È passato qualche lustro da quando mi capitò l’onore - un po’ anche l’onere - di partecipare contemporaneamente a due “travagliati parti” di un certo interesse per lo studio della disciplina urbanistica: quello delle biografie degli urbanisti, e quello della formalizzazione dei primi archivi di piani regolatori con una relativa accessibilità pubblica. Dato che, appunto, è passato un po’ di tempo da allora, credo di potermene essere formato un’opinione abbastanza serena. Ebbene: si tratta di due innovazioni potenzialmente dirompenti, soprattutto se usate con senno e padronanza del mestiere. Il quale mestiere è quello del metodo scientifico, ovvero del riuscire a separare (almeno, provarci in buona fede) i propri anche radicati idoli o tabù, dal canto delle carte. Sempre che le carte cantino, naturalmente.
Riboldazzi le carte le conosce bene, e sa come farle cantare. Ci si è cimentato a lungo come ordinatore, conservatore, classificatore. E parallelamente ha familiarizzato con gli strumenti della critica, quelli che consentono di conferire alle carte pesi relativi differenziati, applicando il coefficiente di moltiplicazione degli apporti esterni: di tutto quanto cioè la documentazione centrale dello studio ha a sua volta e a suo tempo acquisito, respinto, forse del tutto ignorato.
L’aveva già ben dimostrata, questa maturità di metodo, nell’antologia Cesare Chiodi: scritti sulla città e il territorio – 1913-1969 che ora, col senno di poi, possiamo considerare una tappa intermedia di avvicinamento all’ultima fatica: Una Città Policentrica. Cesare Chiodi e l’urbanistica milanese nei primi anni del fascismo (Polipress, 2007). In cui le potenzialità dell’approccio biografico e archivistico/urbanistico, così come le ho accennate sopra, emergono in tutta la loro potenziale dirompenza.
Dirompenti perché, forse anche molto oltre le intenzioni dirette dell’Autore, il volume è una fonte inesauribile di spunti, che grazie anche alla singolare personalità del protagonista iniziano a far intravedere con chiarezza qualcosa di sempre sospettato, a volte percepito, puntualmente sfuggito come acquisizione consolidata: gli anni ’20 per l’urbanistica italiana, milanese, romana, ecc., sono un nodo cruciale, le cui conseguenze pesano notevolmente ancora oggi. Un peso equamente distribuito ad esempio fra le modalità di legittimazione pubblica della disciplina, relativi strumenti di visibilità e percezione diffusa, ruolo relativo della pubblica amministrazione, della libera professione, dell’accademia, degli “interessi costituiti”.
Chiodi, come Riboldazzi ben sa e ancor meglio racconta, è un testimone più o meno privilegiato, sempre però ben attento, di tutti questi aspetti, e la sua trasversalità per quanto imperfetta aiuta a mettere in luce ancora meglio i caratteri specifici delle altre componenti. C’è in primo luogo il percorso più tradizionale e mainstream di un ceto tecnico-amministrativo cresciuto all’ombra delle amministrazioni locali almeno dall’unità nazionale in poi. C’è il rampante mondo degli architetti, che con l’affermarsi del fascismo vedranno da un lato aprirsi rapidissimamente nuovi orizzonti di visibilità e legittimazione, dall’altro sapranno gestire molto bene la quasi totale sostituzione, in un arco di tempo assai ridotto, delle figure tradizionali di gestione del territorio. Infine, il permanere più o meno sottotraccia di tutti questi “altri”, che si manifesta in varie forme.
La più vistosa e conosciuta, a Milano, è il ruolo centrale e determinante, almeno nelle scelte di piano, assunto dall’Ufficio Urbanistico municipale guidato con piglio assai personalistico da Cesare Albertini. Il quale, specie se confrontato con la linea più equilibrata (diciamo, meglio documentata) del Chiodi, per una città “policentrica” non solo nell’organizzazione fisica ma anche nella distribuzione dei poteri, dei vantaggi del piano, dei suoi oneri, appare sicuramente una pessima sintesi di decisionismo, arbitrarietà, discrezionale dispotismo nelle scelte spaziali, di massima così come di dettaglio.
Ma la vicenda del concorso di piano regolatore per Milano del 1926-27, anche nella lettura tutto sommato a tesi, per quanto inequivocabilmente documentatissima, di Riboldazzi, restituisce almeno abbastanza nitidi i tre grandi filoni riassunti sopra, che in misura e miscela diversa emergono nei tre progetti primi classificati: il prepotente affermarsi degli architetti liberi professionisti anche in campo urbanistico; il ruolo comunque centrale della decisione politico-amministrativa nella distribuzione dei vantaggi del piano; l’enorme potere degli interessi costituiti, anche sul lungo e lunghissimo periodo, nel determinare l’esito concreto di qualunque opzione.
Quella raccontata dal libro, almeno come spina centrale attorno a cui si dipanano i vari possibili spunti di lettura, è la precisa scelta di Cesare Chiodi, di respingere col suo piano Nihil Sine Studio 2000, quella che molti anni più tardi il suo allievo Luigi Dodi chiamerà sulle pagine di Urbanistica “la città mastodontica, fitta, omogenea”, che invece ad esempio la coppia vincente Portaluppi-Semenza nello schema Ciò Per Amor vorrebbe esorcizzare soprattutto con l’ausilio della tecnologia più moderna applicata ai trasporti, a scala di regione metropolitana.
Chiodi, coerente col suo percorso culturale e professionale, nonché con la matrice affatto “rivoluzionaria” del suo approccio ai temi urbani, tenta una interpretazione di alto profilo tecnico internazionale, cauta sul versante delle grandi enunciazioni quanto evidentemente mal collocata nella logica dei concorsi italiani fra le due guerre, di cui quello di Milano costituisce in qualche modo una anticipazione. La città policentrica è una sorta di schema di espansione a sobborghi giardino compatti, organizzati attorno ai nuclei storici dei comuni limitrofi aggregati nel 1923, con un articolato sistema di green wedges a separali, e con la relativa autosufficienza di una spartana polifunzionalità, scandita soprattutto dalla residenza operaia e dalle attività produttive. Siamo, banalizzando molto, dalle parti di una sorta di piccola Social City howardiana, letta da un liberale e declinata sul contesto milanese.
Banalizzando un po’ meno, di ciascuna scelta, di massima e/o dettaglio, Riboldazzi traccia una precisa genesi nella formazione e nei riferimenti culturali del Chiodi, e last but not least in quanto avvenuto nel periodo “istruttorio” delle vicende che portano al concorso, ovvero nella sua esperienza di assessore all’Edilizia nell’ultima amministrazione non fascistizzata della città. Ed emergono, ancora, convergenze e divergenze rispetto a questo o quell’aspetto della cultura internazionale, come il vago “rimprovero” che qui e là chissà perché l’Autore rivolge a Chiodi, quando ignora o contraddice qualcuno dei principi del Movimento Moderno che, non dimentichiamolo, all’epoca in Italia si esprime soprattutto in dichiarazioni di principio e formalismo architettonico, senza il relativo radicamento socio-culturale che invece ne caratterizza la vicenda e l’ampia gamma delle realizzazioni in altri contesti nazionali.
Senza dilungarmi qui troppo sui numerosissimi e assai interessanti passaggi del libro riguardo a fatti e opzioni specifiche sullo spazio e le attrezzature urbane, di Nihil Sine Studio 2000 e/o dei suoi “concorrenti” (rinviando ovviamente in parte all’auspicabile lettura diretta, in parte alla bella recensione di Lodo Meneghetti dal sito della facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano, che riporto di seguito), vorrei invece concludere con una piccola critica ad alcuni orientamenti dell’ultimo capitolo, dedicato agli esiti del concorso.
Dove, apparentemente assai attenuato il riferimento costante alla figura del Chiodi, che sinora aveva fatto da solido ormeggio alla pur complessa ma avvincente narrazione, gran parte del racconto inizia a convergere su un personaggio che pare essersi attirato l’antipatia di intere generazioni di studiosi, urbanisti, semplici curiosi. E nemmeno Renzo Riboldazzi sembra insensibile a questa sorta di richiamo della foresta: prendersela con Cesare Albertini.
Il quale, pur potente responsabile dell’Ufficio Urbanistica comunale, forse ancor più libero di muoversi a piacimento grazie proprio a questo inedito ruolo amministrativo-disciplinare, non si avvicina neppur lontanamente, che so, alle grandi figure internazionali di “cattivo in città” alla Robert Moses. Certo i toni di certe affermazioni possono essere discutibili, ma siamo pur sempre di fronte a un funzionario puntualmente costretto a mediare, oltre tutto in assenza di solidi riferimenti normativi, fra quegli stessi interessi costituiti forse un po’ troppo sottovalutati anche dal Chiodi, che pure voleva esserne interprete progressivo.
Del resto anche un saggio abbastanza recente molto citato da Riboldazzi, quello di Silvano Tintori sull’inerzia di lungo periodo delle convenzioni coi privati, sottolinea come anche e soprattutto a Milano accada quanto il Giovannoni così riassumeva nel decalogo dell’urbanista: “non sono gli ingegneri o gli architetti a dai vita ad un piano regolatore … ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne rappresentano il vero elemento dinamico” (1928).
Albertini, come ha notato chi si è dato la pena di soffermarsi un po’ (es. Di Leo, Zucconi, Morandi) sulla sua figura, andando oltre il rancore degli architetti milanesi dell’epoca e quello di seconda mano dei loro allievi, certo ha dei limiti e dei torti. Ma leggerne il ruolo senza tener conto del fatto che si tratta di un funzionario comunale, e non di un accademico, di un libero professionista, ecc., non aiuta certo a comprendere uno dei nodi che citavo sopra, e che nel concorso del piano regolatore di Milano trovano un primo punto di manifestazione. Ovvero la sostanziale “uscita” dell’urbanistica, almeno negli aspetti di riflessione critica e ricerca, dalla culla originaria della pubblica amministrazione, per trasferirsi altrove.
Ma questa, come direbbe qualcuno, è un’altra storia. Distinta, se pur legata a doppio filo, a quella bellissima e ricca di vere e proprie “rivelazioni” che racconta Renzo Riboldazzi nella sua seconda puntata di quella che spero proprio sia una trilogia dedicata a Chiodi.
Per il terzo capitolo, mi permetterei di suggerire tra l’altro, ehm … la messa in rete della relazione e delle tavole di Nihil Sine Studio 2000. Sarebbe un bel colpo, e in fondo una conclusione logica.
p.s. 12 giugno 2008, dopo aver letto la recensione, Renzo Riboldazzi mi ha fatto avere la Relazione di Nihil Sine Studio 2000: lo ringrazio moltissimo per la disponibilità, e naturalmente la metto a disposizione dei lettori (f.b.)
Lodovico Meneghetti,
Una città policentrica. Cesare Chiodi e l’urbanistica milanese nei primi anni del fascismo
Polipress, Milano 2008, di Renzo Riboldazzi
Prosegue la ricostruzione, se così si può dire, della figura di Cesare Chiodi (1885-1969), a lungo dimenticata dopo la morte e ora oggetto di ricerche di sorprendente interesse. Ne spetta il merito soprattutto a Renzo Riboldazzi, attivo nel Politecnico di Milano come coordinatore delle attività dell’Archivio Piero Bottoni (di urbanistica architettura designa e arte) e insegnante a contratto nell’area delle discipline urbanistiche alla Facoltà di architettura.
Nella recensione alla raccolta Cesare Chiodi. Scritti sulla città e il territorio 1913-1969 curata da Riboldazzi per Unicopli nel 2006 (recensione in “Territorio”, nuova serie, n. 41, settembre 2007, pp. 108-109) notavo la sua straordinaria capacità di entrare nei più riposti significati dell’attività pubblicistica dell’ingegnere. Lo mostrano anche le 714 note, scrivevo, non una esibizione di acribia ma un’offerta al lettore di allargare la propria comprensione della storia urbanistica di Milano, e non solo di questa. Ora il talento analitico e critico dell’autore si trasferisce dagli scritti alla molteplice attività di Chiodi in un periodo cruciale della sua vita e della vita della sua amata città.
Anche questa volta la notazione (1062 numeri), lontana da ogni cavillosità o barocchismo, deve essere acquisita per comprendere appieno la funzione di Chiodi in quegli anni come amministratore e progettista, come protagonista della cultura politica e dell’urbanistica non solo milanesi. A questa stregua il titolo del libro, incentrato sul progetto per il concorso del piano regolatore di Milano del 1926-27, sembra restrittivo. La prima parte del saggio, La formazione di una coscienza urbanistica moderna (1903-1926), non è soltanto un’ampia dissertazione di vita e opere, si apre a un affidabile commento critico relativo ai cambiamenti nell’economia e nella politica che si ripercuoteranno fortemente nel corso successivo della storia di Milano e del paese.
Molto avvincente il racconto del periodo in cui l’ingegnere, assessore nella giunta Mangiagalli, esprime la propria vocazione ad affrontare i problemi con grande competenza tecnica e distinzione politica dal punto di vista che un rappresentante della migliore borghesia milanese deve (può) detenere, vale a dire il punto di vista liberale.
Mi limito a due citazioni. La prima: il problema della casa non può essere risolto affidandosi all’ente pubblico, agli istituti autonomi, ai Comuni e così via; deve essere l’imprenditoria privata a provvedervi, anche riguardo alle case popolari, grazie alle convenienze economiche assicurate da specifici provvedimenti dell’amministrazione: in primo luogo agendo con la leva fiscale, poi rinunciando alla politica della proprietà indivisibile inalienabile e rivendicando la funzione civile della proprietà privata e dell’assegnazione di alloggi a riscatto. La seconda: la costruzione o ricostruzione della città deve contare in ogni modo sulla buona pianificazione urbanistica, su piani particolareggiati conformi. L’intervento delle imprese edili potrà esprimersi al meglio, anche in questo caso, garantendo la convenienza degli investimenti. Di qui la propensione di Chiodi a condividere (né potrebbe essere diversamente in quegl’anni e in quella situazione politico amministrativa) la realizzazione di nuove parti della città secondo progetti che vorremmo giudicare pesantemente distruttivi di begli spazi milanesi retaggio della storia, essendo incontestabile il ruolo della rendita fondiaria, se non sapessimo che senza la presenza dell’assessore Chiodi, sensibile al richiamo dei paesaggi naturali e del paesaggio urbano delle strade e piazze, lo sfondamento della città sarebbe stato assai più rovinoso.
Il Policentrismo. I due capitoli sul progetto di Chiodi, Merlo e Brazzola per il concorso del 1926-27 e i suoi esiti, 1927-38, entrano vorrei dire a vele spiegate nella storia del pensiero e della critica moderni sulla città metropoli.
Il policentrismo per Chiodi è un modello necessario, la sua cultura in questo senso procede da Ebenzer Howard e dalla città giardino, risale fors’anche a William Morris la cui semi-utopia era però vissuta nella prospettiva socialista. Diciamo modello ma noi milanesi e lombardi sappiamo che il territorio foggiato da città e centri urbani grandi e piccoli spaziati da larghe fasce di campagna lo rappresenta nella realtà territoriale storica della rivoluzione economica e della modernità fino a oltre la metà del Novecento, come costituzione concreta magnificamente funzionale in ogni senso e benefica per gli abitanti.
Il disegno dei tre progettisti (terzo premio), non potendo che riferirsi al territorio milanese, non riesce ad affrontare il problema alla scala dell’area metropolitana vasta ma evita giustamente di inventare poli nuovi secondo un howardiano schema geometrico astratto e sceglie come cardini i piccoli borghi esterni alla città compatta.
Semmai sembrano troppo ampie le aree di espansione previste sia per questi che per le zone di connessione con la periferia interna.
Il disegno della città, all’interno di uno studio generale di pianificazione migliore di quelli destinatari del primo premio (Portaluppi e Semenza) e del secondo (Club degli urbanisti) non appare molto diverso riguardo al principio dell’urbanesimo come rappresentazione degli interessi privati, fondiari per primi. Ma è molto meno “piano di tracciati stradali” di quanto non lo siano i progetti dei vincitori e dei secondi premiati, caratterizzati da una spropositata (per noi e non per proprietari e costruttori) tela di ragno che pare voler già definire in dettaglio la distribuzione della rendita fra gli isolati e i lotti.
Un’ultima osservazione in merito ai trasporti in relazione al sistema insediativo. Chiodi è un convinto assertore del decentramento industriale per quanto possibile in una Milano che conserva comunque fior di industrie nel suo corpo. Se si decentra la produzione è bene decentrare anche la riproduzione, ossia è bene dislocare il lavoro e l’abitazione operaia. Se poi la complessità del sistema generale organizzativo di entrambi, nonché del movimento delle merci, rende impossibile garantire immediata vicinanza fra l’uno e l’altra, sarà un razionale, coerente sistema di trasporto radiale centro periferia, periferia centro, e circolare di connessione di tutti i poli a garantire la produttività degli investimenti e delle persone stesse. Tutto questo è necessario e doveroso anche per salvaguardare la città dell’habitat privato di alto e medio livello, delle belle strade e piazze, dei monumenti e delle case di buona architettura.
Non è scandaloso, è l’epoca. La borghesia italiana meno gretta, quella milanese, liberale in economia, equamente antisocialista nel pensiero politico e sociale, non vien giù dall’illuminismo francese.
Del resto deve fare i conti col fascismo: non liberalismo conservatore, ma puro autoritarismo reazionario.
Titolo originale: Tired Milan Plans A Green, Young Future – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
MILANO – Un ottimista potrebbe definirlo l’attimo Tour Eiffel di Milano.
L’Expo universale, che ha lasciato a Parigi il suo simbolo nel 1889, arriverà a Milano nel 2015, portando investimenti per ridare un po’ di brio a un’economia apatica, e ha trasformato la città natale chiusa su sé stessa di Silvio Berlusconi n uno dei più grandi cantieri d’Europa.
Per molti milanesi era una cosa che ci voleva da molto: la capitale italiana della moda e degli affari invecchia, e soffre da lungo tempo dell’immagine di una città grigia di smog, traffico, scure superfici asfaltate.
Ospitare l’Expo fra cinque anni rappresenta una grossa scommessa, in grado di ricostruire o distruggere l’immagine della città, e lo stesso vale per le sue casse.
Oltre a Parigi, il cui skyline si è imposto globalmente grazie a quel monumento a gambe divaricate costruito per l’Exposition Universelle, ci sono Siviglia che ha avuto una grossa spinta economica con l’Expo del 1992 o Lisbona, che ha trasformato un’area industriale abbandonata per l’edizione del 1998.
Ma nel 2000 a Hanover, un evento considerato la più grande e migliore fiera mondiale di tutti i tempi, ha suscitato il ridicolo nei mezzi di comunicazione e offeso il contribuente tedesco con le perdite per oltre un miliardo di dollari.
“Spero davvero che questa Expo 2015 possa dare a Milano una piccola scossa elettrica” commenta la sua cittadina Paola Antonelli, che lavora a New York al Museum of Modern Art e ha collaborato a un libro sull’architettura delle esposizioni mondiali.
Coi costi che già tendono ad impennarsi in un’epoca di rallentamento economico – la crescita stagna e in maggio l’inflazione ha toccato la punta del 3,7% - qualcuno avverte che questa scossa potrebbe rivelarsi solo finanziaria.
“Non è davvero chiaro quanto costerà l’Expo, e quanto del costo totale ricadrà su Milano. L’esperienza di altre città mostra che ci saranno sicuramente delle sforature” commenta Raffaele Carnevale, analista a Fitch Ratings.
Carnevale spiega che il debito a Milano è già il doppio del reddito, ma che il governo prevede una maggiore flessibilità nell’uso delle imposte da parte delle amministrazioni locali, che potrebbe lasciare Milano una maggiore quota della notevole ricchezza prodotta in città.
Il piano si rivolge a un centro finanziario ora inquinato – che ospita tra l’altro il teatro lirico della Scala, una galleria commerciale del XIX secolo, e il primo albergo a sette stelle d’Europa – per un ritocco urbano che possa renderlo un po’ più verde e aggiornato.
La prospettiva è di circa 20 miliardi di euro di investimenti fra pubblici e private, che possano ridefinire il modesto skyline milanese, realizzare parchi, migliorare le infrastrutture, costruire uffici di alta qualità e case più accessibili per le giovani famiglie.
Il governo italiano darà a Milano 575 milioni di euro fra il 2009 e il 2011 a sostegno degli investimenti per l’Expo, come ha dichiarato la sindaco Letizia Moratti la scorsa settimana.
