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Un interessante, approfondimento delle valutazioni strategiche, molto diverse tra loro, sul destino degli ex scali ferroviari milanesi: per completare l trasformazione della città in una macchina per arricchire gli straricchi o per renderla più bella, più equa e più sana? arcipelagomilano.org, 3 maggio 2016

I numerosi articoli sul destino degli ex scali ferroviari milanesi pubblicati sul numero della scorsa settimana di ArcipelagoMilano se, per un verso, testimoniano del largo interesse per tale vicenda, per altro verso meritano un approfondimento delle valutazioni strategiche assai diverse tra loro che vi si sono espresse.

Bruscamente interrottasi nel dicembre scorso con la mancata ratifica da parte del Consiglio comunale dell’Accordo di Programma predisposto dall’assessora De Cesaris e sottoscritto dal Sindaco con Regione Lombardia e FS la vicenda è al centro di divergenti valutazioni tra i candidati sindaci Sala e Parisi, da una parte – che vorrebbero riportarlo in approvazione tal quale il prima possibile – e, dall’altra Basilio Rizzo, che ne propone un sostanziale ridimensionamento del carico edificatorio se vi saranno realizzati anche i grandi parchi urbani o, a parità di carico edificatorio, la sua “perequazione” con la proprietà delle aree dove più utilmente quei parchi urbani erano già previsti negli strumenti pianificatori (Parco Sud, Parco Martesana, ecc.), lasciando sugli ex scali ferroviari solo il verde e i servizi di quartiere e alcuni grandi servizi urbani in corrispondenza dei punti di più alta accessibilità. Non è nota al momento la posizione del candidato sindaco del M5S, Corrado.

L’attuale assessore all’urbanistica Alessandro Balducci, pur ammettendo di averlo ricevuto completamente preconfezionato dalla precedente assessora Ada Lucia De Cesaris, comprensibilmente nel complesso lo difende dichiarandosi disponibile a ridiscuterne solo, da un lato, l’insufficiente quota di edilizia sociale e la sua localizzazione troppo “ghettizzata” in ambiti periferici, e, dall’altro, la necessità di una discussione approfondita sullo scenario complessivo dell’insieme degli scali in una visione di sistema nella città piuttosto che come singole occasioni di sviluppo, di cui tuttavia non specifica obiettivi concreti e definiti.

Giorgio Goggi, già assessore al traffico dal 1996 al 2000 nella Giunta Albertini, infatti, fa acutamente rilevare come«tutta la superficie degli scali è stata lasciata alla libera edificazione privata, con quel po’ di verde e di edilizia sociale che non si nega a nessuno» e che «peraltro, la densità prevista dall’accordo di programma sugli scali non è poi tanto moderata», mentre manca una visione di «una città in cui i grandi servizi (ospedali, università, uffici pubblici) sono collocati sulle linee ferroviarie passanti e sulle metropolitane, più centrali ma accessibili in tempi urbani anche da tutta la Città Metropolitana (e da buona parte della Regione)».

Anche Michele Monte rileva come «la negoziazione dell’accordo sul riuso degli scali, nelle sue diverse versioni, è stato fortemente condizionato dalla pressione svolta dalle società del gruppo RFI per la massima valorizzazione immobiliare di quelle stesse aree» senza considerare adeguatamente che «che queste aree, oltre a portare in dote straordinari valori di rendita urbana, se opportunamente pianificate con funzioni qualificate (in particolari di livello sovracomunale) potrebbero essere in grado di spostare quote importanti di mobilità sul trasporto pubblico, con effetti positivi sull’intero sistema facilmente immaginabili».

Infine Emilio Battisti osserva che «le aree liberate dal sedime ferroviario non possono ridursi a delle opportunità immobiliari oltretutto tra loro slegate, ma devono rappresentare l’occasione unica per avviare una nuova fase della trasformazione del territorio, dove i diversi sistemi (trasporto, ambiente, attività economiche) siano integrati un’unica strategia.Ciò potrà avvenire innanzi tutto attraverso la concentrazione dei nuovi insediamenti nei luoghi a elevata accessibilità, grazie all’offerta di trasporto pubblico alle diverse scale, quale modalità privilegiata e sostenibile per supportare lo sviluppo delle attività di una metropoli moderna in rapida trasformazione» e – pur senza mettere in discussione il dimensionamento complessivo di edificabilità e spazi pubblici – propone che «l’insediamento delle funzioni che richiamano elevata mobilità in prossimità delle nuove stazioni, in modo tale che la questione della maggiore o minore volumetria da insediare nelle aree degli ex scali non sia affrontata solo quantitativamente ma considerata caso per caso in relazione alla condizione dei contesti urbani di appartenenza».

A queste considerazioni manifestatesi su ArcipelagoMilano, per lo più critiche sulla mancanza di visione strategica, affianco quelle di Stefano Boeri che, a margine delle iniziative del Fuorisalone del mobile, ha illustrato la sua proposta “Fiume Verde” che sulle aree degli ex scali ferroviari di Milano propone l’obiettivo della realizzazione di grandi Central Park, analogamente a quanto fatto nell’800 a Manhattan e in altre città americane in occasione di dismissioni di aree infrastrutturali.

Concludo ora con alcune mie valutazioni al riguardo. Condivido, innanzitutto le critiche alla mancanza di visione strategica di quella bozza di Accordo con FS e la necessità, invece, di introdurvi opportune concentrazioni di grandi servizi pubblici e edificazioni in corrispondenza dei punti di più elevata accessibilità ferroviaria, ma non che ciò possa essere fatto indipendentemente dalle densità edificatorie complessive previste, che – come giustamente rileva Goggi – “non è poi tanto moderata”, anche se è circa la metà di quella dei PII e del PGT di Lupi e Masseroli, ma che non può considerarsi un termine di paragone ragionevole.

I nuovi investimenti in infrastrutture ferroviarie quali Circle Line (che serve al riequilibrio dei flussi di traffico in ambito urbano) e Secondo Passante (soprattutto se auspicabilmente con poche fermate urbane, mirando al decentramento e riequilibrio tra Milano/area metropolitana e poli regionali) sono auspicabili e necessari. Ciò che non è accettabile è sovraccaricare di edificazione il riuso degli ex scali ferroviari milanesi (come faceva la bozza di AdP della assessora De Cesaris bocciata in Consiglio lo scorso dicembre) in cambio di investimenti da parte di FS in queste infrastrutture.

Quanto alla suadente proposta di “Fiume Verde” Stefano Boeri, come ha già fatto per il suo Bosco Verticale a Porta Nuova, si dimentica di rilevare che con gli indici edificatori contrattati dall’ex assessora De Cesaris con FS gli edifici attorno ai suoi Central Park avrebbero densità persino superiori a quelle di Citylife e Porta Nuova. Con gli indici edificatori e gli spazi pubblici previsti dall’Accordo non ratificato dal Consiglio comunale, la densità fondiaria media arriverebbe al folle valore di 40 mc/mq, proprio come a Manhattan. Inoltre, in quell’Accordo ai 23 mq/abitante di parchi urbani corrispondono solo 6 mq/abitante di verde e servizi di quartiere (meno della metà dei 18 mq/abitante minimi inderogabili per legge e molto meno persino dei 16 mq/abitante realizzati a Citylife e Porta Nuova).

Vi sembra accettabile che gli abitanti di quei quartieri dovessero andare« “in gita ai grandi parchi territoriali” anche solo per portare i bambini a scuola o al parco giochi? Se, invece, si realizzassero come auspicabile 26,5 mq/abitante di servizi di quartiere, al verde territoriale resterebbero solo 3,5 mq/abitante, con buona pace dei Central Park auspicati da Boeri. Se sugli ex scali si vuol fare anche Central Park l’edificabilità di quelle aree deve scendere da 0,65 mq/mq a 0,45 mq/mq (altrimenti gli edifici finirebbero accatastati più che a Citylife e Porta Nuova); se, invece, si mantiene lo 0,65 mq/mq, cioè realizzando solo il verde e i servizi di quartiere, FS può pretenderne solo lo 0,45 e il rimanente 0,20 va “perequato” con le proprietà dove si realizzeranno i parchi urbani territoriali (Goccia/ex AEM, Parco Sud, ecc.).

Sono due strategie entrambe accettabili e da valutare confrontandone pro e contro caso per caso. Invece, dare tutto lo 0,65 ad FS (come voleva l’accordo non ratificato) con anche Central Park sarebbe un disastro! È il gioco delle tre tavolette e il Consiglio comunale ha fatto bene a bocciarlo e i cittadini farebbero bene a non votare Sala e Parisi che vogliono riproporlo tal quale.

Qui, tutti i concorrenti alle prossime elezioni mentono. Ci rintronano con le stesse parole, prima fra tutte “innovazione”, nauseante ... (continua la lettura)

Qui, tutti i concorrenti alle prossime elezioni mentono. Ci rintronano con le stesse parole, prima fra tutte “innovazione”, nauseante da tanto che ce la ripetono in salse diverse invece uguali; poi “attrattività”. Politici di destra e di…, ce ne sono altri? Insomma, Milano già adesso attraente - vedremo chi e cosa - deve aumentarla immantinente, appunto, la famosa propensione a tener le porte aperte. Infatti, è riuscita a cacciar fuori di esse oltre mezzo milione di milanesi, in parte sostituiti, solo per numero e non per funzione, da immigrati per lo più non comunitari.

Quale innovazione? Se la volessero davvero e conoscessero la vicenda storica milanese dovrebbero perorare una curva a U: tornare indietro e ritrovare la condizione della Milano primatista assoluta per la produzione in un gran numero di settori, per il rapporto fra le classi sociali dialetticamente egemoni (numerosa classe operaia «per sé» e forte borghesia produttiva, dominante ma con giudizio, se così possiamo dire), per la cultura della sinistra antidogmatica: come fossero pungolati dal ricordo di un Karl Marx che studiava i primitivi, da cui il principio che il più alto livello di società moderna consisterebbe nella riproduzione in forma superiore di un tipo arcaico di società[i]. Dunque ritorno alla proprietà comunitaria collettiva e ai conseguenti rapporti sociali. Una forma di arcaismo sociale del resto la offrono «luoghi di vita prodotti da una storia più antica e più lenta ove gli itinerari singoli si incrociano e si mescolano»[ii]: come avviene ancora nelle piccole città dove resiste la piazza medievale e il gruppo sociale vi si riconosce e vi pratica relazioni di ogni genere[iii].

Ricostruire ovunque quei rapporti e istituire urbanistiche per spazi coerenti sarebbe utopia rivoluzionaria (ossimoro dovuto)? Se bandissimo persino il solitario piacere di poter pensare sia l’utopia che la rivoluzione introdurremmo anche nel profondo del nostro cervello il germe dell’incurante consentimento verso i contraffatti poteri già penetrato nel cuore. Gli innovatori della domenica, quando un sopravvissuto di quella sinistra riuscisse a raschiare pazientemente il palinsesto della città e mostrasse al mondo la verità della passata superiorità milanese a fronte della loro menzogna, lo farebbero arrestare dai vigili urbani (detti, ora, polizia locale, chiara allusione a più ampi poteri) e carcerare per turbativa del nuovo ordinamento d’obbedienze milanese[iv].

L’attrazione effettiva della città non rientra nel significato che i nostri sembrano attribuire a una parola che non esiste nella lingua; intendono una certa dote speciale, probabilmente riferibile a risorse e a richieste cosiddette immateriali, prodromi di una nuova generazione di affari: tanto per gabellarsi da capintesta preparati, moderni business-leader. Intanto permane l’obbligo a sopportare un faticoso pendolarismo sia per i lavoratori del terziario espulsi nell’hinterland dall’impossibilità di trovar casa a costo ragionevole sia per i loro colleghi già insediati nello sprawl. Niente è cambiato con l’istituzione formale della città metropolitana. D’altronde il richiamo di Milano ha trasfigurato la sua natura: mentre attraverso le famose porte aperte si disperdeva una impareggiabile carica produttiva sociale culturale, vi avanzava inesorabile come jüngeriana tempesta d’acciaio la totale finanziarizzazione dell’economia e della società. Principale preziosa derrata, al posto della produzione di beni e servizi utili, il denaro, unica chiesa la borsa, unico rapporto quello commerciale: comprare e vendere, il denaro poi le merci tipiche del consumismo il più esagerato, in qualsiasi parte del mondo prodotte e confezionate meno che a Milano.

Così entra tranquillamente nella nostra città anche una enorme massa di capitali di mafia, ‘ndrangheta e affini. Denaro che va a ripulirsi mediante investimenti, ritenuti legittimi, nella speculazione finanziaria e soprattutto in attività commerciali aperte appartenenti al circuito di vendita/acquisti più ricco o più frequentato. La magistratura ha segnalato che la mano mafiosa detiene circa il 25% del valore commerciale milanese e che «sul mercato» operano intoccabili gruppi di comando potenti quanto e più della vecchia nomenklatura siciliana o calabrese (o napoletana, pugliese o perché no lombarda). La vox populi dice che quando mangiamo in pizzeria la probabilità di farlo in un locale acquistato o finanziato dalla mafia è almeno del 50%. Questo, tuttavia, è un dettaglio insignificante nel quadro formato da negozi, magazzini, in ogni caso locali per acquisti di merci o per consumi in sito.

Consigliamo di compiere con gli occhi ben aperti rivolti man mano lentamente verso destra e verso sinistra, rischiando il torcicollo, il percorso da Piazzale Loreto a Largo Cairoli, l’asse commerciale più importante e sfavillante della città: Corso Buenos Aires, Corso Venezia, Piazza San Babila, Corso Vittorio Emanuele II, Duomo, Via Mercanti, Piazza Cordusio, Via Dante: circa 4.200 metri. Ebbene, sarete tramortiti dalla visione di non sappiamo quante centinaia se non migliaia di vetrine (anche dehors) dedicate quasi esclusivamente all’abbigliamento e, secondariamente, ai bar-fittizi-ristoranti; ma prima di cadere per terra avrete giudicato impossibile che tutta questa esibizione corrisponda a una realtà di commerci e consumi umanamente usuali, onesti. Meritati diversi giorni di riposo, provate a ripetere l’esperienza limitandola ai 450 metri di Corso Vittorio Emanuele, se riuscirete a muovervi dentro il travolgente flusso di gente.

Noterete la logica della sparizione/sostituzione delle insegne, dei veri e falsi marchi, degli svuotamenti incomprensibili. È la tecnica della mafia e del commercio ballerino poco pulito, l’una per spostare capitali e luoghi, farli girare vorticosamente rendendoli sfuggenti, l’altro per sostenersi in qualsiasi maniera nel grillo fra rischio e fallimento. Aggiungete che esistono molte altre strade commerciali a forte intensità (Corso Vercelli, Corso Torino, Corso XXII Marzo…) similmente trasformate; infine non dimenticate che rivoli derivati dai fiumi si riversano dappertutto: la costituzione di una Milano essa stessa smerciabile vi apparirà in tutta la sua avvilente (per noi) portata. Anche manifestazioni fieristiche come il salone del mobile (niente è prodotto qui), anche l’insistente riferimento al design, una volta glorioso e ora tradito da un liberismo svaccato delle forme (come nell’architettura degli internazionalisti), vi appartengono con perfetta coerenza. Né le decantate sfilate di moda possono sottrarvisi, mentre le più importanti case stanno cedendo il marchio a gruppi stranieri.

Ci dicono che è aumentato in modo esponenziale il turismo. È vero, la folla strascicata dei rutilanti percorsi commerciali comprende stranieri singoli o in gruppo, in maggioranza giapponesi, cinesi, sud-coreani, poi sudamericani, pochi europei… Comprano, spendono. È questo il turismo che vogliamo? Altro che turismo culturale, altro che turismo sociale. Nei luoghi monumentali, visitatori che dovrebbero far gara per goderseli all’esterno e all’interno non se ne vedono. Eccezioni: eccoli nella piazza davanti al Cenacolo, ma nessuno entra in Santa Maria delle Grazie; eppure lì la Tribuna del Bramante ti prende e ti trattiene a percepire quanto l’opera d’immensa arte contribuisca al tuo star bene nell’animo e nel cervello. Ah! il Duomo! Ci vanno in massa, incanalati fra indecorose transenne, pagano l’ingresso e nell’interno altre transenne li suddividono secondo diverse zone, per sorvegliarli e talvolta per concedere un misero diritto alle funzioni. Il milanese che voglia ripassare la propria conoscenza del grandioso spazio nell’insieme e nei particolari è svantaggiato per sempre.

La chiesa di Santa Maria Nascente appartiene in pieno, smaccatamente e volgarmente, al circuito commerciale, alla più vera Milano d’oggi. Sul fianco sinistro la curia ha fatto costruire un sensazionale volume in legno e vetro, sollevato dal suolo e dotato di scalinata. Magliette e gli altri capi d’abbigliamento più appetiti sono appesi ben in vista dietro le vetrate. Una grande scritta sottolinea la destinazione del manufatto, semmai qualcuno dubitasse: DUOMO SHOP. Non basta: raccontano che la forma sarebbe quella delle imbarcazioni che per secoli hanno trasportato i blocchi di marmo dalla Cava di Candoglia per la costruzione della Cattedrale. Su internet si può leggere addirittura: «un punto vendita carico di storia, all’ombra della Madonnina».

Allora, si accomodi Santa Maria Nascente, lasci spazio alla divinità pagana Mercurio, lei autentica protettrice del commercio e delle attività mercantili.

Carla Ravaioli, l’indimenticabile saggista critica del whirl capitalism strangolatore del mondo, non perdonava ai politici e agli amministratori locali l’incapacità o la contrarietà a liberare il turismo dalla soggezione, anch’esso come ogni altra attività individuale e sociale, al processo di assimilazione alla merce, «che sempre più definisce sotto ogni aspetto l’attuale forma del sistema capitalistico, cioè il neoliberismo; il quale solo all’aumento del prodotto finalizza il proprio agire, del tutto trascurandone i contenuti, la qualità, le conseguenze». E osò affermare che anche il turismo inquina (riferendosi, come esempio, allo stravolgimento delle coste italiane causato da un’enorme quantità di costruzioni private)[v].

Concludiamo ritornando ai personaggi in mostra per le elezioni. La loro storia professionale-politica e le prospettive di governo annunciate si conformano senza forzature alla condizione di una città tutta volta alla finanza, al commercio, all’edilizia, questa pur essa commercializzazione, compravendita o affitto in un sistema tutto privato, grazie all’indifferenza degli enti pubblici verso la costruzione di case sovvenzionata. Identici davvero i nostri, edilizia (speculativa) e connessa urbanistica (nemmeno riformista) attrazioni fatali. Sala avocherà a sé l’urbanistica, fra gli scopi un nuovo piano di governo del territorio; Parisi ripartirà dal piano e dalle pratiche dell’amministrazione Moratti-Masseroli (l’assessore che rinunciò nel 2013); intanto Albertini, capolista per Parisi, rivendica un «enorme processo di riqualificazione» della città al tempo di lui sindaco, quando parlava dei «suoi» architetti i migliori del mondo, «i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni» (Hadid, Isozaki, Lebeskind…) o denominava «nostro Central Park» il verde sparpagliato fra i grattacieli sull’area dell’ex Fiera (futura City Life)[vi]. Poi, a rafforzare la figura di una Milano priva di industria manifatturiera e già diventata, al posto di una Roma del passato prossimo, «città della cazzuola», contribuisce il presidente della Triennale De Albertis, numero uno dell’Assimpredil e presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance). Tutto si tiene in una evidente collocazione o spostamento a destra dei (mediocri) maggiorenti.

Terminiamo con la recitazione dei due candidati principali nel ridicolo teatrino di provincia, altro che metropoli. Parisi: Sala è più a destra di me. Giornalista: entrambi sono manager, entrambi sono stati direttori del Comune con amministrazioni di centrodestra, Parisi con Albertini, Sala con la Moratti. Sala: io sono uno che lavora, ha sempre lavorato mentre lui occupava i palazzi romani. Lui è più burocrate, io sono più operativo[vii]. Se questi sono i protagonisti…

[i] Cfr. L. Krader, Quando Marx studiava i primitivi, in «Rinascita», n. 10, 1978, p. 21.
[ii] M. Augé,
Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (orig. Non-lieux, Seuil, Paris 1992), Elèuthera, Milano 1993, p. 63.
[iii] Cfr. L. Meneghetti, Alla ricerca dello spazio perduto (Discorsi di piazza), in
eddyburg, 25 novembre 2006, in «il Grandevetro», novembre-dicembre 2006, poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, politecnica, 2008, p. 15.
[iv] Sulla trasformazione sociale di Milano vedi anche L. Meneghetti,
Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione, in eddyburg, 11 aprile 2015.
[v] C. Ravaioli,
Il turismo inquinante, in eddyburg, 11 aprile 2005. Cfr. anche L.Meneghetti, Coraggiosa Carla Ravaioli. Turismo inquinante, in eddyburg, 22 aprile 2005, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano 2006, p. 11.
[vi] Dal «
Corriere della Sera - Milano», 20 aprile 2006, p. 3.
[vii] Da A. Gallone e O. Liso in «
Repubblica - Milano», 3 marzo 2016.

