro di percorso ciclopedonale sopraelevato
(a 7 metri di altezza) lungo viale Scarampo, che scavalcando viale Teodorico e via Colleoni collega l’area di CityLife e del MiCo con il Portello, cioè piazza Gino Valle. All’interno, anche in questo caso, il progetto prevede un albergo (da 350 camere), ristorazione, attività per il tempo libero e uno spazio per l’insediamento di start up ad alto contenuto di innovazione. «Per realizzare tutto questo ci sono pronti 100 milioni di euro — spiega l’amministratore delegato Cristian Vitali — noi e il nostro partner Stam, cioè un grande investitore internazionale, ci crediamo molto. Il business plan è dettagliato e considerando che manteniamo quasi intatte le strutture architettoniche esistenti, contiamo di riuscire a realizzare tutto in meno di due anni».
Non sono solo i residenti a non volere lo stravolgimento del piano urbanistico: anche la decenza e la legalità Possibile chr gli interessi dell'immobiliarista Ente Fiera prevalgano su tutti gli altri?. La Repubblica, ed. Milano, 5 febbraio 2018
La direttrice di nord-ovest dell'area milanese, alla cui estrema propaggine è sita l'area dove oggi è in corso l'edificazione delle attrezzature espositive di expo 2015, ha rappresentato lungamente un tema strategico irrisolto dell'assetto urbano e metropolitano milanese che ha provocato inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico sia da quello di un corretto assetto insediativo e di immagine progettuale e, quindi, è stato nel tempo al centro di molte riflessioni e proposte da parte della miglior intelligenza urbanistica milanese (Corso Sempione nell’800, progetti di Nuova Fiera e Milano Verde negli anni ’30 e progetti di riassetto dell'area della vecchia Fiera negli anni ’40-50 del Novecento), che ha costantemente indicato l'opportunità di un decentramento delle funzioni direzionali troppo fittamente addensate nel reticolo storico originario. Riflessioni e proposte per lo più rimaste allo stato di progetti inattuati, data la persistente indisponibilità di Fiera di Milano ad essere ricollocata altrove, sino a metà degli anni '90, quando la permanenza di Fiera di Milano sull'area dell'ex Piazza d'Armi, dove si era insediata nel 1922, venne infine giudicata non ulteriormente tollerabile sia per i disagi viabilistici sempre più gravi tanto per i visitatori quanto per gli abitanti del quartiere circostante sia per la necessità di rinnovo e ampliamento delle proprie strutture edilizie e si maturò la decisione di realizzare un nuovo polo extraurbano verso nord-ovest al confine tra i Comuni di Rho, Pero e Milano, lasciando come pesante eredità il lungo edificio di viale Scarampo e l'abnorme edificazione in densità ed altezza di Citylife.
Le spinte delle aspettative immobiliaristiche delle proprietà fondiarie (soprattutto Fondazione Fiera, che dopo aver realizzato un enorme surplus immobiliare con Citylife e averlo reinvestito nelle aree di Arexpo, preme oggi per un altrettanto lucroso guadagno con la trasformazione a stadio calcistico privato della parte più a nord dell'edifico di viale Scarampo e con la vendita ai privati delle aree del dopo Expo 2015) devono invece essere governate ed indirizzate da uno schema insediativo che preveda la destinazione ad usi non edificatori (verde, tempo libero, ) delle aree poste lungo la direttrice tra il vecchio recinto in dismissione e le nuove polarità metropolitano-regionali, concentrando là le funzioni di ricerca, direzionalità innovativa e spettacoli sportivi e musicali di massa, che usufruirebbero degli adeguamenti infrastrutturali posti in atto per i nuovi insediamenti esterni di Fiera e di Expo 2015.
La Presidente del Milan, Barbara Berlusconi, recentemente ha manifestato il proposito di realizzare un nuovo stadio privato con capienza per 40.000 persone, proprio accanto alla sede sociale della squadra, nel bel mezzo del quartiere ex Fiera, già tormentato dalla realizzazione del progetto Citylife, con un milione di metri cubi accatastati nelle tre mega torri (da 180 230 metri di altezza) di Isozaki, Hadid e Libeskind.
Il sindaco Pisapia e la vice-sindaco e assessore all'urbanistica De Cesaris sembrano interessati a valutare la proposta, che vede coinvolti Fondazione Fiera, che metterebbe così a frutto l'area, demolendo parte dello "Steccone" di Mario Bellini improvvidamente realizzato a fine anni '80 e in disuso, Emirates Airlines che metterebbe i soldi come sponsorizzazione, e il Milan che metterebbe in scena le attrazioni calcistiche.
Federico Oliva, ex presidente dell'INU, si è dichiarato favorevole alla realizzazione dello stadio del Milan, perché costituirebbe "un elemento di centralizzazione in senso moderno con una
parte di negozi e spazi aperti al pubblico dove la gente può andare a trascorrere la giornata".
I comitati cittadini chiedono invece che il Comune si pronunci affinché il nuovo stadio venga realizzato sulle ampie aree del dopo Expo e che l'edificio di Fondazione Fiera in demolizione lasci spazio libero al quartiere per riequilibrare la sovrassaturazione causata da Citylife.
Senza uno strumento di indirizzo progettuale unitario oggi si rischia nuovamente di disperdere in una serie di localizzazioni a caso le potenzialità offerte dal nuovo polo fieristico, dal riuso dell'insediamento di Expo 2015 e dai connessi adeguamenti infrastrutturali in atto, che invece potrebbero concorrere alla costituzione di un vero e proprio nuovo Centro Direzionale metropolitano-regionale, a lungo invocato proprio lungo la direttrice di nord-ovest dai più consapevoli ragionamenti delle cultura urbanistica milanese (dal Piano AR del 1947 al Documento Direttore del PGT 2000 di Luigi Mazza).
In un caso abbastanza raro di giornalismo professionale e informativo per il cittadino, i tristi retroscena dell'uso privato di risorse pubbliche nel racconto in presa diretta di un protagonista di primo piano. Corriere della Sera Milano, 30 gennaio 2015
Sul dopo Expo interviene Marco Cabassi, 54 anni, ex proprietario dei terreni acquistati da Arexpo per i padiglioni del semestre internazionale. «Il prezzo attuale è irragionevole dice: chiedono 340 milioni quando la cifra d’acquisto è stata di 120 milioni, di cui 40 pagati a noi al costo di esproprio. Neanche il peggior privato azzarderebbe tanto». L’imprenditore ricostruisce la vicenda dei terreni e le vicissitudini con la Regione: «Abbiamo discusso per mesi, prima sono venuti a chiederci il terreno in comodato d’uso perché lo Stato non voleva spendere. Poi è cambiato tutto. Ci hanno voluto fuori dai piedi. Con le inchieste della Procura abbiamo capito perché: vedi Infrastrutture Lombarde, gli appalti, i margini di ricavo».
«Pronto? Sono Marco Cabassi…».
Il costruttore?
«Sviluppatore ed ex proprietario dell’area Expo, quella che secondo lei sarebbe stata venduta a peso d’oro».
Beh, non è stata regalata.
«Abbiamo venduto i terreni a prezzo d’esproprio. E oggi Arexpo chiede tre volte tanto. Neanche il privato più scaltro riuscirebbe a farlo…».
Vuol dire che per voi non è stato un affare?
«Noi siamo stati espulsi da quell’area. Non avevamo scelta. Ci hanno detto: o la vendete al prezzo d’esproprio delle aree standard o vi espropriamo comunque, col rischio di incassare fra qualche anno. Avevamo già subito 8 espropri sulla stessa area, per quasi 700.000 metri quadrati. L’ultimo per costruire il carcere di Bollate: dopo 18 anni aspettiamo ancora il dovuto. Alla fine il prezzo per oltre 250.000 metri quadri dell’area Expo è stato di circa 42 milioni, in buona parte tornati allo Stato sotto forma di imposte. Ma la verità è un’altra...».
La sua verità...
«I fatti. Nel 2006 ci hanno chiamati con una proposta: visto che lo Stato vuole fare l’Expo, ma non vuole spendere e non vuole rischiare, dateci i terreni in comodato d’uso gratuito per 9 anni. A Expo finito i terreni tornano a voi e potrete svilupparli. Che poi è l’attività che portavamo avanti da anni, avendo presentato un progetto insieme a Fondazione Fiera».
Avreste avuto la possibilità di costruire su un’area valorizzata a spese dello Stato…
.«No, perché l’accordo prevedeva che tutte le opere che sarebbero state realizzate sul terreno, sarebbero comunque rimaste di proprietà pubblica. Così lo Stato non spendeva e non rischiava nulla. Ci hanno cercato loro, l’accordo iniziale era questo. Noi ci siamo limitati ad ascoltare. Abbiamo detto subito che ci voleva una strategia per il dopo, che ogni Expo è legato alla funzione che si vuole dare al post evento. E abbiamo fatto alcune ipotesi».
Ipotesi immobiliari, immagino.
«Ci siamo chiesti che cosa poteva servire a Milano. Una cittadella della giustizia? Un nuovo Ortomercato? Un centro di ricerca agroalimentare? La sede della Rai? Il progetto pubblico–privato sviluppato da Fondazione Fiera e da noi avrebbe dovuto partire da una futura esigenza pubblica della città. Fra l’altro, il Comune di Milano, che deteneva circa il 10% delle aree, si era riservato una quota del 6% dell’ intero sviluppo».
Risposte dalla Regione?
«Zero. È troppo presto per pensarci, ci hanno detto, adesso ci sono altre priorità. Siamo stati quasi derisi».
Nel progetto per l’Expo si parlava dei terreni?
«Certo. Nel dossier di Parigi si diceva che l’area era messa a disposizione dai proprietari che poi dovevano svilupparla. La disponibilità immediata delle aree era stata un elemento qualificante della vittoria contro Smirne, che invece aveva un’area frammentata fra molti proprietari».
Poi il comodato d’uso è saltato e l’area è stata comprata dalla Regione.
«Sa cosa dicevano in Regione quando hanno preso i terreni? Finalmente ce li siamo tolti dai piedi… Alludevano a noi. Avevano piani che si sono capiti con le inchieste della Procura. Vedi Infrastrutture Lombarde, gli appalti, i margini di ricavo. Quei 340 milioni che oggi Arexpo chiede per l’area sono una cifra fuori da una logica imprenditoriale normale».
Quanto è costata l’intera area Expo?
«Poco più di centoventi milioni. Due terzi pagati alla Fondazione Fiera, che è un ente d’ interesse pubblico. Circa un terzo a noi».
Perché Arexpo, che è una società pubblica, dovrebbe guadagnarci?
«Non lo chieda a me. So solo che quel prezzo di vendita dei terreni insieme alla crisi del mercato e alla mancanza di programmazione, scoraggiano ogni investimento».
Intravede come aveva detto Gae Aulenti le rovine di Beirut?
«Voglio bene a Milano e auguro tutto il bene possibile alla mia città. Ma non mi va di passare per uno che ha speculato sulle aree. Le responsabilità di questo stallo sul dopo Expo sono chiare».
Come erano i vostri rapporti con l’allora presidente della Regione Formigoni?
«Gelidi»
E con il sindaco dell’Expo, Letizia Moratti
?«Istituzionali ma cordiali. Lei i patti iniziali voleva rispettarli».
Avete un dialogo con chi governa oggi Milano?
«Dialoghiamo volentieri con chi ha a cuore le sorti della città».
Dottor Cabassi, il suo nome è legato anche al caso Leoncavallo: siete proprietari dell’immobile simbolo di un’occupazione abusiva...
«Sono ancora dentro gli occupanti, dopo oltre 20 anni, tre sentenze esecutive favorevoli a noi e 58 accessi dell’ufficiale giudiziario. Ma speriamo ancora in una soluzione sensata e condivisa».
Una scelta politica e sociale dell'amministrazione di Milano, molto in linea con tante altre strategie, territoriali e ambientali, compreso il contenimento del consumo di suolo. Corriere della Sera, 20 ottobre 2014, postilla (f.b.)
MILANO - Se ne parlava già ai tempi di Carlo Tognoli, sindaco di Milano alla fine degli Anni 70. È diventato un tormentone sotto il regno di Gabriele Albertini, fine Anni 90. Ci ha riprovato il ministro Roberto Castelli nel 2005. È tornato alla ribalta con il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri dalle pagine del Corriere ha rilanciato il leitmotiv: il carcere di San Vittore va chiuso e sostituito con uno più piccolo fuori Milano.
Orlando però ha fatto i conti senza Giuliano Pisapia, sindaco di Milano. A differenza dei predecessori, l’avvocato penalista, esperto di problemi carcerari, boccia la proposta: «Ritengo che non si debba chiudere San Vittore ma proseguire, e accelerare, l’opera di ristrutturazione e modernizzazione già iniziata». Che non siano solo parole lo dimostra il fatto che nel Piano del governo del territorio, lo strumento urbanistico per eccellenza voluto dal sindaco e dal suo braccio destro Ada Lucia De Cesaris, San Vittore, sebbene statale, sia destinato a «servizio».
Troppi giudizi affrettati secondo Pisapia. «Da anni si discute dell’opportunità o meno di chiudere il carcere milanese, a volte senza conoscere la realtà di San Vittore e senza proporre alternative realistiche». Il sindaco riconosce che San Vittore è vecchio ma ricorda al ministro che è partita la ristrutturazione di due raggi: «Per i lavori già fatti, per la professionalità di direttori e polizia penitenziaria, per le esperienze di socialità di cui questo carcere è stato spesso all’avanguardia, ritengo che non si debba chiuderlo». Anche sul problema del sovraffollamento Pisapia dice la sua. Oggi a San Vittore sono ospitate 1.015 persone, 945 uomini e 70 donne, quasi tutti in attesa di giudizio, contro una capienza certificata di 702. Numeri in diminuzione rispetto all’anno scorso, quando i detenuti erano 1.351, ma pur sempre una situazione di enorme disagio. Non è con la chiusura del carcere di piazza Filangieri che si risolve il problema: «Bisogna intervenire, e qui parla più l’avvocato che il sindaco, con una riforma del codice penale in modo da prevedere, per i reati di non grave allarme sociale, pene diverse e più efficaci della detenzione, spesso scuola di criminalità».