La città, con 1.300.000 persone, mira a contenere l’espansione urbana realizzando poli secondari di trasporto e servizi. Chiede al governo una speciale autonomia per accelerare i progetti dell’Expo aggirando un famigeratamente lento sistema burocratico.
Ringiovanire
“È un punto di svolta importante che abbiamo atteso a lungo, questo degli investimenti per l’Expo 2015” commenta Carlo Masseroli, responsabile dell’amministrazione di Milano per le trasformazioni urbane, che aggiunge come la città sia pronta a ringiovanire.
Solo uno su quattro milanesi nel 2006 aveva meno di trent’anni, contro il quasi un terzo nel 1991, una netta diminuzione dovuta sia al calo delle nascite che agli elevati costi dell’abitazione che spingono fuori città le giovani coppie.
Relegata ai livelli europei più bassi per quanto riguarda la superficie verde per abitante, Milano prevede anche di aggiungere 11 milioni di metri quadrati di parchi e altri spazi aperti.
Non tutte le costruzioni hanno un rapporto diretto con l’Expo, che attirerà circa 30 milioni di visitatori. Javier Monclus, professore di architettura al Politecnico di Barcellona, spiega come i piani per Milano siano in linea con quelli delle altre città che hanno ospitato l’evento, per quanto riguarda l’ammodernamento delle infrastrutture e il verde.
“Tutti pensano alle esposizioni ... in quanto strumenti di trasformazione urbana, e dunque la strategia è quella di aggiungere un altro attrezzo per il cambiamento della città” dice Monclus, che ha studiato l’impatto delle esposizioni nei vari casi.
Le trasformazioni architettoniche saranno le più radicali per Milano dagli anni ‘50, quando la snella sagoma progettata da Gio Ponti del Pirelli prese il suo posto come unico grattacielo in città. Coi suoi 216 resta l’edificio più alto d’Italia.
Le realizzazioni previste comprendono anche il progetto CityLife: tre impressionanti torri negli spazi dell’ex fiera: una colonna contorta, un grattacielo dalla porzione superiore inclinata, e un’altra torre, più alta del Pirelli.
Alcuni critici, fra cui Berlusconi, hanno commentato che il piano CityLife, progetti degli architetti Daniel Libeskind, Zaha Hadid e Arata Isozaki, non tiene conto dello stile più discreto di Milano, del suo celare la ricchezza dietro pesanti portoni e finestre chiuse.
Ma molti milanesi vedono questo progetto come necessario per ridare impulso al cuore dell’industria italiana, e per ravvivare un panorama urbano privo di carattere.
Una indagine del 2007 fra gli alti operatori d’affari condotta dall’agenzia di consulenza immobiliare Cushman and Wakefield colloca Milano al dodicesimo posto fra 33 città europee, in quanto luogo per collocare un’attività, grazie anche alla vicinanza al centro del continente.
Ma poi la mette al ventiquattresimo posto per il valore dell’investimento, anche a causa del parco uffici obsoleto.
“É un’ottima occasione per una Milano più moderna, dato che l’Italia è ancora un po’ in ritardo su tutto quanto è moderno” commenta Marco Siciliano, studente sedicenne, mentre osserva i progetti in mostra in Galleria. “L’Italia è bella dal punto di vista artistico, ma avrebbe bisogno di una spinta per andare avanti”.
Bobo ha fatto il miracolo. L’altro giorno l’impegnatissimo ministro Maroni, resocontando la sua visita a Milano, tra militari agli angoli delle strade, poliziotti di quartiere, ronde padane e armamentari vari, è riuscito a ricordarsi del Leoncavallo, collocandolo, insieme con la moschea di viale Jenner, nel capitolo «emergenza legalità», inaugurando così l’epopea gloriosa degli sgomberi e «dell’aria che cambia».
Ci saremmo aspettati di tutto, persino Borghezio commissario «ai musulmani, quelli che pregano con il culo in aria», per citare alla lettera il volitivo e ingombrante eurodeputato. Non ci saremmo mai aspettati invece il Leoncavallo: per il centro sociale di via Watteau non sembrava proprio il caso di riscomodare per l’ennesima volta la parola «sgombero» e tanto meno la parola «legalità». Perchè il vecchio Leonka era da tempo giunto alla maturità dell’età adulta e dei compromessi, giusto per la tranquillità di tutti e per un sereno avvenire. Invece, girando al contrario il film della vita, in virtù del ministro Maroni, si torna a recitare di «sgombero» e naturalmente, come è giusto, in contrapposizione, di «presidio». Perchè questa mattina, alle ore sei (poche ore dopo insomma la fine della partita della nazionale proiettata in diretta, come le altre partite degli Europei, accompagnate tutte dalla degustazione dei vini dei coltivatori del consorzio, naturalmente alternativo, della Terra Trema), si darà il via al “presidio contro lo sgombero”, per fare, come spiega Daniele Farina, tra i primi del Leoncavallo ed ex parlamentare di Rifondazione, quello che si fa in questi casi: «Ci opporremo con i nostri corpi». Il Leoncavallo ha, per questo, chiamato i milanesi alla «ribellione» e francamente non sappiamo quanti vogliano rispondere, tornando dalla gita al mare o in montagna. La città, nella sua calura, è un deserto di sentimenti: a questo è ridotta e rimotivarla all’impegno, alla solidarietà, alla politica è impresa titanica.
Secondo Daniele Farina, che ha tenuto il conto, sarebbe il quindicesimo presidio contro il quindicesimo sfratto. Una vita. In questo caso non vi sarebbe neppure contrasto tra i leoncavallini e i proprietari dell’area (la famiglia dei Cabassi, i sabiunatt, quelli che, per capirci possiedono la maggior parte delle aree sulle quali sorgeranno grattacieli e capannoni di Expo 2015), ma inadempiente sarebbe il comune che dovrebbe traslare i diritti dei Cabassi dall’area di via Watteau a una qualsiasi altra area di loro proprietà. Una permuta, uno scambio pacifico, insomma. Va a finire che anche il Leoncavallo si mette nelle mani degli avvocati: «Stiamo studiando un esposto da presentare alla procura della Repubblica». Contro la signora Letizia Moratti. Insomma, altro che barricate. Piuttosto aule di giustizia per cause civili. La normalizzazione continua, nella storica anormalità del Leoncavallo, che ormai è patrimonio milanese, degno dell’Ambrogino d’oro, se il sindaco avesse un filo di sensibilità e di lungimiranza. Perchè il Leoncavallo la sua fatica di organizzatore e mediatore culturale l’ha sempre sopportata con coraggio, perseveranza, intelligenza. E con moderazione. Rivendicando la propria anomalia, la propria voglia di cultura in autosufficienza.
Reggerà un’altra volta all’urto il Leoncavallo? Probabilmente sì, continuando a recitare la sua parte, come da trent’anni, dopo la prima recita, 18 ottobre 1975. Bisognerebbe tornare a quegli anni, per immaginare ragazzi che saltano i muri di un’ex officina, in via Leoncavallo, dietro il deposito dei tram, al Casoretto. In quelle strade, trent’anni fa, si consumò un delitto, ancora senza colpevoli: vennero assassinati due giovani, Fausto Tinelli e Iaio Iannucci. Due giorni prima era stato rapito Aldo Moro. Il Leoncavallo divenne Centro sociale Fausto e Iaio. Più di prima divenne il luogo di una alternativa, faticosa e pericolosa, alla politica delle istituzioni. Di sinistra e d’ultra sinistra, autonomi o riformatori di un certo stampo (il primo nucleo del Leo si educò alle future imprese in un oratorio allestendo una scuola popolare), preglobalisti, uniti nella vocazione pedagogica, allestendo gruppi di intervento sull’istruzione, contro la repressione, sul carcere, sulla parità, sul lavoro, sull’ambiente, sulla Palestina, sull’apartheid, su tutto. Più la mensa e la birra. Più i murales, che in Italia nascevano lì, su quei muri scrostati, tenuti in piedi dalla generosa manovalanza dei militanti. Dentro le mura del Leoncavallo si moltiplicava la fantasia, che si esercitava in forme che si volevano socialmente utili: contro lo spaccio, ad esempio, o per gli sfrattati.
A un certo punto il Leoncavallo fu chiamato ad esercitare la sua fantasia anche «contro il terrorismo», perché nell’ombra del Casoretto, nella disposizione di chi non voleva sbattere porte in faccia a nessuno, i terroristi si fecero vivi. Si cadde nell’ambiguità dei «compagni che sbagliano». Ci fu anche qualche arresto da quelle parti e fu un colpo, che diede fiato alle trombe degli oppositori, al grido rituale di battaglia: «sgomberare il Leoncavallo». Toccherà alla giunta guidata da un socialista, Paolo Pillitteri, cognato di Bettino Craxi, sgomberare il Leoncavallo: nel 1989, il giorno dopo ferragosto, nell’anno del muro di Berlino, cadrà anche il Leoncavallo. Risultato: ventisei arresti e cinquantacinque denunce. Risultato a distanza: la rioccupazione del Leoncavallo. Poi arrivò Formentini sindaco, «Sono dei randagi». Arrivò Bossi, «Se non ci pensa il governo manderò un’ondata di uomini decisi fino al secondo piano». Il Leoncavallo trovò un’altra sede, alla Baia del re, di fronte all’autoparco della mafia. Un passaggio durato centottanta giorni. Nel settembre 1994, sperimentò un’altro sgombero e una occupazione, per così dire, consensuale. Questa volta i leoncavallini si ritrovarono in via Watteau, in quella terra dismessa, terra di nessuno, ma di proprietà del signor Cabassi, che li accolse in attesa della permuta. Quattordici anni fa e in attesa di un altro tentato colpo contro una minoranza che ha la colpa di rivendicare un pezzo di autonomia culturale.
Milano, la Milano dell´Expo 2015, non si sente grande metropoli o almeno non le interessa aderire all´Associazione mondiale delle grandi metropoli (www. metropolis. org). A dire il vero, tra le città italiane vi ha aderito c´è solo Torino mentre in tutto il mondo sono un centinaio ed in Europa tutte le capitali e molte città di primo piano. Peccato perché chi vi aderiva era invitato a partecipare alla sesta sessione del Congresso internazionale di urbistica che si è svolto ad Hammamet. L´urbistica è una disciplina nata nel 1986 al Crem (Centro ricerche energetiche) di Martigy e si è sviluppata nei Paesi francofoni - Francia, Svizzera e Canadà - ma ora è coltivata da tutte le grandi metropoli del mondo. In breve, si tratta di concepire la città come un sistema complesso fatto di edifici, strade, piazze ma anche di reti fisiche - elettricità, acqua, fogne, cablaggi, trasporti - e di cittadini e loro organizzazioni politiche e sociali: un sistema che deve essere gestito unitariamente ed in maniera integrata. Quello che gli urbisti definiscono un approccio sistemico.
In parole povere gli urbisti partono da un´idea di fondo: gli eletti e con loro chi gestisce la città hanno l´obiettivo di fornire agli abitanti ed alle imprese le risorse ed i servizi essenziali al buon funzionamento delle attività urbane. Tutto questo deve coniugarsi con una buona qualità della vita, con una forte attenzione ai problemi ambientali e di risparmio delle risorse non riproducibili a cominciare dal suolo. L´obiettivo sotteso a tutto questo è di rendere la "macchina città" affidabile e sicura: sicura da tutti i punti di vista e non solo quello caro al nostro vice sindaco. Affidabile e sicura vuol dire che non rischio di morire in un´ambulanza imprigionata nel traffico, che in agosto non ho blackout elettrici per il sovraccarico dovuto ai condizionatori, che i lavori stradali sono gestiti in modo da dare il minimo di fastidio, che una piccola epidemia d´influenza non fa collassare il sistema sanitario, che i sistemi informatici della pubblica amministrazione non vadano in tilt, che i dati d´informazione sulla città siano raccolti sistematicamente e con programmi che possano integrarsi reciprocamente. Vuol dire pensare a dei bypass per ogni importante funzione. Vuol anche dire che la città va osservata attentamente nei suoi cambiamenti sociali per evitare le emergenze (salvo che non le si voglia cavalcare), anche quelle sociali come i cinesi di Paolo Sarpi o i campi rom. Vuol dire accorgersi che gli alloggi degli studenti mancano prima che il mercato nero degli affitti li strangoli. Vuol dire avere un programma di comunicazione e d´informazione permanente con i cittadini, scambiare buone pratiche, competenze, formazione e coinvolgimento degli attori singoli e collettivi della vita della città. Vuol dire conoscere, integrarsi, ed approfittare di tutte le tecniche e di tutti i saperi ormai diffusi ma separati come sono separate e spesso contraddittorie le attività della pubblica amministrazione. Nei Paesi che dell´urbistica hanno fatto uno strumento di crescita stabile ed ordinata, questa competenza è affidata al city-manager. Vogliamo pensarci anche a Milano?
Michael Mehaffy è un pianificatore attento ai metodi dell'urbanistica sostenibile. Collabora con centri di ricerca e riviste. Ha scritto saggi con Nikos Salingaros e lavorato per la Fondazione del principe Carlo d'Inghilterra. Interviene nel dibattito sui rapporti tra moda, comunicazione e architettura
Oltre a comprensibili preoccupazioni sulla difesa dell'identità locale e del patrimonio nazionale, vorrei commentare la pretesa dell'Expo 2015 di definire i nuovi progetti che si stanno predisponendo a Milano come «sostenibili». E proporrei ai cittadini di assumere un atteggiamento molto scettico su quest'affermazione.
Per dirla molto francamente, la pretesa che esistano edifici alti sostenibili è una frode crudele. Tra i loro molti peccati, i grattacieli favoriscono la perdita e il guadagno di calore in inverno e in estate a causa delle loro grandi esposizioni e a causa degli ampi vetri non riparati dal sole. Tendono a causare effetti di «isola di calore» che, di fatto, aggiungono calore al riscaldamento globale del pianeta. Inoltre, i grattacieli sono costruiti con materiali che hanno un'elevata dispersione di energia, le loro superfici calpestabili non sono convenienti a causa degli eccessivi requisiti di spazio che richiedono ascensori, scale e uscite d'emergenza, infine la loro manutenzione e riparazione richiede spesso stravaganti sistemi. E si potrebbe continuare… Per altro non aggiungono realmente qualcosa alla vita di una città, se non, forse, un'icona aziendale che potrebbe essere interessante da guardare per un paio d'anni e nulla più. Ma il prezzo che per loro la città deve pagare è molto elevato: i grattacieli bloccano il sole e la vista, creano strani effetti del vento a livello del suolo ed isolano in modo estremo gli occupanti dall'attività urbana che si svolge a livello terreno. Invece di distribuire le persone lungo una strada e favorirne il contatto con la realtà urbana, con i grattacieli si finisce con il concentrare le persone in piccoli nodi, spesso lasciando grandi vuoti urbani nei quali non si può passeggiare. E questa non è di certo una formula giusta per costruire una città sostenibile.
Sono consapevole delle osservazioni di chi sostiene che la densità fornita da edifici alti è benefica; ma l'evidenza mostra che ciò non è vero. Alcune ricerche, ad esempio, dimostrano che i problemi legati al carbonio tendono a scendere ad un livello stabile nelle aree dove abitano circa un centinaio di persone per ettaro. Una densità ben distribuita di cento persone per ettaro è perfettamente realizzabile in un tessuto edilizio con case a quattro o sei piani, come dimostrato da molte città europee. Per contro, città come Houston e Atlanta, che hanno edifici molto alti, dimostrano di avere anche emissioni per persona molto elevate, oltre ad altri problemi ecologici.
Inoltre, la costruzione di un nuovo edificio alto — non importa quanto «verde» sia la sua tecnologia — consuma alti livelli d'energia e di risorse. Per capirlo, basta confrontare il consumo netto di energia e di materiali di un nuovo edificio con quello degli edifici esistenti. Spesso è molto più «ecologica» una riqualificazione di un edificio esistente piuttosto che costruire un nuovo edificio con funzioni di risparmio energetico, che spesso non funzionano nel tempo specie perché non si è tenuto conto degli alti costi di manutenzione.
È molto importante, infine, comprendere che un approccio sostenibile è basato sui «sistemi interi». Quando adottiamo questo approccio, scopriamo che la maggior parte delle strutture sostenibili sono quelle già esistenti. In definitiva, la strategia più sostenibile appare quella di proteggere il nostro patrimonio e la nostra identità locale, difendendole con forza contro chi vorrebbe cambiarla in favore di luccicanti novità.
La grande pesca nel mare dei quattrini dell’Expo è cominciata. I primi a farsi decisamente avanti sono stati i costruttori: il loro presidente, Claudio De Albertis, ha scritto al sindaco rivendicando spazio e ruolo per le imprese milanesi. Dando per scontato l’ovvio interesse economico della categoria, il discorso di De Albertis va giustamente al di là e fa trapelare il disagio dei costruttori. Da almeno un ventennio la pubblica amministrazione, primo committente per dimensioni, ha imboccato la strada dei mega-appalti anche attraverso l’accorpamento. Un esempio per i non addetti: se ho da sistemare dieci immobili sparpagliati per la città li impacchetto tutti in un unico appalto e li assegno a un’unica grande impresa. Potrei fare dieci appalti distinti ma con la scusa della razionalizzazione scelgo la strada più comoda e meno faticosa (e meno responsabile). Si sono visti così accorpare ospedali, edifici pubblici, strade di tutti i tipi e a Milano perfino la manutenzione del verde. Le conseguenze si sono viste: proliferare di subappalti in cascata e generale dequalificazione tecnologica del settore, ormai composto di un’infinità d’imprese medio piccole e da pochissime grandi, nessuna a livello europeo.
In sostanza con questa politica si è impedita la crescita naturale del settore: chi è nano resta nano e i grandi si sono nel frattempo finanziarizzati preferendo le crescite di valore di Borsa alla crescita tecnologica. D’innovazione non se ne parla da decenni in un settore dove impera una sorta di oligopolio diffuso dei grandi. Lo stesso fenomeno riguarda i progettisti, soprattutto le nuove generazioni, cui non è dato di crescere.
Adesso per l’Expo si parla di 3,2 milioni di opere infrastrutturali e per avere un’idea delle dimensioni di questo investimento bisogna pensare una cifra che, se fosse solo di edilizia residenziale, consentirebbe la costruzione di 160mila vani, come dire una città di più di 200 mila abitanti. A questa cifra, già impressionante, si devono aggiungere gli investimenti indotti.
Tra le preoccupazioni di chi s’interroga sull’uso successivo delle costruzioni e vede il pericolo di uno tsunami urbanistico e ambientale se ne aggiunge un’altra: questo gigantesco investimento lascerà sul territorio un giacimento d’imprenditorialità, di professionalità e di cultura proporzionato alla sua mole? Tutto dipende da come saranno gestiti questi soldi. L’amministrazione non può venir meno all’impegno di far crescere la realtà locale e di crescere essa stessa. Dove sono le risorse pubbliche per progettare, dirigere e collaudare tutte queste opere? La tentazione sarà di passare la mano ai privati ma le recenti esperienze che hanno portato al progetto Citylife sull’area della Fiera non sono un buon viatico. L’interesse collettivo non è appaltabile. Tra le molte commissioni, una che si occupi di valorizzare in modo permanente questo investimento forse non c’è. Se ci fosse, tra le tante considerazioni su cui dovrebbe riflettere ve n’è una importante: più è lunga la catena tra committente e manovale di cantiere più ci sono morti bianche e dequalificazione produttiva del territorio.
Che a conti fatti la Fiera abbia poi scelto l'offerta più vantaggiosa, con uno scarto di cento milioni di euro, è del tutto ragionevole. Ma c'è da chiedersi perché l'amministrazione comunale abbia avallato il progetto scelto, che non era l'esito di un concorso pubblico e sarebbe potuto essere benissimo modificato. Ecco: secondo me gli amministratori di Milano vengono scelti ed eletti per le loro nobilissime qualità, tra le quali non viene considerato il buon gusto nel campo estetico della città.
L'Expo del 1851, a Londra, lanciò la grande novità di un edificio in ferro e vetro simile a una serra. L'Expo di Barcellona del 1888 fu la vetrina del modernismo architettonico catalano sullo sfondo di Gaudì. L'Expo del 1889 a Parigi mostrò le incredibili possibilità costruttive dell'acciaio e, demolita l'immensa galleria delle macchine, ne rimase la torre Eiffel. L'Expo di Chicago del 1893 lanciò il movimento della City Beautiful, cui dobbiamo il rinnovo urbanistico di molte città americane e tra l'altro il Mall e il Campidoglio di Washington. L'Expo di Parigi del 1925 divenne cassa di risonanza dell'Art déco, ma toccò ancora a Barcellona, nell'Expo del 1929, di ospitare il nuovo stile moderno, con il famoso padiglione di Mies van der Rohe. E l'Italia? Se l'Expo di Torino del 1902 promosse la diffusione dello stile liberty in Italia: l'esposizione di Milano del 1906 non segnò alcun rinnovamento architettonico e finì per risolversi non solo in un programma estetico irrilevante ma anche, raccontano i giornali dell'epoca, in un fallimento su tutta la linea, compresa quella organizzativa che avrebbe dovuto legittimare la pretesa milanese di essere la capitale morale dello Stato.
