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Tre grattacieli al posto della Fiera

di Luca Pagni

La Repubblica del 03.07.04 - Con un'offertada 523 milioni battuta la concorrenza di Pirelli Real Estate e Risanamento. La cordata Generali, Ras e Ligresti si aggiudica la gara per Fiera Milano.

MILANO - Una gara così non la si vedeva da tempo. Per conquistare i 225 mila metri quadrati dei vecchi padiglioni della Fiera di Milano si sono sfidati i più bei nomi del gotha della finanza italiana. Alla fine, con un'offerta di 523 milioni di euro, la riqualificazione dell'ultima grande area dismessa della città, a due passi dalla vecchia cerchia delle mura e grande come venti campi di calcio, è andata a una cordata composta da Generali, Ras, Progestim (gruppo Ligresti, che segna così il suo ritorno in grande stile nei progetti di trasformazione urbanistica dopo gli scandali degli anni Ottanta), Lamaro appalti (della famiglia Toti, i costruttori romani) e, unici stranieri, gli spagnoli del Grupo Lar Desarrolos Residentiales. Nel consorzio, i primi tre soci detengono quote paritetiche intorno al 25-30%.

«È stata una vittoria del peso finanziario della cordata», è stato il commento unanime degli addetti ai lavori. Di sicuro il grande pubblico rimarrà colpito dall'idea forte di trasformazione di questo angolo di città: la realizzazione di tre grattacieli uno di fronte all'altro (a forma di parallelepipedo, di vela e di mezza elica), destinati con tutta probabilità a diventare uno dei nuovi simboli di Milano. La più alta delle tre misurerà due volte il Pirellone.

L'offerta dei primi classificati, a quanto è stato possibile apprendere, è stata superiore alla seconda classificata di oltre il 15%: un consorzio guidato da Pirelli Real Estate, Vianini Lavori, Roma Ovest Costruzioni e Unicredit Real Estate. Ancora più lontana l´offerta dei terzi in graduatoria: Risanamento (gruppo Zunino), Fiat Engineering, Astaldi, Chelsfield e Langdale Consulting.

È stata anche un sfida tra grandi architetti. Ha vinto il progetto firmato da Arata Isozaki (suo il ridisegno della Loggia degli Uffizi), Daniel Libeskind (che si è aggiudicato il concorso per la ricostruzione del World Trade Center di New York), l'irachena Zaha Hadid (vincitrice a Roma del progetto per il centro d'Arte contemporanea) e Pierpaolo Maggiora.

A indire la gara era stata la Fondazione Fiera spa, proprietaria dell'area. Con il ricavato potrà così rientrare degli oltre 600 milioni investiti per la costruzione del nuovo polo esterno che, secondo le previsioni, dovrà essere inaugurato nella primavera dell'anno prossimo. Advisor per la Fondazione è stata la banca d'affari Lazard che ha proposto una procedura particolare: i primi tre classificati sono arrivati alla fase finale dopo la scrematura di una quindicina di proposte in base alla validità del progetto. Poi la vittoria alle buste. L'area verrà consegnata alla cordata vincitrice nei primi mesi del 2006, mentre i lavori del nuovo centro dovranno essere terminati all'inizio del 2014. La vittoria nella gara non ha avuto particolari riflessi in Borsa. Generali ha chiuso in calo dello 0,18%, Ras in aumento dello 0,25% e Fonsai dello 0,02%.

Tre giganti di vetro in Fiera

di Luigi Pastore

La Repubblica del 03.07.04

L'offerta della cordata CityLife ha battuto Pirelli e Zunino. Il progetto firmato da Libeskind, Isozaki, Hadid e Maggiora. Tre torri più alte del Pirellone. Le costruirà Ligresti che ha vinto la gara per il quartiere Fiera. La proposta del colosso assicurativo è forse quella più innovativa rispetto alla tradizione milanese. Anche negli altri due progetti finalisti erano previste delle torri. Quella di Piano ricorda la London Bridge Tower. Vince Ligresti. Albertini: "Mi aspettavo più verde". A firmare il progetto vincente un team con Arata Isozaki, Zara Hadid e Daniel Libeskind, l'architetto di Ground Zero. Tra due anni cominceranno i lavori, che dovranno finire entro il 2014. Nell'area il Museo del Design e uno spazio bambini. L'offerta della cordata Generali-Sai supera quelle di Pirelli e di Risanamento. Roth: "Un gesto che entrerà nella storia" Formigoni: "La città al centro del mondo".

Vecchia Fiera all'americana. O meglio ancora, come aveva chiesto il sindaco Gabriele Albertini, «un Central Park in Fiera». Sarà alta 218 metri, quasi cento più del Pirellone, e dominerà un pezzo di città che cambia completamente volto. È la torre di vetro disegnata dall'architetto giapponese Arata Isozaki per la cordata CityLife, il colosso assicurativo composto da Generali e Ras, che si è aggiudicato l'onore-onere di ripensare l'area del polo interno fieristico, o meglio i due terzi di esso che tra un paio d'anni con il completamento del trasloco a Pero-Rho, diventeranno un cantiere aperto.

La torre più alta di Milano, destinata a ospitare quasi esclusivamente uffici, ma anche ristoranti e altri spazi pubblici, è accompagnata da due "gemelle", una di 175 metri a forma di vela, disegnata da Daniel Libeskind, l'architetto che ha vinto il concorso per ridare vita a Ground Zero dopo l'11 settembre, e un'altra, di 185 metri, opera dell'artista iraniana Zara Hadid. Intorno, nel progetto firmato anche dall'italiano Pier Paolo Maggiora, il Museo del Design, l'attuale padiglione 3 della Fiera destinato a ospitare attività sociali soprattutto per bambini, e tante case e palazzine (altezza media dieci piani) con la presenza di quel verde diffuso esplicitamente richiesto dal bando di gara, ma che il sindaco Albertini avrebbe voluto ancor più presente: «Un bellissimo progetto, soprattutto con il gran gesto architettonico delle tre torri. Ma forse sarebbe stato ancora più bello, se ci fosse stato un po' più di verde».

Il successo della cordata di Salvatore Ligresti è figlio della migliore offerta economica rispetto agli altri due raggruppamenti rimasti in gara dopo la prima selezione. Sono stati messi in busta 523 milioni di euro, cifra nettamente migliore rispetto a quelle non ufficializzate, ma ben note agli addetti ai lavori, offerte da Pirelli e da Zunino, la prima con 438 milioni e la seconda con 378 milioni. Secondo indiscrezioni erano, invece, superiori le cifre inserite in busta dal gruppo italo-americano Immsi di Roberto Colanninno con Aig-Lincoln (480 milioni) e dalla italo-francese Greenway, che avrebbe offerto addirittura 550 milioni, ma che sarebbe stata esclusa perché nel suo progetto era assente «il gesto emblematico», ossia il grattacielo: «I tre progetti finalisti sono stati considerati tutti sullo stesso livello», spiega Claudio Artusi, amministratore delegato di Sviluppo Sistema Fiera, la società di scopo che cura tutta l'operazione. Decisiva, dunque, l'offerta economica, salutata con soddisfazione dal presidente di Fondazione Fiera Luigi Roth, secondo il quale «con questa entrata copriamo oltre due terzi dell'ingentissimo investimento per la realizzazione del nuovo polo a Pero-Rho. Il gesto urbanistico entrerà nella storia».

La trasformazione di un'area di 260.000 metri quadrati, collocati in una zona strategica e al tempo stesso residenziale della città, prevede secondo il progetto vincitore anche la presenza dell'acqua e 10.000 posti auto, ma tutti sotterranei. Nella zona dovrebbero abitare circa 5.000 persone, ma saranno tra le 10.000 e le 15.000 persone quelle che la utilizzeranno quotidianamente. In particolare, il parco urbano di almeno 130.000 metri quadrati era esplicitamente richiesto nel bando di gara, e il requisito è stato rispettato da tutti e tre i gruppi finalisti, anche se in modo più evidente soprattutto nel progetto firmato dal britannico Norman Foster per la Risanamento guidata da Luigi Zunino. E forse proprio questa considerazione ha fatto rilevare al sindaco come «un pochino di verde in più non mi sarebbe dispiaciuto».

La più grande rivoluzione urbanistica di Milano nell'ultimo mezzo secolo inizierà nella primavera 2006, quando l'area sarà liberata dai padiglioni dell'attuale quartiere fieristico, perché sia dato il via ai lavori. Un'imponente trasformazione che dovrà essere completata entro il 2014 e che è destinata ad avere un impatto storico, come sottolineato anche dal presidente Roberto Formigoni («Milano torna al centro dell'architettura mondiale»), visto che il progetto di CityLife presenta elementi altamente innovativi sull'architettura milanese: «I progettisti, provenendo e rappresentando culture e civiltà differenti, sono riusciti a elaborare il progetto di più ampio respiro internazionale con il quale la Fiera tornerà, in un certo senso, a essere Campionaria: Daniel Libeskind la cultura mitteleuropea con la contaminazione americana, Arata Isozaki la cultura orientale, Zara Hadid la cultura delle origini dell'uomo, quella della Mesopotamia, Pier Paolo Maggiora la cultura della nostra scuola», osserva l'assessore all'Urbanistica Gianni Verga.

La trasformazione della vecchia Fiera si sovrappone a quelle dell'area Montecity-Rogoredo e di Garibaldi-Repubblica, per la quale proprio negli scorsi giorni il consiglio comunale ha dato il via libera all'accordo di programma.

LA CURIOSITÀ - La più alta arriverà a 218 metri Sarà quasi il doppio del Pirellone

Nel 1960 fu il grattacielo Pirelli targato Gio Ponti. Con i suoi 127,10 metri di altezza costruiti in quattro anni, divenne il simbolo del boom economico di Milano, superando di 10 metri il grattacielo di piazza della Repubblica. Una creatura di trenta piani, che oggi fa ombra ad altri simboli cittadini, sacri e profani: la Madonnina del Duomo, di 108,5 metri, e la torre Velasca, di 87.

Tra queste due altezze, si piazzano altri due giganti oltre i cento metri di altezza: la torre Littoria di Parco Sempione di 108 metri e il grattacielo Galfa, tra le vie Galvani e Fara, di 102. Seguono le torri di Porta Garibaldi, che raggiungono i 98 metri, e il palazzone di viale Filippetti, 89 metri.

Nel 2004, però, è la stessa Regione a rilanciare la sfida dei grattacieli. Il progetto di Pei-Cobb-Freed & Partners e Caputo vede entro il 2008 la realizzazione di un complesso architettonico, destinato a ospitare gli uffici della Lombardia e, soprattutto, a superare il Pirellone. Due torri di 32 piani stabiliranno il record di 160,2 metri nell'area tra via Pola e Melchiorre Gioia. Ma il primato è già in forse. Alla corsa al cielo oggi si aggiunge la cordata "Citylife", che si è aggiudicata la gara per la riqualificazione della Fiera con i progetti di tre torri di vetro, alte 218, 185 e 175 metri.

"Sarà la nuova piazza di Milano"

di Paolo Berizzi

La Repubblica del 03.07.04 - L'architetto Maggiora: qui si entrerà solo a piedi o in bici. "Abbiamo disegnato la zona in modo tale che possa vivere 24 ore su 24. Il verde c'è ed è stato pensato per valorizzare le case, con alberi piazzati dappertutto".

La grande piazza, al centro. Una moderna agorà abbracciata da tre torri. La più bassa è ricurva; le altre due si guardano, una di fronte all'altra, con l'ombra dei grattacieli che si staglia sul parco che collega la piazza alla zona dove sorgono le abitazioni. In mezzo scorre un corso d'acqua, un nuovo Naviglio. Intorno, immancabile, qui fondamentale, la pista ciclabile: al nuovo quartiere fieristico si accede solo in bici o a piedi. Alle spalle della torre ricurva altri due edifici, linee futuriste, uno rotondo, l'altro triangolare: sono, rispettivamente, il museo e il centro del design; valorizzazione di un punto di forza del made in Milano. L'architetto Pier Paolo Maggiora, 60 anni, torinese, unica firma italiana nella squadra (Daniel Libeskind, Arata Isozaki, Zaha Hadid) che ha concepito il progetto presentato da CityLife, osserva il plastico del nuovo quartiere fieristico. «È un sogno diventato progetto» semina entusiasmo Maggiora, stringendo mani e incassando complimenti. «Spero davvero che riesca a fare sognare la città».

§ Architetto, qual è il punto di forza del vostro progetto?

«La vivibilità. Abbiamo cercato, inseguendo il massimo dell'innovazione, di offrire il migliore prodotto possibile a chi abiterà in questo nuovo quartiere, e anche a chi abita intorno».

§ Questa è un'area importante di Milano, per tanti anni ha rappresentato l'anima della città, la sua vocazione internazionale. Le tre torri diventeranno un nuovo simbolo della metropoli?

«Le tre torri, certo. Ma l'idea forte, l'icona di tutto il lavoro, è la piazza. La nuova piazza di Milano. Quella del terzo millennio. Ecco, abbiamo pensato questo: il Duomo ha segnato il millennio passato. Adesso arriva questo nuovo luogo di aggregazione, un luogo simbolo. Vogliamo riattivare la socialità, anche grazie ad un sistema efficiente di mezzi pubblici. E offrire verde, tanto verde».

§ Centodiecimila metri quadrati di parco. Un polmone enorme in mezzo a edifici futuristi.

«Ci interessava il rapporto verde-acqua-edifici. Il Naviglio come riproposizione delle grandi riflessioni leonardesche sull'acqua rispetto alla città. L'acqua in movimento che si sposa con il verde. Tutto in relazione con il costruito, le abitazioni, gli uffici, i grandi edifici. Ecco il perché dei viali alberati. Il verde è un punto essenziale. È stato pensato in modo da valorizzare le costruzioni, le case. Oltre al parco, ci saranno altri 75 mila metri quadrati di "aiole", alberi piante disseminati dappertutto».

§ Quante persone potranno abitare nel quartiere che verrà?

«Cinquemila. Più, abbiamo calcolato, altre cinquemila che ruoteranno intorno agli uffici, ai negozi, ai centri d'intrattenimento. In tutto sono 10mila cittadini che saranno accolti ogni giorno da un´area pensata apposta per vivere bene, lavorare bene. Una zona immaginata per essere vissuta 24 ore su 24 sette giorni su sette».

§ E vietata alle auto.

«Assolutamente sì. Qui si entra solo in bicicletta o a piedi. Per le automobili ci saranno parcheggi sotterranei, solo sotterranei».

§ E i servizi pubblici?

«La zona sarà servita dalla metropolitana, fermata Amendola, e da un passaggio ferroviario. Sono vicinissimi, ci sarà un collegamento svelto e agevole con il resto della città».

§ Il museo e il centro del design.

«Sono stati pensati per esaltare uno dei fiori all'occhiello di questa metropoli. La sua storica e naturale vocazione alla modernità. Il progetto, complessivamente, guarda molto al futuro, ma partendo dal passato e da una tradizione dalla quale non si può prescindere».

§ Isozaki, Libeskind e Hadid hanno modi di disegnare per certi aspetti molto diversi tra loro. Come siete arrivati a fare quadrare il progetto?

«Il fatto che le matite siano diverse non è determinante. Ci siamo seduti intorno a un tavolo, e prima che uno tracciasse il primo segno ci sono voluti tre mesi. Alla base c'è stato un grande lavoro concettuale».

§ Come è avvenuta l'elaborazione di un progetto così importante e così costoso (523 milioni di euro)?

«Il lavoro ha tenuto impegnate per sei mesi 300 persone: 100 architetti e 200 tecnici. Abbiamo fatto sette workshop, con gli altri tre progettisti ci incontravamo a Milano, Londra, New York. Ci sono stati momenti di scontro anche molto forti, ma sempre costruttivi. E il risultato lo potete vedere. I nostri investitori hanno quasi raddoppiato la base d'asta: vuol dire che sono loro i primi a sognare con questo nuovo pezzo di città».

di Pierluigi Panza

Il Corriere della sera del 03.07.04 -La cordata CityLife si è aggiudicata la gara internazionale per la riqualificazione del quartiere. Offerta di 523 milioni. Fiera, vince l’architetto di Ground Zero. Nel centro di Milano nasceranno tre grattacieli «come le tre caravelle» e un grande parco. Gruppo di assicurazioni vince il concorso per riqualificare l’ex Campionaria. Il lavoro affidato all’ideatore del nuovo Ground Zero - Tre grattacieli al posto della Fiera - Nel progetto il Museo del design e un parco. «Regione e Comune alleati per una Milano capitale dell’architettura».

La cordata delle assicurazioni CityLife si è aggiudicata la gara internazionale per la riqualificazione del quartiere storico della Fiera. L’offerta che ha consentito a CityLife di assicurarsi la gara è stata di 523 milioni di euro. Battute Pirelli Real Estate con Renzo Piano e Risanamento con Foster e Gehry. Altrettanti soldi serviranno per costruire le architetture. L’area interessata dall’intervento di riqualificazione riguarda 255 mila metri quadrati e sarà progettata da Arata Isozaki, Daniel Libeskind, Zaha Hadid, Pier Paolo Maggiora. A luglio si firmerà il precontratto. I lavori di costruzione dovrebbero avvenire entro il 2014. Il progetto prevede residenze per 5 mila persone e uffici per altrettante. Gli uffici saranno ospitati in tre grattacieli al centro dell’area, il più alto dei quali sarà di 218 metri. Sorgeranno al centro del cosiddetto Central Park, caratterizzato anche dalla presenza di canali d’acqua. È previsto anche il Museo del Design e la conservazione dello storico padiglione 3 della Fiera Campionaria, che sarà destinato ad anziani e bambini. Per il presidente della Fiera, Luigi Roth, è «un progetto che lascerà un segno nella storia». Per Albertini e Formigoni è la dimostrazione del nuovo Rinascimento lombardo e di come «facendo sistema, il buon governo vince le sfide».

