La discussione su Milano si accende e spegne senza sedimentare una riflessione organica. Le indagini del Corriere nei quartieri della città hanno evidenziato i problemi che interessano soprattutto la periferia urbana. Il sindaco Moratti ha ricordato che Milano ha anche qualità, tante eccellenze e che è un errore fermarsi a parlare solo del suo degrado. Adriano Celentano ha accusato architetti e amministratori di avere reso la città brutta. Report ha sostenuto che a Milano assistiamo a una versione aggiornata di Mani sulla città. Il che è evidentemente non vero, anche se la crescita del mercato immobiliare ha costruito ricchezze che si sono trasformate in enormi concentrazioni di potere.
Da questo insieme di voci sovrapposte e intermittenti mi sembra emergano tre temi. Il primo è la necessità di costruire e rendere trasparente un discorso pubblico sulla città, su dove vuole andare, quali obiettivi si vuole proporre per il futuro oltre all'assegnazione dell'Expo 2015 e l'avvio della pollution charge. La mancanza di tale discorso crea disorientamento e affida la giustificazione di ogni singola scelta ad argomentazioni contingenti. Il caso della Fiera è un esempio. La costruzione del nuovo polo a Rho-Pero è stato «autofinanziato » dalla Fondazione Fiera vendendo l'area del polo interno dove sarà realizzato il progetto City Life. Posto che la Fiera rappresenta uno degli asset strategici della città e che era necessario decentrarla per consentire vivibilità al quartiere ed efficienza alle funzioni fieristiche, è stato giusto concentrare volumetrie elevatissime nell'area lasciata libera per finanziare lo spostamento? Esistevano alternative? L'area interna poteva rispondere ad altre esigenze della città — case in affitto accessibili per i giovani, verde, servizi — se non la si fosse usata come strumento finanziario? In assenza di un discorso pubblico sulla città non sappiamo in che relazione stiano obiettivi di competitività economica e di risposta ai bisogni dei cittadini e quindi ogni operazione di trasformazione urbana deve ricostruire le proprie ragioni, giungendo a scelte che spesso appaiono incomprensibili.
Il secondo tema sorto dal recente dibattito riguarda le periferie urbane e l'assenza di un centro di coordinamento delle decisioni sui quartieri. È ora di dire che i «grandi progetti urbani» non sono solo quelli che riguardano i luoghi noti, da Santa Giulia a Garibaldi-Repubblica. Occorre un grande progetto urbano per le periferie milanesi, possibilmente in accordo con i Comuni di prima cintura, investendo intelligenza, capacità tecnica e risorse economiche. Fino a quando non ci sarà una mobilitazione straordinaria con una guida interna che sappia integrare le diverse competenze, dialogare con i cittadini, e con i Comuni contermini, saremo sempre costretti a fare solo l'elenco delle molte cose dimenticate.
Il terzo tema è quello della qualità della vita e della bellezza della città, oggi bene primario. Abbiamo bisogno di una città più accogliente, amichevole e facile da vivere, non solo per i suoi abitanti ma anche per favorire il suo sviluppo economico. I settori trainanti non sono più le grandi imprese ma le università, i centri di ricerca, i settori del design, della moda, della finanza, dei media. Settori che richiedono, per potersi sviluppare, di attrarre talenti ma anche di ospitare gli addetti ai servizi che questa città fanno funzionare. Persone che qui dovrebbero (anche) trovare la possibilità e il piacere di vivere, stabilirsi e crescere i figli.
Si tratta in conclusione di imparare dalla discussione avviata senza disperderla, in una nuova direzione che porti a superare gli stereotipi del passato, le contrapposizioni ideologiche e a lavorare per una città ancora competitiva ma più capace di affrontare i suoi problemi.
Nota: Alessandro Balducci è Direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano (f.b.)
Perfino Adriano Celentano s’è accorto che a Milano «si costruisce un po’ troppo negli ultimi anni». Per la verità, si costruisce più che in ogni epoca dai tempi degli Sforza, compresi i dopoguerra. A modo suo, l’ex ragazzo della via Gluck ha avviato sul Corriere una polemica contro «gli orrori moderni» che distruggeranno «anche il ricordo della Milano di Leonardo e del Bramante». Il governatore lombardo Roberto Formigoni gli ha risposto che a rifare Milano sono stati chiamati i migliori architetti del mondo e «non bisogna aver paura della contemporaneità». Personalmente, dubito che entrambi sappiano di che cosa si parla, si fatica insomma a raffigurarsi Celentano e Formigoni nei panni di novelli Argan e Zeri. Ma insomma, ben venga la discussione. Il punto, però, non è l’estetica del nuovo modello di città. Si può discutere se un progetto sia migliore dell’altro, ma in generale Milano è diventata talmente brutta che qualsiasi nuovo intervento può solo migliorarla. Figurarsi poi se gli autori si chiamano Piano, Foster, Libeskind... In ogni caso il dibattito arriva tardi, molto tardi, quando il Monopoli è ai giri finali ed è ormai impossibile fermare i cantieri o correggere il tiro.
Ma la vera questione è altra dall’estetica. Quale sarà la Milano del futuro? Una città probabilmente più bella, ma con un modello sociale terrificante. I nuovi quartieri nascono come enclave per super ricchi, destinati a una iper borghesia italiana e straniera in grado di pagare 15 o 20 mila euro al metro quadro per case perfette, griffate, dotate di ogni meraviglia tecnologica. Piccole città utopiche recintate di fatto, sorvegliate da telecamere, pattugliate da vigilantes. Fuori dalle mura della ricchezza, continueranno a dilagare periferie sempre più indistinte, popolate di immigrati e italiani impoveriti, ottima miscela per far esplodere rancori e violenze. La piccola e media borghesia cittadina, spina dorsale della società milanese, è destinata a estinguersi un po’ alla volta, come è già capitato alla classe operaia. I figli del ceto medio sono già molto più poveri dei padri. I figli dei figli si contenderanno lavori precari con slavi e maghrebini.
Milano si avvia a diventare, come ha sempre sognato, la prima città americana d’Italia. Ma il sogno era un incubo. Significa una città di ghetti. Se Celentano, Formigoni, il sindaco Moratti e perfino la salottiera sinistra milanese volessero cominciare a occuparsi del tema, invece d’improvvisarsi critici d’arte, forse saremmo in tempo a limitare la catastrofe. La rivolta della Chinatown di via Paolo Sarpi non era che l’inizio.
Nota: di seguito due piccoli esempi di sarcastica ricostruzione di comportamento diffuso e normalmente tollerato a Milano, nei finti spot pubblicitari di una trasmissione radiofonica dedicata alla congestione da traffico (f.b.)
La Fiera di Milano, inaugurata il 12 aprile 1920, sarà presto rasa al suolo per lasciare il posto ad un nuovo quartiere. Nel 1994, fra Ente Fiera, Regione e Comune, era stato siglato un accordo di programma che diceva: “quando saranno abbattuti i padiglioni che oggi hanno un forte impatto, l’area verrà restituita ai cittadini in verde e servizi. Ora però le giunte sono cambiate e l’Ente Fiera non esiste più. Al suo posto, dal 2000, c’è una fondazione privata, con dentro Provincia, Comune, Regione, Camera di Commercio, Coldiretti, i Sindacati e gli organizzatori fieristici, che ha preso quell’accordo e lo ha trasformato secondo i suoi obiettivi. Prima mossa, in barba al verde: per valorizzare la vecchia area prima di rimetterla in vendita, l’indice di edificabilità è stato portato a 1.15 per metro quadro, il doppio di quello che hanno usato tutti gli altri operatori delle aree dimesse di Milano. Secondo: il progetto che ha vinto la gara è stato scelto, pur riconoscendo che non fosse il migliore per i cittadini, in base all’offerta economica per il terreno. Su una base d’asta di 310 milioni di euro, City Life ne ha offerti 523 e ha vinto. Terzo: il progetto avrebbe dovuto prevedere case a edilizia convenzionata; invece le case saranno tutte di lusso e il parco resterà tutto all’interno; diciamo che se lo godranno coloro che hanno i mezzi. Quarto: l’impatto ambientale impressionante. Ci saranno uffici, residenze, due musei, la linea 5 del metrò, parcheggi e il parco; ma il cuore del progetto saranno 3 grattacieli, in particolare, la torre dell&rsq uo;architetto Isozaki, coi suoi 54 piani per 215 metri d’altezza, sarà l’edificio più alto d’Italia. Prestigioso, e sicuramente bellissimo. New York è piena di grattacieli, ma c’è anche Central Park. A Milano evidentemente basta il parco Sempione. Il progetto fu approvato dalla Giunta Albertini nel 2005, senza prendere atto della Valutazione di impatto ambientale, che prescriveva una revisione della disposizione degli edifici, una riduzione in altezza e apertura verso l’esterno dell’area verde. Di recente, a un Comitato composto da urbanisti, economisti, attori e cittadini, che sta portando avanti la lotta contro scelte che avvengono nel dispregio dei cittadini, è pervenuta una multa di 50mila euro da parte dell’Amministrazione comunale, per aver affisso sui pali pubblici cento manifestini. Il motivo? Hanno deturpato l’aspetto estetico della città. Per consultare l'articolo che riporta l'intera puntata di Report inerente la Fiera di Milano clicca qui e per visionare la puntata clicca qui.
Non ci resta che piangere
“Mi hanno ferito nella cosa che ho di più caro, l’immagine”. (Silvio Berlusconi)
Dopo il boom e il successivo crollo dell’industria pesante, negli anni ’70 e ’80 Milano si impose come mercato a livello internazionale per la produzione e il consumo di beni di alto valore aggregato. Negli anni ’80 in particolare il sistema produttivo smise di puntare sui tradizionali beni durevoli di consumo, dirigendosi verso i cosiddetti beni status symbol: il business milanese postindustriale per eccellenza divenne l’alta moda, legata alla produzione per un folto pubblico abbiente e destinata all’esportazione. Ben presto nomi come Armani, Dolce e Gabbana e Prada divennero famosi e “indossati” in tutto il mondo. Si può dire dunque che il mercato che maggiormente ha caratterizzato l’economia urbana milanese del decennio fu quello dell’immagine, amplificato e completato dalla pubblicità e dall’avvento della televisione privata.
Dalle prime sfilate degli anni settanta, la promozione di Milano a capitale della moda è stata rapidissima. Milano ha calamitato tutte le professioni che in qualche modo erano collegate all’industria dell’immagine: fotografi, modelle/i, editori di riviste, critici, acquirenti, produttori, commercianti, pubblicitari, giornalisti. L’industria dell’abbigliamento d’altra parte ha fatto parte storicamente del melieu economico del milanese: basti pensare alla già citata produzione tessile e all’industria serica, settori trainanti della prima rivoluzione industriale.
L’ascesa dell’economia dell’immagine coincise con una profonda ristrutturazione del sistema produttivo. Tra il 1981 e il 1994 si assistette alla vistosa contrazione, se non a un vero e proprio declino, delle imprese più grandi e all’affermazione di un reticolo di unità tecniche di produzione e lavoro di dimensioni sempre più ridotte. Altrettanto profondi furono i mutamenti intervenuti nella composizione delle attività economiche, che appaiono sempre più contrassegnate dal fenomeno della "terziarizzazione": nel 1981 il 65,7% delle unità locali operavano nel settore dei servizi, incidenza che sale al 68,2% nel 1994. In questo quadro cresce, inevitabilmente, il peso delle piccole e piccolissime unità produttive (quelle da 1 a 9 addetti), che da sole rappresentano nel 1994 quasi il 93% del totale dell’attività economica urbana.
Al di là delle importanti trasformazioni interne del sistema economico e urbano e della crescita dei quartieri periferici, nel decennio ’70 emersero i primi sintomi di un radicale cambiamento che ridisegnerà nel ventennio successivo le sfere sociali, spaziali, politiche e culturali della vita cittadina. E’ infatti in questi anni che si manifestano le prime avvisaglie del progetto ideologico e economico della “Milano che sarà”: “la città dei numeri uno”.
Nel 1970 il gruppo immobiliare Edilnord (di proprietà del cavalier Silvio Berlusconi) iniziò l’edificazione, su di una superficie di 700.000 metri quadrati, di un complesso residenziale, noto come Milano 2, a cui presto sarebbe seguito Milano 3. Questi progetti rappresentavano l’affermazione del paradigma dello status symbol: non si trattava semplicemente di complessi residenziali, bensì della manifestazione spaziale di un nuovo stile di vita. Berlusconi si assicurò che i residenti fossero isolati dagli aspetti “sgradevoli” della vita cittadina: traffico, criminalità, immigrazione, operai; la città stessa.Le “nuove Milano” furono create secondo una serie di caratteristiche architettoniche innovative. I quartieri erano separati in modo netto dal resto della città, delimitati da muri, ponti, strade: gli edifici erano per la maggior parte orientati verso l’interno del complesso e raramente verso il territorio circostante, circondati da verde e con un laghetto centrale. Un efficiente sistema di portineria e vigilanza notturna completava il quadro della sicurezza interna. Il caso di Milano 2 è esemplificativo della ridefinizione dei canoni informatori dei processi di progettazione e costruzione dello spazio urbano, e inoltre simbolicamente legato alla profonda trasformazione che caratterizzerà la vita culturale italiana dalla fine degli anni ’70 (molti dei neoabitanti di Milano 2 furono effettivamente i protagonisti del boom finanza/pubblicità/moda della Milano degli anni ’80).
É da qui inoltre che nel 1974 TeleMilano, la prima emittente televisiva privata a livello locale, iniziò le trasmissioni (all’inizio il segnale era disponibile solamente per i residenti del quartiere). Approfittando dell’assenza di una legislazione adeguata e dell’appoggio del partito socialista, nel 1978 Telemilano avrebbe iniziato a trasmettere non solamente a livello locale. Si faceva largo una nuova strategia celebrativa di ricchezza, del consumo, della forma rispetto al contenuto, come si evince chiaramente in certi momenti e luoghi chiave della vita “pubblica” milanese: nei congressi del Partito Socialista, lo storico simbolo con falce e martello fu sostituito dal più “frivolo” garofano rosso.
La citata vicenda di Telemilano dimostra inoltre la connivenza tra sistema politico e mondo imprenditoriale: tale connivenza ha determinato nuove consuetudini nella gestione della res publica, da cui le politiche urbane e il “fare città” non sono rimasti esclusi. Per intendere i meccanismi che hanno informato la “non pianificazione urbana” a Milano durante gli anni ’80 ci si può riferire al concetto di “urbanistica contrattata”. L'urbanistica contrattata rappresentò la sostituzione di un sistema di regole definite dalla pianificazione urbanistica, con la contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che detengono il potere politico e economico. Tale “consuetudine” si è di fatto manifestata ogni qual volta l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non venisse presa per l'autonoma determinazione degli enti, che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti capitali da investire. Il cosiddetto sistema dell’urbanistica contrattata venne portato avanti a Milano dalle giunte socialiste dei sindaci Tognoli e Pillitteri (cognato di Bettino Craxi), con il beneplacito di una intera classe politica, Partito Comunista milanese incluso. Questa prassi ha rappresentato qualcosa di nuovo rispetto alla speculazione immobiliare propria del periodo ’50-‘70: i suoi effetti e le distorsioni che ha indotto sull'intero ordinamento territoriale – e, in una visione più ampia, sociale – porteranno Milano alla crisi politica e civile (ancor prima che urbanistica) più grave della sua storia recente, da cui è difficile affermare che la città si sia mai effettivamente ripresa. In questo senso, è esplicativa la differenza tra le reazioni del corpo sociale all'una e all'altra forma di subordinazione dell'interesse pubblico a quello privato: nel corso degli anni ’50 e ’70, la speculazione fondiaria ed edilizia appariva come uno scandalo, nei confronti del quale l'opinione pubblica (e non solo quella progressista) si ribellava, reagiva con forza e con durezza. Prima dell'indagine “Mani pulite” l'urbanistica contrattata era invece divenuta una prassi corrente e una procedura legittimata dalla costanza dei comportamenti.
Fu all'inizio degli anni ’80 che il “rito ambrosiano” entrò nelle sua fase di maggior “splendore”.
Vennero approvate dagli uffici comunali decine di varianti puntuali al piano regolatore, con le quali si autorizzarono oltre 12 milioni di metri cubi di nuove strutture edilizie per il terziario nel territorio municipale. Ma il rito ambrosiano non si fermò alle varianti: “...in mancanza di una legge nazionale sul regime dei suoli e di una più larga autonomia finanziaria degli enti locali, gli amministratori scelgono la via della contrattazione. Io amministratore pubblico ti lascio costruire, concedendo varianti al piano regolatore; tu operatore privato mi offri in cambio delle contropartite (opere di urbanizzazione, strutture pubbliche, abitazioni popolari, aree parco)”. Tali contropartite vengono garantite da lettere private, tenute accuratamente segrete. Come sottolinea Salzano “...Difficile credere che ci sia stato qualcuno così ingenuo da non pensare che, tra le contropartite, potevano essercene altre oltre alle case popolari e ai parchi!”. Profetica appare oggi una frase di Piero Bassetti, ex-presidente della Camera di commercio, intervistato nel 1986 dal quotidiano La Repubblica. Durante la discussione allora in corso sul futuro urbanistico di Milano, aveva detto: “...Ho l'impressione che tutto questo dibattito sulle aree (dismesse) testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca”. La corruzione politica nel corso degli anni ’80 può essere definita “…un fenomeno quasi scientifico nella sua sistematicità e metodologia”. Consisteva nella spartizione di contratti e appalti, nella concessione di autorizzazione e licenze in cambio di tangenti. Era un sistema considerato normale, anzi essenziale per il buon funzionamento della vita politica. L’urbanista socialista Balzani ammise a tal proposito nel 1987 che “…la tangente è automatica”.
I grandi progetti finanziati con il sistema degli appalti pubblici vedevano lievitare i costi al punto da rendere impossibile la loro stessa realizzazione. Molti progetti sono stati iniziati per poi essere abbandonati completamente o completati solo dopo anni di attesa e di rifinanziamenti: il caso del Piccolo Teatro – opera finanziata con denaro pubblico e attesa per vent’anni – fu paradigmatico di un’epoca. Alla progettazione dello spazio pubblico non è toccato un destino differente. A tal proposito vale la pena citare le vicende attuative del Parco del naviglio Martesana. L’istituzione del parco risale in realtà al 1978, ma i lavori per la realizzazione - su di un ampio spazio di 20 ettari precedentemente usato come discarica abusiva - incominciarono solo a metà degli anni ’80. I lavori sono stati affidati a operatori privati, non solo in mancanza di un progetto esecutivo ma anche di un effettivo controllo pubblico. Il risultato di questa operazione all’oggi, oltre alla chiusura del teatro all’aperto due anni dopo la sua costruzione per pericolo di crollo, è quello di una piantumazione sommaria su una parte minima dell’area, la predisposizione di alcuni sentieri che si snodano nel nulla, nonché l’assoluta mancanza di intervento sulla sponda nord della Martesana che ha ovviamente compromesso l’intento progettuale dell’intero intervento.
La stessa realizzazione della terza linea della metropolitana, iniziata nel 1981, divenne simbolo della corruzione: in seguito alla ripartizione tra i partiti politici dei fondi per la sua costruzione, ogni mattone impiegato nel cantiere venne a costare la scandalosa cifra di un milione di lire (al cambio, 500 Euro).33 Ma il progetto più atteso e sbandierato della stagione socialista (1976-1993) fu senza dubbio quello del passante ferroviario, infrastruttura che avrebbe dovuto contribuire in maniera decisiva a risolvere il problema della congestione del traffico cittadino, collegando la rete delle Ferrovie Nord e dello Stato con alcuni punti strategici della città non serviti dalle linee delle metropolitane. Con quindici anni di ritardo rispetto al progetto iniziale, il primo tratto del Passante fu inaugurato nel 1997. Un istituto internazionale ha accertato come la realizzazione di un chilometro di Passante prima dell’inchiesta Mani pulite venisse a costare più di 80 miliardi di lire: il primo chilometro realizzato dopo l’inchiesta è venuto a costare circa 44 miliardi, poco più della metà. Nonostante tutto, l’immagine di Milano negli anni ’80 non era quella di città corrotta: era quella della “Milano da bere” (slogan dello spot di un aperitivo, che divenne simbolo di un’epoca), immagine che riusciva a cogliere l’essenza della situazione sociale e politica di quegli anni, caratterizzata dalla scomparsa dell’industria pesante e dalla profonda crisi della sinistra tradizionale. Le parole chiave di quel periodo definivano una realtà dinamica, in profondo cambiamento, lungi dal segnalare gli aspetti di crisi strutturale del sistema-città: si parlava di modernità, sviluppo, decollo postindustriale, città europea, “…una nuova realtà metropolitana che possiamo chiamare ’diversa’”.
Il primo momento di rottura nella pratica generalizzata della corruzione risale al 1989, con l’uscita del PCI dalla maggioranza comunale e la conseguente caduta della giunta.Le elezioni dell’anno successivo videro i tre partiti tradizionali raggiungere un risultato sostanzialmente identico: DC 21%, PCI 20%, PSI 19%. Il vero trionfatore fu la Lega Lombarda di Umberto Bossi, approdata alla politica nel 1985, che ottenne il 13% delle preferenze. Nello stesso anno (1990) il ritrovamento casuale da parte dell'assessore Carlo Radice Fossati di una delle lettere private utilizzate per stabilire contropartite economiche tra politici e imprenditori fece emergere per la prima volta lo “scandalo”, ben presto dimenticato, prima dell’esplosione dalla madre di tutte le inchieste per corruzione: Tangentopoli.
“Matrioska”: la frammentazione delle competenze
“Un sogno guasto e cavo al centro”. (Milo de Angelis)
Vale la pena a questo punto considerare un elemento fondamentale per poter intendere la “natura” del governo del territorio milanese. Nel corso degli anni ’80 iniziò ad emergere attorno alla città una nuova forma urbana, come conseguenza del processo di redistribuzione al di fuori del centro tradizionale delle funzioni “…non solo di grado inferiore e (delle) classi sociali più basse, come avveniva nella classica metropoli dei pendolari degli anni Sessanta”,ma anche di funzioni (residenza, lavoro, consumo) destinate alle classi sociali più elevate. Di fatto, il territorio comunale di Milano, con i suoi 181,74 km quadrati è sicuramente più limitato dell’area urbanizzata in cui si trova inserito. La delimitazione del territorio municipale, già nel corso degli anni ’80, non poteva essere facilmente percepita, soprattutto lungo gli assi storici di penetrazione alla città: dove finiva Milano e dove incominciava Sesto San Giovanni? Sarebbe stato più facile distinguere dove terminava l’area industriale di Pirelli-Bicocca e dove incominciavano gli stabilimenti Falk.
Le dinamiche (di popolazione, funzionali, lavorative, residenziali) dello spazio geografico “milanese” oltrepassano quindi i limiti del territorio municipale: la nuova forma/struttura metropolitana tende ad una conformazione policentrica, definita “…dalla complementarietà di funzioni tra centri e periferiedei complessi metropolitani”.Il policentrismo milanese si limita però ad un aspetto strettamente funzionale, legato alla ri-localizzazione del sistema produttivo a scala regionale, rimanendo incardinato alla struttura radiale delle principali direttrici infrastrutturali di collegamento. La metafora della sezione d’albero di Beruto (1884) - riferita al centro urbano- rimane perfettamente leggibile sul territorio, fino però a dissolversi in un continuum cementificato privo di alcun tipo di disegno:“…L’antica antitesi (città-campagna) scomparirà e le linee di confine cesseranno di esistere”.Si assiste in questa fase ad un ripopolamento degli antichi “borghi”, non dovuto però alle loro caratteristiche rurali, quanto piuttosto alla loro collocazione nel nuovo contesto “metropolitano”. Un esempio interessante di questa tendenza è rappresentato dal piccolo comune rurale di Basiglio, alle porte di Milano, che nel decennio ’80 vide crescere la propria popolazione da 800 a 6.500 abitanti, in conseguenza dell’edificazione sul territorio municipale del già citato complesso residenziale Milano 3. La Milano metropolitana, nella sua dimensione fisica, perse dunque la storica coincidenza con i confini amministrativi del comune, venendo ad estendersi su di uno spazio il cui governo è di competenza di enti differenti: i comuni circostanti, la Provincia, la Regione Lombardia. Si tratta di corpi governativi (eletti democraticamente) che controllano il vasto territorio “semi-urbano” dell’Italia settentrionale: come in una matrioska, la regione “contiene” la provincia, la provincia “contiene” 188 comuni, tra cui Milano.
L’accentuazione del conflitto di e tra competenze, dovuto all’esistenza di attori differenti, le giunte comunali, provinciale e regionale - spesso di diverso colore politico - ha reso da un lato problematica la definizione e attuazione degli strumenti tecnici di governo territoriale, dall’altro ha determinato gravi ritardi nei processi decisionali. Per far fronte a questa situazione nel 1990 con la legge 142/90 dello Stato Italiano vengono definite 10 aree metropolitane tra cui quella milanese. Anche in questo caso però “…l’interesse della classe politica e della cultura politica italiana si è consumato soprattutto sugli aspetti di rappresentanza e si è invece rapidamente attenuato e poi dissolto di fronte alle molte difficoltà d’innovazione organizzativa implicite nelle non cristalline formulazioni della legge.”In altre parole, vennero fissati unicamente dei parametri, in funzione dei quali può legittimamente “presumersi” l’esistenza di un area metropolitana, senza peraltro che questo nuovo livello amministrativo si ancorasse all'esercizio di alcuna effettiva competenza.
Come accennato anche nell’occhiello, quello di cui abbiamo riportato due paragrafi, e che si allega di seguito in versione integrale, non è quanto si definisce di solito un “saggio critico”. I due Autori, Edoardo Bazzaco e Matteo Origoni, “sociologo e architetto, amici e milanesi” come si definiscono nella lettera a cui hanno allegato il testo, lavorano e fanno ricerca da anni a Barcellona, e hanno concepito questa articolata compilazione di fatti e punti di vista per riassumere una vicenda complessa a un pubblico che forse ne ha percepiti solo alcuni (parziali e sostanzialmente scandalistici) echi. Il limite del testo sta esattamente nel suo pregio principale, ovvero la concisione, del percorso come dei riferimenti, che necessariamente conduce a schematizzazioni che chi ha approfondito i moltissimi aspetti toccati non potrà fare a meno di giudicare parziali.
Nondimeno si tratta di un testo complessivamente di valore, che giustamente gli Autori hanno ritenuto potesse interessare anche il pubblico italiano, a cui viene proposto dalle pagine di eddyburg.it (f.b.)
Il problema dell’area urbana milanese è la mancanza di programmazione e pianificazione: sono state consentite le più spericolate iniziative immobiliari e si sta ipotecando gravemente il futuro della città. Per contrastare lo strapotere politico e amministrativo di Milano, dovremmo moltiplicare gli sforzi verso la formazione di un’area metropolitana fortemente radicata come istituzione. Fabbisogno di abitazioni, case popolari per italiani e stranieri in quartieri integrati e accoglienti, rilancio di una Milano produttiva (innovazione, scienza e cultura), cura per l’ambiente: questa è l’agenda politica da porsi. Nell’assenza di tutto ciò si materializza la candidatura per l’Expo 2015. La tentazione di rispondere “no” è forte, per la paura, fondata, di trovarsi in un meccanismo in cui dinamiche finanziarie, soggetti attuatori e destino dell’area dopo l’esposizione siano poco chiari.
Ma l’ipotesi di una vittoria di Milano ha il suo fascino, nella speranza di migliorare la qualità della metropoli. Preferisco quindi avanzare proposte concrete per modificare, orientare e in qualche caso capovolgere l’ipotesi di partenza di Expo 2015. Le aree interessate dovranno comprendere anche proprietà del Comune per partecipare con forza alla definizione di obiettivi e trasformazioni. La destinazione post-Expo dovrà essere chiaramente orientata a sviluppare residenze per giovani coppie, studenti e cittadini stranieri. Va diminuita la prevista quantità di capannoni usa e getta e quelli temporanei non dovranno contribuire ad intasare discariche ed inceneritori. Va aumentata la quantità di aree verdi ed invece della faraonica proposta di una nuova via d’acqua si pensi ad interventi di recupero dei tracciati storici della Martesana e della Cerchia. L’ennesimo grattacielo proposto come dono al Comune (a cosa servirà dopo l’Expo?) sia sostituito con interventi per la ricerca scientifica. L’area prescelta, ritagliata tra le infrastrutture, merita almeno di essere assistita da interventi di ricucitura della trama urbana come ponti verdi, superamenti delle barriere, percorsi pedonali, ciclabili...Non possiamo essere certi di riuscire a modificare radicalmente l’impianto ma un buon primo passo sarebbe evitare i poteri speciali di Commissario al sindaco.