Le città hanno, come le persone, un carattere radicato nel loro passato che permane nel tempo e che è difficile modificare. Sicché, se Barcellona e Torino hanno colto nell'ultimo ventennio l'occasione delle Olimpiadi per affermare la propria vocazione culturale nell'architettura, a Milano la curiosa ostinazione sul progetto CityLife dimostra soprattutto la continuità del dubbio gusto tradizionale delle amministrazioni milanesi.
Uno spettro si aggira per Milano, la diceria che il progetto sulle aree dismesse della Fiera, con i suoi discussi grattacieli, sia l'esito di un concorso. Non è vero: Luigi Roth, il suo presidente, ha messo in vendita l'area chiedendo — a mio avviso meritevolmente — che l'offerta economica fosse accompagnata da un progetto, e sui progetti presentati chiese il giudizio di undici esperti in vari campi.
Non so degli altri, ma a me venne chiesto un parere dal punto di vista urbanistico, parere negativo su 4 progetti su 5 — ottimo era solo quello di Renzo Piano — con motivazioni che chiunque può leggere sul sito www.esteticadellacitta.it
la Repubblica
In Chinatown solo a piedi
di Alessia Gallione
La zona a traffico limitato pronta a partire a settembre. Ma soprattutto la promessa di trasformare via Paolo Sarpi in una strada pedonale, con i cantieri che potrebbero aprire nell’estate del 2009 per riportare a nuova vita il quartiere tra due anni. È una accelerazione decisa quella impressa da Palazzo Marino per risolvere la questione di Chinatown. E questa volta è la stessa Letizia Moratti ad assicurare tempi brevi: «Partiremo nelle prossime settimane per arrivare a una Ztl a settembre. È una delle tappe che stiamo portando avanti nell’interesse dei residenti e dei commercianti», ha assicurato il sindaco. Perché per ora, in attesa che da un incontro del tavolo istituzionale fissato lunedì prossimo arrivi una risposta dalla comunità cinese sul luogo scelto per trasferire le loro attività, c’è solo una certezza: «Il commercio all’ingrosso in zona Sarpi non può più restare».
L’ipotesi di Lacchiarella per uno spostamento dei grossisti rimane la più praticabile e immediata. Lo ha confermato anche il console cinese Limin Zhang al termine di un vertice in Comune da cui, però, non sono arrivate certezze: «Siamo ancora in una fase di studio delle proposte in campo - ha spiegato - anche se in questi giorni ci sarà una scelta unica e definitiva. Alcune aree sembrano ideali come per esempio Lacchiarella». E, per complicare ancora di più la questione, ieri è spuntata un’altra ipotesi a Locate Triulzi. È proprio di fronte a questo "tira e molla", che Palazzo Marino ha detto basta. «Dopo un anno di trattative non possiamo più aspettare. La Ztl partirà e nel frattempo sosterremo nuove opzioni per il trasferimento all’ingrosso: più ce ne sono meglio sarà», dice il vicesindaco Riccardo De Corato. E anche l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli ribadisce: «A noi l’ipotesi Lacchiarella sta bene anche se non considero ancora morta l’opportunità di via dei Missaglia». «Quello che vogliamo sono garanzie - aggiunge l’assessore al Commercio Tiziana Maiolo - una lista dei grossisti e la data del trasloco. Non ci saranno sussidi diretti, ma un’informazione dei possibili incentivi». Critico il consigliere del Pd Pierfrancesco Majorino: «Dopo più di un anno è ancora tutto fermo. Dal 21 organizzeremo incontri per aiutare la giunta con proposte mirate a uscire dal pantano in cui si è cacciata».
La Ztl che partirà a settembre consentirà l’accesso per i residenti non in tutto il quartiere ma solo nell’isolato in cui abitano e due strade, via Rosmini e via Niccolini, resteranno aperte al traffico. Quattro telecamere saranno sistemate in via Sarpi. Tra i cambiamenti ci sarà la modifica del senso di marcia di alcune vie: via Lomazzo, via Sarpi verso via Bertini, in via Messina si circolerebbe da via Sarpi verso via Fioravanti e in via Braccio da Montone da via Sarpi verso via Giusti. «La Ztl ci consentirà di studiare la pedonalizzazione e il progetto partirà subito», spiega l’assessore al Traffico Edoardo Croci. Il punto di partenza è un piano presentato da Unione del Commercio e Camera di commercio cinque anni fa, che trasformerebbe via Sarpi in una nuova via Dante, con la possibilità di passaggio solo per i residenti che hanno un posto auto, una nuova pavimentazione, panchine e verde. Per i lavori nel prossimo bilancio si dovranno prevedere almeno 4 milioni di euro di spesa e due anni di lavori.
Il Corriere della Sera
Moratti, via le auto da Chinatown
di Andrea Senesi
Linea dura del Comune per convincere i grossisti a traslocare da via Sarpi. «Da settembre, massimo ottobre, partirà la zona a traffico limitato nel quartiere», dice il sindaco Letizia Moratti. La pista più accreditata rimane quella di Lacchiarella, comune a sud di Milano. Anche se il sindaco Luigi Acerbi non nasconde qualche perplessità: «Non siamo stati coinvolti nella decisione». Ma neppure l'ipotesi via dei Missaglia è completamente tramontata.
Nell'attesa, tra i commercianti cinesi di via Sarpi e dintorni, la tattica più usata è la melina. Cercano di prendere tempo, gli asiatici, con (forse) l'obiettivo di alzare il più possibile la posta in palio, di incassare somme elevate di denaro per vendere quei negozi «che abbiamo comprato pagando in contanti».
Ora basta, non si scherza più. I grossisti cinesi da via Sarpi e dintorni se ne devono andare. Da settembre, massimo ottobre, tutto il quartiere diventerà una zona a traffico limitato. Obiettivo: eliminare i carrellini dei grossisti. Che devono decidersi ad accettare una delle ipotesi di trasferimento sul tavolo dell'amministrazione ormai da mesi.
Ieri, per la prima volta, è stato lo stesso sindaco Letizia Moratti a parlare della necessità di dare il via alla zona a traffico limitato: «A breve partiremo con la segnaletica per arrivare a una ztl nel mese di settembre e ottobre».
Quattro telecamere regoleranno l'accesso, consentito ai residenti solo per l'isolato in cui abitano. Di più. I tre assessori alla partita — Tiziana Maiolo (Attività produttive), Carlo Masseroli (Urbanistica) e De Corato (vicesindaco, con delega alla sicurezza) — rialzano la posta. Nel 2009 partiranno i lavori (due anni di tempo) per la pedonalizzazione dell'area. Via Sarpi come via Dante, il fantasma agitato per convincere i grossisti a fare le valigie da via Sarpi. Già, ma verso dove? Lacchiarella rimane la pista più accreditata. Lì ci sono i capannoni abbandonati del Girasole, e lo stesso sindaco del Comune a sud di Milano, Luigi Acerbi, si dice possibilista sull'operazione. A patto che non sia quel maxi-polo del commercio all'ingrosso per tutto il nord Italia che qualche imprenditore cinese già immagina. «Non deve avere un impatto negativo sugli equilibri della nostra comunità». E poi, il problema del metodo. «Milano avrebbe dovuto coinvolgerci prima nell'operazione» lamenta il sindaco. Attacca anche l'opposizione: «Dopo più di un anno a Chinatown è ancora tutto fermo», dice Piefrancesco Majorino del Pd.
A Palazzo Marino il timore vero è un altro. E cioè che la comunità accetti Lacchiarella senza offrire in cambio garanzie precise sui tempi della delocalizzazione da Sarpi. «Tant'è vero — ragiona la Maiolo — che abbiamo chiesto, per ora senza risposta, una lista dettagliata dei commercianti che accetterebbero il trasloco». In ogni caso, la pazienza è finita, ripetono in coro dal Comune. E per i grossisti — ribadiscono — non ci saranno aiuti di natura economica. «La decisione di creare la Ztl — attacca De Corato — risale ad aprile dello scorso anno. Dopo più di un anno ora non possiamo più attendere ». «Una vittoria della Lega», esulta il capogruppo del Carroccio Matteo Salvini. E sul quartiere che verrà circolano già i primi progetti. Dal recupero dell'ex stabile Enel di via Niccolini a una nuova libreria Feltrinelli che dovrebbe aprire nella zona nel frattempo liberata dai carrellini. «Non so come la partenza della Ztl sarà presa dai commercianti cinesi» dice il console Limin Zhang. Che, nel merito conferma: «Mi risulta che qualcuno ha già accettato il trasferimento a Lacchiarella. Lì sono già pronti i capannoni e i terreni». Detto comunque che l'ipotesi Gratosoglio non è del tutto tramontata (Masseroli sostiene che la soluzione potrebbe essere «complementare » a quella di Lacchiarella), al tavolo di ieri ne è spuntata, portavoce il console, un'altra: Locate Triulzi. Nel frattempo, la Ztl partirà. Con buona pace dei commercianti cinesi. E italiani. Che piuttosto della soluzione intermedia preferirebbero da subito la completa pedonalizzazione dell'area. Lunedì è in calendario il prossimo incontro tra Comune e comunità. Potrebbe essere il giorno della verità sul destino della zona Sarpi. Spettatori interessati: Gratosoglio, Lacchiarella e Locate Triulzi.
la Repubblica
Al Girasole già spuntano uffici con gli ideogrammi
di Anna Cirillo
I giardinieri rasano i prati a puntino, non un filo fuori posto nell’immenso giardino in cui è immersa una cittadella agonizzante. Il Girasole è un gioiellino, sembra un villaggio vacanze in campagna. Ma i capannoni rossi di questo comprensorio a poco più di due chilometri da Lacchiarella (tre dall’autostrada A7) dedicati da sempre all’ingrosso di abbigliamento, sono in parte abbandonati. Più della metà chiusi, non affittati. Si gira nel dedalo di strade silenziose con una sensazione di vuoto e desolazione. E in uno spazio sporco e disadorno spiccano cartelli con ideogrammi. È l’ufficio messo in piedi dai cinesi per attirare qui i commercianti di via Sarpi. Ma anche altri, perché no.
L’intuizione fu di Berlusconi, a costruirla l’Edilnord, inaugurazione nel 1985: 800mila metri quadrati, 22 padiglioni dall’aria discreta, un totale di superficie coperta di 170mila metri quadrati, più il palazzo Marco Polo, destinato a uffici e centro direzionale. C’erano due banche, andate via nel 2001, tabaccheria, ristorante: ora è deserto, sopravvive solo il bar. La storia del Girasole è stata di gloria per circa una decina d’anni. Cittadella della moda, con sfilate, grossisti di livello, pista di atterraggio per elicotteri, la Fiera di Milano che portò qui alcune manifestazioni fino al 1994. Tanto che prima della scelta di Rho-Pero si parlò di piazzare la fiera in un’area industriale adiacente al Girasole. «All’inizio qui era pieno di grossisti, tutta roba di qualità, gli spazi mancavano - racconta Vittoria Aspirondi, commerciante all’ingrosso di abiti, arrivata 23 anni fa - . I cinesi ben vengano, porteranno un po’ di gente, un po’ di vita in questo posto vuoto, che è un delitto far morire». «Tutto il mondo veniva qui, arabi, americani, francesi, era un piacere non solo per la qualità dei prodotti ma anche per le manifestazioni» ricorda Renata Pellizzari, due negozi a Milano e a Lignano. Poi il declino. La Fininvest a inizio anni ‘90 vende la proprietà a diversi enti di previdenza. «Il vero problema del Girasole è questo - spiega Brunello Maggiani, storico di Lacchiarella, amministratore di alcuni padiglioni - . Uno dei padiglioni più grandi, 14.400 metri quadrati, è stato appena venduto dall’Enpam, l’ente di previdenza dei medici, alla Pirelli Real Estate. Altri proprietari, in ordine di importanza, sono Cassa pensione geometri, Inpdap, Inps, Enasarco, Cassa notai, Cassa ragionieri. Il 75 per cento dello spazio è in mano a enti previdenziali». Che non usano i padiglioni e non li affittano. A parte Groma, società di gestione servizi integrati per patrimoni immobiliari, costola della Cassa geometri che agisce anche per conto di Enasarco. Ed è con Groma che i cinesi stanno trattando. «Un gruppo di ristoratori di Paolo Sarpi - spiega Vincenzo Acunto, direttore generale di Groma - ha firmato con noi un pre-contratto di locazione per quasi 50mila metri quadrati di capannoni, depositi per commercio all’ingrosso di proprietà nostra e di Enasarco. L’affitto è 6 euro al metro quadrato al mese, più gli oneri condominiali: sorveglianza 24 ore su 24, riscaldamento centralizzato, manutenzione verde e strade. Se l’operazione non va in porto perderanno la cauzione, altrimenti gli affitti inizieranno da luglio, con contratti di 6+6 anni». La società di cinesi, che ha aperto un ufficio in loco, fa da intermediaria per subaffittare gli spazi a connazionali. Il sindaco di Lacchiarella, Luigi Acerbi, non è contrario all’operazione, «a condizione che si dimostri che ha ricadute positive per noi. Non siamo disponibili ad accettare qualsiasi cosa. E poi ci dev’essere un adeguamento infrastrutturale che non può essere sostenuto solo da Lacchiarella. Per questo è importante il dialogo tra istituzioni, che finora non è avvenuto».
Non solo apparentemente, ma anche in sostanza, è del tutto corretto il modo in cui – almeno a sentire gli articoli riportati – si starebbe avviando a soluzione l’annoso problema della incompatibilità fra tessuto storico e attività “pesanti” come quelle che si legano necessariamente a grossi movimenti merci. Si aprono prospettive di vera rinascita per un quartiere a lungo in bilico fra vitalissima zona commerciale urbana e rischio di degrado, spaziale così come sociale. E con la scelta di una struttura già presente nell’area metropolitana, ma sottoutilizzata, si prospetta uno sbocco sicuramente migliore di quello nelle scarse aree verdi ai margini del comune di Milano che si era affacciato in precedenza. Però.
Però, anche tralasciando per ora il fatto che quello che si prospetta per il quartiere centrale “liberato” è un processo di gentrification assai poco strisciante, va guardata forse meglio la posizione del Girasole, nel bel mezzo del parco agricolo di greenbelt , e ad esempio a poche centinaia di metri da un grosso polo logistico all’interno del medesimo territorio comunale. E, ancora ad esempio, proprio nella fascia a parco ufficialmente non ancora toccata dai grandi progetti della Traiettoria Orbitale Milanese. Si prospetta forse qualche altra operazione di forzatura dei piani, in qualche modo simile a quella bi-partisan ormai celebrata del Cerba, nel caso in cui gli spazi esistenti dovessero risultare molto meno accoglienti di quanto si dice?
Perché non pensavano certo ad allargare il campo giochi dell’oratorio, i sindaci che tanto premevano a favore del famigerato “emendamento ammazzaparchi” mentre all'orizzonte si profila, già approvata in commissione, la nuova legge sulle infrastrutture che privatizza le fasce laterali a favore della capannonizzazione del territorio (f.b.)
Cominciamo col non esagerare. La partita sull’Expo non è affatto decisiva per i destini del nostro paese, né per quelli delle sue connessioni culturali e produttive internazionali. Si tratta di un successo importante per Milano sul piano del marketing urbano, visto che le città sono diventate purtroppo pure occasioni di competizione mercantile. In questo si sono trasformate le Esposizioni universali che hanno cessato la loro funzione propria alla fine del XIX secolo, trasformandosi in utilissime occasioni di lavoro e di afflusso temporaneo di capitali. Non è più il tempo delle Tour Eiffel.
Sarebbe invece importante compiere da subito uno sforzo di progettazione urbana di lungo periodo per costruire un’ipotesi credibile, un piano, su come si possa utilizzare tale occasione, immaginando miglioramenti strutturali, diffusi e non esibizionisti. Le occasioni eccezionali come Olimpiadi, campionati internazionali, esposizioni tematiche possono essere utilizzate positivamente come hanno fatto Barcellona o Torino vincendo l’ideologia della deregolamentazione con piani di lunga durata o trasformarsi in disastri come a Siviglia o ad Osaka.
Per quanto riguarda la reazioni polemiche che hanno attraversato i giornali, esse oscillano tra l’odio generalizzato per la nuova costruzione (un’ostilità peraltro ampiamente giustificata dallo stato cattivo dello sviluppo urbano degli ultimi anni) e l’entusiasmo senza confini per il cambiamento incessante, tra le battaglie pro o contro il grattacielo, battaglie senza senso perché non si può essere pro o contro una tipologia architettonica ma solo pro o contro la sua qualità e il suo uso proprio o improprio. Quanto, poi, al giudizio sulla qualità dei prodotti architettonici recenti, essa è sovente una pura proiezione dei parametri di giudizio personali: le preferenze di gusto non sono argomenti sufficienti a discutere con competenza di un argomento così complesso. Se le critiche che, da questo punto di vista, ho sollevato fin dall’origine al progetto dell’area della vecchia Fiera coincidono con quelle del dottor Silvio Berlusconi è una questione che riguarda le contraddizioni interne al suo schieramento che quel progetto ha promosso: questo sì sicuramente in funzione di alcuni privati interessi.
Poco più di un secolo fa Cesare Beruto, ingegnere capo del Comune, disegnava il nuovo piano regolatore con l'esplicito intendimento che Milano diventasse ancora più bella, un piano molto apprezzato dai contemporanei, dai cittadini e dagli intenditori. Che nessuno oggi riconosca nelle strade di Milano l'impronta dell'opera d'arte è per la nostra città una disgrazia, ma non è un fatto così fuori dell'ordinario: dal Cinquecento al Settecento nessuno costruiva più nello stile gotico e nessuno era più in grado di apprezzare lo specifico carattere architettonico di ogni cattedrale. Soltanto con il revival gotico, quando tornò di moda, qualcuno ricominciò a studiarlo e Viollet-le-Duc ne fece poi un'analisi magistrale. Da allora in poi tutti furono di nuovo in grado di comprendere, volendo, una cattedrale gotica.
Ecco un esempio. Beruto aveva disegnato, davanti a Santa Maria delle Grazie, una lunga strada verso la campagna — via Ruffini, via Mascheroni, via Rossetti, viale Scarampo — sicché chi fosse arrivato in città l'avrebbe vista là in fondo. E ancora oggi — se la continuità di questa visuale venisse mantenuta — chi arrivasse dalle autostrade verrebbe accolto da uno dei monumenti più significativi della città, dove è conservato il Cenacolo leonardesco.
Nessuna città europea avrebbe una prospettiva così significativa e le migliaia di visitatori attesi per l'Expo, quelli che arriveranno dai loro Paesi in automobile o dalla Malpensa con un autobus o un taxi, avrebbero un memorabile benvenuto. Ma il progetto in corso sulle aree della ex fiera non tiene conto di questo suggerimento. Ha, infatti, disposto fabbricati che occludono questa vista.
Le nostre città sono state costruite nel corso di mille anni per essere opere d'arte. Questa intenzione estetica è evidente per chi le sappia leggere — una conoscenza alla portata di tutti — e sembra strano che siano proprio gli italiani a ignorare di cosa sia fatta la loro bellezza.
In questi giorni tutti sembrano d'improvviso i più appassionati cultori della bellezza, ma di una bellezza che sembra un contenitore cui ciascuno è libero di dare il contenuto e il significato che crede. Non è così, non è vero che de gustibus non est disputandum. Le regole costitutive della bellezza delle città, quelle che ne hanno fatto un'opera d'arte, sono l'esito di un processo millenario nel quale sono state coinvolte quaranta generazioni di cittadini, e sono ancora quelle che suggeriscono di abbellire una città con un nuovo teatro, una nuova biblioteca, un nuovo museo, tutti temi collettivi inventati centinaia di anni fa, accanto alle strade trionfali, alle passeggiate, ai boulevard cui sarà bene ricorrere anche ora. Che l'occasione dell'Expo sia la vetrina della nostra volontà di bellezza e non della nostra ignoranza.
Nota: per chi volesse verificare, del Piano Beruto sono disponibili su Mall/Antologia la relazione e la carta della versione 1884 (f.b.)