MILANO - La cordata CityLife, composta dai gruppi Generali, Ras, Progestim e dagli architetti Daniel Libeskind (quello che sta ricostruendo Ground Zero), Arata Isozaki, Zaha Hadid e Pier Paolo Maggiora si è aggiudicata la gara internazionale per la riqualificazione dello storico quartiere della Fiera Campionaria. Dal 2005, infatti, la Fiera di Milano si trasferirà nella nuova sede di Rho-Pero. L’offerta che ha permesso a CityLife di aggiudicarsi la gara è di 523 milioni di euro, superiore dell’8% rispetto alla seconda offerta (la base d’asta era 300 milioni). Gli altri due raggruppamenti rimasti in gara erano Pirelli Real-Estate con Renzo Piano e Risanamento con Norman Foster. Più o meno altrettanti milioni di euro serviranno ora alla cordata per realizzare il progetto. L’area d’intervento è di 255 mila metri quadrati (dei 440 mila di Fiera), ed è stata destinata il 50% a parco (come da bando) mentre sul resto sorgeranno residenze e tre grattacieli che diventeranno le tre «caravelle» di Milano: saranno alti 218, 185 e 170 metri; quasi il doppio del Pirelli e della Madonnina del Duomo. Sono tre volumi in ferro e vetro di cui uno è un parallelepipedo perfetto (il più alto), uno è ritorto su se stesso e il terzo è curvo a forma di vela. Nel parco sorgerà anche il Museo del design, che libererà così la Triennale dall’incombenza di realizzarlo al proprio interno (purché si coordino), mentre lo storico padiglione 3 della Fiera sarà conservato e utilizzato per servizi destinati a giovani e anziani. Le residenze sono per 5mila persone; altrettante persone possono ospitare i tre grattacieli destinati al terziario. Raggiunto in Polonia, Libeskind ha dichiarato che si è trattato «di un lavoro di gruppo il cui obiettivo è stato conferire una nuova opportunità per Milano basata su qualità e bellezza e anche attenzione ecologica nella progettazione del grande Central Park della città». E ha aggiunto che dopo aver iniziato il 4 luglio i lavori di costruzione della Freedom tower a Ground Zero, spera di essere presto a Miano, dove ha vissuto tra il 1986 e l’89.

Entusiastiche le valutazioni del presidente della Fiera, Luigi Roth, del presidente della Regione, Roberto Formigoni e del sindaco Gabriele Albertini, con una vena critica sul parco «che poteva essere ancora più grande». La selezione dei progetti era stata effettuata dalla Fiera con una commissione di esperti e la Lazard. Il 30 luglio verrà firmato il contratto preliminare di compravendita dell’area, che verrà consegnata al vincitore nel primo trimestre 2006. L’intervento dovrebbe essere realizzato per il 2014.

Questo progetto esalta il ridisegno della Milano post 2010, che vedrà nascere una downtown di funghi verticali, con poli il nuovo palazzo della Regione Lombardia di I.M.Pei (160 metri), la Città della moda di Cesar Pelli (140 metri) e questo intervento. Era dalla fine degli anni Cinquanta, con la Torre Velasca dei BBPR e il Pirellone di Gio Ponti, che Milano non costruiva con questa intensità e qualità in altezza. E lunedì otterrà il lasciapassare in Comune anche il progetto Montecity firmato da Norman Foster, «una città nella città» su un milione e 200 mila metri quadrati di proprietà di Luigi Zunino, la più grande area dismessa d’Europa interessata a risanamento.

Un portale per l’Europa. È il secolo dell’accoglienza

di Daniel Libeskind

Il Corriere della sera del 03.07.04

Il progetto CityLife per il Polo Urbano della ex Fiera Milano non propone semplicemente lo sviluppo di una vasta zona della città, ma si propone di inserire una città del 21° secolo all’interno di un contesto storico. Questo progetto nasce dall’idea che il 21° secolo non sarà più come il precedente, semplicemente il secolo dell’unica idea dell'individuo ma della molteplicità: non più l’epoca in cui esiste una sola idea, un solo punto di riferimento (comandante, padrone) e un solo fallimento. Il Ventunesimo secolo si presenterà sicuramente come una società democratica aperta, con condizioni plurime e adeguata alla ricchezza culturale della vita odierna.

Questo progetto, dunque, ha un significato che esula dal semplice contesto in cui è collocato. Dal momento in cui rappresenta Milano come un portale per l’Europa, rappresenta Milano come un incrocio paradigmatico tra presente, passato e futuro, tra una tradizione della città così com’è sempre stata e una nuova che sta emergendo soltanto in questi tempi. Al centro di un nuovo, stratificato programma per l’ex Fiera, permane l’idea che questo non è un sito a sé stante, un luogo che nasce dalla città senza contaminazioni, ma la proiezione di una nuova connettività del sito e la creazione di una autentico «quartiere». Tutto ciò richiede una pluralità di mezzi, sia architettonici che urbanistici, per creare un ricco pattern di differenze e prospettive che sia adeguato alla molteplicità delle funzioni di quest’area della città. Questo quartiere è concepito come un’area strettamente e organicamente integrato nel suo contesto circostante, che include gli imponenti edifici della Fiera a nord come le più contenute ville a sud. Questa differenza di scala offre l’opportunità di creare una gerarchia all’interno del sito, che spazia dagli edifici residenziali nell’area a sud, passando per il grande Central Park fino al «portale» creato dagli edifici alti e le attività culturali a nord.

Il Parco è il tessuto connettivo dell’intera città, è l’attrattiva che permette di generare vasti spazi pubblici come la Piazza delle Tre Torri al centro dell’area così come le aree di gioco e svago disseminate attorno alle abitazioni. Il Palazzo dello Sport è mantenuto e trasformato in un nuovo centro di gioco per le famiglie, una specie di «giardino protetto», emblematico per la sostenibilità e il potenziale ecologico rappresentato dal piano. I venti, la luce, le condizioni atmosferiche non sono elementi astratti, ma presi in considerazione nel progetto che pone attenzione all’ecologia. Quest’area è stata concepita come un sistema attivo 24 ore al giorno e sette giorni su sette.

di Claudio Schirinzi

Corriere della sera del 03.07.04

Gio Ponti sarebbe contento dei milanesi. «Veri milanesi - diceva - sono coloro che, aborrendo dalle addormentatissime nostalgie formali, avranno una nostalgia sola, vivificatrice, quella della antica virtù creativa e in nome di quella conserveranno in vita non le antiche forme mortissime, ma le antiche virtù creative italiane; l'antico coraggio intellettuale, l'antica immaginazione, l'antica grandezza d'animo e di spirito, per fare le nuove cose e diversissime». Di «nuove cose e diversissime» (anche se per ora soltanto in progetto), Milano non ne ha mai avute così tante e tutte insieme: la nuova città nella città, presentata ieri; il complesso Garibaldi-Repubblica, con la nuova sede della Regione, il nuovo palazzo per gli uffici comunali e il Museo della moda; e poi Montecity, con case, uffici, centro congressi (finalmente) e un grande parco. Nuove cose e diversissime, appunto, destinate a cambiare lo skyline di Milano, ma non la sua specificità, non la sua vocazione. Meno di cinquant'anni fa, quando venne inaugurato il grattacielo Pirelli, sul tetto del palazzo, per iniziativa dell'allora cardinale Montini, venne collocata una copia in scala ridotta della Madonnina. Perché per la prima volta Milano aveva una costruzione più alta del Duomo, 127 metri contro i 109 della cattedrale, e la Madonnina doveva comunque continuare a vegliare sulla città dal punto più elevato. Come dire? Innovazione nella tradizione. Ebbene, il progetto che ha vinto la gara per l'area urbana della Fiera prevede fra l'altro un grattacielo alto esattamente il doppio del Duomo: 218 metri. Forse la Madonnina del Pirellone finirà sul suo tetto. E sarà una sorta di passaggio del testimone fra la Milano del ventesimo secolo e quella del ventunesimo, fra la Milano della Fiera Campionaria, dove le famiglie facevano in una sola giornata il giro del mondo fra le meraviglie del primissimo consumismo, e quella che deve trasformare la globalizzazione da minaccia in opportunità.

Milano non vuole essere Shangai con i suoi 400 grattacieli, ma non deve neppure avere paura di cambiare. Architetti e urbanisti diranno se il cambiamento, così come è stato disegnato, aggiunge qualità urbana alla città del… secolo scorso, ma già il fatto che i più prestigiosi progettisti del mondo si siano messi in gara per poter apporre la propria firma a questa o quella parte del cambiamento dice quanto Milano sia una vetrina importante. Ora però la sfida si fa ancora più difficile. Secondo le previsioni ci vorranno dieci anni per ultimare i lavori sull’area della vecchia Fiera (che impressione doverla già definire così) e altrettanti per Garibaldi-Repubblica e per Montecity. Sul rispetto dei tempi, però, l’esperienza del recente passato non è rassicurante: il Passante Ferroviario è un’eterna incompiuta; il cantiere del nuovo Piccolo Teatro è stato come la Fabbrica del Duomo; Malpensa 2000 è stata inaugurata quando ancora non erano pronti i collegamenti necessari. Unica eccezione è la nuova Fiera di Rho-Pero che cresce secondo le tabelle di marcia. L’innovazione non può prescindere dall’efficienza. E per ritornare a Gio Ponti forse è il caso di ricordare che il grattacielo Pirelli venne costruito, con le meno sofisticate tecnologie di allora, in soli quattro anni: dal 1956 al 1960.

LA RIQUALIFICAZIONE DELLA FIERA

di Francesco Spini

La Stampa del 03.07.04 - Tre torri d’acciaio per cambiare Milano. La più alta raggiungerà i 220 metri, il doppio del Pirellone. «Dopo due secoli di Duomo, sarà questo il nuovo centro». Enormi spazi verdi tra gli edifici, l’inaugurazione nel 2014.

MILANO - Guardate bene Milano così com’è finché siete in tempo, perché forse tra dieci anni non la riconoscerete più. Il Duomo ci sarà ancora, d’accordo, ma non sarà più l’unico punto di riferimento. A svettare dall’altro lato della città, dove fino ad oggi hanno stazionato i grigi padiglioni della Fiera, saranno tre torri, tutto vetro e acciaio, simbolo, secondo il sindaco della città, Gabriele Albertini, «di un nuovo rinascimento urbanistico e architettonico di Milano, dopo aver vissuto per troppo tempo solo di ricordi». La più alta si slancerà a 220 metri dal suolo, come a dire il doppio del Pirellone, un’altra mediana, in mezza torsione, toccherà i 185 metri. L’ultima, quella che sembra piegarsi a mo’ di riverenza in mezzo alle altre due, sarà alta 170 metri, una volta e mezzo il Pirelli.

E’ il progetto di quella che sarà la riqualificazione della vecchia zona fieristica così come l’ha disegnata un team di progettisti che conta architetti di primo piano. Ci sono Arata Isozaki, giapponese, all’attivo il Pala-hockey per le Olimpiadi 2006 di Torino, il polacco Daniel Liebeskind, vincitore nel 2003 del concorso per la ricostruzione del World Trade Center di New York, Zaha Hadid, nata a Baghdad, firmataria, tra l’altro, del progetto per il centro di arte contemporanea di Roma. Insieme a loro il piemontese Pierpaolo Maggiora, all’attivo la vincita del concorso per il Comparto olimpico Torino 2006. Riuniti attorno al tavolo «virtuale» della tecnologia, hanno svolto un lavoro corale: «Per tracciare il primo segno sul progetto è passato un mese, nei sei successivi tutto è filato tra continui confronti e discussioni», dice Maggiora.

Dietro i progettisti c’è la cordata CityLife (Generali Properties, in qualità di capocordata, insieme a Ras, Progestim, Lamaro Appalti, Grupo Lar Desarollos Residentiales) che, con un’offerta capogiro da 523 milioni di euro, ha bruciato i concorrenti Pirelli Real Estate e Risanamento. «Tutti progetti di altissimo livello: differenti, ma uguali nella qualità», ha ricordato il presidente della Fondazione Fiera di Milano, Luigi Roth. Tutti rientravano infatti nella short list selezionata da una commissione di valutazione che si è avvalsa anche della collaborazione di Lazard & C Real Estate.

Non sarà una nuova Milano da bere, quella disegnata da CityLife. Piuttosto una Milano da vivere, con ampi spazi verdi (180 mila metri quadrati su 255 mila complessivi). Il cuore del progetto, infatti, si dipana da un’enorme piazza centrale dominata dalle tre torri. «Noi l’abbiamo concepita come la nuova piazza di Milano», racconta Maggiora tra sorrisi e strette di mano. «Così come la piazza del Duomo ha dominato gli ultimi secoli - dice -, noi immaginiamo che questa sarà la piazza del terzo millennio». Il suo cuore centrale sarà il parco, l’ambiente in termini generali. Non c’è infatti un confine per il verde, vero trait d’union tra le aree residenziali e i centri direzionali. Il parco, progettato con l’assistenza del noto vivaista milanese, Vittorio Ingegnoli, sarà percorso da un naviglio e, «anche per la scelta delle essenze, sarà un grande polmone naturale per la città».

Altro nodo sarà quello dei servizi pubblici che avranno due fulcri dominanti. Ci saranno un museo e un centro del design inserito all’interno della vecchia Fiera. «Un simbolo per il “made in Italy” - dice Albertini -, anzi per il “made in Milano”». E ci sarà la rivitalizzazione del Padiglione 3 della Fiera (avrà il tetto trasparente) come centro d’incontro, «riferito ai bambini e agli adolescenti - spiega Maggiora - che avranno qui un punto di ritrovo, insieme agli anziani, in un’ottica di partecipazione a tutto quello che è il rapporto sociale e di vivibilità». All’interno del nuovo quartiere c’è già una certezza: le automobili saranno bandite («almeno qui, abbiamo immaginato un ritorno alla vita d’incontro»), ma non mancheranno i parcheggi. Saranno 10 mila, tutti sotterranei, pensati per chi ci vivrà - lo spazio è per 5 mila persone, tra quelle pronte a sborsare cifre che, va da sé, non saranno alla portata di ogni tasca -, per i 5 mila lavoratori che andranno a occupare gli uffici, dentro e fuori le torri, ma anche per quei milanesi che sceglieranno il nuovo centro come meta di svago. Dentro e fuori le torri non si conteranno negozi, ristoranti, cinema. «Un risultato eccezionale, anche per i tempi - ha commentato il governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni -. Un modello di ottima relazione tra pubblico e privato, e un chiaro esempio di come possa funzionare il sistema federalista e della sussidiarietà». Per vedere tutto questo bisognerà attendere il 2014. Fino ad allora continueremo a godere del buon caro vecchio Duomo.

Fiera, le future torri simbolo della città

di Pierluigi Panza

Corriere della sera del 04.07.04

«I tre grattacieli saranno il simbolo della nuova Milano». Per gli urbanisti, il progetto CityLife che ha vinto il concorso della Regione per la riqualificazione della Fiera, sarà il segno del rinnovamento. E se per gli architetti sarà un design «poco adatto alla città», l’assessore all’Urbanistica Gianni Verga sembra esserne entusiasta: «La trasformazione della Fiera è una necessità per una città pratica come Milano che è capace di cambiare e rigenerarsi». Dopo mesi di selezione per premiare qualità e offerta, adesso per «le tre caravelle» di Libeskind, Hadid e Isozaki arriva la prova della città. E mentre docenti di estetica e storici del design plaudono o criticano, il consiglio comunale si prepara ad approvare il Piano integrato di intervento del progetto.

Il progetto Fiera è cosa fatta, ma fatta del tutto non è. Dopo mesi di selezione per premiare qualità e offerta, oppure offerta e qualità a seconda se parlino la Fiera e le istituzioni oppure «gli architetti» e le opposizioni, per le «tre caravelle» di Libeskind, Hadid e Isozaki alte il doppio della Madonnina, ora viene «la prova» della città. Parlano i primi critici e, soprattutto, parleranno i rappresentanti dei cittadini: ovvero il consiglio comunale quando il progetto verrà portato in aula. L’assessore Gianni Verga sembra tranquillo: «Bisogna presentarlo in consiglio per approvarne il Piano integrato di intervento. Ma per me la trasformazione della Fiera è necessaria per una città pratica come Milano che è capace di trasformarsi e di rigenerarsi».

Per ora il progetto non è ancora all’ordine del giorno, anche perché domani bisogna già approvare il Piano per la nascita di Montecity di Zunino e Foster, i secondi classificati alla gara della Fiera. Ma Gianni Occhi, di Rifondazione, fa già capire che le opposizioni non hanno alcuna intenzione di ratificare il progetto senza discuterne.