Un’ultima considerazione: in Provincia giace, dimenticato, il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale. E se fosse quest’ultimo a proporre coerenze e fattibilità dell’Expo 2015 nell’ambito della pianificazione di scala vasta, suggerendo anche il destino dell’area nel caso in cui vinca Smirne? L’Expo si realizzerà su un’area agricola su cui, come su tutte le altre con questa destinazione, una parola importante spetta proprio alla Provincia di Milano.
(Antonello Boatti, architetto, Sinistra Democratica)
postilla
A proposito dell’ultima considerazione, che a ben vedere rappresenterebbe in qualunque contesto da paese civile un’ovvietà e un presupposto irrinunciabile, forse va osservato l’orientamento prevalente provinciale in termini di pianificazione territoriale, così come emerso dalla recente vicenda del Cerba, ovvero di proporre - anche se molto meno sfacciatamente – anche a scala metropolitana un modello non dissimile da quello urbano milanese, secondo cui il tutto si costruisce con la pura e semplice somma delle parti, e dove gli interessi “grandi” (a volte verniciati di generalità) prevalgono su quelli collettivi, di lungo periodo, a volte anche dell’ambiente. Si spera che quella del centro ricerche rappresenti una vicenda unica e circoscritta, ma si teme ahimè che non sia, non possa essere così. Il contesto, come dimostra anche il recentissimo caso di “ emendamento Boni”, non appare favorevole all’approccio ragionevolissimo e di rilancio in positivo proposto da Antonello Boatti. Naturalmente con la costante speranza di essere smentiti. Sul medesimo tema Expo, si vedano qui anche gli interventi di Giuseppe Natale e Marco Cipriano (f.b.)
É sconcertante e, per molti aspetti, inquietante l’intervento di Marco Cipriano, consigliere regionale di Sinistra Democratica ( Un Expo possibile, pagina milanese del Manifesto del 2 dicembre scorso). Tutto subalterno allo stato di cose esistente. Non un cenno al pensiero unico che ha benedetto la candidatura di Milano e ne ha condiviso forma e sostanza. Il presidente della Provincia Penati si è addirittura attribuito una delega specifica Expo!? Non è da considerare disgraziata la città che punta le sue carte su un evento esterno (soprattutto nel senso di alterdipendente), come panacea ai suoi mali? E se la candidatura non verrà accolta? Perché non si entra nel merito della questione?
Cerchiamo di aprire gli occhi. Lo sanno tutti. Il progetto di candidatura di Milano a Expo 2015 è segnato inequivocabilmente ed irrimediabilmente (se non si organizza una seria opposizione e una seria alternativa) dal dominio della rendita e della speculazione immobiliare e finanziaria.
Conferma e porta avanti, con prepotenza ed arroganza (le critiche e le opposizioni anche giuridiche dei comitati di cittadini non contano niente: tolleranza zero!), i grandi ed orrendi interventi urbanistici (Fiera, Isola/ Garibaldi/Repubblica, Santa Giulia, Magneti Marelli e Cascina San Giuseppe, Porta Vittoria, il colosso cementizio del Cerba assieme alla Provincia, ecc.), il demenziale piano dei parcheggi che sta sventrando anche le zone archeologiche della città, la prevalenza delle strade e della gomma e del mezzo privato nel sistema della mobilità (riconferma dell’autostrada urbana “Gronda Nord”, tangenziali, Brebemi, ampliamenti degli accessi autostradali alla metropoli, ecc.). Riusciamo ad immaginare gli effetti disastrosi sull’ambiente e sulla qualità della vita urbana?
Anche di fronte ai cambiamenti climatici, siamo sicuri che si arrivi al 2015 “sani e salvi”, se non si interviene subito sull’attuale situazione di congestione degrado e crisi ecologica con progetti e piani che avviino un radicale cambiamento del modello di sviluppo e delle forme di governo metropolitano e sovracomunale?
Convinto della bontà in sé dell’evento fieristico e mercantile, Cipriano arriva addirittura a proporre una “legge di scopo: pensata solo e soltanto per l’Expo”: una vera e propria aberrazione! E’ una bella trovata per dare un’altra mano al rafforzamento del progetto del centro-destra, di Moratti e Formigoni!
L’ultima chicca arriva dall’affermazione finale di Cipriano che santifica l’Expo come “un’opportunità per rilanciare la città metropolitana: una città ridisegnata (dai cementificatori?), rinnovata, vivibile per chi la abita e fruibile per chi la frequenta”. E’ l’ennesima ritualistica invocazione general generica che viene ripetuta da almeno un trentennio. Vogliamo davvero mettere con i piedi per terra la questione della democrazia urbana e della partecipazione protagonistica dei cittadini (in particolare di quelli più consapevoli ed attivi e critici che operano nei comitati, nelle associazioni, nelle organizzazioni no profit ecc.)?
Si scoprirebbe allora che è da mettere in discussione il moloch del Comune unico di Milano, che comanda in modo autocratico; che danneggia le sue periferie e le sue circoscrizioni e i centri urbani dell’area metropolitana; che sminuisce e nullifica i compiti della Provincia, vaso di coccio tra il colosso Milano e lo “stato” Regione; che costituisce il vero ostacolo allo sviluppo della democrazia urbana e a quello economico sociale civile culturale dell’intera area metropolitana.
Perché non si prende l’iniziativa di attuare la Costituzione proponendo l’istituzione della Citta Metropolitana, come forma di governo sovracomunale e abolendo la Provincia di Milano e quella istituenda di Monza/Brianza? Perché non si contrasta la proliferazione di enti, fondazioni, agenzie, società miste che formano ormai una specie di giungla in cui i beni pubblici e i beni comuni vengono sbranati da interessi privati grandi e medi e piccoli e da clientele politico-partitiche?
Non voglio credere che le posizioni della Sinistra Democratica sull’Expo coincidano con quelle espresse da Cipriano. Perché non dare credito al Comitato NoExpo che per primo ha saputo porre la questione in chiave critica aprendo positivi spazi alternativi? Occorre riprendere ed allargare, fuori dai recinti degli addetti ai lavori e dei soliti noti e dalle liturgie ideologiche e partitiche, un dibattito serio ed approfondito, uno scambio di idee, conoscenze e proposte per arrivare a decidere che fare.
Giuseppe Natale, è promotore del Comitato per la Città Metropolitana
Egregio dottor Penati, noi alunni della 3a C della scuola media Verdi di Corsico abbiamo appreso delle intenzioni di diversi Comuni e della Provincia di ampliare gli insediamenti del Parco Sud. Noi ragazzi proveniamo sia da Corsico che da Buccinasco. L’area di Corsico è ormai quasi completamente urbanizzata, a Buccinasco ci sono ancora spazi abbastanza ampi destinati all’agricoltura, con belle cascine e borghi ricchi di storia.
Ampliare ulteriormente l’area urbana milanese ci sembra poco saggio considerando che, come ci dicono le statistiche, a Milano e dintorni si respira la peggiore aria d’Europa e una delle peggiori al mondo. Abbiamo studiato durante le ore di geografia che la riduzione dei suoli agricoli sarà uno dei più gravi problemi che l’umanità dovrà affrontare in futuro assieme alla carenza di acqua potabile. Questo patrimonio si sta perdendo. Per noi è un piacere ritrovarci, con pochi chilometri di bicicletta, in aperta campagna, a volte sembra un sogno. Voi governanti dovreste pensare più spesso a noi ragazzi e al nostro futuro. Le chiediamo di avere un po’ di coraggio e lasciarci in eredità un campo di grano e di riso, la bellezza e l’armonia della natura.
Nota: tra i vari esempi di forte ridimensionamento della greenbelt metropolitana nel Parco Sud Milano, su queste pagine si è descritto con qualche particolare quello del CERBA ; all'indifferenza dell'amministrazione comunale milanese, in linea col resto d'Italia, per l'ambiente e un'idea di città non coincidente con la valorizzazione immobiliare, è dedicato anche l'ultimo Eddytoriale (f.b.)
Non so se se vi è mai capitato, vedendo certe ambulanze che caracollano nel vuoto totale, magari notturno, a sirene spiegate, di chiedervi qual è il loro bilancio sanitario. Ovvero, se con tutto quel dispiegamento di decibel non facciano molti, ma molti, più danni alla salute di chi si trova a portata d’orecchio, di quanto vantaggio portino al tizio che sta chiuso là dentro in barella, o aspetta da qualche parte che l’ambulanza arrivi a prenderlo. E sottolineo: mi riferisco alla sirena spiegata nella notte, o nel vuoto pomeriggio di agosto. Non all’universo dei pronto soccorsi, del trasporto feriti, e compagnia bella. Figuriamoci!
Ecco, se vi è mai capitato di farvi una domanda del genere sul bilancio sanitario della sirena spiegata al popolo, forse potrebbe sorgere un dubbio simile anche di fronte a un altro aspetto, diciamo più raffinato, della medesima questione: il trasferimento dei diritti alla salute. Succede, ad esempio, col progetto del CERBA (Centro Europeo di Ricerca Biomedica Avanzata), città della scienza che secondo il suo mentore e promotore Umberto Veronesi “non può aspettare i tempi della politica” [1]. E figuriamoci se non siamo d’accordo un po’ tutti, sia sul ruolo di punta della ricerca del professor Veronesi, sia sulla necessità che questa ricerca si svolga in spazi adeguati, attrezzati, modernissimi, delle dimensioni necessarie. Le quali dimensioni necessarie, guarda caso, coincidono con “le aree messe a disposizione da Salvatore Ligresti nel Parco Sud” [2]. Ma va?
Un punto di vista, quello del “non poter aspettare i tempi della politica”, a quanto pare condiviso dalla politica stessa, che ad esempio nella persona dell’Assessora provinciale all’Ambiente, Bruna Brembilla (e Presidente del Parco greenbelt) non ha alcun dubbio nel dichiarare che “La nostra capacità di governo si esprime attuando questo ambizioso progetto, in armonia con il bene comune rappresentato da natura e ambiente del Parco”.
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Una bella sfida, questa di realizzare una “armonia” facendo atterrare in un campo arato superfici di tutto rispetto (più di 60 ettari), e volumetrie per niente trascurabili e indispensabili, oltre a pesanti per quanto “compatibilizzati” interventi alle infrastrutture (si calcola una presenza quotidiana di 15.000 persone, e il solo centro ricerca ha una superficie complessiva di 60.000 mq). Il tutto, in una zona per niente trascurabile in quanto a ruolo territoriale.
Le famose aree “messe a disposizione da Salvatore Ligresti”, oltre che più grosse ad esempio di tutta la superficie brownfield della Bicocca per citare un famoso paragone locale, non si collocano né in una fascia tutto sommato di urbanizzazione consolidata, né in una posizione neutra. Basta a questo proposito usare quello strumento di democrazia geografica che è Google Earth, per rendersene conto. Siamo nell’estremità meridionale del territorio comunale di Milano, quasi ai confini con quello di Opera, e anche dall’arteria principale (le ultime propaggini della via Ripamonti, che si appresta a diventare il tratto metropolitano della Statale 412 Valtidone per l’Oltrepo pavese-piacentino) si inizia a notare la discontinuità fra l’insediamento compatto e quello che un po’ oltre l’abitato di Noverasco e il tracciato della Tangenziale diventerà il corpo principale del parco di greenbelt agricola.
Per dirla con parole parecchio più povere, dopo il corridoio di asfalto e cemento ininterrotto della periferia milanese, che prosegue fino al capolinea tranviario oltre il vecchio borgo dell’Assunta abbondantemente ingollato da tutto il resto, qui si inizia, anche se con qualche discontinuità, a respirare. Una discontinuità che si nota anche scorrendo le tavole del piano di coordinamento del Parco Sud, dove appunto qui la retinatura delle zone in qualche modo aperte diventa più rarefatta, le campiture da continue si fanno sfrangiate, diventano cunei, strisce, fino ad esaurirsi contro la città compatta che la greenbelt è chiamata a rintuzzare.
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Le cinture di verde agricolo, che si chiamino Greenbelt, o Urban Growth Boundaries, che si tratti di scelte locali o di politiche nazionali di più ampio respiro, sono da sempre oggetto di discussione. Si favoleggia che la prima indicazione tecnica venga addirittura da Dio in persona, il quale con la riconoscibile voce tonante avrebbe dettato dal cielo che c’è un posto per le case, uno per la campagna, e un altro intermedio fra di esse [3]. Più nota e moderna l’indicazione di Ebenezer Howard e del successivo movimento per le città giardino, evoluto poi sino alla contemporanea pianificazione territoriale, secondo cui a evitare la crescita omogenea e compatta delle grandi aree urbane, vanno riservate a verde, con funzioni agricole e/o di tempo libero, ampie corone e cunei liberi. È un salto concettuale, rispetto al verde urbano ottocentesco, inteso soprattutto come passeggio, servizio locale, spazio pubblico sociale complementare alla piazza. Qui si toccano anche temi ambientalmente più vicini alla sensibilità di oggi, come ad esempio la relativa autosufficienza alimentare dei bacini territoriali, o in generale un’idea di pianificazione del territorio che scavalca di gran lunga il coordinamento delle opere pubbliche di un Haussmann, o anche le finalità estetico-sanitarie del primo Olmsted.
Ma pur con tutte queste alte premesse, qui non bisogna dimenticarsi che siamo di fronte alla medesima amministrazione comunale che col suo sindaco precedente (tanto per ricollegarsi a Olmsted) ha definito Central Park una manciata di alberelli piantata all’ombra di mastodontici grattacieli. Una sofistica da oratorio, visto che nessuno può negare che anche quella roba sia un park, e che senza dubbio sia molto central, come dimostrano i valori immobiliari di quei grattacieli ... In definitiva lo stesso modo di ragionare piuttosto sbrigativo che emerge anche nel caso del progetto CERBA, accettato e sottoscritto in pieno non solo da Comune e Regione (amministrazioni di centrodestra), ma anche dalla Provincia (amministrazione di centrosinistra, e di passaggio anche organo garante della greenbelt metropolitana). Per cui la “capacità di governo si esprime attuando questo ambizioso progetto”, le cui ambizioni si devono realizzare lì, e non altrove: tagliando le gambe, per il momento solo in dettaglio, all’idea stessa di greenbelt, visto che le sognanti vedute a volo d’uccello dello Studio Boeri si collocano esattamente sopra una delle rare fasce di discontinuità dell’edificato urbano. Anche senza pensare a cosa poi succederà, ad esempio, alle aree lasciate libere tutt’attorno.
Ma non finisce qui, tra le frange dell’urbanizzazione (ancora) rada fra Milano sud e la Tangenziale. La greenbelt ha un respiro metropolitano-regionale, e corrispondentemente scatena spiriti animali di scala proporzionata. Lampante il serafico assessore milanese al territorio Carlo Masseroli, quando commentando la firma dell’accordo di programma per il CERBA si lasciava scappare in pubblico un eloquente “la firma di oggi è un segnale importante per lo sviluppo del Parco Sud finora bloccato e quindi non fruibile” [4]. Dove il verbo fruire forse non si riferisce esattamente ad anziani che raccolgono insalate selvatiche, adolescenti scorazzanti in bicicletta tra i filari di alberi residui, padri che tentano di mostrare ai figli un contadino in carne e ossa da raccontare ai posteri. Il fruire a cui si riferisce Masseroli è quello che si misura in metri cubi per metro quadro, e si gusta al meglio al chiuso dei consigli di amministrazione, più che tra le fastidiose umide nebbie di queste terre così mal pavimentate!
Dove il “sogno che Umberto Veronesi insegue dall’inizio degli anni Novanta” si incrocia con altri sogni inseguiti da vari altri in vari periodi, e che ad esso si sovrappongono, puntando le canne mozze della stampa di opinione contro chi, naturalmente, opponendosi a seicentomila metri quadrati di astronave scientifico-immobiliare proprio lì sopra, è un oscurantista contrario al progresso umano.
E se come ci insegna Walt Disney i sogni son desideri, chiusi in fondo al cuor, figuriamoci quanti altri sogni stanno sepolti nel cuore di tenebra del Parco Sud: la medesima fascia che un paio di generazioni fa, ci raccontavano prima Cesare Chiodi e poi Amos Edallo, vedeva le cascine svuotarsi in mancanza di una seria urbanistica rurale a scala sufficiente almeno ad attenuare il fascino delle mille luci della vita cittadina. Si vede che quei tempi – quelli dell’urbanistica rurale - non sono ancora arrivati, se i sogni di tutti i sindaci sono letteralmente esplosi da quando si è capito che la variante urbanistica per il CERBA è cosa praticamente fatta: “Sono 22 i Comuni che hanno chiesto la modifica dei confini del parco, non avendo più spazio per costruire asili, scuole, case. Confini disegnati vent’anni fa, dunque nessuno esclude l’opportunità di una revisione” [5].
Insomma, dove la pianificazione metropolitana sembra funzionare assai male, funzionano invece altri processi, opposti, di scala sovracomunale, ovvero la somma degli interessi particolari, che secondo logica (una logica a quanto pare non condivisa dalla politica attuale) non compone mai l’interesse generale.
Interessi particolari che hanno modo di irrompere, ora, proprio nella breccia aperta dal comune di Milano: perché il capoluogo si, e poniamo Rosate, o Bellinzago, no? Per dirla con Paolo Hutter, uno che di ambiente, di assessorati, di amministrazione, se ne intende abbastanza, “In via Ripamonti sembra inarrestabile la marcia del CERBA, il Centro europeo per la ricerca biomedica avanzata, come se chiedere alla struttura di esser costruita altrove, e non sui campi, fosse una mancanza di riguardo verso la sanità”.
Perché proprio lì? Perché forzare la mano, imporre un potenziale pasticcio a colpi di sogni, alti traguardi della scienza, tavole di rendering dove anche la specie di autostrada in cui si trasformerà la via Ripamonti è disegnata in verde? E dove con un trucchetto da baraccone le alture dell’Oltrepo pavese, che stanno giù decine e decine di chilometri in fondo alla statale Valtidone, spuntano per incanto più o meno al posto della Tangenziale? Concessione poetica, a fare il paio con quella edilizia.
Resta solo da sperare (c’è qualche possibilità?) che almeno il sognatore Veronesi provi a fare un ragionamento simile a quello dei medici che sino a non molto tempo fa partecipavano ai gruppi di lavoro sull’assetto del territorio: prevenire è meglio che curare. Una grande fascia di verde, continua, che comincia il più possibile vicino al cuore del capoluogo, è garanzia di una migliore qualità ambientale, baluardo contro la congestione, l’inquinamento, l’impermeabilizzazione dei suoli. E, visto come stanno andando le cose, ragionare anche per il CERBA a dimensione metropolitana (e già che ci siamo: perché non farlo più vicino a una fermata esistente del metro?) metterebbe un tappo alle rivendicazioni dei sindaci, che in effetti fuori dal loro territorio non ci possono andare e a quella prospettiva sono obbligati per contratto.
Forse c’è poco da sperare: provate voi a spiegarlo, al tizio della sirena ululante nella notte, che al mondo c’è qualcosa d’altro, oltre al tizio con la colica in barella sul retro. Ma bisogna aver pazienza, e riprovarci.
Professor Veronesi: come e dove li trasferiamo, i diritti alla salute?
Nota: per una migliore informazione storica sull’idea della greenbelt e sull’evoluzione degli insediamenti compatti pianificati sul modello città giardino, faccio riferimento al sintetico testo di Charles Benjamin Purdom;il dibattito anche aspro attuale, sulla revisione del concetto e del ruolo delle grandi fasce di verde agricolo in Gran Bretagna, è ampiamente documentato nella cartella Spazi della Dispersione, di Mall; sui temi più generali del Consumo di Suolo, c’è l’omonima cartella di Eddyburg; gli articoli citati nel testo e riportati più in dettaglio nelle note qui di seguito, sono consultabili a testo intero in una apposita Raccolta ; ancora per chiarire meglio i termini del progetto, della variante, delle varie contraddizioni, allego qui in pdf la brochure informativa ufficiale del Cerba, che contiene anche qualche dato in più sul progetto architettonico-urbanistico, e le osservazioni (sostanzialmente negative) presentate qualche mese fa dalle Associazioni ambientaliste rispetto alla proposta; altre informazioni, sia al sito del Cerba che a quello dello Studio Boeri e infine all'area Piano Regolatore del Comune di Milano e Parco Sud della Provincia (f.b.)
[1] Simona Ravizza, Veronesi: la città della scienza non può aspettare «Milano rischia di perdere l’unico centro europeo di ricerche biomediche», Il Corriere della Sera, 16 marzo 2006
[2] idem
[3] “ Le case dei Leviti situate nelle città, possono sempre venir riscattate […] I loro campi suburbani però non vadano venduti, perché sono loro possessione perpetua” (Levitico, 25, 34).
[4] Ricerca e innovazione: firmato l'accordo di programma per il CERBA, Milano-Lorenteggio News, 6 marzo 2007
[5]Stefano Rossi, Parco Sud, ventidue sindaci in rivolta "Vogliamo più spazio per costruire", la Repubblica, 21 ottobre 2007
PROGETTO “PARCO POSSIBILE”
collocato nel quartiere Isola-Garibaldi-ex Varesine;
promosso dall’Associazione Chiamamilano;
patrocinio dal Consigliere Comunale Milly Moratti,
Il presente schema di progetto, denominato “Parco Possibile”, si contrappone al progetto “Porta Nuova”, approvato recentemente dal Comune di Milano; e si pone come alternativa a quest’ultimo, non solo sotto l’aspetto della configurazione architettonico-urbanistica, ma anche sotto l’aspetto della sua gestazione, giacché esso nasce come espressione delle speranze, delle proposte, delle aspettative comunicate ai progettisti dalla popolazione del quartiere. Il Forum Isola, condotto da un tenace e coraggioso gruppo di abitanti della zona, preso atto dello sgomento suscitato nella gente del luogo dall’immane e violento progetto comunale, ha raccolto suggerimenti, notizie ed informazioni utili ad impostare lo schema di progetto alternativo che qui viene presentato.
Il progetto comunale, al contrario, non tiene in nessun conto i desideri espressi dalla popolazione locale, nonostante le ripetute (ma inascoltate) richieste di incontri e di colloqui, inoltrate agli Amministratori responsabili dai residenti della zona.
Quando questi Amministratori, e con loro gli imprenditori immobiliari interessati al progetto comunale, sostengono – per giustificare il loro scortese silenzio – che le richieste della popolazione sono fuori dalla realtà, impossibili da realizzare, del tutto utopistiche e insensate, essi mentono spudoratamente; giacché quelle richieste sono invece piene di buon senso, realistiche, ed assennate; e sono anche – fatto apprezzabile ma non abbastanza riconosciuto – pronte a prendere in considerazione tutte le ragioni della controparte, cioè del Comune e degli imprenditori.
Quali sono queste richieste? Sono quelle che da più mesi il Forum Isola e gli abitanti del quartiere cercano invano di sottoporre all’attenzione del Comune:
1a richiesta dei residenti: rispettare il giardino del quartiere.
Si richiede di conservare il giardino esistente compreso tra Via Confalonieri e Via De Castilla; giardino frequentato da bambini, da madri con neonati, da persone anziane, e in genera da abitanti del quartiere desiderosi di riposo e di ricreazione.
Nel progetto comunale il giardino viene letteralmente cancellato; viene cioè riempito di enormi ingombranti condomini tra i quali rimangono liberi soltanto piccoli appezzamenti di verde; che saranno riservati agli abitanti degli edifici circostanti, e quindi sottratti alla popolazione del quartiere.
Il progetto “Parco Possibile” tiene conto della richiesta dei cittadini e conserva intatto il giardino di Via Confalonieri, anzi ne aumenta la superficie totale, rettificandone il perimetro, e raddrizzando uno sghembo edificio triangolare che l’incoerente progetto comunale ha posto alla estremità est del giardino.
2a richiesta dei residenti: allontanare dalla edilizia esistente una minacciosa cortina di alti ed incombenti volumi.
Si richiede di non togliere la vista del cielo alle case del quartiere e di non oscurare la luce del sole, costruendo nelle immediate vicinanze edifici troppo alti e massicci; si richiede in sostanza di rispettare coloro che da anni abitano nelle case allineate davanti al giardino, e godono di una ampia veduta ancora oggi libera da costruzioni oppressive.
Mentre il progetto comunale innalza di fronte a queste case una cortina compatta di alte costruzioni e, poco distante, una coppia di altissimi grattacieli, togliendo ai residenti aria, luce e vista sul giardino; il progetto “Parco Possibile” al contrario tiene conto della richiesta dei cittadini; non colloca nessun nuovo edificio davanti alle case di Via Confalonieri, e lascia inalterata e libera la vista che dalle case di apre sul verde antistante.
3a richiesta dei residenti: prevedere meno cemento e più verde.
Si richiede di diminuire la cubatura complessiva, che nel progetto comunale è stata calcolata con indici molto più alti di quelli contenuti nel Piano Regolatore; e di aumentare la superficie destinata a verde pubblico.
La cubatura prevista dal progetto comunale raggiunge un valore quasi doppio di quella indicata dal Piano Regolatore Generale; e ciò avviene per effetto della libertà concessa ai piani particolareggiati (detti oggi piani di intervento) ai quali è data facoltà di derogare dagli indici precedentemente prefissati. La nuova cubatura ammessa nei piani particolareggiati viene concordata tra costruttori privati e Amministratori Pubblici. Non è difficile supporre che nel corso delle trattative gli Amministratori concedano ai costruttori una cubatura molto maggiore di quella prescritta, e chiedano in cambio ai costruttori generose contropartite, non sempre trasparenti.
Nel progetto “Parco Possibile”, pur auspicando che il Comune si ricreda e accetti di diminuirla, la stessa cubatura del progetto comunale viene rispettata e mantenuta; e ciò per poter fare un confronto obiettivo ed attendibile fra i due progetti; e dimostrare quanto sia diverso e migliore il progetto “Parco Possibile”, attento e sensibile alle richieste della gente, rispetto al progetto comunale, sordo ed indifferente a quelle stesse richieste.
| Il parco visto dall'alto (Corriere della Sera) |
La superficie a verde del piano comunale è molto frammentaria, poco estesa, male utilizzabile; e per giunta è interrotta da frequenti volumi costruiti al suo interno. Inoltre la superficie a verde si trova in parte collocata sulla copertura di ampi parcheggi sotterranei, dove la poca profondità del terreno impedisce la crescita di alberi di alto fusto. E’ un verde quindi che appare sulla carta ma che in realtà non esiste quasi.
Il progetto “Parco Possibile”, come appare dalle tabelle e dalle tavole grafiche qui allegate, presenta una disposizione degli edifici più semplice e razionale, ed aumenta sensibilmente l’estensione di verde destinato all’intera zona.
L’area coltivata a verde, ossia il nuovo parco, si trova sollevata di circa sei metri (l’equivalente di due piani fuori terra) rispetto alla attuale quota stradale; tale rialzo consente di far passare in gallerie le due arterie di grande traffico che attraversano oggi la zona e la tagliano in più porzioni, separate e non comunicanti. Sia l'arteria diretta est-ovest (Viale Don Sturzo); sia l'arteria diretta nord-sud (Via Melchiorre Gioia) scompariranno sotto il rialzo occupato dal parco e lasceranno indisturbata e tranquilla la grande area destinata a verde. Poiché i parcheggi richiesti dalle norme urbanistiche sono tutti collocati sotto gli edifici di progetto, nessuna struttura interrata verrà mai a trovarsi sotto il verde del parco. La profondità del terreno da coltivo sarà perciò tale da consentire la crescita di alberi di alto fusto in tutte le zone del parco, fatta eccezione per le due arterie sotterranee ricoperte da prato.
Una cortina continua di case poco alte, che circonda il parco lungo l’intero suo perimetro, ha lo scopo di delimitare e concludere la zona verde entro un margine preciso e ben visibile; e anche di nascondere la disordinata edilizia circostante e sottrarla alla vista di chi si trova nel parco. Le case sono alte tre piani fuori terra sul lato affacciato verso il parco rialzato; e cinque piani fuori terra sul lato rivolto verso le strade esterne, poste a quota più bassa del parco.
