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Un bilancio preventivo del Grande Evento Expo che, senza strafare, molto probabilmente e saldamente ancorato a un approccio empirico, ci azzecca. La Repubblica Milano, 11 febbraio 2105

C’è stato il messaggio del Papa, quello di Lula, si elaborerà la Carta di Milano per il cibo sostenibile e per tutti, nutrire il pianeta: Viva Expo. Si sono cementificati ettari ed ettari agricoli per costruire nuove autostrade inutili. E per fare un enorme villaggio espositivo su terreni privati non urbanizzati mentre si poteva fare su terreni pubblici già urbanizzati: Abbasso Expo. Mai si è parlato e si parlerà così tanto di spreco di cibo e di come produrlo e distribuirlo in modo sostenibile: Viva Expo. Nulla è ancora cambiato nei cicli del cibo, neanche nell’area milanese nei mesi precedenti l’Esposizione: il tema dell’Expo è solo un pretesto. Non è vero, abbi fede, intanto Milano Ristorazione ha distribuito sacchetti salva-cibo nelle scuole milanesi, così i bambini portano a casa pane e frutta.

Expo è un traino. Sì, ma le multinazionali che lo sponsorizzano sono quelle degli Ogm o della privatizzazione dell’acqua e dei semi. Era ed è molto meglio Terra Madre. E qua i contadini dove sono (chiede Petrini)? Abbasso l’Expo, fiera alimentare, scatola vuota. E delle aree comprate a caro prezzo che ne faremo? Finiranno abbandonate con padiglioni cadenti come a Siviglia. No, ci potrebbe andare l’Università, un meraviglioso campus, ci faranno anche gli orti. E così via, potremmo continuare col botta e risposta.

Le ragioni dei No Expo, se sommiamo quelle critiche a priori nei confronti di questo tipo di grandi eventi internazionali con le ragioni contrarie alla impostazione impressa soprattutto dal Formigonismo al concreto svolgersi di Expo 2015, sembrano robuste. Se poi consideriamo i cosiddetti scandali, tangenti e turbative d’asta, e l’assurda opera fine a se stessa del canale Vie d’acqua potremmo addirittura vedere l’impopolarità circondare Expo. Eppure, eppure... Il richiamo commerciale turistico su cui ha sempre fatto conto il progetto Expo sta crescendo grazie alla pubblicità e alla copertura mediatica. E forse anche a qualcosa di più, al bisogno che ogni tanto emerge di avere qualcosa di unificante e facile a cui aggrapparsi per risollevarsi dalla crisi. Vorrei fare una previsione, poi se sbaglio pazienza.

È probabile che crescerà un misto di curiosità misto a tifo, per cui nonostante alcuni ritardi nei lavori, Expo andrà «bene». Un clima di festa nazionale accompagnerà l’inaugurazione, mettendo un po’ in un angolo le contestazioni. La dialettica critica sull’incoerenza di Expo con la sua dichiarata missione continuerà ma contribuendo, volente o nolente, ad aumentare l’attenzione, quindi anche un po’ il successo di Expo. Ogni tanto qualcosa andrà in tilt, ma anche questo sarà segno di tante presenze. Chi scommettesse la sua «ragione sociale» su una bandiera No Expo rischia di avere poche soddisfazioni. Perlomeno quest’anno. Poi non si sa. Sull’eredità materiale (i padiglioni e le aree) e etico-culturale — nuove politiche del cibo — invece è più difficile fare previsioni. Una cosa è certa: chi vuole nuove frontiere di sostenibilità nel cibo, o attraverso il cibo, farà meglio a concentrarsi sul pezzo, più che dividersi tra expottimisti, exposcettici e No Expo.

Inizia a ricomporsi in uno schema più articolato la discussione attorno alla proposta di nuovo stadio per l'area di riqualificazione del Portello, con certo altrettanto discutibili progetti. Corriere della Sera Milano, 10 febbraio 2015 (f.b.)

Il Magnete, pieno di tecnologia e musica. Il Village, grande «oratorio laico» dove incontrarsi e praticare sport d’ogni sorta. Oppure il chilometro verde della «Milano alta», con l’annessa offerta di benessere e ristoranti. Altro che stadio. Ci sono buone probabilità che nel futuro del Portello ci sia una di queste proposte. Perché sebbene il progetto presentato dal Milan e Arup abbia innescato suggestioni urbanistiche, sogni di grandeur rossonera e apprensioni dei residenti, chi ha più dimestichezza con planimetrie, cantieri, business plan , regolamenti comunali e compatibilità ambientali è pronto a scommettere che, alla fine, il bando per la riqualificazione degli ex padiglioni 1 e 2 della Fiera se lo aggiudicherà uno degli «altri» tre progetti. Perché uno stadio è comunque una presenza ingombrante, in una zona dove già gli abitanti delle nuove case devono fare i conti, per esempio, con l’assenza quasi totale di negozi, e anche perché l’operazione pensata dal Milan comporterebbe l’abbattimento totale delle strutture esistenti, con costi e disagi notevoli. In quegli spazi, quindi, è più facile che trovi casa uno degli altri progetti in gara, diversi tra loro, ma che hanno in comune hotel, ristoranti e spazi per la salute o il benessere. Il verdetto del Comitato esecutivo di Fondazione Fiera è atteso per la fine di marzo.

La proposta presentata dal Gruppo Prelios si chiama Magnete, ed è (faticosamente) riassumibile nell’immagine di un parco tecnologico e musicale, con una sorta di museo digitale, negozi con articoli ad alta tecnologia (dalla robotica ai droni): «L’idea è quella di creare in quello spazio un luogo per fare attività — spiega Luca Turco, che si occupa dei nuovi progetti di Prelios —. Non sarà un’offerta non profit ma neanche una specie di Mirabilandia della tecnologia». Cioè, per intendersi, si paga ma non per una semplice passeggiata tra effetti speciali. Il

progetto prevede anche un hotel da 250 camere (pensato in sinergia con il vicino centro congressi Mico), una struttura medica per prestazioni ambulatoriali e in day hospital, un negozio di alto livello dedicato alla bicicletta che vorrebbe proporsi come «polo della cultura delle due ruote» e, anche, una serie di spazi per la musica, con il coinvolgimento delle scuole musicali di tutta Milano». Il tutto alimentato e illuminato dal sole.

C’è un albergo (140 camere low cost) anche nel progetto del consorzio creato appositamente da Cile, Arcotecnica e Pkf. Secondo la dittatura anglofona, si chiamerebbe Community hub, «ma a me piace pensare a una specie di grande oratorio laico — dice Paolo Viola di Arcotecnica —, cioè a uno snodo di incontro di interessi diversi, soprattutto dei giovani tra 15 e 30 anni, in un’area ben collegata alla città ma anche ben accessibile per chi arriva da fuori». Un biglietto d’ingresso consente di accedere a una vasta area riservata allo sport indoor: free climbing, skateboard, vasche con onde artificiali per il surf e altri sport d’acqua, simulatore di Formula Uno curato direttamente alla Ferrari. Lungo le balconate, negozi dedicati alle stesse attività sportive, bar e ristoranti. Al piano superiore, invece, un’area dedicata «per il benessere del corpo e dello spirito», con area termale, Spa, fitness center, un centro di medicina sportiva, spazi per lo studio, il gioco, la musica e corsi.

Il tratto che caratterizza il progetto depositato da Vitali Spa è una linea verde che scorre longitudinalmente accanto alla struttura del Portello. Per ora si chiama Green street, ma è destinata a essere ribattezzata «Milano alta», e rappresenta un chilometro di percorso ciclopedonale sopraelevato

(a 7 metri di altezza) lungo viale Scarampo, che scavalcando viale Teodorico e via Colleoni collega l’area di CityLife e del MiCo con il Portello, cioè piazza Gino Valle. All’interno, anche in questo caso, il progetto prevede un albergo (da 350 camere), ristorazione, attività per il tempo libero e uno spazio per l’insediamento di start up ad alto contenuto di innovazione. «Per realizzare tutto questo ci sono pronti 100 milioni di euro — spiega l’amministratore delegato Cristian Vitali — noi e il nostro partner Stam, cioè un grande investitore internazionale, ci crediamo molto. Il business plan è dettagliato e considerando che manteniamo quasi intatte le strutture architettoniche esistenti, contiamo di riuscire a realizzare tutto in meno di due anni».

Non sono solo i residenti a non volere lo stravolgimento del piano urbanistico: anche la decenza e la legalità Possibile chr gli interessi dell'immobiliarista Ente Fiera prevalgano su tutti gli altri?. La Repubblica, ed. Milano, 5 febbraio 2018

La direttrice di nord-ovest dell'area milanese, alla cui estrema propaggine è sita l'area dove oggi è in corso l'edificazione delle attrezzature espositive di expo 2015, ha rappresentato lungamente un tema strategico irrisolto dell'assetto urbano e metropolitano milanese che ha provocato inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico sia da quello di un corretto assetto insediativo e di immagine progettuale e, quindi, è stato nel tempo al centro di molte riflessioni e proposte da parte della miglior intelligenza urbanistica milanese (Corso Sempione nell’800, progetti di Nuova Fiera e Milano Verde negli anni ’30 e progetti di riassetto dell'area della vecchia Fiera negli anni ’40-50 del Novecento), che ha costantemente indicato l'opportunità di un decentramento delle funzioni direzionali troppo fittamente addensate nel reticolo storico originario. Riflessioni e proposte per lo più rimaste allo stato di progetti inattuati, data la persistente indisponibilità di Fiera di Milano ad essere ricollocata altrove, sino a metà degli anni '90, quando la permanenza di Fiera di Milano sull'area dell'ex Piazza d'Armi, dove si era insediata nel 1922, venne infine giudicata non ulteriormente tollerabile sia per i disagi viabilistici sempre più gravi tanto per i visitatori quanto per gli abitanti del quartiere circostante sia per la necessità di rinnovo e ampliamento delle proprie strutture edilizie e si maturò la decisione di realizzare un nuovo polo extraurbano verso nord-ovest al confine tra i Comuni di Rho, Pero e Milano, lasciando come pesante eredità il lungo edificio di viale Scarampo e l'abnorme edificazione in densità ed altezza di Citylife.

Le spinte delle aspettative immobiliaristiche delle proprietà fondiarie (soprattutto Fondazione Fiera, che dopo aver realizzato un enorme surplus immobiliare con Citylife e averlo reinvestito nelle aree di Arexpo, preme oggi per un altrettanto lucroso guadagno con la trasformazione a stadio calcistico privato della parte più a nord dell'edifico di viale Scarampo e con la vendita ai privati delle aree del dopo Expo 2015) devono invece essere governate ed indirizzate da uno schema insediativo che preveda la destinazione ad usi non edificatori (verde, tempo libero, ) delle aree poste lungo la direttrice tra il vecchio recinto in dismissione e le nuove polarità metropolitano-regionali, concentrando là le funzioni di ricerca, direzionalità innovativa e spettacoli sportivi e musicali di massa, che usufruirebbero degli adeguamenti infrastrutturali posti in atto per i nuovi insediamenti esterni di Fiera e di Expo 2015.

La Presidente del Milan, Barbara Berlusconi, recentemente ha manifestato il proposito di realizzare un nuovo stadio privato con capienza per 40.000 persone, proprio accanto alla sede sociale della squadra, nel bel mezzo del quartiere ex Fiera, già tormentato dalla realizzazione del progetto Citylife, con un milione di metri cubi accatastati nelle tre mega torri (da 180 230 metri di altezza) di Isozaki, Hadid e Libeskind.
Il sindaco Pisapia e la vice-sindaco e assessore all'urbanistica De Cesaris sembrano interessati a valutare la proposta, che vede coinvolti Fondazione Fiera, che metterebbe così a frutto l'area, demolendo parte dello "Steccone" di Mario Bellini improvvidamente realizzato a fine anni '80 e in disuso, Emirates Airlines che metterebbe i soldi come sponsorizzazione, e il Milan che metterebbe in scena le attrazioni calcistiche.

Federico Oliva, ex presidente dell'INU, si è dichiarato favorevole alla realizzazione dello stadio del Milan, perché costituirebbe "un elemento di centralizzazione in senso moderno con una
parte di negozi e spazi aperti al pubblico dove la gente può andare a trascorrere la giornata".

I comitati cittadini chiedono invece che il Comune si pronunci affinché il nuovo stadio venga realizzato sulle ampie aree del dopo Expo e che l'edificio di Fondazione Fiera in demolizione lasci spazio libero al quartiere per riequilibrare la sovrassaturazione causata da Citylife.
Senza uno strumento di indirizzo progettuale unitario oggi si rischia nuovamente di disperdere in una serie di localizzazioni a caso le potenzialità offerte dal nuovo polo fieristico, dal riuso dell'insediamento di Expo 2015 e dai connessi adeguamenti infrastrutturali in atto, che invece potrebbero concorrere alla costituzione di un vero e proprio nuovo Centro Direzionale metropolitano-regionale, a lungo invocato proprio lungo la direttrice di nord-ovest dai più consapevoli ragionamenti delle cultura urbanistica milanese (dal Piano AR del 1947 al Documento Direttore del PGT 2000 di Luigi Mazza).

In un caso abbastanza raro di giornalismo professionale e informativo per il cittadino, i tristi retroscena dell'uso privato di risorse pubbliche nel racconto in presa diretta di un protagonista di primo piano. Corriere della Sera Milano, 30 gennaio 2015

Sul dopo Expo interviene Marco Cabassi, 54 anni, ex proprietario dei terreni acquistati da Arexpo per i padiglioni del semestre internazionale. «Il prezzo attuale è irragionevole dice: chiedono 340 milioni quando la cifra d’acquisto è stata di 120 milioni, di cui 40 pagati a noi al costo di esproprio. Neanche il peggior privato azzarderebbe tanto». L’imprenditore ricostruisce la vicenda dei terreni e le vicissitudini con la Regione: «Abbiamo discusso per mesi, prima sono venuti a chiederci il terreno in comodato d’uso perché lo Stato non voleva spendere. Poi è cambiato tutto. Ci hanno voluto fuori dai piedi. Con le inchieste della Procura abbiamo capito perché: vedi Infrastrutture Lombarde, gli appalti, i margini di ricavo».

«Pronto? Sono Marco Cabassi…».
Il costruttore?
«Sviluppatore ed ex proprietario dell’area Expo, quella che secondo lei sarebbe stata venduta a peso d’oro».

Beh, non è stata regalata.
«Abbiamo venduto i terreni a prezzo d’esproprio. E oggi Arexpo chiede tre volte tanto. Neanche il privato più scaltro riuscirebbe a farlo…».

Vuol dire che per voi non è stato un affare?
«Noi siamo stati espulsi da quell’area. Non avevamo scelta. Ci hanno detto: o la vendete al prezzo d’esproprio delle aree standard o vi espropriamo comunque, col rischio di incassare fra qualche anno. Avevamo già subito 8 espropri sulla stessa area, per quasi 700.000 metri quadrati. L’ultimo per costruire il carcere di Bollate: dopo 18 anni aspettiamo ancora il dovuto. Alla fine il prezzo per oltre 250.000 metri quadri dell’area Expo è stato di circa 42 milioni, in buona parte tornati allo Stato sotto forma di imposte. Ma la verità è un’altra...».

La sua verità...
«I fatti. Nel 2006 ci hanno chiamati con una proposta: visto che lo Stato vuole fare l’Expo, ma non vuole spendere e non vuole rischiare, dateci i terreni in comodato d’uso gratuito per 9 anni. A Expo finito i terreni tornano a voi e potrete svilupparli. Che poi è l’attività che portavamo avanti da anni, avendo presentato un progetto insieme a Fondazione Fiera».

Avreste avuto la possibilità di costruire su un’area valorizzata a spese dello Stato…
.«No, perché l’accordo prevedeva che tutte le opere che sarebbero state realizzate sul terreno, sarebbero comunque rimaste di proprietà pubblica. Così lo Stato non spendeva e non rischiava nulla. Ci hanno cercato loro, l’accordo iniziale era questo. Noi ci siamo limitati ad ascoltare. Abbiamo detto subito che ci voleva una strategia per il dopo, che ogni Expo è legato alla funzione che si vuole dare al post evento. E abbiamo fatto alcune ipotesi».

Ipotesi immobiliari, immagino.
«Ci siamo chiesti che cosa poteva servire a Milano. Una cittadella della giustizia? Un nuovo Ortomercato? Un centro di ricerca agroalimentare? La sede della Rai? Il progetto pubblico–privato sviluppato da Fondazione Fiera e da noi avrebbe dovuto partire da una futura esigenza pubblica della città. Fra l’altro, il Comune di Milano, che deteneva circa il 10% delle aree, si era riservato una quota del 6% dell’ intero sviluppo».

Risposte dalla Regione?
«Zero. È troppo presto per pensarci, ci hanno detto, adesso ci sono altre priorità. Siamo stati quasi derisi».

Nel progetto per l’Expo si parlava dei terreni?
«Certo. Nel dossier di Parigi si diceva che l’area era messa a disposizione dai proprietari che poi dovevano svilupparla. La disponibilità immediata delle aree era stata un elemento qualificante della vittoria contro Smirne, che invece aveva un’area frammentata fra molti proprietari».

Poi il comodato d’uso è saltato e l’area è stata comprata dalla Regione.
«Sa cosa dicevano in Regione quando hanno preso i terreni? Finalmente ce li siamo tolti dai piedi… Alludevano a noi. Avevano piani che si sono capiti con le inchieste della Procura. Vedi Infrastrutture Lombarde, gli appalti, i margini di ricavo. Quei 340 milioni che oggi Arexpo chiede per l’area sono una cifra fuori da una logica imprenditoriale normale».

Quanto è costata l’intera area Expo?
«Poco più di centoventi milioni. Due terzi pagati alla Fondazione Fiera, che è un ente d’ interesse pubblico. Circa un terzo a noi».

Perché Arexpo, che è una società pubblica, dovrebbe guadagnarci?
«Non lo chieda a me. So solo che quel prezzo di vendita dei terreni insieme alla crisi del mercato e alla mancanza di programmazione, scoraggiano ogni investimento».

Intravede come aveva detto Gae Aulenti le rovine di Beirut?
«Voglio bene a Milano e auguro tutto il bene possibile alla mia città. Ma non mi va di passare per uno che ha speculato sulle aree. Le responsabilità di questo stallo sul dopo Expo sono chiare».

Come erano i vostri rapporti con l’allora presidente della Regione Formigoni?
«Gelidi»

E con il sindaco dell’Expo, Letizia Moratti
?«Istituzionali ma cordiali. Lei i patti iniziali voleva rispettarli».

Avete un dialogo con chi governa oggi Milano?
«Dialoghiamo volentieri con chi ha a cuore le sorti della città».

Dottor Cabassi, il suo nome è legato anche al caso Leoncavallo: siete proprietari dell’immobile simbolo di un’occupazione abusiva...
«Sono ancora dentro gli occupanti, dopo oltre 20 anni, tre sentenze esecutive favorevoli a noi e 58 accessi dell’ufficiale giudiziario. Ma speriamo ancora in una soluzione sensata e condivisa».