«Noi abbiamo già presentato un ricorso al Tar - spiega Gianni Occhi - perché la volumetria stabilita per questi palazzi è incompatibile con le leggi, sono troppo alti rispetto all’intorno. Hanno usato un indice volumetrico di 1,15 metro quadro su metro, quando in genere l’indice è 0,65. Montecity, ad esempio, è 0,64. Unica eccezione è l’area Garibaldi-Repubblica, dove hanno fatto 0,65 per le residenze private e 1 per gli spazi pubblici. Fiera può vendere entro fine luglio, ma il Piano deve essere approvato dal consiglio».

Vedremo anche quale sarà la posizione della Lega («Ne discuteremo domani pomeriggio in sede», dice Matteo Salvini) di fronte al fatto che il costruttore Lamaro di Roma, attraverso il rappresentante della proprietà Claudio Toti, ha dichiarato che «i lavori saranno seguiti da Roma» e che la società non ha una sede milanese: «Costruiamo da cent’anni, abbiamo fatto interventi anche più estesi anche se mai, ovviamente, abbiamo costruito grattacieli così alti». Ci sono poi le indiscrezioni. Con quel «mi aspettavo più parco», il sindaco Gabriele Albertini ha forse lasciato intendere che preferiva altri progetti? Forse quelli della short-list di Piano e Foster? Oppure quello della italo-francese Green-Way Parco delle esposizioni firmato da Buffi-Desvigne-Rota che, si è scoperto, aveva l’offerta più alta (550 milioni) e il parco più grande (16 ettari con 4 ettari d’acqua)?

In città il dibattito architettonico è appena al via. Gillo Dorfles ha approvato i grattacieli come «nuovi segni necessari per una città piatta».

Anche l’estetologo Stefano Zecchi, presidente di giuria nel concorso che ha premiato il grattacielo di Pei per la Regione Lombardia, afferma di «apprezzare Libeskind, capace di progettare questi grandi segni». Con loro molti altri.

Ma giungono anche alcune velate critiche. Non stiamo andando verso una città della globalizzazione che si spersonalizza?

«Da una prima osservazione - afferma Mario Botta, il progettista della nuova Scala - io preferivo il progetto di Renzo Piano; era più consapevole della città storica. Costruiva un pezzo di Milano, che non è Hong Kong o Dubai. Ma forse Milano vuole andare in una direzione internazionale e globalizzata, ma mi chiedo con quale consapevolezza. Piano divideva bene il parco dalla parte urbanizzata».

Lo sostiene anche il critico di design, Aldo Colonetti: «Mi sembrano un po’ anonimi e adatti in qualsiasi luogo. E poi la corsa ai grattacieli si sta inflazionando: a Milano vanno bene alcuni grattacieli, ma qui tre. Se si cercasse la globalizzazione sarebbe un difetto, una scorciatoia per arrivare alla città moderna». Ma il dibattito è appena all’inizio.

La trasformazione del quartiere della Fiera - Solo tre cordate in gara

di Franco Capitano

La Repubblica del 02.07.04 - Trei progetti rimasti in gara, l'offerta più vantaggiosa passa solo se supera dell'8 per cento la seconda in graduatoria. Fiera, oggi si sceglie il vincitore. Un affare da 500 milioni ricostruire l'area del Portello.

Il giorno è arrivato. Saranno aperte oggi le buste con le offerte per riqualificare l'area del quartiere storico della Fiera di Milano. Una partita da 500 milioni di euro, un prezzo molto più alto dei 310 milioni fissati come base d'asta. In gara sono rimaste tre squadre sulle cinque che tre mesi fa hanno presentato, separatamente, progetto e offerta economica. Fanno parte della short-list CityLife, composta dai bracci immobiliari dei primi tre gruppi assicurativi italiani: Generali Properties (capocordata), Ras e Fondiaria-Sai (Progestim), con Lamaro Appalti e il gruppo Lar; Pirelli Real Estate (capocordata), con Vianini Lavori, Roma Ovest Costruzioni e Unicredit Real Estate; Risanamento (capocordata) con Ipi, Maire Engineering (ex Fiat Engineering), Astaldi, Chesfield, Langadale Consulting. I loro progetti sono stati giudicati i migliori, cioè quelli che «hanno saputo interpretare meglio le linee guida» per trasformare i 255 mila metri quadrati oggi occupati da Fiera Milano in un «nuovo simbolo per la città». I tre finalisti si sfideranno oggi. Si potrà avere un vincitore soltanto se l'offerta più vantaggiosa avrà superato la seconda offerta in graduatoria di oltre l'8 per cento. In caso contrario la gara riprenderà venerdì 9 luglio, quando si passerà alla fase dei rilanci (che potranno essere al massimo due). Il primo rilancio, in busta chiusa, sarà recepito dalla commissione, in seduta aperta ai concorrenti. La gara sarà aggiudicata se l'offerta migliore supererà la seconda del 4 per cento. Altrimenti si passerà al secondo rilancio in busta chiusa e la commissione assegnerà la gara al concorrente che avrà presentato l´offerta più alta. L'area da riqualificare sarà consegnata al vincitore entro marzo 2006, e le opere dovranno essere completate in otto anni, entro il 2014. Se oggi ci sarà già un vincitore, verranno svelati subito anche i cinque progetti (finalisti ed esclusi), finora rimasti segreti. «Mi auguro che dalle buste escano numeri che ci consentono di chiudere subito la gara», ha affermato Luigi Roth, presidente della Fondazione Fiera.

di Cristina Bassi

Corriere della sera del 29.06.04 - Il vincitore proclamato entro luglio. Solo tre cordate in gara per trasformare il quartiere della Fiera. Citylife, Pirelli Real Estate e Risanamento si contendono l’appalto.

La «lista» si accorcia. CityLife, Pirelli Real Estate e Risanamento sono i tre gruppi finalisti - da cinque che erano - nella gara per la trasformazione del vecchio quartiere fieristico in uno dei nuovi quartieri-simbolo della città. Entro il 31 luglio sarà indicato il vincitore e stipulato il contratto per la ricostruzione di buona parte dell’area: 255 mila metri quadrati degli attuali 440 mila. La short list dei concorrenti è stata decisa dalla commissione di valutazione del committente della maxi riqualificazione, la Fondazione Fiera Milano. I tre raggruppamenti riuniscono colossi internazionali della progettazione, del recupero urbano, istituti di credito. La cordata CityLife è guidata da Generali Properties ed è composta da Ras, Progestim, Lamaro Appalti e Grupo Lar Desarrollos Residentiales: tra i progettisti figurano Daniel Libeskind, Arata Isozaki, Pier Paolo Maggiora. Pirelli Real Estate è alla testa della seconda cordata (che include Vianini, Roma Ovest e Unicredit real estate), il cui progetto è stato curato da Renzo Piano. Infine Risanamento Spa (con Ipi, Fiat engineering, Astaldi, Chelsfield e Langdale), guida una cordata che ha ingaggiato Norman Forster, Frank Gehry, Rafael Moneo, Cino Zucchi.

«Tutti i cinque progetti partecipanti alla gara - commenta Luigi Roth, presidente di Fondazione Fiera Milano e Sviluppo sistema Fiera - hanno un elevato valore qualitativo e dimostrano il notevole impegno imprenditoriale e progettuale che ha portato alla loro realizzazione. La short list è composta dai tre studi che meglio hanno saputo interpretare la forma e i contenuti delle linee guida stabilite dalla committenza». Nei prossimi giorni verranno aperte le buste con le offerte d’acquisto. Il prezzo minimo fissato è di 310 milioni di euro.

A fine luglio sono previste l’indicazione del vincitore e la stipula del contratto. Per il marzo 2006 Sviluppo sistema Fiera consegnerà l’area: il progetto dovrà essere realizzato in otto anni, entro il marzo 2014. Chi si aggiudicherà l’appalto dovrà inoltre provvedere alla manutenzione del parco e del verde pubblico nei cinque anni successivi alla conclusione dei lavori. La grande riqualificazione servirà a Fondazione Fiera a finanziare il polo esterno che sta sorgendo alle porte di Milano, tra Rho e Pero, su progetto di Massimiliano Fuksas. Inaugurazione prevista: aprile 2005.

di Desidera Flachi

La Repubblica del 29.06.04 - A luglio sarà scelto il progetto vincitore. Quartiere Fiera, ora la partita si gioca a tre Ligresti, Zunino e Real Estate. Nei prossimi giorni l'apertura delle buste e la scelta fra gli architetti Libeskind, Piano e Foster. Fiera, tre per la corsa finale. Restano in gara i progetti di Ligresti, Pirelli e Zunino. Nell'area riqualificata ci saranno grattacieli in mezzo ad un grande parco in città. Ora deciderà l'offerta economica. E Generali-Sai potrebbe essere favorita.

E ora siamo a tre: Zunino, Pirelli e Ligresti. Si restringe la sfida tra i big dell'immobiliare e tra i migliori architetti del mondo per ripensare la Fiera, inseguendo il sogno di un Central Park alla milanese del sindaco Albertini che, proprio ieri, parlava di un vero «Rinascimento in città, per quanto riguarda il mondo dell´urbanistica e dell'architettura».

Nella gara per aggiudicarsi la riqualificazione del vecchio quartiere fieristico, dopo mesi di studio la commissione di valutazione dei progetti ha infatti ristretto il numero dei gruppi in gara da cinque a tre, promuovendo le ideazioni che portano la firma di grandi architetti come Renzo Piano, Daniel Libeskind, che ha vinto il concorso per ricostruire Ground zero, Zaha Hadid, autrice de Centro delle arti contemporanee a Roma, e Norman Foster, vincitore del Pritzker price, il Nobel per l'architettura e creatore del Millenium bridge a Londra. Nei prossimi giorni, forse già venerdì, verranno aperte le buste contenenti le offerte di acquisto dell'area, offerta che deve essere superiore ai 310 milioni di euro. Entro fine luglio si saprà il vincitore, ma la questione sarà risolta molto prima, praticamente subito dopo l'apertura delle buste, se uno dei tre gruppi avrà offerto oltre l´8% in più degli altri. In caso contrario, si procederà a una asta al rialzo. E tra gli addetti ai lavori le indiscrezioni parlano di una probabile offerta più alta da parte di Generali, che a questo punto sarebbe quindi favorita per il successo finale.

A valutare i progetti, tutti contenenti torri o grattacieli insieme ad un grande parco in città, è stato il consiglio di amministrazione di Sviluppo Sistema Fiera, con l'aiuto di 11 esperti italiani e internazionali di architettura, urbanistica, sociologia, estetica, mobilità, storia, economia urbana e paesaggistica. Secondo il sindaco Gabriele Albertini, la gara sul polo interno conferma la felice stagione che Milano sta vivendo, «quasi un Rinascimento urbanistico ed architettonico», mentre il presidente della Regione Roberto Formigoni ha dichiarato che i progetti prescelti «fanno fare un grande balzo in avanti alla città nella direzione del bello e della qualità di vita». Tra i gruppi rimasti fuori, la cordata Greenway con l'architetto Jean Pierre Buffi, che ha rifatto il quartiere di Bercy a Parigi, e la Aig Lincoln con la Immsi di Roberto Colaninno, che portavano un progetto di David Chipperfield, l'architetto inglese che sta ristrutturando l'ex Ansaldo.

Nuova Fiera, a metà giugno i finalisti

La Repubblica del 27.05.04

È un altro pezzo di città che cambia volto: 255mila metri quadrati dei 440mila oggi occupati dalla Fiera. È un altro grande concorso internazionale che sta per concludersi. Il vincitore, quello vero, si conoscerà solo entro il 31 luglio. Ma la commissione incaricata di decidere chi ridisegnerà il quartiere storico della Fiera definirà, entro metà giugno, una shortlist di progetti tra i cinque rimasti in gara.

I finalisti saranno scelti, tra le grandi cordate, seguendo linee guida fondamentali: l'emblematicità dell'intervento, la vivibilià, la qualità architettonica e ambientale, i tempi di realizzazione.

In Fiera si progetti il futuro - Intervista a Daniel Libeskind

di Pierluigi Panza

Il Corriere della sera del 06.03.04

L’architetto di Ground Zero: vanno costruite residenze, spazi pubblici, centri culturali. Non bisogna sviluppare una sola grande idea, ma una pluralità di funzioni. «Milano e l’Italia hanno un grande passato. Ma se non si pensa al futuro, si perde anche il passato. Non bisogna creare delle città museo! L’Italia ha straordinari centri scientifici, ha un marchio come la Ferrari... Deve continuare a progettare il futuro e non a imitare con nostalgia il passato».

Daniel Libeskind, progettista d’origine polacca, cittadino del mondo e anche di Milano, dove ha abitato dal 1985 al 1989, papà del nuovo Museo ebraico di Berlino nonché del Parco della Riconciliazione e della Freedom-tower che sorgeranno sopra Ground Zero, era ieri a Milano. Ospite della Triennale, dove ha tenuto un’affollata conferenza intitolata «Proof of things invisibile» e di «City life. Un progetto per Milano», la cordata (Generali, Ras, Fondiaria-Sai, Lamaro) per la quale sta predisponendo uno dei progetti che concorrono alla ridefinizione dell’area Fiera.

§ Come ripensare l’area della Fiera per il futuro di Milano?

«Quello della Fiera non è un progetto locale: mette Milano di fronte a una competizione globale nel campo dell’architettura. Per questo è importante, per questo non bisogna sviluppare una sola grande idea, ma una pluralità di funzioni. L’area dev’esser specchio della cultura che rappresenta, che è complessa. Bisogna costruire residenze, spazi pubblici aperti, luoghi per la cultura».

§ Ma si può costruire dell’architettura moderna in centro città?

«Le vecchie città hanno necessità di nuova creatività proprio in centro e non in periferia. La città non deve diventare un museo. Il centro resterà sempre il luogo più attrattivo, ma bisogna che le periferie vengano integrate. Per far questo bisogna che tutti i livelli culturali, e non solo quelli manageriali, siano impegnati nella ridefinizione strategica della città metropolitana».

§ Bisogna realizzare anche un Central Park, come chiede il sindaco?

«Milano è densa. Se si crea un parco pubblico ne beneficia tutta la città. Che darà un magnete e migliorerà la sua qualità naturale. Certo, bisogna pensare a un parco del XXI secolo e non a uno del Novecento. Quindi non bisogna solo tracciare delle linee bidimensionali al suolo, ma pensare alla creazione di un luogo culturale».

§ Lei a New York ha uno studio che guarda l’area di Ground Zero. E per la ricostruzione di quest’area ha messo a punto il «Master-plan della Riconciliazione». Ce lo descrive?

«E’ composto dal Parco della memoria, da piazza 11 settembre e da tre torri in ferro e vetro, la più alta delle quali si chiamerà Freedom tower. Per ora stiamo ripulendo il terreno e si dovrà ancora abbattere un grattacielo che dà su Ground Zero perché compromesso. Poi partirà la costruzione vera e propria: ci vorranno dieci anni».

§ Come dispone, su quest’area, i grattacieli e il parco?

«Ho studiato la posizione in cui si trovava il sole al primo impatto dell’aereo. Poi quella nella quale si trovava quando è caduta la seconda torre. Ho tracciato per terra i due assi creando una sorta di meridiana. Dove si incontrano, ho fatto nascere piazza 11 settembre, il luogo della memoria».

§ Terrà una rovina delle torri cadute?

«Sì, un lungo muro delle fondazioni. Lo lascerò in piedi e farà da quinta di chiusura al parco urbano che partirà dalla Piazza 11 settembre. Sarà il luogo della memoria collettiva, ma non un Muro del pianto! Al contrario dovrà far capire che da qui rinasce la vita. Da questo muro si innalza il nuovo edificio. Sarà un luogo dove si vive ogni giorno e da dove nasce il futuro».

§ Quanto alla Freedom tower…

«Con i suoi 532,8 metri (1776 piedi, cifra che ricorda l’anno della Costituzione americana), sarà l’edificio più alto del mondo. Ma sarà una torre ecologica: useremo anche ventilazione naturale e sarà occupata da uffici sino a circa 400 metri. Più in alto ci saranno delle serre con dei giardini d’inverno, spazi per vedere dall’alto la città e anche del vuoto. In cima partirà l’antennone».

§ Per Milano,invece, niente grattacielo?

«È anacronistico pensare a un grattacielo. Per l’area Fiera ci vuole sensibilità, rispetto per il passato e bisogna introdurre tante funzioni, residenze, parco, spazi pubblici aperti, luoghi di intrattenimento. Solo così si rispetta la complessità di Milano».

§ Non teme altri possibili attacchi aerei ai grattacieli?

«Non dobbiamo cambiare il volto di New York o delle città per il terrorismo. Io dico che possiamo ancora costruire in altezza, e senza paura».

§ Alla Triennale, davanti a più di 500 persone, ha parlato di «cose invisibili». Quali sono?

«La cosa più invisibile è la città, perché non se ne vede l’anima. A Milano come a New York. Ma se c’è una identità di Milano che puoi cogliere camminando tra le vie è un’atmosfera di modernità».

Grattacieli sulla Fiera - L’ipotesi si allontana

di Pierluigi Panza

Il Corriere della sera del 07.03.04 - Dicerto si vedrà la nascita di un grande parco pubblico, ma difficilmente quella di un grattacielo. Offerte da 500 milioni e costruzioni per 300 mila metri quadrati.