La cortina si interrompe in alcuni punti di notevole importanza viabilistica e paesaggistica. Viene aperto un varco in corrispondenza di Corso Como, sull’asse della prospettiva rivolta verso la porta neoclassica di Corso Garibaldi; un altro varco alla altezza del collegamento con il giardino di Via Confalonieri, così da formare un percorso ininterrotto che va dal verde del parco al verde del giardino; ed un terzo varco sull’asse di Viale Tunisia, in corrispondenza dell’imbocco della galleria che accoglie il traffico proveniente dal viale e lo immette sotto il parco.
Due aperture lasciate libere nella cortina di case si presentano di particolare importanza: una rivolta verso Viale Restelli: ampia, visibile, spaziosa; l’altra, meno evidente, rivolta verso Via Galileo. Dalla prima apertura, risalendo il viale verso nord e percorrendo una lunga ed ininterrotta passeggiata pedonale, si raggiunge lo spazio circolare della grande Piazza Carbonari. La passeggiata, per evitare attraversamenti di traffico motorizzato, scavalcherà, con due sovrappassi erbosi, gli incroci di Via Galvani e di Via Tonale; mentre la stessa Piazza Carbonari, convogliati in galleria gli automezzi che oggi la attraversano, diventerà un’ampia area verde, indisturbata e tranquilla, interamente coltivata a prato e ad alberi.
La seconda apertura, rivolta verso via Galilei; non è molto visibile, né particolarmente segnalata, ma di importanza vitale per creare un collegamento tra il “Parco Possibile” e il verde di Piazza Repubblica, progettato tempo fa e mai realizzato. Sono passati circa venti anni dalla data del concorso bandito per la sistemazione di questa piazza. Il concorso, vinto dagli architetti Zanuso e Chambry, proponeva la brillante soluzione di coprire la grande arteria di Via Pisani, che oggi divide la piazza in due metà non comunicanti, e di creare, al di sopra dell’arteria, una collina coltivata a prato, così da trasformare l’intera piazza in una unica superficie a verde, riparata dal traffico, protetta dai rumori, non raggiunta dall’inquinamento dei gas di scarico. Il progetto vincitore del concorso merita di essere ripreso ed integrato con il progetto “Parco Possibile”. La connessione delle zone verdi previste dai due progetti darebbe origine ad un prolungamento del percorso pedonale, in direzione sud, analogo a quello sopra descritto in direzione nord. Partendo dal nuovo parco di progetto, che già si trova sopraelevato rispetto alla quota stradale, si scavalca con una passerella Via Galilei e si raggiunge Piazza Repubblica, supponendolo già trasformata e sopraelevata secondo le indicazioni del progetto vincitore. Da qui, scavalcando con una seconda passerella i Bastioni di Porta Venezia, anch’essi sopraelevati rispetto alla quota stradale, si scende nei Giardini Pubblici; e infine, attraverso Via Palestro, si arriva al piccolo ed accogliente parco di Villa Belgiojoso. Se un simile percorso fosse realizzato verrebbe offerta non ai soli abitanti del quartiere Garibaldi-Isola, ma ai cittadini di tutta Milano, una passeggiata tutta nel verde, mai interrotta, lunga quasi tre chilometri, che dalla periferica Piazza Carbonari arriverebbe alla centralissima Via Senato.
| Veduta del Parco Isola |
La cortina di case, poco alte, allineate lungo il perimetro del parco, creano un forte contrasto volumetrico con gli unici due gruppi di grattacieli che compaiono nel progetto. Sono grattacieli non collocati a caso, come quelli del progetto comunale, ma messi in posizione strategica, perché corrispondenti a due centri nevralgici della vita cittadina: la stazione di Porta Garibaldi e la sede degli Uffici Comunali. I due gruppi di grattacieli aiutano a segnalare da lontano la presenza di questi due poli urbani e nello stesso tempo inglobano e nascondono le infelici torri esistenti; e precisamente le due torri abbinate nei pressi della stazione ferroviaria; e la torre isolata degli uffici comunali; tre costruzioni di notevole altezza ma di scarso valore architettonico, che sembrano sorte al di fuori di qualsiasi ragionevole pianificazione urbanistica.
L’area su cui far sorgere il futuro grattacielo, destinato ad ospitare gli uffici della Regione Lombardia, è stata scelta lungo Viale Restelli. Non merita citare il progetto approvato dal Comune che, nonostante la firma di un noto architetto internazionale, è uno dei peggiori esempi di architettura pubblica progettati per Milano. Sulla stessa area il progetto “Parco Possibile” prevede un edificio composto, sobrio e semplice; che cerca di stabilire una corrispondenza volumetrica con il grattacielo che gli si eleva di fronte al di là del Viale Restelli. I due grattacieli, quello futuro e quello esistente, essendo di altezza e di profilo simili, ed elevandosi nel centro di due piazze di forma e dimensione uguali, generano una stretta corrispondenza tra spazi urbani e volumi edilizi, e mantengono una intima continuità tra edilizia di ieri ed edilizia di oggi.
Vi sono due modi di inserirsi nella città. Uno di questi non presta nessuna attenzione alle preesistenze ambientali: è il modo seguito dal progetto comunale. L’altro, al contrario, tiene conto delle vicinanze, prende in esame i dintorni, stabilisce un rapporto con l’urbanistica circostante; e cerca di dare alla città una nuova configurazione più ricca e più stimolante: è il modo adottato dal progetto “Parco Possibile”.
4a richiesta dei residenti: salvaguardare la “Stecca”.
Si richiede di conservare e restaurare l’edificio della “Stecca”, divenuto in questi anni luogo di incontro, di ritrovo, di elaborazione culturale e politica. L’edificio non ha nessun valore architettonico, ma ha un grande valore simbolico, perché è vissuto dalla popolazione come centro di vita e di attività comuni, ed è oggetto di un forte legame affettivo, che comprensibilmente si vuole rispettare e salvaguardare.
Mentre il progetto comunale prevede di abbattere l’edificio della Stecca, e così facendo calpesta i desideri e gli affetti del quartiere, dimenticando che l’urbanistica non è fatta solo di ragionamenti funzionali ed economici, ma è anche alimentata da sentimenti individuali e collettivi; il progetto “Parco Possibile”, al contrario, intende conservare e restaurare l’edificio della Stecca, consapevole del grande valore ideale che esso rappresenta per l’intero quartiere.
| Dettaglio del Parco Isola |
Contro un modo di procedere insensibile e sordo (tanto abituale e caro all’Amministrazione Comunale) i cittadini della zona hanno voluto opporre una resistenza tenace, e ricorrere ad una protesta concreta e positiva. Non parole, non lamentele, non discorsi vaghi: ma uno schema ben leggibile di progetto alternativo, il progetto “Parco Possibile”. Hanno così voluto dimostrare nei fatti come si possa risanare la disordinata area esistente, e ribaltare la caotica impostazione dello scadente progetto comunale.
Nota: altri materiali e informazioni su questo progetto e il processo che intende promuovere, al sito di Michele Sacerdoti (f.b.)
23 ottobre 2007
Signori del mattone
padroni di Milano
EXPO E OLTRE La capitale dell’industria italiana è diventata la città dei mille cantieri, una metamorfosi che cambia lo skyline ma anche la mappa del potere: meno fabbriche e più immobiliaristi, vecchie volpi e nuovi arrivati. Alla fine comandano i soldi delle banche, mentre la politica resta ai margini
A Milano e dintorni molti sono in ansia, perché non è stato ancora deciso dove si farà l’Expo 2015 e la turca Smirne resta in gara, con qualche speranza a giudicare dal nervosismo che ormai regola i rapporti tra il megagovernatore Formigoni e il sindaco Moratti, tra loro e gli altri «poteri forti» della città, poco disposti a trattare con la politica.
Peggio che imbarazzante il titolo dedicato dal Sole-24 Ore di domenica scorsa ai «grandi progetti» milanesi (con paginata al seguito): «A Milano progetti da 7 miliardi a debito». La spiegazione: i cantieri di Milano nel segno delle grandi banche e degli affari.
Che sono poi principalmente IntesaSanPaolo e Unicredit (e, in coda,le altre). Tutto noto. Ma il riassunto di quei progetti gridato così in prima pagina dall’organo confindustriale, mentre sta iniziando la visita dei commissari della Bie che dovranno decidere se promuovere o meno la candidatura milanese, quel "debito" grosso grosso sbattuto in faccia non mettono certo allegria tra i partigiani di Milano internazionale. A meno che non si legga la sortita di Ferruccio De Bortoli come una perorazione: dateci l’Expo, altrimenti...
L’Expo significa tanto: per Milano è ovvio, ma anche per il destino politico della signora Moratti, ambiziosa controparte dello stesso presidente regionale nella scalata al dopo-Berlusconi, e soprattutto per la sorte dei "nuovi immobiliaristi milanesi", che non sono gli speculatori degli anni sessanta, quelli del "rito ambrosiano", quelli dei palazzoni costruiti in deroga al piano regolatore e poi "regolarizzati" dalle varianti su misura allo strumento urbanistico.
In gara oggi (ma in realtà dentro una sorta di oligopolio collusivo) nella spartizione della città ci stanno altre figure, di ben altro peso, in felice sintonia con il sistema bancario italiano, figure che non hanno bisogno di infrangere le regole e di rubare sul cemento: le regole dopo dieci anni di giunta Albertini e un anno di giunta Moratti, dopo undici anni di Formigoni, si fanno secondo il principio che è il mercato a dettarle. Dal momento che siamo tutti "liberisti" e che fermare o condizionare l’invasione del mattone potrebbe apparire poco moderno e contro lo "sviluppo".
L’Expo 2015 sarebbe una tavola imbandita per le migliore forchette, tra immobiliaristi e costruttori, ma anche tra bancari, assicuratori, famiglie di vecchia ricchezza, eccetera eccetera. Un esempio, per spiegare le attese molto concrete: la delibera del consiglio comunale che tocca l’accordo del 19 luglio scorso per la concessione in diritto di superficie al Comune di Milano di 1.280.000 metri quadrati di terreno, metà di proprietà della Fondazione Fiera Milano, l’altra metà della famiglia Cabassi, al confine con la nuova fiera di Rho-Pero. Un’area brulla. Il Comune se ne servirà, per ospitare strutture e servizi utili all’Expo 2015, permanenti, ma anche temporanei.
Chiusa l’Expo, qualcosa resterà al Comune (55 mila metri quadri) e qualcosa resterà in piedi (come una grande torre-simbolo dell’Expo), molto verrà demolito (a spese del Comune) per restituire ai legittimi proprietari (alla famiglia Cabassi e alla Fondazione Fiera cioè alla Compagnia delle opere) quel ben di Dio ripulito, aggiustato e dotato di ogni confort (cioè delle più copiose infrastrutture: autostrada, metropolitana, ferrovia, aereoporto) per destinarlo alle più belle imprese immobiliari. Naturalmente l’amministrazione comunale vigilerà e deciderà al momento buono. Intanto la bacchetta magica dell’Expo trasformerebbe una distesa incolta in una gigantesca opportunità di cemento e rendite, riservando naturalmente, siccome siamo tutti ambientalisti, la metà dell’area a verde, verde che poi, al momento, si può anche rivedere e magari tagliare e "contare" come nel grande progetto, questo nell’area della vecchia Fiera, di CityLife, dove secondo la tradizione, nella somma entrano le aiuole spartitraffico e i giardini condominiali. Quello che secondo l’ex sindaco Albertini, autentico padre amministrativo dell’operazione CityLife, sarebbe dovuto diventare il Central Park di Milano, alla fine contrapporrà la miseria di 12 ettari ai quattro milioni di metri quadri di New York, dodici ettari spezzettati appunto tra aiuole, marciapiedi, condomini.
CityLife si riconosce facilmente, è già entrato prima che si sia alzato di un metro nel cosiddetto immaginario collettivo dei milanesi e soprattutto nella protesta collettiva: è il progetto dei tre grattacieli, di Arata Isozaki, di Zaha Hadid e di Daniel Libeskind (l’architetto di Ground Zero), che l’assessore alla cultura Vittorio Sgarbi giudicò con il suo colorito linguaggio: "Tre cessi senza forma e senza figura".
In realtà il confronto, malgrado i prestigiosi architetti in gara, al momento della scelta è stato soprattutto tra cordate. Contro quelle di Pirelli e Unicredit (con Renzo Piano) e di Risanamento, Fiat Engineering, Astaldi, Ipi (con Rafale Moneo, Frank O. Gehry, Norman Foster, Cino Zucchi, eccetera eccetera), ha vinto quella internazionale di CityLife, composta da Generali Properties, Ras, Gruppo Lar Desarollos Residenciales, Lamaro e, infine, Progestim e cioè Fondiaria Sai e quindi Salvatore Ligresti.
Sono stati loro a presentare l’offerta più alta per l’acquisto dell’area:dalla base d’asta di 300 milioni di euro sono saliti fino a 523 milioni di euro. Tanto investimento fa intuire sogni d’oro, che per tradursi in realtà chiedono soprattutto volumetrie prestigiose.
Pazienza se significheranno inquinamento, congestione e persino ombra e ristagno d’aria (come ha denunciato uno dei tanti comitati in lotta). La solita "licenza" consentirà, infatti, di raddoppiare l’indice di edificabilità della zona: dal consueto 0,65 mq/mq (quello previsto a Milano per i nuovi progetti sulle aree dismesse) a 1,15 mq/mq. Conseguenza: quasi un milione di metri cubi edificabili. Visto che il valore di un terreno è direttamente proporzionale al suo indice di edificabilità sembra piuttosto evidente quale business speculativo possa celarsi dietro uno sfruttamento tanto intensivo del nuovo quartiere fieristico.
Con CityLife è tornato sulla prima linea dei mattoni Salvatore Ligresti: era un re dei mattoni negli anni gloriosi di Craxi, prima di diventarlo anche tra le assicurazioni. Ma il ritorno dell’ingegnere di Paternò rivela il meccanismo, cioè la mano pesante dei "poteri forti".
Nella deregulation milanese all’insegna del mercato, una regola almeno non può mancare e la sta dettando il vecchio democristiano manuale Cencelli, che diventa il "vero" piano regolatore. La città si ridisegna per "cordate": se la Fiera va a Ligresti, la Fiat entra all’Om, Zunino si prende Montecity (con il nuovo quartiere Santa Giulia), la Bicocca va a Pirelli, il gruppo Hines (con una straordinaria mobilitazione di banche, da Intesa a Unicredit, Mediobanca, Banca Popolare di Milano, Montepaschi, Antonveneta...) si insedia nell’affare più clamoroso quello che riguarda le aree Garibaldi-Repubblica-Isola-Varesine, cioè un agglomerato, una sorta di spina nel cuore di Milano, di grande accessibilità (metropolitana più treni e passante ferroviario).
Più tutto il resto, cioè una miriade di interventi di minor peso, che avrebbero consentito in una coraggiosa pianificazione urbana di non buttar risorse, che non sono infinite per quanto generose, le aree dismesse, le aree libere di industrie, che si contano (o si contavano, ormai) nella iperbolica misura di sei milioni di metri quadri. Interventi che si chiamano Manifattura Tabacchi (accanto alla Bicocca, ancora Ligresti), Cartiera Binda (Alzaia Naviglio Pavese), Marelli-Adriano (verso Sesto San Giovanni, cioè a nord), la ex Motta o la ex Osram. Una nomenklatura in perdita dell’industria milanese, fino agli anni settanta, che serve ora a ridisegnare in forma terziaria e residenziale (di lusso) la città, con poche eccezioni di peso sociale e culturale, ovviamente in ritardo, come la Biblioteca europea di Porta Vittoria. Più le piccole speculazioni, che si chiamano parcheggi sotterranei o che si chiamano sottotetti recuperati e rialzati, fino davvero a cambiare il paesaggio urbano, guardando dall’alto verso il basso: quasi seimila interventi contati tra il 1999 e l’anno scorso.
Nel corso di un decennio soffitte e solai, depositi di roba vecchia, sono diventati 800 mila metri con una destinazione d’uso, quella residenziale, assai pregiata in una città come Milano, in vetta nella classifica dei costi per le abitazioni: si calcola che siano state mobilitate risorse per un miliardo, che il valore immobiliare di quei sottotetti sia salito a due miliardi e mezzo o tre, che il Comune infine abbia raccolto in oneri di urbanizzazione 140 milioni di euro.
Non sono briciole anche di fronte a quanto di clamoroso è già accaduto (alla Bicocca, alla Bovisa, all’ex Portello) e sta accadendo altrove e soprattutto nell’area che fu Montecity a Rogoredo e nella zona frammentata tra le ex Varesine, la stazione Garibaldi e l’Isola. Aree infrastrutturate, semicentrali o centrali, strategiche rispetto alla città e rispetto a una idea di qualità urbana dettata dalla qualità della vita di chi dovrebbe abitarla.
(1-continua)
28 ottobre 2007
A Rogoredo, periferia industriale di Milano, a sud est, sorgerà Santa Giulia, mega quartiere di lusso progettato da una star dell'architettura contemporanea, Norman Foster, l'impresa più cospicua immaginata, tentata e avviata nel capoluogo lombardo da Risanamento Spa. Cioè da Luigi Zunino,una delle ultime stelle del firmamento nazionale del mattone e del cemento,piemontese, con alle spalle una tradizionalissima famiglia di vignaiuoli, un cinquantenne dal fisico asciutto che esprime severità, a capo di una impresa che capitalizza 1,7 miliardi di euro con un patrimonio immobiliare, in tutta Europa, che ne vale 2 e mezzo miliardi. Assai schivo,ha sempre tentato di schivare, talvolta incrociandoli, gli immobiliaristi della sua generazione e ha sempre coltivato rapporti con le banche.
Si dice ad esempio della sua amicizia Con l'ex presidente di Mediobanca,Gabriele Galateri di Genola. Dentro Mediobanca ha messo assieme un pacchetto che sfiora il quattro per cento. Nel mondo del credito, gli appoggi li trova soprattutto in Banca Intesa, che è il primo finanziatore di Santa Giulia: 726 milioni di euro per costruire le abitazioni di lusso del nuovo quartiere. Santa Giulia è appunto molta residenza di lusso, pochissima residenza convenzionata in affitto,molto terziario e due perle: un centro congressi e un grande parco, purtroppo diviso a metà dalla statale Paullese, una superstrada.
Per il Comune sarebbe dovuta diventare la nuova porta di Milano aperta sul Sud lombardo. Peccato che l'edificio in questo senso più simbolico, l'edificio pubblico, cioè il Centro Congressi, sia stato collocato sul fronte opposto della stazione del passante ferroviario (l'asse appunto di collegamento tra Nord e Sud Milano) e della metropolitana, a ottocento metri di distanza: la vera "porta", immediatamente raggiungibile con i mezzi pubblici, sarà la sede di una società privata, Sky di Rupert Murdoch, in omaggio alle enormi rendite fondiarie differenziali che saranno determinate dall'irripetibile posizione dell'insediamento.
Ma non sarebbe l'unico colpo alle ambizioni simboliche e civili di Santa Giulia, perchè il centro congressi da ottomila posti che stava tanto a cuore al sindaco Albertini (alla firma della convenzione con Zunino nel 2004) sta subendo un attacco da un altro fronte, quello della Fondazione Fiera di Milano, che non sapendo bene come utilizzare le strutture del Portello (l'edificio a ponte, un po' tempio greco, disegnato da Mario Bellini, sede provvisoria in attesa che venisse completata l'opera monumentale di Pero) s'è fatta venire la brillante idea di un centro congressi.
Entusiasta la Moratti, perplessi molti altri: che fare di due centri congressi di enormi dimensioni, come se Milano fosse un congresso via l'altro. "Improvvisazione", commenta Marilena Adamo, capogruppo Ds in consiglio comunale. Zunino pare non abbia fatto una piega, il centro congressi lo fa a spese sue, 62 milioni, "contributo oltre gli oneri di urbanizzazione". Quello della Fiera di milioni ne costerebbe quaranta. Chi pagherebbe? Ma la vera tragedia, rivelata dal conflitto dei centri congressi, è quel vento di casualità che regola la politica urbanistica a Milano, casualità che è vuoto di regole e di disegni, soprattutto di quello che si dovrebbe definire con orribile espressione "disegno organico" della città, del suo rapporto con la provincia (che ne fa una metropoli estesa di oltre quattro milioni di abitanti) e con la regione.
Niente. Cancellato come figlio del demonio comunista il piano regolatore, si sono inventati parzialissimi strumenti di un'urbanistica a richiesta: si fa quel che il padrone comanda."Milano e l'area urbana: una conurbazione senza governo", ha scritto l'urbanista Antonello Boatti in un prezioso volume, che rifà la storia, anche recente, di Milano, dei suoi piani e anche delle possibili alternative alle scelte affaristiche ("Urbanistica a Milano", Città Studi). "Un'urbanistica - spiega Basilio Rizzo, uno dei più combattivi consiglieri d'opposizione – che costruisce le sue regole sulla base di quanto pretende il mercato immobiliare". Forse perchè alla resistenza dei vincoli, poco sensibili ai mutamenti, s'è preferita la via della flessibilità attraverso la collaborazione tra pubblico e privato?
Secondo Roberto Camagni, docente di economia urbana al Politecnico, "non esiste collaborazione tra pubblico e privato, s'è imposta piuttosto una specie di collusione a spese della città". Un esempio? Scegliendo il progetto CityLife per l'area Fiera, l'amministrazione comunale non ha scelto il miglior progetto, ma quello che pagava di più per l'area: quasi mezzo miliardo di euro incassati da una Fondazione, proprietaria dell' area e istituzione di diritto privato,nata dalla trasformazione di un ente morale che aveva ricevuto quei terreni a prezzi simboliciproprio in ragione delle sue funzioni pubbliche. Al "pubblico" oggi che cosa andrà?
Non è finita, naturalmente, e non sarebbe neppure finita con il mosaico, che va tra le ex Varesine e l'Isola, cioè quel quartiere popolarissimo che sorge per chi viene dal centro al di là dei binari ferroviari,conl'aggiunta di Melchiorre Gioia. Solo per una parte, all' Isola, siamo nel campo delle aree dismesse. Le ex Varesine, ex scalo ferroviario, un'area dismessa lo sono da tempo immemorabile, teatro dei più svariati progetti mai realizzati o interrotti (come il più ambizioso progetto del dopoguerra, quello del vicino Centro direzionale). Dal lato opposto si è disboscato un'antica serra, stracarica di vegetazione: ma proprio qui il governatore Formigoni voleva il grattacielo della "sua" Regione e nessuno è stato in grado di fermarlo, non ovviamente gli ambientalisti abbarbicati (letteralmente) alle piante, non banali considerazione circa il traffico e l'insostenibilità della futura concentrazione, non certo la politica, assai distratta in nome dello "sviluppo".
A nessuno è venuto in mente che il grattacielo della Regione, poteva salire anche a Pero, ad arricchire di opportunità la nuova fiera, che non vive certo giornate di gloria e di sovraffollamento. Più di Formigoni, i protagonisti dell'impresa tra le ex Varesine e l'Isola sono le banche (l'intero arco nazionale da Unicredit ad Antoveneta), un fondo pensioni texano con la sua propaggine italiana (Hines) e, di nuovo, Salvatore Ligresti, che avevano incontrato all'inizio,dopo gli anni di tangentopoli e dopo una lunga operosità senza clamori (festeggiata con l'ingresso nel patto di sindacato del Corriere della Sera: come si spiegano certi entusiasmi giornalistici). Hines, rappresentata in Italia da un giovane architetto, Manfredi Catella, e Ligresti faranno ametà, su aree un po' loro un po' pubbliche (quelle centrali, più pregiate,masi farà il baratto), per costruire la Città del Moda, vecchissima idea, che risale ai tempi ruggenti dei sarti milanesi, ancora residenza, grattacieli, uffici, alberghi e persino la Biblioteca degli alberi, cioè il parco centrale. Indicativo che Manfredi Catella si sia generosamente offerto di ospitare nel "mosaico"delle ex Varesine il nuovo centro di produzione Rai:evidentemente non sanno già che fare di tutto il terziario che vogliono edificare.
Il costo complessivo sarà di due miliardi e mezzo. Il "mezzo" almeno lo dovrebbe mettere la Regione Lombardia per il suo grattacielo. Dalle banche (per l'intervento Garibaldi Repubblica) arriveranno intanto 464 milioni. Poi si vedrà. Hines spera di vendere a sette/ ottomila euro al metro quadro. Popolare, insomma. Anche in questo caso all'opera si sono prestati architetti di fama internazionale, come Cesar Pelli. Dopo stagioni di brutture moderniste,Milano si affida alle "grandi firme" per dar credito ad operazioni, che per essere importanti e belle mancano sempre di relazione con la città: sono episodi dettati dalla percezione del vantaggio privato più che da un' idea di città. Si costruiscono frammenti, magari ricchissimi, a prescindere da ciò che sta attorno: strade, case, funzioni, persone. Mentre il "pubblico" batte in ritirata. In tutte le città del mondo il "pubblico", cioè la pubblica amministrazione, è operatore attivo: per progettare, controllare, guadagnare. Forse per questo le altre città (da Berlino a Parigi) crescendo diventano più belle.
"A Milano - racconta Milly Moratti, consigliere comunale – manca il rispetto per la storia e manca la strategia per il presente". Manca tutto: "Viviamo tra i momenti peggiori di questa città. Nell'assenza di una visione d'assieme, si premia l'iniziativa dei singoli e la speculazione avanza e non c'è neppure più bisogno di tangenti". Chi comanda?" Ho la sensazione che non comandi nessuno. Se qualcuno comandasse, si leggerebbe un disegno coerente. Comanda un intreccio di interessi. Sicuramente non comanda il consiglio comunale espropriato delle sue funzioni: non ci arriva mai nulla da discutere. Tutto procede a colpi di mano. Facciamo il caso della Regione, che paga un istituto, l'Arpa, per dirci quanto l'aria di Milano è inquinata. Dopo di che la stessa Regione costruisce la propria sede in uno dei luoghi più congestionati e inquinati di Milano, rinunciando a qualsiasi tentativo di decentrare funzioni e uffici". "La città è in vendita" è la conclusione di Milly Moratti. Nessuno comanda. Qualcuno però comanda più degli altri.