Una scelta politica e sociale dell'amministrazione di Milano, molto in linea con tante altre strategie, territoriali e ambientali, compreso il contenimento del consumo di suolo. Corriere della Sera, 20 ottobre 2014, postilla (f.b.)

MILANO - Se ne parlava già ai tempi di Carlo Tognoli, sindaco di Milano alla fine degli Anni 70. È diventato un tormentone sotto il regno di Gabriele Albertini, fine Anni 90. Ci ha riprovato il ministro Roberto Castelli nel 2005. È tornato alla ribalta con il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ieri dalle pagine del Corriere ha rilanciato il leitmotiv: il carcere di San Vittore va chiuso e sostituito con uno più piccolo fuori Milano.

Orlando però ha fatto i conti senza Giuliano Pisapia, sindaco di Milano. A differenza dei predecessori, l’avvocato penalista, esperto di problemi carcerari, boccia la proposta: «Ritengo che non si debba chiudere San Vittore ma proseguire, e accelerare, l’opera di ristrutturazione e modernizzazione già iniziata». Che non siano solo parole lo dimostra il fatto che nel Piano del governo del territorio, lo strumento urbanistico per eccellenza voluto dal sindaco e dal suo braccio destro Ada Lucia De Cesaris, San Vittore, sebbene statale, sia destinato a «servizio».

Troppi giudizi affrettati secondo Pisapia. «Da anni si discute dell’opportunità o meno di chiudere il carcere milanese, a volte senza conoscere la realtà di San Vittore e senza proporre alternative realistiche». Il sindaco riconosce che San Vittore è vecchio ma ricorda al ministro che è partita la ristrutturazione di due raggi: «Per i lavori già fatti, per la professionalità di direttori e polizia penitenziaria, per le esperienze di socialità di cui questo carcere è stato spesso all’avanguardia, ritengo che non si debba chiuderlo». Anche sul problema del sovraffollamento Pisapia dice la sua. Oggi a San Vittore sono ospitate 1.015 persone, 945 uomini e 70 donne, quasi tutti in attesa di giudizio, contro una capienza certificata di 702. Numeri in diminuzione rispetto all’anno scorso, quando i detenuti erano 1.351, ma pur sempre una situazione di enorme disagio. Non è con la chiusura del carcere di piazza Filangieri che si risolve il problema: «Bisogna intervenire, e qui parla più l’avvocato che il sindaco, con una riforma del codice penale in modo da prevedere, per i reati di non grave allarme sociale, pene diverse e più efficaci della detenzione, spesso scuola di criminalità».

Ma c’è un altro motivo per cui Pisapia dice no alla chiusura. Anzi due. Il primo lo definisce «culturale». «Abbiamo la tentazione di nascondere i problemi della società, rimuoverli. Un carcere in centro a Milano ricorda a tutti che viviamo in un mondo complesso, in cui esistono violenza, emarginazione e povertà e che i problemi vanno affrontati e non rimossi». Il secondo: «Temo che i detenuti lontano dalla città perdano contatto con il mondo esterno, famiglie, avvocati, assistenti sociali e volontari che avrebbero più difficoltà a raggiungere il carcere». Nel 2001, da capogruppo di Rifondazione in commissione Giustizia alla Camera, usò una parola più forte: «ghettizzazione». La sostanza non cambia.

postilla
Significativo: ci vuole uno che per propria ammissione non ne capisce, e non ne vuole capire, nulla di urbanistica, per far sì che le scelte urbanistiche pur importanti non galleggino nel vuoto della tecnocrazia. Quale migliore strategia per un rilancio complessivo delle potenzialità urbane, contro lo spreco di risorse ambientali e sociali della dispersione cara agli sviluppisti del territorio, che una pratica seria e non di facciata della vera composizione funzionale? Città vuol dire densità, ma anche complessità, e allontanare verso un vago misterioso limbo extra moenia tutto ciò che non si vuole risolvere, dall'industria al carcere alle abitazioni economiche alle attività sensibili (che siano inceneritori o sale lapdance), è solo negare sé stessi. Forse spiacerà a chi sperava in qualche riuso o recupero del sistema panottico cellulare in senso espositivo congressuale, del genere che piace a tanta cultura dei progettisti, ma è molto meglio così: scopare i problemi sotto il tappeto della greenbelt li sposta solo nel tempo peggiorandoli, come ben sappiamo (f.b.)

Qualche riflessione in più su La Città Conquistatrice: Galeotto fu il Mixed-use!

In una intervista a Maurizio Giannattasio, la vicesindaco con delega all'urbanistica delinea l'inizio di un processo di revisione dell'idea di città, da luogo delle trasformazioni edilizie a spazio sostenibilmente abitabile nella prospettiva dell'area metropolitana. Ottime intenzioni. Corriere della Sera Milano, 11 ottobre 2014 (f.b.)

Un documento. Da discutere con la maggioranza e poi con le forze politiche, i consiglieri comunali i comuni della città metropolitana, gli operatori di settore, le associazioni. Per dettare gli indirizzi della futura pianificazione del territorio. Basato su quattro cardini: la riduzione del consumo di suolo, la rigenerazione urbana, il riassetto ambientale e idrogeologico e una risposta efficace alla domanda di casa. Così sembrano titoli generici. In realtà significa cambiare alcuni obiettivi fondamentali: si deve puntare sul patrimonio immobiliare esistente, sia inutilizzato, sia degradato, sia utilizzato evitando di consumare nuovo suolo. «Il criterio è semplice — spiega il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris —: rigenero e riqualifico il patrimonio esistente, recupero le aree dismesse e degradate»

Vicesindaco De Cesaris ha appena chiuso il nuovo regolamento edilizio e già vuole riaprire il Pgt? «Credo sia tempo di cominciare una riflessione a tutto campo per capire in che modo rinnovare l’urbanistica nell’ottica dell’area metropolitana e come rilanciarla per farla uscire da un periodo di crisi. Dobbiamo pensare a piani intercomunali in grado di creare continuità tra territori, servizi e infrastrutture. La giunta preparerà un documento che verrà discusso con la maggioranza e poi presentato al consiglio comunale, le forze politiche, operatori, professionisti, associazioni».

Rimetterete mano al Pgt? «Dobbiamo fare i conti con un Pgt che nasce da una mediazione e che a mio parere ha dei limiti e delle rigidità che vanno superate»

Quali? «Dobbiamo pensare ad una densificazione selettiva: realizzo solo dove è già stato consumato il suolo, rigenerando e riqualificando, recuperando aree dismesse. In questi casi si può pensare anche a indici superiori a quello attuale».

Tanti grattacieli? «Se di qualità qualcuno perché no, ma in cambio della tutela di altre aree della città , dei quartieri, del territorio verde e agricolo».

Quali strumenti del Pgt modificherete? «Non mi preoccuperei ora di cosa modificare. Mi piacerebbe aprire un dibattito sui temi cardine. Se l’obbiettivo è la riduzione del consumo di suolo, bisogna pensare a una serie di regole, semplificate e innovative, che aiutino e incentivino la rigenerazione urbana, sistemi che consentano anche il riuso temporaneo».

Ossia? «Vuol dire permettere anche degli usi non definitivi che impediscano il degrado e l’abbandono del patrimonio esistente e che rispondano a esigenze reali per periodi limitati».

Interventi sull’esistente. E come si difende il «non esistente»? «Bisogna salvaguardare quella parte di territorio non edificato e soprattutto il territorio agricolo. Questa parte di territorio non solo va salvaguardata, ma va anche sostenuta e incrementata. Va definita la rete che unisca i grandi parchi urbani, il Parco sud, il verde e le aree agricole, anche alcune di quelle ancora non tutelate: in un disegno unitario».

C’è fame di case a prezzi abbordabili. Che farete? «Bisogna ripensare l’housing sociale, includendo le nuove forme di abitare come le coabitazioni associative, quelle di carattere assistenziale, quelle temporanee. Ma non basta: dobbiamo realizzare più abitazioni in edilizia convenzionata, affitto moderato e anche di aumentare la disponibilità del patrimonio sociale trovando le leve economiche in un momento di crisi».

«L’organo costituente dovrà comunque volare alto: assicurare un quadro equilibrato di garanzie democratiche e, insieme, consentire un effettivo governo metropolitano. Nell’approntare lo statuto, il Consiglio metropolitano non potrà chiamarsi fuori da un confronto sulle strategie». La Repubblica. ed Milano, 8 ottobre 2014

Arriva in grave ritardo e con una legge istitutiva che fa acqua da tutte le parti, ma non si può sbagliare. O decolla o il fallimento della città metropolitana lascerà un paesaggio di rovine. La prima verifica ha tempi brevi: la messa a punto, entro la fine dell’anno, dello statuto da parte del Consiglio metropolitano (24 eletti di secondo grado, i cittadini tenuti all’oscuro e la politica che pensa per loro): un passaggio delicato quanto decisivo. Da qui dipende, fra l’altro, il conseguimento di un obiettivo su cui tutte le forze politiche si dichiarano d’accordo: rendere possibile l’elezione diretta degli organi di governo nel 2016.

Ma non può bastare. Se si vuole una democrazia sostanziale, lo Statuto non può ridursi a una sistemazione burocratica a valle della sparizione della Provincia. Tantomeno può dar vita a un assetto gestionale in cui le questioni in gioco vengano riportate entro gli schemi del laissez-faire a cui da tempo ci ha abituati anche il mondo degli enti locali.

Intendiamoci: la coperta è corta. L’intera Lombardia andrebbe interpretata per quella che è: un sistema di aree metropolitane che dal basso danno vita a un coordinamento regionale. Solo così avremmo un riassetto organico, in una vera ottica federalista, con un riequilibrio dei poteri tra i diversi livelli della Pubblica amministrazione. Ma nel quadro politico attuale – si obbietterà – una simile prospettiva è mera utopia. Lo so: quanto di più lontano dal separatismo antifederalista della Lega Nord come dal neo-centralismo renziano. Non a caso la fase costituente della città metropolitana non prevede il coinvolgimento dei livelli superiori (Regione e Stato) se non come controllori. Così, per ora, la partita si giocherà solo ai livelli inferiori: comuni, zone omogenee (tutte da istituire), governo metropolitano.

I limiti e le storture della legge 56/2014 non possono però costituire un alibi. L’organo costituente dovrà comunque volare alto: assicurare un quadro equilibrato di garanzie democratiche e, insieme, consentire un effettivo governo metropolitano. In altri termini, nell’approntare lo statuto, il Consiglio metropolitano non potrà chiamarsi fuori da un confronto sulle strategie. Andranno messe sul tavolo le questioni e gli obiettivi di fondo. Quali? In estrema sintesi, si potrebbero ricondurre a quattro punti:

1. il sostegno agli elementi motori dell’economia che consentano alla città metropolitana milanese di non soccombere nella competizione fra metropoli (con tutto ciò che consegue in termini di domanda di lavoro e di risorse per il vivere);

2. il perseguimento della qualità della vita e della coesione sociale, attraverso la lotta agli squilibri tra centro e periferia (urbana e metropolitana) anche con la messa in atto di un vero policentrismo, fino a una capillare riqualificazione dei luoghi dell’abitare;

3. la riduzione dell’entropia metropolitana, ovvero della dissipazione irrazionale delle energie che servono al funzionamento della metropoli, a cominciare dal potenziamento del trasporto pubblico e da un governo correlato della tendenza insediativa;

4. il potenziamento del verde quale elemento strutturale del quadro insediativo. Non basta il ferreo, sacrosanto, contenimento del consumo di suolo: occorre una politica attiva che, in una rinnovata alleanza tra agri-coltura e urbis-coltura, faccia dello straordinario sistema dei grandi e dei piccoli parchi – tutti da consolidare ed estendere – una risorsa fondamentale per la qualità dell’abitare metropolitano.

Un avviso ai naviganti. Non ci si trinceri dietro la mancanza di risorse economiche. Si badi piuttosto a non accrescere il costo complessivo di funzionamento dell’amministrazione pubblica locale e si mobilitino l’intelligenza e le energie sociali.

Gli spazi verdi urbani non sono più da pensare solo come tratti aperti a interrompere la città densa, ma come sistema integrato. Va bene, ma forse c'è qualcosa in più da dire. La Repubblica Milano, 21 settembre 2014, postilla (f.b.)

Il comune guarda alla nascita della città metropolitana per disegnare la strategia futura del verde. È così che Palazzo Marino punterà sul “parco metropolitano”, un anello di vegetazione che circonda Milano e che dovrà “cucire” insieme i vari parchi che già esistono. Ogni area, però, dovrà anche mantenere la propria vocazione: dal Trenno pensato come parco dello sport al Forlanini da congiungere all’Idroscalo e trasformare in un parco urbano agricolo fino alle Cave, dove nascerà un’oasi naturalistica spontanea.

È un futuro che c’è già, quello del verde di Milano. Anzi, della “Grande Milano”. Perché è questa la strategia di Palazzo Marino. Che, guardando anche alla rivoluzione amministrativa che partirà dal 1 gennaio del 2015 con la nascita della Città metropolitana, adesso vuole puntare su quello che, ormai, chiamano il “parco metropolitano”: una sorta di unico anello di alberi, prati, vegetazione e aree agricole che, d’ora in poi, andranno collegati tra di loro sempre di più. Quattro grandi aree da gestire in una visione allargata: il Parco Nord e le sue estensioni a Bresso, Sesto San Giovanni e Cinisello; il fiume Lambro con la sua natura da ricucire in modo che da Monza si possa raggiungere Milano e oltre a piedi o in bicicletta; il Parco sud con le sue teste di ponte cittadine; il sistema di parchi dell’ovest. Anche se, in questo quadro generale, ogni grande distesa di verde avrà una sua vocazione. È così, ad esempio, che Trenno sarà il parco dello sport, che il Comune lavorerà sul Forlanini per trasformarlo in un parco urbano agricolo, che Bosco in città sarà pensato per le famiglie e che l’anima un po’ selvaggia del parco delle Cave sarà valorizzata con una speciale oasi naturalistica che rinascerà dalle ceneri di un incendio.

È un puzzle che, ricomposto, si estende per oltre 17 milioni di metri quadrati il verde di Milano. Una mappa che il Comune ha suddiviso a seconda delle dimensioni: replicando le taglie delle magliette, si va dall’extra large del Parco Nord all’extra small delle aiuole sotto casa che i cittadini possono adottare. In mezzo i parchi storici in versione large come il Sempione e i giardini Montanelli, quelli di quartiere come il parco Solari o i giardini di Pagano. Un patrimonio che Palazzo Marino vuole valorizzare guardando anche oltre i propri confini, in chiave metropolitana, appunto. Per i grandi parchi di cintura, infatti, in futuro verrà fatto soprattutto un lavoro di connessione. È la nuova filosofia che può essere raccontata attraverso un progetto: «L’area a ovest è già abbastanza collegata. Adesso vogliamo lavorare sulla parte est: è per questo che abbiamo firmato con altri Comuni una convenzione per il piano che riguarda la media valle del Lambro», spiega l’assessore al Verde, Chiara Bisconti. Che cosa è? L’obiettivo è quello di cucire insieme i parchi e anche, riqualificandole, le piccole aree verdi che corrono lungo il fiume per farne un percorso unico da Monza a Milano e ancora oltre verso altri Comuni. E uno speciale filo è anche quello che l’amministrazione vuole utilizzare per trasformare il Forlanini: «È il parco che in questo momento ancora manca di un’anima forte», dice ancora l’assessore. In questo caso, il piano punta a collegare lo spazio all’Idroscalo, costruendo un ponte sul fiume Lambro, migliorando la porta su viale Argonne, riportando alla luce sentieri interni, realizzando percorsi pedonali e ciclabili. E rilanciando l’agricoltura per fare in modo che quest’area possa diventare una sorta di parco agricolo urbano.

Dal generale al particolare: eccola un’altra linea di azione di Palazzo Marino. Perché ogni grande parco, nella strategia del Comune, dovrà anche mantenere caratteristiche differenti attorno a cui programmare gli interventi. Un esempio è il parco di Trenno, immaginato come una palestra a cielo aperto tra campi da calcio pubblici, beach volley, pallavolo, rugby, bocce, percorsi per i runner. Per il parco delle Cave, invece, il futuro è un ritorno ancora più forte alle origini. Nei prossimi mesi i tecnici dell’amministrazione concluderanno i lavori per riportare alla vita un’area bruciata in un incendio e la recinteranno: lì la natura potrà dominare in modo (quasi) indisturbato. «Vogliamo creare un’oasi naturalistica spontanea, lasciando che questa zona si “inselvatichisca”. Ci sarà un numero chiuso e si entrerà per partecipare a visite guidate», dice Bisconti.

I visitatori di Expo e i milanesi presto potranno entrare anche in un “museo botanico” che il Comune sta realizzando sui vivai che l’amministrazione ha già fatto sorgere tra via Zubiani e via Margaria: un percorso didattico che punterà a far conoscere la vegetazione locale. Questo è uno dei progetti per il verde e l’agricoltura che saranno sviluppati per lotti successivi. Con questa logica, ad esempio, si sta disegnando il parco agricolo del Ticinello, un sogno da 90 ettari atteso da decenni. La prima parte c’è già: sei ettari di verde e un bosco didattico con 10mila piante inaugurati lo scorso maggio, una pista ciclabile in costruzione. Si andrà avanti, anche dopo che la vicesindaco Ada Lucia De Cesaris ha festeggiato il passaggio al Comune della Cascina Campazzo, congelata finora da un contenzioso storico con il gruppo Ligresti. Ancora a sud della città c’è un altro pezzo del mosaico da inserire nel parco metropolitano: è il parco del Sieroterapico, da attrezzare e riqualificare per fasi successive. Anche se il prossimo anno, è la promessa, sarà in gran parte accessibile a tutti.

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Complice forse il genere di comunicazione parziale che esce da settori e assessorati (e non dovrebbe, proprio nella prospettiva della città metropolitana) pare che si sovrappongano un po' alla rinfusa le informazioni su una strategia di spazi aperti che non appare consapevolmente tale. Giustissimo lavorare già oggi in prospettiva metropolitana, e pensando alle specificità del nucleo centrale necessariamente tematizzate e con un indirizzo diciamo così da laboratorio di metodo. Ma quando si parla, abbastanza esplicitamente, di quelle che ormai tutta la pubblicistica internazionale chiama infrastrutture verdi, restare all'interno del solito linguaggio un po' da animazione per bambini lascia lievemente perplessi. Siamo di fronte a un'opinione pubblica che deve essere formata e informata, resa consapevole delle sfide, e con una cultura urbana da terzo millennio ancora tutta da costruire, che oscilla fra gli stili di vita della città tradizionale e la nuova sensibilità per modelli alternativi di consumo, mobilità, separazione fra tempo di lavoro e tempo libero. La rete delle infrastrutture verdi è in buona sostanza la base su cui progettare la metropoli post moderna, così come quella delle infrastrutture grigie lo è stata per la città industriale del '900, traffico automobilistico in testa, ma non solo (pensiamo alla gestione naturale del ciclo delle acque piovane). Perché non esplicitare queste strategie? Impossibile pensare che, magari sparse fra i settori dell'amministrazione, non rappresentino una parte importante degli orientamenti. E allora se ne parli, magari iniziando a parlarsi fra assessorati, consulenti, cittadini (f.b.)