La mezzanotte del 31 marzo, data ultima per presentare i progetti e l’offerta di acquisto da parte delle cordate che partecipano al concorso per la risistemazione dell’area Fiera, si avvicina. Ufficialmente i gruppi in corsa sono otto; ma alla fine solo cinque o sei consegneranno gli elaborati. Ma se si avvicina la scadenza del concorso, pare allontanarsi uno dei due sogni coltivati dal sindaco Albertini. Dalle indiscrezioni trapelate, infatti, di certo si vedrà la nascita di un grande Parco pubblico per la Milano del XXI secolo, ma difficilmente si vedrà sorgere un alto grattacielo. Proviamo a spiegarne i motivi. Oltre al progetto architettonico, le cordate devono presentare alla Fiera l’offerta di pagamento per il terreno. Il prezzo base è di 310 milioni di euro, ma le offerte potrebbe aggirarsi intorno ai 500. Il meccanismo di selezione è questo: dopo il 31 marzo i vertici della Fiera valuteranno i progetti architettonici. Ne sceglieranno alcuni che faranno parte di una short-list. Quindi apriranno le buste con l’offerta economica relativa ai progetti della short-list: chi avrà presentato l’offerta economica più alta sarà il vincitore (si saprà il 31 luglio). «Un modo - ha dichiarato l'amministratore di Sistema Fiera, Claudio Artusi - per tutelare prima la qualità architettonica e poi l’offerta».

Da ciò si comprende tuttavia la difficoltà di veder nascere un grattacielo. Gli investitori di ciascuna cordata, per vincere, devono dunque presentare alla Fiera un buon progetto e la più alta offerta economica di acquisto del terreno, quindi sopportare i costi per la costruzione delle case-uffici e del parco. Ma poi, devono rientrare del denaro speso. E proprio per questo motivo la costruzione di un grattacielo potrebbe non risultare economica.

Le cordate sono di due tipi: alcune formate da investitori che resterebbero proprietari degli edifici per una ventina d’anni per porli in affitto. In questo caso non c’è vantaggio economico nel realizzare un grattacielo, perché ha costi di manutenzione molto più alti di quelli di un palazzo di venti piani. E andrebbero sopportati per decenni dai proprietari. Ma anche per le cordate formate da società che rivenderanno subito gli appartamenti potrebbe non esserci vantaggio per i grattacieli. Il condominio tradizionale, infatti, è più vendibile e assicura ai compratori minore spese condominiali. C’è un solo caso, forse, in cui vedremmo davvero un super-grattacielo. Se uno degli investitori avesse trovato un accordo con una grande impresa che vuole portar lì il suo quartier generale di uffici, i progettisti potrebbero realizzare un grattacielo ad-hoc.

Di certo, non vedremo nemmeno un quartiere di abitazioni basse. Infatti, dei 120 mila metri destinati alle costruzioni, almeno il 30 per cento sarà superficie di drenaggio e sul restante 70 per cento ci dovranno essere anche i parcheggi della Fiera Portello (non troppo interrabili per via della falda), nuove strade di attraversamento con annesso verde, i palazzi con magari anche infrastrutture culturali o d’intrattenimento. Quindi, se la soluzione del rebus è giusta, l'ipotesi più attendibile è che siano realizzati circa 300 mila metri quadrati di abitazioni su circa il 35 per cento dei 120 mila metri, con diversi palazzi a torre alti al massimo una ventina di piani.

Sfida tra architetti per ridisegnare la Fiera

di Pierluigi Panza

il Corriere della sera del 18.02.04 - Grandiprogetti per la Fiera. In corsa per ridisegnare l’area dell’ex campionaria, con altri sette cordate, c’è anche Daniel Libeskind, l’architetto incaricato della ricostruzione di Ground Zero. Lavori in anticipo per il polo esterno. Otto i progettisti pronti a riqualificare la zona

Entra nel vivo la gara per selezionare chi, tra le otto cordate di progettisti-imprenditori, si aggiudicherà il concorso per la riqualificazione del Polo interno della Fiera, uno degli appalti più prestigiosi degli ultimi anni. La gara per questo progetto urbanistico prevede la presentazione dei progetti entro il 31 marzo e l'aggiudicazione dell’opera entro il 31 luglio. L’intervento, che verrà effettuato su un’area di 250.000 metri quadrati, di cui il 50% sarà destinato a verde pubblico, richiederà un investimento di circa 1,5 miliardi di euro.

Ieri una delle otto cordate è uscita allo «scoperto»: si tratta di Citylife. Un progetto per Milano, cordata formata da Generali properties, Ras, Progestim (Fondiaria-Sai) e Lamaro appalti. La cordata è assistita dagli advisor Mediobanca, Deloitte e Bovis lend lease. «È il più grande progetto urbanistico e insieme il più rilevante investimento della Milano contemporanea. Ma è al tempo stesso un passo di strategica importanza per lo sviluppo di Milano», ha spiegato Ugo Debernardi, vice direttore di Generali properties. A firmare il progetto sono gli architetti Arata Isozaki, Daniel Libeskind, Zaha Hadid e Pier Paolo Maggiora. L'architetto di origine polacca Libeskind, incaricato del progetto per la ricostruzione dell’area di Ground Zero, ha anche vissuto a Milano tra il 1987 e l’88.

E le altre cordate? Tutte sono qualificate e comprendono progettisti che hanno già trasformato il volto di numerose città.

AM-Development BV è una cordata olandese: si affida al «guru» delle nuove star dell'architettura, Rem Koolhaas (appoggiato dall’italiano Stefano Boeri).

La cordata italiana Risanamento con IPI, FiatEgineering, Astaldi, Chelsfield-PLC, Foster& Partners, ha come progettista lo stesso sir Norman Foster, l'architetto della Re- Swiss Tower di Londra, del nuovo Reichstag di Berlino, che vanta il più grande studio d'architettura del mondo.

Cordata italo-americana è « Aprile» con Hines Italia, Aedes, Galotti e Techint. Il progettista di riferimento è Lee Polisano della KPF- Kohn Pederson Fox (con appoggio italiano in Renato Sarno) con il gruppo ARUP. Polisano sta costruendo a Shanghai il più alto grattacielo del mondo. A Milano punta sul parco, facendosi appoggiare dal paesaggista Peter Latz: «Hyde Park o il Central Park non sono paragonabili, per dimensioni, all'area della Fiera - afferma riprendendo un tema caro al sindaco Albertini. Ma quello che importa è l'articolazione dell'area con il il resto della città e l’idea che questo spazio resti un luogo d'incontro, come è stato con la Fiera».

C'è poi la cordata italianissima (e anche milanese) della Pirelli Real Estate, con Vianini Lavori, Roma Ovest Costruzioni, Unicredit Real Estate, che si affida al nostro progettista di punta: Renzo Piano. Il quale, dunque, potrebbe sbarcare a Milano non con la risistemazione di Ponte Lambro ma con la ben più qualificante area fiera.

La cordata ING Real Estate (olandese) lavora con Pizzarotti e ha come progettisti un parterre di grandi firme: Mario Cucinella, Richard Rogers, Jean Nouvel, Jo Coenen, Erick Van Egeraat.

Il progetto della cordata AIG/Lincoln IMMSI è firmato dall'inglese David Chipperfield che, a Milano, dovrebbe realizzare la Cittadella delle culture all'Ansaldo. Con lui ci sono di Dominique Perrault, Aukett-Garretti e Land e altri.

L’ottava cordata è la Greenway-Parco delle Esposizioni, con Borio Mangiarotti e un lungo elenco di aziende. Vasto il carnet dei progettisti: Jean Pierre Buffi, Raffaello Cecchi, Antonio Citterio, Michel Desvigne, Pier Luigi Nicolin, Anna Giorgi, Ermanno Ranzani, Italo Rota.

Secondo una ricerca svolta da Eurisko su un campione di 1.300 persone, i milanesi si aspettano dalla riqualificazione «un’area che si integri senza soluzione di continuità con le abitazioni e lo stile sobrio del quartiere». Ma anche «un’area in grado di rappresentare l'orgoglio e la genialità creativa del popolo milanese, che oggi si ritiene poco rappresentato dall'immagine urbanistica e di arredo della città». L’81% dei milanesi valuta positivamente l'iniziativa di riqualificazione di Fiera. P.Pan.

Grattacieli ecologici nella Milano di domani - Intervista a Norman Foster

di Luigi Pastore

La Repubblica del 12.12.03

L'architetto in gara per il gruppo Zunino: "Per il recinto fieristico bisogna partire da un grande spazio pubblico aperto". Qui ci sono due esempi come la Torre Velasca e il Pirelli. Per il futuro penso ad un mix di uffici e abitazioni. "Costruire in altezza non è l'unica soluzione, ma la migliore per far crescere intorno sempre più verde e migliorare la qualità della vita". "Non voglio anticipare nulla, ma sul Portello verrà fuori qualcosa di fantastico. E Montecity-Rogoredo sarà un nuovo cuore della città".

«Montecity-Rogoredo è il futuro, la città del futuro a quattro chilometri a mezzo dal centro storico. La Fiera è una sfida bellissima, che si concluderà con qualcosa di fantastico». Sir Norman Foster, baronetto del Regno Unito, è uno dei fuoriclasse in gara per creare un nuovo pezzo di Milano nel vecchio recinto della Fiera. Ma tante altre cose lo riguardano, a partire dalla realizzazione di una cittadella vera e propria nell'area dismessa di Montecity-Rogoredo, sulla quale il gruppo Zunino ha realizzato un investimento imponente. Foster ieri era a Milano per un confronto a Palazzo Marino con altri grandi architetti sul tema dei grattacieli, che per lui «è come andare a nozze». Ne ha già realizzati alcuni nel mondo, l'ultimo in ordine di tempo è l'innovativa torre nel cuore di Londra, la "Swiss Re": «I grattacieli sono il futuro dell'architettura, soprattutto i grattacieli ecologici, con un mix tra abitazioni, uffici e servizi», spiega in una lunga lezione su come costruire in verticale. Una lezione davanti ad un interessatissimo sindaco Albertini.

§ Foster, la entusiasma parlare di grattacieli?

«Costruire in altezza è entusiasmante, a patto che la spinta verticale parta dal luogo in cui l'edificio nasce e si sviluppa. È fondamentale l'edificio e il contesto in cui si affaccia, cioè gli altri edifici e le vie circostanti. Lo abbiamo già sperimentato altrove, dove in alcuni casi il grattacielo comunica con altri palazzi attraverso vie interne disegnate apposta. Il grattacielo non dev'essere monofunzionale, ma ospitare al tempo stesso abitazioni e uffici. Poi, c'è il tema del combustibile pulito...».

§ Dica.

«Si possono utilizzare nuove forme di energia, ma dev'essere un edificio molto sensibile al suo contesto. I grattacieli ecologici sono in ogni caso la soluzione del futuro, per inquinare di meno e risparmiare di più. Ma dopo l'11 settembre occorre pensare anche ad altre risorse per le torri, ad esempio a più spazi e vie di fuga che tranquillizzino chi ci vive o ci lavora. E poi c'è il verde pensile, un'altra soluzione per migliorare la qualità della vita. Più in generale, bisogna trovare una soluzione per recuperare sempre maggiori spazi verdi, costruendo in altezza, per accrescere la vivibilità delle nostre città».

§ È quanto molti, a partire dal sindaco Albertini, auspicano anche per il futuro di Milano.

«Milano ha già due esempi emblematici di grattacieli degli anni '50 e '60, la Torre Velasca e il Pirelli, cui sono anche affettivamente legato, perché a quell'epoca ero giovanissimo e studente. Per il futuro si vedrà. Posso dire che su Montecity-Rogoredo sarà difficile andare troppo in altezza, c'è vicino l'aeroporto di Linate».

§ E sulla vecchia Fiera?

«C'è tempo sino a marzo per presentare il progetto, non vorrei anticipare nulla. Stiamo lavorando, adesso sono arrivati altri colleghi importanti come Gehry».

§ Però, le aspettative sono fortissime.

«Non c'è alcun dubbio che le aspettative siano fortissime. Per la città è un'occasione grandissima di accrescere la propria qualità e densità abitativa. Lo sapete che a me le torri piacciono, anche se non sono l'unico modo di costruire, ma bisogna vedere il discorso nel suo insieme, dedicando molta attenzione al bisogno di spazio pubblico aperto. Le prossime scelte di design dovranno cercare di mantenere questo equilibrio tra edifici e spazio aperto. Ecco, questo è il vero nodo intorno al quale occorre sviluppare tutto il resto del progetto».

§ C'è chi sogna un grande parco pubblico mai visto a Milano.

«Non le rispondo cosa proporremo, ma le dico che sarà in ogni caso qualcosa di fantastico. L'architetto è come un equilibrista, deve mettere pesi e contrappesi. Lo stesso discorso vale per il rapporto con il traffico e le auto in centro. Non possiamo fare a meno delle auto, fanno parte della nostra vita, ma bisogna mettere dei contrappesi».

§ Ad esempio?

Si è concluso da qualche giorno il concorso per l' area centrale della Fiera di Milano, che verrà abbandonata alla data del compimento della nuova sede in costruzione nel Nordovest di Milano. Si tratta di uno degli episodi più tristemente significativi della bassa condizione in cui vive la cultura architettonica milanese, italiana e, in parte, anche internazionale. Il concorso è stato vinto dal gruppo finanziario-assicurativo formato da Generali, Sai e Ras, tra sei concorrenti, dai quali ne erano stati scelti tre. Scrivo del gruppo finanziario vincitore perché i nomi e i progetti degli architetti chiamati dai vari gruppi a collaborare non hanno contato quasi nulla. Ha contato solo l' offerta economica e l' affidabilità finanziaria con cui il vincitore ha superato gli altri concorrenti.

Il progetto peraltro era nato sin dall' inizio con i peggiori auspici. Densità eccessive, scarsi spazi verdi, ampia apertura alla monetizzazione degli standard del piano, tutti elementi contro i quali erano mosse osservazioni e ricorsi sinora rimasti inascoltati. I progettisti, buoni o meno buoni, scelti tra i nomi più alla moda e sovente assai lontani dalle specifiche questioni locali, sono stati comunque utilizzati come specchietti per le allodole così come i consulenti esterni (sociologi, economisti, storici, trasportisti) il cui parere è rimasto a livello del tutto accademico. La commissione giudicatrice di un concorso dall' evidente importanza urbana era formata solo dai componenti del consiglio di amministrazione dell' ente banditore. Il disprezzo per la cultura architettonica non potrebbe essere più ampio. Naturalmente sul piano giuridico l' Ente Fiera è un privato che si comporta come meglio crede. Toccherebbe piuttosto all' autorità comunale dare il giudizio sulle qualità e opportunità pubbliche del progetto vincitore: ma questo è impossibile che avvenga con la necessaria distanza critica essendo il Comune di Milano coinvolto politicamente ed economicamente nell' affare sin dall' inizio. Ma vi sono due altre questioni. La prima è la morfologia del progetto vincitore: il progetto vincitore sembra la rappresentazione dell' «horror-show» omologato dalla opinione corrente dei gusti di massa. Che si trattasse di grattacieli nessuno aveva dubbi, date le barzellette su Hyde Park (su cui peraltro non affacciano grattacieli) e il provincialismo della cultura milanese che vede ancora, dopo un secolo e mezzo dal proprio apparire, negli edifici alti un segno di modernità e il simbolo di orgoglio cittadino, anziché una qualunque delle possibili soluzioni tipologiche dell' abitare.