All’appuntamento con l’Expo appena conquistata, fra sette anni esatti, si presenterà una città radicalmente cambiata: una selva di grattacieli griffati, monumenti di archeologia industriale richiamati alla vita, battelli che scivolano su vie d’acqua urbane. Ecco un viaggio tra i quindici mega-progetti che ridisegnano il suo futuro.
l vento di aprile soffia insistente sulle fronde chiare del betullino e il fruscio arriva fino a dentro, mischiato con il fischio delle foglie di una quercia ancora giovane. Entra anche il profumo intenso del gelsomino che ha messo i primi fiori, e la macchia di colore rosso delle bacche del cratego. È il momento migliore, per il bosco. Il momento del risveglio. Ma questo è un bosco speciale: siamo in un appartamento di città, al ventisettesimo piano della torre "D" di Porta Nuova Isola, pareti di vetro che danno sul terrazzo, davanti una quinta di verde. E questo è il "Bosco Verticale", progettato dallo studio Boeri, novecento alberi alti fino a nove metri sovrapposti l’uno all’altro, salici e peri da fiore, ciliegi giapponesi e bambù, piantati piano sopra piano. Poco più su, sul tetto, volteggiano le pale eoliche che garantiscono energia. Molto più giù, invece, le sonde geotermiche pompano calore dal sottosuolo e da qualche parte le acque grigie, filtrate, tornano in circolo per l’irrigazione. Dalle finestre, tra le fronde, ecco a perdita d’occhio il profilo della città.
Ed ecco, appena in là sull’orizzonte, a nascondere le cime delle montagne, un altro bosco, stavolta semplicemente pensile. A centosessanta metri di altezza, che vuol dire al trentunesimo piano. Sul belvedere, con ristorante, del grattacielo che è la nuova sede della Regione Lombardia e che quassù vuole attirare cittadini e turisti. Un parallelepipedo di vetro progettato dall’architetto cinese della Piramide del Louvre, immaginato per celebrare la trasparenza e il buon governo, al centro di una grande piazza coperta da una cupola, dove migliaia di persone passeggiano e fanno shopping negli elegantissimi negozi; ma anche se ne stanno semplicemente sedute ai bordi della fontana circolare, pc sulle ginocchia, collegate col wi-fi. Un’opera grandiosa: centomila metri quadri edificati per un costo di 320 milioni di euro. La più maestosa delle opere commissionate da un ente pubblico dal tempo degli Sforza; l’erede, nelle intenzioni, del Castello.
Benvenuti a Milano 2015. Benvenuti nella città che ha vinto l’Expo e che per questo, da stanca metropoli post-industriale, smarrita e senza vocazione, ha ripreso a correre. Se l’iniezione di denaro prevista dal piano per l’esposizione - 4,1 miliardi di euro - permetterà la costruzione ex novo di un pezzo di città che oggi non esiste, il quartiere della fiera da più di un milione di metri quadrati, e il completamento di strade, linee di metropolitana, reti ferroviarie, una zona verde grande come tre Hyde Park e mezzo, perfino la creazione di una via d’acqua sulla quale scivolano i battelli, quella che fra sette anni si presenterà all’appuntamento con il mondo sarà in ogni caso una città completamente nuova. Ci saranno colline nel piatto della pianura; laghi là dove era asciutto. Ma sarà, soprattutto, una città verticale. Con grattacieli storti, sì anche sbilenchi; qualcuno colorato, altri con le guglie; certi che sembreranno essere lì lì per cadere, altri ancora perfino attorcigliati. Torri rivestite di vetro, acciaio, pietra, ma anche di bosco, addirittura di lamine d’oro. E tutti, questo è certo, saranno altissimi.
È come se a Milano si fosse scatenata una gara tra gli architetti di tutto il mondo per vedere chi inventa l’edificio più stupefacente. Spariti i vecchi immobiliaristi legati in qualche modo alla tradizione, ora anche i cantieri sono nelle mani di chi non ha mai avuto legami con la città, gli sviluppatori internazionali, che costruiscono a Londra come ad Abu Dhabi e che rispondono esclusivamente a logiche di profitto. L’obiettivo è diventato far rumore, farsi vedere, trasformare tutto in attrazione, vendere. Ma attrazione per chi? Per il mezzo milione di abitanti che negli ultimi trent’anni ha lasciato la città, che ci ritorna al mattino per lavorare ma che se ne va la sera? Nel 1972 Milano era una metropoli da un milione e settecentomila abitanti; oggi sfiora il milione e tre. Una città impoverita ma, soprattutto, una città che ha il drammatico problema del pendolarismo: 840mila ingressi ogni mattina, 510mila persone che arrivano in automobile, hanno dei costi altissimi. Far tornare i milanesi a Milano, smettere con l’edificazione delle città-satellite nell’hinterland, ricominciare a costruire solo al centro potrebbe essere un disegno per il futuro.
Ma per costruire in centro, è necessario soprattutto farlo in verticale. Vediamola, questa nuova città, dal ventottesimo piano della torre "D". All’orizzonte, a quel punto, i vecchi simboli saranno diventati insignificanti: la Madonnina, la Torre Velasca, il grattacielo Pirelli. Stracciati, in una classifica basata semplicemente sull’altezza, da almeno quindici nuovi "mostri" di acciaio, cemento, vetro e tanto verde. Disegnati dai più grandi architetti del mondo chiamati a operare ovunque, a riempire vuoti, a reinventare aree dismesse, a costruire dove per trent’anni non si è fatto. Sono quindici progetti giganteschi e 147 piccoli interventi, che l’abolizione del vecchio piano regolatore e la scomparsa della destinazione d’uso ha liberalizzato. Nasceranno quartieri nuovi e altri abbandonati torneranno a vivere; anche i comuni limitrofi avranno i loro simboli. Come Rozzano, con la torre Landmark, alta duecento metri. Perfino le caserme cittadine troveranno una seconda vita; e cambieranno pelle gli scali ferroviari abbandonati.
Il più grande piano di riqualificazione urbana si sta realizzando nella zona intorno all’Isola, vecchio quartiere tra la stazione Centrale e Garibaldi, che prevede l’edificazione di 350mila metri quadrati e la realizzazione di una delle aree pedonali più grandi della città, dentro la quale ci sarà la Biblioteca degli Alberi, un reticolo di percorsi tra piantumazioni di diverse essenze destinati a diventare anche percorsi didattici. Svetta, in questa zona, la nuova sede della Regione Lombardia, con i trenta piani, centosessanta metri, firmata dallo studio Pei. Il nuovo Pirellone si alza su un impianto formato da corpi allungati a serpentina, arrotondati, che si incrociano saldandosi in un unico edificio. Poco distante è Cesar Pelli a immaginare una torre che si innalza con tre guglie, stile Dubai estrema, e che guarda in una nuova piazza circolare e pedonale.
I mega-progetti in fase di esecuzione non sono raggruppati in una zona, identificabili con un quartiere: toccano tutta la città, anche quella considerata oggi periferia, anche comuni esterni, come Sesto San Giovanni e Rozzano, appunto. Ed è proprio questo il filo conduttore della Milano di domani, espresso chiaramente nel piano "Milano verso il futuro" dall’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli: superare il concetto centro-periferia, distribuire i servizi ovunque, creare una metropoli integrata e continua. Superare anche il confine tra città e hinterland, fare in modo che diventi una realtà «la grande Milano, nella quale Milano-città rappresenti il nodo principale di una costellazione». A sud-est, ad esempio, in un’area che ora è periferica, separata dal corpo metropolitano da ferrovia e tangenziale, la città cambierà volto con il progetto Santa Giulia, ideato da Norman Foster, l’archietto del St. Mary Axe, "The Gerkin", il grattacielo a forma di cetriolo che per primo ha cambiato lo skyline di Londra. Santa Giulia, che prende il nome da una chiesa che verrà costruita, è immaginato per essere abitato da cinquanta-sessantamila persone, dunque sulla carta è già promosso come modello di città nella città e di metropoli nel verde. Qui nascerà il Crescent, una zona residenziale d’eccellenza, high tech e domotica, energia rinnovabile, con appartamenti i cui costi partono da due milioni di euro.
Via le periferie, dunque. Come ha detto Renzo Piano, l’architetto che ha progettato l’area Falk, centocinquanta ettari di archeologia industriale, la città già delle fabbriche, degli altiforni e delle acciaierie, quella più intimamente legata alla storia della Milano operaia dove ogni mattina, al suonare delle sirene, arrivavano migliaia di persone in tuta blu. Piano vuole che la sua città resti una fabbrica: «Una fabbrica di idee, il mio Beaubourg a Sesto San Giovanni». È qui uno dei recuperi più straordinari di costruzioni di archeologia industriale, il laminatoio, destinato a diventare secondo il progetto della Provincia un museo di arte contemporanea, la nostra Tate Modern. Ed è qui che Carlo Rubbia sperimenterà gli "Elfi", veicoli a trazione elettrica o a idrogeno. Due torri, anche qui: alte duecento metri, direttamente sulla "Rambla", un ampio viale alberato che converge in un parco centrale.
Il primato dell’altezza spetta al progetto City Life, che è forse il più vistoso, immaginifico, sicuramente il più griffato. Nel quartiere storico della vecchia Fiera - quella costruita nel 1906, proprio per un’esposizione universale - stanno prendendo corpo i tre spettacolari grattacieli dell’architetto iracheno Zaha Hadid, del giapponese Arata Isozaki, di Daniel Libeskind, il progettista di Ground Zero: lo "storto", il "curvo" e il "dritto", alto, quest’ultimo, duecentodiciotto metri, cinquanta piani. Accanto ai tre giganti è previsto l’edificio del Museo di arte contemporanea, e la pianta complessiva prevede percorsi in mezzo al verde, corsi d’acqua con ponti trasparenti. Saranno, l’acqua e il verde, i nuovi elementi di Milano. Se da una parte c’è la ricerca di un simbolismo stravagante, dall’altra la qualità della vita assume un posto di primo piano. Il verde è dappertutto: si immagina un anello intorno alla città, fatto solo di boschi. Il piano generale per l’Expo prevede addirittura la rinascita di una via d’acqua, che giunga diretta al centro. Ma non saranno progetti troppo ambiziosi? Non sarà che ancora una volta, al passaggio dall’effimero al concreto tutto si ferma?
La storia dell’urbanistica milanese è storia di grandi incompiute. In ritardo sulle grandi città europee, su Barcellona e Berlino, sulla Parigi di Bercy e sulla Londra dei Docks, Milano sembra volere oggi ripensare a fondo il suo destino. Se davvero è uscita dalla crisi degli anni Novanta, se davvero la sua classe dirigente saprà non solo lasciare mano libera ai developers ma costruire un’idea di sviluppo, il momento è quello giusto. L’appuntamento con il mondo è fissato per il primo maggio del 2015.
postilla
Ce lo ricorda involontariamente anche la giornalista, inserendo doverosamente la torre Landmark di Rozzano, nel Parco Sud, fra i principali progetti destinati a rivoluzionare l’area metropolitana: non si tratta di interventi “a scala urbana” così come siamo soliti immaginarla. E del resto ci ha provato - senza molto successo mediatico a dire il vero - anche il presidente della Provincia Filippo Penati, a sottolineare come la candidatura all’Expo riguardasse l’area padana centrale che certo fa capo a Milano, ma coinvolge un territorio assai più ampio. Ebbene questi mirabolanti progetti di trasformazione vanno tutti, nessuno escluso, nella duplice direzione da un lato di rafforzare la presenza terziario-direzionale nel cuore dell’area metropolitana, dall’altro di innescare inesorabilmente processi abbastanza rapidi di espulsione di popolazione.
Si parla molto e giustamente in questi giorni degli sgomberi di campi Rom, ma andrebbe ricordato che prima in modo diretto con demolizioni e riorganizzazioni spaziali, poi indirettamente con le ondate di incremento dei valori immobiliari, i grandi progetti spingono ad una massiccia sostituzione sociale, secondo processi già visti in tante città del mondo, e che iniziano a destare preoccupazioni solo quando hanno assunto forme patologiche.
Forme che da un lato vedono la sparizione dal territorio locale di ceti e professioni indispensabili al metabolismo urbano (da insegnanti, a poliziotti, a altri operatori di servizi), dall’altro in assenza di grandi strategie di area vasta in questo senso, di una crescita insediativa guidata dal “mercato”, o meglio come già visto da frammentatissimi mercati locali di piccoli territori comunali in devastante concorrenza reciproca. Andava e va in questo senso, non a caso, il famigerato tentativo della Regione di modificare la legge urbanistica riguardo ai perimetri dei parchi.
Se la sinistra, o anche il centrosinistra, vogliono davvero distinguersi per le proprie proposte, dovrebbero farsi portatori – come già accennato da qualcuno – di una “legge speciale” per l’Expo, che ad esempio garantisca un coordinamento metropolitano, una authority se non altro urbanistica in grado di evitare quanto già si riflette evidente, su queste scintillanti facciate a doppio taglio (f.b.)
“Gli spiriti inquieti che tendono al nuovo per il nuovo, allo strano ed al mirabolante non servono all’architettura e, quando per caso si dedicano a questo mestiere che è tutto reale e concreto, raramente giovano. E danno non piccolo fanno anche gli ingegni copiatori, quelli che per mancanza di forza inventiva e di spirito critico si attaccano alla moda e seguono solo questa, accettandola tal quale anche se allogena ed estranea affatto al loro tema, al loro clima, ai loro mezzi economici e tecnici.
Oggi è l’americanismo indigesto che folleggia in grattacieli.
Perché le forze nuove della città si esprimono in modi così alieni, così sciocchi, così dannosi all’utile ?
Anche se animato da volontà di far nuovo, di far grande, ogni signore delle ferriere suole affidare la soluzione dei propri problemi ad un suo tecnico, necessariamente ubbidiente alla moda che è nell’aria e alla personalità volitiva del padrone.
Costui ha sempre delle idee, raccolte a Londra, a Parigi, oggi soprattutto in America: costui si gloria non di inventare (la parola è disusata fuor del campo tecnico) ma d’imitare ieri un lord Derby, o un banchiere Laffitte, oggi una Corporation famosa pel suo grattacielo.
Università, burocrazia, potentati sono vuoti di idee.
Guai a lasciar prendere la mano ai praticoni od ai cosiddetti uomini d’azione, che credono di fare la civiltà d’oggi perché costruiscono case o producono beni industriali o commerciano le merci od il danaro e lo fanno sempre con furia gloriandosi della velocità della loro azione e del loro successo, ma sciupando la civiltà del domani, l’industria del domani, la ricchezza del domani. E questi realizzatori noi sappiamo sin d’ora che balzeranno alla ribalta alla prima occasione a bandire programmi mirabolanti e semplicistici, a chiedere libero campo per le loro imprese, a battersi per il sistema del fare pur di fare perché il tempo stringe e la necessità è grande.
Conviene dunque precederli e cercar di fissare qualche concetto fondamentale per lo sviluppo della città, che valga anche a difenderla dagli improvvisatori.
G. de Finetti, La Ricostruzione delle città. Per la città del 2000, serie di articoli inediti per “Il Sole”, 17 aprile 1943, ora in Milano. Costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002, pp. 322-323.
Con grande profusione del consueto fascino seduttivo italico da parte delle istituzioni locali (dalle glorie della lirica scaligera e del calcio ambrosiano, al glamour degli stilisti, dei designers, dei cantautori, sino alle prelibatezze gastrononomiche di casa Berlusconi ad Arcore) e grazie alla consumata abilità diplomatica del Governo nazionale, Milano ha ottenuto l’ambìta designazione da parte dei membri del BIE a sede dell’Expò mondiale nel 2015.
Insieme alle meritate congratulazioni per il raggiungimento della meta agognata e alla soddisfazione per le prospettive di investimento e di incentivo allo sviluppo socio-economico che ciò comporta, da più parti – politicamente e culturalmente spesso molto distanti – si è, tuttavia, levato l’auspicio che ciò non avvenga con le stesse modalità con cui Milano ha proceduto sinora a ridefinire i caratteri tipologico-funzionali e di espressività architettonico-progettuale delle proprie aree in corso di trasformazione urbanistica.
Così, ad esempio, si sono espressi il giorno dopo la designazione Renato Nicolini sul Manifesto e Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera, segnalando i rischi di una concezione per un verso di effimera inusualità dell’immagine per quantità, forma ed altezza rispetto al contesto insediativo, per altro verso di sudditanza agli appetiti di immensi guadagni speculativi che dietro quella scelta si cela e, da ultimo, di carenza di reale innovatività nei caratteri funzionali ed insediativi, in grado di esprimere effetti durevoli nel tempo e su larga scala territoriale.
Ma, inaspettatamente, appena la settimana prima, era stato Angelo Crespi, direttore de Il Domenicale, settimanale di cultura promosso e sponsorizzato da Marcello Dell’Utri, a lanciare una severa critica (ampiamente ripresa e riproposta dal Foglio, da Libero e dallo stesso Corriere della Sera) alle scelte progettuali ed espressive utilizzate dalle archistar internazionali Libeskind, Hadid e Isozaki nel progetto Citylife di riconfigurazione dell’area del vecchio recinto fieristico in dismissione, che pure l’Amministrazione comunale aveva proposto al BIE a sostegno della propria candidatura come modello di successo della propria capacità di indirizzo delle trasformazioni urbane in corso.
Si tratta di aree su cui si appuntano gli appetiti di quegli stessi centri finanziari che, in un quadro di estesa globalizzazione degli scambi finanziari e commerciali e alla ricerca di condizioni di più bassa remunerazione della forza lavoro, presiedono alla ricollocazione globalizzata di gran parte delle produzioni materiali di massa dei paesi industrialmente maturi verso i paesi di nuova industrializzazione (est europeo, Turchia, India, Estremo Oriente; in misura assai minore America meridionale, spesso riproponendovi i più arretrati rapporti sociali e forme di organizzazione produttiva dismessi in Occidente) e lasciando così liberi nelle città novecentesche del mondo occidentale ampi comparti di aree alla ricerca di nuove destinazioni funzionali.
Essi vedono nelle operazioni immobiliari conseguenti alle nuove destinazioni d’uso delle aree dismesse il coronamento di un disegno di predominanza della valorizzazione capitalistica nella quale ritengono propria legittima prerogativa non solo proporre quantità e funzioni secondo una valutazione delle opportunità di mercato e delle sue eventuali fluttuazioni (oggi, la residenza di lusso, il consumismo di massa della grande distribuzione commerciale e dello svago; domani, una volta saturata la domanda solvibile, quant’altro vorrà il mercato), ma anche quella di fornirne una conformazione progettuale e di immagine che, ovviamente, nella loro visione attiene piuttosto al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, che non a quello dei caratteri insediativi o della tradizione culturale del contesto o della città in cui si colloca l’intervento. In questo, occorre dirlo, supportate dal pervasivo diffondersi di una cultura progettuale veicolata in campo urbanistico-architettonico dall’ambito mass-mediatico e più affine al mondo della novità effimera della moda e del design che non all’individuazione di tendenze stabili e durature, che meglio si confanno a fenomeni di lunga durata come sono quelli di conformazione urbana.
In alcuni casi, addirittura, gli operatori finanziari hanno tratto spunto da un iniziale caso di successo nel riuso del proprio sito aziendale dismesso per accreditarsi come promotori immobiliari affidabili per casi analoghi, dando vita ad un nuovo ramo imprenditoriale (a Milano è il caso di Pirelli e Fiera di Milano che a partire dalla trasformazione di propri siti dimessi hanno sviluppato Pirelli Real Estate e Nuovosistemafiera come promotori di analoghe operazioni per altri siti propri o di terzi), in cui sempre più spesso, l’effetto di “scoop” nella fantasmagoria dell’immagine di queste opere affidate all’indiscutibilità della fama mediatica dei grandi nomi dello stilismo architettonico viene proposto ad amministratori in vena di cavalcare una sempre più pervasiva politica-spettacolo per accaparrarsi il consenso della pubblica opinione con l’affermazione di una facile immagine di modernità ed efficienza.
A Milano, in particolare, questa stagione in cui è la proprietà immobiliare a proporre quantità edificatorie, scelte funzionali, tipologiche e linguistico-espressive ad un’amministrazione pubblica in posizione di succube accettazione, ha inteso nobilitarsi dandosi il nome di Nuovo Rinascimento Urbano; ciò non solo non è bastato a impedire l’immediata ribellione dei cittadini delle aree attigue, che vedono sottrarsi luminosità, visuali, spazi pubblici e accrescersi il traffico e l’inquinamento ambientale, ma –come si è visto – neanche il dissenso espresso dagli ambienti culturali più consapevoli, siano essi progressisti o conservatori.