Ma c’è un altro motivo per cui Pisapia dice no alla chiusura. Anzi due. Il primo lo definisce «culturale». «Abbiamo la tentazione di nascondere i problemi della società, rimuoverli. Un carcere in centro a Milano ricorda a tutti che viviamo in un mondo complesso, in cui esistono violenza, emarginazione e povertà e che i problemi vanno affrontati e non rimossi». Il secondo: «Temo che i detenuti lontano dalla città perdano contatto con il mondo esterno, famiglie, avvocati, assistenti sociali e volontari che avrebbero più difficoltà a raggiungere il carcere». Nel 2001, da capogruppo di Rifondazione in commissione Giustizia alla Camera, usò una parola più forte: «ghettizzazione». La sostanza non cambia.
postilla
Significativo: ci vuole uno che per propria ammissione non ne capisce, e non ne vuole capire, nulla di urbanistica, per far sì che le scelte urbanistiche pur importanti non galleggino nel vuoto della tecnocrazia. Quale migliore strategia per un rilancio complessivo delle potenzialità urbane, contro lo spreco di risorse ambientali e sociali della dispersione cara agli sviluppisti del territorio, che una pratica seria e non di facciata della vera composizione funzionale? Città vuol dire densità, ma anche complessità, e allontanare verso un vago misterioso limbo extra moenia tutto ciò che non si vuole risolvere, dall'industria al carcere alle abitazioni economiche alle attività sensibili (che siano inceneritori o sale lapdance), è solo negare sé stessi. Forse spiacerà a chi sperava in qualche riuso o recupero del sistema panottico cellulare in senso espositivo congressuale, del genere che piace a tanta cultura dei progettisti, ma è molto meglio così: scopare i problemi sotto il tappeto della greenbelt li sposta solo nel tempo peggiorandoli, come ben sappiamo (f.b.)
Qualche riflessione in più su La Città Conquistatrice: Galeotto fu il Mixed-use!
In una intervista a Maurizio Giannattasio, la vicesindaco con delega all'urbanistica delinea l'inizio di un processo di revisione dell'idea di città, da luogo delle trasformazioni edilizie a spazio sostenibilmente abitabile nella prospettiva dell'area metropolitana. Ottime intenzioni. Corriere della Sera Milano, 11 ottobre 2014 (f.b.)
Un documento. Da discutere con la maggioranza e poi con le forze politiche, i consiglieri comunali i comuni della città metropolitana, gli operatori di settore, le associazioni. Per dettare gli indirizzi della futura pianificazione del territorio. Basato su quattro cardini: la riduzione del consumo di suolo, la rigenerazione urbana, il riassetto ambientale e idrogeologico e una risposta efficace alla domanda di casa. Così sembrano titoli generici. In realtà significa cambiare alcuni obiettivi fondamentali: si deve puntare sul patrimonio immobiliare esistente, sia inutilizzato, sia degradato, sia utilizzato evitando di consumare nuovo suolo. «Il criterio è semplice — spiega il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris —: rigenero e riqualifico il patrimonio esistente, recupero le aree dismesse e degradate»
Vicesindaco De Cesaris ha appena chiuso il nuovo regolamento edilizio e già vuole riaprire il Pgt? «Credo sia tempo di cominciare una riflessione a tutto campo per capire in che modo rinnovare l’urbanistica nell’ottica dell’area metropolitana e come rilanciarla per farla uscire da un periodo di crisi. Dobbiamo pensare a piani intercomunali in grado di creare continuità tra territori, servizi e infrastrutture. La giunta preparerà un documento che verrà discusso con la maggioranza e poi presentato al consiglio comunale, le forze politiche, operatori, professionisti, associazioni».
Rimetterete mano al Pgt? «Dobbiamo fare i conti con un Pgt che nasce da una mediazione e che a mio parere ha dei limiti e delle rigidità che vanno superate»
Quali? «Dobbiamo pensare ad una densificazione selettiva: realizzo solo dove è già stato consumato il suolo, rigenerando e riqualificando, recuperando aree dismesse. In questi casi si può pensare anche a indici superiori a quello attuale».
Tanti grattacieli? «Se di qualità qualcuno perché no, ma in cambio della tutela di altre aree della città , dei quartieri, del territorio verde e agricolo».
Quali strumenti del Pgt modificherete? «Non mi preoccuperei ora di cosa modificare. Mi piacerebbe aprire un dibattito sui temi cardine. Se l’obbiettivo è la riduzione del consumo di suolo, bisogna pensare a una serie di regole, semplificate e innovative, che aiutino e incentivino la rigenerazione urbana, sistemi che consentano anche il riuso temporaneo».
Ossia? «Vuol dire permettere anche degli usi non definitivi che impediscano il degrado e l’abbandono del patrimonio esistente e che rispondano a esigenze reali per periodi limitati».
Interventi sull’esistente. E come si difende il «non esistente»? «Bisogna salvaguardare quella parte di territorio non edificato e soprattutto il territorio agricolo. Questa parte di territorio non solo va salvaguardata, ma va anche sostenuta e incrementata. Va definita la rete che unisca i grandi parchi urbani, il Parco sud, il verde e le aree agricole, anche alcune di quelle ancora non tutelate: in un disegno unitario».
C’è fame di case a prezzi abbordabili. Che farete? «Bisogna ripensare l’housing sociale, includendo le nuove forme di abitare come le coabitazioni associative, quelle di carattere assistenziale, quelle temporanee. Ma non basta: dobbiamo realizzare più abitazioni in edilizia convenzionata, affitto moderato e anche di aumentare la disponibilità del patrimonio sociale trovando le leve economiche in un momento di crisi».
«L’organo costituente dovrà comunque volare alto: assicurare un quadro equilibrato di garanzie democratiche e, insieme, consentire un effettivo governo metropolitano. Nell’approntare lo statuto, il Consiglio metropolitano non potrà chiamarsi fuori da un confronto sulle strategie». La Repubblica. ed Milano, 8 ottobre 2014
Arriva in grave ritardo e con una legge istitutiva che fa acqua da tutte le parti, ma non si può sbagliare. O decolla o il fallimento della città metropolitana lascerà un paesaggio di rovine. La prima verifica ha tempi brevi: la messa a punto, entro la fine dell’anno, dello statuto da parte del Consiglio metropolitano (24 eletti di secondo grado, i cittadini tenuti all’oscuro e la politica che pensa per loro): un passaggio delicato quanto decisivo. Da qui dipende, fra l’altro, il conseguimento di un obiettivo su cui tutte le forze politiche si dichiarano d’accordo: rendere possibile l’elezione diretta degli organi di governo nel 2016.
Ma non può bastare. Se si vuole una democrazia sostanziale, lo Statuto non può ridursi a una sistemazione burocratica a valle della sparizione della Provincia. Tantomeno può dar vita a un assetto gestionale in cui le questioni in gioco vengano riportate entro gli schemi del laissez-faire a cui da tempo ci ha abituati anche il mondo degli enti locali.
Intendiamoci: la coperta è corta. L’intera Lombardia andrebbe interpretata per quella che è: un sistema di aree metropolitane che dal basso danno vita a un coordinamento regionale. Solo così avremmo un riassetto organico, in una vera ottica federalista, con un riequilibrio dei poteri tra i diversi livelli della Pubblica amministrazione. Ma nel quadro politico attuale – si obbietterà – una simile prospettiva è mera utopia. Lo so: quanto di più lontano dal separatismo antifederalista della Lega Nord come dal neo-centralismo renziano. Non a caso la fase costituente della città metropolitana non prevede il coinvolgimento dei livelli superiori (Regione e Stato) se non come controllori. Così, per ora, la partita si giocherà solo ai livelli inferiori: comuni, zone omogenee (tutte da istituire), governo metropolitano.
I limiti e le storture della legge 56/2014 non possono però costituire un alibi. L’organo costituente dovrà comunque volare alto: assicurare un quadro equilibrato di garanzie democratiche e, insieme, consentire un effettivo governo metropolitano. In altri termini, nell’approntare lo statuto, il Consiglio metropolitano non potrà chiamarsi fuori da un confronto sulle strategie. Andranno messe sul tavolo le questioni e gli obiettivi di fondo. Quali? In estrema sintesi, si potrebbero ricondurre a quattro punti:
1. il sostegno agli elementi motori dell’economia che consentano alla città metropolitana milanese di non soccombere nella competizione fra metropoli (con tutto ciò che consegue in termini di domanda di lavoro e di risorse per il vivere);
2. il perseguimento della qualità della vita e della coesione sociale, attraverso la lotta agli squilibri tra centro e periferia (urbana e metropolitana) anche con la messa in atto di un vero policentrismo, fino a una capillare riqualificazione dei luoghi dell’abitare;
3. la riduzione dell’entropia metropolitana, ovvero della dissipazione irrazionale delle energie che servono al funzionamento della metropoli, a cominciare dal potenziamento del trasporto pubblico e da un governo correlato della tendenza insediativa;
4. il potenziamento del verde quale elemento strutturale del quadro insediativo. Non basta il ferreo, sacrosanto, contenimento del consumo di suolo: occorre una politica attiva che, in una rinnovata alleanza tra agri-coltura e urbis-coltura, faccia dello straordinario sistema dei grandi e dei piccoli parchi – tutti da consolidare ed estendere – una risorsa fondamentale per la qualità dell’abitare metropolitano.
Un avviso ai naviganti. Non ci si trinceri dietro la mancanza di risorse economiche. Si badi piuttosto a non accrescere il costo complessivo di funzionamento dell’amministrazione pubblica locale e si mobilitino l’intelligenza e le energie sociali.
Gli spazi verdi urbani non sono più da pensare solo come tratti aperti a interrompere la città densa, ma come sistema integrato. Va bene, ma forse c'è qualcosa in più da dire. La Repubblica Milano, 21 settembre 2014, postilla (f.b.)
Il comune guarda alla nascita della città metropolitana per disegnare la strategia futura del verde. È così che Palazzo Marino punterà sul “parco metropolitano”, un anello di vegetazione che circonda Milano e che dovrà “cucire” insieme i vari parchi che già esistono. Ogni area, però, dovrà anche mantenere la propria vocazione: dal Trenno pensato come parco dello sport al Forlanini da congiungere all’Idroscalo e trasformare in un parco urbano agricolo fino alle Cave, dove nascerà un’oasi naturalistica spontanea.
È un futuro che c’è già, quello del verde di Milano. Anzi, della “Grande Milano”. Perché è questa la strategia di Palazzo Marino. Che, guardando anche alla rivoluzione amministrativa che partirà dal 1 gennaio del 2015 con la nascita della Città metropolitana, adesso vuole puntare su quello che, ormai, chiamano il “parco metropolitano”: una sorta di unico anello di alberi, prati, vegetazione e aree agricole che, d’ora in poi, andranno collegati tra di loro sempre di più. Quattro grandi aree da gestire in una visione allargata: il Parco Nord e le sue estensioni a Bresso, Sesto San Giovanni e Cinisello; il fiume Lambro con la sua natura da ricucire in modo che da Monza si possa raggiungere Milano e oltre a piedi o in bicicletta; il Parco sud con le sue teste di ponte cittadine; il sistema di parchi dell’ovest. Anche se, in questo quadro generale, ogni grande distesa di verde avrà una sua vocazione. È così, ad esempio, che Trenno sarà il parco dello sport, che il Comune lavorerà sul Forlanini per trasformarlo in un parco urbano agricolo, che Bosco in città sarà pensato per le famiglie e che l’anima un po’ selvaggia del parco delle Cave sarà valorizzata con una speciale oasi naturalistica che rinascerà dalle ceneri di un incendio.
È un puzzle che, ricomposto, si estende per oltre 17 milioni di metri quadrati il verde di Milano. Una mappa che il Comune ha suddiviso a seconda delle dimensioni: replicando le taglie delle magliette, si va dall’extra large del Parco Nord all’extra small delle aiuole sotto casa che i cittadini possono adottare. In mezzo i parchi storici in versione large come il Sempione e i giardini Montanelli, quelli di quartiere come il parco Solari o i giardini di Pagano. Un patrimonio che Palazzo Marino vuole valorizzare guardando anche oltre i propri confini, in chiave metropolitana, appunto. Per i grandi parchi di cintura, infatti, in futuro verrà fatto soprattutto un lavoro di connessione. È la nuova filosofia che può essere raccontata attraverso un progetto: «L’area a ovest è già abbastanza collegata. Adesso vogliamo lavorare sulla parte est: è per questo che abbiamo firmato con altri Comuni una convenzione per il piano che riguarda la media valle del Lambro», spiega l’assessore al Verde, Chiara Bisconti. Che cosa è? L’obiettivo è quello di cucire insieme i parchi e anche, riqualificandole, le piccole aree verdi che corrono lungo il fiume per farne un percorso unico da Monza a Milano e ancora oltre verso altri Comuni. E uno speciale filo è anche quello che l’amministrazione vuole utilizzare per trasformare il Forlanini: «È il parco che in questo momento ancora manca di un’anima forte», dice ancora l’assessore. In questo caso, il piano punta a collegare lo spazio all’Idroscalo, costruendo un ponte sul fiume Lambro, migliorando la porta su viale Argonne, riportando alla luce sentieri interni, realizzando percorsi pedonali e ciclabili. E rilanciando l’agricoltura per fare in modo che quest’area possa diventare una sorta di parco agricolo urbano.
Dal generale al particolare: eccola un’altra linea di azione di Palazzo Marino. Perché ogni grande parco, nella strategia del Comune, dovrà anche mantenere caratteristiche differenti attorno a cui programmare gli interventi. Un esempio è il parco di Trenno, immaginato come una palestra a cielo aperto tra campi da calcio pubblici, beach volley, pallavolo, rugby, bocce, percorsi per i runner. Per il parco delle Cave, invece, il futuro è un ritorno ancora più forte alle origini. Nei prossimi mesi i tecnici dell’amministrazione concluderanno i lavori per riportare alla vita un’area bruciata in un incendio e la recinteranno: lì la natura potrà dominare in modo (quasi) indisturbato. «Vogliamo creare un’oasi naturalistica spontanea, lasciando che questa zona si “inselvatichisca”. Ci sarà un numero chiuso e si entrerà per partecipare a visite guidate», dice Bisconti.