Pare un trafiletto di locale, forse lo è, ma di sicuro indica un possibile ribaltamento storico di tendenza: la progressiva colmata della greenbelt metropolitana non è più un dogma urbanistico. La Repubblica Milano, 27 agosto 2014, con postilla (f.b.)

È stata una piccola festa con tanto di brindisi quella che ha celebrato la fine di un contenzioso lungo 32 anni con la proprietà Ligresti e, soprattutto, l’inizio di un nuova storia che vuole scrivere Palazzo Marino. Perché, dopo tre decenni di timori che su questo pezzo di Parco Sud calasse il cemento, da ieri la cascina Campazzo è passata al Comune. Che, adesso, punta alla riqualificazione dell’edificio e alla «creazione del parco agricolo Ticinello di oltre 90 ettari».

Il cuneo verde di cui si parla è quello più a sinistra

A scrivere la parola fine è stata la decisione del Tar della Lombardia che ha respinto le richieste di sospensiva avanzate dalla proprietà dell’immobile contro due provvedimenti dell’amministrazione comunale: il decreto di esproprio dell’11 dicembre 2013 e l’avviso di esecuzione del decreto del 20 maggio 2014. «È una vittoria della città e degli agricoltori — ha dichiarato il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — resa possibile grazie alla modifica del Piano di governo del territorio: non abbiamo mai accettato di barattare questo simbolo dell’agricoltura milanese con i tentativi di speculazione sul parco, e abbiamo difeso l’attività agricola che è parte fondamentale dell’identità della nostra città».

Il Comune è già intervenuto per mettere in sicurezza la cascina, in attesa che partano i lavori di ristrutturazione. Il recupero della cascina Campazzo, dove da sessant’anni vive e lavora la famiglia di Andrea Falappi, il presidente del Distretto agricolo milanese, si affianca alla realizzazione del parco Ticinello. «Finalmente giunge a conclusione una vicenda nata nel 1982. Si è fatta giustizia », ha detto il presidente di Zona 5, Aldo Ugliano.

Il terreno appena a sud della cascina. Foto F. Bottini

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Se 90 ettari vi sembrano pochi, ma resterebbe una questione comunque puntuale, non fosse per il nome di Salvatore Ligresti, e il suo marchio su tante altre cose che a quei 90 ettari stanno attorno, ovvero la grande greenbelt agricola metropolitana che proprio questa superficie relativamente piccola articola in un cuneo, dall'anticamera della zona delle prime risaie a ridosso della zona urbana densa, ovvero la circonvallazione esterna distante un tiro di sasso dall'edificio della cascina. Ligresti è uno di quei tizi che dicono “a che serve il piano regolatore, noi sappiamo regolarci benissimo da soli”, e quel regolarsi da soli si è chiamato per un certo periodo urbanistica contrattata, per un altro periodo urbanistica tout court, quella del non-piano che cambiava per legge allo spuntare di un nuovo progettone degli amici degli amici che avevano la grossa idea, più o meno sempre la stessa. Il famigerato Centro Ricerche Biomediche di Umberto Veronesi starebbe sulla medesima linea di attacco alla greenbelt (60 ettari) poco più a est. Giusto in fregio ai terreni appena salvati dalla decisione del Tribunale, si profilano i palazzoni di uno di quei progetti storici che hanno fatto da modello ai successivi Piani Integrati di Maurizio Lupi, l'asse di via dei Missaglia, triste caricatura di un altro quartiere, stavolta incolpevolmente razionalista anni '50, il Gratosoglio, giusto lì di fronte, quando la fame di case era vera. Dopo la sentenza del Tar, verrebbe voglia di tirar fuori il solito Cuneo Rosso di El Lisitskij, ma qui non siamo nell'ambiente facilone di Facebook, e si auspica invece che anche gli altri progetti strampalati dell'ex deus ex machina della trasformazione urbana a vanvera non facciano troppi danni. Mentre la questione greenbelt ahimè con le ultime opere Expo si allarga a territori più vasti, ma questa è un'altra storia (f.b.)

Chi riuscirà a diventare più ricco e potente sfruttando gli errori compiuti da amministratori pubblici incapaci e impunibili? Non c’è che da aspettare e vedere. Il Fatto quotidiano, 21 agosto 2014

Cercasi masochista con fisico bestiale, grande pazienza e soprattutto tanti soldi, per lavare il peccato originale di Expo. È stato lanciato il bando per il dopo-Expo: l’esposizione, bene o male, si farà; tutta da decidere è invece la sorte dell’area, dopo che nel 2016 saranno smontati i padiglioni. Che cosa farne? Arexpo, la società pubblica che ha comprato i terreni e li ha messi a disposizione di Expo Spa, ora deve trovare a chi rivenderli, per far rientrare i soldi sborsati dai soci (Comune di Milano, Regione Lombardia, Fondazione Fiera, Provincia di Milano, Comune di Rho) e prestati dalle banche. Ecco dunque il bando preparato da Arexpo che lancia una gara pubblica per scegliere il compratore. Le offerte dovranno essere consegnate entro il 15 novembre 2014. Una commissione indipendente sceglierà la migliore entro il 30 novembre.

Non ci sarà, prevedibilmente, una folla di pretendenti né una corsa per arrivare primi. Perché le condizioni sono buone per il bene comune, ma praticamente improponibili per un privato. Secondo il bando, avrà l’area l’operatore (o il gruppo di operatori) che ci metterà almeno 315,4 milioni di euro, non un centesimo di meno, gradita qualche cosa in più. Poi però non potrà farci quello che vuole: dovrà lasciare a parco metà dell’area (440 mila metri quadrati); quanto al resto (480 mila metri quadrati, comunque sufficienti a costruirci l’ennesimo quartiere), dovrà edificare il meno possibile, mischiando residenza, uffici, spazi produttivi e negozi (ma non un grande centro commerciale: al massimo 2500 metri quadrati). Preferite opere di uso pubblico, tipo il nuovo stadio del Milan, la cittadella dello sport, un nuovo centro di produzione della Rai e attività che abbiano a che fare con il tema Expo, cioè il cibo, l’agricoltura, l’ambiente.

Non solo: dovrà pure aspettare che, nel 2016 o nel 2017, siano i Consigli comunali di Milano e Rho ad approvare – se e come vorranno – i piani urbanistici. Più che un operatore, si cerca un santo. Disposto a lavare a sue spese il peccato originale di Expo: quello di essere stato localizzato (dall’ex sindaco Letizia Moratti e dall’ex presidente Roberto Formigoni) su un’area privata. Pagata a caro prezzo da Comune e Regione, con la necessità, a cose fatte, di far rientrare i soldi (nostri). Si poteva fare su un terreno pubblico? Sì: sull’area Porto di Mare, o alla Bovisa. Invece Formigoni ha imposto quell’area sbilenca a nord-ovest di Milano chiusa tra due autostrade, il carcere di Bollate e il cimitero di Musocco. Perché? Perché era in gran parte della Fondazione Fiera (ai tempi della scelta controllata dai ciellini formigoniani) che aveva i conti in rosso: con l’operazione Expo li ha sistemati.

A questo proposito, bisogna dire che alla conferenza stampa di presentazione del bando si è distinto proprio il rappresentante della Fiera, Corrado Peraboni (ieri leghista, oggi forse ex leghista, sempre certamente peraboniano). Mentre il vicesindaco di Milano, Ada Lucia De Cesaris, si è laicamente appellata all’ottimismo della volontà (abbiamo ereditato questa situazione, dobbiamo cercare di uscirne vivi) e il presidente della Regione Roberto Maroni ha fatto trapelare un certo distacco (stiamo a vedere che cosa succederà), Peraboni è venuto a farci la morale, sostenendo che deve prevalere l’interesse pubblico: proprio lui che rappresenta la Fondazione che è all’origine di questo pasticcio e che, in pieno conflitto d’interessi, ha venduto a se stessa (in quanto socio di Arexpo) le sue aree per rimettere in sesto i conti disastrati. È come se Diabolik facesse uno spot contro i furti di diamanti. O se Schettino fosse chiamato, che so, a far lezione all’università.

In un trafiletto di poche parole e neppure firmato, una chiave essenziale nella costruzione della Città Metropolitana dei cittadini. La Repubblica Milano, 1 agosto 2014, postilla (f.b.)

Manovre di avvicinamento ad Expo sul fronte trasporto pubblico. Atm e Palazzo Marino hanno messo a punto tre nuovi tipologie di ticket di viaggio per viaggiare sui mezzi cittadini, sulle linee ferroviarie Trenord e sul Passante. L’obiettivo è quello di favorire il più possibile gli spostamenti senza le auto private non soltanto verso il sito espositivo di Rho-Pero, ma anche in città, per quei turisti che arriveranno nei sei mesi di evento.

Il primo tipo di nuovo biglietto sarà valido per l’andata e il ritorno da Milano alla fiera di Rho e potrà essere utilizzato anche sul Passante. Costo: 5 euro. Seconda novità: il biglietto “giornaliero Expo” da 8 euro, valido sia da e per il sito espositivo sia per girare in tutta Milano sui mezzi Atm urbani e sul Passante. Ultimo nuovo tipo di biglietto deciso ieri dalla giunta è il ticket “giornaliero Area grande Expo”: costerà 10 euro e potrà essere utilizzato nell’area metropolitana. Sarà un confronto tra Trenord e Comune a stabilire quanto estesa potrà essere l’area in cui sarà valido il biglietto, studiando le direttrici ferroviarie che arrivano a Milano da nord e sud.

Per questi ultimi due tipi di biglietto si prevede che già a dicembre saranno messi in circolazione in via sperimentale per tutti quelli che vorranno raggiungere Rho per le manifestazioni in programma, dall’Artigiano in Fiera ai vari saloni di esposizione in calendario. Le stazioni di Rho-Fiera e di Pero, sulla linea 1 del metrò, sono state riaperte due settimane fa dopo la chiusura per i lavori necessari proprio in vista di Expo, durati poco più di un mese: è stata realizzata una deviazione dei binari per consentire più flessibilità nella gestione del capolinea, e quindi per andare incontro ai momenti di maggior afflusso dei passeggeri che visiteranno l’Esposizione.

postillaCome raccontava ai primordi dell'automobilismo di massa il sociologo urbano Roderick McKenzie, della seminale Scuola di Chicago, l'idea di area metropolitana in quanto dimensione urbana contemporanea passa soprattutto attraverso la percezione popolare delle relazioni che intercorrono fra i suoi diversi luoghi. Ovvero, prima delle pur indispensabili architetture istituzionali di governo e rappresentanza, sta l'accoppiamento di spazi e identità, l'idea di appartenere a un luogo a cui appartengono anche altri soggetti e ambiti. Se uno dei passaggi chiave dalla dimensione metropolitana novecentesca è quello della mobilità sostenibile, del rapporto sempre più stretto, consapevole e governato, fra spazi e flussi, allora il tema dell'integrazione tariffaria nel trasporto collettivo (e magari più avanti, come indicano alcuni studi internazionali recenti, anche a coinvolgere le varie forme di condivisione) diventa centrale. Ed è un peccato che chi prende le decisioni non appaia altrettanto propenso a promuovere questo aspetto: magari l'occasione dell'Expo potrebbe essere anche una spinta in questo senso (f.b.)

Lagatta frettolosa fece i gattini ciechi. Accanto alla prevaricazione di segnopre-democratico dalle riforma del Parlamento e della legge elettorale, anche lafrettolosa approssimazione con la quale si affronta la “riforma” dei poterilocali è un segno del degrado italiano. Un commento da Milano, inviato aeddyburg il 13 luglio


1.La legge n. 56 del 7 aprile 2014, nota come legge Del Rio, ha istituito leCittà Metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari,Napoli e Reggio Calabria, più Roma Capitale con disciplina speciale. L’entratain funzione è fissata al primo gennaio 2015 (con una dilazione al 2016 perReggio C.). Condizione perché il sindaco metropolitano possa essere elettodirettamente dai cittadini è che il comune capoluogo venga suddiviso in zone (omunicipi) dotate di autonomia amministrativa. Senza questa suddivisione, la leggeprevede che la carica venga assunta automaticamente dal sindaco del comunecapoluogo con un evidente deficit di democrazia.
Milimito qui al caso milanese, dove il pubblico dibattito latita, mentre affiorano prese di posizione con agli estremidue alternative: da un lato quella di chi vede nell’istituzione della CittàMetropolitana l’occasione per abolire il Comune di Milano (in tal modo, percostoro, si farebbe finalmente giustizia di una politica centralistica edisattenta ai problemi cronici della periferia urbana); dall’altro quella dichi pensa si debba procedere con la massima attenzione e cautela, esaltando le potenzialitàdel decentramento senza abolire un ambito di governo come quello comunalepotenzialmente in grado di esprimere una politica unitaria per la città nel suoinsieme. È questo anche l’orientamento di chi scrive. È mia convinzione infattiche si debba procedere a un’articolazione del governo locale così da risponderenel modo più adeguato ai problemi evitando la trappola di populismi vecchi enuovi.
2. Ogni abitante della Città Metropolitana èinteressato da almeno tre livelli relazionali su cui si definiscono anche le appartenenze/identità:
- il luogo in cui abita (con un orizzonte esteso alquartiere);
- la città (o cittadina, o paese) in cui in diversamisura si riconosce;
- la metropoli in cui esplica comunemente le sueattività nell’arco delle 24 ore.
Ognunadi queste appartenenze/identità chiede di essere rappresentata politicamente,anche perché ad ognuna di esse corrispondono ambiti di polarizzazione deiproblemi che il governo locale è chiamato ad affrontare. Ma, per risponderepositivamente a questa richiesta, va ricercato un equilibrio fra livellidecisionali, cominciando con il mettere ben in chiaro chi decide che cosa (unamateria su cui, a poco più di quattro mesi dell’entrata in funzione del Governometropolitano, grava una fitta nebbia). Equilibrio significa che ogni livello –locale, urbano, metropolitano – deve saper pervenire a una sintesi nell’ambitodi sua competenza, in una dialettica complessa con gli altri livelli.
Èquesta la materia che va ordinata dallo Statuto: un nodo da sciogliere primadel nuovo anno.
Perinciso, alle incognite che si addensano su questo passaggio delicato se neaggiunge un’altra. Il Governo metropolitano dovrà vedersela con la RegioneLombardia. Un rapporto, questo tra città Metropolitana e Regione, per nullaregolato dalla legge Del Rio e su cui, se non si prende una adeguata iniziativapolitica, potrebbe crearsi una situazione incresciosa: quella che potrebbevedere tutte le altre realtà provinciali (con la finta abolizione delleprovince) coalizzate contro la Città Metropolitana Milanese (Barbarossa docet).
Perrestare alla questione degli equilibri interni alla Città Metropolitana, aifautori della cancellazione di Palazzo Marino chiedo: per quale motivo icittadini di Milano dovrebbero rinunciare alla seconda delle treappartenenze/identità sopra indicate? Hanno forse da scontare una doppia colpa:l'egemonia esercitata dal capoluogo sulla metropoli e sulle sue zone deldecentramento? A chi pensa che sia giunto il momento di una resa dei conti,faccio osservare che una simile operazione da piazza pulita sarebbe unarivoluzione condotta a tavolino. Un non senso sul piano storico. Le egemonie sicombattono sul loro terreno, facendone sostanza della politica. Puntare aeliminare i problemi con improvvisate ingegnerie istituzionali portaimmancabilmente al fallimento.
3. Mi preoccupa poi la moltiplicazione dei parlamentini e degliapparati burocratici. E dei costi relativi. Che si arrivi cioè a spendere lerisorse scarse per mantenere in piedi macchine amministrative farraginose esovradimensionate invece che per fare le cose necessarie.
In una situazione come quella italiana dove una della cause deldissesto del bilancio dello Stato, oltre che nelle politiche governative, stain quella parte della Pubblica Amministrazione che va sotto il nome di EntiLocali (a tutti i livelli), una riforma come quella della Città Metropolitana,dovrebbe essere obbligatoriamente accompagnata da una quantificazione dei costieconomici. Senza questo bilancio, ogni proposta è difficilmente giudicabile esarebbe comunque un'operazione mistificatoria. Il decentramento, ilfederalismo, la sussidiarietà in questo nostro malandato Paese presentano unquadro che fa acqua da tutte le parti.
Se non si procede con accortezza e con una logica sperimentale,c'è il rischio di perdere la bussola in nome del localismo. Per bussola intendoun progetto politico e civile volto a combattere e a correggere gli squilibriinterni e a portare qualità urbana,vivibilità e vitalità dove non c'è.
Un simile progetto richiede:
a) una mobilitazione di intelligenze e di risorse apartire da un'analisi condivisa;
b) la messa a punto di un quadro degli interventi daattuare sulla base di una sintesi tra una visione d'assieme e una visionedall'interno dei diversi contesti in cui è articolata la città (una prospettivapraticabile solo se crescita politica e crescita civile procedonoparallelamente);
c) la definizione di priorità in un processo che nonpotrà che essere graduale e di medio periodo.
Tuttecose che, a tutt'oggi, la giunta Pisapia non ha voluto o saputo mettere incampo, giocando invece di rimessa rispetto all'iniziativa privata eall'insorgere di problemi.
4.Senza un progetto come quello sopra richiamato, il decentramento èun'operazione velleitaria e populistica che porterà solo a complicare le cose ea sollevare dalle responsabilità chi assumerà la guida del Governometropolitano. Oggi, come milanese, mi sento coinvolto rispetto a quel chesuccede a Lambrate o a Baggio; quando il Comune di Milano verrà suddiviso in 9parti, ogni Municipio (ex-zona) sarà forse più vicino ai cittadini ma certo piùisolato e impotente.
Pernon dire della debolezza con cui ogni Municipio ex-zona dovrà fare i contiquando avrà come interlocutore la grande società immobiliare o anche Ferroviedello Stato.
Cosìcome stanno le cose, si rischia di decentrare per scaricare i problemi. Sipotrà anche avere una maggiore partecipazione dei cittadini, ma parallelamentesulle grandi questioni aumenterà, c'è da scommettere, il senso di impotenza edi inadeguatezza.
5.Se dici Isola, o Niguarda, ti viene in mente una parte di città che ha trattiidentitari per chi ci abita, come anche per gli altri abitanti della città edella metropoli; se dici Zona 2 il riferimento resta muto. E si potrebbecontinuare. L'identità non è una cosa che si inventa a tavolino.
AMilano sopravvive qualcosa di un policentrismo storico; altre focalità sipotrebbero individuare in un progetto unitario capace di fare sistema. A Barcellonalo si è fatto in modo esemplare (a partire dagli anni settanta!) per l'interacittà su una dimensione ancora più ampia di quella di Milano, che tutto sommatoresta una città piccola ma con una precoce e spiccata propensionemetropolitana. Il progetto che può rendere effettivamente policentrica Milanova coltivato e realizzato in un'ottica metropolitana.
Primadi ogni progetto istituzionale occorre un piano di interventi volto non a unaastratta equipotenzialità del territorio (Giancarlo De Carlo), ma a superare ledisparità in fatto di qualità urbana dei luoghi. Quelli che alcuni chiamano conun certa sufficienza "quartieri" (per Milano l'elenco sarebbe moltolungo, almeno sei volte 9) hanno al loro interno energie per orientare ilprogetto unitario di riqualificazione della città in un'ottica di superamentodegli squilibri (De Carlo, che invece su questo aveva ragione, chiamava questaprospettiva la piramide rovesciata).