L'intervista a Giancarlo Consonni tratta dal libro di Antonio Angelillo (a cura di), Expo dopo Expo. Progettare Milano oltre il 2015, Acma, Milano 2015, pp. 102-106.

Quale futuro avrà l’area sulla quale sorge EXPO 2015 una volta terminata la manifestazione? Expo 2015 ha innescato delle trasformazioni di rilevanza urbana all’interno della città di Milano?

L’errore di impostazione è evidente. In primo luogo perché si è scelto di dislocare l’Esposizione su terreni agricoli, quando c’erano aree dismesse (ex-industrie, scali, l’Ortomercato ecc) che avrebbero potuto essere recuperate, con vantaggio per la collettività. In secondo luogo perché, in ogni caso, al dopo Expo si sarebbe dovuto pensare fin da subito, rendendo il prima (l’Esposizione) compatibile con il dopo (il riuso). Si è invece puntato sulla mera creazione di rendita fondiaria.

È opinione di molti che, nel contesto metropolitano, una volta assicurata l’accessibilità trasportistica, una localizzazione valga l’altra. Eppure un ampio ventaglio di fallimenti accumulati negli ultimi decenni proprio nell’area milanese è lì a smentire questo luogo comune. Si può capire (fino a un certo punto) che vi restino aggrappati gli immobiliaristi e le banche; quello che invece non finisce di stupire è l’appiattirsi degli amministratori pubblici su questa impostazione. Come si spiega? La mia risposta è drastica, basata su un bilancio di lungo periodo: le persone a cui, in questi ultimi decenni è stata affidata la tutela del bene pubblico e il futuro della società - nel contesto lombardo, come altrove in Italia - dimostrano un deficit culturale in fatto di condizioni materiali in cui si svolge la vita delle persone. Gli amministratori locali, in particolare, sono del tutto indifferenti alla questione del fare città: chiudono il ragionamento sulla coppia volumi/infrastrutture che, letta in filigrana, sta per rendita/investimento pubblico. Quando invece il fare città dovrebbe essere al centro del fare politica.

È questo l’orizzonte che può spiegare perché si sia arrivati a scegliere per Expo un brandello di periferia metropolitana a ridosso di un cimitero e isolato dal resto del territorio dalle infrastrutture.

Fatta questa scelta sciagurata, a maggior ragione sarebbe stata necessaria un’impostazione capace di assegnare all’area Expo una prospettiva che evitasse la sua assimilazione a quell’immane edificato privo di qualità urbana che è, in molta parte, l’hinterland metropolitano. C’è invece da dubitare che su quest’area possa sorgere un insediamento dotato di qualità urbana: difficilmente quanto è stato fatto è adattabile a un disegno urbano degno di questo nome. Si prenda la piastra “cardodecumanica”, un’infrastruttura di reti primarie (fognatura, acqua, elettricità ecc.) su cui è basato il masterplan dell’Esposizione. Bene: questa “armatura”, la cui elevata concezione tecnologica è stata celebrata da più parti, finirà per condizionare non poco l’assetto futuro, a cominciare dalla dislocazione del verde in una posizione marginale. A cosa serve aver destinato il 54% dell’area a verde, se questo non è organicamente inseribile nell’armatura portante del sistema delle relazioni future? Il risultato, se va bene, sarà l’ammasso di contenitori collocati in rapporto alle infrastrutture di trasporto: tutto il contrario di quello che occorrerebbe perseguire: edifici e spazi aperti pubblici capaci di dar vita, in un’interazione dialogica e sinergica, a luoghi a elevata qualità architettonica e relazionale.

Si mette l’accento su un’emergenza economica: il recupero dell’investimento per la piastra (costata 165 milioni di euro) operata da Arexpo spa, la società proprietaria dell’area in cui figurano il Comune di Milano e la Regione Lombardia (34,67% entrambe), Fondazione Fiera (27,66 % di pura rendita), l’ex Provincia di Milano (2%) e il Comune di Rho (1%). Preoccupa soprattutto la forte esposizione di Arexpo verso le banche (160 milioni), dopo che la prima asta del novembre 2014 - in cui si partiva da una base di 315,4 milioni - ha registrato la risposta negativa del mercato.

Ma, come è evidente, le questioni economiche sono strettamente intrecciate a quelle strategiche. L’appetibilità, che i soggetti pubblici implicati davano per scontata, appare un miraggio. Stando alle proposte fin qui emerse, non si va oltre l’idea di un’iperspecializzazione funzionale coltivata a scala metropolitana. La stessa, per intenderci, che ha dato vita alle “città mercato” e da cui è venuta una forte spinta antiurbana. Che altro è l’idea di una “città della scienza”, avanzata dalla cordata che vede l’Università Statale di Milano alleata di Assolombarda?

Ben diversamente da quanto appare nei resoconti trionfali dei media, le cose non sono affatto semplici. Il rettore Gianluca Vago gioca d’azzardo: pensa che l’ingresso nel risiko immobiliare possa portare quelle risorse che le scellerate politiche governative degli ultimi decenni hanno negato al suo Ateneo (come le hanno negate agli altri atenei d’Italia e all’intero sistema dell’istruzione). Ma già sulla carta, nonostante l’entusiastica adesione del presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni - e, a seguire, degli amministratori di Milano - i conti non tornano. Se ci atteniamo alle stime di massima fornite dallo stesso rettore Vago, lo spostamento della Statale costerebbe 400 milioni, una cifra che, per la metà verrebbe coperta, dalla vendita delle aree di proprietà dell’Università a Città Studi. Qui la semplificazione lascia interdetti su più di un aspetto.

L’Università Statale, soggetto pubblico, per conto del suo massimo rappresentante, si attribuisce il compito di mettere in campo una gigantesca trasformazione urbana, qual è la dismissione degli edifici oggi ospitanti i comparti scientifici dell’Ateneo situati a Città Studi. In più, sembra tornare il metodo inaugurato con il progetto Citylife, dove il Comune di Milano ha retto il gioco dell’Ente Fiera mettendo sul piatto una densità che è il doppio di quella che dovrebbe essere. Un modo di concepire le trasformazioni urbane per cui l’attore, privato o pubblico, sceglie di fatto le linee strategiche, la qualità dei progetti definitivi e addirittura i livelli della rendita. In altri termini: per rendere appetibile agli investitori privati il vasto comparto di Città Studi, si finirà per concedere densità insediative piuttosto alte, innescando un processo difficile da controllare negli esiti, come il caso Citylife dimostra ampiamente.

È elevato il rischio che, ancora una volta, non si facciano i conti con la bolla immobiliare cronica in cui siamo immersi e con lo stallo derivante: i capitali fermi sull’orizzonte della rendita, indisponibili per investimenti strategici che diano nuove energie al contesto metropolitano. Così come è elevato il rischio che l’area Expo si aggiunga al lungo elenco degli interventi non conclusi a Milano e nell’hinterland.

Si dirà che l’area lasciata dall’Esposizione andrà ad arricchire il policentrismo metropolitano. È una visione superficiale: il policentrismo storico era quello delle città e dei borghi e delle loro aree di influenza: una struttura gerarchica, dove la multifocalità era essenzialmente legata all’abitare. Le concentrazioni di attività in agglomerati specializzati di cui è disseminato il contesto metropolitano costituiscono dei frammenti, dove l’energia vitale si dissolve all’interno di contenitori anonimi e non irrora l’insediamento: non fa città. Quelle concentrazioni costituiscono un depauperamento della rete delle città e dei borghi.

Che fare allora dell’area, una volta finita l’Esposizione? Una possibilità potrebbe essere quella di legare il loisir metropolitano a un’agricoltura di qualità che sappia fare del verde perturbano un ambito di riqualificazione paesaggistica. Si tratterebbe di reinterpretare il tema Nutrire il pianeta facendone sia il perno del rilancio della ricerca specialistica, sia un terreno di presa di coscienza collettiva.

Lo richiede, tra l’altro, l’uso oculato della risorsa acqua. Per come il masterplan di Expo è concepito, c’è il rischio di un elevato spreco di risorse idriche, oltretutto sottratte proprio all’agricoltura. L’acqua fatta arrivare all’Esposizione, con adeguati adattamenti, potrebbe fare da sostegno all’innesto di elementi neoagricoli: un’agricoltura sperimentale, in cui convivano ricerca e acculturazione, recupero paesistico e tempo libero di massa.

La città di Milano è riuscita a cogliere le opportunità che sono state offerte da un grande evento come EXPO?
No; quando invece L’Esposizione poteva essere un occasione per creare risorse per la città. Come ho detto, l’unica valorizzazione che è stata considerata è quella riguardante la rendita immobiliare. In trent’anni Milano ha accumulato una sequela di interventi a cui corrispondono altrettante occasioni mancate. Ma quello che fa specie è vedere l’Università entrare nell’arena delle trasformazioni urbane e metropolitane senza mettere in campo idee e idealità; in altri termini, senza una strategia civile. Ed è non meno deludente vedere gli amministratori della cosa pubblica ritagliarsi un ruolo di semplici facilitatori di quanto viene proposto da altri soggetti.

In una grande metropoli come Milano, con esigenze sempre in crescita, quali pensa siano le principali mancanze? In che modo l’area di EXPO può assumere rilevanza all’interno di un contesto di area metropolitana?
L’armatura metropolitana dovrebbe strutturarsi su tre reti integrate: la rete della mobilità territoriale, il sistema del verde, la trama dei luoghi urbani. Questi tre sistemi nel contesto milanese presentano pesanti insufficienze, oltre che una scarsa armonizzazione e integrazione reciproca. La rete della mobilità metropolitana deve la sua inadeguatezza al primato accordato al mezzo privato e all’assenza di una visione integrata sia al suo interno sia nei rapporti con il quadro insediativo. È una rete che va ripensata integralmente alla luce del principio del massimo risparmio di tempo per chi abita la metropoli.

La rete del verde può contare su risorse straordinarie, a cominciare dal Parco Agricolo Sud e dagli altri parchi metropolitani, ma va consolidata, rafforzata, unificata alle varie scale. Infine, la trama dei luoghi urbani. Nell’ultimo mezzo secolo questa trama non è cresciuta in modo proporzionale agli insediamenti: si è così formato un esteso, cronico deficit di urbanità che va colmato prestando la dovuta attenzione ai rapporti di prossimità.

Lo zoning, teorizzato da urbanisti tedeschi negli ultimi decenni dell’Ottocento, è uno dei principi operanti che, riducendo la complessità dei tessuti insediativi, ha favorito la perdita di qualità urbana dei luoghi. Declinato poi a scala metropolitana, lo zoning ha impoverito le città storiche di attività e relazioni vitali. Il concetto di economie di scala, che si è dimostrato efficace nella produzione industriale di stampo fordista, trasferito in altri settori (commercio, intrattenimento, servizi sociali), ha effetti negativi sulle città e i borghi, perché li impoveriscono di attività vitali. Anche la scelta operata per Expo va in questa direzione; quando invece si sarebbe potuto accogliere l’idea di un’Expo diffusa, come quella avanzata a suo tempo dal gruppo interdisciplinare coordinato da Emilio Battisti.

Dal 1° Gennaio 2015 a Milano è stata istituita la Città Metropolitana, quali sono le novità che porterà questo nuovo ente? Come vengono riequilibrate le competenze?
Per quel che si è visto fin qui, il quadro è desolante. Siamo in una situazione di stallo. Per cominciare, se si vuole conseguire la possibilità di un’elezione diretta del sindaco metropolitano, occorre portare avanti due iniziative con lucidità e determinazione: 1) la formazione delle zone omogenee nell’hinterland; 2) l’attuazione di un decentramento all’interno dei confini del Comune di Milano. Su quest’ultimo punto si scontrano due posizioni: una che vuole la distruzione del comune di Milano; l’altra che vuole un equilibrio nella ripartizione delle competenze.

Ma accanto a questioni di natura istituzionale, c’è il problema del che fare. Le carenze accumulate nella sfera politica e l’inesistenza di una consapevolezza diffusa circa la posta in gioco hanno fin qui impedito il sorgere di un movimento esteso che chieda con fermezza alla Città Metropolitana di farsi carico delle questioni con cui quotidianamente gli abitanti della metropoli devono fare i conti.

Come si è evoluta la proposta del PGT dalla sua nascita fin alla sua approvazione (2012)? Quali sono i suoi punti chiave?
Si è partiti con la linea folle della giunta Moratti: l’idea di riportare a Milano più degli abitanti che ha perso in 30 anni (dal 1975 al 2005), cioè mezzo milione di abitanti, pensando che il motore immobiliare fosse la chiave per il rilancio dell’economia. Ma la leva immobiliare è stata quella che ha portato i cittadini fuori dalla città: una scelta forzata che, allo stesso tempo, dava l’illusione di potersi sottrarre alla rendita. Ma il tributo viene pagato in altro modo, tutti i giorni: in termini di disagio abitativo e relazionale. La giunta Pisapia ha rimediato alle follie della giunta precedente riportando le quantità a orizzonti più ragionevoli ma non ha dimostrato di volere e saper fare un Pgt legato a un’idea di città.

In che modo i contenuti del PGT influenzeranno il futuro dell’area di EXPO?
Per ora il Comune si guarda bene dall’avanzare proposte nel merito, reiterando con Expo il comportamento tenuto in tutte le questioni che contano. È come se, per evitare di apparire sopra le righe, si riservasse un ruolo secondario, aggrappandosi alla funzione di tutore delle regole. È vero che non ci sono risorse, ma l’autorevolezza non dipende dal portafoglio: una politica di indirizzo può essere esercitata per la qualità dei contenuti che si mettono in campo.

«La relazione del consiglio di amministrazione di Expo 2015 presentata ai soci il 9 febbraio. Sala: "Risorse sono sufficienti per le prossime 3-4 settimane". Corte dei Conti: "Mancano risposte sulla copertura dei costi post esposizione"». Il Fatto quotidiano online, 24 febbraio 2016

Il candidato sindaco di Milano del Pd, Giuseppe Sala, ha un bel dire che non c’è nessun buco Expo. La società che ha gestito l’esposizione universale meneghina ha chiuso il 2015 con un rosso di 32,6 milioni di euro. A smentire Sala è lo stesso Sala. O meglio, il consiglio di amministrazione di Expo 2015 da lui guidato, che lo scorso 18 gennaio ha messo nero su bianco la cifra in una relazione che è stata discussa dai soci il 9 febbraio scorso. Dieci giorni dopo la data inizialmente prevista, il 29 gennaio a ridosso delle primarie del Pd che hanno incoronato Sala candidato sindaco di Milano, poi spostata su indicazione del ministero dell’Economia. Nel documento si legge anche che “in considerazione delle spese strutturali previste nei primi mesi del 2016 (quantificabili in 4 milioni mensili), è probabile una ricaduta nelle previsioni dell’articolo 2447 del codice civile durante il mese di marzo”. Il che significa, in altre parole, che secondo i calcoli del consiglio guidato dallo stesso Sala, da febbraio 2016 le disponibilità liquide di Expo 2015 si sono esaurite, ma non le spese. E andando avanti così, è sempre la stima del cda, è prevedibile che entro il mese prossimo la società arrivi ad accumulare perdite superiori a un terzo del suo capitale. Una situazione in cui la legge impone l’abbattimento del capitale stesso e il suo contemporaneo aumento per riportarlo al minimo legale.

La scivolosità del caso non è sfuggita al collegio sindacale di Expo 2015 che, nel corso dell’assemblea che due settimane fa ha deliberato la messa in liquidazione della società, ha chiesto “chiarezza in relazione alla necessità di risorse per la liquidazione” stessa. Richiesta condivisa dal magistrato della Corte dei Conti, Maria Teresa Docimo, che ha sottolineato come la messa in liquidazione risponde “ad uno solo dei temi inseriti nella relazione degli amministratori, mentre non sono fornite risposte, nel merito, in relazione alla copertura dei costi sopportati dalla società successivamente alla data di chiusura dell’evento”. Tanto più che lo stesso Sala ha confermato che “le risorse sono sufficienti per le prossime 3-4 settimane” e che “è importante rendere chiara la situazione al nominato organo di liquidazione”. Anche perché i liquidatori freschi di nomina – il prorettore della Bocconi Alberto Grando, Elena Vasco (Camera di Commercio), Maria Martoccia (ministero Finanze) e i confermati Domenico Ajello (Regione Lombardia) e Michele Saponara (Città Metropolitana) per i quali è stato fissato un compenso complessivo di 150mila euro – hanno 90 giorni per elaborare un progetto di liquidazione. Per la scadenza, però, stando alle stime del cda, Expo 2015 avrà una carenza di liquidità di oltre 80 milioni di euro.

Nel frattempo, però, è imminente una finalizzazione degli accordi con Arexpo sulla gestione delle aree fino al 30 giugno 2016, quando i terreni torneranno sotto l’ala della società in cui sta facendo il suo ingresso il Tesoro. Le indicazioni dei soci di Expo 2015 ai liquidatori sono inequivocabili, in quanto auspicano “il compimento di una attività di rivitalizzazione di parti del sito Expo 2015 nella fase transitoria dello smantellamento del sito stesso, attuato preservando i valori del sito medesimo, secondo principi di sinergia fra le società Expo 2015 S.p.A. e Arexpo S.p.A., nel rispetto delle funzioni proprie di ciascuna delle due società”. I liquidatori, quindi, sono invitati ad individuare, tra i principali criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione, quelli preordinati alla realizzazione “di eventuali sinergie e collaborazioni tra Expo e Arexpo S.p.A; anche con riferimento alla fase convenzionalmente denominata Fast Post Expo“. Cioè l’evento previsto in concomitanza con la ventunesima Triennale Internazionale di Milano, tra aprile e settembre, che dovrebbe utilizzare l’area del Cardo.

Il punto non è secondario. Secondo i calcoli del vecchio cda di expo, infatti, per il 2016 la società ha bisogno di 58,3 milioni di euro: 39,6 per lo smantellamento e 18,7 per la chiusura dell’azienda. La somma andrebbe chiesta pro quota ai soci (pubblici) di Expo. Ma grazie al Fast Post Expo può essere ridotta di 19,5 milioni con il “ribaltamento dei costi sostenuti ad Arexpo”. E così agli azionisti di Expo toccherebbe sborsare “solo” 38,8 milioni: al ministero dell’Economia toccherebbero 15,5 milioni, alla Regione e al Comune 7,8 a testa, mentre la Provincia e alla Camera di Commercio ne dovrebbero versare 3,9 ciascuna. Resta da capire quanto costerà l’operazione sul lato Arexpo i cui soci, dopo l’ingresso del Tesoro, saranno ancora una volta lo Stato, la Regione e il Comune, oltre alla Fondazione Fiera Milano pur destinata a diluirsi fortemente.

Un grande patrimonio d'intelligenza e di consensi, di partecipazione e di speranze sprecato in un quinquennio che non lascia molta fiducia nel futuro. Ilmanifesto.info, 13 febbraio 2016

Da Moratti a Moratti: alla fine il bilancio della giunta Pisapia è questo. Pisapia era stato eletto sindaco nel maggio del 2011 sull’onda di una mobilitazione culminata nella vittoria dei referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali e contro il nucleare. La sua elezione poneva fine a venti anni di potere della destra e altrettanti di dominio craxiano ed era stata sostenuta da una straordinaria partecipazione di base alla campagna elettorale: comitati per Pisapia (poi comitati per Milano, ma subito rinsecchiti) in tutti i quartieri della città, intellighenzia (quel che ne resta), creativi, borghesia d’antan, parrocchie e persino centri sociali. Poi, contestualmente a quella dei referendum abrogativi nazionali, la vittoria in cinque referendum consultivi cittadini.