I visitatori di Expo e i milanesi presto potranno entrare anche in un “museo botanico” che il Comune sta realizzando sui vivai che l’amministrazione ha già fatto sorgere tra via Zubiani e via Margaria: un percorso didattico che punterà a far conoscere la vegetazione locale. Questo è uno dei progetti per il verde e l’agricoltura che saranno sviluppati per lotti successivi. Con questa logica, ad esempio, si sta disegnando il parco agricolo del Ticinello, un sogno da 90 ettari atteso da decenni. La prima parte c’è già: sei ettari di verde e un bosco didattico con 10mila piante inaugurati lo scorso maggio, una pista ciclabile in costruzione. Si andrà avanti, anche dopo che la vicesindaco Ada Lucia De Cesaris ha festeggiato il passaggio al Comune della Cascina Campazzo, congelata finora da un contenzioso storico con il gruppo Ligresti. Ancora a sud della città c’è un altro pezzo del mosaico da inserire nel parco metropolitano: è il parco del Sieroterapico, da attrezzare e riqualificare per fasi successive. Anche se il prossimo anno, è la promessa, sarà in gran parte accessibile a tutti.
postilla
Complice forse il genere di comunicazione parziale che esce da settori e assessorati (e non dovrebbe, proprio nella prospettiva della città metropolitana) pare che si sovrappongano un po' alla rinfusa le informazioni su una strategia di spazi aperti che non appare consapevolmente tale. Giustissimo lavorare già oggi in prospettiva metropolitana, e pensando alle specificità del nucleo centrale necessariamente tematizzate e con un indirizzo diciamo così da laboratorio di metodo. Ma quando si parla, abbastanza esplicitamente, di quelle che ormai tutta la pubblicistica internazionale chiama infrastrutture verdi, restare all'interno del solito linguaggio un po' da animazione per bambini lascia lievemente perplessi. Siamo di fronte a un'opinione pubblica che deve essere formata e informata, resa consapevole delle sfide, e con una cultura urbana da terzo millennio ancora tutta da costruire, che oscilla fra gli stili di vita della città tradizionale e la nuova sensibilità per modelli alternativi di consumo, mobilità, separazione fra tempo di lavoro e tempo libero. La rete delle infrastrutture verdi è in buona sostanza la base su cui progettare la metropoli post moderna, così come quella delle infrastrutture grigie lo è stata per la città industriale del '900, traffico automobilistico in testa, ma non solo (pensiamo alla gestione naturale del ciclo delle acque piovane). Perché non esplicitare queste strategie? Impossibile pensare che, magari sparse fra i settori dell'amministrazione, non rappresentino una parte importante degli orientamenti. E allora se ne parli, magari iniziando a parlarsi fra assessorati, consulenti, cittadini (f.b.)
Pare un trafiletto di locale, forse lo è, ma di sicuro indica un possibile ribaltamento storico di tendenza: la progressiva colmata della greenbelt metropolitana non è più un dogma urbanistico. La Repubblica Milano, 27 agosto 2014, con postilla (f.b.)
È stata una piccola festa con tanto di brindisi quella che ha celebrato la fine di un contenzioso lungo 32 anni con la proprietà Ligresti e, soprattutto, l’inizio di un nuova storia che vuole scrivere Palazzo Marino. Perché, dopo tre decenni di timori che su questo pezzo di Parco Sud calasse il cemento, da ieri la cascina Campazzo è passata al Comune. Che, adesso, punta alla riqualificazione dell’edificio e alla «creazione del parco agricolo Ticinello di oltre 90 ettari».
![]() |
Il cuneo verde di cui si parla è quello più a sinistra |
A scrivere la parola fine è stata la decisione del Tar della Lombardia che ha respinto le richieste di sospensiva avanzate dalla proprietà dell’immobile contro due provvedimenti dell’amministrazione comunale: il decreto di esproprio dell’11 dicembre 2013 e l’avviso di esecuzione del decreto del 20 maggio 2014. «È una vittoria della città e degli agricoltori — ha dichiarato il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — resa possibile grazie alla modifica del Piano di governo del territorio: non abbiamo mai accettato di barattare questo simbolo dell’agricoltura milanese con i tentativi di speculazione sul parco, e abbiamo difeso l’attività agricola che è parte fondamentale dell’identità della nostra città».
Il Comune è già intervenuto per mettere in sicurezza la cascina, in attesa che partano i lavori di ristrutturazione. Il recupero della cascina Campazzo, dove da sessant’anni vive e lavora la famiglia di Andrea Falappi, il presidente del Distretto agricolo milanese, si affianca alla realizzazione del parco Ticinello. «Finalmente giunge a conclusione una vicenda nata nel 1982. Si è fatta giustizia », ha detto il presidente di Zona 5, Aldo Ugliano.
![]() |
Il terreno appena a sud della cascina. Foto F. Bottini |
postilla
Se 90 ettari vi sembrano pochi, ma resterebbe una questione comunque puntuale, non fosse per il nome di Salvatore Ligresti, e il suo marchio su tante altre cose che a quei 90 ettari stanno attorno, ovvero la grande greenbelt agricola metropolitana che proprio questa superficie relativamente piccola articola in un cuneo, dall'anticamera della zona delle prime risaie a ridosso della zona urbana densa, ovvero la circonvallazione esterna distante un tiro di sasso dall'edificio della cascina. Ligresti è uno di quei tizi che dicono “a che serve il piano regolatore, noi sappiamo regolarci benissimo da soli”, e quel regolarsi da soli si è chiamato per un certo periodo urbanistica contrattata, per un altro periodo urbanistica tout court, quella del non-piano che cambiava per legge allo spuntare di un nuovo progettone degli amici degli amici che avevano la grossa idea, più o meno sempre la stessa. Il famigerato Centro Ricerche Biomediche di Umberto Veronesi starebbe sulla medesima linea di attacco alla greenbelt (60 ettari) poco più a est. Giusto in fregio ai terreni appena salvati dalla decisione del Tribunale, si profilano i palazzoni di uno di quei progetti storici che hanno fatto da modello ai successivi Piani Integrati di Maurizio Lupi, l'asse di via dei Missaglia, triste caricatura di un altro quartiere, stavolta incolpevolmente razionalista anni '50, il Gratosoglio, giusto lì di fronte, quando la fame di case era vera. Dopo la sentenza del Tar, verrebbe voglia di tirar fuori il solito Cuneo Rosso di El Lisitskij, ma qui non siamo nell'ambiente facilone di Facebook, e si auspica invece che anche gli altri progetti strampalati dell'ex deus ex machina della trasformazione urbana a vanvera non facciano troppi danni. Mentre la questione greenbelt ahimè con le ultime opere Expo si allarga a territori più vasti, ma questa è un'altra storia (f.b.)
Chi riuscirà a diventare più ricco e potente sfruttando gli errori compiuti da amministratori pubblici incapaci e impunibili? Non c’è che da aspettare e vedere. Il Fatto quotidiano, 21 agosto 2014
Non ci sarà, prevedibilmente, una folla di pretendenti né una corsa per arrivare primi. Perché le condizioni sono buone per il bene comune, ma praticamente improponibili per un privato. Secondo il bando, avrà l’area l’operatore (o il gruppo di operatori) che ci metterà almeno 315,4 milioni di euro, non un centesimo di meno, gradita qualche cosa in più. Poi però non potrà farci quello che vuole: dovrà lasciare a parco metà dell’area (440 mila metri quadrati); quanto al resto (480 mila metri quadrati, comunque sufficienti a costruirci l’ennesimo quartiere), dovrà edificare il meno possibile, mischiando residenza, uffici, spazi produttivi e negozi (ma non un grande centro commerciale: al massimo 2500 metri quadrati). Preferite opere di uso pubblico, tipo il nuovo stadio del Milan, la cittadella dello sport, un nuovo centro di produzione della Rai e attività che abbiano a che fare con il tema Expo, cioè il cibo, l’agricoltura, l’ambiente.
Non solo: dovrà pure aspettare che, nel 2016 o nel 2017, siano i Consigli comunali di Milano e Rho ad approvare – se e come vorranno – i piani urbanistici. Più che un operatore, si cerca un santo. Disposto a lavare a sue spese il peccato originale di Expo: quello di essere stato localizzato (dall’ex sindaco Letizia Moratti e dall’ex presidente Roberto Formigoni) su un’area privata. Pagata a caro prezzo da Comune e Regione, con la necessità, a cose fatte, di far rientrare i soldi (nostri). Si poteva fare su un terreno pubblico? Sì: sull’area Porto di Mare, o alla Bovisa. Invece Formigoni ha imposto quell’area sbilenca a nord-ovest di Milano chiusa tra due autostrade, il carcere di Bollate e il cimitero di Musocco. Perché? Perché era in gran parte della Fondazione Fiera (ai tempi della scelta controllata dai ciellini formigoniani) che aveva i conti in rosso: con l’operazione Expo li ha sistemati.
A questo proposito, bisogna dire che alla conferenza stampa di presentazione del bando si è distinto proprio il rappresentante della Fiera, Corrado Peraboni (ieri leghista, oggi forse ex leghista, sempre certamente peraboniano). Mentre il vicesindaco di Milano, Ada Lucia De Cesaris, si è laicamente appellata all’ottimismo della volontà (abbiamo ereditato questa situazione, dobbiamo cercare di uscirne vivi) e il presidente della Regione Roberto Maroni ha fatto trapelare un certo distacco (stiamo a vedere che cosa succederà), Peraboni è venuto a farci la morale, sostenendo che deve prevalere l’interesse pubblico: proprio lui che rappresenta la Fondazione che è all’origine di questo pasticcio e che, in pieno conflitto d’interessi, ha venduto a se stessa (in quanto socio di Arexpo) le sue aree per rimettere in sesto i conti disastrati. È come se Diabolik facesse uno spot contro i furti di diamanti. O se Schettino fosse chiamato, che so, a far lezione all’università.
In un trafiletto di poche parole e neppure firmato, una chiave essenziale nella costruzione della Città Metropolitana dei cittadini. La Repubblica Milano, 1 agosto 2014, postilla (f.b.)
Manovre di avvicinamento ad Expo sul fronte trasporto pubblico. Atm e Palazzo Marino hanno messo a punto tre nuovi tipologie di ticket di viaggio per viaggiare sui mezzi cittadini, sulle linee ferroviarie Trenord e sul Passante. L’obiettivo è quello di favorire il più possibile gli spostamenti senza le auto private non soltanto verso il sito espositivo di Rho-Pero, ma anche in città, per quei turisti che arriveranno nei sei mesi di evento.
Il primo tipo di nuovo biglietto sarà valido per l’andata e il ritorno da Milano alla fiera di Rho e potrà essere utilizzato anche sul Passante. Costo: 5 euro. Seconda novità: il biglietto “giornaliero Expo” da 8 euro, valido sia da e per il sito espositivo sia per girare in tutta Milano sui mezzi Atm urbani e sul Passante. Ultimo nuovo tipo di biglietto deciso ieri dalla giunta è il ticket “giornaliero Area grande Expo”: costerà 10 euro e potrà essere utilizzato nell’area metropolitana. Sarà un confronto tra Trenord e Comune a stabilire quanto estesa potrà essere l’area in cui sarà valido il biglietto, studiando le direttrici ferroviarie che arrivano a Milano da nord e sud.
Per questi ultimi due tipi di biglietto si prevede che già a dicembre saranno messi in circolazione in via sperimentale per tutti quelli che vorranno raggiungere Rho per le manifestazioni in programma, dall’Artigiano in Fiera ai vari saloni di esposizione in calendario. Le stazioni di Rho-Fiera e di Pero, sulla linea 1 del metrò, sono state riaperte due settimane fa dopo la chiusura per i lavori necessari proprio in vista di Expo, durati poco più di un mese: è stata realizzata una deviazione dei binari per consentire più flessibilità nella gestione del capolinea, e quindi per andare incontro ai momenti di maggior afflusso dei passeggeri che visiteranno l’Esposizione.
postillaCome raccontava ai primordi dell'automobilismo di massa il sociologo urbano Roderick McKenzie, della seminale Scuola di Chicago, l'idea di area metropolitana in quanto dimensione urbana contemporanea passa soprattutto attraverso la percezione popolare delle relazioni che intercorrono fra i suoi diversi luoghi. Ovvero, prima delle pur indispensabili architetture istituzionali di governo e rappresentanza, sta l'accoppiamento di spazi e identità, l'idea di appartenere a un luogo a cui appartengono anche altri soggetti e ambiti. Se uno dei passaggi chiave dalla dimensione metropolitana novecentesca è quello della mobilità sostenibile, del rapporto sempre più stretto, consapevole e governato, fra spazi e flussi, allora il tema dell'integrazione tariffaria nel trasporto collettivo (e magari più avanti, come indicano alcuni studi internazionali recenti, anche a coinvolgere le varie forme di condivisione) diventa centrale. Ed è un peccato che chi prende le decisioni non appaia altrettanto propenso a promuovere questo aspetto: magari l'occasione dell'Expo potrebbe essere anche una spinta in questo senso (f.b.)
Si avvicina l'inaugurazione di un progetto simbolo della scellerata gestione (si fa per dire) della città, svenduta ai più bassi interessi con la scusa di “modernizzarsi”. Due articoli da la Repubblica e Corriere della Sera locali, postilla (f.b.)
la Repubblica
Piazza Sant’Ambrogio riapre dopo otto anni di polemiche e rinvii
di Alessia Gallione e Oriana Liso
Otto anni fa, nell’agosto del 2006, i primi scavi archeologici. Poco meno di quattro anni fa, nel novembre 2010, l’avvio dei lavori di cantiere: per tanti anni piazza Sant’Ambrogio è stata prima parzialmente e poi del tutto chiusa, per realizzare un parcheggio al centro di tante polemiche e tante battaglie. Da questa mattina, però, chi passa davanti alla Basilica vedrà qualcosa di nuovo: gli operai al lavoro per rimuovere le transenne del cantiere. Entro questa sera, infatti, il novanta per cento della piazza verrà riaperto: bisognerà aspettare fine mese — al più tardi la prima settimana di agosto, assicura il Comune — per vedere il lavoro completato. Con la piazza finalmente aperta e rinnovata e con il parcheggio interrato in attività.