Le seconda questione è quella del valore puramente mediatico dei protagonisti vincitori apparenti, evidente omaggio all' indifferenza globalista dei contesti culturali. Non voglio certamente fare appello a dazi culturali di stampo nazionalista, ma perché le équipes scelte sono quasi tutte di architetti non italiani? La risposta potrebbe apparentemente essere semplice e cioè che architetti buoni in Italia ce ne sono ben pochi; ma forse le cose sono più complicate di così. La questione della prevalenza degli stranieri (alcuni fra loro, intendiamoci, sono ottimi architetti) nei concorsi italiani degli ultimi anni è impressionante. A Milano vi sono casi clamorosi come quello del mediocre progetto olandese scelto per la nuova biblioteca o quello, non certo brillante, scelto per la sede della Regione Lombardia, mentre per la stazione dell' alta velocità di Firenze è stato scelto l' ottimo Foster e per Napoli il discutibile progetto della simpatica Zaha Hadid: una «vera artista». E l' elenco potrebbe continuare a lungo. I concorsi internazionali fanno parte della storia della modernità anche se sovente essa ne è uscita sconfitta. Ma in quegli anni almeno i concorsi internazionali erano un momento significativo dello stato della cultura architettonica e non solo un confronto professionale o di mercato urbano come oggi. Va confermato subito che le partecipazioni internazionali sono un fatto assolutamente positivo anche se la reciprocità fra le varie comunità europee non è così frequente e negli Stati Uniti i concorsi pubblici sono rarissimi. Le cause del fenomeno dei concorsi italiani sono più complicate e nello stesso tempo più modeste. Vi è naturalmente una componente di superficiale snobismo che deriva però, in generale, dalla scarsa competenza specifica di chi sceglie. Un fattore che io spero minore (anche se presente) è anche la discriminazione politica. Ciò che conta veramente è che la scelta della «vedette» straniera permette di non prender partito nel dibattito intorno alla cultura architettonica o, meglio, permette di mettersi al riparo dalle critiche locali e di fare alla fine una scelta architettonica il più possibile astratta e alleata con le mode estetiche del momento nella speranza del consenso di massa. Naturalmente gli architetti stranieri conoscono bene questa situazione a loro favorevole e cercano di utilizzarla, anche se questo li spinge talvolta a considerare, con eccessiva disinvoltura, l' Italia un Paese coloniale. La cultura architettonica italiana ha certamente molti vizi, ma non sono pochi i talenti tra le giovani generazioni in grado di assumere le responsabilità di una tradizione con la coscienza di tutte le sue contraddizioni: almeno a questo dovrebbero servire i grandi concorsi. Vittorio Gregotti Tre giganti, un parco e un museo Tre grattacieli, abitazioni, un parco e il Museo del Design: tutto questo troverà posto nell' area dell' ex Fiera Campionaria di Milano. Il cantiere prenderà il via solo nel 2006, dopo che l' intera area sarà stata «liberata». La cordata CityLife si è aggiudicata la gara con un' offerta di 523 milioni di euro. L' investimento globale previsto sarà di oltre un miliardo e mezzo di euro. Il cantiere avrà un' ampiezza di 255 mila metri quadrati; l' area potrà accogliere 15 mila persone. Arata Isozaki, Daniel Libeskind, Zaha Hadid, Pier Paolo Maggiora sono i progettisti dei tre grattacieli: la «vela» (170 metri) è firmata da Libeskind, il grattacielo «attorcigliato» (185 metri) da Zaha Hadid e quello «modulare» (215 metri) da Isozaki

È stato premiato il peggiore. Dei progetti finalisti è stato scelto il più brutto. Nell´area dell´ex-Fiera Campionaria sorgeranno tre grattacieli uno più assurdo dell´altro; tutti viziati da un formalismo esasperato, ossia da una configurazione volutamente bizzarra e gratuita che non risponde a nessun criterio di funzionalità, né di logica costruttiva, né di economia edilizia.

presenta come una sottile lama rettangolare, un imponente prisma in cristallo, superbo dei suoi 200 metri di altezza. Ma perché appoggiarli contro quelle ridicole stecche inclinate, come se non fosse capace di stare in piedi da solo, sorretto dalla sua ben calcolata struttura interna? Stecche ridicole, che sembrano voler contrastare la spinta del vento ma che, al primo soffio di brezza, si spezzerebbero di schianto.

Degli altri due grattacieli quello più spettacolare si presenta come una enorme vela gonfia, una gigantesca lastra curva in procinto di rivolgersi con un inchino verso la città. Il costo di questa acrobatica struttura, contraria alle sane regole della scienza statica, sarà proibitivo; e la funzionalità, a causa del suo eccentrico profilo, sarà problematica se non disastrosa, come dimostra la torre degli ascensori, costretta a sbucare come una gobba sulla lastra incurvata.

Infine il terzo grattacielo, dall´aspetto più frivolo e stravagante, ricorda una flessuosa ballerina che si avvita sulle caviglie in un gesto di provocante civetteria. Anche qui è meglio non domandarsi quali difficoltà strutturali e quanti costi aggiunti si dovranno superare, non solo per tenere in piedi l´edificio ma anche per garantirne la stabilità sotto la pressione del vento, che ? come si sa - è il vero problema di tutti i grattacieli.

Tutti insieme i tre grattacieli vincitori, privi fra di loro di qualsiasi rapporto (visivo formale compositivo) sembrano tre giganti impazziti che conducono una danza scomposta e scoordinata.

Se sono da criticare i quattro famosi architetti che hanno firmato il progetto vincitore, lo è ancora di più la giuria, che li ha premiati; ed ha regalato a Milano un grottesco complesso edilizio, capace di snaturare per sempre la sobria misurata e seria edilizia della nostra città. Non si è accorta la giuria che gli altri due concorrenti si sono dimostrati ben più seri ed aderenti alla realtà di quanto non sia stata la squadra dei vincitori? Tra loro si distingue il progetto, serio e rigoroso, di Renzo Piano, che innalza una guglia sottile, unica ed isolata, sopra una successione geometrica di edifici bassi, e crea un efficace contrasto tra un corpo verticale, aguzzo e pungente, ed una estensione orizzontale, piana e regolare.

E la stampa cittadina? Non una voce di protesta; non un cenno di dubbio, di perplessità, di dissenso. Fa eccezione il garbato e civilissimo articolo di Antonio Monestiroli, apparso ieri su Repubblica. Tutte le altre recensioni ed i commenti ufficiali si adeguano servilmente agli elogi di circostanza pronunciati dal sindaco, dal presidente della Regione, e dalle pubbliche autorità. Da un lato ascoltiamo con irritazione le lodi retoriche rivolte ai tre grattacieli, e gli elogi che ne esaltano i valori simbolici (Milano in ascesa economica) e le dimensioni straordinarie (Milano all´avanguardia tecnica); dall´altro vediamo con amarezza il Duomo, rimpicciolito e schiacciato, mentre la statua d´oro, che lo sormonta e che ha protetto per secoli la nostra città, finirà per essere occultata ed emarginata. La canzone .. "oh mia bella Madonina ...", sarà costretta ? con rassegnazione ? a diventare .... "oh mia pòera Madonina .....".

COMUNICATO STAMPA

In data 2 aprile 2004 alcuni cittadini residenti in vie immediatamente adiacenti al recinto storico della Fiera di Milano (via Gattamelata, via Eschilo, via Silva) hanno presentato al TAR Lombardia ricorso contro il Decreto del Presidente della Giunta Regionale della Lombardia n. 405 del 19 gennaio 2004 (pubblicato sul BURL n. 6 del 2.2.2004), con il quale viene approvata la variante al PRG che consentirebbe di realizzare sull’area del vecchio recinto quasi 900.000 metri cubi di case e uffici, con un indice quasi doppio di tutti gli altri piani di trasformazione urbanistica sinora approvati dal Comune di Milano.

I motivi del ricorso possono essere così sintetizzati:

- l’integrazione all’Accordo di Programma del 1994 sulla riduzione del polo fieristico interno e la realizzazione del polo fieristico esterno che introduce la variante al PRG non è giustificata da alcuna finalità di interesse pubblico, poiché le nuove destinazioni dell’area dismessa da Fiera sono esclusivamente private (residenza, terziario, produttivo); l’unica motivazione della variante è consentire al successivo PII di intervenire su un’area già destinata ad uso privato, senza dover quindi recuperare gli spazi di uso pubblico soppressi;

- il PII previsto come strumento attuativo dalla variante non è giustificato da alcuna finalità di interesse pubblico, per i medesimi motivi esposti sopra; esso, intervenendo su un’area già resa ad uso privato dalla variante, non dovrebbe nemmeno sottostare all’obbligo dell’art. 6 comma 3 della L.R. 9/99 di assicurare contestualmente il recupero delle dotazioni di uso pubblico che verrebbero meno;

- La riduzione da 314.000 mq a 255.000 mq dell’area dismessa dagli usi fieristici (ed il conseguente aumento da 130.000 a 189.000 dell’area mantenuta ad uso fieristico) non è giustificato da alcun interesse pubblico, ma solo da interessi aziendali di Fiera Milano ad utilizzare alcuni edifici esistenti. Tale scelta impedisce però la prosecuzione di viale Scarampo entro l’ex recinto fieristico e il riassetto dell’area di trasformazione secondo tessuti urbani coerenti con quelli generati dall’asse di corso Sempione; come da moltissimi anni indicato dalla più consapevole urbanistica milanese (Bottoni, BBPR, de Finetti, Gardella, Pagano, Terragni);

- il Comune non ha effettuato alcuna valutazione critica delle richieste di Fiera in relazione alle esigenze di riassetto della città; infatti Fiera ha comunicato agli aspiranti acquirenti superfici, indici e strumenti attuativi già in data 4 aprile 2003 (Sole 24 ore, Financial Time, Handelsblatt), prima che la Giunta comunale li riproponesse pedissequamente nella propria delibera del 15 aprile successivo;

- l’indice Ut=1,15 mq/mq è quasi doppio di quello adottato in tutti gli altri PII e PRU sinora approvati a Milano (Ut=0,65 mq/mq) e con la cessione del 50% dell’area ad uso pubblico si produce un indice fondiario altissimo (Uf= 2,3 mq/mq = 7 mc/mq), molto superiore a quello massimo prescritto per l’attigua area mantenuta a Fiera (Uf=1,5 mq/mq= 4,5 mc/mq); se la cessione ad uso pubblico fosse più del 50%, tale Uf sarebbe ancora più alto, in contrasto con l’art. 7 del DM 1444/68; un indice così elevato è giustificato solo dagli interessi economici di Fondazione Fiera rivolti unicamente alla massima valorizzazione immobiliare dell’area;

- la cessione minima del 50% dell’area ad uso pubblico non è giustificata da alcun ragionamento urbanistico, ma solo da una sorta di spartizione mezzadrile tra pubblico e privato; se le aree ad uso pubblico prescritte dalla variante (44 mq/ab) fossero cedute interamente occorrerebbero 258.000 mq, superiori all’intera area oggetto di variante; anche se si cedessero 26,5 mq/ab, occorrerebbero 155.000 mq, superiori al 50% minimo prescritto (127.500 mq), ma con Uf= 8,8 mc/mq > 7 mc/mq massimi ammessi dal DM 1444/68;

- la variante non prescrive limiti massimi di densità fondiaria, di altezza e distanza degli edifici, di destinazione funzionale, in contrasto con molti disposti del DM 1444/68; essa è indirizzata unicamente all’assoluta libertà di massima valorizzazione immobiliare da parte dei futuri acquirenti dell’area; l’esito urbanistico sarà di circa 60 edifici alti non meno di 36 metri, ma ravvicinatissimi o più probabilmente edifici meno ravvicinati, ma alti da 72 metri (30 edifici) a 144 metri (15 edifici);

- se, invece, si imponessero i limiti di altezza e distanza degli edifici prescritti dagli artt. 8 e 9 del DM 1444/68 l’indice Ut effettivamente realizzabile varierebbe, a seconda degli schemi distributivi adottati, tra 0,52 e 0,84 mq/mq; l’indice Ut=1,15 mq/mq richiede edifici altri da 36 ad oltre 72 metri, cioè dal doppio ad oltre il quadruplo di quelli esistenti e circostanti, e ciò in contrasto con gli artt. 7 e 8 del DM 1444/68 e peggiorando le condizioni di congestione urbana e vivibilità della zona.




Come base della discussione del seminario è stato proposto il documento "Costruire la grande Milano”, che reca la firma di un gruppo di lavoro costituito da esperti e da funzionari del Comune di Milano.

Il documento offre diversi livelli di lettura: alcuni con più specifico riferimento alla situazione milanese, e uno (scelto dagli organizzatori come privilegiato per il dibattito), concernente “la ricerca per la pianificazione di una maggiore efficacia”.

È attorno a questo argomento che sviluppo le mie osservazioni, le quali mirano ad argomentare una mia convinzione radicata: che, cioè, la soluzione proposta dal documento milanese, oltre a essere illusoria nella sua pretesa di rendere più efficace la pianificazione, è pericolosa per qualunque intenzione di corretto ed efficace governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali

Nel seminario di Roma il documento è stato illustrato da Luigi Mazza, che se ne è dichiarato l’autore: cosa che era nota a chiunque lo conosca, e conosca le sue idee. In una discussione presieduta da Giorgio Piccinato ne hanno ragionato, oltre a me, Maurizio Marcelloni, Alberto Clementi, Michele Talia, Elio Piroddi, Carlo Donolo, Maurizio Calvaresi, Luigi Scano. Appena ne disporrò, pubblicherò in questo sito i materiali della discussione. Con Luigi Mazza siamo d’accordo nel proseguire la discussione; ne inserirò i materiali in questo sito.

Una valutazione positivadel passato più recente

Il documento parte da una critica intelligente e serrata, e del tutto condivisibile, della pianificazione tradizionale; parte anche da una valutazione positiva delle modifiche legislative introdotte nel corso degli anni 80 e 90. Di queste interpreta correttamente – a mio parere - il significato, ma gli attribuisce – e su questo non concordo affatto - un valore positivo:

I provvedimenti più recenti hanno segnato un significativo mutamento della legislazione urbanistica rivolto a facilitare i processi di variante del piano regolatore generale, ad introdurre un ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale, e a sviluppare forme consensuali di decisione. (p.3).

Sulla base di una puntuale analisi dei nuovi strumenti normativi introdotti a partire dal “decreto Nicolazzi” del 1982, gli autori affermano, con un’incontestabile valutazione complessiva, che (i corsivi sono miei)

i nuovi istituti introdotti dal legislatore negli anni ‘90 costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce nell’accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione dell’intervento di trasformazione urbana (p.23).

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli. Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla.

Certezze e incertezzenel piano regolatore generale

Per gli autori del documento per la Grande Milano, invece, le tendenze derogatorie e delegificatorie che si sono manifestate in quegli anni hanno la loro legittimazione nella scarsa rispondenza del piano regolatore generale rispetto alle esigenze degli operatori immobiliari. Il documento riprende e sviluppa con intelligenza le critiche alla vigente pianificazione urbanistica che sono state sviluppate negli ultimi decenni dalla cultura urbanistica italiana. Sviluppa in particolare un punto, che mi sembra esprimere con compiutezza il punto di vista dell’operatore immobiliare. Mi riferisco alla questione delle “certezze e incertezze” del piano regolatore.

Il documento osserva a questo proposito che il piano regolatore generale, se

produce due tipi di certezza: la certezza dei diritti esistenti, che il piano conferma, e la certezza dei diritti legati alle trasformazioni prescritte dal piano

produce anche .

due forme di incertezza, dovute alla possibile inadeguatezza delle norme nei confronti delle variabili aspettative del mercato e al possibile mutamento delle norme nel tempo. Inoltre, il processo di pianificazione aggiunge due altre forme di incertezza che riguardano il contenuto e il tempo delle decisioni. (p.29)

Su questo punto conviene soffermarsi, perché nella formazione della proposta degli autori gioca un ruolo essenziale. Secondo le categorie adoperate,

il riconoscimento degli usi esistenti costituisce la certezza dei diritti d’uso in atto e dei valori corrispondenti. La disposizione delle trasformazioni degli usi esistenti e la definizione di nuovi diritti d’uso è anch’essa una certezza — è una certezza giuridica perché il piano è una legge —, ma la prospezione dei nuovi valori legati ai nuovi diritti costituisce […] solo una certezza ipotetica. L’espressione suona come un bisticcio, ma cerca di esprimere il fatto che la prescrizione da parte del piano delle trasformazioni degli usi esistenti è in realtà una disposizione ipotetica o condizionale, in quanto la prescrizione di un nuovo uso del suolo equivale ad un’affermazione del tipo ‘se … allora’. Solo se la prescrizione del piano viene rispettata , allora i nuovi usi verranno posti in atto e si produrranno i nuovi valori (p.29)

Di fronte a questo sistema di certezze e incertezze del piano regolatore generale da parte degli operatori viene

una richiesta contraddittoria: da un lato si esprime la domanda di certezze che garantiscano gli investimenti, dall’altro la domanda di flessibilità per permettere di adeguare norme e programmi di investimento alle dinamiche del mercato.

In definitiva, secondo gli autori del documento, certezze e incertezze

presentano vantaggi e svantaggi, ma le certezze legate alle trasformazioni prescritte dal piano — indicate come certezze ipotetiche — si rivelano un inutile elemento di rigidità del sistema e, per introdurre elementi di flessibilità nel sistema, la loro scomparsa risulta necessaria.

Modello continentale e modello britannico

Il ragionamento di fondo del documento è sorretto da una valutazione più generale, che costituisce in qualche modo il punto d’avvio dell’intera argomentazione (e della proposta di cui essa costituisce l’abito). Esso ha la sua premessa in una valutazione, a mio parere corretta e condivisibile, delle differenze nelle pratiche e nelle culture della pianificazione presenti in Europa. Nel documento si osserva infatti che:

la rigidità di sistema non è una caratteristica specifica dell’urbanistica italiana ma di tutta l’urbanistica europea, ad eccezione di quella britannica. La coppia certezza/flessibilità assume caratteri molto diversi nella tradizione urbanistica continentale e in quella britannica. Il confronto tra piano regolatore e piano di struttura britannico permette di capire come il prezzo della flessibilità sia la discrezionalità amministrativa, e come la flessibilità incida sul rapporto tra piano e progetti, e quindi tra amministrazione e operatori, pubblici e privati. Nel modello continentale il rapporto tra piano e progetti è regolato dal controllo di conformità, mentre nel modello britannico prevale il controllo di prestazione. Nel modello continentale le norme preesistono al progetto e formalmente sono un vincolo-risorsa per l’investitore, nel modello britannico le norme sono, almeno in parte, il frutto di un rapporto negoziale tra l’amministrazione e l’investitore.

Nello svolgere il loro ragionamento agli autori non sfugge la ragione della differenza tra l’impostazione continentale e quella britannica. La “profonda diversità” tra i due sistemi è

dovuta soprattutto al fatto che nella tradizione britannica i diritti di trasformazione urbana sono dello Stato (p.5).