(2-fine. La prima puntata è stata pubblicata il 23 ottobre)
La Repubblica, 21 ottobre 2007
Zone verdi in cambio del cemento Regione e governo: sì alla legge
di Davide Carlucci
Prima di costruire, garantire un' area verde equivalente a quella che diventa edificabile. è la "compensazione ecologica preventiva" che Legambiente e alcuni studiosi del Politecnico, tra i quali Paolo Pileri e Arturo Lanzani, lanceranno a Milano, il 7 novembre, come legge d' iniziativa popolare. Per scoraggiare la moltiplicazione dei cantieri in un' area, come l' hinterland milanese, dove si sta per raggiungere - e in molti casi si è già superata - la soglia tollerabile di consumo di suolo, con punte di urbanizzazione superiori al 70 per cento del territorio. L' idea raccoglie plausi già in entrambi gli schieramenti. Piace ad Alfonso Pecoraro Scanio: «Si può rilanciare da Milano un' azione che sconfigga le lobby del cemento presenti anche nel governo». Il ministro dell' Ambiente lancia anche un appello ai parlamentari lombardi: «Costruiamo un fronte bipartisan per chiedere più risorse per i parchi urbani e nelle cinture». L' occasione è la Finanziaria, dove «abbiamo introdotto una norma che stanzia, a questo proposito, 150 milioni di euro». L' altra strada è la legge sulle compensazioni, che convince anche Davide Boni, assessore regionale al territorio, eletto dalla Lega: «La proposta potrebbe essere integrata nel nostro progetto di legge di riforma - spiega - non ho alcuna preclusione, sebbene arrivi da ambienti lontani dalla mia coalizione». Per Damiano Di Simine, di Legambiente, la legge dovrebbe «rendere meno conveniente edificare ex novo» e ha un obiettivo: «La crescita zero entro il 2050». A scrivere il testo della legge è Pileri, docente di Ingegneria del territorio al Politecnico e autore di un libro intitolato proprio "Compensazione ecologica preventiva". «Il meccanismo è molto semplice e in Germania funziona già dal 2001: chi costruisce una villetta a Desio, per esempio, deve garantire, prima, interventi come la creazione di un bosco in Brianza o il ripristino della vegetazione lungo il Lambro. è come se per ogni costruzione si adottasse una nuova area ecologica: un principio molto più avanzato delle perequazioni e delle mitigazioni ambientali già previste dalle norme attuali». Nell' ultimo quindicennio, ha calcolato Pileri con altri docenti del Politecnico, 30 grandi progetti - dal Maciachini center alla Humanitas di Rozzano, dal Santa Giulia all' Auchan di Cinisello Balsamo - hanno trasformato 11,248 milioni di metri quadrati di territorio milanese. «Se la legge fosse già in vigore - spiega Pileri - Milano sarebbe piena di veri parchi pubblici come Amsterdam o Berlino». Un modo per rispondere all' allarme lanciato dall' Agenzia europea dell' ambiente, che attribuisce a Milano un record negativo - «ha consumato, negli ultimi 40 anni, il 37% dell' area agricola: è il dato più elevato tra le 25 città europee prese in considerazione» - e include la Lombardia e il nord in generale tra le «aree in cui l' impatto dell' espansione urbana incontrollata è maggiormente visibile». Eppure resiste, nella capitale economica d' Italia, una minoranza che pensa ancora alla terra come a un bene da preservare: oggi a Cascina Battivacco, nel parco Sud, si sono dati appuntamento gli attivisti del comitato Barona - che contesta progetti come il piano Palatucci, il futuro centro direzione in via del Mare, «una minaccia per l' integrità del parco» - per una festa: «Ci saranno i prodotti tipici realizzati dagli agricoltori milanesi», annuncia Maria Teresa Lardera. «Non è affatto un' utopia pensare che anche nel cuore dell' area metropolitana si possano tutelare le cascine e le tradizioni agricole lombarde - dice Boni - ma il problema è che ogni comune utilizza gli oneri di urbanizzazione per pareggiare i propri bilanci. Noi non possiamo introdurre nuovi controlli ma possiamo rendere vincolante sempre il parere della Regione facendo in modo che si tenga conto delle vocazioni e degli equilibri delle aree. E non solo delle esigenze dei singoli municipi».
La Repubblica ed. Milano, 21 ottobre 2007
È vicino il punto di non ritorno
di Pietro Mezzi (assessore provinciale al territorio)
Nei giorni scorsi, dopo un lavoro durato poco più di un anno e mezzo, è stato presentato in giunta il Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp). Uno strumento che dovrebbe aiutare a governare meglio i processi di trasformazione del territorio nell’area metropolitana milanese e a coordinare, per grandi temi, le pianificazioni dei 189 Comuni della Provincia, Milano compresa. Un anno e mezzo di lavoro fatto di incontri con i Comuni, i Parchi, le altre Province, le autorità ambientali, ma anche con gli operatori economici e i rappresentanti delle associazioni e dei comitati di cittadini.
È un Piano che cerca di mettere ordine e di semplificare le procedure, ma che si pone anche programmi ambiziosi: tra questi, creare la rete ecologica provinciale, in particolare nel Nord Milano; indicare i punti di forza dello sviluppo urbanistico dei Comuni; individuare le aree destinate all’attività agricola.
Un tema, quest’ultimo, apparentemente lontano dall’attività pianificatoria territoriale, ma in realtà strettamente attinente allo sviluppo urbanistico comunale: con questa previsione i Piani di governo del territorio dei Comuni saranno inevitabilmente chiamati a rapportarsi. È un aspetto delicato, che chiama in causa le prerogative di pianificazione dei Comuni e della Provincia e al quale il lavoro di questi mesi ha posto grande attenzione, con uno sforzo di concertazione.
Vale la pena anche ricordare alcuni dati importanti, riguardanti il consumo di suolo: in provincia di Milano il valore medio della superficie attualmente urbanizzata è pari al 34 per cento del totale del suolo. Che però diventa 42,7 per cento se si considerano le previsioni urbanistiche già approvate dai piani comunali. E così, considerando Milano e i Comuni di prima corona, il valore arriva al 70 per cento, nella Brianza Centrale al 57, sull’area del Sempione al 60, mentre nel Sud Milano, grazie ai limiti imposti dal Parco Sud, il valore cala drasticamente al 19 per cento.
Il Piano presentato in giunta provinciale si pone l’obiettivo di non superare la soglia del 45 per cento. Importanti studi scientifici (Howard Odum, Usa) indicano nel dato massimo del 50 per cento la soglia oltre la quale un territorio non riesce più a rigenerarsi. Siamo molto vicini al punto di non ritorno, servono quindi attenzione e politiche urbanistiche coerenti.
Si pone così il problema di realizzare una concreta sostenibilità. Gli amministratori, i politici, gli ambientalisti, gli studiosi sapranno raccogliere questa sfida o si continuerà a pensare in termini di sviluppo infinito? E ad affidare al consumo del suolo l’unica risposta alla crisi strutturale della finanza locale? Il nuovo Piano territoriale di coordinamento provinciale si pone questo obiettivo e, con gli inevitabili e faticosi compromessi, propone una crescita giudiziosa. La più sostenibile in questa situazione.
La Repubblica ed. Milano, 21 ottobre 2007
Più capannoni lungo le nuove autostrade (redazionale)
Case, alberghi, capannoni, autogrill ai bordi delle nuove infrastrutture viabilistiche: e cioè le superstrade, autostrade, tangenziali che saranno costruite dai privati in project financing. Il succo del progetto di legge, che è stato approvato dalla giunta regionale e ora va in commissione Territorio, è stato spiegato dall’assessore alle Infrastrutture e alla Mobilità, Raffaele Cattaneo. Con il project financing i privati non riescono più a ripagarsi con i soli pedaggi delle spese sostenute per costruire l’opera. Di qui l’idea di concedere loro la possibilità di utilizzare aree adiacenti alla sede stradale per costruire dell’altro. Appunto alberghi, case, edifici con destinazione commerciale. Critico il verde Carlo Monguzzi: «In questo modo le autostrade non serviranno a smaltire il traffico ma ad aumentarlo».
La Repubblica ed. Milano, 22 ottobre 2007
Penati: "Comuni liberi di costruire"
di Davide Carlucci
È polemica sulla proposta di arginare l’espansione dell’hinterland a danno delle aree verdi. Per il presidente della Provincia Filippo Penati, «i Comuni sono liberi di decidere sul proprio sviluppo». E sul Cerba «andiamo avanti senza esitazioni». Plaude l’assessore comunale Carlo Masseroli di Forza Italia, più prudente la Lega.
Limitare la crescita della grande Milano, imporre un tetto all’espansione urbana nell’hinterland? Filippo Penati, presidente della Provincia, invita alla cautela: «Ogni comune è libero di programmare il suo sviluppo con i piani di governo del territorio. E il nostro piano di coordinamento territoriale provinciale non può darsi il compito di programmare meglio lo sviluppo delle singole realtà. È un tema complesso e cruciale, la pianificazione sovracomunale è una materia delicata da affrontare rispettando il corretto ruolo della sussidiarietà». Un freno alla volontà dell’assessore provinciale al territorio, Pietro Mezzi, dei Verdi, di arginare l’espansione dei comuni controllando il consumo di suolo, giunto ormai nel Milanese al livello di guardia. Penati tira dritto anche sul Cerba, il centro europeo di ricerca biomedica avanzata, 620mila metri quadrati nel parco Sud, voluto dall’oncologo Umberto Veronesi ma osteggiato dagli ambientalisti: «Io sono assolutamente favorevole e realizzeremo il piano stralcio entro la fine di novembre».
Ed ecco che il presidente della Provincia torna a incontrare favori nello schieramento opposto. Carlo Masseroli, assessore al territorio del comune di Milano per Forza Italia, concede a lui e a Bruna Brembilla, presidente del parco Sud, di aver «sempre cercato un percorso per arrivare fino in fondo nella soluzione del caso Cerba». Ma su questo, come sugli altri temi dello sviluppo urbano, «deve fare i conti con la sua zavorra, la sinistra ideologica e stantìa». Ideologico è anche «il tema della città metropolitana» e quanto al parco Sud, «oggi è degrado, è pieno di nomadi e abusivi, è un disastro: Penati l’ha capito e spero che vinca. Ma vedo che è in difficoltà». In modo speculare l’assessore regionale Davide Boni si ritrova, in questa polemica, iscritto d’ufficio nel campo ambientalista: «Come Regione andiamo avanti. Non vogliamo entrare nella pianificazione dei singoli comuni: però, pur garantendo autonomia, possiamo correggere e consigliare, come abbiamo fatto a Milano per migliorare il progetto Citylife. Se si lascia che ogni comune faccia di testa sua, domani tutto è incontrollabile. E l’area di Milano richiede uno sforzo diverso». Musica per le orecchie del verde Carlo Monguzzi che però avverte: «Boni predica bene e razzola male: la sua legge delega tutto ai comuni. Quanto a Penati, sappia che la pianificazione territoriale è la nostra linea del Piave. Se mandiamo all’aria anche quella, i comuni restano soli davanti agli appetiti dei grandi immobiliaristi». Non resta che puntare alla compensazione: chi costruisce ripaghi il consumo di suolo con la creazione di verde, come propone Legambiente. «Boni la appoggia - dice Monguzzi - e lui, malgrado tutto, è uno che se dice una cosa la mantiene. Speriamo sia così perché a Milano è quella l’unica via d’uscita».
Il Corriere della Sera, 22 ottobre 2007, cronaca locale
Il sogno verde dell'Expo Ecco la Milano del 2015
di Maurizio Giannattasio
MILANO — Come una finanziaria: 14 miliardi e 100 milioni tra investimenti diretti e indiretti, 3 miliardi e 700 milioni di produzione attivata. Senza tenere conto dell'indotto. L'Expo si può misurare anche così. Come una valanga di ricchezza e di lavoro — 70mila nuovi posti solo nei cinque anni precedenti alla manifestazione — che tracima su un intero territorio. Ma la candidatura di Milano per l'Expo 2015 con «Nutrire il Pianeta. Energia per la vita» è qualcosa di più. Lo si intravede nelle 1.200 pagine del dossier che la città ha consegnato nelle mani del Bie, il Bureau International des Expositions,
l'organismo che raccoglie 108 Paesi e che a marzo dovrà decidere chi vincerà la sfida tra Milano e Smirne. Lo si percepisce nella città tirata a lustro e impavesata per l'arrivo oggi dei sei ispettori del Bie, che per tre giorni metteranno sotto esame Milano. Lo si capisce dalle facce stravolte ma felici dei funzionari delle Relazioni internazionali del Comune che in meno di un anno hanno accompagnato il sindaco Letizia Moratti in 57 missioni all'estero, incontrando 18 capi di Stato, 8 capi di governo, 90 ministri, 5 governatori, 12 viceministri, 10 sottosegretari, 31 sindaci, 11 commissari europei e percorrendo la bellezza di 451mila chilometri: 11 volte il giro del mondo. Dall'impegno del Governo, che come scrive il presidente del Consiglio, Romano Prodi, al Bie, sostiene la candidatura di Milano «with the utmost determination », con la massima determinazione.
Milano, finalmente, si è data un senso. Non un sogno, ma un progetto. Che ha il pregio, vada come vada, di accomunare quasi tutti. Dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano — «Auspico che la candidatura dell'Italia e di Milano venga accolta» — al premier Prodi, al capo dell'opposizione Berlusconi. Maggioranza e opposizione insieme. A livello nazionale e a livello locale. Comune e Regione Lombardia retti dalla Cdl, e la Provincia del democratico Filippo Penati. E trova una sponda anche in Walter Veltroni, sindaco di Roma e neosegretario del Pd. Come dire: il sostegno all'Expo milanese vale per questa legislatura e la prossima. Chiunque vinca le prossime elezioni. Uno dei prerequisiti essenziali richiesti dal Bie.
Aichi 2005, Shanghai 2010. Milano ha scelto la strada di Shanghai. La città è pronta a cambiare volto. «Lasceremo in eredità alla città almeno il 90 per cento delle opere», continua a ripetere la Moratti. Ci sono i singoli elementi. La «Torre», alta minimo 200 metri, nuovo simbolo di Milano, la Via d'acqua e la Via di terra, due itinerari di 20 chilometri che immersi nel verde collegheranno Milano alla nuova area Expo, accanto alla Fiera di Rho-Pero, mettendo in connessione tutta la cintura dei parchi cittadini. Dei «raggi verdi» partiranno dal centro della città per ricongiungersi alla corona di verde. C'è il sito vero e proprio, 110 ettari, la metà a verde, dove sorgeranno i padiglioni, il grande ponte che collegherà la Fiera all'Expo, la Torre, il Villaggio Expo, piazza Italia. Tutto il quartiere espositivo sarà una «low emission zone», ossia avrà il minor impatto possibile sull'ambiente e sulla domanda di energia. La zona sarà off limits alle auto. I visitatori che vogliono raggiungere il sito in auto si dovranno fermare nei parcheggi di corrispondenza e poi verranno trasportati con navette ecologiche. All'interno saranno permessi solo veicoli elettrici, navette a idrogeno o biciclette. Anche il futuro della cittadella Expo sarà ambientale. Un enorme quartiere ecologico. Niente auto, niente petrolio o gasolio. Raffreddamento e riscaldamento saranno garantiti sfruttando il fotovoltaico, l'energia solare, e altri strumenti puliti. Un modello da esportare nel resto d'Europa. Proprio per questo motivo Legambiente è diventato partner dell'Expo milanese. C'è poi la Città del Gusto e della Salute ai Mercati generali e la creazione della Borsa agro-alimentare telematica.
Ma l'Expo è più dei singoli elementi. È un catalizzatore e un acceleratore di progetti urbanistici e infrastrutturali. Le due nuove linee della metropolitana, il prolungamento di quelle esistenti, i grandi collegamenti stradali che la Lombardia sta chiedendo da anni: la Brebemi, la Pedemontana, le nuove tangenziali esterne di Milano. Ma anche il collegamento ferroviario diretto tra Malpensa e la nuova stazione di Pero-Rho. Tutte da realizzare integralmente entro il 2015. O i grandi progetti urbanistici che dovrebbero trasformare il volto della città: da Garibaldi-Repubblica, ferita nel centro della città, lasciata marcire per decenni, ai tre grattacieli di Liebeskind, Isozaki e Hadid di Citylife nella vecchia Fiera. Ai progetti da venire sulla Bovisa, cittadella tecnologica e della comunicazione. «È tutto l'asse nord-ovest di Milano che cambierà volto», spiega l'assessore all'Urbanistica Carlo Masseroli. Catalizzatore lo sarà anche per la cultura. Nei sei mesi dell'Expo sono previsti 7.000 eventi culturali e scientifici. Quaranta al giorno. Abbastanza per soddisfare i 29 milioni di visitatori che frequenteranno Milano nei 6 mesi dell'Expo. Sempre che arrivi la vittoria. Ma questa volta Milano ci crede.
Nota: sulle pagine di Eddyburg il tema della sostenibilità ambientale metropolitana rispetto all'urbanizzazione (e del relativo modello di sviluppo socioeconomico) che sta al centro dell'attuale, contraddittorio dibattito milanese, è stato qualche giorno fa introdotto dall'articolo che riferiva della ricerca coordinata da Cristina Treu del Politecnico, sul consumo di suolo nell'area provinciale. Quello dell'Expo 2015 è ovviamente un tema strettamente correlato, anche se la cosa spesso sfugge alla stampa, locale e non. Per chi fosse interessato, di seguito l'avviso di una iniziativa correlata (f.b.)
Il Coordinamento Provinciale Milanese organizza per Mercoledì 24 ottobre p.v. in Via Fiamma n.5, alle 21.00 incontro di presentazione degli indirizzi e dei contenuti del nuovo Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) Sarà presente Pietro Mezzi, il nostro Assessore Provinciale che ha guidato in questi anni l'elaborazione del documento, che rappresenta la parte centrale dell'impegno amministrativo dei Verdi. Non a caso uno dei temi principali del PTCP riguarda il consumo di suolo in provincia di Milano, argomento di grande attualità nel nuovo corso dell'urbanistica territoriale e milanese. E sempre non a caso i contenuti del piano stanno già creando una serie di distinguo e precisazioni da parte anche di componenti della maggioranza.Conoscere il PTCP è la maniera migliore per difenderlo e promuoverlo. Sarà presente anche il gruppo consiliare della provincia. Vi attendiamo numerosi e soprattutto attendiamo i molti consiglieri e amministratori locali. L'iniziativa non è, ovviamente, limitata ai soli iscritti ma è estesa ad amici e simpatizzanti.
per il CoordinamentoMassimo MolteniPresidente dei Verdi della Provincia di Milano.
Ci sarà sempre meno verde nell’hinterland milanese. Quanto saranno sviluppati tutti i piani di governo del territorio nei comuni, l’area urbanizzata schizzerà dal 34 al 42,7 per cento. La soglia di sostenibilità del 45 per cento. «Oltre quel dato i terreni non garantiscono più la rigenerazione ambientale» spiega Maria Cristina Treu, docente del Politecnico che ha curato lo studio insieme alla Provincia. Di questo passo, la città infinita divorerà i campi e l’ambiente. Ma ci sono comuni che si ribellano. E nascono comitati che dicono no.
Paolo vive da cinque anni ad Abbiategrasso. «Ho scelto di vivere qui perché Milano era diventata impossibile. Ma ora tutt’intorno a me stanno sorgendo nuovi cantieri. E il traffico si è quintuplicato. La pace che cercavo non c’è più». L’area del Milanese ormai è satura. Il punto è che non è affatto finita qui: «In provincia rischiamo ormai di superare la soglia tollerabile di consumo di suolo», spiega Maria Cristina Treu, docente del Politecnico. Dallo studio che ha curato insieme alla Provincia si ricava che quando saranno sviluppati tutti i piani di governo del territorio vigenti, nei comuni dell’hinterland la percentuale dell’area urbanizzata schizzerà dal 34 al 42,7 per cento. La soglia di sostenibilità definita dal piano territoriale di coordinamento provinciale è del 45 per cento, in linea con i valori definiti da tutta la letteratura scientifica sul tema. «Oltre quel dato, i terreni non garantiscono più la rigenerazione ambientale».
Ma in molte aree il livello minimo è stato già abbondantemente superato. Non solo nella prima cintura urbana di Milano, dove si è già al 70%: nella Brianza delle Groane - l’area tra Varedo e Lentate - è del 66%, l’area del Sempione - tra Rescaldina e Rho - è intorno al 60 per cento. E ci sono comuni come Cusano Milanino e Sesto San Giovanni dove ci si avvicina pericolosamente al 100 per cento. Ad abbassare la media provinciale è la zona sud-sudovest: il comune meno urbanizzato è Morimondo, seguito da Besate e Nosate e al di sotto del 20 per cento si colloca, per ora, anche Abbiategrasso. Ma è proprio in queste aree che sta esplodendo il conflitto tra urbanizzazione e bisogno di ambiente: chi è fuggito dalla giungla metropolitana ora si ritrova di nuovo assediato dal cemento e non ne può più. A contenere l’espansione della città resta il Parco agricolo sud - urbanizzazione pari al 19% - ma proprio lì si concentrano le mire dei grandi gruppi di costruttori. D’altronde le stime del Cresme - il centro di ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio - valutano che entro il 2016 ci sarà una domanda di «Costruire significa, per i comuni, incamerare oneri di urbanizzazione», spiega Damiano Di Simine, di Legambiente, che sta organizzando, per il 7 novembre, un convegno sul consumo di suolo in provincia. Una sorta di "business del suolo" che Pietro Mezzi, assessore provinciale al territorio in quota Verdi, vuole tentare di governare: «La crisi della finanza locale, stretta tra patto di stabilità e riduzione dei trasferimenti, sta portando molti piccoli paesi dell’hinterland a utilizzare gli oneri di urbanizzazione, sempre meno vincolati alla creazione di aree verdi, per alimentare i servizi comunali». Che questo poi determini l’anarchia, non lo dice un ambientalista ma Mario Breglia, presidente dell’istituto di ricerche "Scenari immobiliari": «Non esiste una programmazione integrata del territorio, ogni comune va per conto suo. Il risultato è che ormai i milanesi non si spostano più a Monza, dove per costruire si pagano 5-6mila euro al metro quadro, o a Rho, dove i valori sono tra i 4 e i 5mila, ma direttamente fuori regione, nel Piacentino o nel Novarese, dove il costo della casa scende a 2000 euro a metro quadrato».
Il peccato originale di Milano, spiega Treu, è la sua dimensione: troppo piccola. Questo fa sì che sia al primo posto, in Italia, per indice di occupazione del suolo. E così il conflitto si sposta verso la prima fascia e il cemento punta a erodere parchi e giardini. «Ormai qui siamo arrivati alla saturazione - attacca Biagio Latino, del comitato di Segrate - non possiamo più andare avanti».
Per Claudio De Albertis, presidente dell’associazione costruttori di Milano, «una certa intelligente edificazione si potrebbe anche pensare in certe aree del parco sud, al di qua della tangenziale. Bisogna capire se il parco ha questa volontà». Milano ha perso il 16 per cento della popolazione negli ultimi vent’anni, spiega, anche se negli ultimi due c’è un’inversione di tendenza: «L’mmigrazione certo, ma c’è anche qualche segnale di ritorno da parte dei milanesi che erano andati a vivere nella prima o seconda fascia. Secondo noi l’unica soluzione è demolire e ricostruire quartieri periferici in abbandono, ricomporre i margini della città». In alternativa, gli imprenditori cercano aree tra Rozzano e Milano, ad Appiano Gentile, a Settimo Milanese. Oppure ambiscono ad aree come il parco del Grugnotorto, polmone verde tra Cinisello Balsamo, Muggiò e Paderno Dugnano, avviando interminabili contenziosi amministrativi.
Ma sono gli stessi comuni a sentirsi stretti nei vincoli dei parchi. «Su venti chilometri quadrati del nostro territorio, 18 sono in area parco - protesta Franco Toscano, vicesindaco di Rosate - questo significa che non abbiamo più possibilità di espansione. Noi non vogliamo ridiscutere il parco, vogliamo però verificare la possibilità di individuare una crescita minima che consenta alle nuove coppie di non andare fuori città e alle aziende del posto di evitare la delocalizzazione».
Dai campi di Segrate al parco Sud la rivolta di chi non vuole le ruspe
Biagio Latino calcola che fino a dieci anni fa ci fossero sette agricoltori a Segrate. Ora hanno smesso di lavorare la terra. «Perché i proprietari terrieri hanno lasciato deperire i campi per renderli poi edificabili. Eppure oggi, con l´impennata dei prezzi del granturco, un valore economico ci sarebbe, nell’agricoltura, anche qui». Latino, consigliere comunale dei Verdi, è alla testa del comitato cittadino che si batte contro il nuovo centro commerciale. Ma non si batte tanto per il ritorno all’agricoltura a Segrate quanto per lo stop alla costruzione di nuovi quartieri residenziali in un centro già congestionato. «La prossima battaglia riguarda il centroparco - spiega Latino - ci è stata presentata come un’area verde, in realtà è un nuovo insediamento». Segrate è uno dei centri dell’hinterland dove da anni cova il conflitto ambientale: petizioni, manifestazioni di protesta, ricorsi amministrativi. Tutto va bene per impedire la nuova cementificazione.
A Vaprio d’Adda, ai confini tra la provincia di Milano e quella di Bergamo, è nato un comitato che propone un referendum contro il piano di governo del territorio proposto dall’amministrazione. A Milano, invece, sono in mobilitazione i comitati che cercano di difendere il parco agricolo sud minacciato, dice Roberto Prina, della rete dei comitati "verde, aria, acqua". Proprio oggi ci sarà una festa in una cascina in zona Barona. «In quell’area bisogna resistere alle speculazioni di grossi gruppi edilizi che minacciano l’integrità del parco, in primis Ligresti», spiega Damiano Di Simine, di Legambiente. A Viboldone, frazione di San Giuliano, è agguerritissima l’azione di un comitato capeggiato da Paolo Rausa contro l’abbattimento di un borgo agricolo. «Abbiamo coinvolto anche il ministero dei Beni ambientali - spiega - per noi è una battaglia decisiva». Anche la Provincia ha presentato un ricorso contro il Comune nel quale si richiama il vincolo che riconosce «le caratteristiche di grande valore ambientale» dell’abitato di Viboldone in quanto «il territorio che lo circonda ha mantenuto a tutt’oggi significative caratteristiche dell’iniziale modificazione sul paesaggio operata dagli Umiliati che ebbero qui sede dal 1187 nell’abbazia omonima».
Uno scontro tra esigenze di edificazione e difesa dell’ambiente è in corso anche a Pozzuolo Martesana. Anche lì si è formato il comitato cittadino "Primo marzo" che contesta il piano di governo del territorio: sono previsti duecentomila metri quadri di lottizzazione destinati alla logistica. E anche in quel caso la Provincia ha proposto un suo ricorso contro l’amministrazione comunale. Tra le vertenze ambientali più spinose anche quella di Cernusco sul Naviglio, dove si vuol rendere edificabile un’area tra l’Ikea - che però è in territorio di Carugate - e il Carrefour. Altre battaglie sono in corso a Desio, dove la Regione ha nominato due anni fa un commissario ad acta per uno scontro tra Provincia e Comune, e a Corsico, dove si contesta il raddoppio della linea ferroviaria. Senza parlare delle proteste contro la Brebemi e contro la tangenziale esterna Est che rischia di "urbanizzare" tutti i comuni attraversati.
Forse al lettore frettoloso può essere sfuggita l’osservazione, incolpevolmente riportata dal giornalista: “Per Claudio De Albertis, presidente dell’associazione costruttori di Milano, una certa intelligente edificazione si potrebbe anche pensare in certe aree del parco sud”. Proprio qualche giorno fa in un intervento di non particolare rilievo, un noto architetto milanese lamentava sulle pagine dello stesso quotidiano l’assenza di una politica della greenbelt metropolitana. De Albertis ecco che ne offre una, naturalmente con “intelligente edificazione” magari pure dietro qualche slogan “comunità sostenibili” o simili, chiamando paesaggisti, o qualche firma di prestigio internazionale new urbanism, ecc. Con quanto successo nel dibattito britannico sul medesimo tema, nel medesimo quadro di destra rampante e ex sinistra votata a “riformarsi” comunque e quantunque, i presupposti ci sono tutti, per ripetere quanto sta accadendo oltre Manica. Ovvero si crea un’emergenza (l’Expo potrebbe funzionare benissimo, mescolata di sponda a qualche altra cosa) con relativa grossa campagna di stampa, in fondo basta copiare la serie di articoli che ad esempio il Guardian ha dedicato al tema in questi anni, e il gioco è quasi fatto. Ne consiglio la lettura, di questi articoli: stanno quasi tutti nella cartella Spazi della Dispersione di eddyburg_MALL sia tradotti in italiano che in originale, per chi volesse (f.b.)
La mobilità urbana (di uomini e merci) è la circolazione del sangue che tiene in vita il corpo di una città. Ma, parlando di Milano, la prima cosa che viene da chiedersi è: quale circolazione? E quale città? Se circola sangue malato, come quello di chi continua ad affidare la maggior parte degli spostamenti all’auto privata (il mezzo più inquinante, più costoso, più pericoloso, quello che occupa più spazio e che ne sottrae di più alle funzioni vitali degli umani), il corpo deperisce, se non altro per i troppi veleni trasportati. Se la pressione esercitata dal traffico automobilistico sulle arterie della città è eccessiva, le conseguenze sono ictus e infarto.
L’ictus, che colpisce il cervello, è già arrivato. Milano non ha più, e da tempo, una testa pensante. A quale progetto, o modello, o idea di città pensino – se pensano – gli amministratori di Milano non è dato sapere. L’infarto è alle porte e ogni giorno le sue avvisaglie si manifestano in qualcosa che non torna a causa di provvedimenti estemporanei, scoordinati e contraddittori. Il ticket di ingresso – se verrà istituito – dovrebbe ridurre il numero di auto che entrano in città. Ma le sue motivazioni sono diverse: non è una tassa sulla congestione, come a Londra, dove ha avuto successo, ma un modesto balzello, che sull’inquinamento avrà scarsi effetti.