La riapertura di oggi permetterà di vedere la piazza attraverso i due “cannocchiali prospettici”, ovvero i due assi che partono dalla Basilica e dall’ingresso dell’università Cattolica: gli spazi saranno ben diversi dal passato, con alberature, viali lastricati di pietra, panchine. Si vedrà, ovviamente, anche l’accesso al parcheggio, che si sviluppa sottoterra per cinque piani, con 223 posti a rotazione e 347 box per i residenti, per un totale di 570 posteggi. Il costo finale, a carico delle imprese che l’hanno realizzato (ovvero il raggruppamento formato da Borio Mangiarotti, Botta e Garage Velasca) è di circa 18,5 milioni. Fa il conto alla rovescia per la riapertura definitiva, fra meno di un mese, l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «In questi anni abbiamo lavorato con grande attenzione, anche con la Sovrintendenza, per rispondere alle esigenze di qualità e di bellezza imprescindibili per quella piazza. Speriamo che questa restituzione possa far superare le polemiche e i problemi che hanno accompagnato questa vicenda », spiega De Cesaris, proprio riferendosi all’odissea di uno dei parcheggi più contestati del “piano Albertini”, quel lungo elenco di opere in project financing deliberate dall’allora sindaco e, in larga parte, decadute con le giunte successive.
Parlano i numeri: dei 240 progetti immaginati negli anni Novanta, sono già 98 quelli che, ufficialmente, non saranno realizzati: 14 perché la localizzazione è stata ritenuta non idonea (tra questi, via Zecca Vecchia, via Washington, via Lodovico il Moro) e 84 per inadempienza, rinuncia o revoca del pubblico interesse, e qui ci sono i casi più famosi, come piazzale Lavater, via San Barnaba, piazzale Libia, via Bernini, senza considerare il parcheggio simbolo, quello della Darsena, già cancellato dalla precedente giunta. Su altri 5 parcheggi il giudizio è sospeso: gli uffici stanno completando le istruttorie. Non ci sono solo le cancellazioni, ma anche i 10 parcheggi ultimati — co- me piazza XXV Aprile — , quelli con i cantieri in corso, che dovranno concludersi entro Expo (oltre Sant’Ambrogio: Rio de Janeiro, Maffei e Valsesia Est) e gli 8 per cui i lavori inizieranno dopo l’ottobre 2015.
La strategia dell’amministrazione è chiara: privilegiare le localizzazioni fuori dal centro, con posti a rotazione e per residenti. Nei prossimi mesi apriranno tre nuovi indirizzi, per un totale di 1.347 posti auto (più 97 posti moto) per i quali il Comune pensa a forme di abbonamento in chiave anticrisi: 140 in via Pichi-Magolfa, gli altri nei due parking al Portello, per auto e moto, e alla Comasina, dove il parcheggio di interscambio avrà 306 posti. Non nuovi posteggi ma un aumento degli stalli esistenti, invece, è previsto per Famagosta e San Donato: all’inizio del 2015 Atm, dopo il via libera del Comune, potrà affidare i lavori per altri 870 posti.
Corriere della Sera
«Isola verde in Sant’Ambrogio». La piazza riapre dopo otto anni
di A.D.M.
Non è ancora un’inaugurazione vera e propria. Quella si terrà tra la fine di luglio e i primi di agosto, quando sarà pronto anche l’ingresso del parcheggio interrato. Oggi però qualcosa accadrà in piazza Sant’Ambrogio: dopo otto anni di cantiere il 90 per cento dell’area verrà liberata dalle transenne. Sarà «scoperta» la passeggiata che collega la piazza a via Terraggio: un percorso pedonale delimitato da aiuole e alberi (le panchine non ci sono ancora, verranno posate a breve). Via i ponteggi anche dal lato opposto. I box auto, invece, apriranno a fine mese: 570 posti in cinque piani interrati, 223 a rotazione, 347 per i residenti.
Un traguardo che arriva alla fine di un percorso lungo e accidentato: il progetto dei parcheggi risale al 2000. La Procura l’ha messo sotto inchiesta, poi l’ha assolto. Il cantiere per i box è partito nel 2006 con i saggi archeologici effettuati dalla ditta costruttrice, la Borio Mangiarotti. Nel 2010 sono cominciati gli scavi, con consegna prevista entro la fine del 2012. Nel mezzo ci sono state le proteste dei residenti, gli appelli degli storici, la preoccupazione per i reperti paleocristiani nel sottosuolo e le critiche ai parcheggi. La stessa giunta Pisapia aveva annunciato al momento dell’insediamento che non avrebbe mandato avanti il progetto.
«Abbiamo provato in tutti i modi a evitare l’opera, ma la penale per l’interruzione ci sarebbe costata troppo, oltre i 10 milioni di euro — spiega il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris —. Quindi abbiamo cercato di concludere in fretta l’intervento, lavorando con la Soprintendenza per garantire la massima tutela storico-artistica della piazza, un luogo dal grande valore culturale e religioso. La giornata di oggi è un piccolo passo importante in vista dell’inaugurazione completa di fine mese. Un momento che dovrebbe essere positivo per tutti, visto che la riqualificazione è il frutto di un lavoro corale». Non la pensano così i residenti: «Siamo felici di liberarci dalle transenne, questo sì — dice Roberto Losito —. I lavori ci hanno tenuti in reclusione per oltre otto anni, creando crepe nei nostri pavimenti e rendendoci la vita impossibile per colpa del rumore. Ma la piazza che vediamo oggi sembra un’autostrada: non si sposa certo con la storia del luogo».
postilla
La cosa tragicomica è che l'ex amministratore di condominio facente ahinoi funzioni di sindaco Gabriele Albertini ribadisce che fosse stato per lui di sforacchiamenti così ce ne sarebbero stati decine, centinaia in più, insomma una bella città “mudern” che neppure nelle più feroci inquadrature di Jacques Tati, con ingegneri e politicanti da macchietta lì ad applaudirsi addosso mentre sostituiscono via via piazzole di sosta a case, parchi, monumenti. In questi anni molta parte dell'opposizione ai progetti di autosilo, specie nella zona più centrale, si è focalizzata su aspetti storici, estetici, di vivibilità, e va benissimo. Esiste però anche un'altra prospettiva, spesso un pochino sorvolata, ed è quella della coerenza rispetto a processi evidentemente in corso. La modernità farlocca pervicacemente inseguita o sbandierata dal centrodestra forse si sposa con quella idea di città automobilistica, di New York anni '20 de noantri, che permeava di sé i piani di epoca fascista e in parte anche il periodo dalla ricostruzione al boom. Oggi crolla il ruolo centrale del veicolo privato a motore, si afferma una idea diversissima di mobilità urbana, e dulcis in fundo tra le tante cose del dibattito sull'Expo è ritornata a galla l'idea per nulla peregrina di scoperchiare la Cerchia dei Navigli. Quel gruviera sforacchiato del Sant'Ambrogio Central Box, con tutte le sue centinaia di piazzole pateticamente vintage, sta all'interno della cerchia, raggiungibile teoricamente solo scavalcando un poetico ponticello: che senso ha? Forse quello di accogliere a braccia aperte la sera i rampolli della Brianza suburbana, intossicati insieme dal mito del Suv e della movida? Anche di questo, bisognerà ricordarsi, a lungo (f.b.)
Rispunta dopo un periodo di velo pietoso su un'area lasciata all'abbandono, il progettone simbolo del centrodestra urbanistico, che sia l'ennesima volta buona? Dal tono, parrebbe proprio di no, almeno riguardo ai vantaggi per la città. Corriere della Sera Milano, 27 giugno 2014, postilla (f.b.)
Santa Giulia si presenta al mercato. Dopo il lungo stop imposto dalla magistratura e dopo aver affrontato una profonda crisi finanziaria e la successiva ristrutturazione dell’assetto societario, il gruppo Risanamento propone il nuovo masterplan dello sviluppo edilizio e urbanistico di circa 450 mila metri quadrati a sud-est di Milano, oltre Rogoredo.
Il piano presentato ieri all’ultima giornata di Eire-Expo Italia real estate, la fiera del settore immobiliare, è sostanzialmente lo stesso già illustrato (a fine gennaio) al Comune e prevede nuove residenze, un nuovo museo tecnologico dedicato ai bambini (al posto della prima idea di un centro congressi), un’arena per spettacoli ed eventi sportivi e un parco urbano che diventerà il secondo più grande della città con 330 mila metri quadrati di verde. L’idea dei progettisti dello studio Forster+Partners è quella di un quartiere «aperto» e non separato al resto della città, grazie ai collegamenti viari e di trasporto pubblico, da un lato con Rogoredo e dall’altro con la zona di viale Ungheria e via Bonfadini «Il meglio della città, insieme al meglio del verde», è lo slogan suggerito dall’architetto Luis Matania, insieme all’immagine di una zona capace di vivere «24 ore su 24» per effetto delle molte funzioni commerciali e terziarie e del reticolo di strade strette e «promenade » pedonali. Nella parte Sud dell’area, inoltre, è prevista a breve la consegna del raddoppio (altri 20 mila metri quadrati) dell’insediamento di Sky tv.
«Abbiamo pensato a una città che punta sull’integrazione di due dimensioni chiave — spiega Davide Albertini Petroni, direttore generale Risanamento e amministratore delegato di Santa Giulia —: sostenibilità e smartness, traducendo in proposte concrete il concetto di smart city». Ma subito dopo spiega anche che una priorità è «trovare operatori interessati al progetto e preparare un piano da presentare al mondo immobiliare», oltre a «trovare partner che possano investire». A fine marzo, infatti, è scaduta la clausola di esclusiva di Idea Fimit, la società di sviluppo immobiliare che aveva manifestato interesse a una partnership con Risanamento su Santa Giulia. Resta quindi aperto il nodo della ricerca di nuove «forze», dopo le traversie finanziarie e le cessioni di alcuni asset, tra i quali l’area Falck.
Il progetto, inoltre, è in attesa di approvazione da parte del Comune di Milano e «con gli enti competenti quali Arpa e Asl si sta iniziando il processo di confronto per la procedura delle bonifiche, visto che la zona si trova su una ex area industriale della Montedison — spiega ancora il direttore generale — con l’obiettivo di iniziare i lavori nei primi mesi del 2016 e di concluderli in un periodo di almeno 7 anni dall’inizio del lavoro delle gru». Insomma, c’è ancora un po’ di strada da percorrere prima di vedere completato questo nuovo pezzo di città, che ha già conosciuto una gestazione tormentata, con il lungo sequestro giudiziario del parco che adesso è stato riconsegnato alle 1.400 persone che già abitano a Santa Giulia.
postilla
Condividiamo le conclusioni dell'articolo: eh si, c'è ancora un bel po' di strada da fare, soprattutto per capire, o provare a capire, quale sarà lo sbocco a regime, anche nei suoi effetti non solo urbanistici sul contesto circostante, del progettone simbolo degli interessi privati che, da soli, avrebbero dovuto scagliare la metropoli nell'orbita luccicante del postmoderno, dove tutti sono fotomodelle, designers, cantanti e intrattenitori, intenti a relazionarsi in una specie di shopping mall eterno e ubiquo. Ci restano invece ancora quegli eterni disegni, urbanisticamente identici, di un quartiere che fa poco per quanto gli sta attorno, e che segrega anche al proprio interno le zone di serie A da quelle di serie B, col parco a fare da cuscinetto. E restiamo sempre e comunque, a vent'anni e passa dal suicidio (qualcuno se lo ricorda ancora, no?) di Raul Gardini, travolto da quell'idea di passaggio dall'industria alla rendita immobiliar-finanziaria-tangentara, sospesi nel limbo delle decisioni degli speculatori. Consolandoci, si fa per dire, con l'ennesimo rendering dell'archistar, mentre vorremmo camminarci dentro, nella città futura, tanto per gradire (f.b.)
p.s. Digitando nell'Archivio “Santa Giulia” nel motore di ricerca interno, o magari semplicemente sfogliando le pagine della sezione Milano, tanti particolari in più
L'innovazione spaziale, come quella tecnologica, non funziona senza adeguato supporto organizzativo: forse stiamo cominciando a capirlo per un aspetto essenziale della struttura dei quartieri. La Repubblica Milano, 10 giugno 2014, postilla (f.b.)
Le scuole comunali apriranno le porte ai cittadini, ospitando corsi, attività sportive e altre attività alla fine dell’orario di lezione. Palazzo Marino ha varato l’ufficio “Scuole aperte” che coordinerà e aiuterà le scuole a organizzarsi. L’esempio è il comprensivo Cadorna, che già accoglie corsi sportivi e culturali, e persino un mercato della Coldiretti con prodotti a chilometro zero. L’idea dell’amministrazione è di replicare l’esperimento in più istituti possibile.
Le scuole che spalancano le porte e fanno rete per diventare un patrimonio a disposizione dei quartieri e della città. Con le palestre dove organizzare attività sportive per grandi e piccoli. Aule e biblioteche che accolgono incontri culturali e cineforum. Cortili che ospitano mercati di frutta e verdura a chilometro zero. A Palazzo Marino apre l’ufficio “Scuole aperte”, un quartier generale che coordinerà asili, elementari e medie per trasformarli in luoghi d’incontro aperti a tutti quando i bambini non sono a lezione. Il primo passo era stato fatto un anno e mezzo fa, con una bozza di modifica del regolamento degli edifici scolastici comunali per concedere spazi alle associazioni, uniformando tariffe e norme.
Un documento però accantonato: «Ci siamo resi conto che non era lo strumento giusto — spiega Chiara Bisconti, assessore al Benessere e al Tempo libero — c’erano scuole troppo all’avanguardia che ne avrebbero risentito negativamente, e altre così arretrate e chiuse che l’avrebbero vissuta come un’imposizione. Una soluzione univoca non andava bene ma abbiamo continuato a lavorarci: c’è dietro una ricchezza sociale enorme per la città». Da qui, una nuova strada: la creazione di una cabina di regia che aiuterà le scuole a organizzarsi, partendo da modelli di riferimento che già funzionano. A capo dell’ufficio “Scuole aperte”, in sinergia con l’Ufficio scolastico regionale, c’è il preside del comprensivo Cadorna, Giovanni Del Bene, che del concetto di scuola come patrimonio comune ha fatto un cavallo di battaglia. Il suo istituto è aperto fino a tarda sera per corsi di danza e di nuoto, dibattiti, corsi di italiano per stranieri, proiezioni di film e mercati della Coldiretti in cortile.