I quesiti di quei referendum e la loro articolazione non erano un piano di governo della città, ma ne fornivano importanti indirizzi, peraltro in linea con il programma della candidatura di Pisapia. Nessuno degli impegni previsti da quella consultazione ha trovato attuazione. Si può capire, per il costo dell’intervento, che non sia stato realizzato il ripristino della rete dei navigli - limitandosi alla riapertura della darsena - anche se ben 40 milioni sono stati sprecati nel progetto delle nuove “vie d’acqua”, che avrebbero dovuto portare in barca all’expò i visitatori; ma che, strada facendo, si sono trasformate in una fogna per raccogliere gli scoli dei suoi padiglioni. Ma un referendum chiedeva il potenziamento drastico del trasporto pubblico e la riduzione drastica del traffico privato; interventi non riducibili alla decantata area C, che poco ha innovato rispetto all’ecopass già introdotto dalla Moratti.
Così oggi, giunti al termine della sindacatura, Milano è una delle città più inquinate, malsane e irrespirabili d’Europa. Certo il problema dell’aria di Milano non si risolve a livello cittadino o metropolitano. Ma l’iniziativa del Comune di Milano verso altri Comuni della pianura Padana – un’iniziativa che poteva sostanziarsi solo mostrando con i fatti che a Milano le cose si fanno – è stata nulla. Idem per l’oggetto del secondo referendum, la piantumazione della città. Oggi centinaia di alberi sani, ultimo residuo polmone della città, vengono tagliati per far posto ai cantieri della linea 5 del metrò.
Sul quesito su risparmio energetico e fonti rinnovabili la giunta ha dato il peggio di sé, portando a termine la privatizzazione-finanziarizzazione di A2A e insediando ai suoi vertici uomini e donne che hanno continuato a dissipare le finanze di una delle ex municipalizzate più indebitate d’Italia con progetti folli come la centrale a carbone in Montenegro o l’assorbimento in A2A della gestione dei rifiuti, per aumentarne la quota da incenerire. Grottesco è l’esito del terzo referendum: “conservare il futuro parco dell’area expò”. Quel parco è semplicemente sparito, sostituito da una “piastra” di cemento di un chilometro quadrato gettata su aree a destinazione agricola, in parte inquinate e malamente bonificate. Tutto ciò sarebbe forse giustificabile se gli obiettivi dei referendum fossero stati sacrificati a interventi di sostegno ai servizi sociali, alla riqualificazione delle periferie, alla soluzione dei problemi abitativi. Ma non è così. Ad oggi il Comune ha ancora 9mila alloggi vuoti che non assegna perché non li ha riqualificati e ha aspettato tre anni, e l’arresto per mafia dell’assessore regionale Zambetti, per sottrarre alla Regione la gestione delle proprie case. In compenso si è impegnato in misura crescente nello sgombero di centri sociali e occupazioni di case.

Che cosa ha prodotto quel cambio di rotta? Il profilo morale o intellettuale di Pisapia non è in discussione. Che però, due giorni dopo il suo insediamento è volato a Parigi, nella sede del BIE (Bureau Internationale de l’Exposition), per impegnarsi nella realizzazione di expò secondo il percorso avvelenato messo a punto dalla Moratti. Un percorso che abbandonava il progetto, già di per sé assurdo, di un orto da piantare sui terreni inquinati di Pero (per mostrare al mondo come “nutrire il pianeta” Milano disponeva del più vasto parco agricolo d’Europa da riconvertire a un’agricoltura sostenibile), per dedicarsi alla cementificazione del sito e alla speculazione edilizia in programma per il dopo expò (intento fallito per il successivo crollo del mercato edilizio).

Da allora tutte le energie della Giunta sono state incanalate prima a rimettere e poi a tenere in piedi expò, peraltro partito male e in ritardo perché i primi anni erano stati interamente dedicati – e si capisce il perché – alla spartizione degli incarichi. Che cosa abbia significato expò è chiaro da sempre a chi lo vuol vedere e oscuro per sempre a chi non vuol capire. Cemento e asfalto (anche a chilometri di distanza dal sito, e senza alcun collegamento con esso), opere inutili come le famigerate vie d’acqua, corruzione sistematica (arresti a go-go), infiltrazioni mafiose, deroghe alla normativa sul lavoro, lavoro nero, lavoro gratuito (expò è stato di fatto il laboratorio del Jobs-act), debiti, compresi quelli che devono ancora emergere e che Sala ha accuratamente nascosto nel non-bilancio che ha presentato, che graveranno sul Comune per anni.

Poi, trionfo delle multinazionali del cibo spazzatura ed esibizione incontinente di spreco: decine e decine di padiglioni e scenografie costose destinate alla discarica dopo pochi mesi: uno schiaffo alla miseria e ai senza casa. Le previsioni mirabolanti (della Bocconi) sui posti di lavoro si sono rivelati un bluff se non una truffa; quelle sugli incassi dei commercianti idem; anche perché, per riempire il sito, expò ha inaugurato una movida interna serale che ha rubato loro tutti i clienti.

Per un anno e più Milano è stato expò e niente altro che expò. Il “modello Milano” – che nessuno ha mai spiegato che cosa sia – era la gestione di expò. E di conseguenza il governo di Milano era nelle mani dell’amministratore delegato di expò: l’uomo di fiducia della Moratti e del suo clan. Non un “manager”, ma uno scemo che non si è accorto di niente; oppure il più mariuolo di tutti, che è riuscito a sfangarla. Comunque sia, nessuno stupore se alla fine della sindacatura Pisapia, quell’uomo sia venuto a prendere ufficialmente possesso del suo vero ruolo: e con l’investitura del PD. Contenderà quel posto a Stefano Parisi, l’uomo di fiducia di Albertini, il sindaco che aveva sgovernato Milano prima della Moratti. Non resta che l’imbarazzo della scelta.

C’è un’alternativa a questo scempio? No, non c’è. Perché tutto si svolge ormai all’interno del cerchio magico dell’expò. I due candidati che hanno conteso a Sala la nomina nelle primarie del PD – uno forte dell’impegno profuso senza soldi e senza mezzi nel sostegno alle situazioni di maggiore emarginazione della città e soprattutto agli 80mila profughi transitati per Milano verso più appetibili destinazioni europee; l’altra, una figura senza storia, chiamata per far entrare il bilancio della Città nella gabbia del patto di stabilità, quando Milano avrebbe invece dovuto mettersi alla testa della sua contestazione, e poi imposta dal sindaco in carica per far perdere Majorino e far vincere Sala – non hanno provato nemmeno a sottrarsi a quella stretta: expò e il suo successo di cartapesta traccia per tutti la strada da seguire nella prossima sindacatura.

Ma non c’è spazio nemmeno per un’alternativa al PD. Perché quell’alternativa andava costruita negli anni della preparazione e della gestione dell’expò e si è fatto di tutto per non farla emergere. E’ stato correttamente tentata su singoli temi, come l’ipocrisia di far nutrire il pianeta dalle multinazionali. Ma non si è voluto denunciare il “modello Milano” così come si andava delineando: trionfo della società dello spettacolo e, dietro di esso, varo di un nuovo assetto urbanistico e di un nuovo ruolo del governo della città al servizio degli affari e a discapito degli abitanti. Quante cose si potevano fare, e non sono state fatte, con il denaro sprecato nell’expo… E non solo per Milano, ma anche per mostrare che il governo di una città può imboccare la strada della sostenibilità sociale e ambientale. Adesso bisogna ricominciare da capo.
Strategie per la città, oppure semplici strategie private di speculazione su un patrimonio comune il cui valore è determinato proprio da ciò che gli cresce attorno?


Di cosa parliamo quando parliamo di scali ferroviari

La storia degli scali parte da lontano, dalla metà dell’800. A partire dal 1840 decine di imprese ferroviarie iniziano a realizzare linee sparse sull’intero territorio, e intorno al 1880 entrano in stato di crisi e dissesto.
Lo Stato unitario decide di intervenire: tra il 1880 e il 1905 il patrimonio viene rilevato, le società private sono indennizzate, il sistema ferroviario diventa servizio pubblico. Tutte le aree sono acquistate dallo Stato ed entrano a far parte del demanio ferroviario.
Per quasi cent’anni gli scali svolgono un servizio fondamentale per la mobilità: linea, stazione, interscambio, deposito o manutenzione.
Hanno conformazioni particolari, a volte si integrano nella città, a volte ne rimangono un po’ separati. Beneficiano anche di un involontario aumento di valore, perché situati in posizioni strategiche, all’interno di un tessuto urbano che cambia. Ma si tratta di un valore puramente nominale, perché sono scali, fatti di binari e traversine.

A metà degli anni ’80 del ‘900 inizia il nuovo processo di privatizzazione. Nel 1985 le FS da Azienda Autonoma si trasformano in Ente Pubblico dotato di personalità giuridica ed autonomia finanziaria. Con la legge del 1992 diventano Società per Azioni, e quote di capitale possono essere acquisite da privati. Tutti i beni, aree comprese, diventano patrimonio della nuova S.p.A., a cui la legge, non senza polemiche e controversie, concede di disporne nei modi previsti dal diritto privato.
L’accordo firmato tra FS, Regione e Comune di Milano nel 2007 prevede la riqualificazione di 7 scali ferroviari, pari a circa 1,1 milioni di mq, con previsione di nuove quantità edificabili pari a 845mila mq di s.l.p., e la “cessione” di 654mila mq di aree ad uso pubblico come standard.
Ma gli scali, come visto sopra, sono aree che lo Stato ha già pagato, nel 1905 e nei decenni successivi, per destinarle a servizio pubblico. E quindi sono già disponibili per usi “sociali” ed a vantaggio della collettività.

Eppure, nonostante questo, sta prendendo forza una grande mistificazione che racconta una storia diversa. Il pubblico, in questo caso il comune di Milano, si rivolge alle Ferrovie come se queste fossero un privato qualsiasi, dicendo: "Se vuoi costruire degli immobili nelle tue (mie) aree centrali (della mia città) devi lasciarmene in cambio la metà come standard, parchi e servizi. Solo così ti permetto di costruire (palazzi di lusso) e di rivendere al prezzo che vuoi (al massimo di mercato) e farci plusvalenze che potrai utilizzare per ripianare il tuo debito (dissesto), per nuovi investimenti ed in generale per il tuo profitto, visto che sei una S.p.A. e rispondi solo ai tuoi azionisti”.
Si tratta di una operazione fantastica, addirittura meglio di quella di Totò e Peppino che almeno vendevano una cosa non loro, la Fontana di Trevi, ad un turista americano. Le FS vendono ai privati le aree ricevute (gratis) dallo Stato e cedono le aree a standard … al proprietario stesso!

La dismissione della mobilità

Il procedimento di trasformazione avviato sugli scali ferroviari milanesi dice un’altra cosa fondamentale: su quelle aree non verrà più fatta ferrovia. Non sarà più possibile fare attività connesse con la mobilità e lo spostamento delle persone e delle cose.
Il modello è quello di un ottuso sprawl centripeto, teso a saturare tutti gli spazi ancora liberi per realizzare nuovi volumi, rinunciando per sempre a funzioni fondamentali per la mobilità in aree centrali e strategiche.

L’Accordo di Programma

La modifica degli scali ferroviari avviene mediante uno strumento urbanistico tipico della deregolamentazione normativa degli anni ‘80: l'Accordo di Programma (A.d.P.). Si tratta di una convenzione, ma sarebbe meglio dire un contratto, tra una parte pubblica ed una privata, per la definizione di interventi ed opere, con un programma concordato.

È l’urbanistica contrattata, quella in cui il pubblico ed il privato si mettono d’accordo per “fare”, anche in superamento della norma. Si tratta di uno strumento non del tutto trasparente, asimmetrico, giocato tra un privato forte e un pubblico debole, un luogo dove gli interessi coincidono e in cui controllore e controllato si confondono. L'AdP è quanto di più distante si possa immaginare dalla pianificazione partecipata ed in generale dal processo democratico di decisione sulla città.
Da qualche decennio, l’Accordo di Programma è lo strumento principale utilizzato per i grandi interventi di trasformazione urbana.

La valorizzazione

La valorizzazione è interpretata nel senso, grezzo, della rendita fondiaria, in cui contano solo volumi e quotazioni al metro quadro. Una visione un po’ alla Paperon de’ Paperoni: la trasformazione urbana deve essere remunerativa hic et nunc. La domanda su cosa dia valore ad una città non trova sede, perché non è ammessa al tavolo dell’Accordo di Programma.

Alcuni scali sono più scali di altri

Gli scali, secondo l’AdP, sono destinati ad una edificazione intensa, anche se la revisione della giunta Pisapia ha leggermente ridotto i numeri rispetto alla proposta Moratti. Con alcune sottigliezze importanti.

Lo Scalo San Cristoforo, un po' più periferico rispetto agli altri, e quindi con minore valore in termini di rendita, verrebbe destinato interamente a verde. L’edificazione viene condensata sugli altri scali, con meccanismo perequativo. Questo viene presentato come un esito virtuoso della trattativa Comune-FS. In realtà l'AdP sta dicendo con chiarezza che al privato non interessa realizzare case al Giambellino, dove i prezzi sono bassi e maggiori sono i problemi, importa invece il centro città, dove prevede di vendere ad un prezzo elevato.

Lo Scalo Farini, centrale e ambito, sembra destinato a nuovi grattacieli ed aree verdi. Le aree verdi sono forse dovute, ma i grattacieli? A chi servono appartamenti da 10÷12.000 euro al metro quadro? Magari la Real Estate Company non riuscirà nemmeno a vendere tutto: una parte verrà ceduta alle imprese che hanno realizzato l'intervento come pagamento del lavoro fatto, una parte residua resterà come garanzia per nuovi finanziamenti da parte delle banche.

Lo Scalo Lambrate si trova in una zona meno centrale, povera di servizi, mal collegata. Sembra destinata a diventare un altro caso Rubattino, secondo lo schema ormai consolidato dei venti megacondomini e un centro commerciale. Come se per vivere non servisse altro.

Conclusioni

Gli scali, e le ferrovie in genere, sono beni preziosi, difficilmente modificabili se non con interventi di altissima qualità urbana (ad es. la High Line a New York o la Coulée verte a Parigi…) o con estesi meccanismi partecipativi. Trasformazioni “à la carte”, in stile padano, uccidono la smart city in nome dell'edilizia, unico motore di un falso progresso.
L’intento del PGT su scali, caserme, aree dismesse, rivela l’ennesima mancanza di un disegno complessivo, e ci consegna una città in cui gli illusi aspettano i raggi verdi e le piste ciclabili mentre la finanza si mette d’accordo con i faccendieri per “valorizzare le opportunità”.

Che si aprano allora mille lotte e mille conflitti, per inventare e praticare nuove e concrete forme di partecipazione, radicalmente diverse da quelle patinate viste negli ultimi mesi a Milano. E che i progetti nascano dall’autodeterminazione, per ottenere giustizia sociale, per costruire la città vivibile ed accessibile, dell’incontro e del mix sociale.

Il vincitore delle primarie milanesi del centrosinistra ... (continua a leggere)

Il vincitore delle primarie milanesi del centrosinistra[i] (cosa sia centrosinistra nell’attuale vicenda politica non sappiamo), gli altri candidati, i diversi sostenitori dell’uno e degli altri, il sindaco uscente hanno introdotto nei discorsi qualche richiamo all’istituzione Città metropolitana e al corrispondente territorio. Il quale coincide al millimetro quadrato con quello della defunta provincia. Per i problemi di ogni tipo finora riferiti alla città di Mi­lano, ossia una superficie di soli 181 kmq abitata da circa 1.340.000 residenti e frequentata giornalmente anche da 600.000-800.000[ii] extra-murari, le «autorità» ne avranno di fronte una di quasi nove volte più estesa e una popolazione di meno che tre volte più numerosa distribuita in 134 comuni compreso Milano. Il sindaco metropolitano, semplice trasposizione del milanese, sembra dotato di poteri anche più ampi dei pre­cedenti.

Il Consiglio seguirà l’andazzo dei Consigli comunali e regionali dei nostri tempi? Sì, non ricupererà affatto, non lo si può più sperare, la tradizionale forza detenuta prima dello svuotamento dovuto alla riforma (circa due decenni fa): che col premio di maggioranza riduce a pura testimonianza la debolezza della mino­ranza, poi concede a sindaco e giunta (addirittura parzialmente non elettiva) diritti decisionali, se così si può dire, escludenti facilmente dibattiti e controlli consiliari. Infatti le minoranze dei Consigli da allora vivono anzi vivacchiano frustrate per generale impossibilità di contare di più che il due di picche (a briscola). «Grandi speranze», forse possiamo metterle in capo alla Conferenza metropolitana dei sindaci? Come il dickensiano Pip, quante avversità, con 134 dissonanti, incontreremmo?

La forma territoriale (non più che definizione del confine) corrisponde alla riduzione della configurazione sto­rica provinciale a un minimo derivato dalle amputazioni volute dalle rivendicazioni territoriali autonomistiche. Non abbiamo per ora alcun disegno di divisione dello spazio, di organizzazione del medesimo secondo mo­dalità urbanistiche di massima ma chiare rispetto alle destinazioni d’uso primarie. Né lo avremo presto giac­ché oggi vige l’indecisione su cosa dire di teoria e cosa disegnare (ah ah…) sulla carta in ambito di pro­getto necessario, liberato della zavorra che ha riempito sacconi di assurdi acronimi «urbanistici», utili per far ping pong fra urbanisti con le parole retrostanti. Gli organismi metropolitani penseranno a un piano interco­mu­nale? O a cos’altro?

È passato oltre mezzo secolo dal miglior Piano intercomunale milanese (benché cri­ti­cato a destra e a manca, come usava e usa), formalizzato in modo comprensibile rispetto agli obiettivi con­divisi (con molte incertezze) dai 94 comuni aderenti (estratti da un «comprensorio di studio» di 135 co­muni). Progettisti Giancarlo De Carlo, Silvano Tintori, Alessandro Tutino; pubblicazione Urbanistica, n. 50-51, ot­tobre 1967. Il piano investiva in particolare, giustamente, l’hinterland nord, contrassegnato da una più nume­rosa presenza di insediamenti predominanti rispetto agli altri contesti per economia (profitto e rendita), rela­zioni sociali, mobilità-trasporto, tutte dotazioni di un certo livello ma soprattutto stabilmente in rapporto quoti­diano con la «città centrale, o metropoli».
È questo, secondo gli studi di oltre cinque decenni or sono di Al­berto Aquarone, che designava il carattere metropolitano dell’area[iii]. Del resto, se allunghiamo il nostro sguardo verso nord e lo dilatiamo verso una comprensione storica, scopriamo che l’area milanese presen­tava caratteri metropolitani nel Settecento e nell’Ottocento, poiché era già percorsa da un fervido sistema di relazioni, anche se l’assetto fisico del territorio non appariva mutato. Lo spazio edifi­cato poteva cambiare al suo interno, come quando una masseria diven­tava «fabbrica» o «pre-fab­brica», ma permaneva un territorio dotato di un chiaro, largo policentrismo, piccoli nuclei e anche piccole città separati da fasce agrarie più o meno vaste e continue a seconda del ca­rattere azien­dale dominante (nord, con­duzione familiare; sud, azienda ca­pitalistica).
Sarà il territorio settentrio­nale, ap­punto povero di risorse agrarie e arre­trato rispetto ai nuovi rap­porti so­ciali, a esplodere poi in industrializzazioni e edificazioni che produr­ranno man mano condi­zioni terri­toriali sempre più caotiche, espansioni edilizie di ogni tipo, sempre meno giustificate, irragionevoli, «divoratrici della cam­pagna»[iv], fino alla realizza­zione dello sprawl non solo nel mila­nese. Forse la tavola 4 del PIM pubbli­cata in Urbanistica 50-52 po­trebbe rappre­sentare l’occasione e la speranza di conservare quanto re­stava del poli­centrismo storico (e non era poco). Il disegno, spazzati via i tentativi di defini­zione della pura figura (la «tur­bina» quella di maggior successo e insen­satezza) non nega una por­zione di com­pletamento edificatorio di ogni cen­tro, ma con questo lo com­patta attribuendo mas­sima nitidezza al limite con il «verde», nelle sue tre ti­pologie: attrezzato, boschivo, agricolo e di sal­vaguar­dia. Sembra davvero ri­vendicazione della morrisiana città ben delimitata e non divoratrice. Intanto il territorio meridionale sarebbe rimasto alla sua logica destinazione a campagna produttiva e avrebbe incorporato in seguito il grande Parco Sud.