Senzaun progetto strategico, spezzare Milano in 9 piccoli comuni è pura macelleriaistituzionale che non porterà a risolvere i problemi: porterà solo a moltiplicarecosti e burocrazia (magari sistemando qualche politico a spasso) e a riprodurrein piccolo, quando non a moltiplicarli, gli squilibri e le disfunzioni chesulla carta si vuole combattere. Non si farà un passo per avvicinare icittadini alle istituzioni: ci sarà un triste spettacolo dove i pochi soldipubblici, invece che essere spesi per migliorare la città, verranno sperperatiper tenere in piedi apparati pletorici.

Si avvicina l'inaugurazione di un progetto simbolo della scellerata gestione (si fa per dire) della città, svenduta ai più bassi interessi con la scusa di “modernizzarsi”. Due articoli da la Repubblica e Corriere della Sera locali, postilla (f.b.)

la Repubblica
Piazza Sant’Ambrogio riapre dopo otto anni di polemiche e rinvii
di Alessia Gallione e Oriana Liso

Otto anni fa, nell’agosto del 2006, i primi scavi archeologici. Poco meno di quattro anni fa, nel novembre 2010, l’avvio dei lavori di cantiere: per tanti anni piazza Sant’Ambrogio è stata prima parzialmente e poi del tutto chiusa, per realizzare un parcheggio al centro di tante polemiche e tante battaglie. Da questa mattina, però, chi passa davanti alla Basilica vedrà qualcosa di nuovo: gli operai al lavoro per rimuovere le transenne del cantiere. Entro questa sera, infatti, il novanta per cento della piazza verrà riaperto: bisognerà aspettare fine mese — al più tardi la prima settimana di agosto, assicura il Comune — per vedere il lavoro completato. Con la piazza finalmente aperta e rinnovata e con il parcheggio interrato in attività.

La riapertura di oggi permetterà di vedere la piazza attraverso i due “cannocchiali prospettici”, ovvero i due assi che partono dalla Basilica e dall’ingresso dell’università Cattolica: gli spazi saranno ben diversi dal passato, con alberature, viali lastricati di pietra, panchine. Si vedrà, ovviamente, anche l’accesso al parcheggio, che si sviluppa sottoterra per cinque piani, con 223 posti a rotazione e 347 box per i residenti, per un totale di 570 posteggi. Il costo finale, a carico delle imprese che l’hanno realizzato (ovvero il raggruppamento formato da Borio Mangiarotti, Botta e Garage Velasca) è di circa 18,5 milioni. Fa il conto alla rovescia per la riapertura definitiva, fra meno di un mese, l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «In questi anni abbiamo lavorato con grande attenzione, anche con la Sovrintendenza, per rispondere alle esigenze di qualità e di bellezza imprescindibili per quella piazza. Speriamo che questa restituzione possa far superare le polemiche e i problemi che hanno accompagnato questa vicenda », spiega De Cesaris, proprio riferendosi all’odissea di uno dei parcheggi più contestati del “piano Albertini”, quel lungo elenco di opere in project financing deliberate dall’allora sindaco e, in larga parte, decadute con le giunte successive.

Parlano i numeri: dei 240 progetti immaginati negli anni Novanta, sono già 98 quelli che, ufficialmente, non saranno realizzati: 14 perché la localizzazione è stata ritenuta non idonea (tra questi, via Zecca Vecchia, via Washington, via Lodovico il Moro) e 84 per inadempienza, rinuncia o revoca del pubblico interesse, e qui ci sono i casi più famosi, come piazzale Lavater, via San Barnaba, piazzale Libia, via Bernini, senza considerare il parcheggio simbolo, quello della Darsena, già cancellato dalla precedente giunta. Su altri 5 parcheggi il giudizio è sospeso: gli uffici stanno completando le istruttorie. Non ci sono solo le cancellazioni, ma anche i 10 parcheggi ultimati — co- me piazza XXV Aprile — , quelli con i cantieri in corso, che dovranno concludersi entro Expo (oltre Sant’Ambrogio: Rio de Janeiro, Maffei e Valsesia Est) e gli 8 per cui i lavori inizieranno dopo l’ottobre 2015.

La strategia dell’amministrazione è chiara: privilegiare le localizzazioni fuori dal centro, con posti a rotazione e per residenti. Nei prossimi mesi apriranno tre nuovi indirizzi, per un totale di 1.347 posti auto (più 97 posti moto) per i quali il Comune pensa a forme di abbonamento in chiave anticrisi: 140 in via Pichi-Magolfa, gli altri nei due parking al Portello, per auto e moto, e alla Comasina, dove il parcheggio di interscambio avrà 306 posti. Non nuovi posteggi ma un aumento degli stalli esistenti, invece, è previsto per Famagosta e San Donato: all’inizio del 2015 Atm, dopo il via libera del Comune, potrà affidare i lavori per altri 870 posti.

Corriere della Sera
«Isola verde in Sant’Ambrogio». La piazza riapre dopo otto anni
di A.D.M.

Non è ancora un’inaugurazione vera e propria. Quella si terrà tra la fine di luglio e i primi di agosto, quando sarà pronto anche l’ingresso del parcheggio interrato. Oggi però qualcosa accadrà in piazza Sant’Ambrogio: dopo otto anni di cantiere il 90 per cento dell’area verrà liberata dalle transenne. Sarà «scoperta» la passeggiata che collega la piazza a via Terraggio: un percorso pedonale delimitato da aiuole e alberi (le panchine non ci sono ancora, verranno posate a breve). Via i ponteggi anche dal lato opposto. I box auto, invece, apriranno a fine mese: 570 posti in cinque piani interrati, 223 a rotazione, 347 per i residenti.

Un traguardo che arriva alla fine di un percorso lungo e accidentato: il progetto dei parcheggi risale al 2000. La Procura l’ha messo sotto inchiesta, poi l’ha assolto. Il cantiere per i box è partito nel 2006 con i saggi archeologici effettuati dalla ditta costruttrice, la Borio Mangiarotti. Nel 2010 sono cominciati gli scavi, con consegna prevista entro la fine del 2012. Nel mezzo ci sono state le proteste dei residenti, gli appelli degli storici, la preoccupazione per i reperti paleocristiani nel sottosuolo e le critiche ai parcheggi. La stessa giunta Pisapia aveva annunciato al momento dell’insediamento che non avrebbe mandato avanti il progetto.

«Abbiamo provato in tutti i modi a evitare l’opera, ma la penale per l’interruzione ci sarebbe costata troppo, oltre i 10 milioni di euro — spiega il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris —. Quindi abbiamo cercato di concludere in fretta l’intervento, lavorando con la Soprintendenza per garantire la massima tutela storico-artistica della piazza, un luogo dal grande valore culturale e religioso. La giornata di oggi è un piccolo passo importante in vista dell’inaugurazione completa di fine mese. Un momento che dovrebbe essere positivo per tutti, visto che la riqualificazione è il frutto di un lavoro corale». Non la pensano così i residenti: «Siamo felici di liberarci dalle transenne, questo sì — dice Roberto Losito —. I lavori ci hanno tenuti in reclusione per oltre otto anni, creando crepe nei nostri pavimenti e rendendoci la vita impossibile per colpa del rumore. Ma la piazza che vediamo oggi sembra un’autostrada: non si sposa certo con la storia del luogo».

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La cosa tragicomica è che l'ex amministratore di condominio facente ahinoi funzioni di sindaco Gabriele Albertini ribadisce che fosse stato per lui di sforacchiamenti così ce ne sarebbero stati decine, centinaia in più, insomma una bella città “mudern” che neppure nelle più feroci inquadrature di Jacques Tati, con ingegneri e politicanti da macchietta lì ad applaudirsi addosso mentre sostituiscono via via piazzole di sosta a case, parchi, monumenti. In questi anni molta parte dell'opposizione ai progetti di autosilo, specie nella zona più centrale, si è focalizzata su aspetti storici, estetici, di vivibilità, e va benissimo. Esiste però anche un'altra prospettiva, spesso un pochino sorvolata, ed è quella della coerenza rispetto a processi evidentemente in corso. La modernità farlocca pervicacemente inseguita o sbandierata dal centrodestra forse si sposa con quella idea di città automobilistica, di New York anni '20 de noantri, che permeava di sé i piani di epoca fascista e in parte anche il periodo dalla ricostruzione al boom. Oggi crolla il ruolo centrale del veicolo privato a motore, si afferma una idea diversissima di mobilità urbana, e dulcis in fundo tra le tante cose del dibattito sull'Expo è ritornata a galla l'idea per nulla peregrina di scoperchiare la Cerchia dei Navigli. Quel gruviera sforacchiato del Sant'Ambrogio Central Box, con tutte le sue centinaia di piazzole pateticamente vintage, sta all'interno della cerchia, raggiungibile teoricamente solo scavalcando un poetico ponticello: che senso ha? Forse quello di accogliere a braccia aperte la sera i rampolli della Brianza suburbana, intossicati insieme dal mito del Suv e della movida? Anche di questo, bisognerà ricordarsi, a lungo (f.b.)

Rispunta dopo un periodo di velo pietoso su un'area lasciata all'abbandono, il progettone simbolo del centrodestra urbanistico, che sia l'ennesima volta buona? Dal tono, parrebbe proprio di no, almeno riguardo ai vantaggi per la città. Corriere della Sera Milano, 27 giugno 2014, postilla (f.b.)

Santa Giulia si presenta al mercato. Dopo il lungo stop imposto dalla magistratura e dopo aver affrontato una profonda crisi finanziaria e la successiva ristrutturazione dell’assetto societario, il gruppo Risanamento propone il nuovo masterplan dello sviluppo edilizio e urbanistico di circa 450 mila metri quadrati a sud-est di Milano, oltre Rogoredo.

Il piano presentato ieri all’ultima giornata di Eire-Expo Italia real estate, la fiera del settore immobiliare, è sostanzialmente lo stesso già illustrato (a fine gennaio) al Comune e prevede nuove residenze, un nuovo museo tecnologico dedicato ai bambini (al posto della prima idea di un centro congressi), un’arena per spettacoli ed eventi sportivi e un parco urbano che diventerà il secondo più grande della città con 330 mila metri quadrati di verde. L’idea dei progettisti dello studio Forster+Partners è quella di un quartiere «aperto» e non separato al resto della città, grazie ai collegamenti viari e di trasporto pubblico, da un lato con Rogoredo e dall’altro con la zona di viale Ungheria e via Bonfadini «Il meglio della città, insieme al meglio del verde», è lo slogan suggerito dall’architetto Luis Matania, insieme all’immagine di una zona capace di vivere «24 ore su 24» per effetto delle molte funzioni commerciali e terziarie e del reticolo di strade strette e «promenade » pedonali. Nella parte Sud dell’area, inoltre, è prevista a breve la consegna del raddoppio (altri 20 mila metri quadrati) dell’insediamento di Sky tv.

«Abbiamo pensato a una città che punta sull’integrazione di due dimensioni chiave — spiega Davide Albertini Petroni, direttore generale Risanamento e amministratore delegato di Santa Giulia —: sostenibilità e smartness, traducendo in proposte concrete il concetto di smart city». Ma subito dopo spiega anche che una priorità è «trovare operatori interessati al progetto e preparare un piano da presentare al mondo immobiliare», oltre a «trovare partner che possano investire». A fine marzo, infatti, è scaduta la clausola di esclusiva di Idea Fimit, la società di sviluppo immobiliare che aveva manifestato interesse a una partnership con Risanamento su Santa Giulia. Resta quindi aperto il nodo della ricerca di nuove «forze», dopo le traversie finanziarie e le cessioni di alcuni asset, tra i quali l’area Falck.

Il progetto, inoltre, è in attesa di approvazione da parte del Comune di Milano e «con gli enti competenti quali Arpa e Asl si sta iniziando il processo di confronto per la procedura delle bonifiche, visto che la zona si trova su una ex area industriale della Montedison — spiega ancora il direttore generale — con l’obiettivo di iniziare i lavori nei primi mesi del 2016 e di concluderli in un periodo di almeno 7 anni dall’inizio del lavoro delle gru». Insomma, c’è ancora un po’ di strada da percorrere prima di vedere completato questo nuovo pezzo di città, che ha già conosciuto una gestazione tormentata, con il lungo sequestro giudiziario del parco che adesso è stato riconsegnato alle 1.400 persone che già abitano a Santa Giulia.

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Condividiamo le conclusioni dell'articolo: eh si, c'è ancora un bel po' di strada da fare, soprattutto per capire, o provare a capire, quale sarà lo sbocco a regime, anche nei suoi effetti non solo urbanistici sul contesto circostante, del progettone simbolo degli interessi privati che, da soli, avrebbero dovuto scagliare la metropoli nell'orbita luccicante del postmoderno, dove tutti sono fotomodelle, designers, cantanti e intrattenitori, intenti a relazionarsi in una specie di shopping mall eterno e ubiquo. Ci restano invece ancora quegli eterni disegni, urbanisticamente identici, di un quartiere che fa poco per quanto gli sta attorno, e che segrega anche al proprio interno le zone di serie A da quelle di serie B, col parco a fare da cuscinetto. E restiamo sempre e comunque, a vent'anni e passa dal suicidio (qualcuno se lo ricorda ancora, no?) di Raul Gardini, travolto da quell'idea di passaggio dall'industria alla rendita immobiliar-finanziaria-tangentara, sospesi nel limbo delle decisioni degli speculatori. Consolandoci, si fa per dire, con l'ennesimo rendering dell'archistar, mentre vorremmo camminarci dentro, nella città futura, tanto per gradire (f.b.)
p.s. Digitando nell'Archivio “Santa Giulia” nel motore di ricerca interno, o magari semplicemente sfogliando le pagine della sezione Milano, tanti particolari in più

L'innovazione spaziale, come quella tecnologica, non funziona senza adeguato supporto organizzativo: forse stiamo cominciando a capirlo per un aspetto essenziale della struttura dei quartieri. La Repubblica Milano, 10 giugno 2014, postilla (f.b.)

Le scuole comunali apriranno le porte ai cittadini, ospitando corsi, attività sportive e altre attività alla fine dell’orario di lezione. Palazzo Marino ha varato l’ufficio “Scuole aperte” che coordinerà e aiuterà le scuole a organizzarsi. L’esempio è il comprensivo Cadorna, che già accoglie corsi sportivi e culturali, e persino un mercato della Coldiretti con prodotti a chilometro zero. L’idea dell’amministrazione è di replicare l’esperimento in più istituti possibile.

Le scuole che spalancano le porte e fanno rete per diventare un patrimonio a disposizione dei quartieri e della città. Con le palestre dove organizzare attività sportive per grandi e piccoli. Aule e biblioteche che accolgono incontri culturali e cineforum. Cortili che ospitano mercati di frutta e verdura a chilometro zero. A Palazzo Marino apre l’ufficio “Scuole aperte”, un quartier generale che coordinerà asili, elementari e medie per trasformarli in luoghi d’incontro aperti a tutti quando i bambini non sono a lezione. Il primo passo era stato fatto un anno e mezzo fa, con una bozza di modifica del regolamento degli edifici scolastici comunali per concedere spazi alle associazioni, uniformando tariffe e norme.

Un documento però accantonato: «Ci siamo resi conto che non era lo strumento giusto — spiega Chiara Bisconti, assessore al Benessere e al Tempo libero — c’erano scuole troppo all’avanguardia che ne avrebbero risentito negativamente, e altre così arretrate e chiuse che l’avrebbero vissuta come un’imposizione. Una soluzione univoca non andava bene ma abbiamo continuato a lavorarci: c’è dietro una ricchezza sociale enorme per la città». Da qui, una nuova strada: la creazione di una cabina di regia che aiuterà le scuole a organizzarsi, partendo da modelli di riferimento che già funzionano. A capo dell’ufficio “Scuole aperte”, in sinergia con l’Ufficio scolastico regionale, c’è il preside del comprensivo Cadorna, Giovanni Del Bene, che del concetto di scuola come patrimonio comune ha fatto un cavallo di battaglia. Il suo istituto è aperto fino a tarda sera per corsi di danza e di nuoto, dibattiti, corsi di italiano per stranieri, proiezioni di film e mercati della Coldiretti in cortile.

Durante la settimana come nel weekend, nelle vacanze di Natale come nei mesi estivi. «Cercheremo di diffondere la nostra esperienza a tutta la città — spiega Del Bene — ci metteremo a disposizione dei presidi, valuteremo le proposte delle associazioni e le ricadute che possono avere sul territorio». L’idea è replicare in più istituti possibile quelle pratiche che hanno permesso a Milano di diventare capofila del progetto del Ministero dell’Istruzione che punta a estendere questo modello in tutte le regioni d’Italia. Il 16 giugno all’istituto Cardano ci sarà il sottosegretario all’Istruzione, Roberto Reggi, al convegno organizzato proprio su questo. Verrà lanciato il primo forum nazionale delle scuole aperte che si terrà in autunno a Firenze. «Sono tantissime le scuole che lo fanno già, con un fortissimo ruolo sociale sul territorio — spiega l’assessore alla Scuola, Francesco Cappelli — la nuova sfida è creare una rete che le metta in comunicazione e permetta un’ulteriore crescita».

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Forse non è un caso che questa idea delle scuole al centro dei quartieri fosse emersa durante la campagna per le primarie, sostenuta dall'urbanista Stefano Boeri: la cosiddetta neighborhood unit è cosa che (purtroppo non sempre, diciamo a volte) si studia nelle facoltà di Architettura, e sta al centro del dibattito novecentesco sulla dimensione ottimale della parte di città legata alle funzioni quotidiane e relativi servizi. Almeno dagli anni '30 in poi in tutto il mondo, dal paradigmatico progetto di Radburn in New Jersey, attraverso le New Town britanniche fino ai nostri quartieri INA-Casa e altro, l'unità di vicinato si struttura fisicamente come raggio di percorrenza pedonale proprio a partire dal complesso delle scuole. Con una fondamentale lacuna: a differenza di altre attrezzature come il verde e lo spazio pubblico, la scuola funziona solo per la didattica, ha i suoi tempi morti molto estesi, e si apre esclusivamente per eventi eccezionali, come le elezioni. Mentre nell'idea originaria del sociologo Clarence Perry, derivante da studi del 1913 a Chicago, perfezionati dieci ani più tardi nel piano regionali di New York, le funzioni dell'edificio scolastico sono multiple e articolate sulle esigenze dei cittadini di tutte le età. Una iniziativa da seguire quindi, quella del comune di Milano, che non a caso già si propone oltre i confini. Qualche particolare in più e alcuni link ai documenti originali tradotti, in un articolo su Millennio Urbano (f.b.)