Contemporaneamente si abbattono alberi, si distruggono monumenti e si scavano buchi per "ospitare" e fare arrivare in città più auto. Si dipingono strisce gialle e blu, che teoricamente raddoppiano gli oneri di chi usa l’auto per spostarsi in città, ma poi, per non urtare l’automobilista-elettore, non si elevano contravvenzioni nemmeno a chi posteggia in doppia e tripla fila. Si riducono ai minimi termini le vie pedonalizzate per non turbare i commercianti e poi si bloccano per anni intere zone con cantieri che non finiscono mai. Si fa pagare l’ingresso a chi entra "in città" e poi si aumenta il prezzo dei biglietti per chi arriva da fuori Milano. Il fatto è che per far vivere Milano, come qualsiasi altra città, occorre ridurre drasticamente la circolazione delle auto private. Servono tutte le misure che vanno in questa direzione, purché coordinate tra loro. Fanno danno tutte quelle che tendono ad aumentare il numero delle auto.
Ma poi, di quale "corpo", cioè di quale città si parla? L’hinterland di Milano è come gli arti di un corpo che senza di essi non potrebbe vivere. Pensare di curare il tronco a scapito degli arti non è un’operazione sensata. Eppure è quello che il sindaco Moratti continua a cercare di fare per salvaguardare il "suo" elettorato. Affrontare l’inquinamento, la mobilità, la localizzazione delle funzioni urbane su basi simili dimostra una totale incapacità di pensare la città. D’altronde il sindaco Moratti, al Meeting di Rimini, quando le hanno chiesto a chi o a cosa pensava, ha dichiarato: «Parlavo in modo ampio e non pensavo a nessuno». Esatto.
Gentile signora Letizia Moratti, sindaco, una decina di giorni orsono Ella ci ha invitato alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale: voleva illustrarci il percorso pensato per condividere con i cittadini le scelte urbanistiche che avrebbero dato corpo al Piano di governo del territorio. Partecipare e condividere le scelte sembravano essere le parole d’ordine. Nemmeno una settimana dopo Ella c’informa di aver deciso l’avvio delle procedure legate alla realizzazione di una Cittadella della giustizia nel Sud di Milano sulle aree già di proprietà del Consorzio per il canale navigabile, quelle stesse che un paio d’anni orsono l’allora assessore Gianni Verga aveva dichiarato destinate alla Cittadella dello sport in previsione delle Olimpiadi del 2016. Era subito partito un bel Comitato ufficiale con dentro più o meno sempre le stesse facce a Lei note e conservo una bella foto del sindaco Albertini e del presidente Formigoni che si sbracciano indossando la maglietta bianca della nuova squadra dei promotori olimpici. Lo stesso presidente Formigoni che presenta ora con Lei la Cittadella della giustizia (delle olimpiadi del 20016 allora non si parla più, visto che l’area del Consorzio era l’unica ad avere le caratteristiche adatte alla Cittadella dello sport?).
Ma torniamo a noi. Non posso credere che il giorno della conferenza alla Sala delle Cariatidi Ella non ne sapesse nulla del progetto della Cittadella della giustizia.
Si tratta di un’operazione immobiliare che interessa un’area grande cinque volte quella della Fiera, ora Citylife, che ha destato tanto rumore in città. Non solo ma è accompagnata da due "dismissioni" sulle quali pure da almeno un decennio si dibatte: il palazzo di giustizia ed il carcere di San Vittore. Siamo dunque di fronte alla più grande operazione immobiliare in Comune di Milano, quella che le batte tutte. Ma è importantissima non solo per le sue dimensioni ma perché, se si farà, andrà ad incidere sull’assetto – ed i valori – dell’attuale area del palazzo di giustizia e dei suoi dintorni che si sono terziarizzati per far posto agli studi legali ed all’indotto collegato. Si deve riaprire la questione della futura destinazione del carcere di San Vittore. Per essere chiari il Piano di governo del territorio con o senza Cittadella della giustizia fa la differenza tra il giorno e la notte. La scelta del luogo non pare in ogni caso felice: il palazzo di giustizia teoricamente andrebbe posto al centro del bacino di utenza e Rogoredo non lo è; i treni locali che fermano a Milano Rogoredo sono tra i peggiori della rete e la linea 3 della Mm è la più disagevole (vedi il rumore che è notizia di questi giorni). Del planivolumetrico mostrato alla stampa non parlo perché immagino che sia solo una bozza. Del rapporto con i privati che interverranno a finanziare l’operazione prendendosi in cambio le aree di San Vittore e del palazzo di giustizia non ho voglia di parlare ma vorrei mettere i nomi in una busta e darla al notaio. Difficile sbagliare.
Mi resta una domanda nel gozzo: perché fare questo annuncio adesso? Stavamo partendo per le vacanze pieni di speranza – di illusioni – sul nuovo corso dell’urbanistica milanese: l’urbanistica del rilancio. Invece no: "Stessa piaggia stesso mare", stessa urbanistica.
Nota: di seguito, il comunicato dell'Ufficio Stampa del Comune (dal sito ufficiale) sul tema a cui si riferisce l'articolo di Beltrami Gadola (f.b.)
A Porto di Mare la Cittadella della Giustizia
Sorgerà su un'area di 1,2 milioni di metri quadrati di cui la metà a verde. Il nuovo polo ospiterà tribunale, carcere e uffici. Il sindaco Moratti: gli obiettivi sono migliorare la qualità di vita per detenuti e operatori, aumentare l'efficienza organizzativa, riqualificare il territorio
"Una nuova cittadella della giustizia che riunisce tribunale, carcere e uffici per rispondere sempre meglio alle esigenze dei cittadini e per migliorare la qualità della vita di operatori e detenuti". Queste le parole del sindaco di Milano, Letizia Moratti, che riassumono la conferenza stampa di oggi, al Palazzo della Regione, per la presentazione con il Presidente Roberto Formigoni, l'assessore allo Sviluppo del territorio, Carlo Masseroli e il Presidente della Corte d'Appello, Giuseppe Grecchi, del progetto che porterà alla chiusura di San Vittore e dello stabile di corso di Porta Vittoria.
| Giuseppe Grecchi, Roberto Formigoni, Letizia Moratti, Carlo Masseroli |
Un milione e 200mila metri quadrati nell'area di Porto di Mare, nel sud est della città, accanto al quartiere di Santa Giulia. E' qui che sorgerà il nuovo "polo". Oltre la metà dell'area sarà destinata a verde, mentre gli spazi per l'amministrazione della giustizia passeranno dagli attuali 146mila metri quadrati, fra Tribunale e funzioni esterne, a una superficie di pavimento di 400mila. Gli spazi carcerari, dagli attuali 5.500 metri quadrati di San Vittore, arriveranno a 220mila. L'inizio dei lavori è previsto per il 2009.
“Gli obiettivi che ci poniamo con la creazione della Cittadella della Giustizia – ha detto il Sindaco Moratti - sono tre: creare una funzionalità dei diversi uffici della giustizia che consentano a tutti gli operatori di lavorare in maniera più efficiente e più efficace; creare condizioni migliori per i detenuti attualmente a San Vittore e per le guardie carcerarie; riqualificare attraverso questo grande progetto punti della Città definiti periferici, portando in periferia qualità e funzioni pregiate”.
“Quello che presentiamo oggi – ha spiegato il Presidente Formigoni – è un passo importante per tutta la giustizia milanese e lombarda. È la testimonianza dell’intenso lavoro che c’è stato in questi mesi sul tema della giustizia tra tutte le Istituzioni, dopo le segnalazioni che gli operatori di questo importante settore ci avevano fatto giungere qualche mese fa. È il frutto di un’intensa collaborazione: tutte le parti interessate hanno lavorato al progetto della Cittadella della Giustizia nell’esclusiva ottica del bene per i cittadini”.
| Veduta del progetto di massima della Cittadella Giudiziaria |
“Sono rimasto sorpreso – ha detto Giuseppe Grecchi – dai tempi rapidi e veloci di Comune e Regione. La scelta dell’area è stata condivisa da tutti gli operatori coinvolti, che hanno espresso un parere positivo per tutte le caratteristiche indicate dal Sindaco e dal Presidente della Regione. Il fatto che si parli dell’inizio dei lavori nel 2009 è estremamente positivo per poter permettere a tutti di svolgere le proprie funzioni in condizioni migliori”.
“Questa cittadella con verde, zone pedonali e servizi per 655mila metri quadri – ha spiegato l’assessore Carlo Masseroli – è un ulteriore passo in avanti della Milano del futuro. Un opera che permetterà di migliorare la qualità della vita degli operatori, dei detenuti e dei cittadini milanesi. Inoltre il progetto si colloca in un’area periferica già urbanizzata, che vede la presenza di due stazioni metropolitane, l’ingresso dell’Autostrada del Sole e l’alta velocità ferroviaria. Verrà fatta una gara Internazionale – ha concluso Masseroli – perché vogliamo che la Cittadella della Giustizia di Milano si realizzi in tempi brevi e sia una struttura moderna, funzionale ma anche una bella opera in una zona periferica dove è in corso un grande progetto di riqualificazione".
Il nuovo governo mercantile di Firenze, nel 1282, chiede per prima cosa ad Arnolfo di Cambio un grandioso piano regolatore: tracciando nuove mura e aprendo nuove strade nel centro della città. Per prima cosa Marta Vincenzi, appena diventata sindaco di Genova, chiama Renzo Piano, perché metta anche lui sul tavolo un suo progetto, già in parte studiato.
Ma giovedì scorso, nella sala della Cariatidi del Palazzo reale, mentre l'assessore Masseroli esponeva a un folto pubblico le linee del suo governo del territorio, grande assente era proprio un progetto, non soltanto un progetto già materializzato in disegni, ma un programma che comportasse in se stesso un progetto.
Erano di scena la vigorosa critica alle procedure del passato e la promessa di nuove procedure, ma nessuna critica ai progetti del passato: sicché le procedure nuove produrranno gli stessi guasti delle vecchie, non essendoci un'idea chiara ed esplicita di quali siano gli obiettivi del rinnovamento procedurale, quali miglioramenti produrranno nella vita materiale e morale dei cittadini.
Che i fondi di investimento considerino Milano una città attendibile ci fa piacere, ma ci fa forse meno piacere che ci reputino terra di conquista, esportando qui i loro architetti e i loro impresari e i loro modelli, guastando da un giorno all'altro quella bellezza che i nostri antenati hanno impiegato mille anni a costruire.
Nelle città prendono corpo quei desideri dei cittadini che possono tradursi in cose fisiche: una buona casa in una strada bella e illuminata bene — forse oggi più sicura di due o tre palazzi in un prato condominiale rinserrato da una cancellata —, un giardino a portata di mano soprattutto per accompagnarci i bambini, un asilo e una scuola vicini (ma qui un piano regolatore è in grado di fare poco, perché gli abitanti di un quartiere possono invecchiare, la scuola chiudere, e i pochi bambini nuovi dirottati su una scuola lontana).
Per molti secoli i cittadini dei quartieri più lontani dal centro hanno poi chiesto un riconoscimento visibile della loro appartenenza alla città, il riconoscimento della loro dignità di cittadini, e, se non potevano avere la piazza del Duomo o il teatro della Scala, avevano viale Argonne, che con i suoi 90 metri eguagliava gli Champs Elysées e che ne costituiva un apprezzabile equivalente.
Nota: QUI è possibile consultare la documentazione del Pgt di Milano e delle relative discussioni
Si tiene in questi giorni una Conferenza sul territorio promossa dal Comune di Milano. Un certo scetticismo accompagna sempre chi viene a conoscenza di questi avvenimenti perché sa, per esperienza, che sono spesso un carosello di parole altisonanti ma prive di contenuti realistici e concreti. L’attuale Conferenza sul territorio non fa eccezione. Già al momento della presentazione, avvenuta venerdì scorso, è subito apparsa chiara la palese contraddizione tra le buone promesse e le problematiche realizzazioni.
I promotori della conferenza parlano di partecipazione dei cittadini, ma non danno alcuna indicazione operativa sul modo con il quale la vantata partecipazione potrà svolgersi. Non è operazione semplice organizzare un contatto continuo e capillare con gli abitanti di una grossa città. Occorre predisporre un servizio di accettazione delle missive, un canale Internet, un ufficio di smistamento della corrispondenza; occorre comporre un elenco dei principali temi di discussione per orientare i mittenti verso gli argomenti di loro interesse.
Durante i preparativi della conferenza nulla di tutto ciò è stato fatto e neppure previsto. Come se gli organizzatori invitassero una persona a cena e poi non gli aprissero la porta di casa. Del resto è noto che tante lettere mandate dai cittadini al sindaco e agli assessori sono rimaste senza risposta. Date queste premesse parlare di partecipazione del pubblico diventa un’illusione.
Scorrendo gli argomenti in programma, salta subito all’occhio un’enorme e imperdonabile dimenticanza. Sono elencati molti importanti problemi, ma non viene menzionato quello più urgente, il traffico. Eppure in un organismo urbano il movimento dei mezzi di trasporto è altrettanto importante quanto in un organismo vivente il flusso del sangue. Come se dei medici organizzassero una conferenza di anatomia generale e si dimenticassero di parlare del sistema circolatorio. Che la Conferenza sia organizzata in modo superficiale ed affrettato lo dimostra lo sgomento di un assessore di fronte alla domanda di Luca Beltrami Gadola: ha stabilito il Comune quanti abitanti debba avere Milano? La domanda, ovvio, è provocatoria. Non si trattava di conoscere un numero demografico, ma di chiarire un concetto urbanistico. Capire cioè se sia ancora tollerabile un continuo ingrandimento della città, sempre e solo su se stessa secondo una crescita caotica a macchia d’olio, oppure se sia giunto il momento di darsi un limite, di arrestare drasticamente lo sviluppo urbano e trasferire la futura espansione nel territorio circostante, molto al di là dei confini attuali. È davvero paradossale che questo fondamentale concetto urbanistico, attinente la crescita urbana e determinante per il destino del territorio, non sia stato per nulla avvertito dall’attuale conferenza, intitolata pomposamente "Conferenza sul territorio".
Milano, la città immobile
Claudio Mezzanzanica
Milano è il più grande cantiere edile europeo. E lo rimarrà per molti anni, almeno per sei o sette se agli investimenti attuali non si aggiungeranno anche quelli per l'Expo 2015 cui punta la giunta Moratti. Ma anche senza considerare l'Expò, i cantieri che sono già in progetto, sono destinati a mutare profondamente la struttura della città. Tutto parte dalla ristrutturazione delle gigantesche aree industriali che hanno caratterizzato il paesaggio urbano. Nonostante Palazzo Marino propagandi i cantieri come grandi novità avveniristiche, in realtà Milano è solo l'ultima grande città europea ad affrontare la riqualificazione delle aree dismesse. Basta pensare all'area Garibaldi, oppure alla ex Richard Ginori lungo i Navigli, oggi quasi completamente ristrutturata. Londra, per fare un esempio, ha ristrutturato i docks, i vecchi magazzini sulle rive del Tamigi, almeno vent'anni prima e così ha fatto Parigi con le aree Renault.
Tre i progetti chiave dentro i confini della città: ex-Fiera dove Citylife vuole costruire tre enormi grattacieli, Garibaldi-Repubblica, dove l'americana Hines sta costruendo la cosidetta «Città della moda», e Santa Giulia a Rogoredo, dove il gruppo Zunino nell'ex area Montedison prevede un investimento di quasi tre miliardi di euro: seicento abitazioni di lusso, un albergo, un centro congressi con ottomila posti, una via del lusso, un insediamento della Rinascente. Di contorno, circa 1500 appartamenti per un mercato immobiliare più alla portata dei comuni cittadini. Senza considerare la ristrutturazione della ex area Falck a Sesto San Giovanni, alla porte di Milano, altro mega-progetto Zunino. E non bisogna dimenticare altre decine di interventi meno grandiosi ma altrettanto significativi che stanno aggiungendo migliaia di metri cubi allo spazio urbano.
Quasi tutti i progetti sono figli di una ambigua commistione di pubblico e privato. In totale mancanza di un piano e di una visione globale della città e dei bisogni dei cittadini, il pubblico si limita e rendere i terreni disponibili e economicamente appetibili per operazioni immobiliari finanziarie senza nessun processo democratico. I cittadini si vedono sommersi da tonnellate di cemento senza possibilità di farsi sentire. A volte l'operazione, almeno dal punto di vista economico immobiliare riesce piuttosto bene, come a santa Giulia, a volte non sembra funzionare come all'Ex Fiera, o incontra la resistenza della cittadinanza come nel quartiere Isola.
Ex-Fiera, tre caravelle senza vento in poppa
Giorgio Salvetti
La città sta crescendo, ma i progetti non sono sempre all'altezza. Prendiamo i grattacieli. Tre, giganteschi, sono stati progettati per svettare sulla ex area della Fiera di Milano (siamo in pieno centro città), dove opera Citylife, cordata composta dal gruppo Ligresti, Generali, Ras, Lamaro e Lar. Dopo il trasferimento nei nuovi padiglioni di Rho-Pero, la Fondazione Fiera ha venduto a Citylife i vecchi terreni (circa 255.000 mq) per 523 milioni di euro. Un ottimo affare. Un investimento da due miliardi di euro finanziato da un gruppo di banche coordinate dalla tedesca Eurohypo che comprende Mediobanca, Popolare Milano, Bipop Carire (Capitalia), Banco di Sicilia (Capitalia), Calyon, Banca Intesa, Banca di Roma e Mcc. Le banche hanno finanziato l'80% dell'acquisto dei terreni (circa 420 milioni di euro), la costruzione degli immobili (1,67 miliardi), oltre a 200 milioni di Iva. Fiore all'occhiello del progetto, le cosiddette «Tre caravelle», tre grattacieli giganti alti rispettivamente 215, 185 e 170 metri progettati dagli architetti Daniel Libeskind (quello di ground zero) Arata Isozaki, Zaha Hadid e Pier Paolo Maggiora. Un progetto gigantesco e avveniristico che ora invece rischia di essere già vecchio e forse non più redditizio come sembrava.
L'intera area è destinata ad ospitare uffici e oltre mille appartamenti (in zona mediamente una casa costa 5-6 mila euro al metro quadro). Una vera e propria cittadella nella cinta della vecchia Fiera, per un totale di circa 15 mila utenti. I lavori dovrebbero terminare entro il 2014 ma non sono ancora cominciati. Il rispetto dei tempi è determinante per rientrare dalle spese e mantenere gli impegni con le banche. Palazzi tanto alti costano molto e i costruttori ora temono di rimetterci.
Contro il gigantesco progetto si batte l'associazione «Vivi e progetta un'altra Milano» (www.quartierefiera.org). In questi anni di lotta ha fatto ricorso al Tar, ha raccolto migliaia di firme ma ha ottenuto pochissimo ascolto dalle istituzioni. Per i cittadini dell'associazione si tratta di una pura operazione finanziaria e immobiliare che punta su uffici e appartamenti di lusso in una zona che invece ha bisogno di servizi, edilizia sociale e per i giovani (Citylife ha solo l'impegno di ristrutturare l'ex velodromo Vigorelli e di realizzare un Museo del design e del bambino). L'intero progetto è stato deciso da pochissimi e calato dall'alto. Per i cittadini, ma anche per molti architetti e urbanisti, la costruzione di grattacieli enormi in un'area ristrettissima non rispetta l'equilibrio e il recupero di uno storico quartiere di Milano. Inoltre, la cittadella rischia di attirare un insostenibile flusso di traffico. L'ingresso nord di Milano già ora è il più intasato con 600 mila ingressi al giorno. Il nuovo progetto prevede solo la costruzione di una strada interrata di un paio di chilometri che è destinata ad attirare ulteriore traffico e portarlo direttamente nella città.
Anche in questo caso, per capire che cosa è avvenuto dal 1994 ad oggi, bisogna indagare l'ambiguo rapporto tra pubblico e privato che ha dato il via libera all'operazione. Il vizio di fondo sta nella concessione da parte di Palazzo Marino di una volumetria doppia in un'area ristretta. Ma proprio grazie a questo Fiera Milano ha potuto vendere i suoi terreni a peso d'oro. Con il trasferimento a Rho-Pero, l'Ente Fiera, che pure era stato abbondantemente sostenuto dai finanziamenti pubblici, è stato privatizzato. Si è trasformato in fondazione di diritto privata che controlla Fiera Spa, società scorporata che affitta e gestisce i padiglioni della nuova fiera. La Fondazione dunque si è trasformata in una sorta di agente immobiliare privato che gestisce palazzi e terreni. La concessione di volumetria è solo l'ultimo favore ai privati. Per rispettare gli standard abitativi il Comune ha anche «venduto» ai costruttori privati i metri quadri mancanti (circa 106 mila) al bassissimo prezzo di 242 euro al metro quadro (l'associazione «Vivi e progetta un'altra Milano» denuncia un ammanco per l'erario di circa 140 mila euro). E per finire è in progetto la costruzione di un'apposita fermata della metropolitana proprio in mezzo alle «tre caravelle», in buona parte a carico dei cittadini. Si verrebbe a trovare in un'area già servita e comunque non sarebbe pronta prima di 10-15 anni.
Nonostante le promesse dei progettisti e dell'ex sindaco Albertini che sognava un «Central park milanese» al posto della Fiera, solo un terzo dell'area sarà destinato al verde, incastrato tra un palazzo e l'altro. A metà giugno proprio intorno alla questione del verde, l'affare ex Fiera ha mostrato le prime grosse crepe. Grazie ad una permuta tra un parcheggio di proprietà del Comune e un'area di Fondazione Fiera (è sempre lei a gestire i giochi) destinata a rimanere inutilizzata, Palazzo Marino ha potuto disporre di altri 75 mila mq da destinare ad area verde e ha colto l'occasione per recitare la parte. Dopo anni di totale mancanza di indirizzi, ha riconvocato i progettisti per ritoccare il progetto. I cittadini ora chiedono di rivedere tutto: «Spalmare le volumetrie», ricollocare le aree verdi e soprattutto discutere finalmente del progetto in consiglio comunale. Ma dietro la «questione area verde» si nasconde una crisi ben più profonda. I lavori di costruzione sarebbero dovuti partire nel 2006 e invece è tutto fermo. «Il progetto è stato criticato dagli analisti economici - sostiene Rolando Mastrodonato, presidente di «Vivi e progetta un'altra Milano» - sconsigliano di investire nell'ex Fiera. Insomma c'è il rischio che quei grattacieli, qualora fossero costruiti, restino vuoti e che gli spazi rimangano invenduti».
In Citylife sembra essersi determinata una spaccatura tra finanziarie (Generali e Ras) e costruttori (Ligresti), i quali sanno che costruire palazzi tanto alti costa molto e temono di non riuscire a rispettare i tempi e far quadrare i conti. L'attuale presidente di Citylife Ugo Debernardi (Generali) è dimissionario e con ogni probabilità verrà sostituito da un rappresentate dei costruttori. «Sono nei guai - è convinto Rolando Mastrodonato - il progetto ex fiera è l'esempio della politica del caso per caso che è il segno di questi anni a Milano. Ovvero nessuna visione d'insieme della città da parte della politica, nessun intervento globale da parte del Comune. Ogni speculazione è stata trattata come caso singolo guardando esclusivamente agli interessi dei privati e con totale mancanza di democrazia. Ora che il bluff ex Fiera è piuttosto evidente anche per i privati c'è da sperare che la linea intransigente voluta dalle finanziarie venga rivista e che si possa aprire lo spazio per una vera trattativa».
«Collusione pubblico-privato a spese della città»
Sara Farolfi
«Un gioco a tre pasticciato e irreversibile, dove i due attori che dovrebbero pensare alla collettività capitolano invece alla logica del migliore offerente». Roberto Camagni è professore di Economia urbana al Politecnico di Milano. Un economista dunque. «Rendita per me non è una parolaccia - chiarisce infatti subito - Ma reddito categorico del fattore produttivo terra». Eppure, c'è un «peccato originale» nel progetto di riqualificazione dei terreni dell'ex Fiera. «La rendita conta a Milano - dice - anche quella di enti che dovrebbero avere come obiettivo la creazione di valore pubblico». Il risultato? «Quell'area diventerà invivibile». E questo è il prodotto di ciò che Camagni definisce il «dramma milanese». «La politica che rinuncia ad avere un piano, procedendo piuttosto per singoli progetti, separati e derivanti dalle proposte del privato».
Partiamo dal «gioco a tre» tra Comune, Fondazione Fiera, e Citylife. Si parla di una «collaborazione pubblico - privato»...
Non vedo collaborazione tra pubblico e privato, ma quasi una collusione a spese della città. Il Comune ha fatto la gara, e tra i tre migliori progetti ha scelto quello del migliore offerente e non quello urbanisticamente migliore, dimenticandosi della sua funzione di custode della qualità urbana, come anche del fatto che la Fondazione Fiera, proprietaria dell'area e oggi istituzione di diritto privato, deriva dalla trasformazione di un ente morale che originariamente ricevette quei terreni a prezzi simbolici per le sue funzioni pubbliche. E' il developer privato a subire la speculazione edilizia del proprietario.
La vera controparte insomma è la Fondazione e non Citylife?
C'è stato un generale accordo tra Comune, Regione e Fiera, e io credo che la collettività dovrebbe chiedere conto di come verranno spesi quei 523 milioni di euro incassati dalla Fondazione come risultato di una valorizzazione tutta privatistica. Senza considerare la questione dei premi volumetrici che il Comune ha attribuito all'area, il doppio rispetto alla media delle trasformazioni recenti, e grazie ai quali la Fondazione ha potuto realizzare il suo sostanzioso gruzzolo. Si carica la città di un peso rilevantissimo per un progetto, tutto uffici e residenze, che nulla ha di vantaggioso per la collettività.
E quanto al rapporto tra Comune e developer?
Pensiamo agli oneri di urbanizzazione, e ai contributi di costruzione, che sono la contropartita pubblica dei vantaggi privati delle trasformazioni: a Milano, ma anche in Italia, si usa imporre oneri ridicoli. Basti pensare che a Milano questi oneri rappresentano soltanto il 10% del valore del costruito sui grandi progetti integrati di intervento, meno della metà di quanto si fa, ad esempio, in una città come Monaco di Baviera.
Anche dal punto di vista della gestione urbanistica, protestano i residenti, il progetto ha molte crepe...
Nei paesi normali, i grandi progetti urbani sono accompagnati da progetti sulla mobilità pubblica. Si cerca cioè di rafforzare il sistema di accessibilità pubblica e lo si fa pagare, almeno parzialmente, sotto forma di oneri negoziati sui progetti stessi, che ne usufruiscono. A Milano, invece, nulla. Lo stesso bando di concorso, per tornare all'ex Fiera, era nato così, e questa è responsabilità dell'urbanistica milanese.
Alternative ce n'erano...
E' sufficiente guardare al modello tedesco, che è il più vicino al nostro. A Monaco è stata la pubblica amministrazione a comprare l'area della Fiera, l'ha edificata e ne ha venduto il 45% al privato, con l'imposizione però di una quota tra il 30 e il 40% delle volumetrie residenziali, di edilizia sovvenzionata. Per il resto, il 22% è stato destinato a verde e il restante 33% a servizi, infrastrutture, scuole, musei e così via.
Non c'è una mistificazione quando si parla di negoziazione pubblico - privato?
Il modello negoziale mi trova d'accordo, a due precise condizioni però. Che il controllo resti in mano pubblica per la valutazione complessiva di coerenza con un progetto urbanistico generale, e che la negoziazione sia vera, trasparente e con risultati visibili. Attualmente c'è un'asimmetria tra pubblico e privato. E responsabili sono anche alcuni provvedimenti legislativi, come la legge regionale lombarda 12/2005 e il progetto di legge Lupi di riforma della legge urbanistica nazionale.
Del resto, il mercato immobiliare non mostra segni di cedimento...
Per un insieme di ragioni, nel decennio dal 1996 al 2006 i prezzi del costruito sono aumentati dell'85% in termini reali e a costi di costruzione costanti, con un margine di profitto che è aumentato in maniera incredibile. C'è una domanda che rivolgo spesso ai miei studenti, «come mai tutte le città all'estero diventano sempre più belle e le nostre sempre più brutte?». In Italia, il pubblico non porta a casa ciò che potrebbe.