Torniamo al ritornello di politici milanesi sulla città metropolitana. Non vogliamo confrontare un piano con una forma geografica. Questa è stata privata di buona parte del territorio setten­trionale. La sottrazione della provincia Monza-Brianza sembra un morso di mela (Apple, eh eh…) che lascia un grosso vuoto come detta l’arco dentario, il pezzo succoso se lo sono portato via i brianzoli. Delle sette «aree omogenee» (non sappiamo in base a quali parametri) la Nord Milano (un residuo del morso) e la Nord ovest esibiscono il mi­glior sprawl. Siccome alcuni dei politici di cui sopra e circostanti architetti, nominata la città metropolitana proseguono con enfasi «ora policentrismo», dobbiamo capire dove ne potranno fare al­meno un esercizio quasi-urbanistico pur in enorme ritardo. La fascia di territorio che come una grande V ab­braccia Milano dal Magentino-Abbiatense all’Adda-Martesana attraverso le due aree omogenee meridionali dev’essere consi­derata in relazione a diversi aspetti.

1 - La difesa del Parco Sud sia praticata senza al­cun cedimento alle ri­correnti manovre delle amministrazioni comunali per concedere edificazioni a privati lungo e al di là dei con­fini consolidati. Si dovrebbe progettare un ampliamento del parco conservandone anzi raffor­zandone il ca­rattere agricolo. Tutta la campagna esistente, ben al di là della misura attuale del parco, fra il Milanese e il Pavese, grazie alla persistenza di aziende relativamente forti e alla possibilità istituzio­nale di renderle, per così dire, socialmente attive in caso di pericolo di alienazione all’immobiliare di turno, può co­stituire la com­ponente principale del progetto per un policentrismo ovest-sud-est. Insomma, campa­gna pro­duttiva e cam­pagna parco si immedesimano l’una all’altra e rappresentano l’unica vera risorsa per la sal­vezza della me­tropoli dalla morte letteralmente per l’indefesso procedere della sintesi clorofilliana verso il li­vello zero.
2 - Per costruire un assetto policentrico sensato (conveniente più di qualsiasi altro modello) oc­corre impe­dire ad ogni costo la tendenza edificatoria che nel nord Milanese, per causa di piani urbanistici o per man­canza di essi, ha provocato quel disastroso genere di territorio a cui corrisponde uguale genere di vita. L’espansione edilizia in comuni piccoli e medi celebra ancor oggi il consumo di suolo come indispen­sa­bile al benestare quando è vero il contrario, specialmente quando è il verde agricolo che passa secca­mente a co­struzione.
3 - Il maggior pericolo incombente sul territorio meridionale è che si ripetano altri, diffe­renti feno­meni distruttivi del paesaggio. Un’edificazione irruente secondo una forte dimensione del singolo inter­vento, presupposto di forme insediative di gigantismo, le più dannose, ha comportato il cambiamento di­retto, di ben altra misura che nell’espansione in piccoli comuni, da aree agricole di seminativo irriguo alta­mente pro­duttivo (azienda capitalistica o conduzione diretta efficiente con fondo adeguato), a grandi com­plessi, pro­gettati organica­mente o no.
Qualche esempio: l’inconcepibile insediamento di Sesto Ulteriano, vecchio di vari decenni ma poco conosciuto, un’accozzaglia di duecento capannoni per lo più magazzini de­serti, citta­della di stoccaggio di rara bruttezza che dobbiamo attraversare quando vogliamo andare a bonifi­carci di bellezza alle abbazie di Chiaravalle e di Viboldone; i pretenziosi, colorati edifici per uffici di Assago, un af­fare dell’immobiliarista Cabassi (il medesimo, proprietario di una parte minoritaria dei terreni Expo); la berlu­sconiana “Milano 3” nel piccolo comune di Basiglio (poche centinaia di abitanti), un castellum residen­ziale espropriatore di bellissima e fertile campagna, talmente erroneo dal punto di vista della pianificazione urba­nistica che ha stentato a riempirsi di «clienti» giacché oggi vi risiedono solo 7500 di quei diecimila (al mi­nimo) medio-borghesi previsti dotati di un reddito sufficiente per poter accedere a quest’isola creduta felice; il« distretto» (pomposamente) commerciale di Lacchiarella, inizialmente prova fieristica speculativa di Paolo Berlusconi poi cresciuta se­condo la consueta congerie di contenitori improduttivi, qualcuno diventato fortu­nata occasione per sbattervi un po’ di grossisti cinesi cacciati da Chinatown milanese perché disturbatori coi loro mezzi dell’allegro andiri­vieni di venditori e compratori al minuto.

Una precisazione intorno alle possibilità di progetto e attuazione (vedi il punto 1). Purtroppo cre­sceranno i casi, destinati a diventare totalità a lungo termine, di aziende (pur anche proprietarie) in progres­siva perdita del valore capitalistico e conseguente rischio di svendita alla consueta imprenditoria edilizia. Il governo me­tropolitano, magari imparando dal successo ottenuto da autorità nazionali e locali in altre aree geografiche, per esempio austriache, dovrà promuovere in base ad atti regolamentari interventi sostitutivi da parte di enti pubblici o privati convenzionati per conservare, restaurare e aumentare gli spazi agrari e ad ogni modo neo-naturalistici, allo scopo di renderli usufruibili dalla popolazione sia in senso colturale (prodotti biologici) che culturale (studio e conoscenza del bene primario).

[i] La vittoria di Giuseppe Sala (con solo il 42 % dei voti) era attesa a causa della divisione a sinistra, vale a dire la pre­senza di due candidati che si sarebbero divisi i voti contrari al primo. Se il candidato nettamente sfavorito nei sondaggi, Pierfrancesco Majorino, si fosse ritirato indicando ai suoi sostenitori la decisiva convenienza di trasferire i voti su Fran­cesca Balzani (l’attuale vicesindaco), sarebbe quest’ultima la vincitrice.

[ii] Sono molti decenni, peraltro, che ogni giorno entrano dai confini comunali non meno di 500.000 automobili, spesso due o tre centinaia di migliaia in più.
[iii]Alberto Aquarone, Grandi città e aree metropolitane in Italia, Zanichelli, Bologna 1961, p. 6. L’autore indica i fattori costitutivi di un’area metropolitana: «Gli elementi essenziali e indispensabili di un’area metropolitana sono rappresen­tati da un città centrale, o metropoli…e da una serie…di centri minori circonvicini con i quali sia determinata o stia de­terminandosi…sopra tutto una stabile reti di rapporti quotidiani, economici e sociali, questi ultimi nelle accezioni più larghe», p.6-7.
[iv] William Morris. Cfr. L. Meneghetti, Dimensione metropolitana. Contributo a una didattica di storia e progetto del territorio, clup, Milano 1983, v. p. 65-67, in part. il disegno a p. 67 «Schema interpretativo della riforma territoriale di Morris».

Su Eddyburg Archivio vedi anche Pagine di Storia: Piano Intercomunale Milanese

In un quartiere ridotto ad anfratti a fondo chiuso da trasformazioni infrastrutturali stradali e ferroviarie mal pensate e peggio gestite, scende in campo la «sicurezza di sinistra», ovviamente identica per superficialità a quella di destra. La Repubblica Milano, 4 febbraio 2016, postilla (f.b.)

Taglieranno la vegetazione e recinteranno “il bosco della droga”. Chiuderanno con cancelli le vie intorno alla piazza di spaccio dell’eroina più famosa della Lombardia. L’area verrà blindata e il “supermercato della droga” di Rogoredo chiuderà i battenti. Così promette il Comune, che ha già iniziato a fare i primi interventi. Da anni il problema dello spaccio e della microcriminalità nell’area intorno alla ferrovia è stato segnalato dai residenti di Rogoredo e consiglio di Zona 4. Ma, dice Stefano Bianco, presidente del comitato di quartiere Milano Santa Giulia, «il problema riguarda anche chi frequenta metropolitana e stazione, non solo gli abitanti». Già a luglio, durante un sopralluogo dell’assessorato alla Sicurezza con il consiglio di Zona, si era valutato di chiudere con cancelli, nelle ore serali, il sottopasso pedonale tra via Orwell e i giardini di via Rogoredo e tra la zona tra via Sant’Arialdo e Parco Cassinis.

Ma la svolta è arrivata settimana scorsa. È stato messo il primo cancello in via Orwell, in un’area di proprietà di Ferrovie dello Stato. Le chiavi sono state date ai proprietari delle aree agricole a cui si accede passando per quell’ingresso. Poi ne sono stati posti due anche ai lati del sottopasso pedonale tra via Orwell e i giardini. Amsa si occupa di chiuderli di notte e riaprirli di giorno. «Questi cancelli costituiscono un deterrente importante all’ingresso nell’area dei giardinetti e delle proprietà di Ferrovie dello Stato. In questo modo cominciamo a porre un freno alle attività illegali e allo spaccio nella zona», dice Marco Granelli, assessore alla Sicurezza. Nei prossimi mesi, il Comune si occuperà anche del “bosco della droga”. Verranno eliminati gli arbusti per evitare che tossicodipendenti e spacciatori si possano nascondere e verranno messe «altre recinzioni nelle aree a Ovest di via Sant’Arialdo verso San Donato». Ci sarà, infine, anche un maggior presidio delle forze dell’ordine.

postilla

Cancelli e recinzioni, pattuglie di ronda, controlli: il medesimo armamentario della destra, e non certo perché «d'altra parte che soluzione c'è a un problema di ordine pubblico, se non le forze dell'ordine e i loro metodi?». I cosiddetti Bronx, dal nome del quartiere newyorchese reso famigerato dalla «mannaia autostradale» dello zar del lavori pubblici Robert Moses, si costruiscono piuttosto consapevolmente, e volendo si potrebbero altrettanto consapevolmente smontare, reintroducendo in qualche modo il sistema di occhi sulla strada che i budelli a fondo cieco delle grandi linee di trasporto hanno reciso moltiplicando all'infinito nel tessuto urbano sacche di concentrazione del degrado e del rischio. Ma se, invece di competenze urbane e sociali (i «rammendatori di periferie» qui dove sono finiti?) si mobilitano quelle raccogliticce della «sinistra per l'ordine», che scimmiotta malamente la destra usando un linguaggio lievemente meno volgare, si arriva solo alle gabbie: i comitati di quartiere, grati per la soluzione almeno dell'emergenza, premieranno coi loro voti l'assessore con l'elmetto, e dietro le cancellate maturerà la prossima emergenza, il prossimo «pugno di ferro». Amen (f.b.)

Alcuni spunti emersi dalle discussioni di studiosi professionisti cittadini, su un tema strategico che probabilmente è rimasto piuttosto sottotono rispetto alla sua importanza nell'ultima amministrazione, vuoi per consapevoli scelte tattiche, vuoi per sottovalutazione


Il giorno 16 gennaio 2016, l’Associazione Architectural & Urban Forum (*) ha inviato una lista di 10 domande ai candidati alle primarie del centrosinistra per il sindaco di Milano (Francesca Balzani, Antonio Iannetta, Pierfrancesco Majorino, Giuseppe Sala), per meglio conoscere i rispettivi programmi, con riferimento a temi urbanistici e territoriali cruciali per la città.

1. Modello di crescita della città
Negli ultimi 5 anni, la popolazione residente nel comune di Milano si è sostanzialmente mantenuta costante intorno a 1,3 milioni di abitanti, ben inferiore al picco di abitanti di oltre 1,7 milioni degli anni Settanta. Nonostante questi dati, durante le ultime due giunte si è costruito molto, dotando la città di una grande quantità di nuove volumetrie, anche grazie all’attrazione di capitali stranieri (Stati Uniti, Qatar, ecc.), molte delle quali sono rimaste inutilizzate a causa di una domanda non certo pressante in questi ultimi anni di crisi. Parallelamente a questo trend, un grande numero di migranti, spesso con modestissime possibilità, si sta dirigendo in Italia e in Europa, anche a causa di vicende tragiche in paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Rispetto a questo quadro, se eletto sindaco che idea di sviluppo urbano ha in mente per impostare le politiche urbanistiche della città? Quale sarà la condotta della giunta in merito all’attrazione e all’ospitalità di nuovi abitanti? E all’attrazione di capitali stranieri? Quale orientamento in tema di edilizia residenziale pubblica? Con quali ricadute sulle comunità già attualmente insediate? Verso quale Milano tenderemo? Che progetto di città ha in mente?
2. Città metropolitana
I confini comunali non coincidono con l’area urbanizzata del milanese, ben più vasta e comprendente oltre 4 milioni di abitanti. Con riferimento alla ex Provincia di Milano, i dati relativi alla popolazione sono peraltro in linea con quanto verificatosi entro i confini comunali. Se eletto sindaco, come cercherà di interessare gli altri comuni facenti parte della Città metropolitana rispetto alle politiche urbanistiche milanesi? Come cercherà di superare dal punto di vista amministrativo e tecnico l’annoso problema di divisione delle competenze e di coordinamento delle autonomie locali? Data la rilevanza del problema e la complessità dei rapporti, non ritiene indispensabile che vi sia un assessore dedicato? Intenderà cambiare in questa prospettiva il PGT, oltre ovviamente a coordinarlo e promuovere coordinamento (su che linee di forza?) con le altre circoscrizioni, magari costruendo un modello di riferimento almeno dal punto di vista del metodo?

3. Visione infrastrutturale
La città è servita da tre aeroporti, la cui integrazione dal punto di vista gestionale è stata oggetto di recenti studi affidati all’Università di Bergamo. La nostra associazione aveva proposto nel 2010 una metropolitana Triangle-Line che, in sopraelevazione sulla tangenziale Est e sul tratto urbano dell’autostrada Venezia-Torino, collegasse Linate con Sesto San Giovanni (aree Falck e direzione Orio al Serio) e Rho-Pero (area Expo e direzione Malpensa) senza gravitare sul centro cittadino. Nel frattempo la linea 4 della metropolitana è in costruzione, la linea 5 è stata inaugurata e i lavori proseguono. Come considera il trasporto metropolitano interrato e come il Comune dovrebbe essere coinvolto nella costruzione di nuove linee? Se eletto sindaco, che intenzioni ha rispetto alla Circle-Line più volte proposta sull’anello del ferro milanese? Quali altri eventuali linee si impegna a promuovere? In che modo intenderà mettere in sinergia i tre aeroporti, sia dal punto di vista amministrativo sia dal punto di vista dell’accessibilità? Come queste scelte si coordinano con il sistema ferroviario e con la mobilità privata su gomma? Che intenzioni ha in tema di secondo passante ferroviario? Cosa pensa del proliferare di tratti autostradali costruiti o in costruzione nell’intorno milanese (Brebemi, Pedemontana, Tangenziale Esterna di Milano)?

4. Mobilità
Se eletto sindaco, confermerà l’attuale perimetro dell’Area C? Si impegnerà per allargarla? Quali azioni intraprenderà per potenziare il sistema di vie ciclabili e l’uso della bicicletta? Cosa pensa del car sharing e come crede che il Comune debba esserne coinvolto?

5. Inquinamento atmosferico
Legambiente riporta che le grandi fonti di inquinamento atmosferico sono il traffico veicolare, il settore industriale in particolare per la produzione di energia e il riscaldamento. Se eletto sindaco, quali azioni intraprenderà per limitare le emissioni con particolare riferimento a: traffico automobilistico, produzione di energia, riscaldamento? Come pensa di contribuire a queste limitazioni tramite l’urbanistica e con quali specifiche scelte?

6. Piano delle acque
Recenti fatti hanno dimostrato la fragilità dell’idrografia milanese. Se eletto sindaco, quali interventi strutturali attuerà per salvaguardare la popolazione da esondazioni? E con specifico riferimento al fiume Seveso? E al fiume Lambro? Cosa ne pensa della riapertura dei navigli, che ogni tanto torna alla ribalta, forse un po’ anacronisticamente? Per quanto riguarda la depurazione delle acque reflue urbane, come considera l’attuale sistema in essere e quali potenziamenti ritiene necessari? Come si interfaccerà con gli altri enti locali sovracomunali? E in particolare, quale ruolo pensa al riguardo per la città metropolitana?

7. Piano del riuso
L’enorme numero di appartamenti sfitti e immobili abbandonati impone una presa di posizione da parte del Comune in materia del riuso. Se eletto sindaco, come strutturerebbe un innovativo “Piano del riuso”? Come attuerebbe un censimento di unità e immobili sfitti, pubblici e privati? Come ha intenzione di utilizzare questo enorme patrimonio per le necessità abitative di classi deboli e di migranti? Per le necessità di posti di lavoro a buon mercato per giovani, precari e disoccupati? Per dotare la città di spazi per la cultura, associazionismo, formazione, culto?
Consideriamo un caso specifico: uno degli edifici emblematici dell’architettura milanese del ‘900, l’Istituto Marchiondi-Spagliardi progettato da Vittoriano Viganò, versa in pessime condizioni di conservazione e i suoi spazi sono per la maggior parte abbandonati. Se eletto sindaco, si impegna a mantenere la proprietà comunale dell’edificio? Che destinazione prevede per esso? Che tipo di gestione e con quali soggetti sarebbe auspicabile?

8. Trasformazione delle aree urbane
L’attuale giunta non ha portato a termine la definizione dei criteri di trasformazione degli scali ferroviari milanesi, oltre un milione di mq. Se eletto sindaco, quale indice territoriale ritiene adeguato per queste aree (proposta attuale giunta 0,65 mq/mq, precedenti giunte 1 mq/mq)? Sfrutterebbe la perequazione per trasferire parte del volume? Quanti mq di spazi pubblici per abitante? Di questi, quanti reperiti in loco? Di questi, quanti mq di servizi di quartiere? Non ritiene il sindaco che la questione degli scali ferroviari (oggi degradata a mero incidente di percorso in Consiglio) non sia una questione di livello nazionale, essendo Milano il vero nodo di accessibilità all’intero Paese?
Per quanto riguarda le aree militari, se eletto sindaco che tipo di accordo promuoverà? In quale sinergia con la trasformazione degli scali ferroviari? Che indirizzo intende elaborare per l’area dell’Ippodromo del Trotto? Per il Giardino dei Giusti? Per la nuova grande Moschea, anche in rapporto con luoghi di culto più piccoli? Per un eventuale vero grande Palazzo dello Sport? Per il Polo ospedaliero? Per un parco scientifico tecnologico, promuovente l’interazione tra ricerca e produzione? Per l’area dell’Ortomercato, sia nel caso di consolidamento che di trasferimento?
Nelle trasformazioni urbane, a grande e piccola scala, se eletto sindaco come promuoverà il progetto di architettura e il progetto urbano, con quali procedure concorsuali, sia in campo pubblico sia in campo privato? Con quali semplificazioni burocratiche e amministrative in tema di procedure di permesso di costruire, rapporto con vincoli soprintendenza, ecc.?
Rispetto a queste tematiche, se eletto sindaco che impulso darà al “Fondo si sviluppo urbano” ipotizzato dall’attuale giunta?

9. Destino delle aree Expo
Se eletto sindaco, che vocazione vorrà conferire all’area? Come considera l’intervento del governo e la scelta dell’IIT come soggetto coordinatore del nascituro polo scientifico? Che percentuali di residenza, uffici, servizi, produzione, altre funzione ritiene sia corretto prevedere? Come pensa di liquidare Fondazione Fiera, che conferì i terreni di sua proprietà in seguito alla variante che li ha resi edificabili in una prospettiva di speculazione fondiaria? Sosterrà i maggiori costi di bonifica verificatisi o intenderà rivalersi sui venditori dei terreni, come da normalissima prassi di compravendita? Quale ruolo ritiene questa area debba avere nell’ambito del sistema infrastrutturale milanese?

10. Piano dello spazio pubblico
Se eletto sindaco, come contrasterà l’attuale dilagante trend di privatizzazione dello spazio aperto (a solo titolo di esempio basta considerare gli spazi dell’intervento Porta Nuova/Garibaldi: la piazza Aulenti, l’intervento di Agnes Denes, ecc.)? Ritiene che gli spazi pubblici siano una domanda emergente, e un mezzo per facilitare la coesione sociale? Come pensa di coinvolgere le energie sviluppate, spesso inespresse o tenute perfino ai margini del dibattito, di gruppi di cittadini, comitati, associazioni, professionisti?

(*) Questo "decalogo" predisposto in bozza ed espressione dell'Associazione Architectural & Urban Forum, è stato condiviso e/o modificato in parte con osservazioni e contributi successivi di Lorenzo Degli Esposti; Rolando Mastrodonato; Sergio Brenna; Luca Ruali; Luca Beltrami Gadola; Ado Franchini; Fabrizio Bottini; Andrea Cammarata; Andrea Masu; Federico Reyneri; Pietro Macchi Cassia; Marco Biraghi; Marco Brizzi; Marco Chiappa; Maurizio de Caro; Maurizio Petronio
Il futuro delle città italiane si decide con le scelte sulle aree pubbliche dismesse. Nel caso degli scali ferroviari milanesi, in che modo si tiene conto dell'interesse pubblico? Sagge considerazioni su arcipelagomilano.org. In calce, link utili per approfondire (m.b.).