L'ennesimo articolo che fa promozione immobiliare – presumibilmente indebita - all'ormai noto progetto di Porta Nuova a Milano, ma forse per via dell'ansia scivola nel ridicolo. Corriere della Sera, 7 giugno 2014, postilla (f.b.)

A Milano c’è un cantiere (il più grande d’Europa) che si avvia alle battute finali: è quello di Porta Nuova. Un complesso di uffici, abitazioni, servizi e collegamenti nati in un’area che era una «terra di nessuno» nel mezzo della città. Oggi, che i lavori sono in buona parte completati, il bilancio può essere considerato positivo. Merito, forse, anche della gestione del piano urbanistico e dei progettisti chiamati a lavorarci: architetti e studi di livello internazionale, che grazie alle loro esperienze in ogni angolo del pianeta, hanno introdotto una varietà di stili ma anche un’innovazione tipologica e tecnologica che hanno contribuito al successo. I milanesi che passeggiano con grande curiosità tra questi edifici (e si cimentano nel fotografare nuove suggestive prospettive urbane) hanno la sensazione è di trovarsi di fronte a una sfilata di forme, una grande fiera campionaria dell’architettura.

Da un po’ di anni in caso di interventi di questo tipo è diventata prassi abituale chiamare diversi progettisti, assegnando a ciascuno uno specifico intervento all’interno del piano generale. Una scelta che non porta a riprodurre in maniera pedissequa le megalopoli orientali o le metropoli Usa ma reinterpreta edifici e grattacieli adattandoli a una scala urbana più modesta e a uno stile di vita europeo. Un po’ come fece lo studio Bbpr con la Torre Velasca, sempre a Milano, più di 50 anni fa.

Uno degli esempi più noti, di questo «modus operandi» è quello di Renzo Piano per la riqualificazione di Potsdamer Platz a Berlino nel 1992: l’architetto genovese definì il programma di intervento, dando indicazioni su volumi edificabili e materiali utilizzabili, riservandosi la realizzazione di otto edifici e chiamando altri progettisti per le restanti costruzioni. Da Hans Koolhoff, che ha disegnato la torre affacciata sulla piazza, a Helmut Jahn, che ha ideato la sede Sony, il risultato è una zona frequentatissima da turisti e berlinesi, che la animano a tutte le ore del giorno e della notte. Questa usanza, di interventi a scala urbana a più mani, ha un precedente storico e famoso: Ludwig Mies van der Rohe, nel 1926, in qualità di vicepresidente del Werkbund che organizzava la II esposizione a Stoccarda, riuscì a farsi assegnare un’altura alla periferia della città per dare vita a un quartiere modello, il Weissenhof, in cui chiamò a cimentarsi le «archistar» dell’epoca: da Le Corbusier a Gropius, da Behrens a Scharoun. Furono 16 gli architetti invitati a dare il meglio di sé: non c’è stata una progettazione d’insieme e i vari edifici sono stati semplicemente accostati. Anche se va precisato che lo scopo del Weissenhof, non era tanto di creare un «bel» quartiere, quanto di definire nuove tipologie e schemi abitativi per l’edilizia popolare. Il tema della varietà però, fu perfettamente centrato, perché, al di là di alcune caratteristiche (edifici bianchi, non allineati al filo stradale e separazione tra traffico pedonale e veicolare), il rione manteneva tratti unitari riconoscibili senza che per questo si venisse a creare monotonia o addirittura l’effetto straniante del «superblocco» (edilizio) di stampo sovietico.

Un’immagine alienante che peraltro è molto presente anche sull’altra sponda dell’oceano, in America: fin dal dopoguerra gli interventi di lottizzazione periferica statunitensi, hanno portato alla realizzazione di interi quartieri impiegando una semplice tipologia di villetta monofamiliare (o bifamiliare) con il suo bravo giardinetto, il vialetto, l’alberello e l’immancabile berlinona nel box, ripetuta praticamente all’infinito. Il risultato è uno degli aspetti più inquietanti dell’«American way of life». Un’abitudine peraltro niente affatto tramontata, se si pensa ad esempio a uno dei nuovi quartieri di West Palm Beach, in Florida. Evidentemente, alla «middle class» a stelle e strisce piace così.

La tendenza attuale è quella di chiamare un certo numero di progettisti per introdurre quella molteplicità che, altrimenti, produrrebbe l’effetto di «quartiere-ghetto» se affidata ad un’unica matita. In Italia, nel dopoguerra, ci sono state fasi altalenanti, ad esempio in occasione della ricostruzione postbellica: in alcuni casi sono stati raggiunti risultati eccellenti (come il quartiere Ina-Casa Tiburtino, di Ridolfi, Quaroni, Fiorentino e altri 9 architetti) in altri, invece, decisamente scarsi tanto da coniare le definizioni di «case-alveare» o, appunto, «quartiere-ghetto». Ma allora, la bontà del risultato finale è merito della bravura degli architetti, della loro sensibilità progettuale e dell’apporto multiprofessionale? Sicuramente è così. Resta il fatto che, sia negli interventi di edilizia intensiva (grattacieli) o estensiva (quartieri di villette), quando i progettisti lavorano con coscienza e abilità, lontano da preconcetti ideologici, politici e alla larga da teorie ed esperimenti di edilizia sociale (vedi Corviale, Scampia e Zen) il risultato è (quasi sempre) di buon livello.

postillaOrmai il quartiere del “grattacielo più alto d'Italia” del Bosco Verticale eccetera, dove come ci spiega puntiglioso l'Autore i progettisti lavorano “lontano da preconcetti ideologici e politici” conta innumerevoli tentativi di promozione immobiliare travestiti da articoli. Il developer ovviamente ringrazia, ma in questo caso dovrebbe ringraziare molto meno il lettore, trascinato per i capelli dentro il temerario accostamento fra questo privatissimo progetto a suon di architar e dintorni, e il catalogo di architettura modernista rappresentato dal Weissenhof di Stoccarda negli anni '20, quando (spiegateglielo, all'Autore) ideologia e politica erano pane quotidiano per gli architetti e la società riformista della Repubblica di Weimar, con rispetto parlando. Ma la vera madornale sciocchezza di questo spot pubblicitario sta nel non scritto, probabilmente nel rimosso: giusto a Milano, più o meno a mezza strada nel tempo tra Weissenhof e Porta Nuova, c'è un equivalente catalogo di architetture moderne, opera collettiva dichiaratamente ispirata all'originale tedesco, e che ben più del privatistico catalogo di appetiti immobiliari attuale ne ripercorre lo spirito. Si chiama QT8, e anche se non si conosce la storia della Ottava Triennale che gli dà il nome, basta guardare le fermate della Metropolitana per scoprirne l'esistenza, e magari farci un giro. Ma il ritmo frenetico della vita moderna all'inseguimento dei traballanti valori immobiliari probabilmente non concede questo lusso, oppure la sola idea di citare quell'opera “comunista” ripugna al rampollo del conformismo rampante? (f.b.)

«Ogni opi­nione, natu­ral­mente, è lecita; però dire che Expò sarà una colata di cemento, men­tre l’eredità di Expo sarà un parco di quasi 50 ettari, uno dei più grandi d’Europa, non ha niente a che vedere con il legit­timo dissenso». Il manifesto, 22 maggio 2014 (m.p.r.)

Ho letto l’articolo di Guido Viale su Expo e sic­come il suo giu­di­zio è costruito anche su infor­ma­zioni ine­satte, credo sia mio dovere cor­reg­gerle e spie­gare le scelte della mia ammi­ni­stra­zione. Ogni opi­nione, natu­ral­mente, è lecita; però dire che Expo sarà una colata di cemento, men­tre l’eredità di Expo sarà un parco di quasi 50 ettari, uno dei più grandi d’Europa, non ha niente a che vedere con il legit­timo dissenso. Parto anch’io dalla cam­pa­gna elet­to­rale per ricor­dare che nel pro­gramma della coa­li­zione, voluto da tutti i par­titi che mi soste­ne­vano — da Prc a Sel al Pd — non c’era scritto da nes­suna parte che Milano avrebbe abban­do­nato l’Expo.

Anzi, c’era scritto che si trat­tava di un appun­ta­mento irri­nun­cia­bile. Certo, tutti, a comin­ciare da me, pro­met­te­vano un Expo ben diversa da quella descritta nell’articolo di Guido Viale e que­sta pro­messa è stata mantenuta.

Expo non sarà sem­pli­ce­mente un’esposizione uni­ver­sale; sarà una vetrina di con­te­nuti. Come a Kyoto si sono get­tate le basi per com­bat­tere i cam­bia­menti cli­ma­tici, a Milano in occa­sione di Expo, quando avremo qui 140 Paesi, get­te­remo le basi di una nuova e più sana poli­tica ali­men­tare che lotti con­tro la fame nel mondo, gli spre­chi ali­men­tari, l’accaparramento dei ter­reni agri­coli dei paesi poveri, che sia per l’acqua bene comune, per la soste­ni­bi­lità della catena alimentare.

Leggo equi­voci anche sul dopo Expo. Su quelle aree – che non abbiamo scelto noi — non ci sarà nes­suna spe­cu­la­zione edi­li­zia o finan­zia­ria. Il 54 per cento del sito sarà desti­nato a verde e la restante parte ad un grande pro­getto, scelto attra­verso un bando tra­spa­rente e aperto a tutti, che abbia anche una uti­lità pub­blica. Lascito di Expo sarà anche una sto­rica e bel­lis­sima cascina mila­nese, la Cascina Triulza, ristrut­tu­rata dopo anni pro­prio per que­sta occa­sione. Sarà la sede del volon­ta­riato, della coo­pe­ra­zione inter­na­zio­nale, delle Ong, dell’associazionismo sociale. Un sede per­ma­nente, defi­ni­tiva, che rimarrà anche dopo il 2015. E la Dar­sena, il vec­chio porto di Milano, sarà ria­perto dopo decenni di abbandono.

In momenti dif­fi­cili come que­sti, con­fesso che non trovo per niente da snob­bare nem­meno la pos­si­bi­lità di avere oltre 200 mila posti di lavoro. O gli effetti posi­tivi sul Pil e sull’occupazione che con­ti­nue­ranno fino al 2020, gene­rati da un indotto che sarà di dieci miliardi di euro.

Comun­que, anche per me, sono i con­te­nuti l’aspetto più impor­tante. E in que­sto abbiamo avuto for­tuna: l’Expo, per una que­stione di repu­ta­zione inter­na­zio­nale, avremmo dovuto farla comun­que, a meno di non fare davanti al mondo la figura di una repub­blica delle banane, però farla sul tema della nutri­zione ci con­sente di avere un peso su un tema fon­da­men­tale. E su que­sto, forse a Viale è sfug­gito, stiamo lavo­rando con le migliori intel­li­genze, a par­tire pro­prio da Car­lin Petrini che con Slow Food avrà un ruolo deci­sivo sui temi car­dine dell’Esposizione.

Credo che Viale giu­di­chi la città in base a degli ste­reo­tipi: vero che il Salone del Mobile è un momento magni­fico. Ma, caro Guido, c’è anche altro: Book City riem­pie la città di eventi legati alla let­tura e avre­sti dovuto essere con noi la set­ti­mana scorsa, quando il pro­getto Piano City ha acceso la città di oltre tre­cento con­certi in ogni angolo di Milano. Tutte ini­zia­tive legate ad ‘Expo in città’. Avre­sti visto – e non è un’esagerazione – per­sone felici, come saranno felici le per­sone che lunedì saranno in Piazza Duomo per ascol­tare gra­tui­ta­mente la Filar­mo­nica della Scala.

Diciamo che il modello–salone, nell’accezione di coin­vol­gere il mag­gior numero di per­sone pos­si­bili, di toc­care con ini­zia­tive ogni zona della città, di fare cul­tura dif­fusa, è il nostro modello. E così sarà, natu­ral­mente, per Expo, quando Milano sarà una città ancora più acco­gliente, alle­gra, aperta. Pronta a rice­vere tante per­sone che arri­vano da tutto il mondo, non certo per scam­biare affari, ma per scam­biare cono­scenza e imma­gi­nare un futuro migliore per tutti.

Capi­sco che nes­suno sia pro­feta in patria, però per uscire da un certo pes­si­mi­smo cosmico, sug­ge­ri­sco di dare una scorsa ai gior­nali stra­nieri: ieri era­vamo su Le Monde, apprez­zati per avere vinto un pre­mio impor­tante dell’Ocse, primi tra tutte le città euro­pee. Una sorta di ‘Oscar’ per quanto abbiamo fatto e stiamo facendo per la mobi­lità soste­ni­bile. Siamo stati chia­mati a far parte dei C-40, le città lea­der nelle poli­ti­che ambien­tali. Ci chie­dono il know how per la rac­colta dif­fe­ren­ziata visto che siamo insieme a Vienna al livello più alto tra le grandi città d’Europa. Insomma, non mi sem­bra affatto che abbiamo perso un’occasione. Piut­to­sto, l’occasione, abbiamo saputo coglierla, ora dob­biamo col­ti­varla insieme a tutte le forze sane del Paese. Altro che cemento…

«Expo e corruzione. Sfilarsi dal progetto, scegliere il modello "fuori salone", decidere di seguire l’idea di Petrini sulla trasformazione del parco agricolo di Milano. Invece ha vinto la colata di cemento.Il manifesto, 20 maggio 2014
Come per De Magi­stris, Zedda e Doria anche il sin­daco Pisa­pia era stato eletto sull’onda di una mobi­li­ta­zione straor­di­na­ria per par­te­ci­pa­zione, entu­sia­smo, crea­ti­vità. Pisa­pia doveva porre fine alle male­fatte di Leti­zia Moratti. E tra quelle tante male­fatte la peg­giore è senz’altro l’Expò: un “Grade evento” fatto di “Grandi Opere” che non hanno alcuna giu­sti­fi­ca­zione se non distri­buire com­messe, incas­sare tan­genti e tenere in piedi un comi­tato di affari impre­gnato di cor­ru­zione e di mafia che aveva già deva­stato la città per anni. Si badi bene: le tan­genti sono una con­se­guenza e non la causa.

Se ci fos­sero solo le tan­genti, il ter­ri­to­rio non ne rice­ve­rebbe danni irre­pa­ra­bili. Il vero danno sono le Grandi opere, la deva­sta­zione del ter­ri­to­rio e delle rela­zioni sociali; e il modello di busi­ness di cui sono frutto, fon­dato sull’indifferenza per le esi­genze delle comu­nità locali, sullo stra­po­tere di ban­che e finanza, sul subap­palto del subap­palto, che apre le porte alle mafie, sul pre­ca­riato (e ora anche sul lavoro gra­tuito) che hanno fatto dell’Expò il labo­ra­to­rio dell’Italia di Renzi; e, ovvia­mente, anche sulla corruzione.

Avendo ere­di­tato l’Expò dalla Moratti, Pisa­pia si era impe­gnato a ren­derla comun­que meno pesante pos­si­bile. Ma ha tra­dito quel man­dato. Non è in discus­sione la sua one­stà, né la sua buona fede; lo sono le sue scelte. Appena inse­diato è stato tra­sci­nato a Parigi da For­mi­goni per sot­to­scri­vere gli impe­gni con l’Ufficio Inter­na­zio­nale dell’Expò. Da allora l’Expò ha preso il posto dei pro­getti pre­sen­tati in cam­pa­gna elet­to­rale, alcuni dei quali san­citi dalla vit­to­ria di sei refe­ren­dum cit­ta­dini (senza seguito). E con l’Expò ha comin­ciato a dis­sol­versi quell’ondata di entu­sia­smo e di spe­ranze che aveva por­tato Pisa­pia in Comune.

Oggi in città la par­te­ci­pa­zione, che era stata la grande pro­messa di quella cam­pa­gna elet­to­rale, è a zero. E le forze che si erano impe­gnate per soste­nerlo – e soprat­tutto i gio­vani, e tra i gio­vani i cen­tri sociali — sem­brano ormai orien­tate a non votare nem­meno più: per nes­suno. E’ que­sto l’effetto peg­giore di quel tradimento.Poteva andare diver­sa­mente? Cer­ta­mente sì. Ma solo con un taglio netto nei con­fronti della cul­tura domi­nante: il pen­siero unico; il refrain del “non c’è alter­na­tiva”.

L’osservanza dei vin­coli di bilan­cio e del Patto di sta­bi­lità che stran­gola i Comuni per costrin­gerli a sven­dere suolo, beni comuni e ser­vizi pub­blici locali; e a repri­mere la par­te­ci­pa­zione della cit­ta­di­nanza. E tut­ta­via la Giunta non si è sen­tita le mani legate quando si è trat­tato di stan­ziare 480 milioni (ma forse molto di più, per­ché molte opere gra­vano su altre voci del bilan­cio) per fare l’Expò.

«Sarà un rilan­cio per l’economia per tutto il paese», ci hanno detto uno dopo l’altro Prodi, Ber­lu­sconi, Monti, Letta e Renzi. Ma c’è qual­cuno che vera­mente ci crede? Gli ultimi Expò, con l’eccezione di Sivi­glia, sono stati un bagno di san­gue per le città e i paesi che li hanno ospi­tati. «Sarà il rilan­cio dell’immagine dell’Italia nel mondo» ripe­tono. Sì, ma dell’Italia come il paese più cor­rotto dell’Ocse, e forse del mondo.

Lo si poteva capire dall’inizio. Due anni per nego­ziare l’organigramma senza nem­meno sapere che cosa fare vera­mente dell’Expò fanno capire a tutti qual era la posta in gioco. Adesso ci vogliono far cre­dere che i mana­ger al ver­tice dell’Expò erano ignari di tutto. Se dav­vero lo fos­sero, sono stu­pidi e incom­pe­tenti, e certo non meri­tano le cen­ti­naia di migliaia di euro del loro sti­pen­dio. Se non lo erano, com’è ovvio, non lo era nean­che chi li ha messi lì.

Eppure Pisa­pia le alter­na­tive le aveva: quando si è inse­diato, basta­vano 20 milioni di euro di penale (una “baz­ze­cola” rispetto a quelli che ci costerà l’Expò) per sfi­larsi dal pro­getto. Le ragioni per farlo non man­ca­vano: nell’epoca di inter­net una espo­si­zione uni­ver­sale è un’idea stu­pida; e da tempo le Expò sono bagni di san­gue: si aspet­tano milioni di turi­sti stra­ric­chi dall’estero e poi biso­gna fare appello alle visite scon­tate dei con­na­zio­nali per risol­le­vare un po’ i bilanci; d’altronde, “nutrire il pia­neta” con una colata di cemento non è un’idea geniale o innovativa.