Durante la settimana come nel weekend, nelle vacanze di Natale come nei mesi estivi. «Cercheremo di diffondere la nostra esperienza a tutta la città — spiega Del Bene — ci metteremo a disposizione dei presidi, valuteremo le proposte delle associazioni e le ricadute che possono avere sul territorio». L’idea è replicare in più istituti possibile quelle pratiche che hanno permesso a Milano di diventare capofila del progetto del Ministero dell’Istruzione che punta a estendere questo modello in tutte le regioni d’Italia. Il 16 giugno all’istituto Cardano ci sarà il sottosegretario all’Istruzione, Roberto Reggi, al convegno organizzato proprio su questo. Verrà lanciato il primo forum nazionale delle scuole aperte che si terrà in autunno a Firenze. «Sono tantissime le scuole che lo fanno già, con un fortissimo ruolo sociale sul territorio — spiega l’assessore alla Scuola, Francesco Cappelli — la nuova sfida è creare una rete che le metta in comunicazione e permetta un’ulteriore crescita».
postilla
Forse non è un caso che questa idea delle scuole al centro dei quartieri fosse emersa durante la campagna per le primarie, sostenuta dall'urbanista Stefano Boeri: la cosiddetta neighborhood unit è cosa che (purtroppo non sempre, diciamo a volte) si studia nelle facoltà di Architettura, e sta al centro del dibattito novecentesco sulla dimensione ottimale della parte di città legata alle funzioni quotidiane e relativi servizi. Almeno dagli anni '30 in poi in tutto il mondo, dal paradigmatico progetto di Radburn in New Jersey, attraverso le New Town britanniche fino ai nostri quartieri INA-Casa e altro, l'unità di vicinato si struttura fisicamente come raggio di percorrenza pedonale proprio a partire dal complesso delle scuole. Con una fondamentale lacuna: a differenza di altre attrezzature come il verde e lo spazio pubblico, la scuola funziona solo per la didattica, ha i suoi tempi morti molto estesi, e si apre esclusivamente per eventi eccezionali, come le elezioni. Mentre nell'idea originaria del sociologo Clarence Perry, derivante da studi del 1913 a Chicago, perfezionati dieci ani più tardi nel piano regionali di New York, le funzioni dell'edificio scolastico sono multiple e articolate sulle esigenze dei cittadini di tutte le età. Una iniziativa da seguire quindi, quella del comune di Milano, che non a caso già si propone oltre i confini. Qualche particolare in più e alcuni link ai documenti originali tradotti, in un articolo su Millennio Urbano (f.b.)
L'ennesimo articolo che fa promozione immobiliare – presumibilmente indebita - all'ormai noto progetto di Porta Nuova a Milano, ma forse per via dell'ansia scivola nel ridicolo. Corriere della Sera, 7 giugno 2014, postilla (f.b.)
A Milano c’è un cantiere (il più grande d’Europa) che si avvia alle battute finali: è quello di Porta Nuova. Un complesso di uffici, abitazioni, servizi e collegamenti nati in un’area che era una «terra di nessuno» nel mezzo della città. Oggi, che i lavori sono in buona parte completati, il bilancio può essere considerato positivo. Merito, forse, anche della gestione del piano urbanistico e dei progettisti chiamati a lavorarci: architetti e studi di livello internazionale, che grazie alle loro esperienze in ogni angolo del pianeta, hanno introdotto una varietà di stili ma anche un’innovazione tipologica e tecnologica che hanno contribuito al successo. I milanesi che passeggiano con grande curiosità tra questi edifici (e si cimentano nel fotografare nuove suggestive prospettive urbane) hanno la sensazione è di trovarsi di fronte a una sfilata di forme, una grande fiera campionaria dell’architettura.
Da un po’ di anni in caso di interventi di questo tipo è diventata prassi abituale chiamare diversi progettisti, assegnando a ciascuno uno specifico intervento all’interno del piano generale. Una scelta che non porta a riprodurre in maniera pedissequa le megalopoli orientali o le metropoli Usa ma reinterpreta edifici e grattacieli adattandoli a una scala urbana più modesta e a uno stile di vita europeo. Un po’ come fece lo studio Bbpr con la Torre Velasca, sempre a Milano, più di 50 anni fa.
Uno degli esempi più noti, di questo «modus operandi» è quello di Renzo Piano per la riqualificazione di Potsdamer Platz a Berlino nel 1992: l’architetto genovese definì il programma di intervento, dando indicazioni su volumi edificabili e materiali utilizzabili, riservandosi la realizzazione di otto edifici e chiamando altri progettisti per le restanti costruzioni. Da Hans Koolhoff, che ha disegnato la torre affacciata sulla piazza, a Helmut Jahn, che ha ideato la sede Sony, il risultato è una zona frequentatissima da turisti e berlinesi, che la animano a tutte le ore del giorno e della notte. Questa usanza, di interventi a scala urbana a più mani, ha un precedente storico e famoso: Ludwig Mies van der Rohe, nel 1926, in qualità di vicepresidente del Werkbund che organizzava la II esposizione a Stoccarda, riuscì a farsi assegnare un’altura alla periferia della città per dare vita a un quartiere modello, il Weissenhof, in cui chiamò a cimentarsi le «archistar» dell’epoca: da Le Corbusier a Gropius, da Behrens a Scharoun. Furono 16 gli architetti invitati a dare il meglio di sé: non c’è stata una progettazione d’insieme e i vari edifici sono stati semplicemente accostati. Anche se va precisato che lo scopo del Weissenhof, non era tanto di creare un «bel» quartiere, quanto di definire nuove tipologie e schemi abitativi per l’edilizia popolare. Il tema della varietà però, fu perfettamente centrato, perché, al di là di alcune caratteristiche (edifici bianchi, non allineati al filo stradale e separazione tra traffico pedonale e veicolare), il rione manteneva tratti unitari riconoscibili senza che per questo si venisse a creare monotonia o addirittura l’effetto straniante del «superblocco» (edilizio) di stampo sovietico.
Un’immagine alienante che peraltro è molto presente anche sull’altra sponda dell’oceano, in America: fin dal dopoguerra gli interventi di lottizzazione periferica statunitensi, hanno portato alla realizzazione di interi quartieri impiegando una semplice tipologia di villetta monofamiliare (o bifamiliare) con il suo bravo giardinetto, il vialetto, l’alberello e l’immancabile berlinona nel box, ripetuta praticamente all’infinito. Il risultato è uno degli aspetti più inquietanti dell’«American way of life». Un’abitudine peraltro niente affatto tramontata, se si pensa ad esempio a uno dei nuovi quartieri di West Palm Beach, in Florida. Evidentemente, alla «middle class» a stelle e strisce piace così.
La tendenza attuale è quella di chiamare un certo numero di progettisti per introdurre quella molteplicità che, altrimenti, produrrebbe l’effetto di «quartiere-ghetto» se affidata ad un’unica matita. In Italia, nel dopoguerra, ci sono state fasi altalenanti, ad esempio in occasione della ricostruzione postbellica: in alcuni casi sono stati raggiunti risultati eccellenti (come il quartiere Ina-Casa Tiburtino, di Ridolfi, Quaroni, Fiorentino e altri 9 architetti) in altri, invece, decisamente scarsi tanto da coniare le definizioni di «case-alveare» o, appunto, «quartiere-ghetto». Ma allora, la bontà del risultato finale è merito della bravura degli architetti, della loro sensibilità progettuale e dell’apporto multiprofessionale? Sicuramente è così. Resta il fatto che, sia negli interventi di edilizia intensiva (grattacieli) o estensiva (quartieri di villette), quando i progettisti lavorano con coscienza e abilità, lontano da preconcetti ideologici, politici e alla larga da teorie ed esperimenti di edilizia sociale (vedi Corviale, Scampia e Zen) il risultato è (quasi sempre) di buon livello.
postillaOrmai il quartiere del “grattacielo più alto d'Italia” del Bosco Verticale eccetera, dove come ci spiega puntiglioso l'Autore i progettisti lavorano “lontano da preconcetti ideologici e politici” conta innumerevoli tentativi di promozione immobiliare travestiti da articoli. Il developer ovviamente ringrazia, ma in questo caso dovrebbe ringraziare molto meno il lettore, trascinato per i capelli dentro il temerario accostamento fra questo privatissimo progetto a suon di architar e dintorni, e il catalogo di architettura modernista rappresentato dal Weissenhof di Stoccarda negli anni '20, quando (spiegateglielo, all'Autore) ideologia e politica erano pane quotidiano per gli architetti e la società riformista della Repubblica di Weimar, con rispetto parlando. Ma la vera madornale sciocchezza di questo spot pubblicitario sta nel non scritto, probabilmente nel rimosso: giusto a Milano, più o meno a mezza strada nel tempo tra Weissenhof e Porta Nuova, c'è un equivalente catalogo di architetture moderne, opera collettiva dichiaratamente ispirata all'originale tedesco, e che ben più del privatistico catalogo di appetiti immobiliari attuale ne ripercorre lo spirito. Si chiama QT8, e anche se non si conosce la storia della Ottava Triennale che gli dà il nome, basta guardare le fermate della Metropolitana per scoprirne l'esistenza, e magari farci un giro. Ma il ritmo frenetico della vita moderna all'inseguimento dei traballanti valori immobiliari probabilmente non concede questo lusso, oppure la sola idea di citare quell'opera “comunista” ripugna al rampollo del conformismo rampante? (f.b.)
«Ogni opinione, naturalmente, è lecita; però dire che Expò sarà una colata di cemento, mentre l’eredità di Expo sarà un parco di quasi 50 ettari, uno dei più grandi d’Europa, non ha niente a che vedere con il legittimo dissenso». Il manifesto, 22 maggio 2014 (m.p.r.)
Ho letto l’articolo di Guido Viale su Expo e siccome il suo giudizio è costruito anche su informazioni inesatte, credo sia mio dovere correggerle e spiegare le scelte della mia amministrazione. Ogni opinione, naturalmente, è lecita; però dire che Expo sarà una colata di cemento, mentre l’eredità di Expo sarà un parco di quasi 50 ettari, uno dei più grandi d’Europa, non ha niente a che vedere con il legittimo dissenso. Parto anch’io dalla campagna elettorale per ricordare che nel programma della coalizione, voluto da tutti i partiti che mi sostenevano — da Prc a Sel al Pd — non c’era scritto da nessuna parte che Milano avrebbe abbandonato l’Expo.
Anzi, c’era scritto che si trattava di un appuntamento irrinunciabile. Certo, tutti, a cominciare da me, promettevano un Expo ben diversa da quella descritta nell’articolo di Guido Viale e questa promessa è stata mantenuta.
Expo non sarà semplicemente un’esposizione universale; sarà una vetrina di contenuti. Come a Kyoto si sono gettate le basi per combattere i cambiamenti climatici, a Milano in occasione di Expo, quando avremo qui 140 Paesi, getteremo le basi di una nuova e più sana politica alimentare che lotti contro la fame nel mondo, gli sprechi alimentari, l’accaparramento dei terreni agricoli dei paesi poveri, che sia per l’acqua bene comune, per la sostenibilità della catena alimentare.
Leggo equivoci anche sul dopo Expo. Su quelle aree – che non abbiamo scelto noi — non ci sarà nessuna speculazione edilizia o finanziaria. Il 54 per cento del sito sarà destinato a verde e la restante parte ad un grande progetto, scelto attraverso un bando trasparente e aperto a tutti, che abbia anche una utilità pubblica. Lascito di Expo sarà anche una storica e bellissima cascina milanese, la Cascina Triulza, ristrutturata dopo anni proprio per questa occasione. Sarà la sede del volontariato, della cooperazione internazionale, delle Ong, dell’associazionismo sociale. Un sede permanente, definitiva, che rimarrà anche dopo il 2015. E la Darsena, il vecchio porto di Milano, sarà riaperto dopo decenni di abbandono.
In momenti difficili come questi, confesso che non trovo per niente da snobbare nemmeno la possibilità di avere oltre 200 mila posti di lavoro. O gli effetti positivi sul Pil e sull’occupazione che continueranno fino al 2020, generati da un indotto che sarà di dieci miliardi di euro.
Comunque, anche per me, sono i contenuti l’aspetto più importante. E in questo abbiamo avuto fortuna: l’Expo, per una questione di reputazione internazionale, avremmo dovuto farla comunque, a meno di non fare davanti al mondo la figura di una repubblica delle banane, però farla sul tema della nutrizione ci consente di avere un peso su un tema fondamentale. E su questo, forse a Viale è sfuggito, stiamo lavorando con le migliori intelligenze, a partire proprio da Carlin Petrini che con Slow Food avrà un ruolo decisivo sui temi cardine dell’Esposizione.
Credo che Viale giudichi la città in base a degli stereotipi: vero che il Salone del Mobile è un momento magnifico. Ma, caro Guido, c’è anche altro: Book City riempie la città di eventi legati alla lettura e avresti dovuto essere con noi la settimana scorsa, quando il progetto Piano City ha acceso la città di oltre trecento concerti in ogni angolo di Milano. Tutte iniziative legate ad ‘Expo in città’. Avresti visto – e non è un’esagerazione – persone felici, come saranno felici le persone che lunedì saranno in Piazza Duomo per ascoltare gratuitamente la Filarmonica della Scala.
Diciamo che il modello–salone, nell’accezione di coinvolgere il maggior numero di persone possibili, di toccare con iniziative ogni zona della città, di fare cultura diffusa, è il nostro modello. E così sarà, naturalmente, per Expo, quando Milano sarà una città ancora più accogliente, allegra, aperta. Pronta a ricevere tante persone che arrivano da tutto il mondo, non certo per scambiare affari, ma per scambiare conoscenza e immaginare un futuro migliore per tutti.