La fine del 2015 oltre a darci uno dei periodi più lunghi degli ultimi anni con il superamento dei livelli di norma per le polveri sottili, ci ha anche lasciato lo psicodramma politico generato dalla vicenda della ratifica da parte del Consiglio Comunale dell’Accordo di Programma per la riqualificazione degli scali ferroviari. Risultato che, come noto, non è stato successivamente conseguito.
In questo psicodramma la discussione sullo specifico in realtà ha avuto poco spazio e con questa affermazione non parliamo dei numeri, dei mq. edificabili, delle compensazioni o altro ma piuttosto di una esplicita discussione sugli obiettivi strategici, il senso e merito, le ragioni del “patto di utilità collettiva” tra i diversi contraenti. Il passaggio in Consiglio comunale non avrebbe dovuto avere anche queste finalità?
La maggior parte dello spazio è stato invece consumato in un dibattito condizionato da logiche politiciste con la finalità di addossare colpe a chi, consapevolmente o inconsapevolmente, ne avrebbe favorito il fallimento. Il mantra ossessivamente veicolato, obbediente a una logica secondo noi mal impostata, recitava che quello in approvazione rappresentava “il miglior accordo possibile”. Qualità che si sostanziava nella riduzione dei volumi edificabili e nel miglioramento delle contropartite per la pubblica amministrazione, complessivamente intese, rispetto alla precedente versione dello stesso Accordo proposto dalle giunte di centro-destra.
Forse per valutare e qualificare meglio questa affermazione sarebbe opportuno rimettere in ordine i fattori di questa scelta e capire di che cosa stiamo parlando anche per stimolare coloro che nell’amministrazione comunale dovranno riprendere in mano la questione. Anche in ragione di una dialettica più laica e meno legata alle utilità e alle contingenze del momento.
Esigenze di sintesi ci obbligano a dare per conosciuti gli aspetti di contenuto di questo Accordo, richiamando il fatto che le funzioni prevalenti individuate coincidono con insediamenti residenziali, comprese quote di edilizia sociale, verde e urbano e connessioni viabilistiche e ciclabili (i contenuti di dettaglio sono comunque qui consultabili).

A Milano gli scali ferroviari costituiscono uno stock di circa 1.250.000 mq di aree molto diverse tra loro per collocazione, dimensione, qualità del contesto urbano nel quale si inseriscono; sono però accomunate da una medesima caratteristica: essere posizionate sulla e nei nodi della rete del trasporto pubblico su ferro, di livello nazionale, metropolitano e urbano.
Una caratteristica eccezionale che assegna quindi a queste aree un valore strategico per qualsiasi ipotesi di riassetto dell’area metropolitana. Ancorché attualmente in condizioni di dismissione e di degrado, esse rappresentano aree privilegiate e da privilegiare in funzione di qualunque ipotesi di disegno che voglia reinterpretare le relazioni e le dinamiche che attualmente qualificano il livelli di qualità del sistema, rendendola attrattiva e competitiva sia dal punto di vista urbanistico-territoriale che da quello dello sviluppo economico, del riequilibrio ambientale o delle modalità che condizionano gli spostamenti e la mobilità di circa 1.300.000 abitanti residenti e quasi 3.000.000 di city users.
Se c’è accordo sul riconoscimento di queste caratteristiche e sulle relative potenzialità, riavviare il processo di riqualificazione di queste aree dovrebbe comportare la necessità di riflettere su alcune questioni e domande preliminari. Proviamo ad elencarne alcune, anche se in forma non esaustiva, che non vogliono essere per nulla retoriche ma che hanno la funzione di mettere a fuoco alcuni aspetti che riteniamo essere stati fino a ora considerati in modo non sufficientemente approfondito.

1 Per le caratteristiche cha abbiamo richiamato, queste aree rappresentano “per definizione” dei nodi di rilevanza metropolitana. È quindi lecito – utile – opportuno mettere in gioco queste aree e chiudere la porta a qualsiasi altra opzione, senza un preventivo confronto con le esigenze dell’area metropolitana nel momento in cui la stessa Città Metropolitana sta elaborando il proprio Piano Strategico?
2 Qual è il disegno o la strategia urbana supportato dalla messa in gioco di queste aree (pregiatissime) e la relativa destinazione funzionale?
3 Preliminarmente all’Accordo, non sarebbe opportuno esprimere un progetto a cui legare il “Patto di utilità collettiva” fra i diversi contraenti, esplicitandone le ragioni e gli obiettivi? Ovvero, la cessione di tali quantità di rendita urbana si giustifica nelle funzione insediate con un adeguato ritorno utile alla collettività e alla istituzione metropolitana e comunale?
4 Milano ha un serio problema nel PGT ereditato che, anche se debolmente emendato, conserva una impostazione orientata soprattutto allo sviluppo edilizio e alla valorizzazione immobiliare, senza una visione strategica, con un approccio poco aperto alla dimensione metropolitana e che non ha integrato sistema urbano e bisogni di mobilità. È opportuno dar luogo alle trasformazioni sugli scali senza sintonizzare lo strumento urbanistico con una idea di città di medio-lungo periodo che assuma obiettivi diversi come ad esempio ipotesi di riequilibrio ambientale che si reggano su una radicale trasformazione della mobilità dell’intera Città Metropolitana?
5 Qual è il senso di trattare in modo indifferenziato dal punto di vista del mix funzionale, delle densità e dei parametri urbanistici, aree che hanno dimensioni e morfologie tanto diverse e che dovrebbero dialogare con contesti urbani così disomogenei? Quali sono le economie urbane e gli effetti di rigenerazione che si intendono promuovere?
6 L‘esperienza della riqualificazione delle aree Expo ha evidenziato che il ricorso alla sola valorizzazione immobiliare di un’area con dimensioni rilevanti, seppur strategica e con elevati livelli accessibilità, costituisce un approccio fallimentare se non connessa a una idea e a un progetto molto caratterizzato e di largo respiro. Tant’è che dopo che il “mercato” ha bocciato questo approccio, si è deciso di cambiare rotta. Perché riprodurre quindi un analogo modello di intervento?

Quest’ultimo tema, relativo alla valorizzazione immobiliare, evidenzia un’altra questione di grande impatto in relazione alla attuale proprietà delle aree e ai relativi aspetti di negoziazione dei limiti degli interventi. Come noto, la disponibilità di queste aree è stata ottenuta a suo tempo in relazione alla necessità di esercitare un servizio di interesse pubblico e collettivo, quindi non con procedure negoziali e di mercato ma mediante acquisizione per pubblica utilità (con uno sforzo collettivo quindi), in uno scenario che non prevedeva la successiva privatizzazione dei gestori di questo patrimonio che oggi mirano principalmente alla valorizzazione immobiliare dei siti.
Questo non è un tema esclusivamente milanese ma coinvolge una questione di livello nazionale che interessa in prevalenza i maggiori centri urbani e capoluoghi del Paese. L’anomalia e la difficoltà di gestire da parte delle singole Amministrazioni comunali un rapporto oggettivamente asimmetrico con un soggetto oggi “non formalmente pubblico” che gestisce un patrimonio acquisito con risorse collettive, dovrebbe essere quantomeno oggetto di attenzione a livello nazionale, anche per riequilibrare le rispettive capacità di negoziazione nei confronti di un effettivo interesse pubblico e non essere appiattita sulle esigenze di “fare cassa” e slegata da una effettiva costruzione sociale.
Perché allora non promuovere un’interlocuzione con il Governo nazionale che veda Milano e la sua Città Metropolitana aggregare intorno alla questione l’ANCI e alcune delle più importanti città del Paese, per riequilibrare questa asimmetria e conseguire maggiori gradi di libertà e di potere contrattuale nel definire le proprie strategie e politiche urbane?

Riferimenti

Qui il collegamento alla pagina del comune dove sono scaricabili i documenti
Sullo stesso argomento: su arcipelagomilano.org, le opinioni di Luca Beltrami Gadola, Sergio Brenna, Giorgio Goggi, Giuseppe Longhi.

Stanno scoppiando una a una le cariche a orologeria dirette a sabotare i pilastri dell'urbanistica pubblica (e di qualsivoglia idea di città) messe dai liberisti rampanti all'epoca dei cosiddetti «Piani Integrati»? Alessia Gallione e Fulvio Irace, La Repubblica Milano, 7 gennaio 2016, postilla (f.b.)

CATELLA: «NON SONO IL PADRONE,
MA SOLO UN ARTIGIANO DELLA CITTÀ»
di Alessia Gallione


Porta Nuova lancia la fase “4”: e dopo Garibaldi, le ex Varesine e l’Isola, il quartiere simbolo della “nuova Milano” punta ad allargarsi verso via Melchiorre Gioia. Si parte dalla torre dell’Inps acquisita dalla società di Manfredi Catella che, dopo aver sviluppato e venduto Porta Nuova al fondo sovrano del Qatar ha coinvolto in questa operazione un altro pezzo di Golfo: il fondo sovrano di Abu Dhabi. L’obiettivo: «Ricucire anche quest’area parzialmente irrisolta con il resto della città», dice Catella. Che, però, spiega: «Non sono il nuovo padrone di Milano, ma solo un artigiano che vuole rinnovarla».
Il quartiere è destinato ad allargarsi verso via Melchiorre Gioia. Con un primo tassello: la torre dell’Inps acquistata - per il fondo Porta Nuova Gioia - dalla Coima sgr guidata da Manfredi Catella. Un altro pezzo di città destinato a cambiare e a farlo anche con investitori internazionali: dopo aver venduto Porta Nuova al fondo sovrano del Qatar, infatti, Catella ne ha coinvolto un altro in questa operazione, quello di Abu Dhabi.

Manfredi Catella, è il nuovo padrone della città?«Per niente. Noi siamo solo professionisti e lavoriamo per conto di investitori di tutto il mondo. Io non sono personalmente proprietario, mi sento un artigiano che lavora sul territorio per conto dei propri clienti».

Che differenza c’è, quindi, tra lei e gli immobiliaristi del passato alla Ligresti che hanno segnato le sorti di interi quartieri di Milano?«La differenza è semplice e riguarda due fattori per me fondamentali: qualità e reputazione. Con Porta Nuova ci siamo presi la responsabilità di riportare la qualità del costruire bene la città in chiave contemporanea. Può piacere o non piacere, ma l’impegno è evidente e ha contribuito a dare lustro internazionale a Milano. In queste due parole c’è tutto: significa anche essere trasparenti, operare con le regole del mercato».

Che progetto avete per la torre dell’Inps?«Per il momento abbiamo fatto studi per verificare le dimensioni che l’edificio potrà avere e altri per la zona pedonale e gli attraversamenti. Quella è un’area in parte irrisolta: la nuova sede della Regione ha creato un polo importante, ma poi ci sono altri edifici non utilizzati, dall’Inps alla Torre Galfa».

Quella zona, in realtà, è lo storico centro direzionale della città. Nella sua visione, che cosa dovrà diventare?«Con Porta Nuova abbiamo costruito un nuovo, importante, centro direzionale, ma anche realizzato un mix tra residenze, commercio, cultura. È una strada auspicabile perché è la varietà che crea la vitalità di una città. In questo caso, credo che la vocazione naturale rimarrà direzionale e commerciale, con innesti di abitazioni come per il progetto che stanno sviluppando realtà cinesi a fianco dell’edificio del Comune di via Pirelli. Adesso bisogna riuscire a ridare alla zona una propria identità, a ricucirla con la città: è il lavoro fatto con Porta Nuova».

Sembra disegnare un piano più ampio del palazzo dell’Inps: vuol dire che non vi fermerete qui?«Guardiamo sicuramente ad altri edifici in zona perché vorremmo completare il lavoro di riqualificazione del quartiere. Tre anni fa, ad esempio, abbiamo comprato da un fondo tedesco insieme a investitori istituzionali italiani un immobile in via Gioia: dopo una ristrutturazione integrale oggi ospita un hotel e uffici. Un ruolo importante lo avrà anche Unipol, che possiede tre indirizzi strategici: uno all’interno di Porta Nuova, uno in via De Castillia e la Torre Galfa».

Il nuovo design della torre Inps sarà affidato a Cesar Pelli, l’architetto dell’Unicredit Tower e del masterplan Porta Nuova. Perché abbattere e ricostruire, però? Non si poteva salvaguardare un pezzo della Milano degli anni ‘60?«Guardi, mi considero un agnostico in questo. Ci sono edifici che hanno un valore storico che va preservato ed è quello che abbiamo fatto con un monumento come l’ex Palazzo delle Poste di Ferrante Aporti di cui ci siamo occupati. Altri immobili sono semplicemente vecchi e hanno caratteristiche che li limitano. Nel caso dell’Inps non avremmo potuto garantire elevati standard di efficienza».

Ma in questo modo non si rischia di perdere la memoria della città?«Qualsiasi città è un organismo vitale che si rinnova. Milano è passata da centro industriale a terziario, dai servizi agli abitanti tornati in centro. La qualità si fa anche abbattendo e ricostruendo. Preservare è solo una parte della storia».

Siete arrivati alla fase “4”: perché questo sviluppo a pezzi?«Una visione generale ce l’avevamo fin dal primo giorno, ma la proprietà dell’area era molto frammentata. Di fatto non avevamo un foglio bianco su cui disegnare, ma tante tessere e il mosaico poteva essere formato solo mettendo insieme pezzi diversi per genesi ed evoluzione. L’amministrazione, però, ha cercato di garantire un disegno unitario e vincoli precisi».

Eppure una critica riguarda propria la mancanza di una visione generale.«Non sono d’accordo. Con Porta Nuova abbiamo creato un dialogo virtuoso con il pubblico e cercheremo il confronto con il Comune e la Regione anche per la torre Inps. Il successo del progetto non sarà solo costruire un bell’edificio, ma progettare la parte pubblica, connetterlo con la città».

L’operazione degli scali ferroviari è rimandata, ma le aree, a cominciare da via Farini, sono strategiche. Potreste investire anche lì?«Il nostro mestiere è fare sviluppo immobiliare. Sicuramente osserviamo con attenzione quello che accadrà».

I RISCHI DELLA COLONIZZAZIONE:
IL COMUNE NON DICE QUAL'È LA SUA STRATEGIA
di Fulvio Irace

Nella seconda metà degli anni degli anni 50 Milano provò a essere internazionale: dopo aver superato brillantemente la fase della ricostruzione, si trovò infatti a cavalcare l’euforia dell’imminente miracolo economico. E il simbolo più ovvio della rinascita della “città che sale” fu il rilancio del grattacielo e delle torri nello skyline di una Milano che sognava di diventare metropoli. Qualcuno di quei sogni si concretizzò in periferia – nella Metanopoli di Mattei - qualcuno nel cuore della città antica (la torre Velasca); ma il nido dove gli architetti depositarono per lo più le loro ambizioni di grandezza fu l’area del cosiddetto centro direzionale: una sorta di moderna città degli uffici, quasi una city ai margini della città storica, a ridosso della stazione Centrale e di piazza della Repubblica.

Nel 1954 la Torre Breda di Luigi Mattioni rimase per quattro anni l’edificio per abitazioni più alto d’Italia; nel 1959, la Torre Galfa di Melchiorre Bega la tallonò per poco e tutte e due furono superate nel 1960 dal grattacielo Pirelli di Ponti e Nervi. Attorno ad esse si annidarono, poco alla volta, una serie di edifici di varie dimensioni, ma tutti improntati all’estetica della torre di vetro sulla suggestione del modello americano: gli Uffici tecnici del Comune degli architetti Gandolfi, Bazzoni, Fratino e Putelli che fungevano da nuova “porta” dell’asse di Gioia; il palazzo Galbani di Soncini e Pestalozza in via Filzi; i complessi di Menghi, Righini e Valtolina, lì accanto; e la più modesta torre dell’Inps di Giordani, Susini e Vincenti in via Melchiorre Gioia 22, di cui si è appena annunciata la demolizione per far posto a una torre ultramoderna dell’architetto autore della Unicredit tower, Cesar Pelli.

Al di là del valore del singolo edificio, ce n’è abbastanza per riconoscere all’intero distretto un suo carattere unitario, un valore ambientale sempre più evidente e unico proprio a fronte delle radicali trasformazioni innescate dalla gigantesca operazione del cantiere Porta Nuova.

Sull’onda del suo successo, il progetto di riqualificazione urbana che troverebbe il suo fulcro nella costruzione di un nuovo complesso sulle ceneri dell’ex Inps punta dunque a estendere la colonizzazione della città postmoderna sui resti di quella moderna. Negli anni 50, si voleva dimostrare che alla città di pietra del fascismo si potesse sostituire una città trasparente e democratica; oggi si vuole dichiarare inadeguato e fuori moda tutto ciò che non corrisponda ai nuovi parametri di efficienza energetica, performatività funzionale, estetica del translucido e del colossale.

L’operazione non nasce ora, ma proprio quando, nel 2012, l’Inps annunciò la dismissione dei suoi headquarters e la vendita dell’edificio del 1955 al Carlyle Group, controllata da Real Estate Sgr. Qualcuno forse ricorderà che fu promosso un concorso a inviti: furono invitati dieci gruppi ( tra cui il milanese Caputo Partnership) e individuato come vincitore il francese Jean Michel Wilmotte. Al posto di un edificio, ne sarebbero sorti due; il vecchio complesso di quindici piani sostituito da una lastra di 84 metri.

Dopo l’annuncio e la promessa del Comune di inviare osservazioni in merito, un lungo silenzio, interrotto proprio ora dalla promessa del presidente della Coima Ssgr (la società che ha acquisito l’immobile), Manfredi Catella, di voler procedere a un piano complessivo di riqualificazione a partire dalla demolizione dell’edificio e dalla riconversione di altri palazzi limitrofi.

Se è noto il programma, non sono noti i piani e in particolare il progetto affidato alle cure di Cesar Pelli: è chiaro però che si è scartata sin dall’inizio la strada del restauro o dell’”aggiornamento” tecnologico come ad esempio nel complesso di via Gioia 8, progettato nel 1970 da Marco Zanuso e “rivisitato” da Park Associati, o nella piccola torre di via Filzi 23 con la sostituzione degli infissi e dei vetri di facciata.

Ma, se nel caso di Porta Nuova si trattava di riedificare quasi dal nulla un nuovo pezzo di città, in quello dell’ex edificio Inps si propone un intervento che va a incidere su una parte di città che ha invece un carattere molto preciso e ormai anche storicizzato. Al di là delle legittime aspirazioni dell’imprenditoria privata, ci si chiede se l’ente pubblico (il Comune, ma anche la Soprintendenza) abbiano una strategia o almeno una visione per questa area di Milano con caratteri ambientali tanto forti e caratterizzanti. Si sono calcolati o previsti gli effetti a catena che un metodo di sostituzione caso per caso comporterebbe nello stravolgere l’assetto ambientale della zona? Chi si oppone al cambiamento è spesso tacciato di essere un “gufo”: ma chi si oppone a discutere le forme del cambiamento non rischia forse di dilapidare il patrimonio come una “cicala”? Un dibattito pubblico sull’area del centro direzionale potrebbe essere, alla vigilia delle elezioni per il nuovo sindaco, un bel terreno di confronto per chi crede ancora nel valore collettivo dell’urbanistica e dell’eredità urbana.

postilla

Fulvio Irace osserva giustamentecome occorra «riconoscere all’intero distretto un suo carattereunitario, un valore ambientale sempre più evidente e unico proprio afronte delle radicali trasformazioni innescate», ma forse c'èqualcosa di più da aggiungere, a questa idea di urbanistica che infondo resta pur sempre ancorata a quella di architettura, ed è unpossibile sgretolamento di qualsiasi strategia di sviluppo. Uno deilibri sui temi urbani di maggior successo di questa stagione, è«City on a Grid» di Gerard Koeppel (Da Capo Press, 2015), chericostruendo le tappe attraverso cui New York è diventata ilparadigma della città moderna, individua come invariante – ovvia,ma forse non a sufficienza – proprio quella struttura a scacchieradell'impianto viario, decisa da un giurista liberale giàestensore della Costituzione degli Stati Uniti, Gouverneur Morris, eche ha attraversato praticamente indenne due secoli di pur radicalitrasformazioni, sia nella composizione spaziale «sovrastrutturale»che nelle innovazioni tecnologiche, dalla ferroviaall'elettrificazione alle automobili al recente revival dellamobilità dolce e della dimensione di vicinato. E la domanda, davantiallo stravolgimento urbanistico di un'area di raccordo metropolitanocome l'ex Centro Direzionale, per realizzare il quale si interrò unlunghissimo tratto del Naviglio nel dopoguerra, suona: siamo difronte a un vero e proprio attacco all'idea di città, da parte di unpensiero sventatamente liberista e reazionario? Oppure quel che ci haconsegnato la storia, urbana e non, saprà reggere come avvenutosinora con la «Griglia», a suo modo anche garanzia di un relativoequilibrio fra spazio pubblico e privato? Forse qualche rispostainizierà a emergere anche dal dibattito elettorale, e di sicurodalle scelte della prossima amministrazione cittadina, nonché dellafuturibile Città Metropolitana, di cui si sente particolarmente inquesti casi l'assenza (f.b.)