La seconda opzione era l’Expò dif­fuso (sul modello del “fuori salone” abbi­nato da anni alla fiera del mobile, che ha sem­pre molto suc­cesso). A Pisa­pia quel pro­getto glielo aveva messo in mano un gruppo di archi­tetti, desi­gner e urba­ni­sti che ci lavo­rava da tempo (c’è anche una pub­bli­ca­zione in pro­po­sito); sarebbe costato molto meno, non avrebbe com­por­tato penali, e i soldi spesi sareb­bero ser­viti per ren­dere più bella la città; ma più dif­fi­cili e meno remu­ne­ra­tive spe­cu­la­zione e corruzione.

La terza opzione era seguire i sug­ge­ri­menti di Petrini: nutrire Milano per inse­gnare a nutrire il pia­neta. Cioè pro­muo­vere la tra­sfor­ma­zione del parco agri­colo Sud Milano, il più grande d’Europa, in un giar­dino col­ti­vato a frutta e ortaggi, per ali­men­tare le mense gestite dal Comune (80.000 pasti al giorno); per pro­muo­vere una rete di Gas (gruppi di acqui­sto soli­dale, tra­sfe­rendo a costo zero il know-how di chi un Gas lo sa fare, per­ché lo ha già fatto, a chi vor­rebbe farlo e non sa da dove comin­ciare; magari con un piz­zico di pro­mo­zione); per inse­gnare a tutti a magiare meglio e a chi lavora la terra a tra­sfor­marla in vera ric­chezza; e poi, por­tare i visi­ta­tori a vedere quel mira­colo.

Invece si è scelto il cemento: per rea­liz­zare la cosid­detta “pia­stra” (un nome, un pro­gramma), cioè la sede espo­si­tiva dell’Expo, che all’inizio doveva essere un grande orto; loca­liz­zan­dola per di più, unico caso per tutte le Expò, su ter­reni pri­vati da com­prare a caro prezzo, per poi costruirci sopra tanti stand di cemento che dovranno poi essere demo­liti. E si è scelto l’asfalto; per­ché per far arri­vare i visi­ta­tori stra­nieri si è dato il via alla costru­zione di tre auto­strade periur­bane, come se i milioni di visi­ta­tori cinesi, sta­tu­ni­tensi e austra­liani attesi arri­vas­sero in auto­mo­bile da Bre­scia, Lodi o Varese. Natu­ral­mente tutto in pro­ject-finan­cing; ma in attesa dei soldi di pri­vati e ban­che che non arri­ve­ranno mai, si è comun­que prov­ve­duto a scas­sare il ter­ri­to­rio in vari punti lungo le tra­iet­to­rie di que­ste auto­strade per met­tere tutti di fronte al fatto com­piuto: in qual­che modo quei soldi dovranno sal­tare fuori, per­ché intanto il danno è fatto.

Dul­cis in fundo, il pro­getto ini­ziale pre­ve­deva un canale navi­ga­bile per farvi arri­vare in barca i visi­ta­tori - le “vie d’acqua” - paral­lelo a un navi­glio leo­nar­de­sco, come segno di sfida tra “moderni” e “anti­chi”. Nel corso del tempo quel pro­getto si è tra­sfor­mato in una fogna in cemento di due metri di lar­ghezza, per far defluire le acque della fon­tana che ornerà la “pia­stra”. Poi si è deciso di inter­rarne una buona parte per far fronte alle pro­te­ste degli abi­tanti di alcuni quar­tieri. Ma il costo è rima­sto immu­tato (80 milioni) e l’appaltatore pure (Mal­tauro, quello delle maz­zette); anche se il pro­getto non sarà comun­que pronto per l’Expo.

Poi c’è il “dopo”. Che fare di tutto quel cemento? Pro­blema risolto: For­mi­goni e Maroni vole­vano farci le Olim­piadi. Ma Roma ha detto no. Pisa­pia ha ripie­gato su uno sta­dio. Non che a Milano uno sta­dio, man­chi. C’è; si chiama San Siro. Ma gra­zie a una legge appro­vata dal governo Monti oggi fare uno sta­dio vuol dire poter costruire alber­ghi, case, cen­tri com­mer­ciali, par­cheggi, disco­te­che e cinema mul­ti­sala: cioè altro cemento. Finan­ziato dalle stesse ban­che che, per con­ce­dere i nuovi pre­stiti, pren­de­ranno in garan­zia, come fanno da tempo, i grat­ta­cieli vuoti già edi­fi­cati con i pre­stiti pre­ce­denti, che quei costrut­tori, quasi tutti in ban­ca­rotta, non sono in grado di rimborsare.

Il pro­blema vero che tutti i cit­ta­dini di Milano e d’Italia si pon­gono è invece que­sto: quante altre cose mera­vi­gliose si sareb­bero potute fare con i miliardi dell’Expò? Ma è una domanda che a Pisa­pia non ha fatto nessuno.

Verso il Castello. Foto F.B.

Botta e risposta sul monumento “effimero” (non si sa quanto) che dovrebbe accogliere il visitatore nel suo percorso dalla città storica verso il sito espositivo e i suoi contenuti culturali. Fulvio Irace e Giancarlo Consonni si schierano rispettivamente pro e contro le scelte progettuali. La Repubblica, 8 e 10 maggio 2014, postilla (f.b.)

L’EXPO GATE ASCOLTA ILCUORE DELLA CITTÀ

di Fulvio Irace

Sabato 10 maggio sarà il giorno della riconciliazione tra Milano e il cantiere dell’Expo: alle 17.30 una parata musicale da piazza San Babila raggiungerà via Beltrami, nella zona di Piazza Castello, dove sarà consegnato alla città Expo Gate, il complesso dei due padiglioni gemelli che funzioneranno da infopoint della manifestazione e, si spera, da centro di rianimazione di un’operazione che sino a questo momento è apparsa a molti tanto problematica quanto nebulosa. Nonostante la sua trasparenza, il Gate di vetro e metallo non sarà tuttavia il Cristal Palace di Milano: progettato dall’architetto Alessandro Scandurra, può essere infatti considerato come un sincero contributo alla storia di Milano capitale del Moderno: laboratorio di un progetto che ancora non è si arreso agli stereotipi del pensiero unico e anzi sfrutta i pochi spazi ancora a disposizione per rivitalizzare una tradizione che la nuova Milano di porta Garibaldi e dell’ex Fiera ha cercato di sterilizzare e rendere del tutto obsoleta.

Per quanto marginali e temporanei, i due padiglioni di Scandurra ci danno una misura di come sarebbe potuta essere Milano se la sua pianificazione fosse stata più meditata e meno succube alle esigenze del Real Estate e dei capitali globali. Cos’ha di particolare l’Expo Gate che i milanesi dovrebbero imparare ad apprezzare, se non amare? Innanzitutto la devozione di un pensiero progettuale che non parte da una forma stravagante da vendere come scatola delle meraviglie per indigeni ingenui. Il progetto è semplice e al tempo stesso sottile e complesso. Parte dal luogo e cerca di dare una risposta alle esigenze di rivitalizzazione di un’area che funzionava più o meno da parcheggio o da crocevia caotico di traffico. La pedonalizzazione dell’area del Castello ha trovato così una giustificazione e una gratificazione per i cittadini che rinunciando all’auto troveranno il piacere di una piazza che mette in evidenza la visuale del rettilineo di via Dante con i suoi corollari monumentali. Un commentario, insomma, sulla città ottocentesca del Beruto, ma anche alla visionarietà del grande piano del Foro Bonaparte dell’Antolini, che rende omaggio a uno dei punti più consolidati dell’urbanistica milanese. I due padiglioni gemelli sono infatti inclinati in modo da lasciare sempre aperta questa visuale e anzi rafforzare l’asse tra la Torre del Filarete, la fontana e la statua di Garibaldi. Questo gesto suggerisce un metodo di intervento basato sulla suggestione del famoso libro dedicato a Milano da Alberto Savinio: “ascolto il tuo cuore città”.

Folla il giorno di inaugurazione. Foto F.B.

Fa parte di quest’ascolto anche la forma dei padiglioni: due triangoli di sottili aste metalliche che fanno pensare a prima vista a un castello di carte o al gioco di bastoncini shangai. Subito dopo affiorano alla mente, però, i disegni del Cesariano che nel 1521 mostrava le geometrie triangolari del Duomo di Milano come un miracolo di equilibrio tra verticalismo gotico e armonie rinascimentali. Ma si pensa anche agli allestimenti razionalisti della vicina Triennale dove Albini e Persico negli anni Trenta sfidavano le leggi della gravità disegnando impalcature di tubi sottili per sostenere immagini ed oggetti. Di questo va reso grazie a Scandurra: di aver tenuto alta la posta e restituito un’immagine di Milano né conservatrice né pacchiana. Sembra poco? Basta spostarsi in piazza San Babila con il suo funesto baldacchino per la vendita di maglie e gadget per decidere la risposta.

CHE SCEMPIO QUEI CASELLIDAVANTI AL CASTELLO

di Giancarlo Consonni

Verrebbe da scegliere il silenzio. Perché, dopo questo mio intervento, chi ha responsabilità di governo della città potrà ribadire la formula auto-assolutoria: «È un progetto di rottura, e come tutti i progetti di questo tipo possono piacere e non piacere». Solo che scempio e rottura non sono sinonimi. Dopo le rotture — gli accanimenti littori e la spregiudicatezza postbellica a celebrazione del mito della capitale economica — questa nostra Milano, un tempo cultrice di una bellezza riservata (Alberto Savinio), ha visto moltiplicarsi gli scempi, piccoli e grandi, in misura esponenziale.

La bruttezza dilagante sta diventando il marchio di una fase storica iniziata con la dismissione industriale (e la Milano da bere), di cui non si intravede la fine. Eppure Fulvio Irace (nel suo intervento pubblicato su Repubblica Milano di giovedì 8 maggio) dice che i due organismi gemelli dell’Expo gate firmati da Alessandro Scandurra sono il segno di una svolta. Parto da Carlo Emilio Gadda che, con Savinio, è l’altro grande interprete novecentesco dell’anima di Milano. Si legge nell’Adalgisa: «Valerio ed Elsa, nella luce di un pomeriggio bramantesco, poterono involarsi alla folla, e alla guardatura della sfavillante lanterna filaretiana, che li aveva seguitati fin là, cioè fino allo sbocco di via degli Orefici nella piazza del re a cavallo, e del duomo».

Qui Gadda rende omaggio a Luca Beltrami: a quel falso storico che è il Castello Sforzesco, il capolavoro architettonico- urbanistico che ha consentito a Milano di trovare una degna conclusione all’asse di via Dante e di muoversi in direzione di un rinnovato policentrismo. Una linea su cui il Novecento non ha saputo/voluto proseguire (con conseguente indebolimento dell’armatura urbana). Bene: fin da via Orefici, man mano che si procede verso il fulcro della torre “del Filarete”, i “caselli” di Scandurra manifestano il loro carattere di corpi estranei: sono due ospiti invadenti e ottusi, sbagliati sul piano urbanistico come su quello architettonico.

Piazza Castello necessitava di essere sottratta alla funzione di parcheggio che l’aveva degradata? Certamente; ma l’operazione avrebbe dovuto limitarsi a un’adeguata sistemazione della pavimentazione e delle sedute che ne esaltasse il doppio carattere di interno urbano e di soglia. Per il resto l’architettura di questo spazio era già ottimamente definita sui quattro lati.

Viene rispettata la simmetria rispetto all’asse via Dante-Castello? Questo non garantisce alcunché dal momento che i due bianchi gemelli di ferro e vetro si oppongono al luogo. Lo occupano spaccandolo: forzano la prospettiva in senso assiale, quando qui l’interazione di quanto c’è già è ben più ricca e complessa. Per questo il vuoto non andava riempito: occorreva solo favorire l’interazione dialogica e sinfonica delle presenze che lo strutturano come un palcoscenico: i fulcri del Castello e del monumento equestre a Garibaldi e le testate dei due grandi circus del Foro Bonaparte (architettura raffinata nell’impaginato quanto negli accostamenti materico-cromatici, perfettamente integrata dai possenti bagolari). I due intrusi sono sbagliati anche sul piano architettonico. Velleitaria combinazione di ludico e gotico, non riescono a mascherare la loro natura di parvenu. Quanto è lontana la leggerezza armoniosa dell’architettura di ferro e vetro con cui l’Ottocento ha costruito esposizioni, biblioteche e giardini d’inverno.

postilla

Expo Gate verso via Dante. Foto F.B.

Senza nulla aggiungere o togliere alle considerazioni sulla forma urbana dei due illustri studiosi, va sottolineato quanto non solo il loro approccio sia deliberatamente teorico-critico, ma anche che essi sviluppano i propri ragionamenti a partire dai rapporti fra progetto, contesto, storia. In pratica, anche indipendentemente dalle specifiche scelte degli Autori, le cose di cui parlano non possono basarsi anche, eventualmente, sul modus operandi “a regime” dell'Expo Gate, inaugurato insieme all'operativa pedonalizzazione di Piazza Castello dalla giornata di sabato 10 maggio. Ebbene, quello che accade operativamente, in questa giornata in cui la solita folla di milanesi e city users si sposta sull'asse Duomo-Sempione, è che quel portale rappresenta un vero e proprio tappo, visivo come sottolinea Consonni, ma anche e soprattutto rispetto ai flussi. Il sistema della pedonalizzazione sull'ultimo tratto di via Dante, di fatto si interrompe in una serie di strettoie, per iniziare di nuovo a respirare, visivamente e letteralmente, nella nuova piazza ancora in attesa di sistemazione e arredi. Se questa scelta è deliberata, si tratta di una patente sciocchezza. Se, come si spera vivamente, dopo l'evento quella discutibile ingombrante architettura verrà smontata, e la torre del Filarete restituita a chi si avvicina dalla direzione del Duomo, magari si potrà discutere quale soluzione di continuità pensare, per uno spazio in effetti forse un po' troppo vasto per la sola libera circolazione dei pedoni. Qualcuno dal Comune aveva insinuato tempo fa “stiamo lavorando per rendere definitivo l'Expo Gate”, beh: si riposi un po', ha già lavorato a sufficienza, e fatto abbastanza danni così (f.b.)
p.s. vista l'esplosione dello scandalo tangenti più o meno in contemporanea all'inaugurazione della struttura, la scelta del nome "ExpoGate" si rivela nefasta

La nuova urbanistica (che ha un cuore antico): «Ciò che conta non sono più i contenuti delle scelte insediative e pianificatorie, ma la loro funzionalità a muovere il business immobiliare da spartirsi». Inviato a eddyburg il 10 maggio 2014

“Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto…». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop.”

Così scrive G.A. Stella nell’editoriale del Corriere della Sera del 9 maggio scorso. Parole sante, cui ci sarebbe poco o nulla da aggiungere, se non fosse che mettendo sullo stesso piano inefficienze, litigi e ripicche, ritardi e deroghe nella procedura attuativa dei progetti con il terreno germinativo di quelle distorsioni, e cioè ciò che Francesco Indovina nel bel titolo di un suo libro del 1993 ha icasticamente definito “la città occasionale”, si rischia di oscurare la radice originaria su cui quelle distorsioni trovano modo di attecchire e prosperare e cioè la sostanziale sfiducia in un progetto di lungo periodo della città, fondato su scelte collettivamente discusse e condivise, ciò che costituisce il nucleo fondativo del pensiero urbanistico moderno. Non è un caso che le pratiche corruttive all’ origine dell’ondata di arresti non riguardino solo il progetto di Expo 2015, maturato originariamente dalla collusione della lobby politico-affaristica di Cl-Compagnia delle Opere annidatasi contestualmente nella conduzione politica e dirigenziale dell’assessorato all’urbanistica del Comune di Milano - tenuto dai ciellini Lupi prima, durante la sindacatura Albertini,e Masseroli poi, durante la sindacatura Moratti -; della lunga presidenza del ciellino Formigoni alla Regione Lombardia e infine della presidenza di Fondazione Fiera, consegnata da Formigoni al ciellino Luigi Roth.
Roth, con la straordinaria valorizzazione immobiliare consentitagli dal Comune di Milano nella vendita dell’area dismessa del vecchio recinto fieristico in città, ha trovato le risorse non solo per completare il nuovo polo fieristico di Rho-Pero, ma anche quelle per acquisire a basso costo le aree a destinazione agricola su cui oggi si sta attuando in modo raffazzonato l’evento Expo 2015, dopo averle cedute a prezzo quasi decuplicato alla società regionale Arexpo. La medesima distorsione corruttiva, con il coinvolgimento più o meno delle stesse figure dirigenziali nelle istituzioni e stessi referenti del mondo della sussidiarietà, cooperazione e imprenditoria di vario orientamento politico si ritrova, infatti, anche nella vicenda della Città della Salute a Sesto San Giovanni (comune da sempre amministrato dalle sinistre) quasi a forza ficcata nello strumento-veicolo delle aree pubbliche del piano di valorizzazione immobiliare dell’ex acciaieria Falck, che, in deroga al PRG, ha ottenuto gli stessi assurdi indici edificatori dell’ex Fiera di Milano, come ormai giudizialmente accertato grazie alle facilitazioni mediate dall’ex sindaco Penati, a seguito dei contributi erogati dalla proprietà immobiliare alla sua Fondazione “Fare Metropoli”.
La scelta di realizzazione a Sesto di una nuova cosiddetta Città della Salute per riallocarvi integralmente gli istituti scientifico-ospedalieri di Milano (Neurologico Besta, Istituto Nazionale Tumori, ecc.) ora insediati nel quartiere Città Studi e che avrebbero potuto più utilmente trovare spazio alle proprie esigenze di riassetto funzionale in aree pubbliche, oggi sottoutilizzate e attigue alle sedi esistenti, appare, quindi, più che altro un’opzione orientata ad alimentare una catena di prospettive immobiliari (il passo successivo sarebbe inevitabilmente quello del riutilizzo immobiliare delle vecchie sedi liberate in città). Ciò favorisce la possibilità di condizionamento corruttivo da parte di ambiti imprenditoriali clientelari delle varie tendenze politiche, e non, viceversa, una scelta insediativa razionalmente individuata dalle pubbliche amministrazioni nel pubblico interesse.
Le vicende giudiziarie di questi giorni ne sono la coerente conseguenza e non un incomprensibile episodio dovuto ad avidità o debolezze umane di singoli individui. Certo la fretta necessitata forse ad arte dai ritardi procedurali e il conseguente allentamento dei controlli di legittimità sono un’ulteriore facilitazione al prevalere della spartizione clientelare dei frutti del condizionamento corruttivo, ma la ragione di fondo è la sudditanza della pianificazione pubblica ad esigenze particolaristiche, cosa che ormai caratterizza quasi indifferentemente amministrazioni locali di qualsiasi colore politico a fronte di bilanci pubblici sempre più asfittici e condizionabili da economie esterne.
Ciò che conta non sono più i contenuti delle scelte insediative e pianificatorie, ma la loro funzionalità a muovere il business immobiliare da spartirsi. É ciò che si profila all’orizzonte per il destino finale dell’area dell’Expo 2015, dopo l’evento intitolato al tema “Nutrire il pianeta” (un grande tema sfruttato come mero pretesto per giustificare i cambi di destinazione d’uso, dato che trascura completamente il rapporto tra settore agro-alimentare e modi di produzione sul territorio) nel semestre maggio-ottobre 2015, che quasi certamente si concluderà con un clamoroso “flop” di affluenza dei visitatori ed un enorme deficit di bilancio.
Ciò servirà a giustificare la necessità di rivendere l’area ad uno scalpitante mondo della sussidiarietà cooperativistica ansioso di nuove occasioni in campo edilizio e dei servizi sociali, in particolare su un’area resa accessibile dall’infrastrutturazione per l’evento Expo, ma quanto mai isolata dal resto del contesto sociale ed urbano. Un vero e proprio feudo per il rilancio di collateralismi negli ultimi decenni ormai svaniti nella crisi di credibilità della politica propriamente detta. Solo con questo orizzonte allargato di considerazioni potremo evitare che episodi come quelli di questi giorni tornino nuovamente ad apparirci come imprevedibili e sorprendenti.