E la maggiore discrezionalità del modello britannico poggia proprio sulla circostanza

che i diritti di trasformazione degli usi del suolo sono di proprietà dello stato e ciò garantisce al modello la sua flessibilità; al contrario, la mancanza di discrezionalità che caratterizza il modello italiano e continentale è dovuta alla necessità di rispettare i diritti soggettivi di trasformazione degli usi del suolo e ciò determina le certezze formali offerte dal modello.

Non è certo una differenza da poco. La necessità di un forte e penetrante potere pubblico nel campo delle decisioni sull’uso del territorio, di una pervasiva capacità regolatrice dello Stato sull’esercizio dei diritti immobiliari, sta nel fatto che questi erano stati venduti ai proprietari privati: erano stati individualizzati. Basta rileggere le pagine di Hans Bernoulli per averne un’illustrazione convincente.

È evidente che, là dove lo Stato dispone dei “diritti di trasformazione urbana” (dove cioè il controllo delle trasformazioni è strutturale e patrimoniale) gli interessi collettivi non hanno bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi per essere soddisfatti. Ma è vero anche il contrario: dove i “diritti di trasformazione urbana” appartengono ai privati la tutela degli interessi collettivi ha bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi. Non è anche in questo senso, forse, che può esser letta tutta la discussione sull’urbanistica che si è sviluppata in Italia particolarmente dagli anni 60? Si può dire che il tentativo perseguito prima attraverso l’esproprio generalizzato delle aree di trasformazione urbanistica (Sullo), poi attraverso l’attribuzione allo stato dello jus aedificandi (Sandulli), esprimeva proprio l’intenzione di superare il controllo regolativi (sistema dell’Europa continentale) con il controllo strutturale (sistema britannico).

Gli autori del documento dimenticano la profonda differenza strutturale che è alla base dei due modelli. Essi, anzi, si compiacciono del fatto che

malgrado la profonda diversità dei due modelli […] si manifesta sempre più nelle pratiche una loro convergenza.

Questa, con ogni evidenza, non si esplica nello svilupparsi, nelle società del Continente, della tendenza ad attribuire allo Stato maggiori “diritti di trasformazione urbana”, ma in quella di diminuire, a favore degli interessi immobiliari privati, la capacità regolativa dello Stato anche là dove questo non dispone dei diritti di trasformazione urbana, o ne dispone in misura limitata.

È proprio alla convergenza “verso il basso” del modello continentale con quello insulare che “fanno riferimento le nuove procedure proposte per Milano”. Si propone la sintesi tra i due modelli e la costruzione di un terzo modello:

È possibile comporre parte delle qualità dei due modelli in un terzo modello caratterizzato da un relativo indebolimento dei caratteri di entrambi, ad esempio, un modello di tipo italiano che acquista flessibilità rinunciando alle certezze ipotetiche. Il modello proposto può essere definito ‘certo e flessibile’, poiché è rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo (p.4).

Il “modello milanese”

In altri termini, il “modello milanese” (conviene a questo punto chiamarlo così, anche per cogliere il sottile filo rosso che lega tutte le esperienze dei diversi “riti ambrosiani”) si propone di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato. Ma vediamo più da vicino come si articola la proposta del “modello milanese”.

Esso si basa sul presupposto (sulla scelta) che

in sistemi urbani densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore — ad esclusione di particolari salvaguardie —, ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi.

Quest’affermazione può sembrare abbastanza generica. Ma essa viene subito precisata e chiarita:

In questa prospettiva programmi e progetti costituiscono uno strumento per la verifica e non solo per la messa in opera delle strategie. In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto. In accordo con questa prospettiva, progetti e programmi di intervento proposti da soggetti pubblici e privati sono un contributo indispensabile alla verifica delle strategie dell’Amministrazione, e possono suggerire utili modificazioni o integrazioni delle politiche pubbliche in attuazione delle strategie nonché delle strategie stesse. Infine, anche progetti e programmi proposti indipendentemente dalle strategie sono utili, purché la proposta sia motivata da argomentazioni sufficienti a far modificare le strategie già adottate (p.47)

In sostanza, la pianificazione comunale si limiti a definire la disciplina delle parti della città già conformate, delle quali si intende conservare la stabilità dell’assetto raggiunto, e dei connessi valori immobiliari. Lì il piano sia certo e inequivocabile.

Dove viceversa si prevedono trasformazioni negli assetti (e nei valori immobiliari), lì la pianificazione sia generale, generica, “strategica”: indichi scenari, obiettivi, indirizzi. Si esprima non in un “piano” (in un documento impegnativo, specificamente riferito al territorio e opposable aux tiers), ma in un “documento”: un documento che peraltro non sia in alcun modo cogente, ma sia continuamente modificabile dai progetti e programmi presentati dagli operatori, purché adeguatamente motivati e argomentati.

In altri termini, la pianificazione dovrebbe essere “certa e flessibile” in modo profondamente asimmetrico. Nelle aree dove i valori immobiliare sono già consolidati, dovrebbe garantire (ai titolari dei valori immobiliari) la certezza della loro stabilità nel tempo. Nelle zone dove invece si possono prevedere trasformazioni, il pubblico sostituisca la certezza delle sue determinazioni con una flessibilità funzionale (verrebbe da dire asservita) agli interessi (alle “convenienze”) degli operatori privati. Quando questi ultimi si manifestassero e divenissero maturi, l’amministrazione dovrebbe tradurli in certezze.

Non mi sembra che ci sia molto da aggiungere. Del resto, il documento lo afferma già nelle prime pagine: il piano deve essere “rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo”.

Gli autori del documento si rendono conto di alcune delle più immediate conseguenze della loro proposta: Essi scrivono infatti:

È evidente che l’aumento di flessibilità e di discrezionalità comporta maggiori opportunità per gli interessi individuali di accesso al piano e al mercato urbano, ma il rischio che interessi individuali prevalgano sull’interesse generale non dipende dal tipo di strumenti tecnico-giuridici disponibili quanto dalla volontà e dalla capacità politica di resistere a pressioni che sono in contrasto con l’interesse generale.

È un’osservazione giusta, ma le conseguenze possono essere molto preoccupanti. Gli strumenti tecnico-giuridici sono un sistema di garanzie la cui ratio sta nell’assicurare che gli interessi collettivi, e quelli strutturalmente meno protetti, siano adeguatamente posti al riparo dagli errori e dalle debolezze degli uomini, e dalla partigianeria degli interessi specifici. Rinunciare a quelle garanzie, senza sostituirle con altre, significa trasformare la società in una giungla in cui solo i più forti sopravvivono.

A me sembra molto più convincente, e più sicuro, cambiare le regole anziché dire che regole non ce ne devono essere più. Da questo punto di vista, mi sembra molto più convincente un’altra “terza via” che si sta tentando di percorrere.

Un’altra “terza via”

Mi riferisco a quel tentativo, che abbiamo cominciato a sperimentare a Venezia negli anni 80, che è stato illustrato in alcuni convegni all’inizio degli anni 90, che è stato rilanciato dall’INU a partire dal 1994, che ha dato luogo (in forme più o meno chiare) alle leggi regionali della Toscana, della Liguria, del Lazio e dell’Emilia Romagna, e che è sostanzialmente ripreso nel testo unificato della Commissione Ambiente e Territorio della Camera di deputati.

È un tentativo che si basa anch’esso sulle critiche all’inefficacia della vigente strumentazione urbanistica, che tende anch’esso a introdurre elementi di flessibilità nella pianificazione e nel governo pubblico delle trasformazioni, che tende anch’esso a introdurre anche nella pianificazione italiana elementi di operatività, ma che – a differenza del “modello milanese” –conserva il primato del potere pubblico nel campo della trasformazioni urbane e territoriali.

Si tratta di quel modello basato sulla distinzione tra due tipi di “regole”:

1. quelle relative alle scelte strategiche e alle “condizioni alle trasformazioni” poste dalle esigenze di tutela delle qualità ambientali e storiche e di prevenzione dei rischi territoriali, da definire in relazione ai tempi lunghi e con prescrizioni “forti”, certe e non negoziabili;

2. e quelle relative alle concrete trasformazioni fisiche e funzionali, da decidere in relazione alle esigenze, alle opportunità, alle disponibilità di risorse e di attori, valutate nel breve-medio periodo e da definire con procedure caratterizzate da flessibilità e negoziabilità: nell’ambito, certamente (e questo è il punto fondamentale) di prestazioni preliminarmente definite.

Di questo modello fa parte integrante un istituto già introdotto di recente. Mi riferisco alle "società per progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana", di cui al comma 59 dell’articolo 17 della legge 127/1997. Si tratta, com’è noto, di strutture simili a quelle dell’esperienza francese, che consentono l’esplicarsi di un’attività imprenditoriale nel campo immobiliare. Beninteso, dove gli interventi da progettare e realizzare devono essere “in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti”, e dove si deve provvedere “alla preventiva acquisizione delle aree interessate”.

Per concludere, alcuni principi

Intendiamoci, il modello che si esprime nelle proposte dell’INU, nelle leggi urbanistiche che ho citato, nel testo unificato della Camera dei Deputati non è certo – nelle sue differenti formulazioni – limpido e privo di errori. Io stesso ne ho in più occasioni criticato questa o quell’altra applicazione. Nella sua stessa logica di fondo, non è certamente l’unico modello proponibile, e neppure il migliore.

In tutte le sue formulazioni esso peraltro resta fedele ad alcune prerogative, ad alcuni principi, che a me sembrano essenziali e che del resto appartengono alla tradizione e alla prassi europea. Proverò a enunciarli:

1. il primato del pubblico nella definizione e nel controllo delle scelte di trasformazione del territorio,

2. la definizione preliminare di regole non negoziabili relative alle tutele,

3. la capacità di misurare la coerenza dell’insieme delle trasformazioni,

4. la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte,

5. la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.

Mi sembra che è a questi principi che bisognerebbe riferirsi nell’esame di qualunque modello di nuova pianificazione, e che è sulla coerenza con essi che si dovrebbe misurarlo.

Così come si dovrebbe ragionare sugli effetti che rischia di avere, sul sistema economico nazionale, un approccio alle trasformazioni urbane che privilegi – come quello milanese - gli interessi degli operatori immobiliari, e che anzi assuma il loro punto di vista come centrale. Resto convinto che una delle radici dei mali del sistema economico italiano sia nell’incompiutezza della rivoluzione borghese, nel compromesso tra borghesia capitalistica e ancien régime che fu stipulato per costruire lo stato nazionale, sull’effetto deprimente che la facile percezione di rendite ha sempre avuto sul processo d’accumulazione e sulla conseguente tensione all’innovazione. Ma questo porterebbe ad aprire un altro discorso.

E’ del 10 dicembre 2003 il mio pezzo La rovina definitiva dello skyline milanese. Raccontavo del disastroso effetto della legge regionale cosiddetta “dei sottotetti”. Il 24 gennaio successivo “la Repubblica” ne pubblicava una versione ridotta sulle pagine di Milano. Si sono mossi i Verdi; il consigliere comunale Baruffi è intervenuto più volte; in eddyburg Mariacristina Gibelli ha fatto pubblicare (20 marzo) l’appello e la petizione del Gruppo consiliare dei Verdi; l’amministrazione comunale, vagamente spaventata dalle oscene apparecchiature edilizie più meno abbainiche e persino da interi piani (dotati a loro volta di sottotetto!) apparsi al di sopra dei cornicioni anche di bei palazzi Ottocento e Novecento, ha tentato di buttarla sull’estetica, impegnando per finta sé stessa e qualche collega solleticato in una fantomatica commissione a controllare meglio “d’ora in poi”, a bocciare un po’ di progetti; la Fondazione degli architetti milanesi (colleghi, questi, da me già segnalati per l’ambiguità del loro comportamento) ha dedicato una serata alla discussione del fenomeno (alla quale ho evitato di partecipare). Per dire come nomi emeriti, lì presenti, non abbiano capito nulla: Gae Aulenti, invece che contestare la legge e chiederne la cancellazione o la radicale trasformazione, l’ha buttata, anche lei, nell’estetica, nel mero disegno architettonico: i risultati non sarebbero buoni perché si farebbero abbaini di gusto ottocentesco e non coraggiosamente moderno! (riportato da “la Repubblica”). Grazie tante: i vecchi abbaini milanesi nei tetti di coppi, soprattutto in case popolari ora sparite o diventate irriconoscibili protagoniste di mercati a prezzi altissimi, appartenevano strettamente, armonicamente alla costruzione, erano semplici, contenuti elementi necessari a solai non destinati ad abitazione (come avveniva invece, ad esempio, in numerosi edifici torinesi nei quali, infatti, l’abbaino veniva realizzato secondo misure ben più ampie e sforava verso figure mansartiane francesi). Sarebbe dunque la mancanza di fantasia, di idea architettonica la responsabile? Ma via, non solo l’aggressione al cielo non si è fermata essendosi ridotto a mero, breve teatrino il pentimento del Comune, ma se ne vedono ogni giorno di tutti i colori, peggio di prima quanto a fantasia, perversa interpretazione della legge, liberismo anarcoide al puro fine dello sfruttamento massimo di superfici e volumi. Altro che gusto ottocentesco, cara Gae. A costo di ripetermi narro: tempietti accostati l’uno all’altro occupanti l’intero fronte, mezzi tuboni a schiera penetranti nella profondità del tetto opportunamente rialzato e reso ripido; nuovo semipiano finestrato oltre il vecchio cornicione e nuova base più alta di partenza del tetto a sua volta rimpinzato di “abbaini” per ottenere due piani d’abitazione in più, e altre creazioni di una nuova specie di “architettura”, quella pornografica, particolarmente adatta al compito di una città volta soprattutto al comprare e vendere.

Ed ecco, in merito al tema dei sottotetti, l’ultima notizia davvero sconcertante. E’ questa, in verità, la ragione che mi ha spinto a intervenire di nuovo.

Una strana “società”, denominata RIABITA 2004, sostenuta da alcune industrie edili medio-piccole, bandisce tramite la Rima Editrice un concorso nazionale “finalizzato all’individuazione e alla valorizzazione di recenti interventi di ristrutturazione relativi alla tipologia: mansarde e sottotetti”. Eccovi serviti, tutti voi dapprima fiduciosi in una naturale regressione del fenomeno. Sentite ancora: “La valutazione della giuria terrà conto del carattere innovativo dell’intervento (sottolineatura mia) sia sul piano tipologico sia del linguaggio…”. E la giuria? Stento a capacitarmene, ma i membri più autorevoli sono architetti e professori che conosco bene: Cesare Stevan, già preside per vent’anni alla Prima Facoltà di architettura del Politecnico, Amedeo Bellini, uno dei maggiori esperti nel campo della conservazione dei beni architettonici e del restauro, Antonio Piva, formatosi in riferimento alla cultura e alle opere di Franco Albini, Fabrizio Schiaffonati, già direttore del dipartimento “tecnologico” per la progettazione e produzione edilizie. Dunque? Come possiamo vincere a Milano le nostre battaglie per salvare i residui di funzionalità e bellezza che ancora qua e là presenta, se abbiamo nemici nelle nostre file?

Sull'argomento si veda anche Demolizioni e ricostruzioni, e Campagna tetti protetti - un appello per Milano

1. Con Paolo Berdini ho condiviso un’indimenticabile stagione di impegno politico, nel Pci prima, poi nel Pds, negli anni che vanno dalla primavera del 1985, quando fu sconfitta l’amministrazione di sinistra in Campidoglio, all’autunno del 1993, quando Francesco Rutelli fu eletto sindaco per la prima volta. La politica per noi coincideva con l’urbanistica. Non solo per noi. Da sempre, da Porta Pia in seguito, a Roma la politica è la politica urbanistica. Lo dimostra il fatto che in nessun’altra città ; come a Roma è stata prodotta tal e tanta letteratura in materia di urbanistica, soprattutto nel secondo dopoguerra.

In quegli otto anni fiorirono discussioni appassionate e senza fine, nel comitato federale, nella commissione urbanistica, nelle sezioni del Pci, nelle associazioni, nei circoli, nelle università, nei luoghi di lavoro, nei sindacati, nelle piazze, nelle manifestazioni, nelle feste dell’ Unità , nelle assemblee elettive. Il primo tema che affrontammo – in una discussione aspra, dura, senza complimenti – aveva riguardato una fondamentale questione di metodo e di sostanza, e cioè la necessità di restituire alla pianificazione urbanistica il ruolo di strumento irrinunciabile per il governo della città. Avevamo assunto una posizione critica verso la giunta di sinistra e verso chi aveva amministrato l’urbanistica romana dal 1976 al 1985, soprattutto per non aver messo mano a un nuovo piano regolatore, al posto di quello decrepito e pericoloso del 1962.