Capisco che nessuno sia profeta in patria, però per uscire da un certo pessimismo cosmico, suggerisco di dare una scorsa ai giornali stranieri: ieri eravamo su Le Monde, apprezzati per avere vinto un premio importante dell’Ocse, primi tra tutte le città europee. Una sorta di ‘Oscar’ per quanto abbiamo fatto e stiamo facendo per la mobilità sostenibile. Siamo stati chiamati a far parte dei C-40, le città leader nelle politiche ambientali. Ci chiedono il know how per la raccolta differenziata visto che siamo insieme a Vienna al livello più alto tra le grandi città d’Europa. Insomma, non mi sembra affatto che abbiamo perso un’occasione. Piuttosto, l’occasione, abbiamo saputo coglierla, ora dobbiamo coltivarla insieme a tutte le forze sane del Paese. Altro che cemento…
«Expo e corruzione. Sfilarsi dal progetto, scegliere il modello "fuori salone", decidere di seguire l’idea di Petrini sulla trasformazione del parco agricolo di Milano. Invece ha vinto la colata di cemento.Il manifesto, 20 maggio 2014
Come per De Magistris, Zedda e Doria anche il sindaco Pisapia era stato eletto sull’onda di una mobilitazione straordinaria per partecipazione, entusiasmo, creatività. Pisapia doveva porre fine alle malefatte di Letizia Moratti. E tra quelle tante malefatte la peggiore è senz’altro l’Expò: un “Grade evento” fatto di “Grandi Opere” che non hanno alcuna giustificazione se non distribuire commesse, incassare tangenti e tenere in piedi un comitato di affari impregnato di corruzione e di mafia che aveva già devastato la città per anni. Si badi bene: le tangenti sono una conseguenza e non la causa.
Avendo ereditato l’Expò dalla Moratti, Pisapia si era impegnato a renderla comunque meno pesante possibile. Ma ha tradito quel mandato. Non è in discussione la sua onestà, né la sua buona fede; lo sono le sue scelte. Appena insediato è stato trascinato a Parigi da Formigoni per sottoscrivere gli impegni con l’Ufficio Internazionale dell’Expò. Da allora l’Expò ha preso il posto dei progetti presentati in campagna elettorale, alcuni dei quali sanciti dalla vittoria di sei referendum cittadini (senza seguito). E con l’Expò ha cominciato a dissolversi quell’ondata di entusiasmo e di speranze che aveva portato Pisapia in Comune.
Oggi in città la partecipazione, che era stata la grande promessa di quella campagna elettorale, è a zero. E le forze che si erano impegnate per sostenerlo – e soprattutto i giovani, e tra i giovani i centri sociali — sembrano ormai orientate a non votare nemmeno più: per nessuno. E’ questo l’effetto peggiore di quel tradimento.Poteva andare diversamente? Certamente sì. Ma solo con un taglio netto nei confronti della cultura dominante: il pensiero unico; il refrain del “non c’è alternativa”.
«Sarà un rilancio per l’economia per tutto il paese», ci hanno detto uno dopo l’altro Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi. Ma c’è qualcuno che veramente ci crede? Gli ultimi Expò, con l’eccezione di Siviglia, sono stati un bagno di sangue per le città e i paesi che li hanno ospitati. «Sarà il rilancio dell’immagine dell’Italia nel mondo» ripetono. Sì, ma dell’Italia come il paese più corrotto dell’Ocse, e forse del mondo.
Eppure Pisapia le alternative le aveva: quando si è insediato, bastavano 20 milioni di euro di penale (una “bazzecola” rispetto a quelli che ci costerà l’Expò) per sfilarsi dal progetto. Le ragioni per farlo non mancavano: nell’epoca di internet una esposizione universale è un’idea stupida; e da tempo le Expò sono bagni di sangue: si aspettano milioni di turisti straricchi dall’estero e poi bisogna fare appello alle visite scontate dei connazionali per risollevare un po’ i bilanci; d’altronde, “nutrire il pianeta” con una colata di cemento non è un’idea geniale o innovativa.
La seconda opzione era l’Expò diffuso (sul modello del “fuori salone” abbinato da anni alla fiera del mobile, che ha sempre molto successo). A Pisapia quel progetto glielo aveva messo in mano un gruppo di architetti, designer e urbanisti che ci lavorava da tempo (c’è anche una pubblicazione in proposito); sarebbe costato molto meno, non avrebbe comportato penali, e i soldi spesi sarebbero serviti per rendere più bella la città; ma più difficili e meno remunerative speculazione e corruzione.
La terza opzione era seguire i suggerimenti di Petrini: nutrire Milano per insegnare a nutrire il pianeta. Cioè promuovere la trasformazione del parco agricolo Sud Milano, il più grande d’Europa, in un giardino coltivato a frutta e ortaggi, per alimentare le mense gestite dal Comune (80.000 pasti al giorno); per promuovere una rete di Gas (gruppi di acquisto solidale, trasferendo a costo zero il know-how di chi un Gas lo sa fare, perché lo ha già fatto, a chi vorrebbe farlo e non sa da dove cominciare; magari con un pizzico di promozione); per insegnare a tutti a magiare meglio e a chi lavora la terra a trasformarla in vera ricchezza; e poi, portare i visitatori a vedere quel miracolo.
Dulcis in fundo, il progetto iniziale prevedeva un canale navigabile per farvi arrivare in barca i visitatori - le “vie d’acqua” - parallelo a un naviglio leonardesco, come segno di sfida tra “moderni” e “antichi”. Nel corso del tempo quel progetto si è trasformato in una fogna in cemento di due metri di larghezza, per far defluire le acque della fontana che ornerà la “piastra”. Poi si è deciso di interrarne una buona parte per far fronte alle proteste degli abitanti di alcuni quartieri. Ma il costo è rimasto immutato (80 milioni) e l’appaltatore pure (Maltauro, quello delle mazzette); anche se il progetto non sarà comunque pronto per l’Expo.
Il problema vero che tutti i cittadini di Milano e d’Italia si pongono è invece questo: quante altre cose meravigliose si sarebbero potute fare con i miliardi dell’Expò? Ma è una domanda che a Pisapia non ha fatto nessuno.
![]() |
Verso il Castello. Foto F.B. |
Botta e risposta sul monumento “effimero” (non si sa quanto) che dovrebbe accogliere il visitatore nel suo percorso dalla città storica verso il sito espositivo e i suoi contenuti culturali. Fulvio Irace e Giancarlo Consonni si schierano rispettivamente pro e contro le scelte progettuali. La Repubblica, 8 e 10 maggio 2014, postilla (f.b.)
di Fulvio Irace
Sabato 10 maggio sarà il giorno della riconciliazione tra Milano e il cantiere dell’Expo: alle 17.30 una parata musicale da piazza San Babila raggiungerà via Beltrami, nella zona di Piazza Castello, dove sarà consegnato alla città Expo Gate, il complesso dei due padiglioni gemelli che funzioneranno da infopoint della manifestazione e, si spera, da centro di rianimazione di un’operazione che sino a questo momento è apparsa a molti tanto problematica quanto nebulosa. Nonostante la sua trasparenza, il Gate di vetro e metallo non sarà tuttavia il Cristal Palace di Milano: progettato dall’architetto Alessandro Scandurra, può essere infatti considerato come un sincero contributo alla storia di Milano capitale del Moderno: laboratorio di un progetto che ancora non è si arreso agli stereotipi del pensiero unico e anzi sfrutta i pochi spazi ancora a disposizione per rivitalizzare una tradizione che la nuova Milano di porta Garibaldi e dell’ex Fiera ha cercato di sterilizzare e rendere del tutto obsoleta.
Per quanto marginali e temporanei, i due padiglioni di Scandurra ci danno una misura di come sarebbe potuta essere Milano se la sua pianificazione fosse stata più meditata e meno succube alle esigenze del Real Estate e dei capitali globali. Cos’ha di particolare l’Expo Gate che i milanesi dovrebbero imparare ad apprezzare, se non amare? Innanzitutto la devozione di un pensiero progettuale che non parte da una forma stravagante da vendere come scatola delle meraviglie per indigeni ingenui. Il progetto è semplice e al tempo stesso sottile e complesso. Parte dal luogo e cerca di dare una risposta alle esigenze di rivitalizzazione di un’area che funzionava più o meno da parcheggio o da crocevia caotico di traffico. La pedonalizzazione dell’area del Castello ha trovato così una giustificazione e una gratificazione per i cittadini che rinunciando all’auto troveranno il piacere di una piazza che mette in evidenza la visuale del rettilineo di via Dante con i suoi corollari monumentali. Un commentario, insomma, sulla città ottocentesca del Beruto, ma anche alla visionarietà del grande piano del Foro Bonaparte dell’Antolini, che rende omaggio a uno dei punti più consolidati dell’urbanistica milanese. I due padiglioni gemelli sono infatti inclinati in modo da lasciare sempre aperta questa visuale e anzi rafforzare l’asse tra la Torre del Filarete, la fontana e la statua di Garibaldi. Questo gesto suggerisce un metodo di intervento basato sulla suggestione del famoso libro dedicato a Milano da Alberto Savinio: “ascolto il tuo cuore città”.
![]() |
Folla il giorno di inaugurazione. Foto F.B. |
Fa parte di quest’ascolto anche la forma dei padiglioni: due triangoli di sottili aste metalliche che fanno pensare a prima vista a un castello di carte o al gioco di bastoncini shangai. Subito dopo affiorano alla mente, però, i disegni del Cesariano che nel 1521 mostrava le geometrie triangolari del Duomo di Milano come un miracolo di equilibrio tra verticalismo gotico e armonie rinascimentali. Ma si pensa anche agli allestimenti razionalisti della vicina Triennale dove Albini e Persico negli anni Trenta sfidavano le leggi della gravità disegnando impalcature di tubi sottili per sostenere immagini ed oggetti. Di questo va reso grazie a Scandurra: di aver tenuto alta la posta e restituito un’immagine di Milano né conservatrice né pacchiana. Sembra poco? Basta spostarsi in piazza San Babila con il suo funesto baldacchino per la vendita di maglie e gadget per decidere la risposta.
di Giancarlo Consonni
Verrebbe da scegliere il silenzio. Perché, dopo questo mio intervento, chi ha responsabilità di governo della città potrà ribadire la formula auto-assolutoria: «È un progetto di rottura, e come tutti i progetti di questo tipo possono piacere e non piacere». Solo che scempio e rottura non sono sinonimi. Dopo le rotture — gli accanimenti littori e la spregiudicatezza postbellica a celebrazione del mito della capitale economica — questa nostra Milano, un tempo cultrice di una bellezza riservata (Alberto Savinio), ha visto moltiplicarsi gli scempi, piccoli e grandi, in misura esponenziale.
La bruttezza dilagante sta diventando il marchio di una fase storica iniziata con la dismissione industriale (e la Milano da bere), di cui non si intravede la fine. Eppure Fulvio Irace (nel suo intervento pubblicato su Repubblica Milano di giovedì 8 maggio) dice che i due organismi gemelli dell’Expo gate firmati da Alessandro Scandurra sono il segno di una svolta. Parto da Carlo Emilio Gadda che, con Savinio, è l’altro grande interprete novecentesco dell’anima di Milano. Si legge nell’Adalgisa: «Valerio ed Elsa, nella luce di un pomeriggio bramantesco, poterono involarsi alla folla, e alla guardatura della sfavillante lanterna filaretiana, che li aveva seguitati fin là, cioè fino allo sbocco di via degli Orefici nella piazza del re a cavallo, e del duomo».
Qui Gadda rende omaggio a Luca Beltrami: a quel falso storico che è il Castello Sforzesco, il capolavoro architettonico- urbanistico che ha consentito a Milano di trovare una degna conclusione all’asse di via Dante e di muoversi in direzione di un rinnovato policentrismo. Una linea su cui il Novecento non ha saputo/voluto proseguire (con conseguente indebolimento dell’armatura urbana). Bene: fin da via Orefici, man mano che si procede verso il fulcro della torre “del Filarete”, i “caselli” di Scandurra manifestano il loro carattere di corpi estranei: sono due ospiti invadenti e ottusi, sbagliati sul piano urbanistico come su quello architettonico.
Piazza Castello necessitava di essere sottratta alla funzione di parcheggio che l’aveva degradata? Certamente; ma l’operazione avrebbe dovuto limitarsi a un’adeguata sistemazione della pavimentazione e delle sedute che ne esaltasse il doppio carattere di interno urbano e di soglia. Per il resto l’architettura di questo spazio era già ottimamente definita sui quattro lati.
Viene rispettata la simmetria rispetto all’asse via Dante-Castello? Questo non garantisce alcunché dal momento che i due bianchi gemelli di ferro e vetro si oppongono al luogo. Lo occupano spaccandolo: forzano la prospettiva in senso assiale, quando qui l’interazione di quanto c’è già è ben più ricca e complessa. Per questo il vuoto non andava riempito: occorreva solo favorire l’interazione dialogica e sinfonica delle presenze che lo strutturano come un palcoscenico: i fulcri del Castello e del monumento equestre a Garibaldi e le testate dei due grandi circus del Foro Bonaparte (architettura raffinata nell’impaginato quanto negli accostamenti materico-cromatici, perfettamente integrata dai possenti bagolari). I due intrusi sono sbagliati anche sul piano architettonico. Velleitaria combinazione di ludico e gotico, non riescono a mascherare la loro natura di parvenu. Quanto è lontana la leggerezza armoniosa dell’architettura di ferro e vetro con cui l’Ottocento ha costruito esposizioni, biblioteche e giardini d’inverno.
![]() |
Expo Gate verso via Dante. Foto F.B. |
Senza nulla aggiungere o togliere alle considerazioni sulla forma urbana dei due illustri studiosi, va sottolineato quanto non solo il loro approccio sia deliberatamente teorico-critico, ma anche che essi sviluppano i propri ragionamenti a partire dai rapporti fra progetto, contesto, storia. In pratica, anche indipendentemente dalle specifiche scelte degli Autori, le cose di cui parlano non possono basarsi anche, eventualmente, sul modus operandi “a regime” dell'Expo Gate, inaugurato insieme all'operativa pedonalizzazione di Piazza Castello dalla giornata di sabato 10 maggio. Ebbene, quello che accade operativamente, in questa giornata in cui la solita folla di milanesi e city users si sposta sull'asse Duomo-Sempione, è che quel portale rappresenta un vero e proprio tappo, visivo come sottolinea Consonni, ma anche e soprattutto rispetto ai flussi. Il sistema della pedonalizzazione sull'ultimo tratto di via Dante, di fatto si interrompe in una serie di strettoie, per iniziare di nuovo a respirare, visivamente e letteralmente, nella nuova piazza ancora in attesa di sistemazione e arredi. Se questa scelta è deliberata, si tratta di una patente sciocchezza. Se, come si spera vivamente, dopo l'evento quella discutibile ingombrante architettura verrà smontata, e la torre del Filarete restituita a chi si avvicina dalla direzione del Duomo, magari si potrà discutere quale soluzione di continuità pensare, per uno spazio in effetti forse un po' troppo vasto per la sola libera circolazione dei pedoni. Qualcuno dal Comune aveva insinuato tempo fa “stiamo lavorando per rendere definitivo l'Expo Gate”, beh: si riposi un po', ha già lavorato a sufficienza, e fatto abbastanza danni così (f.b.)
p.s. vista l'esplosione dello scandalo tangenti più o meno in contemporanea all'inaugurazione della struttura, la scelta del nome "ExpoGate" si rivela nefasta
La nuova urbanistica (che ha un cuore antico): «Ciò che conta non sono più i contenuti delle scelte insediative e pianificatorie, ma la loro funzionalità a muovere il business immobiliare da spartirsi». Inviato a eddyburg il 10 maggio 2014
“Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto…». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop.”