Gli arresti per tangenti Expo illuminano di luce sinistra anche il grande progetto “itinerante” per anni nell'area metropolitana. Corriere della Sera Milano, 9 maggio 2014, postilla (f.b.)

Di nuovo sanità e affari sporchi. Stavolta il tentativo è stato quello di spartirsi illecitamente appalti per quasi 350 milioni di euro. Sono quelli del più importante progetto di edilizia sanitaria d’Italia, la Città della Salute, da ieri al centro dell’ennesima bufera giudiziaria. Con un’infilata di sette arresti, per un totale di 19 indagati. È una nuova Tangentopoli all’ombra di Expo? Di sicuro, per quanto riguarda la sanità, adesso più che mai viene messo a nudo il sistema di assegnazione degli appalti in Lombardia. Un sistema dove gli interessi bipartisan si saldano per dividersi le torte milionarie dell’edilizia sanitaria e della fornitura dei servizi ospedalieri no core (appalti per le pulizie, la ristorazione, la lavanderia).

Emblematica a tal proposito è l’iscrizione, ieri, nel registro degli indagati del super manager delle cooperative Claudio Levorato, 54 anni, alla testa di Manutencoop, colosso del facility management. Proprio Manutencoop, insieme con l’impresa di costruzione Maltauro, avrebbe dovuto vedersi assicurata la vittoria dell’appalto per la progettazione definitiva ed esecutiva della Città della Salute, con la relativa gestione dei servizi ospedalieri non sanitari. È a questo che dovevano portare gli accordi sottobanco tra l’ex politico dc Gianstefano Frigerio & C. e Antonio Rognoni, alla guida di Infrastrutture lombarde (la holding che gestisce gli appalti pubblici per conto del Pirellone), già arrestato a marzo in un altro filone d’indagine. Negli atti della Procura, ora, viene fatto chiaramente riferimento alla ripartizione politica che sta dietro la costituzione della cordata (ati) creata per partecipare alla gara d’appalto.

In questo caso ci sono aspetti penali: ma il meccanismo di accordi bipartisan per l’aggiudicazione degli appalti sanitari svelato dall’indagine giudiziaria in corso, in Lombardia è una costante, anche se non ci sono prove di illeciti. Due gli esempi su tutti. Già nel 2009 il ministero dell’Economia aveva messo sotto accusa gli affari che ruotavano intorno al Niguarda, un’operazione da oltre un miliardo di euro che ha visto per protagoniste la Nec Spa (vicino a Cl) e la Progeni Spa (legata alle cooperative rosse). E, in una ricostruzione realizzata dal Corriere nell’estate 2012 sulla lobby degli appalti in sanità, veniva documentato come le società degli uomini vicini all’allora governatore Roberto Formigoni (Mario Saporiti e Fabrizio Rota) saldassero i loro interessi con quelli delle coop.

Con l’arresto di Antonio Rognoni lo scorso marzo anche la gara per la Città della Salute si è bloccata. E adesso la nuova indagine allunga pesanti ombre sull’intero progetto, che prevede il trasloco nell’ex area Falck di Sesto dell’Istituto dei tumori e del neurologico Besta. Si andrà avanti lo stesso, anche a costo di rifare da zero la gara d’appalto? Il progetto già da tempo è al centro di un altro interrogativo: l’opera edilizia è necessaria a migliorare le cure dei malati o l’unione dei due ospedali è un business immobiliare? Gli interessi in gioco sono notevoli: la Città della Salute è prevista su un’area di 210 mila metri quadrati all’interno de gli 1,5 milioni di metri quadrati delle acciaierie ex Falck, acquistate dalla SestoImmobiliare dell’imprenditore Davide Bizzi. La presenza dell’Istituto dei tumori e del Besta servono come volano per lo sviluppo dell’intera area. Nel frattempo l’altro affare, quello delle bonifiche (vale 50 milioni), è in mano all’azienda Ambienthesis riconducibile alla famiglia Grossi. Lui, il patron Giuseppe Grossi, scomparso nel 2011, era finito in carcere per le bonifiche di Santa Giulia.

postilla
In questo sito, molto probabilmente, basta scrivere la parola “salute” nella finestrella del motore di ricerca interno, per ripercorrere alla luce degli ultimi eventi almeno parecchi indizi di una vicenda che non aveva, non poteva avere, sviluppi lineari davvero comprensibili, se non appunto nella logica distorta che pare emergere dalle indagini. Ogni occhiello, ogni postilla, e tanti, troppi contraddittori passaggi di quegli articoli, raccontano criteri surreali, di pura facciata, a volte oltre la spudoratezza, per le scelte localizzative di questa fantomatica Città della Salute, quando non addirittura per la logica della sua esistenza. Milioni di metri cubi che schizzavano inopinatamente qui e là per l'area metropolitana, su e giù per le Tangenziali, ma oggi si scopre che seguivano forse invece i percorsi delle Tangenti. Un progetto di riorganizzazione sanitaria e della ricerca che, secondo il parere anche di molti operatori di prestigio, non avrebbe neppure avuto necessità di interventi edilizi e urbanistici, almeno su quella scala e rilevanza, ma che al contrario vedeva in primissimo piano, quasi esclusivo, proprio le trasformazioni urbane e la loro localizzazione. Una storia decisamente surreale, dove la Salute svolgeva un ruolo di puro paravento, per interessi e appetiti di ben altra natura. Non a caso più o meno identica a quella parallela di Expo, dove al posto della Salute c'è l'Alimentazione, ma oggetto del contendere sono metri quadri, appalti, tracciati … Già (f.b.)

p.s. Rinnovando l'invito a scrivere "Città della Salute" nel motore interno di ricerca Eddyburg, propongo ad esempio questo articolo dedicato agli interessi sottesi, ripreso dal Fatto Quotidiano di un anno e mezzo fa circa

Una manifestazione e un dossier sulle inarrestabili fortune di un complesso post-industriale nato e cresciuto vigorosamente all'ombra della "Larghe intese" e della greeneconomy. Il manifesto online, 5 maggio 2014

Una grande abba­iata per imi­tare il coro di una­nime plauso che acco­glie ogni ini­zia­tiva di Oscar Fari­netti, il patron di Eataly, il pre­sti­gia­tore dell’autentico made in italy. Il flash mob #lagran­deab­ba­iata è stato orga­niz­zato sabato 3 mag­gio dalla rete mila­nese Atti­tu­dine NoExpo: Euro­may­days and The Ned, Macao, Off­to­pic, La terra trema, San pre­ca­rio, Zam, Lam­bretta, Boc­cac­cio, Farro e fuoco, Rimake, Rima­flow, all’ex tea­tro Sme­raldo, oggi Eataly Milano, in Piazza XXV Aprile a un passo da Corso Como.

Sme­raldo, il tea­tro chiuso da un parcheggio

Pro­prio quello inau­gu­rato il 18 marzo scorso, per il momento cono­sciuto per le pole­mi­che sol­le­vate dalla ristrut­tu­ra­zione. Eataly si è affi­data all’impresa “Costru­zioni euro­pee” di Peru­gia che ha subap­pal­tato una parte dei lavori di ristrut­tu­ra­zione dello Sme­raldo a una ditta romena, la Cobe­tra: 25 ope­rai, di cui uno spe­cia­liz­zato in restauri e un solo capo­ma­stro. Secondo la Filca Cisl, gli ope­rai romeni avreb­bero per­ce­pii sti­pendi da fame: 500–800 euro per 40 ore set­ti­ma­nali. Eataly ha soste­nuto di essere all’oscuro di que­sto subap­palto. Sul suo Libro Unico del lavoro lo sti­pen­dio men­sile dei mura­tori era di 2100 euro men­sili, con­tri­buti inclusi. L’importazione del per­so­nale a basso costo dalla roma­nia sarebbe avve­nuto a sua insaputa.

Lo Sme­raldo era un tea­tro che a Milano ha ospi­tato Cats, il Fan­ta­sma dell’opera, Evita, David Bowie, Astor Piaz­zolla e Spring­steen. Oscar Fari­netti, pro­prie­ta­rio di Eataly lo ha rile­vato da Gian­ma­rio Lon­goni che ha cer­cato di sal­vare il tea­tro dal fal­li­mento. Lon­goni ha rice­vuto lo Sme­raldo da un lascito di fami­glia, una di quelle anti­che e nobili della Brianza. L’ex gestore del Ciak di Milano lo rilevò che era un cinema porno, por­tan­dolo ad essere un luogo per una pro­gram­ma­zione più consona.

Una vicenda tor­men­tata, quella che ha por­tato il tea­tro a chiu­dere, e poi ad essere acqui­stato da Fari­netti. Aperto il 28 luglio del 2006, e ter­mi­nato nel luglio 2012, il can­tiere per i box di piazza XXV Aprile ha dimez­zato la clien­tela e gli spet­ta­coli del tea­tro. Ste­fano Boeri lan­ciò dallo Sme­raldo la sua can­di­da­tura, Giu­liano Pisa­pia fece il punto sulla sua giunta pro­prio qui. Lon­goni ha detto di essere stato lasciato solo dall’amministrazione di centro-sinistra. Ha detto anche di essere stato schiac­ciato dalla con­cor­renza sleale degli altri tea­tri che tra l’altro per­ce­pi­vano aiuti pub­blici, men­tre lui ha cer­cato di fare da solo,da impren­di­tore indipendente.

Una brutta sto­ria, e tri­ste, che parla della com­mi­stione tra cul­tura e spet­ta­colo, unico stru­mento per far soprav­vi­vere un tea­tro dove i fondi pub­blici sono sem­pre più esi­gui e sem­pre più nelle mani di pochi.

Apo­lo­gia del tem­pio del gusto

Da quando la cultura-spettacolo-Tv, quella per inten­dersi degli spet­ta­coli di Bri­gnano o Pana­riello a tea­tro, è stata inte­grata e rico­di­fi­cata nel nuovo del made in Italy — Eataly — i tea­tri sono diven­tati i pos­si­bili con­te­ni­tori di una forma di mar­ke­ting aggres­sivo e vin­cente. Come lo Sme­raldo a Milano oggi, o il Tea­tro Valle a Roma. Tre anni fa, prima della sua occu­pa­zione, voci insi­stenti par­la­vano di una sua tra­sfor­ma­zione in un “tem­pio del gusto” Eataly, con dire­zione arti­stica a cura di Ales­san­dro Baricco.

Sulle ceneri dello Sme­raldo, la cul­tura della tra­di­zione gastro­no­mica ita­liana diventa l’alto cibo — hanno spie­gato i pro­mo­tori della pro­te­sta mila­nese — nel cen­tro di uno dei quar­tieri più gen­tri­fi­cati di Milano si pro­clama al con­sumo (di classe!), come se la cul­tura non avesse spa­zio nel pro­getto di una città da Expo. E che con­sumo: la tra­di­zione della terra diventa pro­dotto di élite, stando attenti che il fascino del locale, del tra­di­zio­nale, del pro­dotto buono, sano e giu­sto, rimanga intatta.

Decine di per­sone hanno ulu­lato con­tro la “grande abba­iata” del con­senso verso il “fascino del locale”, una forma per­va­siva del con­senso poli­tico che lavora sull’immaginario di un paese in crisi, che ago­gna un posti­cino nella “com­pe­ti­zione” sui mer­cati glo­bali, ma non sa cosa vendere.

Fari­netti, che è un impren­di­tore poli­tico post­for­di­sta, lavora sul bran­ding, e ha avuto un’idea: biso­gna ven­dere l’immagine del paese-che-ama-il-buon-cibo, un paese otti­mi­sta per­ché la fatica, i sacri­fici, la crisi non aiu­tano a ven­dere. E così ha inter­pre­tato il desi­de­rio di riscatto delle classi domi­nanti (quelle che pen­sano che “la cul­tura è il petro­lio d’Italia” o che l’Italia è un mera­vi­glioso paese dove tutti devono stu­diare da cuo­chi o came­rieri e lavo­rare in un ristorante.

Feno­me­no­lo­gia Eataliana

Acqui­stando tea­tri, ex cen­tri della logi­stica (come il Cen­tro Agro Ali­men­tare Bolo­gnese — CAAB — una sorta di mer­cati gene­rali nella zona nord di Bolo­gna dove sor­gerà “Eataly WORLD”, forse per sot­to­li­neare le ambi­zioni degli inve­sti­tori ceduto dal comune senza con­tro­par­tite per costruire il F.I.C.O.), grandi palazzi o ex sta­zioni abban­do­nate come a Roma, Fari­netti inter­preta la pro­pria impresa al cen­tro di un pro­getto di civi­liz­za­zione urba­ni­stica. Riqua­li­fica i vec­chi immo­bili, ne tra­sforma la sto­ria, la incor­pora nella pro­pria impresa poli­tica e intende nobi­li­tare la città dove lui porta lavoro e il suo iper­mer­cato di cose buone e costose.

Un mondo bello, curato, pulito, in cui tutto-va-bene — spie­gano ancora i pro­mo­tori del flash mob — ci pro­pon­gono uno stile di vita accat­ti­vante, in cui non c’è spa­zio per il disor­dine, il dis­senso, la cri­tica. Ci ane­ste­tizza. Come una pas­seg­giata in Corso Como, come i grat­ta­cieli di Porta Nuova, ci sug­ge­ri­sce non solo un’idea della città, ma anche un’idea di ciò che noi dob­biamo essere e di come noi dob­biamo vivere. Di ciò a cui, da brave per­sone, dovremmo aspi­rare. Per que­sto, oggi ulu­liamo. Siamo indi­sci­pli­nati nell’affermare quel che vogliamo essere, fare, come vogliamo vivere la città, quale lavoro vogliamo sce­gliere e con chi lo vogliamo fare. Senza mori­ge­ra­tezza, disor­di­na­ta­mente, e con intel­li­genza: ulu­liamo libe­ra­mente con­tro la grande abbaiata.

Un com­plesso indu­striale trasversale

Il flash mob #lagran­deab­ba­iata è stata una nuova azione di pro­te­sta con­tro l’Expo 2015 ad un anno esatto dalla sua inau­gu­ra­zione. Fa parte di un festi­val d’arte per­for­ma­tivo “Folle agire urbano” orga­niz­zato dal primo mag­gio (giorno della May­day) al 5 mag­gio, ricor­renza dell’occupazione della Torre Galfa a Milano nel 2012 (vedi qui e qui).

In un dos­sier su Slow Food, COOP Ita­lia ed Eataly, Nes­suna fac­cia buona, pulita e giu­sta a EXPO 2015, i movi­menti hanno rico­struito anche la sto­ria di Eataly.

Fon­data nel 2004, l’azienda verrà quo­tata in borsa entro il 2017. Dal 2007 al 2014 le aper­ture di iper­mer­cati sono arri­vate a 25, una metà in Ita­lia, l’altra metà nel mondo. Solo a New York pro­duce un fat­tu­rato annuo con entrate per circa 80 milioni di euro. Nei pros­simi due anni è pre­vi­sta un’altra quin­di­cina di nuove aperture.

La fami­glia Fari­netti pos­siede l’80% di Eatin­vest srl, la finan­zia­ria del gruppo, che a sua volta con­trolla Eataly srl, che ha un fat­tu­rato annuo di 400 milioni di euro. Eataly srl a sua volta que­sta con­trolla la società Eataly Distri­bu­zione srl alla quale par­te­ci­pano COOP, COOP Adria­tica, COOP Ligu­ria, NOVA COOP, per un totale del 40%. Tutti gli store della catena Eataly sono for­mal­mente nelle mani di que­sta terza strut­tura socie­ta­ria alla quale COOP dà appog­gio sul know-how e sull’area della for­ma­zione e del per­so­nale. Eataly srl siede negli orga­ni­grammi di diverse società pro­dut­trici –spesso già pre­sidi Slow Food– la cui merce è ven­duta nei negozi Eataly come le bibite Luri­sia o la pasta Alferta, vini e carni.

Eataly ha ria­dat­tato il modello Auto­grill alle città e con cri­teri qua­li­ta­tivi più alti. Auto­grill man­tiene in un angolo dei suoi store i pro­dotti tipici. Fari­netti ha invece creato spazi enormi fatto di pro­dotti tipici. Se sulle auto­strade il “tipico”, il pro­dotto Dop, è un’eccezione in una risto­ra­zione fatta di panini e pizze uni­ver­sali, a Eataly l’eccezione è la norma. E anche il panino e la pizza hanno il loro posto d’onore nella triade ideo­lo­gica che vede nel cibo ita­liano, e nelle sue mol­te­plici ver­sioni dia­let­tali, le idee pla­to­ni­che del Buono, del Pulito e del Giu­sto. Que­sta è la tri­nità che sta alla base della demo­cra­zia del Gusto pagata a prezzi non certo popolari.

Una tri­nità che uni­sce, nell’impresa fari­net­tiana, Coop, Eataly e Slow-food. Nel dicem­bre 2013, que­sta entità una e trina ha fir­mato con l’amministratore unico di Expo 2015 Giu­seppe Sala un accordo per rap­pre­sen­tare il tema della mani­fe­sta­zione mila­nese: “Nutrire il Pia­neta. Ener­gia per la Vita”. Un blocco di imprese spe­cia­liz­zato in “food-branding”, crea­zione com­mer­cia­liz­za­zione e distri­bu­zione del cibo.