Il Comitato La Goccia ci invia la denuncia di un caso macriscopico di malcostume urbanistico, criticabile da più versanti:quelli della salute della città e dei cittadini, della tutela di quel che resta di natura e di bellezza, della correttezza professionale dei diversi potenti e potentini coinvolti, dell'inerzia dell'opinione pubblica. Un appello, non indirizzato solo ai milanesi

Un preliminare di progetto urbanistico secretato, di cui gli organi collegiali del Politecnico prendono atto senza conoscerlo. Una completa confusione o commistione di ruoli tra proprietari delle aree e responsabili della pianificazione, ed anzi un potenziale conflitto di interesse nella persona dell’assessore all’urbanistica, Alessandro Balducci, professore e già pro-rettore vicario del Politecnico. Una fretta indiavolata: progetto urbanistico entro due mesi, si direbbe per condizionare la nuova amministrazione comunale che uscirà dalle urne. Una densità edilizia ipotizzata (circa 8 mc reali, vuoto per pieno, per ogni mq di superficie territoriale) incredibile, come non succedeva neppure nei più lontani anni 50, tanto meno su aree di questa estensione; ed insostenibile in una città afflitta da una qualità dell’aria largamente fuori dalle norme europee. E sullo sfondo una bonifica avviata violando, o se si preferisce disapplicando disinvoltamente la legge, giusto quanto serve per avere la possibilità di segare uno splendido bosco urbano di alto fusto.

Non sono gli ingredienti di una fiction, ma le modalità con cui, al crepuscolo del mandato di questa giunta milanese, si sta realmente consumando la vicenda della progettazione dell’Ambito di trasformazione urbana (ATU) Bovisa, nel silenzio generale dei media e nell’ignoranza non solo dei cittadini ma persino degli addetti ai lavori.

L’area di Bovisa nota come la Goccia, cioè quella occupata dai gasometri e dalle altre attrezzature industriali dismesse per la produzione del gas di città è una enclave pressoché sconosciuta perché chiusa all’accesso del pubblico, e tuttavia carica di interesse e di valori ambientali e paesaggistici: decine di affascinanti edifici di archeologia industriale sparsi in un’area popolata da più di duemila alberi di alto fusto tra i quali si è ormai insediata anche una variegata presenza faunistica.

In qualunque città civile un’area siffatta sarebbe stata da tempo oggetto di un attento rilevamento, da pubblicizzare al massimo in modo da promuovere il più largo confronto di idee sul modo di utilizzare questo gioiello, unico dentro un contesto per il resto totalmente cementificato.

Da noi sta avvenendo esattamente il contrario. Mentre si tengono serrati i cancelli dell’area con la

scusa della sua contaminazione, in modo che i cittadini siano generalmente inconsapevoli di quale tesoro si nasconda dietro i muri di recinzione, mentre si segano gli alberi con il pretesto di una bonifica che riteniamo in violazione di legge, costosa per l’erario e non necessaria, e dopo un lungo e inconcludente workshop “di partecipazione”, relativo solo ad una porzione minore dell’area, un piccolissimo gruppo di addetti disegna invece, segretamente, il futuro di tutto l’ambito di trasformazione urbana, curando di conciliare a priori gli interessi degli stakeholder, in modo da fare poi fronte compatto contro le possibili reazioni dei cittadini. Così almeno sembrerebbe di capire, a giudicare dalle modalità “carbonare” con le quali la progettazione è stata avviata e viene mantenuta riservata.

Il Comitato la Goccia ha fatto la sua parte, ricorrendo al Presidente della Repubblica contro la bonifica fuori legge e chiedendone la sospensione. L’assessore in carica, come di solito non succede, ha preferito accelerare piuttosto che attendere almeno il giudizio sulla sospensiva. Ha così fatto iniziare i lavori del lotto 1A, a partire dal taglio del bosco, che è già stato realizzato. Verrebbe da dire, nell’ evidente tentativo di porre il Consiglio di Stato, che giudicherà il ricorso, di fronte al fatto compiuto ed irreversibile.E’ dunque guerra aperta, e come in tutte le guerre agli attacchi conseguono e conseguiranno inevitabilmente i contrattacchi.

Il Comitato la Goccia chiede perciò al Consiglio comunale di Milano di intervenire per fermare le ostilità, e per richiamare tutti a considerare prioritariamente l’interesse generale della città, piuttosto che quelli degli operatori, privati o para pubblici che siano.

Il Comitato La Goccia

Antonella Adamo, Giuseppe Boatti, Luciana Bordin, Filippo Davide Cucinella, Andrea Debosio, Cinzia Del Manso, Francesca Grazzini, Maria Grazia Manzoni, Maurilio Pogliani, Francesco Radino, Edi Sanna, Marina Susana, Patrizia Trevisan, Alessandro Vimercati)

Perapprofondimenti:

Suggerimenti per un riuso corretto (dal punto di vista delle persone) delle grandi aree dismesse. Milano. Non averli seguiti ha comportato una perdita per la città. La Repubblica, ed. Milano, 20 dicembre 2015

Considerarela proprietà dei suoli come depositaria di diritti astratti (indici diedificabilità), in assenza di una guida strategica da parte della manopubblica, porta a esiti devastanti sul fronte del fare città. Tanto più per legrandi aree dimesse. Costellata com’è di straordinarie occasioni perdute,l’esperienza milanese dell’ultimo quarto di secolo è lì a dimostrarlo.

Gliindici volumetrici allora non contano? Tutt’altro; il problema è se hanno unavalenza programmatica in senso civile. Ovvero se sono sorretti da un’idea dicittà e dunque da adeguate simulazioni/prescrizioni sui possibili esiti su trefronti: coesione sociale, vitalità degli spazi pubblici, architettura deiluoghi. Decenni di sperimentazioni sul recupero delle grandi aree dismesse diMilano mi portano a dire che, se si supera la soglia dei 0,5 mq di superficielorda di pavimento su 1 mq di superficie territoriale, gli esiti sonoinevitabilmente squilibrati: verranno a mancare le dotazioni in termini diverde e servizi necessarie per infondere qualità urbana ai comparti interessati.Si obietterà che, con l’Accordo di Programma che non ha avuto il via libera dalConsiglio comunale, le volumetrie previste dalla Giunta Moratti (1mq/1mq) sonostate ridotte del 33%. Il passo avanti è apprezzabile, ma non basta. Vannoulteriormente riviste le quantità, ma soprattutto è il processo che vagovernato. Il Comune non può stare alla finestra aspettando solo di incassaregli oneri di urbanizzazione. Deve entrare nel processo come soggettoprogettante e come tutore del bene collettivo. Come? Richiedendo lacostituzione di una Società di Trasformazione Urbana (STU), sotto il propriocontrollo.

Sonoin gioco aree la cui proprietà è in capo a un soggetto pubblico come leFerrovie della Stato. Le Ferrovie hanno goduto di facilitazioni per larealizzazione dei loro impianti: le aree che si liberano sono di proprietàdella comunità civile, presente e futura. Anche per la loro posizione, questivasti spazi si prestano a essere inseriti in un disegno più ampio, volto arinsaldare parti di città in una logica di riqualificazione estesa. Sinergie econnessioni che devono andare ben aldilà delle aree direttamente investite dallatrasformazione. È l’occasione per fare qualcosa di concreto per le periferie eper dar vita a un vero policentrismo rinsaldando la città compatta. Oltre aricondurre gli indici nella misura sopra indicata, l’Accordo di Programma deve dunquecontenere prescrizioni che guidino gli investitori al conseguimento diobiettivi civili – integrazione, vivibilità, urbanità, sostenibilità e bellezza– da cui può trarre vantaggio la stessa iniziativa privata.

Con il recupero degli scali ferroviari si apre dunque unnuovo capitolo di importanza capitale per la città ambrosiana. A ben vedere,dopo quattro anni di governo, è questo il primo vero banco di prova dellaGiunta Pisapia. Si vedrà da qui se l’Amministrazione arancione è effettivamentein grado di avviare una stagione progettuale in cui il destino della cittàtutta venga finalmente posto al centro della strategia politica. Dopo l’euforiavacua che ha connotato la stagione di Expo, è tempo di scelte concrete esostanziali. Altro che schermaglie sulle primarie: è dopo le decisioni sugliscali (e sulle caserme) che si potrà fare un bilancio vero su cinque anni

Ecco perché per Milano è stato meglio non approvare un progetto di ulteriore mercificazione e densificazione della città. La città invisibile rivista online, n. 33, 20 dicembre 2015
«Le aree ferroviarie sono un’occasione per la riconfigurazione delle città italiane e anche a Firenze c’è in questione il destino di un’area ferroviaria analoga a quella milanese, vicenda analizzata in questo contributo di Sergio Brenna: le ex Officine ferroviarie di Porta a Prato con la ex stazione Leopolda e il nuovo Teatro dell’Opera. Un corredo eccellente per i 54.000 mq che l’Amministrazione Comunale ha lasciato alla “Città dei Balocchi” per grandi ricchi, sottraendo alla città dei cittadini risorse essenziali rappresentate da quelle ex Officine. (rbg)»

La Giunta Pisapia la scorsa settimana ha subìto un imprevisto rovescio con la mancata ratifica in Consiglio comunale dell’Accordo di programma con FS sul riuso degli ex scali ferroviari milanesi, per il voto contrario, oltre quello prevedibile del centro-destra, dei due consiglieri di Sinistra per Pisapia, Rizzo e Sonego, del socialista Biscardini, presidente della commissione urbanistica, e a causa di altre assenze e astensioni persino di alcuni consiglieri PD.

I “renitenti” alla ratifica dell’Accordo nella forma in cui è stato sottoscritto con FS dal Sindaco con l’avallo della Dirigenza del settore Urbanistica sono stati subito bollati come autori di un gesto inconsulto, contrario all’interesse della città e quelli di maggioranza come traditori del programma politico-amministrativo e minacciati di “confino politico” nella prossima campagna elettorale.

Il nuovo assessore all’urbanistica, l’urbanista Balducci, sembra aver assunto un atteggiamento di distacco neutrale sui suoi contenuti, avendoli integralmente ereditati dalle trattative con FS condotte dal precedente assessore e vicesindaco, l’avvocato Lucia De Cesaris, dimessasi improvvisamente nel luglio scorso con motivazioni mai del tutto chiarite.

Il riutilizzo degli scali ferroviari è il primo grande piano di trasformazione urbana gestito direttamente dalla Giunta Pisapia e non ereditato dalle precedenti Giunte Albertini e Moratti, come quelli ex Fiera/Citylife ed ex Centro Direzionale/Porta Nuova. L’Accordo con FS, quindi, dovrebbe costituire il banco di prova della capacità dell’Amministrazione arancione di essere effettivamente in grado di avviare una stagione progettuale in cui il destino della città tutta venga finalmente posto al centro della strategia politica, fuori dall’orgia di vanagloria che, nel suo “piccolo”, ha saputo essere la stagione di Expo (poiché i problemi dell’alimentazione mondiale richiedono ben diverso e più duraturo impegno per essere avviati a soluzione).

Perché, dunque, è stato invece un bene per la città non aver ratificato in quella forma l’Accordo di Programma con FS e perché i consiglieri di maggioranza che vi si sono opposti andrebbero ringraziati?

Perché la ratifica di quell’Accordo così come sottoscritto dal Sindaco e avallato dalla Dirigenza dell’Ufficio Grandi Progetti Urbani (che – voglio ricordarlo – è la stessa che ha contribuito a definire gli sciagurati piani di riutilizzo di ex Fiera/Citylife e dell’ex Centro Direzionale/Porta Nuova) produrrebbe gli stessi effetti di densità abitativa di questi precedenti, così tenacemente voluti dalle Giunte Albertini/Lupi e Moratti/Masseroli e subìti nella loro attuazione da quella Pisapia/De Cesaris.

Attuazioni di cui oggi, tuttavia, la stessa Giunta Pisapia si fa vanto come modello di una Milano in rilancio grazie ad una “metrolife style” (shopping e happy hour in un ambiente di pareti specchiate, luci e colori, fontane zampillanti, piazze più che altro simili a studi televisivi, ecc.) di facile gradimento per stili di vita ritenuti emergenti e modello riproponibile per la Milano del futuro nelle ancor più ampie trasformazioni urbane quali gli ex scali ferroviari e le ex caserme.

Insomma, nemmeno più solo un quartiere dei divertimenti – come in uso in alcune metropoli occidentali – ma l’intera Milano come una Città dei Balocchi, magari sotto l’egida bi-partisan del “conducator” di Expo, Beppe Sala.

Ciascuno è libero di valutare se è questo è lo stile di vita che gradisce veder realizzato per la Milano futura, ma certo è bene poi assumersene la responsabilità.

Si possono risolvere queste incongruenze? Certamente! rimodulando le quantità edificabili e la ripartizione tra spazi pubblici territoriali e di quartiere o avviando meccanismi “perequativi” con altre grandi proprietà. Non sto a entrare nei dettagli tecnici che ho già esposto più ampiamente altrove: lo si può fare anche abbastanza celermente, soprattutto se le fasi progettuali successive non verranno “delegate” totalmente alle scelte della proprietà, ma tenute direttamente sotto controllo pubblico tramite una Società di Trasformazione Urbana, che sappia massimizzarne l’utilità collettiva (edilizia sociale e in affitto, spazi associativi ecc.) e la forma urbana voluta.

Invece, voler riproporre subito una nuova ratifica dell’accordo tal quale, come sta facendo la Giunta Pisapia, è un atto di protervia con cui si vuole precettare il Consiglio comunale. Quasi a voler dire: se l’hanno già firmato il Sindaco e la Dirigenza, come si permette il Consiglio comunale di intromettersi?

Non è davvero un bel clima per questa Giunta: mi pare ricordi troppo quello vissuto all’epoca di quelle Albertini e Moratti, che Pisapia col Movimento arancione aveva promesso di cancellare.

La discussa sostituzione di una sala cinematografica centrale con uno dei simboli assoluti della globalizzazione griffata archistar: nuove funzioni di qualità, o banale appiattimento commerciale? La Repubblica Milano, 18 dicembre 2015, con postilla e contropostilla

Una grande struttura di vetro sopra, nello stile di tutti i loro store nel mondo che poi si sviluppano al piano sotto. E disegnata da un architetto di fama internazionale come Norman Foster. Apple ha presentato alla giunta, in via informale, il progetto del megastore che vuole realizzare in piazza Liberty, al posto degli spazi dell’ormai ex cinema Apollo.

Chi l’ha visto racconta che il progetto dell’archistar inglese prevede appunto una scatola di cristallo che spunterà in piazzetta Liberty e una grande scalinata che porterà giù allo store, che da solo darà lavoro a 200 addetti negli spazi finora occupati dal cinema. Il richiamo al mondo cinematografico, richiesto da più parti in città, è stato rispettato: sulle facciate di vetro ci sarà la possibilità di proiettare immagini di grandi film italiani e stranieri, come fossero maxischermi. Non solo. La multinazionale di Cupertino ha inserito nel suo progetto anche molti alberi nella piazza e una fontana con giochi d’acqua.

La sovrintendenza avrebbe già dato un parere positivo al progetto di Foster. Nei prossimi giorni partirà ufficialmente anche l’iter urbanistico mirato a ottenere il permesso di costruire convenzionato. L’obiettivo della Mela è quello di aprire in città entro il 2017. E di realizzare non un semplice negozio, avrebbero raccontato i collaboratori di Norman Foster alla giunta, ma uno spazio che si inserisca perfettamente nel contesto della città con l’obiettivo di diventare un luogo rappresentativo di Milano. «L’intervento è di grande qualità — spiega l’assessore all’Urbanistica, Alessandro Balducci — l’obiettivo è di rendere il luogo molto vivo».

Da anni Apple tentava lo sbarco milanese senza trovare però la sede adatta. La notizia dell’addio del cinema Apollo, un paio di mesi fa, aveva diviso la città. Ormai però è praticamente cosa fatta il passaggio di proprietà del cinema, uno dei pochissimi che erano rimasti in centro, dall’Immobiliare Cinematografica alla società di Cupertino. Il progetto va ancora definito in alcuni dettagli e poi approvato. Poi i fan della Mela morsicata saranno accontentati.

postilla

In principio era la protesta di chi vedendo spegnersi l'ennesimo schermo cinematografico in centro storico lamentava sia la fuga di alcune attività verso le brume indistinte dello sprawl metropolitano di multisale, o la loro scomparsa, sia il rischio concreto che le residue funzioni «normali». In una città che ha già nei decenni visto cancellata residenza, negozi, servizi, scompaiano sotto l'alluvione del processo soprannominato in tutto il mondo «Clone Town», e che vede una piccola manciata di marchi e loghi, a loro volta rigidamente gerarchizzati e inquadrati nelle relazioni reciproche, invadere come un esercito ogni spazio urbano disponibile. Da ora in poi, presumibilmente il dibattito locale si focalizzerà invece soprattutto sulla qualità del progetto di architettura griffato e il tipo di spazio pubblico-privato che va a definire. Resta però aperta la questione speculare, di un processo anche potenzialmente positivo, se si pensa che di Apple Store ufficiali nell'area metropolitana milanese ce ne sono già due, localizzati in due centri commerciali rispettivamente della Tangenziale Est (al Carosello di Carugate) e Ovest (al Fiordaliso di Rozzano), e questo Cubo di Foster rappresenterebbe invece un ritorno all'ovile. E certamente di una attività che induce molto movimento e vita a tutte le ore, se si pensa al flusso di clienti sia per l'acquisto che i servizi del cosiddetto Genius Bar, il quale visto da una certa prospettiva è l'equivalente terzo millennio della bottega del ciclista o del calzolaio. Certo, poi ognuno ha le due opinioni, sperando non si tratti di pregiudizi dettati dal sospetto (f.b.)


Contropostilla.
Il miocommento a questo articolo,che racconta uno dei mille episodi analoghi che avvengono ovunque, sarebbe stato, ed è, del tutto diverso. A me non sembra rilevante che in una determinata area vengano indotti movimenta e vita perchè quell'area possa essere definita un soddisfacente sopazio pubblico. E i frequentatori di eddyburg lo hanno certamente appreso. Nè m'interessano molto le polemiche sulla scomparsa o meno dinunìa sala cinematografica nel centro di una città

A me vengono in mente altre considerazioni, più drammatiche di quelle che hanno suscitato l'attenzioneBottini. La prima, indubbiamente marginale, è che logica formale dell’edificio della Apple è del tutto uguale a quella che condusse Ieho Wing Pei a realizzare il nuovo ingresso al Grand Louvre a Parigi. Ciò testimonia la scarsa creatività di alcune archistar o dei loro uffici. Ma ciò che soprattutto mi colpisce sono le differenze abissali della sostanza: queste ci fanno comprendere la profondità dell’abisso nel quale siamo precipitati in un quarto di secolo. A Parigi si è trattato di ampliare e rafforzare, con sapienti interventi di diversi campi del sapere, un gigantesco patrimonio culturale dell'umanità Milano di costruire la vetrinai uno dei peggiori protagonisti dalla commercializzazione fine sìa se stessa (e.).

Una meritoria iniziativa sociale «mixed-use» del carcere di Bollate, involontariamente sottolinea l'assurdità di ciò che attorno allo stesso carcere sta avvenendo. La Repubblica Milano, 10 dicembre 2015, postilla (f.b.)