La riproposizione di quel modello alle aree di Expò 2015 e agli scali ferroviari in dismissione (quasi 3 milioni di metri quadri di aree con quattro milioni di metri cubi di edificazioni e spazi verdi insufficienti) sarebbe, ovviamente, non solo disastroso per la qualità ambientale ed i caratteri insediativi e paesaggistici dell’ambito urbano milanese, ma smentirebbe l’unica (e sinora inattuata) indicazione strategica di un Documento di Inquadramento Urbanistico per il resto succube di un mercato immobiliare ingessato: cioè che a partire da “l'opinione diffusa tra gli addetti ai lavori che l’offerta esistente a Milano di spazi per uffici e servizi sia inadeguata alle richieste del mercato (che) nelle maggiori città europee è rivolta a superfici monopiano di grande dimensione, con luce diretta e ben dotate di tutti gli impianti necessari per la comunicazione trasmissione (…) e che Milano sembra per ora esclusa da questo processo anche perché incapace di intercettare e trattenere gli investitori internazionali, si formulava l’ipotesi di nuove tipologie di terziario avanzato, tale da permettere l’insediamento di uffici e servizi, ed insieme una parte rilevante di verde e spazi e attrezzature per il tempo libero e sportive, in un contesto di particolare qualità ambientale. Il progetto dovrebbe diventare la prova della possibilità di costruire uno spazio urbano capace di fare concorrenza all’attrattività dei centri storici per qualità monumentale e ambientale. Un’ambizione che dopo tanti disastri dell’urbanistica e dell’architettura moderna può far sorridere, ma è una condizione indispensabile per il successo del progetto. Un intervento nel settore nord-ovest avrebbe un rilievo strutturale sulla forma della regione urbana…”[1].
Quella singolare figura di architetto-urbanista, pubblico amministratore e studioso della città che fu Giuseppe de Finetti, nell’immediato dopoguerra, indicando nella frenesia di privatismo che si rivela nelle ricostruzioni senza piano regolatore l’indizio più valido della decadenza dello spirito civico e, con ciò, della classe dirigente venturi aevi immemor, proponeva una metropoli milanese che si attuasse in forme civili senza barbarismi, senza esotismi e senza arcaismi e la città futura assomigliarsi in questa porzione centrale molto più alla città del Rinascimento che non a quella dello “stupido secolo XIX” che la guerra ha distrutta.
Bertinotti, con bella suggestione metaforica, oggi intitola La città degli uomini il suo ultimo libro, in cui espone “cinque riflessioni sul mondo che cambia”. Eppure, anche inteso in senso più letterale quel titolo esprime una piena attualità problematica e progettuale: occorre, quindi, chiedersi se non sia giunto il momento di un’estensione delle rivendicazioni no logo anche al campo delle manifestazioni della creatività architettonica, affinché un’architettura della città degli uomini si opponga all’uso servile cui troppo spesso si acconcia l’architettura degli architetti.
[1] L. Mazza, Ricostruire la Grande Milano, relazione accompagnatoria al DIU, giugno 2000, pp. 115-117, passim.
Nell'entusiasmo per l'assegnazione dell'Expo 2015 a Milano, forse è meglio non accettare in maniera acritica affermazioni non dimostrate sugli effetti benefici della manifestazione. Perché le incertezze sono molte. A partire dal bilancio finale dell'organizzatore: eventuali perdite sarebbero pagate dallo Stato italiano. Nel calcolo dell'impatto occupazionale non si considera l'effetto sostituzione. Quanto alle infrastrutture, seppure utili, la loro costruzione non dipende dall'evento.
L'assegnazione a Milano dell'Expo 2015 è stata accolta con molto entusiasmo, confermando ancora una volta che i grandi eventi, dall'Esposizione universale alle Olimpiadi, hanno un forte sostegno a priori non solo dei decision maker, ma anche dell'opinione pubblica. Di fronte a questo sostegno trasversale, è giusto che l'economista faccia il suo mestiere e provi a indagarne i possibili effetti reali, al di là delle solite immagini retoriche utilizzate dai promotori: oggi "l'Expo pagherà l'Expo", come i greci dissero a suo tempo "i giochi pagheranno i giochi" .
UNA SCOMMESSA AL RIALZO
L'economia dei grandi eventi è poco studiata. La gran parte del materiale disponibile proviene dai promotori stessi o della stampa che ne commenta, in itinere, gli esiti più visibili. Tuttavia, alcuni lavori, ancora per certi aspetti "pionieristici", sono stati sviluppati. Baade e Matheson, in una lucida analisi, ricordano come il contesto stesso di competizione, con il potere di monopolio dell'ente accreditatore (solo il Bie può concedere una Exposition Universelle, solo il Comitato olimpico internazionale può attribuire le Olimpiadi), crea una situazione di svantaggio per le città candidate. (1) In primo luogo, sono sottoposte a un meccanismo di rilancio: nel processo di candidatura, la configurazione che ottimizza il bilancio costo-beneficio per il territorio non è un punto di equilibrio stabile; i candidati devono a più riprese aumentare la posta per accrescere le loro probabilità di successo. Una volta entrati, non c'è niente che consenta di uscire da questo meccanismo e che garantisca che il bilancio rimanga positivo. (2)
Va poi considerato il sistema delle royalties che gli organizzatori devono pagare agli accreditatori per poter organizzare l'evento: illustra alla perfezione i meccanismi di estrazione della rendita da parte del monopolista. Le royalties sono talmente cospicue che alcuni organismi le coprono della massima riservatezza. (3) Se è comune percezione che i grandi eventi comportano un flusso di reddito per la città ospite, meno diffusa è la percezione che questo reddito ha come contropartita una spesa. Bisogna però ammettere che le informazioni disponibili sull'Expo 2015 sono piuttosto rassicuranti: si parla di 11 milioni di euro (4), facendo sperare che non sia stata estratta tutta la rendita.
LA VALUTAZIONE DEI COSTI-BENEFICI
Il punto più critico risiede forse altrove, nella visione distorta dei costi e benefici che può nascere da un progetto del genere.
La considerazione più banale riguarda l'equilibrio economico dell'organizzatore, che in caso di mancata realizzazione degli incassi previsti (5) si troverebbe costretto a chiedere l'applicazione della garanzia dello Stato italiano. (6) Ma al di là dell'equilibrio dell'esercizio, sia a livello dell'ente organizzatore, sia dell'insieme delle amministrazioni coinvolte, quello che merita l'attenzione degli economisti è l'effettivo interesse della collettività nazionale a ospitare un simile evento.
Lavori di analisi economica che fanno uso di concetti cardine, come il surplus, sono rari. Tuttavia, uno studio sulle Olimpiadi invernali di Vancouver del 2010 mostra come queste rappresenteranno per il Canada una perdita netta di benessere. (7) Non tutti i dati necessari sono disponibili e il lavoro si basa su ipotesi perfettibili, tuttavia ricorda a chi lo vorrebbe dimenticare, che al di là dell'equilibrio finanziario degli enti promotori, quello che conta è il contributo delle risorse investite al benessere delle popolazioni.
Tra gli argomenti a favore di un evento di questo tipo si cita quasi sempre l'eredità che lascia. Ci sono tuttavia seri dubbi sull'utilità di molte delle opere realizzate per l'Expo. Di solito, il suo formato implica che diversi padiglioni siano temporanei. Quanto poi agli investimenti più duraturi, in particolare nelle infrastrutture di trasporto, è difficile sostenere che non abbiano un'utilità sociale rilevante, tuttavia sarebbe sbagliato attribuirli all'Expo, tanto che lo stesso dossier di candidatura li categorizza, in maniera corretta, sotto la voce "infrastrutture non legate alla realizzazione dell'Expo".
E sono da prendere con cautela anche le cifre indicate sugli effetti occupazionali. I promotori calcolano l'impatto indiretto della gestione dell'evento a 12.734 posti di lavoro: "ad esclusione dell'occupazione direttamente creata dall'Expo" sostiene il capitolo 21 del dossier di candidatura. Sarebbe comunque più giusto un calcolo che tenesse conto esplicitamente degli effetti di sostituzione. (8) E la pratica di contabilizzare nell'impatto dell'evento sia l'occupazione diretta, che quella indiretta e indotta, seppure prassi corrente nei lavori empirici, solleva forti obbiezioni concettuali (9) .
Queste considerazioni non vogliono essere una valutazione negativa della candidatura all'Expo, ma un chiaro avvertimento contro interpretazioni ingenue dell'economia dei grandi eventi. E un invito a non accettare in maniera acritica affermazioni non dimostrate sugli effetti benefici dell'Expo 2015.
PER SAPERNE DI PIU'
http://www.brunoleoni.com/nextpage.aspx?codice=4008
(1) "Bidding for the Olympics: fool's gold?" Robert Baade e Victor Matheson. Disponibile negli atti della conferenza International Association of Sport Economists.
(2) Tranne decisioni coraggiose come quella presa nel 2002 in Francia dal nuovo governo Raffarin di rinunciare all'Expo 2004 di Dugny. Che pure pagò cospicui indennizzi a vari enti, tra cui 94 milioni di euro all'amministrazione locale promotrice del progetto, il département di Seine-Saint-Denis.
(3) Per i gran premi di Formula uno, si veda per esempio Trevor Mules, "Taxpayer subsidies for major sporting events", Sport management Review, 1998, 1, 25-43.
(4) Fonte: dossier di candidatura Expo 2015
(5) Su questo punto, le previsioni di biglietteria appaiono molte alte: 29 milioni di visitatori, una cifra considerevole rispetto alle ultime edizioni svoltesi in Europa che non hanno superato i 20 milioni (17 milioni a Hannover). Certo, l'ipotesi si basa su un prezzo del biglietto più popolare: 28 euro a tariffa piena, contro i 69 euro chiesti a Hannover. È tuttavia lecito considerare che la robustezza del piano economico prospettato per l'evento dipende completamente dell'affidabilità di questa previsione. Inoltre, anche le spese sono da considerarsi come un "wish data" soprattutto se si considerano le molte prove ormai disponibili della lievitazione dei costi nel contesto dei grandi progetti. Si vedano ad esempio le ampie evidenze raccolte da Flyvberg in merito.
Esplode la polemica sulla Milano del futuro, che ospiterà l’Expo del 2015. Adriano Celentano risponde al sindaco Moratti, ma nel dibattito irrompe anche Berlusconi, contro i grattacieli «storti e sbilenchi». La città e i partiti si dividono.
Fra Letizia Moratti e Adriano Celentano mette il dito Berlusconi. Se il Molleggiato aveva attaccato gli architetti cementificatori in chiave Expo e il sindaco gli aveva risposto «pensi a cantare», il leader del Pdl ieri ha dato una mano inattesa al Re degli ignoranti. Il quale si è anche difeso in proprio: «La Moratti dice che è meglio che canti? Beh, qui non ha tutti i torti. Non sono poche le persone che oggi s’improvvisano magari direttori generali della Rai (la Moratti è stata presidente, ndr) quando fino a un’ora prima vendevano panettoni».
Ma il botto è di Berlusconi, che a un quotidiano racconta di aver visto «progetti di grattacieli storti e sbilenchi, elaborati da architetti stranieri, in totale contrasto con il contesto milanese e la sua tradizione urbanistica». E aggiunge: «Spero non sia questa l’idea moderna di Milano, altrimenti la protesta dei milanesi nascerà spontanea e giusta e io mi metterò alla sua testa».
I «grattacieli storti e sbilenchi» sono quelli di CityLife firmati da Libeskind (ambasciatore dell’Expo 2015), Isozaki e Hadid. Dalla società e dai progettisti, nessun commento. Risponde invece l’assessore all’Urbanistica di Forza Italia Carlo Masseroli: «Il progetto è eccezionale, internazionalmente riconosciuto fra i migliori al mondo e per la città è imprescindibile. Non ci saranno ripensamenti di nessun tipo». Ieri il consiglio di Zona 8 ha dato l’ok (20 voti a 16, resta l’opposizione dei comitati).
«Berlusconi ha scoperto che chi non tira la quarta settimana non ama i grattacieli avveniristici», dice Emanuele Fiano del Pd, architetto contrario «alla ricerca dell’eccesso a tutti i costi». E in effetti per Fi non è facile parare un’uscita elettoralmente comprensibile, ma imbarazzante per la giunta. E se il deputato azzurro Luigi Casero coglie nelle parole di Berlusconi «un invito a mantenere i valori tradizionali pur nello sviluppo dell’Expo», il capogruppo in consiglio Giulio Gallera fa un passo avanti: «Rispetto le opinioni del presidente, ma è giusto innovare, specie dopo l’occasione mancata della Bicocca. Le capitali moderne che tanto ammiriamo fanno così».
Nel dibattito intervengono tre maestri come Vittorio Gregotti (sua proprio la nuova Bicocca), Massimiliano Fuksas (Polo esterno della Fiera) e Mario Botta (ristrutturazione della Scala), tutti d’accordo nel giudicare provinciale la querelle fra architetti italiani e stranieri: «Non esiste mestiere più internazionale di questo». «Sono desolato di dover dare ragione a Berlusconi - apre Gregotti - tuttavia la responsabilità è di Comune e Regione, governati dal suo partito. Ci sono progetti con una pessima origine, vedi CityLife, che ha prevalso sull’ottima proposta di Renzo Piano perché offriva di più. Il guaio è che certa roba piace, altri lavori dal tratto preciso e severo non hanno lo stesso successo».
«Berlusconi? Tanto il giorno dopo ci ripensa - scherza Massimiliano Fuksas - ma su CityLife io e lui siamo abbastanza d’accordo. Fra i grattacieli fatti e da fare, il Pirellone di Giò Ponti domina ancora mirabilmente». Per lo svizzero Mario Botta, «Berlusconi è la voce del popolo, che a volte fa confusione. Anche il grande edificio modernista di Luigi Moretti in corso Italia rompe la cortina stradale ottocentesca della via, ma si inserisce perfettamente nel contesto».
Infine Stefano Boeri, architetto, urbanista e già direttore di Domus: «Un capolavoro mondiale come la Torre Velasca all’inizio fu stroncata. Per alcuni non rispettava la tradizione milanese, che è di grande sobrietà. Non era così. Ma Berlusconi, che da immobiliarista ha fatto la storia urbanistica di Milano, non dice eresie. Alcuni virtuosismi muscolari, come certe torsioni, sono autoreferenziali e poco interessanti».
Un terreno che fino a due giorni fa valeva uno ora vale dieci. Hanno fruttato bene i 255mila metri quadrati di proprietà della società Belgioiosa Srl controllata direttamente dal gruppo Raggio di Luna appartenente alla famiglia Cabassi, dopo una recente operazione di scissione di Sintesi a favore di Raggio di Luna.
Negli anni '50 la proprietà era di un milione di metri quadrati. Poi dopo sette espropri in un colpo solo il restante lotto (Fiorenza) verrà dato in concessione di diritto di superficie al Comune di Milano che lo utilizzerà per l'Expo 2015. In base all'accordo con il Comune sottoscritto lo scorso luglio entro 18 mesi dalla conclusione dell'Expo Belgioiosa riavrà indietro 150mila metri quadrati, 105mila in meno rispetto ai 255mila attuali che però hanno una destinazione d'uso agricola. A partire dal 2016, quando saranno state smantellate le strutture temporanee che saranno abbattute al termine dell'Expo e con l'obbligo di non realizzare attività industriali che compromettano l'ambiente, Cabassi invece potrà edificare con un indice pari a 0,6 (o 0,5, è uno dei punti da definire in dettaglio). Supponendo che il terreno agricolo valga circa 10-12 euro al metro quadrato moltiplicati per 255mila metri quadrati si ha un valore attuale del terreno di 2,55-3,06 milioni di euro. Valutando almeno 3mila euro al metro quadrato i 30mila metri quadrati che si potranno costruire a partire dal 2016 (esclusi i sotterranei e quindi eventuali box) si ottiene un valore del diritto di costruire – in cui c'è ovviamente anche un margine di rischio – di circa 22,5 milioni di euro (il 25% di 90 milioni di euro) a cui, sommando una rivalutazione del bene pari almeno all'inflazione per dieci anni, si arriva a 30 milioni di euro contro i tre attuali.
Per diventare operativo l'accordo è vincolato all'approvazione di un piano urbanistico che escluda attività produttive insalubri e contempli la destinazione a verde e parco urbano di una superficie minima pari alla metà di quella oggetto di urbanizzazione. Il master plan dell'Expo 2015 «allo stato attuale – spiega Giancarlo Tancredi, dirigente del settore progetti strategici del Comune di Milano – prevede un'area "rossa" di oltre un milione di metri quadrati dove per intenderci si pagherà il biglietto e un'area "blu" delle stesse dimensioni dove verranno realizzate tutte le opere in qualche modo accessorie alla manifestazione stessa». Quindi altri 15-20 proprietari di aree adiacenti all'area dell'Expo 2015 potrebbero essere coinvolti nel progetto. Tra questi c'è la Camfin – il cui socio di maggioranza è la Gpi controllata da Marco Tronchetti Provera – proprietaria di un'area di 120mila metri quadrati situata nel Comune di Rho di cui metà a destinazione a uso industriale (ex capannoni) e terziario e metà agricola. Lo scorso 12 settembre il Cda di Camfin ha deliberato la dismissione dell'area, ritenuta non più strategica. Decisione confermata anche dopo la notizia dell'assegnazione dell'Expo.
Altro grande protagonista della vicenda è EuroMilano, proprietario di un'area di 530mila metri quadri (Cascina Merlata) situata nel Comune di Milano, e adiacente al Comune di Rho, comprata l'anno scorso prima che si mettesse in moto la macchina organizzatrice della candidatura. Rilevata dalla società Ecce l'area ospiterà il villaggio dell'Expo. «La nostra acquisizione – spiega Chiara Elena Gerosa di EuroMilano – va inquadrata nella strategia di puntare sullo sviluppo del quadrante nord ovest di Milano. Siamo partiti con l'area di via Palizzi dove abbiamo realizzato il progetto Milano Certosa, trasformando un'area dismessa di oltre 450 mila metri quadri fino a pochi anni fa occupata dagli impianti delle raffinerie Fina». Altro importante progetto il recupero e la ridefinizione della Bovisa, storico quartiere industriale milanese dove EuroMilano sta realizzando una sede del Politecnico di Milano (60mila mq) e dove ha già realizzato in comodato d'uso per tre anni la Triennale Bovisa, aperta lo scorso novembre e già visitata da 44mila appassionati d'arte.
Ovviamente tra i protagonisti c'è anche la Fondazione Fiera Milano. A fronte delle opere di urbanizzazione realizzate sull'intera area di sua proprietà (oltre 600mila mq) il Comune di Milano ne conserverà a titolo definitivo 55 mila metri quadrati sui quali verrà costruita una torre, elemento architettonico emblematico che sarà mantenuta anche dopo la chiusura della manifestazione. Terminata l'Expo gli edifici e le strutture permanenti verranno destinati al pubblico utilizzo, mentre quelli temporanei saranno abbattuti a spese del Comune di Milano.
Il terzo e ultimo proprietario delle aree oggetto della cessione del diritto di superficie sono le Poste italiane, uno dei sette esprioprianti dell'originale tenuta Cabassi, che si sposteranno lasciando un'area di 80mila metri quadrati al Comune di Milano.
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PerplExpo 2015: dubbi e attese sulla stampa
“Titoli: costruzioni e immobili volano dopo Expo a Milano”, così una nota della Reuters a modo suo sottolinea quello che per molti purtroppo rappresenta il vero e unico traguardo dell’affaire gigantesco di trasformazione del territorio metropolitano e regionale. Nonostante a livello europeo il settore costruzioni sia in leggera perdita, aumentano invece in modo vistoso tutte le imprese coinvolte nelle grandi opere padane, più o meno convergenti sul nodo milanese, a partire dall’autostrada Pedemontana (Impregilo, Astaldi) e altre. La Reuters riassume anche alcune cifre dell’Expo, che “ si è impegnata a ospitare 7.000 eventi in sei mesi di esposizione, che si svolgerà nei pressi dell'area fieristica di Rho, a nordovest di Milano, su una superficie di 200 ettari. Il budget dell'evento è di 4,12 miliardi di euro (3,228 miliardi per infrastrutture, 892 milioni per l'organizzazione)”
Luca Pagni, su la Repubblica, propone conseguentemente un “Ecco chi guadagnerà con l’Expo”, confermando in apertura che il mondo dell’economia e della finanza sta già festeggiando e che la cosa non ha affatto bisogno di aspettare opere, movimenti terra, colate di cemento, flussi di visitatori che spendono nei negozi e negli alberghi. Confermando la precedente nota Reuters “Basta scorrere il listino di Borsa e vedere come già ieri siano schizzate verso l’alto le quotazioni delle società che gli investitori di Piazza Affari ritengono possano essere coinvolte favorevolmente dall’evento”. Ivi comprese le società di alcuni operatori (es. Zunino con le cittadelle griffate di Renzo Piano e Norman Foster) che sino alle scorse settimane erano date in grossa crisi finanziaria, con minaccia di abbandono dei progetti a mezza strada.