Gli arresti per tangenti Expo illuminano di luce sinistra anche il grande progetto “itinerante” per anni nell'area metropolitana. Corriere della Sera Milano, 9 maggio 2014, postilla (f.b.)
Di nuovo sanità e affari sporchi. Stavolta il tentativo è stato quello di spartirsi illecitamente appalti per quasi 350 milioni di euro. Sono quelli del più importante progetto di edilizia sanitaria d’Italia, la Città della Salute, da ieri al centro dell’ennesima bufera giudiziaria. Con un’infilata di sette arresti, per un totale di 19 indagati. È una nuova Tangentopoli all’ombra di Expo? Di sicuro, per quanto riguarda la sanità, adesso più che mai viene messo a nudo il sistema di assegnazione degli appalti in Lombardia. Un sistema dove gli interessi bipartisan si saldano per dividersi le torte milionarie dell’edilizia sanitaria e della fornitura dei servizi ospedalieri no core (appalti per le pulizie, la ristorazione, la lavanderia).
Emblematica a tal proposito è l’iscrizione, ieri, nel registro degli indagati del super manager delle cooperative Claudio Levorato, 54 anni, alla testa di Manutencoop, colosso del facility management. Proprio Manutencoop, insieme con l’impresa di costruzione Maltauro, avrebbe dovuto vedersi assicurata la vittoria dell’appalto per la progettazione definitiva ed esecutiva della Città della Salute, con la relativa gestione dei servizi ospedalieri non sanitari. È a questo che dovevano portare gli accordi sottobanco tra l’ex politico dc Gianstefano Frigerio & C. e Antonio Rognoni, alla guida di Infrastrutture lombarde (la holding che gestisce gli appalti pubblici per conto del Pirellone), già arrestato a marzo in un altro filone d’indagine. Negli atti della Procura, ora, viene fatto chiaramente riferimento alla ripartizione politica che sta dietro la costituzione della cordata (ati) creata per partecipare alla gara d’appalto.
In questo caso ci sono aspetti penali: ma il meccanismo di accordi bipartisan per l’aggiudicazione degli appalti sanitari svelato dall’indagine giudiziaria in corso, in Lombardia è una costante, anche se non ci sono prove di illeciti. Due gli esempi su tutti. Già nel 2009 il ministero dell’Economia aveva messo sotto accusa gli affari che ruotavano intorno al Niguarda, un’operazione da oltre un miliardo di euro che ha visto per protagoniste la Nec Spa (vicino a Cl) e la Progeni Spa (legata alle cooperative rosse). E, in una ricostruzione realizzata dal Corriere nell’estate 2012 sulla lobby degli appalti in sanità, veniva documentato come le società degli uomini vicini all’allora governatore Roberto Formigoni (Mario Saporiti e Fabrizio Rota) saldassero i loro interessi con quelli delle coop.
Con l’arresto di Antonio Rognoni lo scorso marzo anche la gara per la Città della Salute si è bloccata. E adesso la nuova indagine allunga pesanti ombre sull’intero progetto, che prevede il trasloco nell’ex area Falck di Sesto dell’Istituto dei tumori e del neurologico Besta. Si andrà avanti lo stesso, anche a costo di rifare da zero la gara d’appalto? Il progetto già da tempo è al centro di un altro interrogativo: l’opera edilizia è necessaria a migliorare le cure dei malati o l’unione dei due ospedali è un business immobiliare? Gli interessi in gioco sono notevoli: la Città della Salute è prevista su un’area di 210 mila metri quadrati all’interno de gli 1,5 milioni di metri quadrati delle acciaierie ex Falck, acquistate dalla SestoImmobiliare dell’imprenditore Davide Bizzi. La presenza dell’Istituto dei tumori e del Besta servono come volano per lo sviluppo dell’intera area. Nel frattempo l’altro affare, quello delle bonifiche (vale 50 milioni), è in mano all’azienda Ambienthesis riconducibile alla famiglia Grossi. Lui, il patron Giuseppe Grossi, scomparso nel 2011, era finito in carcere per le bonifiche di Santa Giulia.
postilla
In questo sito, molto probabilmente, basta scrivere la parola “salute” nella finestrella del motore di ricerca interno, per ripercorrere alla luce degli ultimi eventi almeno parecchi indizi di una vicenda che non aveva, non poteva avere, sviluppi lineari davvero comprensibili, se non appunto nella logica distorta che pare emergere dalle indagini. Ogni occhiello, ogni postilla, e tanti, troppi contraddittori passaggi di quegli articoli, raccontano criteri surreali, di pura facciata, a volte oltre la spudoratezza, per le scelte localizzative di questa fantomatica Città della Salute, quando non addirittura per la logica della sua esistenza. Milioni di metri cubi che schizzavano inopinatamente qui e là per l'area metropolitana, su e giù per le Tangenziali, ma oggi si scopre che seguivano forse invece i percorsi delle Tangenti. Un progetto di riorganizzazione sanitaria e della ricerca che, secondo il parere anche di molti operatori di prestigio, non avrebbe neppure avuto necessità di interventi edilizi e urbanistici, almeno su quella scala e rilevanza, ma che al contrario vedeva in primissimo piano, quasi esclusivo, proprio le trasformazioni urbane e la loro localizzazione. Una storia decisamente surreale, dove la Salute svolgeva un ruolo di puro paravento, per interessi e appetiti di ben altra natura. Non a caso più o meno identica a quella parallela di Expo, dove al posto della Salute c'è l'Alimentazione, ma oggetto del contendere sono metri quadri, appalti, tracciati … Già (f.b.)
p.s. Rinnovando l'invito a scrivere "Città della Salute" nel motore interno di ricerca Eddyburg, propongo ad esempio questo articolo dedicato agli interessi sottesi, ripreso dal Fatto Quotidiano di un anno e mezzo fa circa
Una manifestazione e un dossier sulle inarrestabili fortune di un complesso post-industriale nato e cresciuto vigorosamente all'ombra della "Larghe intese" e della greeneconomy. Il manifesto online, 5 maggio 2014
Smeraldo, il teatro chiuso da un parcheggio
Proprio quello inaugurato il 18 marzo scorso, per il momento conosciuto per le polemiche sollevate dalla ristrutturazione. Eataly si è affidata all’impresa “Costruzioni europee” di Perugia che ha subappaltato una parte dei lavori di ristrutturazione dello Smeraldo a una ditta romena, la Cobetra: 25 operai, di cui uno specializzato in restauri e un solo capomastro. Secondo la Filca Cisl, gli operai romeni avrebbero percepii stipendi da fame: 500–800 euro per 40 ore settimanali. Eataly ha sostenuto di essere all’oscuro di questo subappalto. Sul suo Libro Unico del lavoro lo stipendio mensile dei muratori era di 2100 euro mensili, contributi inclusi. L’importazione del personale a basso costo dalla romania sarebbe avvenuto a sua insaputa.
Lo Smeraldo era un teatro che a Milano ha ospitato Cats, il Fantasma dell’opera, Evita, David Bowie, Astor Piazzolla e Springsteen. Oscar Farinetti, proprietario di Eataly lo ha rilevato da Gianmario Longoni che ha cercato di salvare il teatro dal fallimento. Longoni ha ricevuto lo Smeraldo da un lascito di famiglia, una di quelle antiche e nobili della Brianza. L’ex gestore del Ciak di Milano lo rilevò che era un cinema porno, portandolo ad essere un luogo per una programmazione più consona.
Una vicenda tormentata, quella che ha portato il teatro a chiudere, e poi ad essere acquistato da Farinetti. Aperto il 28 luglio del 2006, e terminato nel luglio 2012, il cantiere per i box di piazza XXV Aprile ha dimezzato la clientela e gli spettacoli del teatro. Stefano Boeri lanciò dallo Smeraldo la sua candidatura, Giuliano Pisapia fece il punto sulla sua giunta proprio qui. Longoni ha detto di essere stato lasciato solo dall’amministrazione di centro-sinistra. Ha detto anche di essere stato schiacciato dalla concorrenza sleale degli altri teatri che tra l’altro percepivano aiuti pubblici, mentre lui ha cercato di fare da solo,da imprenditore indipendente.
Una brutta storia, e triste, che parla della commistione tra cultura e spettacolo, unico strumento per far sopravvivere un teatro dove i fondi pubblici sono sempre più esigui e sempre più nelle mani di pochi.
Apologia del tempio del gusto
Da quando la cultura-spettacolo-Tv, quella per intendersi degli spettacoli di Brignano o Panariello a teatro, è stata integrata e ricodificata nel nuovo del made in Italy — Eataly — i teatri sono diventati i possibili contenitori di una forma di marketing aggressivo e vincente. Come lo Smeraldo a Milano oggi, o il Teatro Valle a Roma. Tre anni fa, prima della sua occupazione, voci insistenti parlavano di una sua trasformazione in un “tempio del gusto” Eataly, con direzione artistica a cura di Alessandro Baricco.
Sulle ceneri dello Smeraldo, la cultura della tradizione gastronomica italiana diventa l’alto cibo — hanno spiegato i promotori della protesta milanese — nel centro di uno dei quartieri più gentrificati di Milano si proclama al consumo (di classe!), come se la cultura non avesse spazio nel progetto di una città da Expo. E che consumo: la tradizione della terra diventa prodotto di élite, stando attenti che il fascino del locale, del tradizionale, del prodotto buono, sano e giusto, rimanga intatta.
Decine di persone hanno ululato contro la “grande abbaiata” del consenso verso il “fascino del locale”, una forma pervasiva del consenso politico che lavora sull’immaginario di un paese in crisi, che agogna un posticino nella “competizione” sui mercati globali, ma non sa cosa vendere.
Farinetti, che è un imprenditore politico postfordista, lavora sul branding, e ha avuto un’idea: bisogna vendere l’immagine del paese-che-ama-il-buon-cibo, un paese ottimista perché la fatica, i sacrifici, la crisi non aiutano a vendere. E così ha interpretato il desiderio di riscatto delle classi dominanti (quelle che pensano che “la cultura è il petrolio d’Italia” o che l’Italia è un meraviglioso paese dove tutti devono studiare da cuochi o camerieri e lavorare in un ristorante.
Fenomenologia Eataliana
Acquistando teatri, ex centri della logistica (come il Centro Agro Alimentare Bolognese — CAAB — una sorta di mercati generali nella zona nord di Bologna dove sorgerà “Eataly WORLD”, forse per sottolineare le ambizioni degli investitori ceduto dal comune senza contropartite per costruire il F.I.C.O.), grandi palazzi o ex stazioni abbandonate come a Roma, Farinetti interpreta la propria impresa al centro di un progetto di civilizzazione urbanistica. Riqualifica i vecchi immobili, ne trasforma la storia, la incorpora nella propria impresa politica e intende nobilitare la città dove lui porta lavoro e il suo ipermercato di cose buone e costose.
Un complesso industriale trasversale
Il flash mob #lagrandeabbaiata è stata una nuova azione di protesta contro l’Expo 2015 ad un anno esatto dalla sua inaugurazione. Fa parte di un festival d’arte performativo “Folle agire urbano” organizzato dal primo maggio (giorno della Mayday) al 5 maggio, ricorrenza dell’occupazione della Torre Galfa a Milano nel 2012 (vedi qui e qui).
In un dossier su Slow Food, COOP Italia ed Eataly, Nessuna faccia buona, pulita e giusta a EXPO 2015, i movimenti hanno ricostruito anche la storia di Eataly.
Fondata nel 2004, l’azienda verrà quotata in borsa entro il 2017. Dal 2007 al 2014 le aperture di ipermercati sono arrivate a 25, una metà in Italia, l’altra metà nel mondo. Solo a New York produce un fatturato annuo con entrate per circa 80 milioni di euro. Nei prossimi due anni è prevista un’altra quindicina di nuove aperture.
La famiglia Farinetti possiede l’80% di Eatinvest srl, la finanziaria del gruppo, che a sua volta controlla Eataly srl, che ha un fatturato annuo di 400 milioni di euro. Eataly srl a sua volta questa controlla la società Eataly Distribuzione srl alla quale partecipano COOP, COOP Adriatica, COOP Liguria, NOVA COOP, per un totale del 40%. Tutti gli store della catena Eataly sono formalmente nelle mani di questa terza struttura societaria alla quale COOP dà appoggio sul know-how e sull’area della formazione e del personale. Eataly srl siede negli organigrammi di diverse società produttrici –spesso già presidi Slow Food– la cui merce è venduta nei negozi Eataly come le bibite Lurisia o la pasta Alferta, vini e carni.
Eataly ha riadattato il modello Autogrill alle città e con criteri qualitativi più alti. Autogrill mantiene in un angolo dei suoi store i prodotti tipici. Farinetti ha invece creato spazi enormi fatto di prodotti tipici. Se sulle autostrade il “tipico”, il prodotto Dop, è un’eccezione in una ristorazione fatta di panini e pizze universali, a Eataly l’eccezione è la norma. E anche il panino e la pizza hanno il loro posto d’onore nella triade ideologica che vede nel cibo italiano, e nelle sue molteplici versioni dialettali, le idee platoniche del Buono, del Pulito e del Giusto. Questa è la trinità che sta alla base della democrazia del Gusto pagata a prezzi non certo popolari.