Non c’è posto fino a Natale nel ristorante stellato all’interno del carcere di Bollate. Tutto prenotato. In quasi due mesi, centinaia di persone hanno trascorso il loro anniversario o una cena tra amici “InGalera”. Per festeggiare Natale, la richiesta è cresciuta. Alcune aziende hanno addirittura deciso di riservare tutto il locale. L’esperimento di Silvia Polleri, presidente della cooperativa Abc — che lunedì, accompagnata da tre detenuti, è stata premiata con un Ambrogino d’oro — ha riscosso un grande successo anche su Trip Advisor. I clienti non arrivano solo da Milano, fa sapere Polleri, ma per provare il brivido di entrare in carcere a mangiare, serviti da detenuti, arriva gente anche anche da Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna. «Sono soddisfatti e anche curiosi. Si complimentano per i piatti e fanno diverse domande sui detenuti che lavorano in sala e in cucina e su come funziona InGalera».

Bisogna prenotare, ma non è necessario presentare un documento e lasciare i cellulari all’entrata. Il ristorante si trova, infatti, all’esterno dell’area di carcerazione. Ad accogliere i clienti sono i ragazzi dell’istituto alberghiero Paolo Frisi, che hanno deciso di svolgere il tirocinio a Bollate. L’unico problema è che, spiega Polleri, «con Expo è cambiata la viabilità. Sono spariti alcuni cartelli che portavano al carcere lasciando posto a quelli dell’Esposizione universale. Cercando “via Cristina Belgioioso 120” su Google, invece, ci si trova in mezzo al Decumano». In Galera è l’ultimo dei progetti attivati nella casa di detenzione, che hanno lo scopo di formare, rieducare e aiutare i detenuti a reinserirsi nella società.

«Per come è andata in questi due mesi — dice Massimo Parisi, direttore del carcere — è un esperimento fortemente riuscito, sotto ogni punto di vista: dall’ottima qualità del cibo, al riscontro di pubblico, al servizio di formazione e avviamento al lavoro dei detenuti, che servirà per un loro reinserimento sociale ». Questo è il caso di Graziano, che da rapinatore è diventato pasticcere. Lavora per Abc catering e a volte anche nel ristorante In-Galera. In primavera uscirà dal carcere. Vorrebbe rimanere a lavorare a Bollate, ma abita a Brescia. «Ha promesso di smettere “con le rapinette”», racconta Silvia Polleri. Tornerà dalla sua famiglia, con cui ha ricucito i rapporti dopo aver deciso di cambiare vita. Per ora fa il pasticcere per Abc e «le sue lingue di gatto sono diventate famose».

postilla

Prendiamola un po' alla lontana: cosa c'è di più simile a una gated community segregata, di un carcere? Luogo per sua natura e storia di esclusione, confinamento, monofunzionale e monoclasse? Una volta stabilita questa premessa, e ovviamente considerato che l'iniziativa del ristorante intende spezzare proprio quel genere di segregazione, senza peraltro rinunciare ad altri caratteri fondamentali dell'istituto, vediamo cosa sta accadendo giusto appena fuori dalla recinzione, oltre la strada che separa il carcere dal sito Expo. Per cui si prevede in sostanza una cittadella monofunzionale segregata, separata dalla città, con la scusa di farne una «fabbrica delle idee». E se si provasse, esattamente come col ristorante gestito dai carcerati, a spezzare quell'opprimente scatolone logico, che serve solo alla speculazione e spreca territorio? E tanti auguri a InGalera, ovviamente (f.b.)

Smart city in pratica: tutto va nel migliore dei modi, a quanto pare, sul versante tecnologico, ma gli aspetti urbanistici ed ergonomici paiono ancora trascurati: la connessione è qualità urbana, perché non integrarla ad altre qualità? La Repubblica Milano, 29 novembre 2015, postilla (f.b.)

Meglio delle previsioni. Il wi-fi libero del Comune arriva al Parco Lambro e in cinque mercati rionali, superando così quota 500 access point, ovvero quello che era l’obbiettivo di mandato della giunta Pisapia. Boom di registrazioni durante i sei mesi di Expo, quando le iscrizioni sono state il 30 per cento del totale. Alto soprattutto il numero di accessi da parte dei turisti stranieri che sono stati oltre la metà dei nuovi utenti durante l’esposizione universale.

Per una volta, la realtà supera (in positivo) le previsioni della politica. Perché se il progetto iniziale “Open wi-fi” doveva raggiungere quota 500 punti di copertura, il settore innovazione di Palazzo Marino ha fatto di più: attualmente siamo a 514 e a marzo arriveranno a quota 535, di cui 445 outdoor e 90 indoor. Gli ultimi arrivati — dopo gli spazi della Darsena rinnovata — sono i 18 access point posizionati in cinque mercati comunali: quattro in via Benedetto Marcello, tre in viale Papiniano, tre fra le strade del mercato dell’Isola, cinque in via Osoppo e tre al mercato di via Fauché. Ma la novità principale — e non prevista inizialmente nei piani dell’assessorato — riguarda la futura installazione di altri 21 punti di copertura all’interno del parco Lambro, la cui installazione è stata commissionata all’A2a. L’occasione si è venuta a creare con la decisione di installare 21 colonnine per sos nel parco: sopra, verranno posizionate anche le antenne per il wi-fi, «permettendo di realizzare notevoli sinergie che si tradurranno in un’importante riduzione dei costi dell’infrastruttura», spiegano dall’assessorato.

Il servizio di wi-fi gratuito comunale — un’ora di navigazione veloce senza costi che richiede solo l’inserimento di un numero telefonico — è molto apprezzato dagli utenti, almeno a giudicare dai numeri. La rete di connessione senza fili messa in piedi da Palazzo Marino continua infatti a macinare risultati: ad oggi il totale degli iscritti è di 621.836, mentre il numero degli accessi complessivi dall’inizio del servizio è arrivato a quota 6 milioni e 800mila. C’è chi si connette per lavoro, ma non manca anche chi lo usa per motivi personali, in particolare i turisti. I dati sono infatti cresciuti a dismisura nel periodo di Expo, quando i nuovi utenti sono stati 189.480, pari al 30 per cento del totale.

Da sottolineare in particolare il dato degli stranieri: sono 110.444 le iscrizioni avvenute con schede sim straniere, pari al 58 per cento del totale. Il record assoluto di registrazioni si è verificato sabato 24 ottobre, quando in un giorno si sono iscritte 2073 persone.

«Lo sviluppo di “Open wi-fi” si collega al progetto smart city — ha commentato l’assessore al Lavoro e allo sviluppo economico Cristina Tajani — è una struttura che consideriamo abilitante, ovvero che serve a rendere più fruibili e fruite alcune zone della città. È da sottolineare poi come siamo riusciti a superare le nostre stesse previsioni di inizio mandato grazie a una collaborazione proficua tra diversi soggetti dell’amministrazione ».

postilla

Come si è già osservato anche con l'aiuto di sopralluoghi diretti nei luoghi serviti, la vera questione aperta del collegamento alla rete senza fili è la sua natura o meno di componente della smart city: qui pare ci sia ancora molto «smart» tecnologico e organizzativo, ma pochissima «city» spaziale e di uso. Certo, è vero, non si può pretendere che approcci così innovativi alla riqualificazione urbana come quello legato all'accesso wireless realizzino fulmineamente tutte le loro potenzialità, ma vedere del tutto e pervicacemente ignorati i luoghi serviti dalla connessione, assistere a scenette tragicomiche, in cui per collegarsi le persone sono costrette ad abbandonare luoghi già attrezzati di arredi urbani, e spostarsi là dove non ce ne sono affatto salvo il «virtuale», dà l'idea di una lacuna tutta politica, di mancato coordinamento fra settori e responsabilità, che si vorrebbe rapidamente superato, per vedere una
smart city del tutto a portata di mano, fatta meno di auspici e più di vita quotidiana (f.b.)

Se i processi di trasformazione e riuso dello spazio urbano non seguono i medesimi ritmi dell'evoluzione sociale e delle aspettative della città, qualcosa si dovrà pur fare, a titolo provvisorio, ma forse non solo. La Repubblica Milano, 19 novembre 2015, postilla (f.b.)

Sarebbe dovuto durare soltanto per i sei mesi di Expo. Poi, è arrivata una proroga che comprendesse le feste natalizie e arrivasse al 31 gennaio. Adesso, il modello del Mercato metropolitano è destinato a un terzo tempo più stabile. Perché l’obiettivo è quello: continuare a far vivere almeno sino alla fine del 2017 parte degli scali ferroviari di Porta Genova, ma anche di Porta Romana e Farini. E, in attesa dei cantieri che trasformeranno i fasci di binari dismessi o in via di abbandono in nuovi quartieri, continuare a tenerli aperti alla città con street food, attività culturali e di intrattenimento per tutti.

C’è il disegno complessivo e l’accordo di programma urbanistico siglato ieri da Comune, Regione e Ferrovie dello Stato per riqualificare sette scali e una superficie complessiva di un milione e 250mila metri quadrati. Ma adesso c’è anche un protocollo d’intesa e una cabina di regia creata da Palazzo Marino e Fs per definire i particolari “dell’operazione ponte” sui tre indirizzi più centrali e strategici, così come le iniziative che saranno organizzate e i tempi dell’utilizzo temporaneo. Si parte dalle esperienze iniziate durante Expo e giudicate positive. Perché adesso che le porte di quelle aree si sono aperte e che i milanesi — e non solo — hanno iniziato a frequentare quei pezzi di città prima inaccessibili, è stato deciso di non tornare indietro. Un’opportunità e un presidio in più.

«In questo modo le aree degli scali resteranno vive e fruibili in attesa delle destinazioni definitive — dicono l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci e quello al Commercio Franco D’Alfonso — Si tratta di importanti porzioni di città a ridosso del centro storico che non torneranno a essere intercluse e insicure, ma continueranno a offrire nuove opportunità per il tempo libero e la cultura». Nel caso di Porta Genova, poi, dove la linea sarà dismessa dal 2019, Ferrovie si occuperà anche di migliorare l’accessibilità e il collegamento con via Tortona.

Porta Genova, Porta Romana e soprattutto Farini — da solo con oltre 500mila metri quadrati vale quasi la metà di tutti e sette gli scali — sono anche i gioielli più preziosi del patrimonio di Fs che cambierà volto. Dopo la firma a tre dell’accordo, il documento sbarcherà entro 30 giorni in Consiglio comunale per la ratifica finale. Poi, dopo i tempi e le procedure di legge, all’inizio del 2016 l’operazione urbanistica potrà davvero partire. «Ora ci aspetta la fase di ricerca di operatori che potranno tradurre le pianificazioni previste in progetti, opere e servizi a livello di città top in Europa come Milano è considerata», spiega l’ad di Fs Sistemi urbani, Carlo De Vito. La società, infatti, potrà fare bandi per vendere direttamente le aree o, come nel caso di Farini, si potrà pensare a strumenti più complessi come un fondo. In altri casi si tratterà di perfezionare un accordo con Cassa depositi e prestiti per le zone di housing sociale.

postilla
A costo di attirarsi qualche piccolo sarcasmo da parte di chi considera queste azioni (e i relativi commenti) del tutto marginali rispetto alle decisioni «vere» sulle destinazioni finali delle superfici dismesse, forse è il caso di soffermarsi un istante su quella che appare molto più di una moda o ideologia, ovvero quello del «pop-up-shop». Vuoi con le dimensioni contenute della vera e propria bottega, magari al pianterreno di un edificio ad altra destinazione, in un quartiere residenziale, vuoi con quelle dilatate di aree o contenitori industriali dismessi, l'uso commerciale provvisorio e le relative politiche urbane collaterali si stanno diffondendo in tutto il mondo, e accumulano un vero e proprio know-how operativo e finanche strategico. Che forse potrebbe addirittura finire, in tanti casi, per influenzare quelle scelte finali senza ritorno, escludendo dall'equazione il tradizionale fattore di urgenza, o di sicurezza, o di allargamento del degrado e crollo di valori immobiliari, che di solito fa accogliere qualsivoglia proposta di riuso per pura disperazione. Anche se certo una spianata di bancarelle o di giostre per la festa patronale non è il massimo a cui possa aspirare una città: forse, nel merito e nel metodo, si può pensare di meglio (f.b.)

«Expo Spa ha uno sbilancio di gestione da oltre 400 milioni, Arexpo terreni che non è riuscita a vendere: Renzi vuole metterle insieme e coprire tutto coi soldi di Cdp». Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2015 (m.p.r.)
Il piano per il dopo-Expo col genoma, i Big Data, i ricercatori? Al momento, sembra più che altro il piano per occultare i buchi di bilancio dell’evento: i conti, per ora, sono ancora segreti, ma secondo fonti contattate dal Fatto Quotidiano, si parla di uno sbilancio di gestione che oscilla tra i 400 e i 500 milioni di euro, al netto del costo dei terreni e di ulteriori extracosti. Su questo, però, non è possibile avere un confronto pubblico: l’Esposizione milanese deve essere un successo, Giuseppe Sala - o, come dicevan tutti, “Beppe”- il salvatore della patria, Matteo Renzi il conquistatore di Milano.

Per ottenere questo risultato il governo sta predisponendo il decreto per il dopo-Expo (andrà in Consiglio dei ministri domani), utile soprattutto a buttare un po’ di polvere sotto il tappeto: oggi i vertici di Expo Spa (che ha gestito l’evento) e di Arexpo Spa saranno a Roma per discutere con l’esecutivo come tirarsi fuori dai casini.

Arriva Cdp, le promesse a Regione e Comune
Il primo problema sono i terreni. Arexpo li ha comprati (a debito) dai privati a dieci volte il prezzo di mercato (Fondazione Fiera di Milano è il maggior venditore e pure socio di Arexpo). A bilancio valgono 300 milioni, ma quando ha provato a venderli a 315 l’asta è andata deserta. I soci – Regione, Comune e Fiera – cominciavano a preoccuparsi: gli era stato detto che i privati avrebbero fatto a gara per comprarseli e invece niente. Roberto Maroni e Giuliano Pisapia non hanno i soldi per creare da soli il futuro Polo tecnologico, né per valorizzare l’area e poi venderla. Quasi tutte le infrastrutture del sito hanno collaudi scaduti al 31 ottobre: bisognerà rifare quasi tutto da capo, nonostante lo Stato abbia già speso 1,3 miliardi a fondo perduto per le opere.
Regione e Comune, però, sono state rassicurate da Palazzo Chigi. I soldi li metterà Cassa depositi e prestiti, probabilmente rilevando le quote di Fondazione Fiera. Il veicolo per fare tutto questo non è ancora chiaro e anche di questo si discuterà oggi: la soluzione più razionale (e veloce) sarebbe trasformare Arexpo - che doveva essere smantellata dopo l’Esposizione - in soggetto attuatore del piano per il “dopo” con relativa annessione di Expo Spa. La tentazione del governo, però, è la creazione di una società ex novo in cui far confluire tanto Expo Spa che Arexpo.
Il vantaggio? Occultare il buco dell’Esposizione, cioè il conto che si scaricherà sui cittadini. Soprattutto quello di Expo Spa, la società (di Tesoro, Regione e Comune) che ha gestito l’evento sotto l’illuminata guida di Giuseppe Sala: dei suoi conti ad oggi non si sa nulla, ma secondo fonti qualificate il bilancio di gestione fa segnare un rosso da mezzo miliardo.
Bonifiche, visitatori, bilanci e altri misteri
Per spiegarsi servono un po’ di numeri: la gestione dell’evento costa 840 milioni secondo Expo Spa, ma il conto sale a 960 milioni se, come segnala la Corte dei Conti, vengono correttamente riclassificate alcune poste di bilancio. Nel business plan iniziale i ricavi da biglietti valevano 530 milioni (24 milioni di ticket a un prezzo medio di 22 euro). Sala, dopo i primi mesi un po’ negativi, ci ha ripensato: 380 milioni (19 euro medi per 20 milioni di biglietti). Ora ci dicono che gli “ingressi” a Expo sono stati 21,5 milioni circa, cifra a cui si arriva contando pure i 14mila addetti al sito che entravano ogni giorno: i visitatori veri sono stati circa 19 milioni. E l’incasso dai biglietti? Secondo le fonti del Fatto si aggira sui 200 milioni con un prezzo medio attorno ai 10 euro: succede quando si fanno sconti enormi a scolaresche, dipendenti degli sponsor, parrocchie, coop, ordini professionali e associazioni varie; quando si vendono i biglietti a 5 euro dopo le 18, si regalano gli ingressi a pensionati, titolari di bassi redditi e a chi parcheggia di sera nelle aree di sosta del sito.
Ammettendo che gli altri ricavi siano davvero 300 milioni circa, come da previsioni, il conto è questo: mezzo miliardo di ricavi, almeno 960 milioni di costi. Ora Sala, forse candidato sindaco di Milano, sta tentando di spremere soldi ovunque: Expo Spa ha “addebitato ” ad Arexpo (che non vuole pagare) 70 milioni per le bonifiche, mentre il contratto tra le due le cifrava a 6 milioni. Ora, per di più, il governo le vuole fondere: a godere, in questi spericolati incroci societari, rischia di essere solo la Fondazione Fiera, che dopo aver dato il pacco dei terreni (inquinati) a Expo, ne uscirà pure con un po’ di soldi.

«Ricerca&sviluppo. Dietro il plauso alla “boutade” di Renzi sul futuro dell’area, l’eterno gioco della speculazione fondiaria». Il manifesto, 12 novembre 2015

A parte gli estensori del discorso di Matteo Renzi, tutti sanno che il nome Silicon Valley arrivò dopo decenni dall’inizio di produzioni industriali innovative che hanno segnato la storia tecnologica mondiale. Hewlett & Packard, ad esempio, inaugurò in quell’area il primo stabilimento nella metà degli anni Trenta del secolo scorso.

Milano, una città importante nella storia produttiva italiana ha dismesso negli ultimi trenta anni tutti gli stabilimenti industriali più importanti: la follia dell’urbanistica contrattata milanese ha permesso di realizzare anonimi quartieri al posto delle produzioni. La rendita fondiaria ha guadagnato somme imponenti rinunciando al difficile percorso dell’innovazione produttiva e della creazione di tecnologie avanzate.

La Silicon valley alla milanese non potrà nascere soltanto creando nuove strutture di ricerca ma solo se ci sarà un progetto industriale per l’intero paese in grado di orientare, incentivare, di favorire le sperimentazioni specialmente delle imprese innovative e soltanto se ci saranno investimenti adeguati per l’istruzione universitaria.

Del resto, è noto che la ricerca nelle nostre università è stata pressochè azzerata dai tagli di bilancio e le università languono. La somma di 150 milioni all’anno per l’ipotetico polo milanese è una piccola goccia per il paese che finanzia l’istruzione superiore e la ricerca con le risorse più modeste d’Europa.

Ciononostante, a parte qualche marginale critica, la boutade di Renzi è stata accolta con molto favore dal grande circo mediatico. Sono tre i motivi profondi di questo consenso.

Il primo è l’eterno gioco della speculazione fondiaria.

Sulle aree Expo arriverà un fiume di cemento: con l’urbanistica a la carte in voga a Milano, infatti, si è consolidata la prassi di attribuire ad ogni metro quadrato di proprietà fondiaria una edificazione di 0,2 metri quadrati. L’area Expo misura 105 ettari e si potranno realizzare almeno 210 mila metri quadrati di edifici. Il progetto renziano riguarda 70 mila metri quadrati. Restano dunque 140 mila metri cubi su cui costruire abitazioni o ipermercati, l’unica attività in cui eccelle la struttura d’impresa milanese.

Il Corriere della Sera ha proposto la realizzazione di case dello studente. La recente esperienza di Tor Vergata a Roma non fa dormire sonni tranquilli: nel grande campus universitario sono stati di recente inaugurati alloggi per studenti ma non con i soldi pubblici, bensì finanziati attraverso un apposito fondo immobiliare. Quegli alloggi ospitano chiunque, non solo studenti. E’ questo il modello anche per Milano: altre case in una città soffocata?

Il secondo motivo è l’ulteriore colpo alle autonomie comunali.

E’ stato il primo ministro ad annunciare in conferenza stampa un progetto non discusso con i sindaci di Milano e dei comuni limitrofi: Giuliano Pisapia ascoltava come tutti gli altri le esternazioni del presidente del consiglio, Questa prassi comincia a preoccupare perché fa il paio con lo scioglimento coatto di Roma.

Le due più grandi città d’Italia, insomma, non possono godere del normale corso amministrativo: grandi progetti come il futuro delle aree expo o grandi eventi come il Giubileo sono terreno esclusivo di caccia del primo ministro o di un prefetto. I comuni italiani sono stati portati sull’orlo della bancarotta per i tagli di bilancio e il governo dimostra che non ha alcun interesse a risolvere il problema. Anzi, rincara la dose comprimendo la democrazia.