Luciano Muhlbauer, Sicurezza, quando gli argini cedono, il manifesto, 20 giugno 2007
La sicurezza non è né di destra, né di sinistra, tuona sempre più ossessivo il ritornello. E così il tema forte delle destre italiane ed europee trova adepti anche dalle parti del centrosinistra. Quanto la questione sia seria lo dimostrano la rapida diffusione di quei Patti per la Sicurezza tra Ministero degli Interni e grandi Comuni, nati sull'onda delle campagne demagogiche di lady Moratti, oppure la velocità con la quale il sindaco diessino di Roma ha anticipato le destre, imitando lo squallido gioco della caccia allo zingaro, tanto in voga nella pianura padana.
Un osservatore indipendente potrebbe cogliere un paradosso in tutto questo. Cioè, mentre tutti i numeri confermano che non vi è nessuna esplosione di reati, mezzo mondo grida invece all'emergenza criminalità, specie se micro. Ma qui non stiamo parlando di scienza o di filosofia, bensì di politica e, da questo punto di vista, il paradosso è forse meno incomprensibile.
Viviamo in società urbane profondamente segnate da decenni di privatizzazioni, di deregolamentazioni e di riduzione del welfare e delle tutele pubbliche. Sono saltati sistemi relazionali e identità collettive, le disuguaglianze sociali sono aumentate e la cosiddetta globalizzazione ha spostato i luoghi decisionali in posti inafferrabili e inaccessibili. Oggi, un abitante di una città come Milano vive una solitudine tremenda e le istituzioni e la politica appaiono sempre più ininfluenti rispetto alle sue condizioni di vita.
Tutto questo le destre l'hanno compreso benissimo e a questo cittadino moderno, esposto a precarietà e incertezze di ogni genere, offrono una risposta semplice ed efficace: il tuo nemico è quello della porta accanto, soprattutto se diverso da te. E così, chi non riesce ad accedere alla casa popolare se la prende con il marocchino a cui è stato assegnato un alloggio e non con quella politica che ha deciso di non costruirne più, la vecchietta costretta a lunghe file nell'Asl si arrabbia con il senegalese davanti a lei e non con quei governi regionali che pensano soltanto alla sanità privata e il residente del quartiere popolare attribuisce la responsabilità di ogni degrado al rom di turno e non ai lunghi anni di abbandono delle amministrazioni comunali.
Insomma, una moderna guerra tra poveri, innescata da una campagna securitaria che fornisce nemici abbordabili e identificabili e che si sintonizza con le paure e le ansie dei singoli. In Lombardia, dove il fenomeno è più esplicito, proprio in questi giorni stanno cedendo pericolosamente gli argini della politica. Prima il Presidente della Provincia di Milano, il diessino Penati, inizia a parlare come un leghista e, poi, nel Consiglio comunale milanese un'inedita e indecente alleanza tra destre, Ulivo e Verdi approva una mozione che invoca sgomberi e «numero chiuso» per i rom.
Beninteso, la battaglia contro il securitarismo non si vincerà mai semplicemente resistendogli, ma, in ultima analisi, soltanto ricostruendo una politica alternativa che intervenga con decisione sulla nuova questione sociale, ricostruendo dunque consenso, rappresentanza e credibilità. Tuttavia, questa considerazione non può diventare un alibi per guardare nel frattempo dall'altra parte, cercando di eludere il problema, o peggio ancora per rincorrere le destre sul loro terreno.
È certamente scomodo e difficile stare fuori dal coro che tenta di farsi senso comune, ma qui non si tratta semplicemente di qualche videocamera di sorveglianza o qualche poliziotto in più. No, si tratta della battaglia per l'egemonia culturale, di cui il securitarismo è componente fondamentale, che le destre agitano in tutto l'occidente. Ecco perché gli argini non possono cedere, almeno a sinistra del Partito democratico.
* Consigliere Regionale Prc della Lombardia
Manuela Cartosio, Il nomade PD punta a destra, il manifesto, 20 giugno 2007
A Milano e in Lombardia l'Unione non esiste più. Si sta rapidamente sciogliendo per l'effetto combinato di due fattori: da una parte, le dimensioni inattese di un'attesa sconfitta alle elezioni amministrative; dall'altra, la gestazione del Pd. Fregandosene altamente del forte astensionismo di sinistra, l'Ulivo ha interpretato il responso delle urne esclusivamente come una domanda di destra. Per soddisfarla si è messo a parlare e ad agire come la destra su due terreni caldi: la sicurezza (zingari fuori dalla balle) e il federalismo fiscale (i soldi dei lombardi devono restare in Lombardia). Risultato: al Comune di Milano e in Regione, dove il centro sinistra è all'opposizione, l'Unione vota in ordine sparso su campi rom e federalismo fiscale. Alla Provincia di Milano, governata dal centro sinistra, la linea antirom imboccata dal presidente Penati (Ds) mette nell'angolo Rifondazione che, costretta a mandar giù l'amaro boccone, chiede una «verifica politica».
Il fatto simbolicamente più eclatante, per ora, è avvenuto lunedì a Palazzo Marino. La consigliera diessina Carmela Rozza ha presentato una mozione che chiede lo sgombero «immediato» dei campi nomadi abusivi e sollecita il «numero chiuso» per i rom. Mozione bipartisan approvata dal centro destra e dall'Ulivo. Solo Rifondazione, Pdci, Milly Moratti (Lista Ferrante) e Basilio Rizzo (Lista Fo) non l'hanno votata. Non è chiaro cosa s'intenda per «numero chiuso» e con quale «criterio» vada calcolato. Basta dire che «Veltroni a Roma l'ha già adottato» e il gioco è fatto. Gira una cifra: al massimo 2.500, contro i 6 mila rom «censiti» all'ingrosso a Milano. Tutta gente che il centro destra, che governa la città da 15 anni, avrebbe già volentieri cacciato, senza aspettare la mozione di una diessina. Non lo può fare: gli sgomberi non risolvono il problema, lo spostano. La mozione ulivista, quindi, è puro marketing politico, esibizione di muscoli per dimostare che il centro sinistra non è buonista. Ma l'originale è più convicente della copia, vecchia massima puntualmente confermata lunedì nell'aula di Palazzo Marino. Gli abitanti di Chiaravalle, angustiati da cinque campi rom, venuti a sostenere la consigliera Rozza (ex sindacalista del Sunia) hanno riservato gli appluasi più caldi alla Lega e ad An. Un vero capolavoro, commenta Vladimiro Merlin (Prc), «il tentativo maldestro di far concorrenza alla destra sul suo terreno è finito in un autogol». Beffa finale: la mozione Rozza è passata con gli emendamenti peggiorativi della destra.
Il (futuro) Pd a Palazzo Marino si è messo nel solco tracciato da Filippo Penati. Il presidente della Provincia la settimana scorsa ha chiesto al governo «di Roma» di ripristinare il visto d'ingresso per romeni e bulgari (poi i bulgari li ha persi per strada, essendo i rom quelli da bloccare). Ha ripetutamente ipotizzato «maggioranze a geometria variabile». Come Sarkozy, ha individuato nel Sessantotto le scaturigini del buonismo e della non osservanza delle regole. Come Cofferati, del Pci ha rimpianto le cose peggiori: il culto dell'ordine e dell'autorità. Tutto questo parlare si è condensato in una delibera della giunta provinciale che destina 1 milione di euro al Patto per la sicurezza di Milano (serviranno a pagare gli straodinari ai poliziotti). Gli assessori di Rifondazione l'hanno approvata «credendo» che contestualmente una cifra analoga sarebbe andata per «l'inclusione sociale». Ne è nato uno scontro in pubblico e al calor bianco. Ieri Rifondazione ha dovuto cedere. Aspetta Penati in consiglio quando si voterà l'assestamento di bilancio. Per rimpiazzare i voti del Prc a Penati non basterebbero i voti della Lega e dell'Udc. L'alleanza variabile dovrebbe estendersi a Forza Italia. Formigoni glielo ha già chiesto e Penati si è ben guardato dal mandarlo a quel paese.
Così stando le cose sembra un'inezia (ma non lo è) il voto di ieri al Pirellone. Sulla proposta di legge iperleghista sul federalismo fiscale - roba che la Corte costituzionale butterebbe direttamente nella spazzatura - l'Ulivo si è graziosamente astenuto. Pur d'approvare qualcosa con la destra ha fatto a pezzi l'ordine del giorno concordato dall'Unione. Prc e Pdci hanno bocciato sia la legge che l'odg.
Cinzia Gubbini, «Anche noi rom vogliamo parlare basta decidere sulle nostre teste», il manifesto, 20 giugno 2007
Il comitato «Rom e sinti insieme» chiede partecipazione. E intanto si muove: «I nostri avvocati stanno valutando la possibilità di impugnare il patto di Milano»
Hanno già messo in campo i loro avvocati. L'obiettivo è valutare la possibilità di impugnare in tribunale, o davanti un organismo di giustizia internazionale, il patto per la legalità e la sicurezza siglato dal comune di Milano - per ora l'unico operante in Italia. «Riteniamo ci siano le premesse per considerare quel patto una discriminazione razziale», spiega Carlo Berini dell'associazione Sucar Drom («Bella strada» in lingua sinta). L'associazione fa parte del comitato «Rom e sinti insieme», un agglomerato di realtà che da anni lavorano con le minoranze rom e sinte in Italia. E' una novità importante - perché è difficile mettere in piedi coordinamenti nazionali di rom e sinti, e questo regge bene - ma anche interessante per l'analisi da cui muove. «Riteniamo che il sistema operato finora nei confronti di rom e sinti sia fallito perché si è sempre basato sul concetto di integrazione delle minoranze nella maggioranza numerica. Il modello che noi proponiamo è quello dell'interazione», dice Berini. A chi alza gli scudi contro i muri valoriali che anche le comunità rom frappongono con il mondo dei «gagè» ( i «non rom») risponde: «Certo che anche i rom devono cambiare, le società che non si muovono sono quelle destinate a morire. D'altro canto va considerato che se i rom e i sinti continuano a esistere dopo secoli di persecuzione, forse sono disposti al cambiamento più di quello che si pensa».
Ieri tre rappresentanti del comitato hanno tenuto una conferenza stampa a Roma proprio davanti Palazzo Chigi. All'interno si svolgeva un convegno sul razzismo e la discriminazione organizzato dall'Unar, l'ufficio contro il razzismo del ministero delle Pari Opportunità. Solo a pochi metri, in Largo Goldoni, nel pomeriggio Forza nuova raccoglieva firme per lo spostamento dei campi nomadi fuori dalla città. Eva Rizzin - ricercatrice universitaria e esponente del Comitato Rom e sinti insieme - ha puntato tutto sulla partecipazione: «Non siamo e non vogliamo essere minoranza senza voce. La verità è che da anni i rom e i sinti in Italia subiscono discriminazioni in tutti i campi, non soltanto in quello abitativo, e la loro partecipazione politica e sociale non è mai stata incentivata». Il comitato, intanto, sta pensando alla possibilità di organizzare una manifestazione nazionale (sarebbe la prima volta) e un convegno internazionale. Per quanto riguarda il patti di «solidarietà e sicurezza», come quello firmato anche a Roma, l'associazione RomAzione ha già inviato una lettera agli organismi internazionali, per metterne in luce gli aspetti più preoccupanti sotto il profilo della discriminazione razziale. «anche noi siamo per la legalità, pensiamo che se qualcuno commette un reato debba pagare, è ovvio - spiega Eva Rizzin - ma qui il problema è un altro: si ritiene che se un membro di una famiglia rom commette un reato, allora è tutta la famiglia a dover pagare e, ad esempio, ade essere cacciata da un campo». «Accadrebbe mai una cosa del genere per una famiglia italiana che vive in una casa popolare?», è la provocazione di Berini. «Allora è questo che stiamo dicendo: perché per le famiglie rom e sinte deve esistere un trattamento diverso? Questo tipo di "regolamenti" sono già stati sperimentata in diversi campi rom, e non hanno portato a nulla. La soluzione? Noi non la conosciamo. Ma pensiamo che può essere trovata solo ragionando insieme, con la partecipazione dei rom e dei sinti».
Come già emerso platealmente nel caso di “Chinatown”, a Milano (e in generale nelle città italiane) il tema dell’urbanistica come idea generale di città sembra totalmente evaporato dalla coscienza e consapevolezza della pubblica amministrazione, sostituito vuoi da reazioni scomposte caso per caso, vuoi da “soluzioni” contestuali che perdono poi completamente di vista il contesto più ampio di sistema entro il quale dovrebbero collocarsi.
Ed esplode ora la questione dei Rom: vera esplosione “politica”, inserita nella sciagurata e autoreferenziale strategia dell’ormai a quanto pare ex centrosinistra all’inseguimento di fantomatici ceti medi produttivi del nord. Di fatto a fare invece inconsapevolmente concorrenza alla Lega e ai neofascisti sul medesimo terreno del disprezzo per la diversità, della diffidenza programmatica, del “padroni a casa nostra”.
E pure, anche il tema dei Rom è sostanzialmente e squisitamente urbanistico: almeno fin quando non sconfina in questioni di ordine sociale, comunque collegate. Ma l’ex urbanistica del disprezzo scivola ormai verso il disprezzo tout court , e poi verso il “disprezzo di sinistra”. C’è qualcosa, che l’urbanistica può fare a questo proposito? Vengono alla mente, le normali norme tecniche delle città americane soprattutto del West (ma anche a New York c’è un caso recente) con la dovizia di regole per i trailer parks , o il recente dibattito britannico enfatizzato dalla presenza dei nomadi sulle aree destinate alle Olimpiadi del 2012 nell’area di Stratford.
L’importante è parlare di qualcosa d’altro, diverso dall’orribile, inaccettabile, “numero chiuso” proposto dalla signora Carmela Rozza, eletta nelle liste DS al Comune di Milano, e con una carriera sindacale nel settore della casa. Brr! (f.b.)
1. I primi cinque capitoli della prima parte del “Documento” costituiscono indubbiamente una delle più cospicue elaborazioni prodotte in Italia al fine di contestare radicalmente, in sede teoretica, la prassi e ancor più la cultura della pianificazione territoriale e urbanistica consolidata, negandone non specifiche forme e modalità applicative, ma gli stessi presupposti concettuali, con ciò aggredendo assunti la cui valenza è ben più ampia di quella attinente il governo del territorio.
Non poche delle posizioni affermate, infatti, mettono in discussione, o francamente contestano, elementi informatori generali dell’ordinamento costituzionale e giuridico italiano.
La più spettacolare di tali affermazioni è senza dubbio quella per cui nel “continuo confronto tra ragioni”, al quale dovrebbe sostanzialmente ridursi l’attività di governo del territorio, “lo stato [inteso come il complesso dei soggetti istituzionali] ha una voce autorevole, ma pur sempre una voce tra le voci”. Forse non siamo all’estinzione dello stato di leniniana memoria, ma certo siamo a una delle più spinte concezioni di “stato minimo” mai avanzate dall’”anarchismo reazionario”, o “liberismo libertario”, costituente uno storico, robusto e rigoglioso filone della destra nordamericana (più ancora che, aggregatamente, anglosassone).
Ma essa trova una coerente assonanza nella critica del “modello italiano — e, in generale, [del] modello continentale — [...] proprio degli stili amministrativi legati alla tradizione giuridica del diritto romano e inclini a considerare la coppia formata dai concetti legge e contratto come una coppia dicotomica”, e nella propensione per il “modello britannico [...] proprio degli stili amministrativi legati alla tradizione giuridica anglosassone e inclini a considerare la coppia legge e contratto come un continuum in cui i due concetti, legge e contratto, tendono a sfumare l’uno nell’altro e sono riconoscibili nella loro individualità solo agli estremi del continuum”.
2. Nel complesso, l’intera elaborazione risponde a una concezione integralmente (si sarebbe tentati di dire integralisticamente) “mercatistica” della società e dei rapporti intersoggettivi.
Non deve ingannare, in proposito, il ricorso dell’espressione “valori d’uso” (degli immobili). A prescindere da ogni pregressa difficoltà teoretica di definizione dei “valori d’uso”, è reso evidente dal contesto dei ragionamenti svolti che in realtà ci si riferisce ai “valori di scambio”. E infatti l’assillo con il quale tutta l’elaborazione si confronta, e che infine ritiene di risolvere, consiste nella duplice (e potenzialmente contraddittoria) necessità di fornire agli operatori immobiliari “certezze che garantiscano gli investimenti” e flessibilità per “adeguare le norme [e conseguentemente i programmi di investimento] ai possibili mutamenti del mercato”.
Nel tessuto di questa dialettica di interessi (che talvolta si trasfigurano terminologicamente in “diritti”) compiutamente facenti capo ai proprietari e agli operatori immobiliari, può tutt’al più insinuarsi, pare, qualche domanda non “mercatistica”, alla quale (la si denomini o meno, a questo punto un po’ pomposamente, “interesse generale”) competerebbe ai soggetti pubblici istituzionali tendere a dare (magari parziale, parzialissima) risposta, attraverso la “negoziazione”, con i proprietari e gli operatori immobiliari, delle caratteristiche e dei requisiti delle trasformazioni territoriali da progettare e attuare.
Insomma: ai soggetti pubblici istituzionali si affida il compito di usare il potere “politico” di cui dispongono per soddisfare, nella misura in cui non intacchino sensibilmente gli interessi dei soggetti capaci di esprimersi sul “mercato”, le domande, “residuali”, si deve supporre, invece incapaci di esprimersi nei termini che il “mercato” riconosce.
2. Eppure, già all’economia liberale classica non era affatto estranea la consapevolezza dell’esistenza di beni non “mercatizzabili”, in quanto “beni collettivi indivisibili”, o in quanto “beni esistenziali” (i beni che non hanno valore perché sono valori), o in quanto non sostituibili (ovvero fungibili), o non riproducibili (tipicamente, le cosiddette “risorse esauribili”, e i cosiddetti “beni posizionali”). Ciò perché relativamente a tali beni il “valore di scambio”, cioè il prezzo, non è un indice di valutazione appropriato, non potendo formarsi secondo i meccanismi riconosciuti propri, per l’appunto, del “mercato”.
Sulla base di tale consapevolezza si era riconosciuto, nell’ambito del pensiero liberale, rientrare nell’”ambito necessario” delle determinazioni politiche esprimere giudizi di valore su quei beni che il “mercato” non è in grado di valutare soddisfacentemente, e quindi di regolarne, con riferimento ai propri codici, la produzione (per quanto possibile) e la distribuzione/fruizione.
E si era riconosciuto che configurare in siffatti termini l’”ambito necessario” delle determinazioni politiche, escludendone debordamenti intromissori nell’ambito del “mercato”, ma anche intrusioni del “mercato” nei codici valutativi delle determinazioni politiche, significava che tali determinazioni dovevano discendere da un “progetto di società”. Soggiungendo che lo strumento principale per definire e perseguire un “progetto di società” è la “pianificazione”.
Di più, si era notato come, in particolare, la pianificazione territoriale e urbanistica avesse quali suoi oggetti tipici “risorse esauribili”, “beni posizionali”, beni non riproducibili (o assai limitatamente riproducibili), beni non sostituibili (o assai limitatamente sostituibili). E che quindi sua precipua finalità dovrebbe essere valutare tali risorse e tali beni secondo codici “non mercatistici”, cioè secondo giudizi di valore qualitativi, esprimenti la coscienza sociale (almeno maggioritaria), e coerenti con il “progetto” che la società (attraverso i processi decisionali politici) pone per se stessa.
Per cui poteva asserirsi che la pianificazione territoriale e urbanistica dovrebbe avere la “qualità” (secondo la percezione e consapevolezza che storicamente di essa si forma e si esprime) come suo obiettivo, e che essa ritrova nella definizione e nel perseguimento della “qualità” (che è un valore, e che pertanto, come s’è detto, non può essere misurata dal “mercato”) la sua ragion d’essere. [1]
3. Delle consapevolezze ora ricordate, e dei ragionamenti che ne sono stati fatti discendere, ora sommariamente ricapitolati, non v’è segno nel “Documento” in esame. Anzi, come s’è già asserito, esso costituisce uno dei più rilevanti esempi di totale estraneità alle storiche e contemporanee elaborazioni culturali alle quali appena sopra si è fatto riferimento.
Va piuttosto rilevato come esso si sforzi, dichiaratamente, di proporre un modello di attività pianificatoria che, nel soddisfare al meglio gli interessi (innanzitutto, ed egemonicamente) dei proprietari e degli operatori immobiliari, assuma sincreticamente le valenze perciò più funzionali sia del “modello” di attività pianificatoria “britannico” sia di quello “continentale”.
Si riconosce, infatti, che l’elevata flessibilità del “modello britannico” discende dalla latitudine, anzi dalla quasi assolutezza, della discrezionalità delle determinazioni delle pubbliche amministrazioni in ordine alle trasformazioni del territorio, fondata a sua volta nella tradizionalmente riconosciuta appartenenza al potere pubblico della facoltà di operare tali trasformazioni, ma si esclude di sussumere sia l’ampiezza di tali poteri discrezionali, sia, soprattutto, il suo presupposto.
Al contrario, si propone di assumere i presupposti del “modello continentale”, cioè il riconoscimento (più o meno ampio) dell’inerenza al diritto di proprietà degli immobili della facoltà di operarvi trasformazioni, fino a configurare il piano come (null’altro che) “il piano delle norme che riconoscono i diritti reali — e non attesi — d’uso del suolo”. Detto altrimenti: “una sorta di catasto, un archivio degli usi del suolo che si aggiorna continuamente con le nuove norme introdotte dai progetti di trasformazione approvati”.
Giacché, invece, nel modello proposto “il piano regolatore generale perde le sue valenze strategiche”, e “programmi e visioni [...] si traducono nelle linee guida e nelle strategie che l’amministrazione esprime nel piano strategico, approvato dal governo locale come [mero] documento politico.
In tale modello, si aggiunge, “la cerniera tra il documento legale delle norme e il documento politico delle strategie è costituita dai progetti di trasformazione. Il controllo dei progetti diventa una valutazione delle conseguenze che l’attuazione di un progetto comporterebbe sulla situazione esistente, e una valutazione della coerenza di quelle conseguenze con le strategie dell’amministrazione. Ogni progetto, coerente con le strategie, una volta approvato si configura come una variante delle norme esistenti, e diventa esso stesso parte delle norme”.
In pratica: il piano generale (“sorta di catasto”) attribuirebbe a ciascun immobile, o complesso di immobili, il “valore” (“di scambio”, ovverosia il prezzo presumibilmente traibile) connesso alla sua trasformabilità fisica e funzionale (effetto che nel “modello britannico” discende soltanto dall’intervenuta definizione dei piani/progetti operativi), garantendo ai relativi proprietari le ambite “certezze” (irreversibili, cioè non intaccabili da diverse scelte di trasformabilità, le quali devono essere preventivamente “negoziate” con gli stessi proprietari). A partire dalle acquisite “certezze” le concrete trasformazioni effettuabili sarebbero definite dai singoli progetti, attraverso, per l’appunto, la “negoziazione” con la pubblica autorità istituzionale, la quale ne valuterebbe la coerenza con le proprie strategie, salvo convincersi, negoziando, che queste ultime devono essere mutate, e alla quale spetterebbe poi di registrare nel piano generale i nuovi (e superiori, si può facilmente preconizzare) “valori” assegnati dai progetti decisi.
In estrema (ma non distorcente) sintesi: il pressoché unico compito assegnato alla pianificazione pubblica del territorio sarebbe quella di assicurare la (crescente) “valorizzazione” (nel senso dell’attribuzione di “valori di scambio”) degli immobili, e la minimizzazione del “rischio” d’intrapresa per i proprietari e gli operatori immobiliari.
Entro tale cornice, si è tenuti a ritenere, la pubblica autorità istituzionale può/deve “negoziare” ben poco: l’ottenimento di qualche metro quadrato in più di attrezzature per la fruizione collettiva, anche dei portatori di domande “non solvibili”, se ci riesce.
4. Anche in quanto a proposito della “negoziazione” afferente le trasformazioni di immobili tra il "pubblico" (per esso intendendosi l'istituzione democratica rappresentativa della comunità locale) e il "privato" (per esso intendendosi i promotori delle trasformazioni, coincidano o meno con i proprietari degli immobili interessati), con riferimento al “Documento” in esame come a qualsiasi altra teorizzazione o pratica, v’è da dire che essa verrebbe a essere comunque pesantemente falsata laddove il "pubblico" avesse di fronte, per così dire, un "contraente obbligato", cioè la proprietà in essere degli immobili interessati.
Laddove, in altri termini, il "pubblico" non potesse scegliere il "privato" che avanzasse la proposta più conveniente, vale a dire che configuri il migliore (e più avanzato) equilibrio tra gli interessi generali e gli interessi particolari. A questo fine, cioè, paradossalmente (ma non tanto), per introdurre i vantaggi (collettivi) del "mercato" nelle decisioni afferenti le trasformazioni urbane, conferendo al "pubblico" la possibilità di fare concorrere tra loro diversi operatori volti al conseguimento di "profitti", e non al lucro di "rendite", varrebbe la pena (magari soltanto per le previste trasformazioni di maggiore consistenza, o comunque di rilevanza "strategica") di rivisitare l'istituto della preventiva acquisizione pubblica della totalità degli immobili compresi negli ambiti interessati.
Non è un caso, presumibilmente, che il “Documento” in esame, che ostenta fervoroso consenso verso tutti gli “strumenti [che] il legislatore inventa” negli ultimi anni (“dopo che la legislazione precedente aveva introdotto strumenti che portavano a compimento il disegno del sistema di pianificazione”), i quali “permettono non di dare attuazione alla pianificazione stessa, ma di discostarsene in variante rispetto alle previsioni di piano”, manifesta molta freddezza verso le "società per progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana", di cui al comma 59 dell’articolo 17 della legge 127/1997, ove si dispone che gli interventi da progettare e realizzare devono essere “in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti”, e che si deve provvedere “alla preventiva acquisizione delle aree interessate”.
5. Coerentemente con quanto sostenuto e argomentato nei primi quattro capitoli, il quinto e ultimo capitolo della prima parte del “Documento” indica quali concretamente dovrebbero essere le “nuove procedure urbanistiche” da seguire (per ora) a Milano.
Conviene rivolgere l’attenzione a quelle previste per la “seconda fase” del processo di innovazione proposto, in quanto solamente allora il modello delineato è previsto possa trovare compiuta attuazione.
Sinteticamente, è previsto che
“nella seconda fase il piano regolatore avrà un ruolo diverso e meno vincolante, in quanto le linee guida per le trasformazioni urbane saranno espresse dal Documento di Inquadramento, o piano strategico degli usi del suolo, e le trasformazioni decise tenendo conto delle linee guida, e non più soggette a previsioni normative di piano regolatore. Il traguardo ultimo del processo è un piano regolatore che non comprenda determinazioni specifiche circa le trasformazioni future, ma esclusivamente i diritti d’uso del suolo confermati e le salvaguardie. La proposta delle trasformazioni è lasciata all’iniziativa del comune e dei soggetti pubblici e privati.
”Infatti si assume [...] che [...] non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore [...] ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi. In questa prospettiva programmi e progetti costituiscono uno strumento per la verifica e non solo per la messa in opera delle strategie. In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto. In accordo con questa prospettiva, progetti e programmi di intervento proposti da soggetti pubblici e privati sono un contributo indispensabile alla verifica delle strategie dell’Amministrazione, e possono suggerire utili modificazioni o integrazioni delle politiche pubbliche in attuazione delle strategie nonché delle strategie stesse. Infine, anche progetti e programmi proposti indipendentemente dalle strategie sono utili, purché la proposta sia motivata da argomentazioni sufficienti a far modificare le strategie già adottate.
E viene ulteriormente ribadito che il Documento di Inquadramento non dev’essere “comunque vincolante”: esso, si sottolinea, ha un “valore politico-programmatico e non giuridico” e “risponde alla scelta di utilizzare programmi e progetti come strumenti non solo di attuazione, ma anche di verifica ed eventualmente di motivato cambiamento delle strategie”.
La mostra ViviMi alla Triennale spiega che tra il 2000 e il 2004 nella provincia si sono costruiti 68 milioni di metri cubi di nuova edilizia.