Ed emerge naturalmente, come ci si poteva aspettare, la logica che spinge alle procedure eccezionali, e in generale alla forzatura delle regole correnti: particolarmente micidiale, va sottolineato, in una situazione come quella milanese, con un piano regolatore cittadino ancora alle prime battute e con una caratterizzazione che pare assai orientata al patchwork di interessi particolari, e la tradizionale debolezza del coordinamento urbanistico metropolitano. Riassume bene questo aspetto il titolo scelto per l’articolo di Giuseppina Piano sulle pagine locali de la Repubblica: “Expo, è già corsa contro il tempo”, dove a partire da una dichiarazione del sottosegretario alla Presidenza del consiglio appare chiaro il bisogno comunque di fare in fretta. Questa corsa contro il tempo però sembra proporre un coerente, veloce “scaricamento” di buona parte delle istituzioni che hanno sostenuto la candidatura milanese: dalla prima riunione del consiglio comunale vengono esclusi D’Alema (che come ministro degli Esteri è stato fra i protagonisti) il presidente della Regione Formigoni (che pure appartiene al medesimo schieramento) e Penati (con buona pace di chi vedeva proprio nella dimensione minima metropolitana la scala di governo dell’evento). Mentre già, d’altra parte, emergono gravi ritardi accumulati per un’opera essenziale e complementare all’insediamento dell’Expo: “i quasi due milioni di metri quadrati a Rho-Pero che dovranno essere rivoltati come un guanto. La parte più lunga e a rischio sforamento è quella dei collegamenti: svincoli, parcheggi, strade. La storia insegna: la Fiera a Rho è stata inaugurata tre anni fa, i cantieri per i collegamenti non sono ancora finiti”.
Elisabetta Soglio, sul Corriere della Sera, sottolinea “Seduta in Comune «chiusa» a D'Alema”,e ancora al tema dello scaricamento istituzionale dopo l’assegnazione, è dedicato il titolo di Rodolfo Sala, “Adesso Letizia è più forte (e cala il gelo con Berlusconi)” sull’edizione milanese de la Repubblica. Velocissimo e drastico, appare il riposizionamento del sindaco già il giorno successivo: sia nell’avocare a sé e al comune la gran parte dei poteri decisionali, sia rispetto allo schieramento di parte, lontanissimo dalle larghe intese che si vantavano sino alla vigilia del voto parigino. Il progetto appare però probabilmente più complesso: “ridurre la giunta (quella attuale o la prossima solo un tantino ritoccata) a una condizione di marginalità, e puntare tutto sul nuovo comitato che gestirà la partita Expo. Tutto girerà intorno a questo, di qui al 2015, ed è lì che il sindaco potrebbe sperimentare un nuovo modello di governo”. Se possibile, a rafforzare l’impressione di una drastica svolta verso corsie preferenziali, che sfuggono in parte anche ai controlli democratici.
Si aspetta un nuovo atteggiamento da parte dell’opposizione ambientalista, per quanto ancora critica, Paolo Hutter, ricordando che con tutte le cautele e attenzioni “L’impatto non è mai zero”. Il nuovo approccio della rivendicazione, per avere qualche mordente, secondo Hutter, dovrà essere di rilancio propositivo su tutti i fronti, a partire da quelli più direttamente legati alle idee vincenti che hanno determinato l’assegnazione: ambiente, salute, energia, qualità dell’insediamento e dei servizi. E poi “ci vuole una verifica obiettiva e pluralistica. Troppo spesso, in questi Grandi Eventi, i dati vengono forniti solo dagli organizzatori, o comunque da agenzie nominate dai governi locali. … ci vorrebbe un gruppo di lavoro al quale partecipi anche almeno un tecnicoexposcettico”
Anche se si capisce immediatamente che per eventuali scettici e critici non si preparano tempi facili. Osserva sull’edizione locale del Corriere della Sera Claudio Schirinzi, come rapidamente si stia delineando l’emergere di un “ Nuovo Potere”, verso cui convergono decisamente vari soggetti, ma che si coagula nella figura di Letizia Moratti, “ Come utilizzerà, la Moratti, il suo nuovo potere? … La preparazione dell'Expo richiede un consenso ampio … tanto più perché nessuno può prevedere oggi chi sarà al governo della città, della Regione e del Paese nel 2015. Meglio arrivarci, dunque, con soluzioni condivise”. Ma resta misterioso l’orientamento di questa formula multi-partisan, e i modi in cui si è sviluppata sinora la vicenda sembrano andare in direzioni opposto rispetto all’auspicio di Paolo Hutter o degli altri ambientalisti con un approccio propositivo all’Expo.
Come il fondatore di Slow Food Carlo Petrini, anche componente del comitato scientifico dell’esposizione, che intervistato da Giorgio Salvetti sul manifesto conferma ottimismo: “ L’Expo può essere una sfida”. Da qui secondo Petrini l’importanza di partecipare direttamente sia alla preparazione che all’attuazione dell’iniziativa, anche se in modo critico. E in particolare rispetto al tema del rischio che tutto si traduca in una enorme speculazione edilizia: “ Le grandi esposizioni sono sempre state un'occasione per le città per rigenerarsi, anche qui bisogna che vengano rispettati i piani ecocompatibili. E' una questione di intelligenza, ma è una battaglia che va combattuta per poter esser vinta”.
Sulle pagine locali milanesi del manifesto, l’europarlamentare Vittorio Agnoletto, col polemico titolo “Affamare il pianeta” esprime una posizione fortemente dubbiosa: è davvero pensabile che un’area metropolitana e regionale che ha sinora saputo fare assai poco per la sua aria, l’acqua, il traffico, la tutela del territorio, possa diventare un simbolo internazionale di attenzione a questi temi nella prospettiva di una sana alimentazione e stile di vita? Senza un costante controllo da parte delle forze sociali, locali e non, l’evento potrebbe semplicemente tradursi nel fatto “che Milano diventi per quindici anni un enorme cantiere, con l’ulteriore paralisi del traffico urbano ed extraurbano, con nuove autostrade, tangenziali e la terza pista a Malpensa al posto di una rete di trasporti pubblici efficiente e non inquinante, con piste ciclabili, che è quello di cui avremmo bisogno”.
Sulle stesse pagine del manifesto, una sfumatura leggermente più propositiva è quella proposta da un gruppo di rappresentanti della Sinistra Democratica, che chiedono: “Ora un progetto”. A implicitamente intendere come quanto esposto sinora dai promotori in effetti fosse solo una serie di auspici e dichiarazioni di intenti. Un progetto, si afferma che sia soprattutto convergenza ampia di forze e interessi a ridisegnare il sistema metropolitano, dal punto di vista socioeconomico e infrastrutturale, ambientale e della partecipazione. Elementi chiave di questo progetto, una Legge speciale, e “un Osservatorio di grande autorevolezza, con personalità del mondo della cultura, dell’Università, della scienza, del lavoro, delle associazioni ambientaliste e degli interessi diffusi, che verifichi e accompagni le tappe progressive della realizzazione dell’Expo”.
È mai possibile che una metropoli come Milano si giochi il suo futuro nelle prossime ventiquattro ore, quando il Bureau International des Expositions la metterà in ballottaggio con Smirne a scrutinio segreto? E se malauguratamente la realpolitik globale dovesse favorire i turchi, nonostante il generoso sforzo comune messo in atto dalle istituzioni locali e dal governo nazionale, davvero potremmo dare la colpa all’Alitalia che da oggi taglia del 72 per cento i suoi voli da Malpensa?
O magari al discredito gettato dall’incolpevole mozzarella campana su un Expo 2015 dedicato, guarda caso, al tema dell’alimentazione?
Facciamo i debiti scongiuri, confidiamo in una vittoria che è senz’altro alla portata di Milano, ma per favore – nel caso l’esito non fosse quello sperato – evitiamo fin d’ora di abboccare al surreale pesce d’aprile della "congiura contro il Nord".
La coincidenza del 31 marzo 2008, tra il declassamento di Malpensa e la scelta dell’Expo che il sindaco Moratti ha enfatizzato come passaggio decisivo del suo progetto di sviluppo per Milano, semmai ci costringe a una riflessione severa: evidenzia i rischi che corre la metropoli più dinamica del paese, fallito il progetto di farne la capitale di un’inesistente nazione padana.
Il centrodestra che da un ventennio si presenta come politica nordista, governando a lungo pure a Roma, ha lasciato che le spinte centrifughe del territorio prescindessero da un disegno di sistema efficiente. Oscillando fra il laissez faire per le imprese in cerca di diversificazione e l’illusoria protezione di quelle obsolete.
La parola definitiva su Malpensa "hub" del Nord non l’ha pronunciata il ministro Padoa-Schioppa ma il governatore forzista del Veneto, Giancarlo Galan: quel progetto non ci interessa e non ci riguarda. Evviva la sincerità: Milano rischia di andare in panne continuando a pensarsi epicentro di un sistema padano che si è sviluppato felicemente lungo circuiti diversi.
Non è vero che da domani i manager lombardi, piemontesi, veneti, si strapperanno i capelli nell’impossibilità di partire da Malpensa per l’Oriente. Il trasferimento di 886 voli Alitalia a Fiumicino provoca certo disagi e dolorose ricadute occupazionali. Ma molti imprenditori già da tempo preferiscono un’ora d’attesa in più negli scali di Francoforte, Monaco, Londra – volando "point to point" dall’aeroporto di casa propria – agli ingorghi stressanti della Serenissima e della Milano-Laghi. Gli stessi milanesi restano affezionati alla comodità di Linate. Ciò non toglie che un aeroporto come Malpensa, collocato al centro di un’area tra le più industrializzate d’Europa e in prossimità del nuovo Polo fieristico di Rho, mantenga ottime prospettive di rilancio una volta liberato dall’assurda ipoteca dei voli Alitalia (carissimi e in perdita). Purché non si affidi al sogno ricorrente ma fallimentare di una casereccia Air Padania, o peggio di un’Alitalia di nuovo caricata sulle spalle del contribuente.
Il più esplicito nel sottrarsi alla cordata elettorale di Berlusconi – una specie di colletta tra grandi imprese che acquisterebbero così titoli di merito nei confronti del suo prossimo governo – è stato un personaggio non certo sospetto di simpatie a sinistra come Bernardo Caprotti, patron di Esselunga. Che ha definito Alitalia azienda gloriosa ma decotta, ricordandoci come una destra liberista già da tempo avrebbe semmai dovuto invocarne il fallimento. Ma soprattutto ha spiegato che solo una grande compagnia internazionale, con la sua esperienza industriale e con la possibilità di investirvi miliardi, può farne un business profittevole.
Lo stesso manager leghista Giuseppe Bonomi, presidente di Sea Aeroporti Milano, va ripetendo a mezza voce (per non smentire i demagoghi della sua parte politica) che senza alle spalle un solido operatore internazionale la cordata italiana non andrà da nessuna parte.
L’Esposizione Internazionale del 2015 che verrà assegnata domani a Parigi costituisce senz’altro un volano di risorse significative. Si parla di 3,7 miliardi di investimenti diretti e di un’attrazione di risorse che sfiora i 20 miliardi. Incrociamo le dita. Ma l’attesa di questi flussi finanziari non impedisce di tracciare un bilancio della transizione post-industriale vissuta dalla più europea fra le metropoli italiane.
Nella città che ha generato la leadership politica e imprenditoriale di Silvio Berlusconi, chi si è arricchito e chi gestisce il potere reale? Vi sono certamente le banche, il cui peso si è accresciuto grazie alla proiezione internazionale ma anche in seguito alla retrocessione delle grandi aziende indebitate. Fatto sta che le famiglie più influenti, anche dopo l’accumulazione straordinaria di cui si sono resi protagonisti alcuni stilisti, restano quelle che gestiscono rendite immobiliari e petrolifere. Le reti attrattive di saperi e di risorse, tipiche delle altre metropoli europee contemporanee, per fortuna esistono anche qui. Ma sopraffatte da potentati speculativi, bisognosi di protezione e poco propensi alla revisione dei privilegi che li avvantaggiano. Pur di tutelarsi nei salotti buoni, sono disposti a investirvi in perdita.
Una Malpensa liberata dal monopolio Alitalia e un Expo 2015 sottratto alla consorteria dei soliti noti, costituirebbero un’occasione formidabile di crescita per una Milano finalmente sottratta all’ideologia fasulla della questione settentrionale. Chissà che non possiamo ricordare questo fatidico lunedì 31 marzo 2008 come un passaggio difficile ma felice, oltre il vittimismo e l’assistenzialismo.
Porta Vittoria, S. Giulia, Falck la crisi si abbatte sui progetti
di Luca Pagni
Porta Vittoria, Santa Giulia, ex Falck: negli ambienti politici ed economici cresce la preoccupazione per i tre grandi cantieri che, legati ai destini degli immobiliaristi in difficoltà come Coppola e Zunino, corrono il rischio di arenarsi o di subire pesanti ritardi. L´assessore all´Urbanistica Masseroli lancia l´allarme: «Attenti alle crisi di sistema, le banche sono meno disposte ad investire».
Milano aspetta dai primi anni Ottanta il recupero delle aree di Montecity, alle spalle della stazione di Rogoredo. E dalla metà degli anni ‘90 che al posto della vecchia stazione di Porta Vittoria nasca un nuovo quartiere residenziale. Da qualche stagione in meno Sesto San Giovanni attende di dire addio alle ultime vestigia del suo passato ad alta concentrazione industriale rappresentato da quel che resta delle acciaierie della Falck. Dopo così tanto tempo, l´area metropolitana può ancora permettersi di perdere altro tempo, in attesa di capire come finirà la parabola degli uomini d´oro della finanza italiana di inizio secolo, di quel gruppetto di imprenditori che hanno cavalcato l´onda della bolla degli immobili e che ora devono frettolosamente vendere le aree in via di trasformazione?
Nelle ultime settimane è questo un timore comune in molte stanze che contano della Milano della politica e dell´economia. Cosa succederà della aree che l´Ipi di Danilo Coppola (Porta Vittoria) e la Risanamento di Luigi Zunino (Santa Giulia e Sesto San Giovanni) hanno problemi? Il primo con la giustizia e con il Fisco. Il secondo con le banche che in questi anni gli hanno garantito sostanziosi crediti per le sue operazioni. Nei salotti finanziari si cercano altri imprenditori pronti a subentrare in operazioni che potrebbero ancora rivelarsi vantaggiose. In quelli della politica le preoccupazioni sono quelle di un ennesimo ritardo nei cantieri e nelle opere che devono essere realizzate per garantire i servizi collegati per rendere vivibili i nuovi quartieri, dalle scuole ai parchi.
In verità, le tre operazioni di recupero - le più importanti in corso a Milano e nelle immediate vicinanze e non solo per le dimensioni - non sono allo stesso livello. Il progetto più avanzato è quello di Santa Giulia. Nel triangolo compreso tra Rogoredo, Tangenziale est e San Donato sono ormai in via di ultimazione i cantiere dei palazzi che Zunino ha ceduto ad alcune cooperative che hanno realizzato interventi in edilizia convenzionata. Mentre l´accordo più importante, per le altre funzioni, è quello chiuso con Sky che qui sta procedendo alla realizzazione della nuova sede, la più grande del sud Europa per la corporation di Rupert Murdoch. Tutto da definire, invece, il futuro del grande centro congressi - struttura che a Milano manca da sempre - ora che anche la Fondazione Fiera ha fatto sapere al Comune di essere a sua volta interessata a costruirlo in uno dei padiglioni del vecchio recinto. Ma le preoccupazioni della giunta Moratti sono anche altre: che le difficoltà del gruppo Zunino influiscano sui tempi di realizzazione delle opere pubbliche a Santa Giulia, soprattutto quelle strategiche di collegamento viario con la Tangenziale Est.
A Porta Vittoria - area che solo tre anni fa è passata dalle mani di Zunino a quelle di Coppola - i lavori, invece, sono più indietro. Dopo la bonifica dell´ex stazione Fs, la parte cantierata è minima. I permessi ci sono già tutti, per dare impulso ai lavori bisogna attendere che arrivi un nuovo proprietario per Ipi spa, la società quotata in Borsa che ha in portafoglio Porta Vittoria. In questo caso, i ritardi si assommano agli anni persi per un cambio di programma della giunta guidata dall´allora sindaco Marco Formentini, ai tempi di quando Milano votava in massa per il candidato della Lega: qui sarebbe dovuta sorgere la nuova sede dell´Università statale che poi si decise di realizzare alla Bicocca.
Per le aree Falck si dovrà attendere ancor più tempo. Anche perché è stata l´ultima a passare in mano a Zunino, che l´ha rilevato dalla famiglia Pasini di Sesto. Aree che sono a un passo dalla Bicocca e che l´imprenditore piemontese ha affidato al ridisegno di Renzo Piano: così come a Santa Giulia sono in ballo oltre un milione e 200mila metri quadri da recuperare, uno dei più grandi interventi di aree dismesse in tutta Europa.
"Banche e imprenditori hanno paura di investire"
di Maurizio Bono (intervista all’assessore Masseroli)
Assessore Masseroli, c´è il rischio che i guai di Danilo Coppola e le difficoltà del gruppo Zunino si abbattano sui progetti di sviluppo di Milano?
«Il nostro livello di preoccupazione è alto per tutto il sistema. Non tanto per i singoli progetti, ma per la disponibilità dei soggetti econonomici a investire, in questo clima, nel futuro di una città che pure resta fortemente attrattiva. Grandi operazioni di sviluppo richiedono tempi lunghi di immobilizzo dei capitali, mentre le banche sono meno disposte a rischiare».
Pensa a un rallentamento?
«Non lo credo. Sono in ottima salute i progetti Citylife, Porta Nuova, Marelli, Bisceglie e Bovisa. Ma sono consapevole che di fronte al bisogno di case di Milano bisognerà anche trovare interlocutori diversi, fondazioni e assicurazioni disposte a finanziare case in affitto a canone sociale o moderato, in cambio di un ritorno del 2 o 3 per cento all´anno. Servirebbero sconti fiscali per incentivarli».
Finora però avete fatto conto soprattutto sui grandi gruppi immobiliari, e ora su Santa Giulia (Zunino) e Porta Vittoria (Coppola) l´impatto c´è.
«Come Comune siamo partner di tutti i progetti di sviluppo e facciamo il tifo perché proseguano nel migliore dei modi, compreso quello di Zunino sull´area Falck che è a Sesto San Giovanni, ma riguarda anche Milano e il suo futuro. Per Porta Vittoria la via d´uscita è la vendita del progetto. Ho visto recentemente Franco Tatò, ora al timone dell´Ipi, e mi ha parlato di due fondi potenzialmente interessati. Noi abbiamo dato ampia disponibilità a ripensare un progetto ormai attempato».
Anche se gli accordi sottoscritti allora erano definitivi?
«Tra regole astratte e la realtà, in via di principio sono per la realtà, nel campo del lecito».
E Santa Giulia?
«Ha stadi diversi di avanzamento, ma l´urgenza riguarda soprattutto 180 mila metri quadrati di edilizia convenzionata: un ritardo lì sarebbe grave per la quantità di famiglie in attesa di andarci a vivere».
Cosa manca?
«A Zunino tocca finanziare l´urbanizzazione primaria, strade e fogne, e poi incasserà a sua volta dalle cooperative di abitazione. Oltre a fare il tifo, stiamo cercando dei percorsi per sbloccare la situazione. Per esempio anticipare l´attività di urbanizzazione saltando un passaggio, con l´intervento diretto delle cooperative per attivare le imprese».
C´è anche il problema del centro congressi: i vostri accordi lo prevedevano lì, ora la Fiera lo vorrebbe fare grande il doppio accanto a Citylife...
«Rispetto a 8 anni fa è evidente che le dimensioni che avevamo immaginato non bastano perché sia internazionalmente competitivo. Fiera spinge per una soluzione più adatta e più veloce. Dovremo parlarne con gli uni e con gli altri, a Zunino l´ho detto e mi ha chiesto di aspettare».