Un com­plesso impren­di­to­riale tra­sver­sale e bi-partisan, dalle ban­che all’edilizia all’editoria e all’università (l’ateneo di scienze della gastro­no­mia di Pol­lenzo vicino a Bra in Pie­monte), e con un’aura di auto­re­vo­lezza in mate­ria ali­men­tare si can­dida cre­di­bil­mente a rap­pre­sen­tare il vero con­te­nuto di un Expo sgan­ghe­rato e mul­ti­mi­liar­da­rio dove, si asfal­tano campi di mezza Lom­bar­dia per costruire strade che con­du­cano al sito di EXPO o si costrui­sce la Via d’acqua che stra­volge i par­chi della cer­chia nord-ovest di Milano (Trenno, Bag­gio, Cave, Bosco in città e aree verdi limi­trofe). Senza con­si­de­rare le prime inda­gini della pro­cura di Milano che nel marzo 2014 ha arre­stato Anto­nio Giu­lio Rognoni, diret­tore gene­rale di “Infra­strut­ture Lom­barde”, già can­di­dato al posto di sub­com­mis­sa­rio di Expo 2015 per una sto­ria di appalti truc­cati, insieme ad altre 8 per­sone. Il giro di appalti a Milano per l’Expo è di 11 miliardi di euro.

Nel marzo 2014 Eatin­vest srl ha ven­duto alla società Tam­buri Invest­ment Part­ners (Tip) il 20% delle quote di Eataly per circa 120 milioni di euro, dove un altro 20% era già pos­se­duto da uno dei soci della di Fari­netti, Luca Baf­figo Filan­geri. Alla Tip par­te­ci­pano alcune delle più influenti fami­glie dell’alimentare ita­liano: Lavazza, Lunelli del vino Fer­rari, Fer­rero.

“Sono spe­cia­liz­zati nelle ope­ra­zioni di borsa e ci accom­pa­gne­ranno alla quo­ta­zione di Eataly nel 2016–2017 — ha detto Fari­netti — E poi per­ché è una società ita­liana: abbiamo rice­vuto molte pro­po­ste da stra­nieri, che ci offri­vano anche di più, ma abbiamo scelto Tip per­ché Eataly deve restare al 100% ita­liana. Inve­sti­remo nell’Expo 2015 e nel nuovo pro­getto Fico.

L’evoluzione di Eataly viene spie­gata nel dos­sier nella cor­nice del capi­ta­li­smo basato sulle grandi opere e sui grandi eventi. Grandi opere come il TAV, il MOSE, e grandi eventi come Espo­si­zioni, Olim­piadi, Mon­diali di sport, Fiere sono il frutto della ricerca di visi­bi­lità, con­senso, ren­dita fon­dia­ria e pro­fitto da parte di sog­getti poli­tici e di gruppi di potere legati alle costru­zioni, alle infra­strut­ture, alle coo­pe­ra­tive, al mondo delle società anche mul­ti­na­zio­nali– che oggi vivono di bandi, con­su­lenze, appalti e fondi pubblici.

Eataly a Sharm-el-Sheik


“Godo quando assumo un gio­vane” ha detto Fari­netti. Molte di que­ste assun­zioni sono a ter­mine. Non solo per­ché Fari­netti è un impren­di­tore ren­ziano che applica alla let­tera la ricetta “moder­niz­za­trice” del suo sodale poli­tico, ma per­ché inter­preta lo spi­rito dell’impresa nel paese dove l’ex capo dell’Alleanza delle Coo­pe­ra­tive, rosse e bian­che, Giu­liano Poletti rico­pre il ruolo mini­stro del Lavoro. Fari­netti ne applica il Decreto lavoro e assume i suoi dipen­denti tra­mite agen­zia inte­ri­nale, con con­tratti a pro­getto o a tempo deter­mi­nato. Molti rice­vono circa 8 euro lordi all’ora, che equi­val­gono a 800 euro netti al mese nel caso di 40 ore set­ti­ma­nali, 500 per il part-time. Poco più, o poco meno, degli ope­rai rumeni che hanno ristrut­tu­rato lo Sme­raldo. Un lavoro all’italiana, un eata­lyan job.
Un eata­lyan job ini­zia sca­te­nando la potenza di fuoco del mar­chio. Gli enti locali fanno di tutto per inca­sto­nare il brand nel loro ter­ri­to­rio. Que­sta è la forza dell’impresa made in Italy: ven­dere il mar­chio affin­ché il ter­ri­to­rio, la città, quell’immobile riac­qui­stino valore nell’immaginario. Si dichiara uno stato di emer­genza e le pro­ce­dure diven­tano veloci. E’ già suc­cesso a Torino nel 2007 dove l’allora sin­daco Chiam­pa­rino con­cesse gra­tui­ta­mente a Fari­netti l’ex fab­brica della Car­pano per 60 anni, in cam­bio la com­pleta ristrut­tu­ra­zione dell’edificio.
E’ acca­duto a Bari, primo pre­si­dio a sud dell’azienda, nella Fiera del Levante. Un fiera ago­niz­zante, che cerca ogni stru­mento per mone­tiz­zare e pri­va­tiz­zare un’area di 280 mila metri qua­dri a ridosso del porto. Fari­netti è piom­bato sulla città, ha vinto un bando con i suoi soci baresi (tra cui c’è Fabri­zio Lom­bardo Pijola al cen­tro del caso dell’emittente tv Antenna Sud in crisi e con gior­na­li­sti licen­ziati), per una “mostra tem­po­ra­nea” del suo Eataly per sei mesi. Per sei mesi Fari­netti avrebbe stan­ziato 15 milioni di euro? Poco cre­di­bile. Si può invece pen­sare che la for­mula “mostra tem­po­ra­nea” per un immo­bile di migliaia di metri qua­drati è stato lo stru­mento per sospen­dere tutta la “buro­cra­zia” e far aprire le porte al “tempo del gusto”.
L’apertura è stata a tempo di record, le auto­rità locali hanno fatto “mira­coli”, e l’azienda non aveva fatto a tempo a creare un orga­nico defi­ni­tivo. In realtà, Eataly Bari (inve­sti­mento: 15 milioni di euro) aveva un per­messo tem­po­ra­neo di aper­tura di sei mesi, come “mostra-mercato”. E per que­sto non poteva assu­mere a tempo inde­ter­mi­nato. Fari­netti è aggres­sivo. La sua potenza è attual­mente legata ad una buona liqui­dità, ma si regge fon­da­men­tal­mente sulla spe­ranza di creare occu­pa­zione, non importa quale, l’importante è che sia lavoro. Que­sta è la for­mula usata da Renzi e Poletti per far pas­sare il decreto che pre­ca­rizza tutti i con­tratti a ter­mine. Uno stru­mento spac­ciato come la solu­zione con­tro la disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale e di lunga durata.
E poi c’è la debo­lezza dei poten­tati locali stroz­zati dai debiti e dalla crisi. A Bari il blitz di Fari­netti deve avere creato qual­che pro­blema con i ver­tici di una Fiera del Levante. Al punto che ci hanno ripen­sato: “Mai più un caso Eataly” ha detto il 4 feb­braio 2014 al Cor­riere del Mez­zo­giorno il pre­si­dente Ugo Patroni-Griffi. Da domani si pro­ce­derà con il clas­sico bando per fare gestire ai pri­vati 75 mila metri qua­dri per 30 anni. Non è escluso che Fari­netti par­te­cipi anche a que­sti. Lui a Sharm-el-Sheikh porta lavoro in un paese di came­rieri e risto­ranti ad uso turistico.

The Eata­lyan Job

All’inizio di ago­sto 2013, poco dopo il varo della sede barese di Eataly alla Fiera del Levante, la prima in quel Sud che dovrebbe essere come Sharm-el-Skeikh, Cgil-Csil e Uil ave­vano denun­ciato Fari­netti per 160 “assun­zioni fuo­ri­legge”, arri­vate a 180 durante la Fiera a set­tem­bre. Troppi inte­ri­nali e pochi a tempo inde­ter­mi­nato. Era stata vio­lata la legge Biagi che per­mette di assu­mere l’8% di inte­ri­nali con un minimo di 3 e non 160. Poi c’erano 10 con­tratti a tempo deter­mi­nato e 3 indeterminati.

La rego­la­riz­za­zione poi è avve­nuta, i sin­da­cati si sono pla­cati, Fari­netti ha otte­nuto che la sua mostra tem­po­ra­nea diven­tasse permanente.i, anche per­ché il can can è stato intenso e tutti hanno fatto capire a Fari­netti (“quello del Nord”) che la sua atti­tu­dine da colonizzatore-che-porta-il-lavoro-a-Sud doveva con­fron­tarsi con la richie­sta di un lavoro rego­lare. Atten­zione alle pro­por­zioni: 63 a tempo inde­ter­mi­nato, 66 appren­di­sti, 34 a tempo deter­mi­nato, 1 som­mi­ni­strato): 100 su 163 sono lavo­ra­tori a ter­mine. Ma il ter­mine quanto dura?Le assun­zioni sono state fatte secondo le regole del decreto “Letta-Giovannini” per gli under 29, a due con­di­zioni: i “gio­vani” dove­vano essere disoc­cu­pati o avere una fami­glia a carico. Quando entrerà in vigore, il “Decreto Poletti” sta­bi­li­sce che que­sti 100 potranno essere rin­no­vati a ter­mine fino al 2017. Nel mezzo potranno esserci più rin­novi e più pro­ro­ghe. Poi potreb­bero essere assunti.

Sem­pre che Eataly Bari non chiuda prima. Le pro­ie­zioni a 12 mesi par­lano di 10 milioni sui 20 pro­gram­mati. A luglio si faranno i conti. Tra mille distin­guo in città si è ini­ziato a dire che sarà dif­fi­cile man­te­nere l’occupazione. Nes­suno di que­sti lavo­ra­tori è iscritto ai sin­da­cati con­fe­de­rali, nono­stante abbiano vinto una ver­tenza in due mesi. Non è il primo caso di lavo­ra­tori a ter­mine, non sin­da­ca­liz­zati, nelle grandi colo­nie indu­striali create nel sud-senza-lavoro. Può darsi che il clima azien­dale abbia influito. Fari­netti tiene molto a dire che la sua azienda è “una grande fami­glia”. E una fami­glia si gesti­sce da sola i con­flitti e soprat­tutto le com­pa­ti­bi­lità con i suoi “figli”, i lavo­ra­tori. Del resto, “i sin­da­cati sono medioe­vali” ha detto il patron.

Basta con lacci e lac­ciuoli per chi crea lavoro. Piut­to­sto creare “zone spe­ciali”, come in Cina, a sud come nelle metro­poli del Nord, dove il diritto del lavoro viene ridotto alla misura dei con­tratti a ter­mine senza cau­sale. L’obiettivo è col­ti­vare un indi­vi­duo come con­su­ma­tore, utente, visi­ta­tore. O come turi­sta, come sug­ge­rito in que­sti anni dagli stessi ver­tici di Expo 2015 e dai poli­tici ita­liani.

L'intuizione che sta dietro al nuovo modello di mobilità integrata forse rischia di diluirsi in un eccesso di tradizionalismo, se non ci si adatta davvero al tipo di domanda espressa dalla città. La Repubblica Milano, 30 aprile 2014, postilla (f.b.)

La missione più ardua sarà mettere mano a Piazzale Maciachini: “Un vecchio chiosco, due mignotte e sei tombini”, secondo l’efficace sintesi dello chansonnier Folco Orselli. Ma il programma prevede anche il rifacimento di piazzale Loreto, mentre sono in corso i lavori per piazza XXIV Maggio e per la pedonalizzazione “light” di piazza Castello. Vecchie piazze che rinascono e nuove che si affermano, come piazza Gae Aulenti, divenuta nel giro di due anni la “terrazza” chic nel cuore del nuovo skyline urbano. Insomma, un po’ a sorpresa si scopre che il “segno” più forte che l’amministrazione Pisapia sta lasciando è la riscoperta di Milano come una città di piazze, con il conseguente ridimensionamento della città degli incroci, dominatrice dell’orizzonte urbano dal dopoguerra.

È una piccola, ma significativa, rivoluzione figlia di un cambio di paradigma iniziato con l’introduzione di Area C. Se si può mettere mano a luoghi disumanizzati ed emblematici della dittatura del traffico come Loreto e Maciachini, lo si deve al fatto che fra i milanesi si è fatta largo l’idea che il futuro della città si gioca sulla diminuzione del traffico privato. E che la rottura della dipendenza dall’auto come mezzo di trasporto urbano è la premessa indispensabile per una nuova, e riscoperta, vivibilità. Sarebbe bello che la riscossa delle piazze avvenisse con il massimo coinvolgimento dei cittadini e, cassa permettendo, evitando soluzioni provvisorie o posticce.

Su Maciachini e Loreto, per esempio, forse varrebbe la pena indire un concorso di idee a tambur battente. È evidente, infatti, che in questi due casi non ci si può limitare a una semplice riorganizzazione viabilistica o di qualche aiuola. Serve, invece, una rilettura dello spazio che riesca a tenere insieme vivibilità, nuovi servizi e funzionalità (compresa quella di scorrimento del traffico). Farsi prendere dalla fretta — magari imbastendo lavori da chiudere in tempo per l’Expo — può comportare errori, complicazioni nella gestione del cambiamento e conflitti con i residenti. Su Loreto, ad esempio, è stato sperimentato negli scorsi anni un modello alternativo di rotatoria. Può rappresentare la base del nuovo assetto della piazza, ma a condizione di calibrare bene la dimensione di carreggiate e intersezioni semaforiche, per non generare ingorghi. Per lo stesso motivo sarebbe utile poter seguire, passo passo, lo studio del nuovo piazzale Maciachini, inevitabile ed enorme snodo della circolazione nel quadrante Nord, strappando spazi alle auto ma senza immaginare un’impossibile pedonalizzazione globale.

La riconquista delle piazze come luoghi dell’incrocio e dello scambio fra le persone può essere una straordinaria leva della partecipazione civica offerta dalla giunta Pisapia, che su questo punto ha suscitato più di una critica. A patto, però, che si agisca con una regolazione fine. Che non si sottovalutino obiezioni e, anche, contestazioni, come purtroppo sembra stia avvenendo per la pedonalizzazione di piazza Castello. Che, per quel che si è capito, rimarrà uno stradone di dimensioni autostradali, con qualche chiringuito e alcune sdraio.

postilla

Ha perfettamente ragione l'opinionista, a chiedere che l'idea della nuova rete di piazze non venga rovesciata in testa ai cittadini dal chiuso di strutture tecniche e decisioni calate dall'alto, ma dal tono delle discussioni pare emergere anche un altro rischio, ora solo vagamente accennato: un inutile e anacronistico passo indietro, invece di quello avanti che sarebbe necessario, anzi indispensabile per la città in movimento. Naturalmente si capirà meglio poi dai progetti spaziali di riordino, di queste piazze, e dal loro costituire una rete oppure no, ma la domanda di luoghi sostanzialmente assimilabili alla classica piazza italiana pare davvero priva di senso, in una città che in epoca moderna non ne ha mai avute, e non ne avverte alcun bisogno: ambienti per la sosta, il movimento, la pausa; nodi di socialità e relazione, oltre che di flusso e scambio, ma nulla a che vedere col genere di salotti urbani che forse qualcuno sogna. Spazi chiusi e identitari di cui Milano non saprebbe che fare. Qualche osservazione in più su Millennio Urbano (f.b.)

Pare incredibile: fra un anno esatto inizia l'evento Expo, e naturalmente anche il dopo-Expo, ma per quei milioni di “strategici” metri quadrati del sito non si è ancora deciso (pubblicamente) nulla. Corriere della Sera Milano, 29 aprile 2014 con postilla.

Un anno all’Expo significa che tra un anno e un giorno comincerà il dopo Expo. Il milione di metri quadri, dove il primo maggio del prossimo anno aprirà i battenti l’esposizione dedicata al tema «Nutrire il Pianeta Energia per la Vita», potrebbero diventare o un luogo di sviluppo dell’area metropolitana o una landa desolata. A oggi però la sola certezza che si ha sul futuro di quei terreni su cui sono stati investiti molti quattrini pubblici per ripulire, bonificare e infrastrutturare, è che per metà saranno vincolati a verde. E il resto? La società Arexpo, nata appositamente tra Regione, Comune e Fondazione Fiera dopo un travagliato iter per la cessione delle aree (già di proprietà in parte di Fiera in parte della famiglia Cabassi) aveva lanciato un concorso di idee: diversi soggetti avevano partecipato, le proposte migliori erano state selezionate e presentate al pubblico.

Ma stiamo parlando di filosofia. Nessun business plan , nessun investitore interessato formalmente, nessun progetto vidimato dagli uffici dell’urbanistica comunale. Ad avere un po’ più di consistenza pare soltanto l’ipotesi di uno stadio, che il Milan vorrebbe costruire sull’area: ipotesi per altro che piace molto al Governatore Roberto Maroni e su cui invece frena la giunta Pisapia. Lo stadio potrebbe essere una parte di pezzo di un progetto più complessivo: magari all’interno di una Cittadella dello sport che a Milano ancora manca. Certo, il tema dell’alimentazione qui non c’entra nulla. E viene da chiedersi quale sarà dunque l’eredità culturale di un’Expo che ha l’ambizione di presentarsi per quello che non sarà: «Non una Fiera». Se l’idea è davvero di arrivare a definire un protocollo alimentare, sul modello di quello firmato a Kyoto sui temi ambientali, impegnando tutti gli Stati a darsi delle regole in materia di lotta allo spreco, di sostegno alle popolazioni denutrite e di promozione di stili di vita sani, forse almeno un segno tangibile di questo lavoro dovrebbe restare anche dove saranno smontati i padiglioni.

Mentre l’idea dell’orto botanico è del tutto tramontata, o forse non è mai esistita davvero, mentre Bologna sta invece già lavorando al progetto, avveniristico e unico nel suo genere, di un parco agroalimentare che valorizzi le eccellenze del territorio, Milano brancola nel buio. Conosciamo bene i tempi necessari per concedere licenze, superare gli iter burocratici e della politica, avviare un’operazione così articolata: per questo viene da pensare che siamo già in ritardo. A quelli che insistono sul fatto che «intanto cominciamo a fare bene l’esposizione» bisogna rispondere ricordando che il successo di un sistema Paese, quello che questo evento mette alla prova, si misurerà (anche) dal dopo Expo. Serve un’idea illuminata e moderna e serve in fretta. Per questo le istituzioni devono muoversi. Perché manca solo un anno, al dopo Expo.

Postilla

Non esiste, è vero, una decisione nè una strategia "pubblica" per le aree dell'Expo. Ma è facile comprendere le strategie e intravedere i piani dei decisori effettivi - se si conosce il percorso che è intercorso tra la trasformazione dell'area dell'ex Fiera e il progetto dell'attuale Expo, e se soprattutto si conosce il gioco degli interessi che da sempre si muovono dietro le "valorizzazioni" delle aree milanesi. Sui vantaggi e svantaggi - economici, sociali, urbanistici - dell'Expo e sui modi di realizzarla la discussione non ha più molto senso: i giochi sono già fatti e l'amministrazione anche se volesse fare un passo indietro, sarebbe troppo debole per cimentarsi in quest'impresa. Se ne può trarre qualche insegnamento, e proveremo a farlo. Ma la battaglia per il futuro dell'area è ancora aperta. Servirà per contribuire a costruire una "città dei cittadini" o a rendere più vasta, solida e ricca (per i ricchi) la "città della rendita"? Dipenderà in primo luogo dai milanesi. (e.s.)

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