Come sono queste nuove costruzioni? Come quelle che le hanno precedute. Il guaio delle mostre è di subire il fascino delle belle immagini, anche se sono immagini che non rappresentano nulla di bello e, con questo involontario artificio, imbelliscono tutto. Bisogna proprio che il soggetto sia terribile perché una sua bell´immagine solleciti in noi solo orrore, disgusto o pietà. Senza arrivare a tanto dico che la mostra ViviMi ha nobilitato una realtà che, per chi la conosce, non è quella descritta, è peggio. Basta girare per la provincia in automobile, lasciare i nuclei storici dei centri abitati, per provare un senso di disagio visivo e d´inquietudine in questo quasi continuo di costruito fatto di piccoli lotti impenetrabili circondati da muri di cinta o da siepi: la fuga nel privato che pone un´infinità di problemi e d´interrogativi. Potremmo stare a ragionarvi sopra per giornate intere, domandarci per esempio se le vittime delle "rapine in villa" avevano messo in conto anche quest´evenienza quando hanno fatto la loro scelta residenziale o se hanno ben valutato la fatica di accompagnare i figli a scuola in macchina tutte le mattine.
In ogni modo ha prevalso un modello, che è ovviamente frutto di una cultura, in questo caso con una forte componente imitativo-emulativa. Una cultura del tutto impermeabile, direi anzi ostile, alla cultura urbanistica prevalente tra i cultori di questa disciplina: una sconfitta dell´urbanistica ragionata, che vuole essere allo stesso tempo almeno parsimoniosa nell´uso delle risorse territoriali ma non preconcettualmente ostile ad ogni trasformazione o sviluppo. Dal mero punto di vista estetico, salvo rarissime eccezioni, le case unifamiliari sono il peggio che si possa immaginare (non solo in Brianza od in Italia) ed anche qui il deficit di cultura ma anche di tradizione ha colpito ancora. La casa unifamiliare in Italia, a differenza dell´Inghilterra o d´altri paesi soprattutto nordici, non ha storia né modelli storici. Quanto all´architettura, venendo ai nuclei urbani, le cose non vanno molto meglio. E´ difficile spiegare l´ostilità tutta milanese al nuovo, soprattutto se alto, che serpeggia in città assumendo molto spesso il connotato di una rivendicazione del diritto ad una sorta di "servitù di panorama" che l´ordinamento giuridico italiano non contempla e che è stato riconosciuta solo nei casi nei quali si accompagna a violazioni d´altre norme urbanistiche: servitù la cui violazione è anche difficilmente quantificabile in termini di danno economico.
Una sconfitta dell´architettura? Forse sì se penso al vecchio adagio veneziano: «Non vorrei esser padrone della Ca´ d´Oro ma di quella di fronte», che tradotto in milanese suonerebbe «Non vorrei essere il priore di Sant´Ambrogio ma vedere la basilica dalle mie finestre». I fondatori del Pd del Nord hanno da poco lanciato il loro grido localistico: «Federalismo fiscale, fisco e redditi, sicurezza e infrastrutture». Forse secondo loro l´urbanistica può ancora aspettare. Peccato.
Che la ripresa sia in atto lo testimoniano i cantieri, le gru, il traffico. Che Milano scalpiti per dare un colpo d'acceleratore allo sviluppo trova espressione in un intenso susseguirsi di proposte e annunci. Che, insomma, si respiri un'aria di cambiamento segna un indubbio vissuto di dinamicità da considerare con attenzione e favore. Procede invece a passo lento l'elaborazione di un disegno generale della città, che dica come i milanesi immaginano e vogliono la loro città di qui ad almeno vent'anni. Il governo della cosa pubblica ha lasciato alle spalle una mentalità vecchia, che pretendeva di pianificare tutto sino alla possibile mortificazione di slanci e sforzi creativi, ma non è ancora riuscita a trovare un modo trasparente e adeguato di darsi obiettivi, linee, regole, attori da coinvolgere. Che sia una strategia atta ad assecondare la crescita purchessia o un procedere senza malizia, dettato solo da carenze culturali, è questione aperta, su cui peraltro giustamente si anima il dibattito politico. Resta il fatto che manca il quadro normativo e progettuale complessivo entro cui collocare gli interventi singoli e la riqualificazione di aree definite.
Il progetto «Porta Nuova» presentato ieri è esemplare. Supera particolarismi e velleità trascorse, riunisce e integra in un «unicum» le annose questioni di Garibaldi- Repubblica, Varesine, Isola. Ma Comune e Regione debbono ancora dire come intendono inserire questo vasto e qualificato insediamento nella parte di città esistente e come collegarlo con i progetti pure importanti e ambiziosi in corso di messa a punto e realizzazione nelle altre zone, di modo che Milano sia riconoscibile nel tessuto connettivo che è un impasto di privato e di pubblico, fatto di socialità, servizi, mobilità, relazioni umane, spazi di aggregazione, pluralità e varietà identitarie, non solo di grattacieli.
Si sa che è in corso l'elaborazione del «piano territoriale» generale della città, che l'assessore all'Urbanistica punta a far diventare il documento legge entro il 2008. Sarebbe prova di una effettiva vivacità democratica se linee portanti e strumenti di attuazione venissero al più presto portati al vaglio dell'opinione pubblica e dei luoghi istituzionali in cui svolgere il confronto. È doveroso capire dove la città sta andando quanto a strutture e a qualità dell'esistenza. Così sarà possibile verificare il consenso sul trend attuale e, qualora fossero necessari riequilibri, introdurre correttivi. Dalla politica ci si aspetta governance e bene comune oltre a cantieri.
Quei giganti di cemento senza regole e strategie
di Sebastiano Brandolini
A Milano, di edifici alti attualmente ce ne sono una ventina, perlopiù di scarsa qualità e costruiti negli anni 60. Potrebbero nascerne quasi altrettanti nei prossimi cinque anni, anche in parti della città finora considerate esterne rispetto alla pressione immobiliare che solitamente ne giustifica l’alto investimento. Dopo l’11 settembre 2001, per qualche anno qualcuno pensò che il grattacielo fosse in via d’estinzione.
Ma tra uomo e grattacielo si è nel secolo scorso formato un sodalizio commerciale, tanto che oggi è difficile che una città possa dirsi tale se ne è senza. Resta comunque aperta per Milano la questione di dove e secondo quale logica costruirne; la geografia della città potrebbe infatti cambiare in modo inaspettato.
In una città congestionata dal traffico privato, l’insediamento dei grattacieli dovrebbe essere regolamentato in base alla disponibilità del trasporto pubblico su ferro. Così, perlomeno, avviene in diverse città europee, tra le quali Londra, dove pur non essendoci un’opposizione morale all’edificio alto, vige la regola secondo cui per poter realizzare un grattacielo non devono esserci parcheggi privati nei pressi, perché l’accessibilità va soddisfatta per intero dal trasporto pubblico. Di fatto questa norma non scritta implica che i grattacieli possano insediarsi solamente in certe zone dei centri cittadini.
Le cose non sono altrettanto chiare e definite nel caso di Milano. Se prendiamo tre grattacieli dalle forme ardite oggi in fase di progettazione (oggetto, tra l’altro, di una mostra allo Spazio FMG di via Bergognone), uno all’Isola, uno a Rozzano, e uno in piazza Caneva, soltanto il primo potrebbe assolvere i requisiti della super-accessibilità. L’area tra Garibaldi e Centrale – dove si trova l’Isola – è oggi l’unico hub trasportistico di Milano, con due stazioni ferroviarie, il passante e due linee di metrò; Stefano Boeri ha progettato una torre topiaria, in cui il verde ostruisce quasi tutte le vedute dalle finestre, una pseudo-foresta verticale; pale eoliche in copertura intercetteranno il poco vento che soffia sulla pianura padana. A Rozzano, un grattacielo inclinato alto oltre quaranta piani progettato dai 5+1AA godrà dell’estensione della MM2 (in cantiere), ma per quanto riguarda la visibilità si affiderà soprattutto al traffico della Tangenziale ovest. E Milano Fiori diventerà una vera edge city, al limite del Parco Agricolo Sud, l’unica vera zona di salvaguardia rimasta. La terza torre, per mano di Archea, è in piazza Caneva, è alta ventisette piani ed è residenziale come la zona Sempione dove si trova; lontana dalla MM, le sue facciate inclinate sono rivestite di un materiale ceramico luccicante rivestito di una patina metallica, mentre i piani sono interamente avvolti da logge.
La prevista realizzazione delle tre torri che occuperanno il cuore della vecchia Fiera, giustamente dipenderà dalla creazione di una nuova stazione della metropolitana, oggetto della convenzione recentemente stipulata da Citylife con il Comune di Milano. Altre torri che dovrebbero prossimamente popolare lo skyline milanese si trovano a Sesto San Giovanni, lungo via Melchiorre Gioia, sull’area Garibaldi, a Rho-Pero, forse a Lambrate. Sono troppi i grandi progetti realizzati o in via di realizzazione a Milano, che in passato hanno sottovalutato o continuano a sottovalutare l’importanza vitale del trasporto pubblico su ferro per il proprio successo immobiliare: tra questi, la Bicocca, il Portello, Santa Giulia. Lo scollamento spazio-temporale tra forma della città e trasporto resta a tutt’oggi una delle grandi questioni irrisolte dell’identità metropolitana milanese, dove regnano le non-regole dell’improvvisazione. Quando una città non si dota di qualcosa che assomigli a un piano, diventa estremamente difficile indirizzare le scelte degli operatori immobiliari. Le leggi urbanistiche regionali, che si fondano sulla prassi della negoziazione, non incoraggiano la definizione di un quadro strategico di riferimento.
È da questa insoddisfacente situazione normativa e amministrativa, che nasce l’ultima generazione di torri o grattacieli, comunque le si voglia chiamare. Queste sono l’espressione di volatili occasioni immobiliari e simboliche, piuttosto che frutto di ragionamenti infrastrutturali e strategici riferite alla città. Eppure governano la geografia e la visibilità del futuro milanese. Chi viaggia per il mondo, riconosce subito lo stile veloce di questi simboli verticali che vogliono innanzitutto far parlare di sé ed essere à la page, perché emulano, in scala ridotta e a macchia, le boom-town di Shanghai e Dubai, dove migliaia di torri si contendono lo skyline a perdita d’occhio, annullandosi a vicenda.
Nove grattacieli sopra il Pirellone
di Stefano Rossi
Milano cresce in altezza, stavolta non solo in progetti da tenere in un cassetto. E così, in un colpo solo, il record detenuto per mezzo secolo dal Grattacielo Pirelli di Giò Ponti, 127 metri, è destinato a crollare ben nove volte nel giro dei prossimi sette-otto anni, a partire dalla conclusione dei lavori, prevista nel 2010, del Pirellone bis, la nuova sede della regione Lombardia in via Melchiorre Gioia, alta 160 metri. Una mostra intitolata «Nuove verticali a Milano», allo spazio Fmg per l’architettura in via Bergognone, presenta ora quattro delle altre torri che modificheranno il paesaggio urbano. La più imponente (200 metri ma potrebbe arrivare a 212), è la Torre Landmark di Rozzano, masterplan di 5+1AA e Metrogramma (architetti Alfonso Femia e Gianluca Peluffo), uffici pensati con attenzione agli aspetti energetici e ambientali. "Solo" 108 metri, invece, conta uno dei due grattacieli residenziali del Bosco Verticale di Stefano Boeri (il gemello piccolo è di 78 metri). Progettati all’Isola per Hines, prevedono 900 alberi (550 di qua e 350 di là) che in altezza si dispongono di piano in piano, contribuendo all’assorbimento di polveri sottili e biossido di carbonio. Pale eoliche e pannelli fotovoltaici forniranno energia alternativa. Sarà, infine, di 94 metri la Torre delle Arti (case, negozi, un ristorante) dello studio Archea Associati, che sorgerà su via Principe Eugenio sugli ex uffici Montedison. Anch’essa ispirata al risparmio energetico, avrà scanalature rivestite in oro a 24 carati per brillare anche al crepuscolo.
Tutte opere ancora da realizzare, ma già decise tutte assieme. E ora che la corsa all’altezza è ripartita, l’asticella del traguardo è ormai sui 200 metri, e il primato se lo prenderà uno dei tre colossi di Citylife, quello firmato da Isozaki (218 metri), mentre lì accanto i grattacieli di Hadid e Libeskind si fermeranno rispettivamente a 185 e 170. Senza contare, appena fuori dal territorio comunale, le torri di 200 metri sulla "Rambla" progettata da Renzo Piano per l’ex area Falk.
La frenesia verticale ha del resto colpito tutto il mondo, in una rincorsa continua. L’edificio più alto del pianeta, il Taipei 101 (508 metri), sarà superato nel 2011 dalla Freedom Tower di Ground Zero a New York, fermo alla quota simbolica di 541 metri o 1776 piedi, come la data della Dichiarazione di indipendenza. Ma dal 2009 la Burj Dubai metterà tutti d’accordo: la sua altezza è tenuta segreta ma si dice sarà fra i 700 e i 950 metri. Tuttavia il caso Milano è finito sui giornali stranieri per l’ampiezza della trasformazione urbanistica in corso. Qualche giorno fa se ne è occupato il Wall Street Journal, spiegandola col fatto che la percentuale di uffici rispetto alle proprietà immobiliari, in Italia, sarebbe la metà della media Ue.
L'origine recente del disastro della Milano neoliberista è descritta e criticata qui e qui. Ma si vedano anche altri numerosi scritti nella cartella dedicata a Milano ; in particolare quelli di Sergio Brenna, Lodo Meneghetti, Vezio De Lucia, e altri che hanno saputo vedere..
PRIMA domanda: deve far paura, l´enorme risveglio urbanistico che, dopo quarant´anni di inattività, partendo da Garibaldi ha cominciato a cambiare uno spicchio di Milano e nel giro di un anno, secondo i piani del Comune e degli sviluppatori, si moltiplicherà per quattro o per cinque, dando il via a una quindicina di grandi interventi? La risposta ragionevole è sì, perché i progetti complessi sono sempre pieni di incognite, e se non sono gestiti bene le incognite finiscono inesorabilmente per diventare guai.
Seconda domanda: la paura ragionevole deve paralizzare quella fetta di città che oggi la subisce dopo essersi opposta al cemento, ai progetti, ai guadagni che la riedificazione di zone vuote di città promette e ai pericoli che probabilmente nasconde? La risposta ovvia è no, ma il problema è come riuscirci.
Perché una previsione è certa: non basteranno più i comitati dei residenti, che senza loro colpa ragionano come le minoranze alle assemblee dei condomini (io che sto al primo piano non voglio pagare l´ascensore di chi sta all´attico, io che in casa mia sono padrone quanto te detesto il colore che hai scelto per la facciata), e dai quali non sarebbe neppure giusto pretendere che guardino a interessi più ampi del cortile. Così come non c´è troppo da aspettarsi dai giovani antagonisti ideologici delle trasformazioni urbanistiche, il cui simpatico portavoce con la cresta da post-punk mohicano, alla presentazione del progetto Porta Nuova alla Fondazione Catella, l´altro giorno, pensava di insultare gli investitori di Hines chiamandoli "imprenditori avidi di guadagno". E non si è offeso proprio nessuno. La partita, che riguarda oggi un quartiere e domani mezza città, è davvero troppo grossa per lasciarla in mano a ragazzi e volontari di caseggiato. L´opposizione politica, se c´è, batta un colpo. E richiami la maggioranza politica a fare il suo mestiere di rappresentare gli interessi di tutti (tra l´altro prendendo sul serio l´amministratore delegato di Hines Italia che, da manager cresciuto all´estero, ha correttamente definito il Comune "controparte", mentre l´assessore allo sviluppo del territorio faceva un po´ di confusione autoproclamandosi improbabile "regista" dell´operazione miliardaria).
Che cosa, esattamente, sta portando a casa la città, al tavolo delle trattative condotte a nome di tutta la collettività con i costruttori? Nel caso Isola, almeno sul capitolo del verde pubblico (ma ce ne sarebbero stati altri) ha lasciato soli a vedersela con Hines i comitati, che per la verità qualcosa hanno ottenuto: basta vedere le differenze tra il primo progetto approvato dal Comune e l´ultimo ratificato, assai meno devastante.
Nel caso di Citylife alla vecchia Fiera, invece, non sta succedendo neppure quello: lì i costruttori sono meno inclini agli incontri "di base" e il Comune fa cortesemente sponda alla loro scelta tagliando fuori dalle discussioni associazioni e residenti. Nei prossimi impegni in agenda, l´Amministrazione quale copione intende seguire? E qual è il piano dei servizi, dai trasporti alla cultura, dal commercio al divertimento, dalle scuole alle farmacie, che dovrà ricucire vecchio e nuovo, immaginando dalla sintesi dei due una metropoli vivibile?
È ora, si direbbe, di mettere le carte in tavola e discutere apertamente svantaggi, vantaggi e compensi (pubblicamente contrattati e legali) ottenibili dalle trasformazioni urbane. Se si vogliono dissipare insieme i fantasmi molto milanesi delle contrattazioni sottobanco degli anni Novanta e i pregiudizi estetico-ideologici di chi crede che gli architetti contemporanei sono tutti dei vandali, e sarebbe meglio non costruire mai nulla di nuovo. (Che poi un aperto rappresentante di questa visione conservatrice culturalmente legittima sia l´assessore Sgarbi - salvo farsi da parte ogni volta che Moratti firma con le convinzioni opposte – incuriosisce, ma è un´altra storia).
Testo elaborato per il Seminario "Area metropolitana milanese: criticità sociali e alternative possibili per una nuova dimensione civile", tenutosi a Milano il 5 maggio 2007 per iniziativa della Federazione milanese del Partito della rifondazione comunista.
La ricerca procede per domande. Così ho pensato di articolare l'argomentazione a partire da domande, sperando che la mia curiosità scientifica incontri la vostra e che le risposte, in questa sorta di autointervista, siano all’altezza dei quesiti.
Il termine metropoli è di origine greca. Che differenza corre fra la metropoli antica e quella contemporanea?
Prima dell'età contemporanea sussisteva un limite: una soglia dimensionale percepita come misura necessaria, prima ancora che fosse imposta dalla realtà.
Nella Grecia antica l'espressione metropoli significa letteralmente «madre di città». A promuovere la nascita di nuovi organismi urbani è appunto il concetto di limite: una soglia dimensionale volta essenzialmente a conservare i rapporti comunitari, ovvero la ragione costitutiva dell'organismo urbano: ciò che Aristotele chiama «amicizia» come «scelta deliberata di vita comune» [1], condizione per «una vita pienamente realizzata e indipendente» [2]. Ippodamo da Mileto fissa la dimensione ideale a 10.000 cittadini, mentre per Platone il limite da non superare è ancora più basso: 5.040, un numero ritenuto «abbastanza grande per mettere la Città in condizione di difendersi dai suoi vicini o di aiutarli in caso di bisogno ma abbastanza ristretto perché potessero conoscersi tra loro e scegliere con cognizione di causa i magistrati» [3].
Una logica non diversa è seguita dalla libera associazione delle città-stato etrusche che Carlo Cattaneo definisce «vivajo di città» [4].
Non mancano, è pur vero, in età antica come in quella moderna, realtà che, nel segno della potenza, inseguono l’accrescimento dell'aggregato urbano. Giovanni Botero nel suo Delle cause della grandezza e magnificenza delle città (1588) non può non fare riferimento al caso di Roma. I Romani, egli sostiene, «stimando che la potenza (senza la quale una città non si può lungamente mantenere) consiste in gran parte nella moltitudine della gente, fecero ogni cosa per aggrandire, e per appopolar la patria loro» [5]. I fatti diedero loro ragione, dice Botero: è la maggiore grandezza demografica a consentire a Roma di riprendersi dopo pesanti sconfitte in battaglia. Ma lo stesso autore della Ragion di stato, richiamati anche altri casi di notevole accrescimento delle «communanze d’uomini», arriva alla conclusione che esiste un momento in cui la crescita si arresta [6]
Spaziando su un ampio quadro storico, Botero passa in rassegna i fattori che concorrono alla crescita delle città: l’autorità; la forza; il piacere offerto dalla bellezza del sito e dall’arte, a cominciare da quella del costruire; la «commodità» e la salubrità; la «virtù nutritiva» della campagna; la facile accessibilità e il ruolo cardinale negli scambi commerciali; l’estensione del dominio politico; la religione; la possibilità di «poter più comodamente e allegramente attender a gli studi»; la presenza delle istituzioni di governo e dell’«amministrazione della giustizia»; l’esistenza di un’industria florida; la «franchezza dalle gabelle»; e, infine, l’essere luogo di «residenza della nobiltà» e ancor più del principe. Un elenco assai esteso e apparentemente senza gerarchia da cui il consigliere di Carlo Borromeo trae però una sintesi: decisivi nell'accrescimento delle città sono, a suo dire, «la virtù attrattiva» (data da quella che oggi chiameremmo la qualità del vivere) e la disponibilità di «nutrimento e sostegno» ottenuta «o dal contado […] o da paesi altrui» [7]: una valutazione che oggi verrebbe collocata sotto il criterio della sostenibilità.
Ed è appunto qui che la contemporaneità segna una rottura. Come il modo di produzione capitalistico di cui è espressione e da cui è inscindibile, la metropoli contemporanea nasce all’insegna del superamento di ciò che precedentemente vincolava e limitava gli organismi urbani, compresi quei fattori che potevano portare a drastici ridimensionamenti, quando non alla morte della città. La metropoli è un organismo più resistente perché si alimenta delle differenze producendone di nuove [8], a cominciare dalle diversificate opportunità di investimento e di valorizzazione del capitale. Opportunità che, quando non possono essere fornite dal territorio su cui la città ha storicamente esercitato la sua influenza, vengono reperite altrove estendendo vieppiù le trame relazionali, visibili e invisibili.
Nei rapporti fra contesti ciò si traduce in nuovi legami di dominanza e dipendenza, mentre il riprodursi e l'estendersi delle disparità investe inevitabilmente la topografia sociale, ovvero la dislocazione spaziale dei ceti che compongono la società.
Quando prende avvio la vicenda della metropoli contemporanea?
Nel caso milanese i primi semi sono gettati già a metà seicento quando la campagna a nord della linea dei fontanili inizia a fare concorrenza alla città, bloccata dal dominio delle corporazioni. Fra sette e ottocento, quando ormai il capitalismo si afferma come modo di produzione dominante, quei semi cominciano a dare frutti consistenti, anche se inizialmente poco vistosi: il diffondersi capillare di un lavoro a domicilio nella tessitura per produzioni destinate al mercato; il sorgere di filande per la lavorazione della seta in ogni villaggio e infine la comparsa delle prime industrie concentrate lungo i corsi d'acqua (a cominciare dalle filature del cotone, integrate in seguito dalle tessiture; con sviluppi analoghi, anche se minori, in altri comparti tessili) [9].
La prima differenza a essere messa a frutto in modo nuovo è dunque quella fra città e campagna. Da statici, i rapporti fra le due realtà si fanno dinamici: un susseguirsi di azione e reazione in una nuova divisione del lavoro e con inedite assunzioni di ruolo sia da parte della campagna della piccola affittanza che da parte della città: processi destinati a cambiare i caratteri di entrambe.
Si tratta pur sempre della somma di città e campagna. Dove sta la novità?
Come la pila voltiana produce energia elettrica da due metalli (per es., rame e zinco) mediante l'aggiunta di un conduttore umido, così la metropoli contemporanea non è riducibile alla semplice sommatoria di città e campagna: è una realtà nuova che nasce dalla messa a frutto della diversità di potenziale dei due contesti, a cominciare dai diversi costi di riproduzione della forza lavoro. In questo caso il “conduttore umido” è, ça va sans dire, il mercato.
Le rivoluzioni nei trasporti e nella velocità fanno ovviamente la loro parte nel favorire l'intensificarsi e l’estendersi delle nuove relazioni.
Da allora quali sviluppi ha conosciuto il nuovo organismo?
La necessità di nutrirsi di differenze ha portato ad ampliare il raggio di azione e di influenza dei fulcri metropolitani. Lo sviluppo si è fatto travolgente arrivando a configurare il mondo intero come un reticolo gerarchico di metropoli fra loro in competizione.
Che conseguenze sui modi di concepire l’abitare e di configurare l’habitat?
Nella metropoli matura la mobilità dei fattori della produzione e le relazioni asimmetriche regolate dal mercato finiscono per avere la prevalenza sui legami verticali: le relazioni terra-cielo (il legame religioso) e il radicamento alla terra, che fino ad allora avevano contrassegnato il modo di abitare e di trasformare il mondo.
Se i vincoli regolatori indicati da Botero sono saltati, che ne è delle idee di organicità e di equilibrio?
Riferito agli aggregati insediativi, il termine organico può bene indicare i caratteri degli insediamenti – città, borghi, villaggi – strutturati e dimensionati su relazioni comunitarie. Dante Alighieri nel Convivio indica quattro livelli di organizzazione del convivere tra loro necessariamente concatenati: la famiglia, la vicinanza (la contrada, il quartiere), la città e lo stato [10]. La triade casa, quartiere, città è lo schema ordinatore della convivenza civile negli aggregati urbani in Europa fino a quando la metropoli matura non mette in discussione il principio organico con il disgregarsi delle relazioni storiche e le inedite manifestazioni fisiche che la caratterizzano (conurbazioni e slabbramenti degli abitati). Fino ad allora le relazioni comunitarie e l'identità condivisa si sono strutturate secondo due livelli integrati: il quartiere (o sestiere) e la città. È da questa duplice struttura relazionale che la città cristiana ha preso corpo e forma.
Che ne è dell'equilibrio a scala territoriale?
Su questo è interessante seguire Carlo Cattaneo. Il grande studioso coglie nel segno quando, per il caso italiano, mette l'accento sull’«intima unione [della città] col suo territorio» [11]. È meno convincente quando attribuisce a tale unione la prerogativa di «persona politica» [12] e di « stato elementare, permanente e indissolubile» [13] facendone il riferimento cardinale del suo progetto politico federale.
Eppure – si obbietterà – il Cattaneo è uno dei pochi che, ai suoi tempi, sa interpretare aspetti rilevanti delle radicali trasformazioni di cui è spettatore. È vero; ma l'autore della Città come principio ideale non vede, o ignora volutamente, come già ai suoi tempi le nuove relazioni economiche e territoriali abbiano l'effetto di scardinare un assetto consolidato da secoli, se non da millenni: un sovvertimento dei quadri relazionali che rende già allora impraticabile il suo progetto di una nazione costruita dal basso, attraverso un mosaico «equabile» di «stati elementari» [14]. Già nei primi decenni dell’ottocento, oltre al già richiamato cambiamento di segno dei rapporti città campagna, a travolgere gli equilibri precapitalistici interviene l'instaurarsi di un nuovo rapporto gerarchico fra le città.
Solitamente quando si dice metropoli si intende “grande città” e comunque raramente il termine viene usato in riferimento a un periodo antecedente al novecento. Ciò che lei e Graziella Tonon sostenete nei vostri scritti esce da tale uso comune del termine metropoli…
È questione di intendersi sulle definizioni, evitando soprattutto di cadere nelle trappole che si nascondono nelle ambiguità terminologiche.
L’assunzione di un metro quantitativo – in particolare la crescita dell'edificato – ha portato più di uno studioso a identificare nel secondo dopoguerra del novecento il periodo in cui in Italia fa la sua comparsa la metropoli [15]. Si tratta di un errore non meno grossolano di quello che colloca la rivoluzione industriale in Italia a partire dal periodo giolittiano.
Identificare la metropoli contemporanea con la “grande città” o con la cosiddetta “megalopoli” facendo riferimento ai soli aspetti fisici e funzionali– il gigantismo, le conurbazioni, la selezione delle funzioni – oscura il tratto distintivo del nuovo organismo: i suoi caratteri relazionali. Per capirci: ci possono essere città relativamente piccole che pure si pongono precocemente come fulcri di relazioni metropolitane estese (è il caso di Milano), e città di dimensioni assai maggiori la cui trama di relazioni metropolitane è al confronto più debole. In più di un caso il gigantismo urbano nasce dalla debolezza dell’hinterland. E questo accade non solo nel cosiddetto “terzo mondo”.
In che rapporto stanno allora città e metropoli?
Considerare città e metropoli come sinonimi finisce per avvalorare un uso improprio del termine città. Poco male se ciò non concorresse a rimuovere un problema cruciale. E cioè che la metropoli contemporanea tende a porsi contro la città. Nel senso che tende a un superamento della città per quanto concerne non solo i tratti fisico-funzionali ma anche le sue stesse ragioni costitutive. I processi molecolari alla base del fenomeno metropolitano tendono infatti a mettere in discussione il carattere peculiare dell'organismo urbano: il suo essere – per usare parole di Giandomenico Romagnosi, il maestro di Carlo Cattaneo – «una vera persona morale, avente una cert’anima con un certo corpo, mossa da particolari circostanze di un dato tempo, di un dato luogo, e con determinate esterne relazioni» [16].