Tornando a Coppola e Porta Vittoria, lì c´è il problema della Biblioteca Europea...
«Noi finora abbiamo dato l´area, pagato la progettazione e aggiunto un´area da valorizzare per la residenza libera, di fatto co-finanziando il progetto. Più di così, senza fondi statali, non possiamo fare».
Quei cavalieri del mattone dagli affari d´oro ai troppi debiti
di Walter Galbiati
Un tempo facevano affari fra di loro passandosi di mano palazzi a suon di milioni di euro. Erano ricercati da tutti, banche e grandi gruppi industriali, che avevano in mente di vendere i loro portafogli immobiliari, o qualche pezzo pregiato, a prezzi da capogiro. Ora che il mercato in generale, e quello immobiliare in particolare, è girato in negativo si trovano in difficoltà. L´apice l´hanno toccato nel 2004, quando Danilo Coppola e Luigi Zunino si sono accordati sulle spalle di un altro raider, Stefano Ricucci sul futuro dell´Ipi: il primo per comprare il secondo per cedere l´ex società del gruppo Fiat, in pancia della quale è custodito il progetto di Porta Vittoria. Una delle maggiori aree di sviluppo dell´area milanese insieme con altre due iniziative che fanno ancora capo a Zunino, Santa Giulia e "l´ex Falck" di Sesto San Giovanni.
E proprio sullo sviluppo di questi tre progetti si sono riverberati i recenti guai dei due immobiliaristi, in difficoltà nel raccattare i soldi per finire i lavori avviati. Su Danilo Coppola ha pesato più di tutto l´arresto dello scorso marzo disposto dalla procura di Roma con l´accusa di bancarotta fraudolenta relativa alla società Micop. Un duro colpo alla sua reputazione, affossata anche dalle indagini a suo carico per associazione a delinquere, reimpiego di capitali di provenienza illecita, evasione di imposte per circa 70 milioni, appropriazione indebita aggravata e falso ideologico. Dopo aver ottenuto i domiciliari, anche per motivi di salute, a dicembre Coppola era tornato in cella per aver trasgredito le regole rilasciando un´intervista tv. L´immobiliarista era fuggito dall´ospedale di Frascati, in cui era stato ricoverato temporaneamente, per concedere un´intervista televisiva. Ieri, è tornato di nuovo ai domiciliari, ma la sua ascendenza sul sistema bancario che dovrebbe concedergli i finanziamenti per ultimare i progetti, è ormai ai minimi storici. Per arrivare al capolinea Porta Vittoria ha bisogno di un centinaio di milioni di euro. Coppola ha messo tutto in vendita per pagare le sue pendenze col Fisco (70 milioni). Della cessione, che riguarda l´intero gruppo Ipi, si sta occupando Banca Leonardo, la merchant bank guidata da Gerardo Bragiotti. L´onere, quindi, e gli eventuali profitti di Porta Vittoria spetteranno a chi si farà carico del gruppo.
Zunino, invece, soffre per via dell´eccessivo indebitamento delle sue società. La Risanamento spa, la holding quotata, ha perso in un anno oltre l´80% del proprio valore, penalizzando ulteriormente l´immobiliarista che per finanziarsi aveva dato in pegno i titoli della stessa Risanamento. Il sistema bancario ha recentemente rinegoziato le linee di credito concesse col gruppo Zunino, chiedendogli di cedere una parte del patrimonio immobiliare, messo insieme in breve tempo e in modo disomogeneo. Le risorse raccolte serviranno in parte per allentare la morsa del debito. E in parte per finanziare le aree di Santa Giulia e di Sesto San Giovanni. Per ultimare la prima, già ben avviata, servirà oltre un miliardo di euro, mentre per la seconda sono necessari altri due miliardi da spalmare in dieci anni.
E proprio ieri la Risanamento, dopo i recenti crolli di Borsa, ha comunicato di aver avviato nuove trattative con le banche di riferimento, tra le quali Intesa Sanpaolo, Unicredit, la Popolare di Milano e il Banco Popolare, per discutere nuove concessioni di credito. A differenza di Coppola, gli istituti hanno garantito il proprio appoggio a Zunino. La reputazione dell´immobiliarista piemontese presso "i signori del credito" è stata solo scalfita dalle vicende che hanno travolto i furbetti del quartierino. Ha rimediato solo un rinvio a giudizio per ostacolo alle autorità di vigilanza nella scalata ad Antoveneta promossa da Gianpiero Fiorani e i "signori del credito" lo considerano ancora "affidabile". Tanto è vero che i due più grandi istituti del Paese, Intesa Sanpaolo guidata da Corrado Passera e l´Unicredit di Alessandro Profumo, figurano ancora al suo fianco. I due advisor incaricati della cessione del patrimonio immobiliare del gruppo sono proprio Banca Intesa e Mediobanca, la merchant bank milanese il cui presidente del consiglio di sorveglianza, Cesare Geronzi, è designato da Unicredit, azionista con circa l´8,5%.
Welcome to Bovisa, city of Milan. John Foot, londinese, 43 anni, insegna a Cambridge, ma la sua materia, Storia moderna italiana, ha deciso di approfondirla sul posto. E per passione, oltre che per amore, vive in Bovisa, da dove osserva la città e le sue trasformazioni, urbanistiche anzitutto e perciò sociali, raccontandole in libri acuti e originali. «È un posto perfetto per capire quello che succede a Milano, perché è un laboratorio».
In che senso?
«Vivo lì da 15 anni, da quando mi sono sposato con un’italiana. C’erano ancora qualche fabbrica e dei residui del quartiere operaio che fu. Poi 10 anni di abbandono totale, quasi di autogestione urbanistica. Adesso è un misto di studenti del Politecnico, creativi e designer che stanno nelle ex fabbriche, loft, artisti che gravitano intorno alla nuova Triennale. E stranieri. Con una buona integrazione, anche se ora sono arrivate baracche e campi nomadi».
E che metafora di Milano ne ricava?
«Quella dell’enorme delusione dal punto di vista urbanistico. La fine della grande industria dava un’opportunità di ridisegnare la città non solo dal punto di vista economico, ma anche degli alloggi, della destinazione degli spazi. E così è stato, ma senza visione di insieme. Si è lavorato a lotti, a pezzi. Il risultato è una città disordinata, caotica, inquinata, dove ci sono pezzettini meravigliosi accanto a pezzettini orrendi. E questo se vogliamo è a sua volta un’altra metafora del fatto che è venuto meno un substrato che unificava, un tessuto connettivo, un’idea comune. Insomma, la società».
È una visione terribile.
«Ma anche con lati positivi. Le periferie sono brutte, ma sono poco isolate: una volta erano ammassi di condomini squadrati o di case autocostruite, le cosiddette coree, che sorgevano nel deserto, e diventavano ghetti per gli immigrati meridionali. Adesso gli immigrati - non più meridionali ma stranieri - sono dappertutto, perché ognuno di loro ha agito per conto proprio e si è scelto dove vivere. Ora anzi sono gli stranieri le forze fresche, fisicamente e mentalmente, della città, solo loro hanno ancora spirito di iniziativa».
Ognuno fa per sé. Ma la politica? Una volta aveva un ruolo di regia.
«Ma ora non decide nulla, è molto indietro rispetto ai processi sociali, si limita a prenderne atto senza governarli o almeno indirizzarli. In questo il massimo è stato Albertini: la metafora dell’amministratore di condominio che aveva usato per sé gli calzava a pennello, non faceva niente e lasciava andare avanti la società. Si va al traino di minoranze illuminate e intraprendenti, come la moda e il design (che forse sarà la salvezza futura), o di eventi che vengono da fuori, come l’Expo. Manca una strategia di lungo periodo. E in una città che per decenni ha avuto una politica lungimirante».
Cos’è successo?
«Che questa politica riformista è stata distrutta da due cose. Il craxismo, che ha introdotto l’individualismo della peggior specie, quello che nega un tessuto sociale comune e anzi lo distrugge. Da me la signora Thatcher diceva "la società non esiste". E la sua lezione è stata applicata. E Tangentopoli, che ha eliminato l’iniziativa della politica stessa, che adesso gioca di rimessa, in contropiede».
A proposito, lei è anche un grande appassionato di calcio: ha scritto un libro per spiegare il football italiano agli inglesi.
«Sì, ed è un altro modo di raccontare l’Italia e la sua società. E anche in questo Milano è un buon osservatorio. Per dire, Herrera - un allenatore che non si sapeva neppure con precisione se fosse francese, spagnolo o argentino - è perfetto per spiegare la Milano del Boom, dove venivano a lavorare e avevano successo persone di mille posti diversi. Così come la reinvenzione della città degli anni Ottanta e Novanta è andata di pari passo con la reinvenzione del calcio fatta da Berlusconi: si spendeva e spandeva per dare spettacolo, e il divario tra ricchi e poveri aumentava. E tra gli scandali iniziali di Tangentopoli ci fu proprio il rifacimento di San Siro».
Lei ci va, allo stadio?
«Mi sono goduto dal vivo il mio Arsenal che batteva il Milan».
In un intervento a un convegno promosso dalla Quadriennale di Roma sul tema «Arte e cultura degli anni Novanta», Deyan Sudjic si confronta con le modalità (perverse) di produzione dell’architettura contemporanea, più vicine alle tecniche della comunicazione pubblicitaria che alla ricerca sulla città e sulla gente che la abita. Quanto sia comunque difficile sottrarsi al mainstream culturale testimonia il fatto che lo stesso autore è stato membro della giuria per il concorso di riqualificazione del quartiere della fiera di Milano. Come critica alla qualità architettonica del progetto vincitore possono valere su tutte le parole di Antonio Monestiroli: “Napoleone, che conosceva bene Milano, e che per Milano ha voluto straordinari progetti spesso non realizzati, diceva che gli uomini amano il meraviglioso e che sono anche disposti a farsi ingannare pur di riconoscerlo. Ecco, qui sta il punto: da una parte c'è un bisogno diffuso di una città che sappia farci meraviglia, che sappia interpretare i nostri desideri, le nostre aspirazioni, i nostri ideali, dall'altra qualcuno pensa di meravigliarci con un gioco di specchi.” (GJF)
Circa tre anni fa le pagine patinate di Vanity Fair, la rivista americana per i fanatici dello star system che offre ai suoi lettori una dieta funesta ma irresistibile a base di celebrità, delitti borghesi e intrighi hollywoodiani, hanno festeggiato il novantacinquesimo compleanno di Philip Johnson in maniera quasi identica a quella del suo novantesimo. La rivista ha commissionato al fotografo di moda Timothy Greenfield-Sanders un ritratto del grande vecchio dell’architettura seduto al centro di un folto gruppo di seguaci nell’ atrio del Four Seasons, il ristorante ai piedi della Seagram Tower che Johnson ha avuto l’incarico di progettare come ricompensa per aver procurato la commissione dell’edificio a Mies van der Rohe.
Philip Johnson: il primo a capire che la copertina di «Time» vale molto di più di una monografia
È inconcepibile che nessun altro architetto abbia mai ricevuto un trattamento simile. Con l’unica importante eccezione della volta in cui accompagnò l’esercito tedesco nell’invasione della Polonia come corrispondente di una testata fascista americana, Johnson ha sempre avuto la capacità di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E la fotografia di Vanity Fair non è tanto un tributo al ruolo di Johnson nella storia dell’architettura quanto una celebrazione della sua importanza nelle rubriche mondane. Johnson è stato il primo architetto del Novecento a comprendere a fondo il potere della pubblicità e della notorietà. In un certo senso si tratta di un’abilità non troppo diversa da quella di Vitruvio, Palladio e tutti gli altri maestri i cui trattati possono essere considera ti come antesignani dell’arte dell’autopromozione in campo architettonico. Ma Johnson ha capito che la copertina di «Time» e la capacità di pronunciare al momento giusto una frase a effetto di fronte a un giornalista televisivo valevano molto di più per la costruzione di una carriera di una monografia destinata a essere letta solo da colleghi. E gli edifici che ha costruito sembrano anche loro delle frasi a effetto: attraggono l’attenzione del mondo per un nanosecondo e poi vengono dimenticati. Johnson è probabilmente il personaggio più vicino a Andy Warhol che l’architettura abbia mai pro dotto, in termini di personalità se non di qualità del lavoro. La fotografia di Vanity Fair mostra un bel gruppo di volti noti: Frank Gehry, accanto a Johnson insieme a Peter Eisenman, e ancora Arata Isozaki da Tokio, Rem Koolhaas da Rotterdam e Zaha Hadid da Londra, una presenza che sembra suggerire non solo un tributo a Johnson da parte di altri colleghi, ma anche un senso di accettazione della benedizione del grande vecchio, la cui protezione ha di certo aiutato molte persone a far carriera nel corso degli anni. Johnson è stato il più efficace propagandista dell’International Style prima e del Postmodernismo poi. Più di recente ha rivolto la sua attenzione al Decostruttivismo e persino ai deliri dell’architettura virtuale. Di sicuro non ha inventato nessuna di queste correnti. Tuttavia ha sempre cercato di renderle accessibili al vasto pubblico e, associando se stesso a ognuna delle nuove tendenze, è riuscito a costruirsi una visibilità del tutto sproporzionata al suo effettivo talento. Ha utilizzato la sua intricata e complessa rete di conoscenze nel mondo dell’architettura e degli sponsor per far sì che le nuove stelle del firmamento architettonico continuassero a ottenere incarichi importanti.
Il circo volante dei soliti trenta architetti
Forse mai prima d’ora così poche persone hanno progettato tante opere architettoniche «ad alta visibilità». A volte sembra che al mondo esistano solo 30 architetti, il circo volante dei perennemente affetti da jet lag, formato dai 20 che si prendono abbastanza sul serio da riconoscere un altro membro della casta quando lo incontrano nella sala d’attesa di prima classe all’aeroporto di Heathrow e da altri 10 che vanno avanti per forza di inerzia e, pur essendo stati smascherati dai colleghi, per il momento riescono ancora ad attrarre clienti in virtù delle loro glorie passate. Tutti insieme costituiscono il gruppo da cui vengono fuori sempre gli stessi nomi quando un’altra povera città illusa crede di poter battere il Guggenheim di Bilbao con una galleria d’arte che somiglia ai resti di un disastro ferroviario o a un disco volante o con un albergo che sembra un meteorite di venti piani. Li vedrete a New York e a Tokio, indossano i completi a tinta unita di Prada o Comme des Garçons A parte due eccezioni, sono tutti uomini. Li troverete sull’aereo per Guadalajara e Seattle, ad Amsterdam e, ovviamente, a Barcellona. Ora poi stanno tutti convergendo su Pechino, che in questo periodo è il più grande cantiere edile che il mondo abbia mai conosciuto. Incrociano di continuo il percorso dei colleghi, partecipano agli stessi concorsi riservati, sono sul palco per il conferimento del Pritzker Prize, e nelle giurie che scelgono i vincitori dei concorsi a cui non hanno partecipato in prima persona. A Pechino, Jacques e Rem stanno costruendolo stadio olimpico e la torre per la Tv cinese. Miuccia Prada li ha reclutati per aumentare il numero dei suoi negozi in Cina. Frank è in giro ovunque per il Guggenheim, anche se ha rifiutato l’incarico del New York Times, lasciando a Renzo la possibilità di occuparsene. Jean Nouvel sta cercando di sostenere il tentativo sempre più disperato del Guggenheim di vendere una concessione a Rio de Janeiro, visto che il genitore newyorkese, dopo investimenti edilizi degni della follia di re Ludovico di Baviera, è rimasto senza un quattrino.
Un business spartito tra carestia e sovrabbondanza
Perché siamo arrivati a questo punto? In parte perché l’architettura è riuscita come mai prima d’ora a lasciare il segno su un più vasto ambito culturale. Tre anni fa, la retrospettiva di Frank Gehry al Guggenheim di New York è stata un trionfo, con 370mila biglietti venduti. Un trionfo solo in parte macchiato dall’odioso imbarazzo di avere Enron tra gli sponsor principali. Nell’introduzione del catalogo della mostra, il Presidente della compagnia spiegava che Gehry e Enron condividono gli stessi obiettivi e valori, e in particolare proprio «la ricerca del momento della verità». Sei mesi più tardi il progetto di Gehry da un miliardo di dollari per il Guggenheim di New York veniva cancellato e la Enron veniva smascherata come la più grande truffa di tutti i tempi, almeno fino all’exploit della Parmalat. Nonostante la fine dell’effetto Guggenheim e i tagli ai budget, i licenziamenti del personale e i disperati salvataggi finanziari, alcuni sindaci ambiziosi pensano ancora che la costruzione di un edificio avrà il potere di farli notare. Il problema, data la totale assurdità di tanta parte dell’architettura contemporanea, è il seguente: come possono affermare che il disastro ferroviario, il meteorite o il disco volante diventeranno il segno distintivo della loro città e non si riveleranno invece l’ammasso di immondizia che in parte già sospettano sia? In realtà non possono saperlo. Per questo si affidano a quella lista di 30 nomi estratti dalle fila degli archi tetti che lo hanno già fatto prima. Quelli che hanno il permesso di essere assurdi. Dai l’incarico a uno di loro e stai certo che nessuno riderà di te. Proprio come comprare un vestito firmato Hugo Boss.
Tuttavia si tratta di un sistema che risente di un effetto boomerang: più si continuerà ad affidare tutti gli incarichi importanti a pochi nomi, meno possibilità di scelta ci sarà la prossima volta. Con la conseguenza che l’architettura si troverà trasformata in un business brutalmente spartito tra care stia e sovrabbondanza.
Alcuni architetti hanno troppo lavoro per potersi concentrare bene su ciascun incarico e distruggono quindi la pro pria reputazione diventando la parodia di se stessi, altri ne hanno così poco da considerare l’ampliamento di una cucina l’opera di un’intera vita, e fanno la fame.
Il sistema non sembra giovare poi molto agli apparenti beneficiari. Questa attenzione incontenibile ed esagerata ha un effetto preoccupante su alcuni degli elementi più suggestionabili del circo volante dei perenni affetti da jet lag. Cominciano a crederci davvero. Non riescono a evitare quella punta di sdegno bonario nei confronti di coloro che sono esclusi dalla fortunata cerchia, ma hanno anche l’ansia costante di essere messi in ombra e temono che l’appartenenza al gruppo sia solo temporanea. E orribile, crudele e snob. Ed è la naturale conseguenza della bizzarra richiesta di icone che ha travolto l’architettura e sedotto i suoi clienti negli angoli più improbabili del pianeta.
Un «progetto visionario di riferimento»
L’anno scorso, 1’agenzia per lo sviluppo dell’East of England, qualcosa di simile all’ente per la promozione della Calabria, ha lanciato ciò che definiva con ridicola magniloquenza un concorso internazionale per «il progetto visionario di uno o più edifici di riferimento». L’agenzia dichiarava di volere «un ‘icona che promuovesse il senso di identità della regione nel suo insieme» per sottolineare il fatto che l’East of England è una «regione di idee». L’unico elemento mancante in questa tiritera di luoghi comuni triti e ritriti era il riferimento en passant alle ambizioni di livello mondiale, espressione che al giorno d’oggi spunta fuori ovunque, sia in Calabria che in Alaska. Non è stato specificato alcun sito e l’agenzia non ha stanziato alcuna somma per il progetto, il che ispira certo poca fiducia, ma l’architetto Yasmin Shariff, che è anche membro del Consiglio di Amministrazione, sostiene che questo esempio di velleitarismo «è una fantastica opportunità per riunirci in quanto regione e decidere come presentare noi stessi al resto del mondo». Non è difficile indovinare che stanno pensando all’ennesimo teatro dell’opera dalla facciata coperta di scaglie di titanio, progettato da Frank Gehry come una massa informe, op pure a un ponte pedonale eccentrico ed esibizionista alla Santiago Calatrava.