Una trinità che unisce, nell’impresa farinettiana, Coop, Eataly e Slow-food. Nel dicembre 2013, questa entità una e trina ha firmato con l’amministratore unico di Expo 2015 Giuseppe Sala un accordo per rappresentare il tema della manifestazione milanese: “Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita”. Un blocco di imprese specializzato in “food-branding”, creazione commercializzazione e distribuzione del cibo.
Un complesso imprenditoriale trasversale e bi-partisan, dalle banche all’edilizia all’editoria e all’università (l’ateneo di scienze della gastronomia di Pollenzo vicino a Bra in Piemonte), e con un’aura di autorevolezza in materia alimentare si candida credibilmente a rappresentare il vero contenuto di un Expo sgangherato e multimiliardario dove, si asfaltano campi di mezza Lombardia per costruire strade che conducano al sito di EXPO o si costruisce la Via d’acqua che stravolge i parchi della cerchia nord-ovest di Milano (Trenno, Baggio, Cave, Bosco in città e aree verdi limitrofe). Senza considerare le prime indagini della procura di Milano che nel marzo 2014 ha arrestato Antonio Giulio Rognoni, direttore generale di “Infrastrutture Lombarde”, già candidato al posto di subcommissario di Expo 2015 per una storia di appalti truccati, insieme ad altre 8 persone. Il giro di appalti a Milano per l’Expo è di 11 miliardi di euro.
Nel marzo 2014 Eatinvest srl ha venduto alla società Tamburi Investment Partners (Tip) il 20% delle quote di Eataly per circa 120 milioni di euro, dove un altro 20% era già posseduto da uno dei soci della di Farinetti, Luca Baffigo Filangeri. Alla Tip partecipano alcune delle più influenti famiglie dell’alimentare italiano: Lavazza, Lunelli del vino Ferrari, Ferrero.
“Sono specializzati nelle operazioni di borsa e ci accompagneranno alla quotazione di Eataly nel 2016–2017 — ha detto Farinetti — E poi perché è una società italiana: abbiamo ricevuto molte proposte da stranieri, che ci offrivano anche di più, ma abbiamo scelto Tip perché Eataly deve restare al 100% italiana. Investiremo nell’Expo 2015 e nel nuovo progetto Fico.
L’evoluzione di Eataly viene spiegata nel dossier nella cornice del capitalismo basato sulle grandi opere e sui grandi eventi. Grandi opere come il TAV, il MOSE, e grandi eventi come Esposizioni, Olimpiadi, Mondiali di sport, Fiere sono il frutto della ricerca di visibilità, consenso, rendita fondiaria e profitto da parte di soggetti politici e di gruppi di potere legati alle costruzioni, alle infrastrutture, alle cooperative, al mondo delle società anche multinazionali– che oggi vivono di bandi, consulenze, appalti e fondi pubblici.
Eataly a Sharm-el-Sheik
The Eatalyan Job
All’inizio di agosto 2013, poco dopo il varo della sede barese di Eataly alla Fiera del Levante, la prima in quel Sud che dovrebbe essere come Sharm-el-Skeikh, Cgil-Csil e Uil avevano denunciato Farinetti per 160 “assunzioni fuorilegge”, arrivate a 180 durante la Fiera a settembre. Troppi interinali e pochi a tempo indeterminato. Era stata violata la legge Biagi che permette di assumere l’8% di interinali con un minimo di 3 e non 160. Poi c’erano 10 contratti a tempo determinato e 3 indeterminati.
La regolarizzazione poi è avvenuta, i sindacati si sono placati, Farinetti ha ottenuto che la sua mostra temporanea diventasse permanente.i, anche perché il can can è stato intenso e tutti hanno fatto capire a Farinetti (“quello del Nord”) che la sua attitudine da colonizzatore-che-porta-il-lavoro-a-Sud doveva confrontarsi con la richiesta di un lavoro regolare. Attenzione alle proporzioni: 63 a tempo indeterminato, 66 apprendisti, 34 a tempo determinato, 1 somministrato): 100 su 163 sono lavoratori a termine. Ma il termine quanto dura?Le assunzioni sono state fatte secondo le regole del decreto “Letta-Giovannini” per gli under 29, a due condizioni: i “giovani” dovevano essere disoccupati o avere una famiglia a carico. Quando entrerà in vigore, il “Decreto Poletti” stabilisce che questi 100 potranno essere rinnovati a termine fino al 2017. Nel mezzo potranno esserci più rinnovi e più proroghe. Poi potrebbero essere assunti.
Sempre che Eataly Bari non chiuda prima. Le proiezioni a 12 mesi parlano di 10 milioni sui 20 programmati. A luglio si faranno i conti. Tra mille distinguo in città si è iniziato a dire che sarà difficile mantenere l’occupazione. Nessuno di questi lavoratori è iscritto ai sindacati confederali, nonostante abbiano vinto una vertenza in due mesi. Non è il primo caso di lavoratori a termine, non sindacalizzati, nelle grandi colonie industriali create nel sud-senza-lavoro. Può darsi che il clima aziendale abbia influito. Farinetti tiene molto a dire che la sua azienda è “una grande famiglia”. E una famiglia si gestisce da sola i conflitti e soprattutto le compatibilità con i suoi “figli”, i lavoratori. Del resto, “i sindacati sono medioevali” ha detto il patron.
Basta con lacci e lacciuoli per chi crea lavoro. Piuttosto creare “zone speciali”, come in Cina, a sud come nelle metropoli del Nord, dove il diritto del lavoro viene ridotto alla misura dei contratti a termine senza causale. L’obiettivo è coltivare un individuo come consumatore, utente, visitatore. O come turista, come suggerito in questi anni dagli stessi vertici di Expo 2015 e dai politici italiani.
L'intuizione che sta dietro al nuovo modello di mobilità integrata forse rischia di diluirsi in un eccesso di tradizionalismo, se non ci si adatta davvero al tipo di domanda espressa dalla città. La Repubblica Milano, 30 aprile 2014, postilla (f.b.)
La missione più ardua sarà mettere mano a Piazzale Maciachini: “Un vecchio chiosco, due mignotte e sei tombini”, secondo l’efficace sintesi dello chansonnier Folco Orselli. Ma il programma prevede anche il rifacimento di piazzale Loreto, mentre sono in corso i lavori per piazza XXIV Maggio e per la pedonalizzazione “light” di piazza Castello. Vecchie piazze che rinascono e nuove che si affermano, come piazza Gae Aulenti, divenuta nel giro di due anni la “terrazza” chic nel cuore del nuovo skyline urbano. Insomma, un po’ a sorpresa si scopre che il “segno” più forte che l’amministrazione Pisapia sta lasciando è la riscoperta di Milano come una città di piazze, con il conseguente ridimensionamento della città degli incroci, dominatrice dell’orizzonte urbano dal dopoguerra.
È una piccola, ma significativa, rivoluzione figlia di un cambio di paradigma iniziato con l’introduzione di Area C. Se si può mettere mano a luoghi disumanizzati ed emblematici della dittatura del traffico come Loreto e Maciachini, lo si deve al fatto che fra i milanesi si è fatta largo l’idea che il futuro della città si gioca sulla diminuzione del traffico privato. E che la rottura della dipendenza dall’auto come mezzo di trasporto urbano è la premessa indispensabile per una nuova, e riscoperta, vivibilità. Sarebbe bello che la riscossa delle piazze avvenisse con il massimo coinvolgimento dei cittadini e, cassa permettendo, evitando soluzioni provvisorie o posticce.
Su Maciachini e Loreto, per esempio, forse varrebbe la pena indire un concorso di idee a tambur battente. È evidente, infatti, che in questi due casi non ci si può limitare a una semplice riorganizzazione viabilistica o di qualche aiuola. Serve, invece, una rilettura dello spazio che riesca a tenere insieme vivibilità, nuovi servizi e funzionalità (compresa quella di scorrimento del traffico). Farsi prendere dalla fretta — magari imbastendo lavori da chiudere in tempo per l’Expo — può comportare errori, complicazioni nella gestione del cambiamento e conflitti con i residenti. Su Loreto, ad esempio, è stato sperimentato negli scorsi anni un modello alternativo di rotatoria. Può rappresentare la base del nuovo assetto della piazza, ma a condizione di calibrare bene la dimensione di carreggiate e intersezioni semaforiche, per non generare ingorghi. Per lo stesso motivo sarebbe utile poter seguire, passo passo, lo studio del nuovo piazzale Maciachini, inevitabile ed enorme snodo della circolazione nel quadrante Nord, strappando spazi alle auto ma senza immaginare un’impossibile pedonalizzazione globale.
La riconquista delle piazze come luoghi dell’incrocio e dello scambio fra le persone può essere una straordinaria leva della partecipazione civica offerta dalla giunta Pisapia, che su questo punto ha suscitato più di una critica. A patto, però, che si agisca con una regolazione fine. Che non si sottovalutino obiezioni e, anche, contestazioni, come purtroppo sembra stia avvenendo per la pedonalizzazione di piazza Castello. Che, per quel che si è capito, rimarrà uno stradone di dimensioni autostradali, con qualche chiringuito e alcune sdraio.
postilla
Ha perfettamente ragione l'opinionista, a chiedere che l'idea della nuova rete di piazze non venga rovesciata in testa ai cittadini dal chiuso di strutture tecniche e decisioni calate dall'alto, ma dal tono delle discussioni pare emergere anche un altro rischio, ora solo vagamente accennato: un inutile e anacronistico passo indietro, invece di quello avanti che sarebbe necessario, anzi indispensabile per la città in movimento. Naturalmente si capirà meglio poi dai progetti spaziali di riordino, di queste piazze, e dal loro costituire una rete oppure no, ma la domanda di luoghi sostanzialmente assimilabili alla classica piazza italiana pare davvero priva di senso, in una città che in epoca moderna non ne ha mai avute, e non ne avverte alcun bisogno: ambienti per la sosta, il movimento, la pausa; nodi di socialità e relazione, oltre che di flusso e scambio, ma nulla a che vedere col genere di salotti urbani che forse qualcuno sogna. Spazi chiusi e identitari di cui Milano non saprebbe che fare. Qualche osservazione in più su Millennio Urbano (f.b.)
Pare incredibile: fra un anno esatto inizia l'evento Expo, e naturalmente anche il dopo-Expo, ma per quei milioni di “strategici” metri quadrati del sito non si è ancora deciso (pubblicamente) nulla. Corriere della Sera Milano, 29 aprile 2014 con postilla.
Un anno all’Expo significa che tra un anno e un giorno comincerà il dopo Expo. Il milione di metri quadri, dove il primo maggio del prossimo anno aprirà i battenti l’esposizione dedicata al tema «Nutrire il Pianeta Energia per la Vita», potrebbero diventare o un luogo di sviluppo dell’area metropolitana o una landa desolata. A oggi però la sola certezza che si ha sul futuro di quei terreni su cui sono stati investiti molti quattrini pubblici per ripulire, bonificare e infrastrutturare, è che per metà saranno vincolati a verde. E il resto? La società Arexpo, nata appositamente tra Regione, Comune e Fondazione Fiera dopo un travagliato iter per la cessione delle aree (già di proprietà in parte di Fiera in parte della famiglia Cabassi) aveva lanciato un concorso di idee: diversi soggetti avevano partecipato, le proposte migliori erano state selezionate e presentate al pubblico.
Ma stiamo parlando di filosofia. Nessun business plan , nessun investitore interessato formalmente, nessun progetto vidimato dagli uffici dell’urbanistica comunale. Ad avere un po’ più di consistenza pare soltanto l’ipotesi di uno stadio, che il Milan vorrebbe costruire sull’area: ipotesi per altro che piace molto al Governatore Roberto Maroni e su cui invece frena la giunta Pisapia. Lo stadio potrebbe essere una parte di pezzo di un progetto più complessivo: magari all’interno di una Cittadella dello sport che a Milano ancora manca. Certo, il tema dell’alimentazione qui non c’entra nulla. E viene da chiedersi quale sarà dunque l’eredità culturale di un’Expo che ha l’ambizione di presentarsi per quello che non sarà: «Non una Fiera». Se l’idea è davvero di arrivare a definire un protocollo alimentare, sul modello di quello firmato a Kyoto sui temi ambientali, impegnando tutti gli Stati a darsi delle regole in materia di lotta allo spreco, di sostegno alle popolazioni denutrite e di promozione di stili di vita sani, forse almeno un segno tangibile di questo lavoro dovrebbe restare anche dove saranno smontati i padiglioni.
Mentre l’idea dell’orto botanico è del tutto tramontata, o forse non è mai esistita davvero, mentre Bologna sta invece già lavorando al progetto, avveniristico e unico nel suo genere, di un parco agroalimentare che valorizzi le eccellenze del territorio, Milano brancola nel buio. Conosciamo bene i tempi necessari per concedere licenze, superare gli iter burocratici e della politica, avviare un’operazione così articolata: per questo viene da pensare che siamo già in ritardo. A quelli che insistono sul fatto che «intanto cominciamo a fare bene l’esposizione» bisogna rispondere ricordando che il successo di un sistema Paese, quello che questo evento mette alla prova, si misurerà (anche) dal dopo Expo. Serve un’idea illuminata e moderna e serve in fretta. Per questo le istituzioni devono muoversi. Perché manca solo un anno, al dopo Expo.
Postilla
Non esiste, è vero, una decisione nè una strategia "pubblica" per le aree dell'Expo. Ma è facile comprendere le strategie e intravedere i piani dei decisori effettivi - se si conosce il percorso che è intercorso tra la trasformazione dell'area dell'ex Fiera e il progetto dell'attuale Expo, e se soprattutto si conosce il gioco degli interessi che da sempre si muovono dietro le "valorizzazioni" delle aree milanesi. Sui vantaggi e svantaggi - economici, sociali, urbanistici - dell'Expo e sui modi di realizzarla la discussione non ha più molto senso: i giochi sono già fatti e l'amministrazione anche se volesse fare un passo indietro, sarebbe troppo debole per cimentarsi in quest'impresa. Se ne può trarre qualche insegnamento, e proveremo a farlo. Ma la battaglia per il futuro dell'area è ancora aperta. Servirà per contribuire a costruire una "città dei cittadini" o a rendere più vasta, solida e ricca (per i ricchi) la "città della rendita"? Dipenderà in primo luogo dai milanesi. (e.s.)