Capofila del nostro gruppo era Walter Tocci. Con Goffredo Bettini e altri dirigenti del Pci guidava il rinnovamento del partito dopo la sconfitta del 1985. Di quel percorso furono tappe importanti i convegni “Roma da slegare”, “Le città della metropoli”, il dossier dal titolo Chi comanda a Roma e tante altre iniziative. Cominciammo con Tocci a delineare i contenuti e la forma del nuovo piano regolatore e delle cose da fare per mettere ordine nell’urbanistica di Roma. Italia ’90, Roma capitale, lo Sdo, il vecchio e il nuovo abusivismo, il secondo Peep, l’autoporto di Ponte Galeria, il ministero della Sanità alla Magliana: sono solo alcuni dei temi allora trattati. Con modestissime risorse riuscimmo a produrre documenti e materiali di analisi e di proposta, alcuni a stampa. Lo Sdo e l’urbanistica romana , del 1989, mi sembra che sia il primo testo in cui la nostra impostazione è esposta in modo compiuto e convincente. Chiedevamo che si mettesse mano, contemporaneamente, a tre diversi piani urbanistici: una variante di salvaguardia, per confermare gli interventi già decisi e sospendere le altre previsioni del Prg allora (e oggi) vigente; il piano dell’area metropolitana di Roma, per definire le scelte strategiche a scala provinciale; il nuovo piano di Roma. La variante di salvaguardia, se ricordo bene, è stata inventata allora. Quello stesso fascicolo trattava del verde pubblico, della mobilità – proponendo, tra l’altro, un tracciato per la linea D – e dello Sdo, temi ripresi e approfonditi in altre elaborazioni.

Ai nostri dibattiti partecipava il meglio della cultura cittadina, cito per tutti Antonio Cederna, che decise di fare politica in prima persona, come deputato della sinistra indipendente e come consigliere comunale. La sua proposta di legge per Roma capitale raccoglie la parte essenziale del lavoro condotto insieme in quel periodo, soprattutto riguardo allo Sdo e al grande parco archeologico dei Fori e dell’Appia Antica. Per lo Sdo Cederna propone la soluzione che avevamo definito “a saldo zero”: i ministeri trasferiti nello Sdo non devono in alcun modo essere sostituiti da funzioni che comportino un analogo carico urbanistico. “ L’obiettivo di formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e archeologici, ampie zone pedonali, eccetera, richiede la demolizione di alcuni degli edifici ex ministeriali, operazione essenziale, tra l’altro, per la più corretta valorizzazione di alcune aree di interesse archeologico oltre che opportuna per motivi di qualità urbanistica dell’ intervento”. Inoltre, secondo Cederna, lo spostamento dei ministeri non deve essere limitato a uffici secondari: “verrebbero immediatamente meno non solo l’obiettivo della riqualificazione della periferia orientale, ma gli stessi più generali obiettivi della riqualificazione del centro storico”. La difesa del centro storico si può ottenere solo se si dota la città di altri luoghi destinati a ospitare funzioni di prestigio. Cederna assume insomma, compiutamente, la filosofia dello Sdo com’era stata originariamente pensata da Luigi Piccinato: il trasferimento dal centro di alcune delle più importanti funzioni come idea forza dell’urbanistica romana, presupposto e condizione per costruire la città moderna.

Quanto all’area centrale, secondo Cederna, la valorizzazione delle antichità romane non può essere garantita solo dall’opera di restauro, manutenzione e consolidamento: è necessario intervenire sul piano urbanistico. Il parco Fori Imperiali-Foro Romano arricchirà Roma e i romani di un “incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo”. Il parco archeologico centrale proseguirà extra moenia nel grande parco dell’Appia Antica. Ma soprattutto, “coll’ eliminazione dello stradone che negli anni Trenta ha spianato un intero quartiere e con la creazione del parco centrale si sancisce l’ incompatibilità del traffico con il centro storico e con la salute dei monumenti”.

2. Paolo Berdini racconta come e perché non resta nulla degli obiettivi e della strategia fin qui descritti. Il libro di Berdini si colloca nella scia di Roma moderna . Insolera si occupa di un secolo di urbanistica romana, dall’unità d’Italia alla metà degli anni Settanta. Berdini tratta solo degli ultimi sei anni, ma uguale è la passione civile e il rigore della documentazione 1 . Per quanto mi riguarda, mi limito a riprendere soltanto tre temi, che però mi sembra che siano quelli decisivi per il futuro di Roma: l’ assetto della direzionalità o, se volete, dopo lo Sdo; il progetto Fori, a vent’anni dall’elezione a sindaco di Luigi Petroselli, che fu l’artefice e il fondatore di quel progetto; e, infine, il problema, che pare senza fine, del nuovo piano regolatore.

Lo Sdo è accantonato, in parte ridotto a un’appendice delle operazioni immobiliari Fs. Il documento del Dipartimento politiche del territorio, “Verso il nuovo piano regolatore di Roma”, del maggio 1998, conferma “la cancellazione dell’asse attrezzato quale nervatura di un decentramento funzionale e strutturale ancora troppo a ridosso del centro urbano”. Ma sullo stesso documento, due pagine prima, a proposito dei nodi di interscambio, si legge che “le aree ferroviarie e comunque le aree di diretta pertinenza di tali nodi diventano aree privilegiate dove collocare servizi qualificati, direzionalità, funzioni dotate di forte attrazione e di elevato standard funzionale e di immagine”. E’ appena il caso di ricordare che le aree ferroviarie utilizzabili sono tutte più centrali dello Sdo.

L’operazione Fori invece procede, e si deve dar atto all’ amministrazione Rutelli di averci rimesso mano dopo tre lustri di abbandono, e di aver ripetuto l’esperienza delle domeniche pedonali. Ma questa è solo una parte del progetto Fori, che aveva la sua ragione, urbanistica , prima ancora che archeologica, nell’incompatibilità fra le automobili e gli antichi monumenti. O le une o gli altri. Il sindaco Rutelli e la sua giunta non hanno mai fatto i conti, veramente, con la questione delle automobili. E alla fine delle automobili sono diventati sudditi. Non è vero che l’eliminazione della via dei Fori Imperiali determinerebbe insostenibili problemi di traffico. E’ vero il contrario. L’ esperienza fatta a Napoli con la pedonalizzazione di piazza del Plebiscito, e poi di via Toledo, dimostra che può essere abbondantemente ridotta la congestione nei centri storici. Il traffico di via dei Fori finisce tutto nel marasma di piazza Venezia, uno dei luoghi più inquinati d’Europa, dove cerca di fare del suo meglio l’ultimo vigile urbano che regola il traffico a mano. L’irrisolta questione delle automobili ha determinato anche il disastro del sottopasso di Castel Sant’Angelo e del parcheggio sotto il Gianicolo, che Berdini efficacemente ricorda. Ci si aspettava che, in occasione di un evento epocale come il Grande Giubileo, Roma fornisse al mondo l’esempio del possibile uso pedonale delle città storiche nel terzo millennio. Ha dimostrato invece il contrario, e cioè che, sventrando e snaturando, si può andare in automobile dovunque, anche in piazza S. Pietro.

Ed eccoci al terzo, e fondamentale, tema, quello del nuovo piano regolatore generale. Siamo a sei anni e mezzo dall’elezione di Rutelli, e del nuovo piano – nonostante gli impegni ripetutamente e solennemente assunti, anch’essi ricordati da Berdini, a cominciare dal programma ufficiale della giunta del 1993 – esistono solo bozze e brandelli. Per quel poco che se ne sa il nuovo piano pare meglio di quel che si temeva: non sovra-dimensionato, non afflitto dalle ossessioni perequative dell’Inu. Avremo occasione di approfondirne la conoscenza e di discuterne nei prossimi mesi. Qui ora ci interessa il modo in cui si sta procedendo, a cominciare dalla questione dei tempi. Quand ’anche si arrivi all’adozione del piano, ci si arriverà allo spirare delle due amministrazioni Rutelli. Come dire che si chiudono i cancelli quando i buoi sono fuggiti. Oppure, se volete, che la politica di piano, le sue regole, il suo rigore, vanno bene per quelli che verranno dopo.

Non si può tacere un’altra considerazione relativa al messaggio che la capitale trasmette al resto d’Italia: fare un nuovo piano è un’impresa quasi disperata, forse è meglio rinunciare, come hanno deciso i sindaci di Milano e di Salerno.

3. Il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, cui va riconosciuto il merito di un sorprendente miglioramento dell’ambiente urbano della sua città, in occasione della visita del presidente del consiglio, Massimo D’Alema ha dichiarato che si guarda bene dal mettere mano a un nuovo piano regolatore. Credo che anche a Roma siano in molti a pensarla così, ma non hanno la stessa franchezza del sindaco De Luca.

Ben più ambizioso è il comune di Milano che ha recentemente posto in discussione un documento titolato “ Ricostruire la grande Milano ”. La notizia l’ho letta su Ilsole-24 ore , che ha presentato il testo come “un vademecum per fare le varianti con l’accordo di programma”. “La giunta Albertini – ha scritto ancora il quotidiano della Confindustria – punta in modo netto sulla flessibilità, sulla deregulation e sulla contrattazione pubblico-privato come strumento prevalente per effettuare le trasformazioni urbane”. Percorso da un brivido ho cercato e letto il testo milanese. E’ il De profundis per l’urbanistica.

Luigi Scanoha scritto che “i primi quattro capitoli della prima parte del documento costituiscono indubbiamente una delle più cospicue elaborazioni prodotte in Italia al fine di contestare radicalmente la prassi e ancor più la cultura della pianificazione territoriale e urbanistica consolidata, negandone non specifiche forme e modalità applicative, ma gli stessi presupposti concettuali, con ciò aggredendo assunti la cui valenza è ben più ampia di quella attinente il governo del territorio. Non poche delle posizioni affermate mettono infatti in discussione, o francamente contestano, elementi informatori generali dell’ordinamento costituzionale e giuridico italiano. La più spettacolare di tali affermazioni – continua Scano – è senza dubbio quella per cui nel ‘continuo confronto tra ragioni’, al quale dovrebbe sostanzialmente ridursi l’attività di governo del territorio, ‘lo stato ha una voce autorevole, ma pur sempre una voce tra le voci’. Forse non siamo all’estinzione dello stato di leninista memoria, ma certo siamo a una delle più spinte concezioni di stato minimo mai avanzate dall’anarchismo reazionario, o liberismo libertario”.

A Milano è una tradizione evidentemente irriducibile quella di derogare dalle disposizioni degli strumenti urbanistici: negli anni Cinquanta si chiamava rito ambrosiano, ed era legittimato da mediocri giustificazioni formalistiche. Oggi nessuna ipocrisia fa velo alle intenzioni eversive. Mi limito a riportare qualche brano del documento. Nel paragrafo 18, sotto l’ amabile titolo “L’indebolimento del piano regolatore generale”, si legge che “la trasformazione normativa introdotta negli ultimi anni comporta da parte di ogni ente competente il riconoscimento che l’ esercizio del potere di pianificazione del territorio non esclude, anzi implica il coinvolgimento diretto dei soggetti privati nella fase progettuale delle scelte di pianificazione, e non limita l’accordo con gli stessi alla sola fase esecutiva o attuativa”. Dopo aver reso omaggio all’urbanistica contrattata, si conferma che i nuovi istituti introdotti dal legislatore negli anni Novanta (programmazione negoziata, intesa istituzionale, accordo di programma quadro, patto territoriale, contratto di programma e contratto di area) “costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce nell’accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione dell’intervento di trasformazione urbana”.

A proposito di accordi di programma e simili, è bene ricordare quanto ha scritto Edoardo Salzano nella sua comunicazione alla Conferenza nazionale sul paesaggio: “Ciò che accomuna la quasi totalità di questi piani anomali è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione anomali è quella di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare alle regole comuni della pianificazione ordinaria. Di derogare cioè alle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini)”. In effetti, le varianti urbanistiche autorizzate con il ricorso agli accordi di programma non sono soggette alle osservazioni dei cittadini, com’è previsto dalla legge urbanistica del 1942 per le procedure ordinarie, e gli stessi consigli comunali sono in larga misura spodestati. Con tanti saluti alla partecipazione e alla questione morale.

Tutto ciò non interessa il comune di Milano che assume un solo inconfutabile valore: la flessibilità. Ne lla prospettiva del modello flessibile si assume che “in sistemi urbani densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore – ad esclusione di particolari salvaguardie –, ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi”. “In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto”. Niente insomma è definito una volta per sempre. In estrema (ma non distorcente) sintesi: il pressoché unico compito assegnato alla pianificazione pubblica del territorio sembra quello di assicurare la (crescente) valorizzazione degli immobili, e la riduzione al minimo del rischio d’impresa per i proprietari e gli operatori immobiliari.

4. Il modello delineato dal comune di Milano merita una riflessione vasta e ben condotta, senza trascurare le questioni legate alla trasparenza. Finora non è successo nulla, non c’è stato scandalo. Non sono stati svegliati dal letargo quanti, in particolare nel mondo della politica e della cultura di sinistra, hanno dimenticato da qualche anno di occuparsi di urbanistica, non vedendo che in gran parte d’Italia città e campagne sono più di prima esposte a ogni insulto, grazie proprio a quegli strumenti micidiali, elencati prima, accordi di programma, eccetera, non a caso esaltati dal comune di Milano.

E’ impossibile avviare ora una discussione approfondita. Si può solo accennare allo scenario che tende a configurarsi a mano a mano che guadagna consensi il modello milanese. Bisogna in primo luogo considerare che l’affermazione dell’urbanistica contrattata è andata di pari passo con la diffusione degli strumenti di pianificazione specialistici e di settore: piani di bacino, piani paesistici, piani dei parchi, piani dei trasporti. In verità, per ora siamo solo alle buone intenzione, ma è innegabile che si tratta di una novità importante, grazie alla quale si potranno offrire alla collettività garanzie di tutela di diritti e di interessi vitali: la difesa del suolo, la qualità estetica e ambientale del territorio, il godimento della natura, migliori condizioni di mobilità. L’insieme delle pianificazioni specialistiche e di settore tende a coprire gran parte del territorio, in particolare gli spazi aperti. Che cosa resta fuori? Restano fuori soprattutto i luoghi destinati o da destinare a trasformazioni urbane. In buona sostanza, lo scenario si scompone in un diffuso sistema di vincoli e di tutele, mentre le aree più pregiate, quelle del business , della contrattazione, dei piccoli e grandi affari sono oggetto di decisioni al riparo da sguardi indiscreti. Si opera, insomma, con procedimenti discontinui che frammen tano e disarticolano lo spazio. Si sta rinunciando, in qualche città si è già rinunciato, all'idea razionale (e razionalista) del piano urbanistico comunale esteso a tutto il territorio, all' universitas del patrimonio territoriale.

Ma una città può fare a meno di discutere del suo futuro? E che cos’è un piano regolatore se non la discussione e la decisione sul futuro di una città? Nel dibattito sull’urbanistica di Roma dopo la sconfitta dell’amministrazione di sinistra del 1985 intervenne Italo Insolera con una memorabile intervista all’ Unità : “Quattordici anni dopo il piano regolatore i comunisti alla guida della città non rompono decisamente con il passato, non rivedono quel disegno, non lo riaggiustano secondo le ispirazioni che li avevano guidati nelle lotte precedenti. Non voglio dimenticare nulla, né la sparizione delle borgate, né le estati romane. Ricordo tutto e lo apprezzo […] Dico che mancò una filosofia complessiva del cambiamento, non si cambia nel profondo se si insiste nell’abbandono di ogni ideologia come ispiratrice dei fini e dei mezzi. E se qualcuno sostiene che la pianificazione non occorre, sono costretto a ricordargli che non occorre alle classi dirigenti, ma alle altre sì”. Credo sia questo il punto da cui è necessario ricominciare.

5. Torniamo al libro di Berdini dove, con rigorosa documentazione, si da conto dell’urbanistica romana degli ultimi anni. Si parla delle cose ben fatte, che non sono poche: la politica dei parchi e del verde, la nuova sistemazione di strade e piazze nel centro storico, e soprattutto la variante di salvaguardia che ha posto al riparo dai disegni speculativi ben 50 mila ettari in agro. Ma il libro dimostra soprattutto che Roma, negli ultimi anni, ha preceduto Milano nella pratica dell’urbanistica contrattata. Molti dei 52 milioni di metri cubi calcolati da Berdini sono stati autorizzati con il ricorso alle deroghe, mentre si continuava a promettere il nuovo piano regolatore generale: è questo il “pianificar facendo”?

Che succederà con il nuovo piano, si continuerà con gli strumenti derogatori? Il piano sarà ancora un paravento, al riparo del quale continuerà l’urbanistica contrattata, o si cambierà registro? Ci piacerebbe vedere l’urbanistica di Roma alternativa a quella di Milano. Un formidabile scontro politico e culturale. Ma la svolta dovrebbe essere autentica. E perché sia tale i protagonisti dell’urbanistica capitolina degli ultimi anni dovrebbero sapersi mettere in discussione, cominciando con il fare buon uso del libro di Berdini.

Un primo campo di verifica è la politica nazionale. L’urbanistica della sinistra a Roma, più ancora che quella dell’Emilia Romagna, ha rappresentato sempre il modello per le politiche e le proposte legislative nazionali (dagli standard, alla legge 167, al programma poliennale di attuazione, eccetera). Oggi non è così. Nessuno stimolo è venuto dall’urbanistica romana. Anzi, se si tiene conto dell’assetto generale dell’urbanistica romana (e milanese), se si tiene conto del “ ;pianificar facendo”, occorre riconoscere che il disegno di l egge – finalmente un buon disegno di legge – predisposto da Rita Lorenzetti, presidente della commissione Lavori pubblici della Camera dei deputati va in controtendenza rispetto alla prassi seguita a Roma (e teorizzata a Milano): esso infatti prevede fra i principi generali il divieto del ricorso a istituti derogatori. Un’esplicita e formale condivisione di quest’ obiettivo sarebbe un buon viatico per una svolta romana.