Il terzo motivo riguarda l’affidamento del futuro delle città a manager spesso inesistenti.

L’esperienza Expo depurata dalla retorica imperante è stata infatti un disastro senza precedenti. Dal 2007 all’aprile 2015 non si è stati in grado di realizzare nella sua interezza il progetto, eppure sono stati spesi 14 miliardi di euro. Gli scandali e le malversazioni hanno riempito le cronache giudiziarie e le galere.

Eppure il commissario Sala viene dipinto come l’unico in grado di guidare Milano. E qui il risvolto più amaro riguarda l’inerzia dimostrata dal comune di Milano nel progettare il futuro: è in questo vuoto di prospettiva che hanno avuto buon gioco le improvvisazioni di Renzi e l’eterna tentazione della ricerca del manager demiurgo.

«La retorica sui successi di Expo impedisce di mettere a fuoco i problemi: oltre all’inquinamento dei terreni, la difficile accessibilità e mobilità, come ottenere una appropriata composizione sociale e come perseguire la qualità urbana perché non si realizzi un altro pezzo di periferia, isolata dal resto del territorio». Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2015 (m.p.r.)

Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha affermato che l’area di Expo «ha caratteristiche uniche sia dal punto di vista logistico che tecnologico» e che quel «milione di metri quadrati … sono raggiungibili facilmente con ogni mezzo… e dotati di infrastrutture tecnologiche». Se fosse vero, per quale motivo ci sarebbe la necessità di fare intervenire il governo nel suo recupero dopo la manifestazione? E come mai per eseguire una normale, per quanto importante, operazione di natura urbanistica da coordinare tra i comuni di Milano e Rho servirebbe, anche a detta del ministro Maurizio Martina, «un interlocutore forte» un «dominus», come lo definisce Pisapia, «che unisca alcuni poteri speciali a un ruolo diretto e strategico all’interno di Arexpo» ossia nella società che possiede le aree?

Considerato che le aree di Expo si estendono sia nel territorio di Milano che in quello di Rho, a che cosa servono allora i due assessori all’urbanistica, Alessandro Balducci e Pietro Romano, sindaco di Rho con delega all’urbanistica? Altri giornali hanno riferito che il principale problema sarebbe Arexpo, soggetto troppo debole per gestire il post evento. Ma Arexpo, formata da Regione, Città metropolitana, Comuni di Milano e di Rho e da Fondazione Fiera comprende le tre più importanti amministrazioni locali che rinunciano inspiegabilmente alle loro prerogative sul governo del territorio. E il ministro Martina ha affermato: «il fatto che lo Stato (o il governo?, ndr) non sia nella società Arexpo è un elemento che ha creato una disomogeneità… Ci troviamo in una situazione non allineata tra gestione e proprietà. Stiamo lavorando per allineare bene le cose e poter essere utili».
Ma perché mai il governo dovrebbe allinearsi? Invocare l’intervento del governo può avere la motivazione di disporre di altri finanziamenti pubblici, oltre a quanto già speso per Expo. La retorica sui successi di Expo e sulla qualità delle aree impedisce di mettere a fuoco i problemi: oltre all’inquinamento dei terreni, dell’aria e acustico, la difficile accessibilità e mobilità, la vischiosità delle procedure, a meno che si ricorra a poteri del “dominus” che con procedure d’urgenza ridurrà garanzie e tutele, la difficile sostenibilità economica che comporterà altri oneri a carico dei cittadini, come ottenere una appropriata composizione sociale per evitare il degrado e realizzare invece una vitale componente della Città metropolitana, e come perseguire la qualità urbana e architettonica perché non si realizzi un altro pezzo di periferia, isolata dal resto del territorio.
Sono certo di interpretare i sentimenti di molti progettisti e dell’Ordine degli Architetti - fin dal 2008 impegnato a documentare il dopo Expo nei casi emblematici di Hannover, Siviglia e Saragozza - affermando che non rinunceremo a prendere posizione sui problemi che si stanno manifestando, mettendo a disposizione le nostre conoscenze per favorire un pubblico dibattito nel quale inviteremo a confrontarsi i responsabili delle istituzioni.
Emilio Battisti, architetto, già ordinario di Composizione Architettonica Politecnico di Milano

Prospettive pesanti per l’area compromessa dall'evento Expo, se non si uscirà dal collage di interessi immobiliari piccoli e grandi e non si affronterà il tema della città e del territorio nella sua complessità

Conclusosi l'evento EXPO, non si è però ancora smaltita la solenne sbornia di compiaciuta autocelebrazione per l'inatteso successo di pubblico, che in alcuni ha portato a deliri assai sconvenienti (Milano capitale morale e modello per Roma, Giubileo e future EXPO, Sala commissario-consigliere Cassa Depositi e Prestiti-candidato a Sindaco e già che ci siamo “santo subito”, e via sorvolando sui mille lati oscuri delle inchieste e procedimenti giudiziari in corso e sul costo di costruzione di alcuni padiglioni (da 9.000 a 20.000 €/mq) che danno conto dell'orgia di vanagloria che nel suo piccolo (i problemi dell'alimentazione mondiale sono molto più grandi, seri e di lunga lena se si vuole davvero affrontarli) ha saputo essere l'evento semestrale EXPO e il suo successo di pubblico.

Rimangono invece aperti e irrisolti i dubbi sull'utilizzo futuro dell'area, oggi trasformata da area agricola (come ripetutamente previsto nei PRG succedutisi nel tempo: destinazione in sé discutibile, ma che ancor oggi è l'unica atta a garantire all'Ente pubblico l'inedificabilità permanente a causa del carattere intercluso tra autostrade e ferrovie, che ne sconsigliava l'uso edificatorio, soprattutto se residenziale) in area altamente infrastrutturata dall'accessibilità a medio-lungo raggio, ma ancora difficilmente connessa ai tessuti urbani circostanti.

L'ipotesi di realizzarvi un nuovo campus universitario delle Facoltà scientifiche avanzata dal Rettore della Statale deve accompagnarsi ad un progetto sensato di riutilizzo delle aree dismesse a Città Studi da cui (se non si vuole stravolgere la vivibilità dell'ex Città Studi, come già avvenuto a Citylife e Porta Nuova, nonostante l'incensamento che ora ne fa persino l'amministrazione Pisapia e le forze politiche che la sostengono), non si possono ricavare più di 200 Milioni di € a fronte dei 400-500 Milioni di € stimati necessari per il nuovo campus, e bisognerà, quindi, capire come reperire le risorse mancanti.

Purtroppo i costi dell'errata localizzazione dell'evento EXPO, al netto del suo sbandierato successo di pubblico, non saranno così facilmente cancellabili dalla “città normale, con case e negozi” auspicata con tanta insistenza da Gregotti in svariati interventi sui principali quotidiani, che è invece quasi impossibile da realizzarsi in quel contesto localizzativo, se non a scapito della qualità della vita dei suoi abitanti: meglio, o molto meno peggio, pensare di mantenervi funzioni strategiche di livello metropolitano-regionale. A qualcuno potrà non piacere, ma è il costo ineliminabile dell'eredità del dopo Expo e dell'inconsulta trasformazione d'uso di quell'area interclusa.

Come uscirne?: non subendo il ricatto di chi dice ormai la frittata è fatta e qualcuno la deve mangiare! Se qualcuno deve risponderne è Fondazione Fiera che è ente di nomina pubblica, anche se di diritto privato (un po' come le Fondazioni bancarie altro ben noto bubbone corruttivo), e che deve essere richiamata alla propria responsabilità verso la città rinunciando all'enorme aspettativa immobiliaristica che pensava di aver incamerato col riuso del “dopo Expo”, avendone comprato le aree a prezzo agricolo dai proprietari originari con lo straordinario surplus di rendita ottenuto dalla vendita della vecchia sede a Citylife. Riportando quota edificatoria virtualmente sostenibile a non oltre 0,20 mq/mq e "perequandola" sul vasto plateau di aree pubbliche dismesse a dimensione metropolitana (a partire dagli ex scali Fs e dalle ex caserme in dismissione a Milano, ma anche su quelle industriali dismesse sulla direttrice da Rho a Sesto S.G.), sull'area del “dopo EXPO” potrebbero così permanentemente rimanere le funzioni di indirizzo pubblico delle politiche agroalimentari ed altre attività di interesse pubblico, un nuovo polo delle facoltà scientifiche dell'Università Statale, altre attività di innovazione e ricerca, facendone il nuovo Centro Direzionale metropolitano, e non funzioni residenziali, qui particolarmente inadatte.

Comune e grandi proprietà fondiarie (oggi non più agrarie, ma per lo più aree industriali, infrastrutturali e a pubblici servizi – vedi ex caserme e/o ospedali, ecc. - dismesse o dismettibili) si trovano, invece comunemente interessati a massimizzarne di volta in volta lo sfruttamento della rendita fondiaria derivante dal riuso delle aree centrali dismesse (come appunto aveva già fatto Fondazione Fiera all'epoca dei Sindaci Albertini e Moratti e degli assessori all'urbanistica ciellini Lupi e Masseroli) per finanziare gli investimenti nei propri obiettivi societari o istituzionali, il cui esito urbanistico-insediativo viene ritenuto secondario, residuale e spesso del tutto incontrollato.
Negli Accordi di Programma attualmente in corso di definizione con FS e Ministero della Difesa sul riuso di ex scali ed ex caserme, bisognerebbe, invece, far collocare i parchi territoriali e gli spazi per grandi funzioni urbane su aree di altre proprietà che si ritenga utile di non far edificare a case o negozi (come, ad esempio, oggi più d'uno propone sulle aree del dopo Expo pur di uscire in fretta dai guai di indebitamento), le quali in contraccambio acquisirebbero di una quota virtuale dell'indice edificatorio delle aree di FS e Ministero Difesa.

Invece, in questa urbanistica à la carte che è la sommatoria di PII e Accordi di Programma praticata dal machiavellismo perverso della dirigenza dell'urbanistica milanese passata indenne sotto Amministrazioni comunali di centro-destra prima e di centro-sinistra poi, non si allarga l'orizzonte al quadro complessivo della città (che è quello che dovrebbe “governare” il Piano di Governo del Territorio-PGT) e si continua, invece, senza alcune visione generale di quali altre aree potrebbero essere coinvolte in una logica di perequazione soprattutto nella localizzazione dei parchi urbani e grandi servizi territoriali (tanto sbandierata da urbanisti e amministratori di tendenza, ma quasi mai realmente praticata).

Senza di ciò, il prossimo PGT si troverebbe costretto in una visione monca e prefigurata dalla conclusione di accordi raggiunti su interessi parziali sia di FS sia dell'Amministrazione Comunale (e non della Città, in quanto tale). A meno che, come spesso è capitato, il nuovo PGT sia la riapertura a tutto campo di uno spazio per gli interessi particolaristici diffusi che non hanno avuto dimensione e forza per accreditarsi prima nei PII e Accordi di Programma o quelli ereditati dall'indebitamento delle acquisizioni fondiarie e e dell'esito gestionale del dopo EXPO. Temo sia la prospettiva più realistica e attendibile che ci attende una volta diradatisi i fumi autocelebrativi della sbornia da dopo Expo.

Dal punto di vista del progetto di architettura con premesse urbanistiche, si ripete il dilemma iniziale: un modello suburbano monouso, o la complessità plurifunzionale metropolitana post-industriale? Intervista di Andrea Montanari, la Repubblica 30 ottobre 2015, con postilla (f.b.)

«PER vivere, l’area deve diventare un pezzo di città. Milano sfrutti la grande sfida della Città metropolitana». L’archistar Vittorio Gregotti, autore, tra l’altro, del progetto Bicocca che ridisegnò nel 2000 il quartiere dell’ex stabilimento della Pirelli nella periferie Nord Ovest di Milano, con la costruzione del teatro degli Arcimboldi che ospitò la Scala durante il rifacimento del palcoscenico, suggerisce un’idea per il dopo Expo. «L’Expo è stato un successo, ma per il dopo non basta il campus universitario, serve un progetto di vent’anni».

C’è il rischio che l’area diventi una cattedrale nel deserto?
«Milano ha di fronte una grande sfida. Quella di essere diventata ufficialmente una città metropolitana. Con una scala dimensionale e di abitanti molto più ampia. Credo che per il dopo Expo la soluzione giusta sia quella di sfruttare questa prospettiva e pensare di trasformare quel pezzo della città».

Una città satellite?
«No, ma in quell’area non c’è solo il comune di Rho, ci sono alcuni villaggi anche abbastanza importanti che nella prospettiva della città metropolitana potrebbero diventare dei centri secondari di Milano».

Come?
«Per fare questo bisogna evitare che quell’area si trasformi in una periferia abbandonata e non farsi illusioni che questo avvenga in sei mesi. Inoltre non bisogna commettere l’errore di pensare che basti fare di quell’area un campus universitario o un centro di ricerca».

Perché?
«Il progetto della Bicocca è la dimostrazione di come un quartiere di periferia può tornare a vivere. Un campus universitario e un centro di ricerca vanno benissimo, ma coprirebbero solo una piccola parte dell’area. Con il rischio che dalle sette di sera tutto si trasformi in un deserto. Alla Bicocca abbiamo costruito un teatro che funziona ancora adesso. Il quartiere vive oltre all’università. L’unica soluzione perché il dopo Expo resti vivo è farlo diventare un pezzo di città».

In che senso?
«L’università può essere un elemento strettamente collegato, ma non può essere l’unico. Il quartiere Bicocca vive ora perché ci abitano diecimila persone e c’è una grande banca».

Alcuni padiglioni resteranno come Palazzo Italia, secondo lei, che cosa si dovrebbe costruire?
“E pensare che era uno dei peggiori… Certo potranno semplificarlo. Per il resto non resterà più quasi nulla. Ecco perché dico che il dopo Expo deve essere l’occasione per costruire nuove case. Negozi, uffici. Bisogna pensarlo come un progetto metropolitano e polifunzionale e lavorarci. Ma per fare queste cose occorrono vent’anni».

Tutti, però, sostengono che non bisogna perdere tempo.
«Serve un progetto di lungo termine. Mi auguro che la società proprietaria dell’area sia in grado di portare avanti un progetto progressivo. Se hanno un problema di fondi facciano una nuova società e facciano entrare come soci le banche creditrici. Quell’area va messa sul mercato. E il progetto del governo mi sembra ridicolo. Con la densità dei centri urbani vicini e della periferia di Milano non si può pretendere di iniziare con il dire che il verde deve essere la parte prevalente ».

Lei era scettico all’inizio, invece, Expo Milano 2015 è stata un successo.
«Per certi versi lo sono ancora. Per me dal 1958 dopo quello di Bruxelles tutte le Expo sono state un fallimento. Devo riconoscere che qui Giuseppe Sala ha portato il pubblico. La gente è andata lì in massa per visitare padiglioni e mangiare in modo bizzarro. Non mi pare che ci sia stata una spinta politica nella direzione del tema per cui l’Expo 2015 era stato vinto da Milano».

postilla

Al netto di tutto ciò che si può dire dei risultati tangibili (non solo attuali) del citato progetto Bicocca, c'è da sottolineare come Vittorio Gregotti colga, la questione di fondo che ha sempre accompagnato Expo 2015, la coerenza col tema ufficiale, il suo rapporto col territorio locale: aderire al modello ultra-tradizionale del baraccone fieristico industriale specializzato, con pochi soggetti, spazi a organizzazione introversa, e relativa precarietà e bassa resilienza, oppure cercare integrazione – non solo spaziale ovviamente - con l'area metropolitana e la regione urbana, magari recuperando anche quel filo diretto con l'eccellenza delle produzioni agricole locali che l'evento ha declinato quasi solo sul versante mediatico? In altre parole, il riuso del sito verrà gestito in una logica da gigantesco «office park», così come l'Esposizione ha scelto ahimè un impianto propriamente da parco tematico suburbano, oppure si sapranno cogliere seriamente tutti gli elementi innovativi nel lavoro, nell'ambiente, nella residenza e servizi, offerti dalle tecnologie e dalle pratiche sociali di fatto già affermate? Questo, significa (o può significare) realizzare l'auspicato mixed-use nel Post-Expo (f.b.)


Alcuni bilanci economici parziali sugli effetti dell'evento Expo, letti da una certa prospettiva confermano un positivo orientamento dei visitatori, e un errore di impostazione, a dir poco molto conservatrice. La Repubblica Milano, 23 ottobre 2015, postilla (f.b.)

Nove Expo-turisti su dieci promuovono Milano. Lo dice un’indagine della Camera di commercio e del Comune su un campione di mille visitatori, che hanno ammesso di essere venuti in città proprio per l’Esposizione universale. Ma se il turista appare soddisfatto, lo sono meno i commercianti e i ristoratori che a poco più di una settimana dalla chiusura dei padiglioni lamentano l’assenza di un impatto da grande evento sui loro incassi.

I turisti dell’Expo venuti a settembre apprezzano non solo il Duomo, Brera e i Navigli, ma anche l’aperitivo, i servizi della città e in qualche modo lo stile di Milano. Il 55 per cento è italiano, gli altri vengono da Europa, Cina, Giappone e America.

Ma i ristoratori tutti questi turisti sostengono di non averli “sentiti”. Già durante l’estate locali e ristoranti avevano denunciato che la movida dell’Expo, con il biglietto d’ingresso a 5 euro alla sera, “rubava” clienti alla città. Oggi, a Esposizione quasi conclusa, confermano. «Ormai è finita e accenderemo un cero — si spinge addirittura a dire Giuseppe Gissi, vicepresidente vicario di Epam, l’associazione che raccoglie i pubblici esercizi — . Se togliamo piazza Duomo e la Galleria, le altre zone non hanno risentito di alcun beneficio, anzi sono andate giù. Non ce l’abbiamo con l’Expo, chiariamolo, ma con la movida serale che ci ha uccisi».

Anche i negozianti non fanno i salti di gioia: «I dati delle transazioni delle carte di credito dimostrano che tra luglio e agosto c’è stato un più 30 per cento riferito solo agli stranieri e nelle zone del Quadrilatero — dice Renato Borghi, presidente di Federmoda — mentre nessun aumento da parte degli italiani. Quindi l’effetto Expo c’è stato solo in pieno centro, mentre il commerciante medio come in corso Vercelli non ha avuto benefici. Ma sono convinto comunque — dice Borghi — che sia cresciuta la reputazione di Milano: gli effetti si raccoglieranno più avanti». In corso Buenos Aires è Gabriele Meghnagi di Ascobaires a dire che «gli incassi sono meno delle aspettative ma comunque viva Expo, è un investimento per il futuro».

L’assessore al Commercio e turismo, Franco d’Alfonso, soddisfatto invece dei riscontri sulla città, insiste che per non disperdere il patrimonio conquistato si lavora con gli operatori su pacchetti weekend per i turisti. E assicura: «Basta guardarsi in giro e l’effetto si vede, gli alberghi sono pieni. Le periferie magari non hanno avuto benefici, ma non sono mai il primo posto dove si va quando si visita un luogo nuovo. In città girano 350mila persone in più al giorno di media: Milano ha svoltato, è una città ormai stabilmente entrata tra le prime dieci mete turistiche d’Europa ».

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In realtà, leggendo queste (prevedibili, scontate) lamentele dei bottegai del centro e meno del centro sul mancato «indotto Expo», non possono non tornare in mente le arroganti battute dei conservatori culturalmente destrorsi a suo tempo, ben riassunte da quella definitiva del rappresentante BIE: «un orto di melanzane non interessa a nessuno». Battuta che, anche al netto dei toni, liquidando l'autentico progetto originario coerente col tema Nutrire il Pianeta, prefigurava una serie di tradizionalissime scelte, espositive e organizzative: il baraccone del sito sul modello parco tematico suburbano, aspirapolvere di folle e interessi, e più in generale l'impostazione antiquata, assai diversa dal genere di pubblico che un tema come quello alimentare ed ecologico avrebbe potuto attirare. Ecco, questa quasi finale «delusione degli operatori» per il mancato innesco di certe vetuste economie turistiche pare indirettamente bocciare proprio quel taglio da Expo ottocentesca, e da turismo consumistico acchiappatutto un po' da boom economico. Potrebbe, anche questo aspetto, diventare oggetto di riflessione non contingente, sia sul futuro funzionale e strategico delle aree, sia su quello più generale del turismo urbano negli anni a venire (f.b.)

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