Va anche detto, a scanso di equivoci, che non si tratta di un processo inevitabile: il carattere di «persona morale» degli aggregati insediativi può essere fatto rivivere mettendo in atto forti contromisure di rilancio dell’urbanità, come da diversi anni le municipalità più accorte stanno facendo in Europa.
Allo stesso tempo si parla molto di “città contemporanea”, di “città diffusa”…
Mai come negli ultimi decenni la parola città è stata usata in modo improprio. Non si è però potuto fare a meno di affiancarla con un aggettivo, come appunto nell'espressione "città diffusa", o in quella più recente di "città infinita"; locuzioni dove, a ben guardare, l’aggettivo nega il sostantivo. Siamo di fronte a una delle tante operazione di edulcorazione a cui ci ha abituato il mondo d’oggi e che servono a mascherare la realtà.
Che cosa si nasconde in questo caso?
L'assenza di qualità urbana. In tanta ricchezza individuale è venuta avanti una nuova povertà sociale sia nei caratteri architettonici dei luoghi sia nei quadri relazionali.
Cosa possiamo intendere per qualità urbana degli insediamenti e delle relazioni?
Facendoci anche qui aiutare dal Romagnosi, possiamo definire tale qualità come «spirito di socialità civile» [17] che si fa tangibile tanto nella civitas (il corpo sociale) quanto nell' urbs (la città fisica). Uno spirito che, perché venga mantenuto, richiede di essere continuamente rinnovato.
Perché è utile attivare uno sguardo di lungo periodo sulle vicende della città e della metropoli?
La prospettiva di lungo periodo può aiutare a capire meglio tratti persistenti della società, dell'ethos e delle mentalità, come anche il permanere di alcune linee di forza che agiscono nelle trasformazioni di cui siamo spettatori.
Per rimanere al contesto lombardo, c'è una relazione fra la dimensione relativamente piccola di una città come Milano – per non dire delle altre città lombarde – e il percorso compiuto dalla Lombardia fino ad agganciare le regioni più industrializzate. Tale percorso si distingue per un elevato grado di ruralità della forza lavoro industriale mantenuto su un lungo arco storico. Nella fascia intermedia della regione la popolazione della campagna più densamente popolata d'Europa è stata mobilitata su scala vastissima da una molteplicità di soggetti imprenditoriali che hanno accollato i costi di formazione dell'armatura industriale all'ambiente rurale.
La traiettoria seguita, certamente lunga e tortuosa, si è rivelata appropriata alle sfavorevoli condizioni di partenza (scarsa disponibilità di materie prime e di fonti energetiche; grave ritardo sul terreno tecnologico; debolezza finanziaria e imprenditoriale, aggravata dalla propensione redditiera del ceto possidente). Ruotando parassitariamente attorno alla famiglia-azienda della piccola affittanza dell’altopiano, si è dapprima potuto dare vita a un esteso basamento produttivo nel campo tessile (seta e cotone in primo luogo); quindi, quando grandi e medie industrie si sono addensate nelle immediate periferie urbane, è ancora l'altopiano – ormai non più definibile come semplice “campagna” – a dare un apporto decisivo con la sua vasta riserva di forza lavoro.
Si possono a questo punto elencare le peculiarità della metropoli milanese sul lungo periodo:
- il consolidarsi nei membri della famiglia-azienda rurale di un’idea dell'abitare come radicamento e orgogliosa indipendenza. È una conseguenza del fatto che l'habitat rurale dell'altopiano ha potuto essere percepito come centrale rispetto a molteplici opportunità di lavoro, almeno per tutto il percorso che va dalla condizione contadino-industriale a quella industriale-contadina, a quella decisamente industriale (con sbocchi significativi anche verso il lavoro indipendente),
- il relativo contenimento delle migrazioni interne e dell’urbanesimo. È un carattere legato al radicamento di cui si diceva: senza di esso, vista la forte concentrazione di attività industriali, l'inurbamento sarebbe stato assai maggiore;
- il precoce e intenso sviluppo del pendolarismo imperniato sull’area centrale della metropoli. Si tratta di un fenomeno che non ha l'eguale per ampiezza non solo in Italia ma nemmeno in Europa;
- il freno posto alla rendita immobiliare per una lunga fase. È un effetto dei tre caratteri prima richiamati. Una tale limitazione è andata a tutto vantaggio di uno sviluppo produttivo ad alta intensità di lavoro [18]: un modello che a lungo andare mostrerà tutti i suoi limiti;
- la complessità dell’apparato produttivo e delle relazioni. A questo si lega un tratto identitario di Milano-città venuto in particolare evidenza negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso: il suo carattere aperto e sincretico, la sua capacità di assimilare e metabolizzare.
C’è infine una peculiarità del quadro regionale: sia pure con il prevalere del contesto milanese, processi di tipo metropolitano hanno interessato anche i poli urbani di corona (Varese, Como, Lecco, Bergamo e Brescia). Da cui il configurarsi di un sistema originale di metropoli a grappolo[19].
Molti insistono sul policentrismo lombardo. È una definizione adeguata a definire i caratteri insediativi della regione?
L’elevatissimo addensamento di popolazione e attività della fascia intermedia rende la realtà lombarda più complessa di quanto non dica la formula che vuole la regione come un sistema policentrico. Se storicamente la fitta presenza di città e di borghi assume le caratteristiche di un reticolo policentrico, non si può ignorare che questa trama è a sua volta 'annegata' in un sistema insediativo precocemente diffusivo, cresciuto poi a dismisura con l'espansione travolgente del dopoguerra.
Il boom del trasporto su gomma e l'estendersi massiccio della rete stradale hanno favorito un processo espansivo/diffusivo che è andato ad aggiungersi e spesso a travolgere la già fitta struttura insediativa rurale. A partire dai primi anni settanta del novecento, l'espulsione di oltre mezzo milione di abitanti da Milano (a cui si sono aggiunti quelli fuoriusciti dalle piccole e medie città) ha favorito oltremodo questa tendenza, alimentando un sprawl di vastissime proporzioni che non sembra affatto essersi placato.
Se questo è a grandi linee il quadro, il riferimento al "policentrismo" appare più l’esplicitazione di un’intenzione progettuale: un obiettivo condivisibile in linea di principio, ma che, se portato avanti senza fare i conti con processi ormai consolidati, rischia di essere sterile, come ogni fuoriuscita dalla realtà. Con lo slogan del "policentrismo" proposto ad ogni piè sospinto, in verità, si 'cacciano sotto il tappeto' gli effetti devastanti dello sprawl: il fatto che si è venuta costituendo un’immensa periferia metropolitana, sia pure mitigata dal resistere in parte della trama policentrica storica.
Fra i sedimenti di questo modello insediativo e strutturale ce ne sono anche di natura politica?
Spicca, su tutti, il permanere, lungo lo sviluppo della metropoli, di una relativa ‘invisibilità’ di consistenti componenti operaie: prima le forze lavorative polverizzate nei villaggi e nelle cascine; poi, con il decollo della città industriale, gli operai pendolari [20]; infine quel vasto comparto di lavoratori che nella situazione attuale subisce tutti gli effetti di un'atomizzazione e di una precarietà che ricordano, per certi aspetti, quelli della lunga fase di decollo. Una condizione che, ben diversamente dal modello delle banlieu parigine, favorisce lo stemperarsi dei conflitti sindacali e sociali. Poco male o addirittura bene (a seconda dei punti di vista), se una tale condizione non impedisse a un’importante componente della società di autorappresentarsi e di vedere riconosciuto il suo apporto alla produzione di ricchezza.
Che caratteri presenta la “periferia metropolitana” nel contesto milanese?
Nell’ultimo mezzo secolo è rilevabile un legame strutturale fra due periferizzazioni: quella della residenza e quella dei posti di lavori nel secondario. L’una appare funzionale all'altra: il decentramento di popolazione ha determinato un'offerta di forza lavoro a cui la piccola industria e l’artigianato hanno potuto agevolmente attingere (con l’effetto di un sistema di rapporti casa-lavoro in larghissima misura affidati al mezzo di trasporto privato). Un circolo vizioso in cui il "piccolo è bello" mostra tutti i suoi limiti nel contesto internazionale.
A ciò si aggiunge l'alto costo individuale e sociale di un modello insediativo e relazionale dove gli elementi negativi superano, e di molto, quelli positivi di un tempo.
Un cenno merita infine il decentramento per poli che ha caratterizzato il terziario: un fenomeno insediativo i cui difetti maggiori stanno nell'essere affidato pressoché esclusivamente al mezzo di trasporto privato, con pesanti conseguenze sulla congestione del traffico che una accorta programmazione avrebbe potuto evitare.
Facciamo un passo indietro. Come si è reso possibile per Milano il passaggio alla condizione di città industriale?
Per spiegare il «grande scatto» che si determina fra la fine dell'ottocento e il primo decennio del novecento, più di uno storico ha messo l'accento sugli importanti elementi di rottura: il costituirsi della banca mista; l'affermarsi nella siderurgia della produzione a ciclo continuo e integrato; la disponibilità di una nuova fonte energetica, l'idroelettrica, che per la prima volta non vede l'Italia svantaggiata; l'ingresso nelle produzioni nuove (elettromeccanica e automobilistica); il raggiungimento di nuove economie di scala ecc. Se l'importanza di questi fattori è tale da avallare la tesi che «[...] i primi anni del nuovo secolo [furono] una vera e propria fase di “rivoluzione”» [21], ciò non deve impedire di vedere le due rivoluzioni che l'hanno preceduta e che sono rilevabili non solo e tanto attraverso misurazioni macroeconomiche, ma anche tenendo conto di diversi altri processi, a partire da quelli molecolari, e da quelli non meno decisivi sul terreno delle infrastrutture e delle strutture commerciali e finanziarie. Si possono richiamare brevemente (in parte li abbiamo già visti):
1. la penetrazione del mercato anche nei più isolati casolari (Carlo Cattaneo);
2. la capacità del capitale di dar vita a mercati del lavoro anche sotto il permanere formale di un lavoro indipendente;
3. il mutamento dei comportamenti demografici della famiglia-azienda della piccola affittanza, portata a riprodurre in abbondanza forza lavoro per il mercato;
4. il radicarsi di una cultura industriale e il costituirsi di vivai imprenditoriali e di propensioni all'investimento nell'industria;
5. l’apporto fornito dall'infrastrutturazione territoriale, in particolare da una rete di trasporti su ferro notevole sia a scala regionale (una fitta rete di ferrovie e tramvie) sia a livello internazionale [22];
6. infine tutto ciò che, con i trasporti, ha concorso a fare di Milano una piazza di mercato e un centro finanziario di primaria importanza, quantomeno in Italia.
Della prima rivoluzione – la formazione di una fitta intelaiatura produttiva nelle campagne – si è già detto. Quanto alla seconda – il superamento dell’impossibilità di far attecchire in città le attività industriali – un apporto rilevante è venuto da un incentivo fiscale: l'esenzione del circondario esterno dai dazi sui beni di consumo. È infatti il determinarsi della condizione che Carlo Cattaneo ha definito di «porto franco» [23] a favorire il concentrarsi, a stretto contatto con la città storica, di opifici, magazzini e popolazione (una compagine umana composita, alimentata sia dai ceti deboli espulsi a ondate successive dal cuore della città sia da masse crescenti delle famiglie di giornalieri e braccianti provenienti dalle campagne della Bassa irrigua, altra grande riserva di forza lavoro).
Come si ridisegna il quadro insediativo con il «grande scatto»?
Le maggiori concentrazioni industriali si appoggiano per lo più al sistema policentrico delle città a cui fa capo la rete ferroviaria principale. In pochi altri casi – Legnano, Sesto San Giovanni, Saronno ecc. – è l'industria stessa a precedere la formazione di insediamenti urbani, cambiando radicalmente il quadro di vita di borghi o villaggi agricoli. Il sistema ferroviario rimane comunque il supporto obbligato per le successive espansioni del metalmeccanico e del chimico, fino a che il mezzo privato su gomma e le spinte al decentramento non sono intervenuti a cambiare in senso diffusivo le opportunità localizzative.
A un certo punto la riserva di forza lavoro delle campagne della provincia e della regione non basta più. Quando si verifica il coinvolgimento massiccio di altri territori?
Già tra le due guerre si ha un primo ricorso a immigrazioni dal Veneto e dal Meridione. Ma, com'è noto, sono gli anni del miracolo economico (1956-62) a segnare una vera e propria rottura degli argini con le immigrazioni che hanno per origine privilegiata il Meridione. A rompersi è ovviamente anche il delicato equilibrio che aveva consentito a Milano di rimanere una città relativamente piccola rispetto alla notevole quantità di energie umane e materiali che utilizzava e metteva in moto.
Se il boom delle produzioni dei beni di consumo di massa (auto, elettrodomestici ecc.) ha portato a una sostanziale riconferma dell'armatura industriale formata dalla prima industrializzazione “pesante” (sia pure con nuove ramificazioni), la maggiore novità nel quadro insediativo è data dal riprodursi della periferia metropolitana: una urbanizzazione quasi totale delle campagne a nord di Milano, con tracimazioni verso le altre direzioni.
Il processo è stato esaltato da due fatti: 1) la nuova immigrazione si è configurata come trasferimento stabile di interi nuclei famigliari; 2) gli immigrati attivi non hanno occupato solo nuovi posti lavoro ma hanno innescato una vasta funzione sostitutiva delle forze di lavoro già presenti nella produzione.
Nel giro di meno di un decennio, dalla metà degli anni settanta alla metà del decennio successivo, la città industriale conosce un collasso verticale. Come si spiega un fenomeno di tale portata che nessuno ha saputo prevedere?
La ragione di fondo è semplice: nel giro di pochi lustri si sono annullate le differenze nei costi di riproduzione della forza lavoro che avevano costituito il motore della metropoli. A produrre tale annullamento l’innalzamento dei valori della rendita fondiaria anche nell’hinterland, esito del dilagare della colata di cemento e della infrastrutturazione stradale capillare.
Allo stesso tempo il balzo in avanti della rendita ha messo drasticamente in discussione la localizzazione urbana di molti complessi industriali (peraltro ormai scarsamente competitivi), con un vasto processo di chiusura o di decentramento di molte unità produttive nelle aree periferiche della metropoli e al di fuori di esse. Ne sono venute sintesi geografiche nuove con il persistere di alcune teste di ponte direzionali e finanziarie nella città e il dispiegarsi di molti cicli produttivi (auto, elettronica, chimica ecc.) su scala mondiale.
Negli ultimi decenni il decentramento a lungo raggio (in particolare verso i paesi dell’Est-Europa) ha investito diversi altri comparti, in una logica che vede quelle regioni occupare il posto un tempo riservato alle campagne della regione: un coinvolgimento di natura prettamente metropolitana.
Tutto questo non ha però portato affatto alla sparizione della produzione industriale dalla Lombardia. Si è al contrario verificato il proliferare di unità produttive polverizzate a cui lo sprawl insediativo ha fornito un humus ideale.
Torniamo a Milano. Attraverso quali trasformazioni è passato l'organismo urbano lungo la fase di avvio e sviluppo delle metropoli contemporanea?
Semplificando si possono individuare cinque fasi:
1.l’ascesa della città borghese. È l'epoca che Carlo Cattaneo ha chiamato della «magnificenza civile» [24]. La scelta della borghesia di eleggere il contesto urbano a teatro in cui legittimare anche sul piano culturale la propria egemonia fa del bene alla città. In questo Milano è al passo dei migliori processi riqualificazione urbana che interessano l'Europa;
2.la formazione della città duale. Con la crescita della città industriale si delinea una chiara distinzione, insieme funzionale e sociale, fra la città interna alle mura spagnole e il circondario esterno. La borghesia a questo punto sogna un modello insediativo e relazionale in cui «La grande industria fa sentire alla città i suoi benefici effetti, ma non è localizzata nella città stessa» [25]. Nel contempo vive la realtà del circondario come una minaccia alla sicurezza e appronta progetti urbanistici per rompere quello che considera un assedio.
La “città duale” è però anche il terreno di crescita di una dialettica politica inedita fra le componenti sociali e ciò contribuisce a fare di Milano un laboratorio politico della moderna democrazia nel nostro Paese;
3.l’affermarsi della città corporativa. È il risultato del perseguimento di una rigida struttura piramidale nella società e nella topografia sociale: una gerarchia classista che trova il suo culmine nel fascismo, i cui interventi di ingegneria sociale, realizzati attraverso pesanti operazioni sul corpo urbano, lasciano il segno;
4.il passaggio dal completamento del disegno corporativo alla dissoluzione della città industriale. Gli elementi distintivi di questa fase si possono schematicamente così riassumere: l'inasprirsi e poi il ridursi progressivo della dialettica sociale; l'avvio di un gigantesco esodo di popolazione; infine, la perdita di identità urbana, mal nascosta dal fiorire di vacui slogan (la "Milano da bere", MiTo ecc.);
5.la fase attuale, dominata dallo strapotere immobiliarista e che vede Milano in ritardo sul terreno del rinascimento urbano. C’è un divario abissale fra quello che si fa a Milano e i migliori esempi di rilancio della qualità urbana che da tempo interessano importanti città europee (Barcellona, Parigi, Madrid ecc.). Né i progetti in cantiere si dimostrano all’altezza di questo delicato passaggio storico.
Per concludere: quali problemi travagliano la metropoli milanese e quali proposte si possono avanzare per un miglioramento delle condizioni di vita?
La metropoli matura sembra la puntuale dimostrazione di quanto, già nei primi anni trenta del novecento, Robert Musil aveva intravisto: «c’è un aumento di potenza che sbocca in un progressivo aumento d’impotenza […]» [26].
Il contesto milanese è particolarmente segnato da patologie sia sul fronte della sostenibilità ecologica sia su quello della sostenibilità sociale. Ne indico tre, su cui rilevanti paiono le responsabilità della pubblica amministrazione (a tutti i livelli):
1.l’elevato consumo di suolo. Il carattere strutturale dello sprawl appare ulteriormente sancito dal fatto che la maggior parte delle amministrazioni locali ha nel consumo di suolo una fonte di finanziamento che consente di far quadrare i bilanci (disastrati anche da sprechi e inefficienze). Si è stabilito un nefasto meccanismo fiscale che rende gli enti locali cointeressati alla distruzione del paesaggio. È un legame che va tagliato, uscendo dalle dichiarazioni di principio di cui sono pieni i documenti di pianificazione territoriale a tutti i livelli;
2.la dissipazione di energie legate allo sprawl e a inefficienze nel sistema della mobilità, con pesanti conseguenze in termini di costi sociali e di competitività del sistema economico. A dispetto della prospettiva che, un secolo fa, con la conquista delle otto ore sembrava a portata di mano, non siamo diventati più ricchi, se per ricchezza intendiamo il tempo a disposizione per coltivarci. Ci ha pensato la metropoli contemporanea, con il suo assetto spaziale e relazionale, a occupare una parte crescente delle ore assegnate sulla carta al loisir. Abitare è diventato un lavoro: le economie di scala delle grandi concentrazioni di attività in logiche extra e anti-urbane – commercio, divertimento, lavoro – sono pagate dall' homo metropolitanus in termini di tempo. Lo stesso vale per l'altra faccia della medaglia: la dispersione della residenza. Si è istituito un baratto tacito e obbligato: io ti do delle opportunità - sconti sui prezzi dei beni di consumo e della casa - e tu, per goderne, ci metti il bene più prezioso di cui disponi: il tempo. Il prezzo, manco a dirlo, è pagato in modo inversamente proporzionale al reddito.
Che fare? Le scelte urbanistiche devono porre un alt alla dispersione. Allo stesso tempo vanno compiuti interventi incisivi volti a ridurre la mobilità obbligata e comunque il tempo bruciato dall'inefficienza della macchina metropolitana;
3.crisi della qualità urbana dei luoghi e delle relazioni sociali e il parallelo esplodere dei problemi della sicurezza. Il prezzo più alto è la rinuncia alla città. A pagarlo, in prospettiva, sono tutti i ceti sociali. Per una massa crescente di persone abitare equivale ormai a usufruire di una rete trasportistica che connette contenitori di funzioni. Il tra - lo spazio fra i contenitori - quando non è occupato dalla rete o custodito da quel che rimane dell'agricoltura è terra di nessuno. Ancora mezzo secolo fa il mondo umanizzato era fatto di luoghi e di paesaggi concepiti per accogliere la vita individuale e sociale: teatri che avevano il carattere di interni a cielo aperto. Questa condizione è ora progressivamente erosa. E, per mitigare l'inospitalità dei contesti metropolitani, si predispongono dei simil-luoghi e delle simil-città: quel che basta per dare una parvenza di libertà alla simil-vita.
Contro questo processo urge il rilancio dell’ urbis coltura (oltre che dell'agri coltura). L'esistenza della città è particolarmente minacciata da fenomeni di segmentazione e ghettizzazione sociale che conoscono una nuova virulenza. È la strada su cui tragicamente si sono incamminate le "città" del Sud-America: la disgregazione delle gated communities, ormai vere e proprie isole armate. Occorre che ci opponiamo con tutte le forze al realizzarsi di una simile prospettiva.
[1] Aristotele, Politica, III, 9, 1280 b, in Aristotele, Opere, vol. IX,Politica, Trattato sull’economia, Laterza, Roma-Bari 1991, p 88.
[2] Ivi, III, 9, 1281 a, Aristotele, Politica cit., pp. 88-89.
[3] G. Glotz, La Cité grecque, Michel, Paris 1928, trad. it. La città greca, Einaudi, Torino 1955, p. 39.
[4] C. Cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia, Milano 1844, ora anche in Id., Notizie naturali e civili su la Lombardia - La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, a cura di F. Livorsi e R. Ghiringhelli, introduzione di M. Talamona, presentazione di E. A. Albertoni, Mondadori, Milano 2001 (a cui nel séguito si riferiscono le citazioni), p. 65.
[5] G. Botero, Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, Roma 1588, ora in Id., Della ragion di Stato - Delle cause della grandezza delle città, a cura di C. Morandi, Cappelli, Bologna, p. 375.
[6] «Non si creda alcuno [...] ch’una città vada senza fine crescendo. Egli è in vero cosa degna di considerazione, onde nasca che le città giunte a certo segno di grandezza, e di potenza, non passino oltre; ma, o si fermino in quel segno, o ritornino indietro». Ivi, p. 376.
[7] Botero, Delle cause cit., passim.
[8] Cfr. G. Consonni, G. Tonon, La fabbrica delle differenze. Note su genesi e sviluppo della metropoli contemporanea, in «Q.D. Quaderni del Dipartimento di Progettazione dell’architettura», a. III, n. 3, settembre 1985, pp. 11-14.
[9] Un quadro sintetico di questi processi è tracciato in G. Consonni, G. Tonon, La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in Aa. Vv., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di D. Bigazzi e M. Meriggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 51-187. Cfr., inoltre, Id., Alle origini della metropoli contemporanea, in Aa. Vv., Lombardia. Il territorio, l’ambiente, il paesaggio, vol. IV, Electa, Milano 1984, pp. 89-164.
[10] «a la [vita felice] nullo per sé è sufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo satisfare non può. E però dice lo Filosofo [Aristotele] che l’uomo naturalmente è compagnevole animale. E sì come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza [quartiere o sestiere]: altrimenti molti difetti sosterebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E però che una vicinanza [a] sé non può in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede a le sue arti e a le sue difensioni vicenda avere e fratellanza con le circonvicine cittadi; e però fu fatto lo regno». Dante Alighieri, Convivio [1304-1307] IV, IV.
[11] C. Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in «Il Crepuscolo», a. IX, nei fasc.: 42, 17 ottobre 1858, pp. 657-659; 44, 31 ottobre 1858, pp. 689-693; 50, 12 dicembre1858, pp. 785-790; 52, 26 dicembre 1858, pp. 817-821, ora anche in Id., Notizie naturali cit., p. 239.
[12] Ivi, p. 198.
[13] Ibidem.
[14] È un paradosso che, con Graziella Tonon, ho già messo in rilievo in riferimento agli scritti del Cattaneo sulla Lombardia. Vedi Consonni, Tonon, La terra degli ossimori cit. (in part. il capitolo Lo squilibrio microfisico ovvero l’ingannevole equilibrio della Lombardia cattaneana, pp. 72-92). Cfr. inoltre il mio La città di Carlo Cattaneo, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’Ottocento e del Novecento», a. VI, n. 2, aprile 2003, pp. 383-387.
[15] Si tratta di una opinione divenuta “senso comune” in un largo settore della pubblicistica prodotta da architetti e urbanisti italiani in questo dopoguerra, parallelamente alla “scoperta” della dimensione intercomunale della pianificazione. Nel convegno sul tema La nuova dimensione della città. La città regione, tenutosi a Stresa il 19-21 gennaio 1962 (Ilses, Milano 1962), Carlo Aymonino, ad esempio, sostenne che in Italia tra le due guerre «[...] la dimensione della città era ben lontana dall'assumere proporzioni metropolitane [...]» (Da una sintesi dell'intervento ad opera di Giancarlo De Carlo, ivi, pag. l82); ma di citazioni analoghe di potrebbe riempire un volume.
[16] G. Romagnosi, Della ragione civile delle acque nella rurale economia […] , in Id., Della condotta delle acque e della ragione civile delle acque. Trattati di Giandomenico Romagnosi riordinati da Alessandro De Giorgi, vol. V, Perelli e Mariani, Milano 1842-1843, p. 1200.
[17] Ivi, p. 1201.
[18] Cfr. G. Consonni, G. Tonon, Casa e lavoro nell’area milanese. Dalla fine dell’Ottocento al fascismo, in «Classe», a. IX, n. 14, ottobre 1977, pp. 165-259 e Id., Milano: classe e metropoli tra due economie di guerra, in Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Anno Ventesimo, 1979-1980, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 405-510.
[19] Cfr. Id., La terra degli ossimori cit., in part. le pp. 162-171.
[20] Rinvio al mio Dalla città alla metropoli. La classe invisibile, in Aa. Vv., Milano operaia dall’800 a oggi, a cura di M. Antonioli, M. Bergamaschi, L. Ganapini, Cariplo-Laterza, Milano 1993, vol. I, pp. 19-36.
[21]L. Cafagna, La formazione di una “base industriale” fra il 1896 e il 1914, in Aa. Vv., La formazione dell'Italia industriale, a cura di A. Caracciolo, Laterza, Bari, 1977 (1969), p. 124
[22] Il capoluogo lombardo può assurgere a un ruolo di caposaldo logistico dei flussi commerciali fra l’Italia e il Centro Europa grazie alle scelte operate sui trafori ferroviari: dapprima quello del Gottardo (1882), scelto in alternativa ai tracciati per il Lucomagno e per lo Spluga, e poi quello del Sempione (1906) che, scelto, a sua volta, in alternativa al Monte Bianco, privilegia ulteriormente Milano rispetto a Torino negli scambi con la Francia.
[23]C. Cattaneo, Sui dazi suburbani di Milano. Lettera (III), ne «Il Diritto», 7 settembre 1863, ora anche in Id, Scritti sulla Lombardia, a cura di G. Anceschi e G. Armani, Ceschina, Milano 1971, vol. I, p. 440.
[24] C. Cattaneo, Sul progetto d’una piazza pel Duomo di Milano, ne «Il Politecnico», a. I, fasc. III, marzo 1839, ora in Id., Scrittisulla Lombardia cit., vol. II, p. 653.
[25] G. Colombo, Milano industriale, in Mediolanum, Vallardi, Milano, 1881, vol. III, p. 51. Cfr. V. Hunecke, Cultura liberale e industrialismo nell'Italia dell'Ottocento, in “Studi Storici”, a. XVIII, n. 4, ottobre-dicembre 1977, pp. 23-32. Cfr. Consonni, Tonon, La terra degli ossimori cit., in part. le pp. 118-127
[26] R. Musil , Der Mann ohne Eigenschaften, vol. I, Rowohlt Verlag, Berlin 1933, trad. it.: L’uomo senza qualità, vol. I, Einaudi, Torino 1982 (1a ed. 1957), p. 147.