Un secondo campo di verifica riguarda l’autentica disponibilità al confronto e alla discussione. Prevale oggi l’attitudine alla propaganda. Né le istituzioni, né i partiti si sono misurati in confronti pubblici. Anche le cronache romane dei grandi quotidiani, Il Corriere della sera, Il Messaggero, la Repubblica , che in passato avevano sostenuto iniziative e posizioni critiche verso l’ ;urbanistica capitolina, sono scrupolosamente allineate sulle posizioni della giunta. La lettura del libro di Berdini può essere l’occasione per ricominciare.

Sul finire del mandato la Regione Lombardia ha regalato al territorio un bel pacchetto di nuove leggi.

Grazie ad esse i piani regolatori potranno essere modificati in base alle singole proposte dei proprietari. Gli standard urbanistici, e cioè le aree che devono essere destinate al verde, ai servizi e ai parcheggi, sia nelle previsioni a lungo termine che in quelle immediatamente operative sono stati dimezzati. Per avviare la costruzione di qualsiasi edificio non serve più l’approvazione del progetto: basta presentare una dichiarazione di inizio attività.

Non occorre essere specialisti per nutrire il timore che le pretese novità ci stiano invece ricacciando verso una situazione di arretratezza della pratica urbanistica da anni cinquanta, aggravata però dallo scenario attuale della crescita urbana smisurata, dell’emergenza ambientale e dell’incertezza del diritto.

Il Comune di Milano ha subito approfittato delle nuove leggi, elaborando il documento che avvia l’approvazione dei progetti privati in variante del piano regolatore, con l’obbiettivo dichiarato di alimentare il mercato immobiliare. Con il dimezzamento degli standard torna legittima, dentro gli angusti confini comunali una crescita urbana di svariate diecine di milioni di metri cubi: come costruire dentro Milano nuove città della taglia di Brescia.

Per sostenere la concentrazione il nuovo piano del traffico programma una serie di nuove superstrade e di nuovi supersvincoli in piena città: alla gronda nord tengono compagnia un nuovo asse di penetrazione lungo le ferrovie varesine, dalle autostrade al Monumentale, una galleria sotto il parco Sempione, un’altra a fianco dei Giardini e un’altra ancora lungo la darsena di Porta Ticinese, lo sbocco di viale Fulvio Testi sul viale della Liberazione, e il potenziamento di oltre venti incroci. Et cetera. Fluidificazione del traffico!

I danni ambientali di questi progetti, e l’aggressione al bene più prezioso, la salute, in una città dove la gran parte delle centraline rileva una qualità dell’aria fuori legge, allarmano i cittadini, che infatti stanno alzando sempre più la voce contro di essi.

E’ bene chiarire che, sotto il profilo tecnico, la fluidificazione del traffico costituisce, nel contesto dato, un obbiettivo negativo: sia perché, accrescendo la competitività dell’auto, sottrae utenza al trasporto pubblico, sia perché la maggior fluidità del traffico attuale servirà a far spazio a quello aggiuntivo prodotto dai nuovi insediamenti auspicati dalla Giunta. Più auto dunque nel nostro futuro!

Non meno gravi sono i danni che queste politiche provocano proprio sul terreno dello sviluppo economico, in nome del quale vengono proposte.

Raddoppiare la volumetria di un’area edificabile non produce reddito perché comporta che da qualche altra parte si costruirà per la metà, a causa delle dimensioni sostanzialmente rigide della domanda: sposta però l’utile da una immobiliare all’altra. Uno scenario di programmatica inesistenza di regole urbanistiche scatena la competizione tra imprenditori (non solo del settore edilizio, la storia insegna) sul terreno più sterile, quello della ricerca delle protezioni istituzionali, invece di indirizzarlo su quello dell’innovazione tecnica e della qualità del prodotto: un danno netto per l’economia.

Vecchi difetti, dunque, sotto la vernice della urbanistica postmoderna.

Quel che servirebbe dalle istituzioni è tutt’altro: scelte strategiche per rimediare al pauroso degrado ambientale, per selezionare le infrastrutture necessarie a modernizzare l’area, per introdurre un modello territoriale più razionale. Una istituzione milanese, la Provincia, ha tentato, un anno fa di svolgere questo ruolo, elaborando il proprio Piano territoriale.

Il Comune di Milano ha rifiutato di partecipare alla formazione del piano, trincerandosi dietro motivazioni giuridico - formali. Ora mi sembra risultino evidenti le ragioni vere della defezione.

Il documento del Comune, che significativamente si intitola “ Ricostruire la Grande Milano”, pretende di coprire lo stesso territorio che le leggi attribuiscono alle competenze della Provincia. E con scelte di merito molto distanti: concentrazione contro policentrismo, auto contro trasporto pubblico, più cemento contro più verde.

La nuova Provincia dovrà decidere se difendere il proprio ruolo istituzionale, o ritirarsi dietro le quinte, magari con il fragile ( e costoso) alibi di rincominciare a studiare tutto da capo. Lo sapremo presto: la cartina di tornasole sarà la scelta di continuare il processo di formazione del Piano, dando corso alla consultazione formale dei comuni sul progetto già fatto proprio dal Consiglio provinciale, o viceversa di troncarlo, con la prevedibile conseguenza di non riuscire a definire, anche nei prossimi quattro anni, il piano strategico che tutte le metropoli europee hanno già da molti decenni.

Giuseppe Boatti

(Professore di Progettazione urbanistica al Politecnico di Milano)

Nonostante l’Accordo di programma approvato con DPGR 8 aprile 1994 n. 58521 fosse prioritariamente indirizzato alla definizione di un nuovo insediamento fieristico nei comuni di Rho e Pero, esso stabilì anche la dismissione dagli usi fieristici una superficie di 314.000 mq nel territorio del comune di Milano, già indicata dal PRG come area S.S. b 12/2 con destinazione funzionale a “servizi speciali: fiera” e corrispondente al recinto fieristico storico.

Ciò avrebbe consentito di risolvere uno storico problema di decongestionamento urbano lungo la direttrice nord-ovest della città, limitando la destinazione funzionale fieristica solo alle aree del nuovo edificio realizzato lungo viale Scarampo, denominato polo interno.

Infatti, la Fiera di Milano, insediandosi nel 1922 sull’area dell’ex Piazza d’Armi, la cui giacitura aveva un orientamento difforme dai tessuti edilizi circostanti perché il Piano Beruto nel 1899 la disegnò secondo un’astratta simmetria con la giacitura del Cimitero Monumentale rispetto all’asse di corso Sempione, determinò un disassamento del recinto fieristico rispetto alla trama viaria e ai tessuti edilizi della direttrice nord-ovest della città, che nel tempo ha provocato inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico che di un corretto assetto insediativo urbano.

Da anni, quindi, numerosi studi e progetti hanno cercato di ovviare a tali inconvenienti proponendo riassetti urbanistici che ricomponessero l’andamento di quel brano di città rispetto al tessuto edilizio circostante: così nel 1937-38 il Progetto di Concorso per la Nuova Fiera al Lampugnano di Bottoni, Lingeri, Mucchi, Terragni, nel 1938 il Progetto Milano Verde degli architetti Albini, Belgiojoso, Bottoni, Gardella, Mucchi, Peressutti, Putelli e Rogers, nel 1945 il Piano AR, tra il 1946 e il 1951 i progetti di de Finetti su incarico del Consiglio di amministrazione della Fiera. Una traccia di continuità con tale atteggiamento è reperibile anche nello schema della cosiddetta T rovesciata proposta dal Documento di Inquadramento urbanistico approvato dal Comune di Milano nel giugno 2000.

Nel 1994, tuttavia, l’AdP si limitò ad indicare la superficie da dismettere dagli usi fieristici, lasciando indeterminate molte questioni relative alle aree previste in dismissione, tra cui in particolare la loro nuova destinazione funzionale, lo strumento procedurale di questa modifica, gli indici di densità edificatoria, di altezza e distanza degli edifici da applicarsi nel riutilizzo delle aree, la quantità di aree pubbliche necessarie alla città in occasione del nuovo utilizzo.

Tutti questi aspetti, anziché essere indirizzati dal Comune di Milano alla risoluzione dei problemi di decongestionamento della città sono stati in realtà stabiliti autonomamente da Fondazione Fiera Milano (ora ente di diritto privato), con finalità di esclusiva valorizzazione economica del proprio patrimonio immobiliare.

Infatti, in un suo documento definito “Procedura negoziata privata per la cessione di parte dell’area del quartiere fieristico storico”, pubblicato con un’inserzione su organi di stampa specializzati in campo finanziario (Sole 24 ore, Financial Time, Handelsblatt) già in data 4 aprile 2003 si indicavano agli aspiranti acquirenti dell’area gli strumenti procedurali (Programma Integrato di Intervento), le destinazioni funzionali (residenziali, terziarie, commerciali, produttive in percentuali libere), gli indici edificatori (Ut =1,15 mq/mq), le quantità di aree pubbliche da cedere (50% della superficie in dismissione), e l’assenza di limiti di altezza e distanza degli edifici.

Infine, in contrasto con il contenuto dell’Accordo di Programma del 1994, in tale documento si indica in 255.000 mq. anziché in 314.000 mq la superficie da dismettere dagli usi fieristici, mantenendo a destinazione fieristica anche un’area e gli edifici esistenti all’angolo tra viale Scarampo e viale Berengario.

Mentre le dismissioni indicate dall’Accordo di Programma del 1994 avrebbero consentito di tener fermo l’obiettivo di una trasformazione urbanistica coerente coi tessuti insediativi circostanti, le nuove previsioni contenute nella procedura negoziale privata promossa dagli organismi della Fiera, discostandosene per interessi aziendali interni, lo compromettono definitivamente, impedendo la possibilità di rettificare il tracciato di viale Scarampo all’interno dell’attuale recinto fieristico.

D’altra parte, che l’obiettivo di quei contenuti siano gli interessi aziendali della Fiera e non quelli di igienicità e decongestionamento urbano dell’area è dimostrato anche dalle modalità di svolgimento della procedura di negoziazione privata attivata da Fondazione Fiera Milano, che non solo affida la valutazione dei progetti proposti dagli aspiranti acquirenti ai membri del proprio Consiglio di amministrazione e non ad una Commissione indipendente e tecnicamente qualificata, ma effettua la valutazione delle offerte per l’acquisto dell’area di Trasformazione e il relativo Progetto di Riqualificazione in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per la proprietà (artt. 8 e 15 della “Procedura negoziata privata”), anziché con quello del maggiore utilità complessiva in termini di somma tra remunerazione alla proprietà e valore delle quantità di aree ed attrezzature pubbliche proposte.

Ciò nonostante i contenuti planimetrici e normativi di quella procedura negoziata privata sono stati pedissequamente assunti nella delibera GC n. 884/2003 del 15 aprile 2003, sulla cui base il Sindaco di Milano in pari data ha chiesto al Collegio di Vigilanza sull’Accordo di Programma di convalidarli ai fini di un’integrazione all’AdP del 1994, sottoscritta poi il 14 novembre 2004 e ratificata dal Consiglio comunale in data 9.12.2003, senza tener conto delle esigenze igieniche, di decongestionamento urbano e delle quantità minime di spazi pubblici prescritte in sede di formazione degli strumenti urbanistici dall’art. 7, punto 2 del D.I. n. 1444/68.

A tale proposito occorre far rilevare:

- che il ricorso all’Accordo di programma approvato con decreto del presidente della regione per determinare i contenuti della Variante al PRG non è motivato da alcuna destinazione di interesse pubblico di competenza regionale, essendo le nuove funzioni previste unicamente quelle residenziali, terziarie e produttive con i relativi spazi di servizi pubblici;

- che l’indice di edificabilità territoriale attribuito dalle NTA della Variante all’area oggetto di trasformazione funzionale, pari a 1,15 mq/mq, è molto superiore a quello attribuito a tutti gli altri PII già approvati dal Comune di Milano (0,65 mq/mq);

- che l’indice di edificabilità fondiaria che ne deriva è almeno pari a 2,3 mq/mq (suscettibile di ulteriori aumenti se l’area pubblica ceduta fosse oltre il 50% della St), cioè molto superiore all’indice fondiario massimo di 1,5 mq/mq prescritto dalle NTA della Variante per l’attigua area mantenuta a destinazione fieristica;

- che ciò è in contrasto con l’art. 7, punto 2 del D.I. n. 1444/68 il quale prescrive che in sede di formazione degli strumenti urbanistici le densità sono stabilite tenendo conto delle esigenze igieniche, di decongestionamento urbano e delle quantità minime di spazi previste dagli artt. 3, 4, e 5 del medesimo decreto;

- che la cessione minima ad uso pubblico del 50% dell’area (127.500 mq) non è motivata da valutazioni di corretto dimensionamento derivanti dall’edificabilità prevista; infatti a 5.865 abitanti teorici (desunti dalla quantità edificabile di 293.250 mq di s.l.p. consentita dall’indice di densità territoriale Ut = 1,15 mq/mq, sulla base del parametro di 50 mq/ab stabilito dall’art. 19 della L.R. 51/75, come modificato dall’art. 6 della L.R. 1/2000), corrisponde la destinazione ad aree pubbliche di 234.600 per la funzione terziaria/commerciale (80% della s.l.p., come prescritto dalle NTA) e di 258.060 mq per la funzione residenziale (44 mq/ab, come prescritto dalle NTA). Tali quantità sono quasi pari o superiori all’intera area oggetto di trasformazione urbanistica (255.000 mq), rendendone impossibile l’attuazione senza ricorrere obbligatoriamente alla monetizzazione di quasi la metà delle aree pubbliche prescritte;

- che la cessione minima di aree pubbliche prescritta (127.500 mq = 50% della St) non rispetta nemmeno la dotazione minima di 26,5 mq/ab di aree pubbliche effettivamente realizzate sull’area, come previsto nella realizzazione dei piani attuativi dalla L.R. n. 51/75, e che nel caso in questione ammonterebbero a 155.422 mq;

- che, in contrasto con l’art. 6 comma 3 della L.R. n. 9/99, nonostante le NTA della Variante indichino come strumento attuativo un Programma Integrato di Intervento (PII) avente ad oggetto aree in tutto o in parte destinate ad attrezzature pubbliche o di uso pubblico e ne prevedano una differente utilizzazione, esse non prescrivono che il PII debba assicurare il recupero contestuale della dotazione di spazi pubblici in tal modo venuta meno;

- che il disposto dell’art. 8, punto 2 del DI n. 1444/68 prevede che nei piani attuativi in zona B che non rispettino le quantità minime previste dagli artt. 3, 4 e 5 gli edifici debbano avere altezza non superiore a quella degli edifici preesistenti e circostanti;

- che con un limite di altezza tra 18 e 27 metri (pari ad edifici alti tra sei e nove piani, paragonabili a quelli preesistenti e circostanti) l’indice di densità territoriale (Ut) effettivamente utilizzabile varia, a seconda degli schemi distributivi adottati, tra 0,52 mq/mq e 0,84 mq/mq.

- che, viceversa, l’indice di edificabilità territoriale Ut = 1,15 mq/mq è interamente utilizzabile solo con la realizzazione di edifici che, a seconda dello schema distributivo adottato, debbono necessariamente avere altezze dai circa 35 metri agli oltre 70 metri, pari a edifici dai 12 ai 25 piani, cioè dal doppio al quadruplo dell’altezza degli edifici preesistenti e circostanti;

- che edifici di tali altezze incomberebbero sugli edifici circostanti e preesistenti alterando in senso fortemente peggiorativo la condizione di igienicità e vivibilità urbana dell’intera area;

- che le prescrizioni planimetriche e normative della Variante per le aree oggetto di trasformazione funzionale ed edilizia non individuano il perseguimento di alcun obiettivo indirizzato al decongestionamento urbano attraverso un assetto insediativo coerente a quello dei tessuti urbani circostanti.

Pertanto, i contenuti della Variante approvata non risultano essere finalizzati al rispetto dei dettati degli artt. 3, 4, 7, 8 e 9 del DI 2.4.68, n. 1444 che prescrivono di dimostrare l’impossibilità di raggiungere la quantità minima di spazi pubblici su aree idonee e, anche in tal caso, di reperirli entro i limiti delle disponibilità esistenti nelle adiacenze immediate (art. 4, punto 2), di stabilire le densità territoriali e fondiarie tenendo conto delle esigenze igieniche, di decongestionamento urbano e delle quantità minime previste dagli artt. 3, 4 e 5 del medesimo decreto (art. 7, punto 2), di non superare con i nuovi edifici l’altezza massima degli edifici preesistenti e circostanti se non si rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all’art. 7 (art. 8, punto 2), né all’obiettivo di realizzare le necessarie dotazioni di aree pubbliche per la città. Al contrario, i contenuti della Variante appaiono, invece, indirizzati dall’interesse di Fondazione Fiera Milano a perseguire con la cessione a terzi dell’area oggetto di dismissione dagli usi fieristici la massima valorizzazione economica.

Sulla base di tali valutazioni un gruppo di cittadini dei quartieri adiacenti all’area dell’ex recinto fieristico sta predisponendo un ricorso al TAR contro la Variante, definitivamente approvata dal decreto del Presidente della Regione Lombardia Formigoni il 19 febbraio scorso. Si invitano quanti volessero aderirvi a scrivere a sergio_brenna@fastwebnet.it

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