La ricerca dell’icona
I concorsi di questo tipo si indicono ormai ovunque e conducono inevitabilmente al genere di architettura che ha la sua collocazione ideale sul logo di una carta intestata o nello spazio ristretto di un fermacarte di vetro con la Torre Eiffel sotto la neve, oppure sullo sfondo di una pubblicità di automobili. Sostiene di derivare da un’ispirazione, invece si riduce a una semplice ovvietà. La ricerca dell’icona è diventata il tema onnipresente dell’architettura con temporanea. Se essa deve emergere in mezzo a una serie infinita di sobborghi industriali fatiscenti, catapecchie rurali e aree di sviluppo, tutti soggiogati dal mito della celebrità e determinati a costruire l’icona che porterà il mondo ad aprirsi un varco fino alla loro porta, allora c’è bisogno di un’idea davvero straordinaria che catturi l’attenzione. Ma questa strada conduce a un’architettura dal rendi mento decrescente, in cui ogni nuovo edificio sensazionale deve tentare di eclissare il precedente; conduce a una sorta di iperinflazione, all’equivalente architettonico della svalutazione della moneta durante la Repubblica di Weimar. Oggi tutti vogliono un’icona. Vogliono un architetto che realizzi per loro quello che il Guggenheim di Gehry ha fatto per Bilbao e l’Opera House di Jorn Utzon per Sydney. Gehry, colui che ha innescato la spirale dell’inflazione con il Guggenheim di Bilbao, ha appena terminato la Walt Disney Hall a Los Angeles. Durante la cerimonia d’inaugurazione, la maggior parte degli interventi sottolineava l’importanza della nuova sala da concerti per l’immagine della città piuttosto che parlare della sua acustica. Non è certo questo il modo più semplice per perseguire l’architettura della discrezione e del tatto, né quella di qualità. Eppure sta diventando il metodo più diffuso di costruire opere architettoniche. L’effetto di questa ricerca dell’immagine danneggia allo stesso modo gli architetti e le città che conferiscono loro gli incarichi.
Santiago Calatrava, la prima vittima della mania di costruire icone
Calatrava, che rappresenta il lato oscuro e kitsch dell’inventiva gioiosa e libera di Gehry, continua ancora a definirsi un architetto. In realtà ha smesso di progettare edifici per con centrarsi sulla produzione di icone, e non è mai stato così occupato. Sta lavorando a una nuova stazione per il Ground Zero di New York, ha completato la Città della Scienza di Valencia e il nuovo auditorium di Tenerife. Inoltre ha di recente inaugurato un altro dei suoi caratteristici ponti, che va ad aggiungersi alla collezione che comprende quelli di Bilbao, Barcellona, Merida, Manchester e Venezia. Ovviamente, non ammette neppure a se stesso di non essere più un architetto. Continua in maniera commovente ad aggrapparsi all’alibi funzionale. Esaminate da vicino uno dei suoi progetti e anche se potrà apparirvi come un tentativo di gonfiare un’aragosta morta fino a farle assumere le dimensioni di un grattacielo, per di più costruito in cemento armato, troverete un’utile etichetta descrittiva che recita ad esempio «Teatro dell’opera». O nel caso della coda di balena che ha davvero costruito a Milwaukee l’etichetta annuncia con la stessa surreale sinteticità «Galleria d’arte». In realtà sarà difficile che un qualsiasi spazio espositivo trovi posto nell’ampliamento di Calatrava, che è lì solo per attrarre l’attenzione, per ricordare al mondo che la galleria esiste. L’edificio è stato realizzato con sette mesi di ritardo ed è costato così tanto che la Galleria ha dovuto licenziare il direttore e ridurre l’organico. Calatrava può essere considerato come il più grande beneficiano o la prima vittima di questa improvvisa mania di costruire icone. Ha iniziato la carriera progettando strutture realizzate in maniera artigianale e con grande economia di mezzi. Ma l’ingordigia dei suoi clienti lo ha condannato a ripetersi senza sosta, con effetti speciali sempre più roboanti per distrarci dall’assenza di ispirazione creativa. Calatrava ha appena inaugurato un cosiddetto auditorium a Santa Cruz, cittadina che conta circa 250mila abitanti nell’isola di Tenerife. Con quest’opera il suo alibi ha iniziato a vacillare. Ufficialmente le bianche conchiglie di cemento sono descritte come onde che si infrangono sulla riva. I meno benevoli le hanno viste come la riproduzione gigantesca di un velo da suora o perfino come un furto dal l’Opera House della lontana Sydney. In ogni caso si tratta del classico progetto «icona». Un edificio culturale, realizzato con il sostanzioso contributo economico di Bruxelles, che è stato costruito con l’espresso proposito di far apparire sulle pagine delle riviste patinate, di quelle che si trovano su gli aerei, una città fino a quel momento ignorata.
A Valencia, il progetto di Calatrava si chiama Museo della Scienza, anche se è assolutamente impossibile esibire alcunché al suo interno e ha l’aspetto della carcassa di un animale marino morto da un pezzo. Calatrava è un caso unico, celebre per aver studiato sia architettura che ingegneria; una combinazione che gli ha permesso di creare intorno alle sue opere la suggestione di un intrinseco senso logico, fornendo un alibi per quello che altrimenti potrebbe essere interpretato come palese esibizionismo. Calatrava ha intorno a sé quel soffio di visione ultraterrena che aleggia intorno a coloro che dicono di scorgere un ordine nascosto nei fili d’erba, nei fiocchi di neve e nei cristalli di rocca. Da ciò ha creato una specie di Gotico geneticamente modificato che oggi è il tema cardine delle sue opere. O forse è un Gaudi spremuto come dentifricio da un tubetto. La sua virtuosistica qualità visiva costituisce un diversivo sufficiente a impedire ai suoi me cenati di domandargli per quale motivo l’ampliamento della Galleria d’arte di Milwaukee debba somigliare a una coda di balena e la struttura dell’auditorium di Valencia a un’aragosta gigante o di giustificarli in termini di funzionalità.
Mai abbastanza spettacolari
All’estremità opposta della gamma si trova il gruppo di archi tetti che comprende Alvaro Siza, Rafael Moneo e David Chipperfield, ideatore di edifici semplici ma sensuali, come il restaurato Neues Museum di Berlino, avvilito di fronte alle continue richieste di progetti di icone, che a suo parere allontanano l’architetto dal suo vero ruolo, quello di realizzare costruzioni funzionali. Un tempo in Inghilterra se osavi fare qualcosa di appena un po’ moderno, eri considerato un sovversivo. Ora sei nei guai se vuoi costruire edifici sobri, perché al giorno d’oggi non si è mai spettacolari a sufficienza. Per le icone vi è uno spazio appropriato, ma è chiaro che la tendenza consumistica ha preso il sopravvento anche in architettura. Secondo Chipperfield l’idea tradizionale secondo cui l’architettura deve basarsi sulla comprensione delle esigenze del cliente e tendere a soddisfarle con semplice eleganza è valida tanto oggi quanto lo era negli anni in cui Mies van der Rohe inventò il grattacielo di vetro invece di creare semplicemente un’icona memorabile. Ma quello di Bilbao è un museo, un luogo in cui ammirare quadri, con un posto per appendere i cappotti e uno per prendere un caffè? Chi lo sa? A un certo livello, però, Bilbao è l’edificio più riuscito del secolo. La forma non deriva più dalla funzione, ma solo dall’immagine. E tra le tipologie di edifici che si sono piegate a questa tendenza, quella del museo è la più vulnerabile, la più facile da manipolare. Gli architetti possono giocarci, ma i problemi veri nascono quando si prova a fare io stesso con le biblioteche pubbliche o con l’edilizia abitativa. Più i clienti continueranno a chiedere icone e meno le nuove generazioni di architetti si sentiranno disposte a impegnarsi. Gli edifici futili, vistosi ed esibizionisti subiscono la legge dei rendimenti decrescenti. La risposta intelligente da parte di Foreign Office Architects è di progettare strutture, come il terminal per i traghetti a Yokoama, che non possano essere ridotte a un semplice logo. E il più chiacchierato museo americano, inaugurato nel 2003, nasce da una vecchia fabbrica di scatole di cartone sui fiume Hudson, ed è del tutto alieno da ogni consapevole monumentalismo. Forse, al pari del Liberty che fiori solo per un breve momento al volgere dei secolo scorso, anche il gusto per l’icona ha conosciuto questa larga diffusione solo perché è sul punto di scomparire.
Ivan Berni, Quanti dubbi sull’Happy End, la Repubblica, 20 febbraio 2008
Soluzione trovata e tutti contenti. Basterà avere soltanto un po’ di pazienza: entro 30 mesi i grossisti cinesi si trasferiranno al Gratosoglio, e i residenti della zona Paolo Sarpi ritroveranno la tranquillità e la vivibilità perduta del loro quartiere. Naturalmente c’è da augurarsi che davvero vada a finire così, tuttavia sull’happy end di questa vicenda pesa un interrogativo grande perlomeno come Chinatown, forse più: che ruolo ha avuto il Comune di Milano? E soprattutto, che ruolo avrà quando dall’intesa sulla carta si passerà ai fatti? L’impressione ricavata ieri è che Palazzo Marino sia soltanto il notaio di una scelta operata esclusivamente da privati e benedetta, assai impropriamente, dal console della Repubblica popolare cinese Limin Zhang. Privato è, infatti, l’importatore Luigi Sun che capeggia la cordata che darà vita al nuovo centro. Privato è l’imprenditore italiano Piero Moccarelli che venderà alcune sue aree al Gratosoglio. Privato è, infine, il "mediatore" Angelo Ou, indicato come rappresentante della comunità cinese. Insomma, se la mina Chinatown verrà disinnescata, lo si dovrà alla lodevole iniziativa di un gruppo di persone che sono riuscite a coniugare i loro affari con l’interesse generale della città. Tutto bene, salvo i problemi che d’ora in poi si apriranno e che chiamano in causa, fin da adesso, Palazzo Marino. Per esempio si apprende che dall’operazione il Comune dovrebbe incassare 20 milioni di oneri di urbanizzazione. Cosa intende farne?
La domanda non è per nulla peregrina. Chi ha dato un’occhiata all’area del Gratosoglio ha notato che la viabilità è del tutto insufficiente per sostenere il traffico generato da 400 grossisti. Però nessuno, finora, ha parlato di potenziamento delle strade d’accesso e di infrastrutture dedicate. Ancora: Gratosoglio è noto come una periferia "enclave" nella città, attraversata da tensioni sociali e soggetta a un controllo del territorio da parte della criminalità. L’arrivo dei grossisti cinesi potrebbe generare altre tensioni o aggravare quelle esistenti. Non è detto e nessuno se lo augura, ma per evitarlo è necessario, come minimo, un forte coinvolgimento delle associazioni, del consiglio di zona, del tessuto civile, informando, spiegando e, se caso, modificando il progetto. Cosa che nessuno ha fatto e nemmeno ha annunciato di voler fare.
Infine, chi può assicurare che le cose vadano davvero come promette l’intesa di ieri? I privati coinvolti rispondono dei propri comportamenti e dei propri interessi e non di quelli delle centinaia di grossisti cinesi attivi in zona Sarpi. Che potrebbero aderire formalmente al progetto ma poi, fra due anni, restare dove sono. Come loro permette la legge. Si dirà: c’è la parola del console. Ma che c’entra il rappresentante diplomatico di Pechino con una questione di quartiere, di rispetto del codice della strada e delle regole base di convivenza civile? Nulla naturalmente. Altra storia sarebbe stata se il Comune avesse trattato con rappresentanti eletti della comunità, portatori di un mandato di rappresentanza che avrebbe riassunto diritti e doveri dei cittadini cinesi a Milano. Diritti e doveri esigibili. Ma questo della democrazia è un tasto che non piace al console. E nemmeno alla giunta di Palazzo Marino, se si parla di immigrati.
Stefano Rossi, Hotel, 400 negozi e un museo così sarà la nuova Chinatown, la Repubblica, 20 febbraio 2008
Edifici a due-tre piani con spazi commerciali ed espositivi su 43mila metri quadrati, per 5-600 attività commerciali, collegati fra loro da passerelle aeree, dotati di interni con box vetrati e soppalchi, uffici e servizi (3mila metri quadrati), parcheggi (20mila). E ancora la torre di un albergo (6mila), un residence (4mila), aree verdi. Un museo della Cina e iniziative culturali. Ecco l’Asia trading Milan center destinato a sorgere fra due anni e mezzo al Gratosoglio, fra via dei Missaglia e via Selvanesco, sul sito della demolita Cartiera di Verona e alle spalle del Car world center dell’imprenditore Piero Mocarelli. Questi è in parola per vendere - l’affare non è ancora concluso - un’area di 53.000 metri quadrati a un gruppo di otto grossisti cinesi guidati dai principali rappresentanti della comunità, i sino-italiani Angelo Ou e Luigi Sun, importatori di alimentari. La lunghissima querelle fra italiani e cinesi di via Paolo Sarpi va dunque verso una soluzione, con un accordo fra privati favorito dal console Zhang Limin e dal Comune. Come ha detto ieri nel presentarlo l’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, «si avvia un percorso importante, che è anche un segno forte di integrazione».
La strategia cinese del sorriso d’acciaio si è rivelata vincente. Come i proverbi distillati da una cultura millenaria. Prima si è cercato di far capire al Comune che la vis punitiva, dopo la rivolta della comunità in strada, non avrebbe portato lontano: «L’uomo virtuoso è incline agli accordi, quello vizioso vuole un colpevole». Poi che l’ipotesi Arese non era praticabile, e pazienza se a Palazzo Marino si arrabbiavano: «Due persone che diventano amiche facilmente non lo restano per tutta la vita». Però un buon compromesso le farà felici entrambe. Soprattutto ricordando che «chi ha una solida presa non lascia facilmente ciò che possiede».
Ecco, soprattutto questo. I cinesi sono proprietari di negozi comperati a caro prezzo e, come ha detto ieri il console, «non esiste una legge italiana che vieti il commercio all’ingrosso». E poi ha coniato un proverbio di suo: «Il problema che non è stato creato in un giorno non può essere risolto in una notte». Ancora più chiaro, Angelo Ou: «I cinesi possono restare finché gli pare». Morale: il Comune non può fare la voce grossa, perché in ogni momento i cinesi possono dire xie xie e zhai jian, grazie e arrivederci. E mandare tutto a monte.
Ci vorranno, si diceva, due anni e mezzo. Nel frattempo sarà fatto, a un chilometro di distanza, il nuovo svincolo della Tangenziale Ovest. C’è il tram (il 15), la metropolitana (stazione Abbiategrasso della linea verde), la Milano-Genova a poca distanza. Però andranno allargate le strade e Gratosoglio già protesta per l’aumento del traffico e l’erosione delle aree circostanti, di proprietà di Ligresti e dentro il parco Sud. Per gli oneri di urbanizzazione si stima, al momento, una spesa di 20 milioni.
Forse ci saranno sgravi fiscali per chi trasloca (ma Masseroli non ha preso impegni), altri incentivi potrebbero giungere dalla comunità. Ieri sera i cinesi si sono riuniti per discutere. L’ipotesi Gratosoglio non è l’unica, ve ne sono altre, anche più veloci, come capannoni già pronti tra l’Ortica e Linate. E trattative sull’area del Girasole a Lacchiarella e l’ex Motta a Cornaredo. Fra i grossisti c’è chi tentenna, specialmente se ha comperato in Paolo Sarpi da poco e sta pagando i debiti. Luigi Sun si augura che «giunga un aiuto dalle istituzioni, il percorso non è facile». Angelo Ou, invece, già progetta di proporre a Mocarelli, dopo cinque anni dallo start up, la cessione di un altro pezzo dell’area «per un ulteriore sviluppo». E propone agli interessati di entrare con una quota nella costituenda società che farà il business, offerto per ora a banche e società di export della madrepatria. Sui cinesi si può contare, è il messaggio. E non sarà un Biscione a mangiarsi il Dragone.
Stefano Rossi, Franco Vanni, Cinesi in assemblea "Niente Ztl in Sarpi o la trattativa salta"
Applausi tiepidi, sì con riserva a discutere del trasloco a Gratosoglio, no deciso alla Ztl in Paolo Sarpi «o la trattativa salta». Duecento grossisti cinesi si sono riuniti ieri sera nel teatro dell’oratorio di via Verga per ascoltare la proposta di trasferimento dal rappresentante della comunità, Angelo Ou. «La zona a traffico limitato ci taglierebbe le gambe - ha detto Ou - Dobbiamo dare tutto il nostro aiuto a chi all’interno dell’amministrazione comunale non vuole applicare la Ztl. Se la nostra mobilità verrà limitata la trattativa salterà. Ma dobbiamo anche impegnarci a rispettare le regole. Una volta ultimato il trasloco il quartiere Sarpi diventerà come tutte le Chinatown del resto del mondo, vivibile, con negozi e ristoranti».
Pierfranco Lionetto, il presidente di ViviSarpi, l’associazione di residenti che ha chiesto lo spostamento «delle attività all’ingrosso, e non dei cinesi», mantiene molte perplessità. E le manifesta all’assessore Masseroli: «Quali garanzie ci sono - chiede Lionetto - che l’operazione andrà a buon fine? Abbiamo visto insediarsi nuove attività il mese scorso, e ancora questo mese, mentre le trattative per l’area di via dei Missaglia erano in corso. Il console ci invita ad avere pazienza. Noi siamo pazienti dal 1999, coscienti del fatto che non si trasloca dall’oggi al domani. È bene che sia stata fissata una data ma nel frattempo non stiamo fermi, procediamo con la Ztl».
«Sulla Ztl deve votare il consiglio comunale», risponde Masseroli. Il 28 febbraio è in calendario la discussione in aula di una mozione bipartisan Lega-Pd che chiede di istituirla, come d’altronde previsto da una delibera di giunta già approvata. «Si deve fare», taglia corto il leghista Matteo Salvini. «È inimmaginabile lasciare l’area Sarpi-Canonica nelle condizioni attuali», aggiungono per il Pd Pierfrancesco Majorino e Aldo Ugliano. Il Pd sollecita il Comune a tutelare il Gratosoglio dall’impatto del nuovo insediamento, richiesta condivisa da Carlo Fidanza e Marco Osnato di An: «Il Gratosoglio non va abbandonato, serve un presidio della polizia locale. E la Ztl in via Paolo Sarpi si faccia non presto, ma prestissimo». Angelo Ou ricorda che la Ztl, e la successiva completa pedonalizzazione, non sono all’ordine del giorno: «Di questo si occupa il vicesindaco. Lui ci ha sempre assicurato che non ci sarebbe stata Ztl prima del trasferimento. Anche altri commercianti italiani sono contrari alla pedonalizzazione. Non credo che il Comune voglia far vacillare il progetto che abbiamo messo in cantiere». A rappresentare i commercianti dissidenti è Franco Marini, presidente della Ales, Associazione liberi esercenti Sarpi: «La Ztl sarebbe deleteria mentre finalmente si vede una iniziativa seria, che necessita di tempi adeguati». Si ripropone la spaccatura fra italiani, residenti e negozianti. Questi ultimi, in maggioranza, prima della Ztl vogliono i parcheggi promessi da tempo dal Comune.
Paolo Berizzi, Gratosoglio è sul piede di guerra "Non siamo la pattumiera di Milano", la Repubblica, 20 febbraio 2008
Sarà la paura del nuovo. Sarà il riflesso condizionato prodotto dai grandi numeri (i grossisti cinesi sono 350). Sarà l’ansia di non sapere ancora quando e come. E forse anche il gazebo della Lega montato per l’occasione... Ma il Gratosoglio è inquieto. Sta di fatto che al Gratosoglio dicono che «stiamo diventando una Napoli 2», il riferimento alla monnezza è puramente voluto.
Dicono che «va bene tutto, però adesso anche i cinesi no, eh... «. La gente passa in bicicletta in via Selvanesco, pieno parco Sud. Adesso sembra poco più di un sentiero di campagna. Di spazzatura ce n’è, ma siamo lontani dai cumuli partenopei. Quando allargheranno la strada, perché la devono allargare, diventerà una specie di rampa d’accesso per centinaia di furgoni cinesi. «Chinatown? Forse pensano che siamo la terra di conquista di Milano. Zona Sud, avanti tutti», dice ironico Vincenzo Arnaud che abita in una delle torri di Ligresti dette anche i "grattacieli bianchi". Li mette in fila, Arnaud, gli ospiti indesiderati: in ordine sparso. I due depuratori. Il nuovo inceneritore che verrà. Il campo nomadi - che sta proprio su via Selvanesco. Il Sert di via Boifava, vicino all’Esselunga. La mitica "Casa gialla" di via Saponaro, che prima era una scuola e oggi è un dormitorio per i clochard un tempo ospitati dalla chiesa di San Francesco in via Moscova.
«Tutte cose nobili, per carità», ragiona Claudio Mozzana, consigliere di zona 5 per il Pd, «ma mi chiedo: perché tutte da noi? Ho l’impressione che i ricchi, i signori spostino qui tutto quello che dà fastidio a loro. Il mio partito porta avanti la politica dell’accoglienza e dell’integrazione. D’accordissimo. Da cittadino però dico che tra i doveri di un’amministrazione, forse, c’è anche quello di distribuire in modo ragionato e razionale sul territorio le cose "scomode"».
Pare di intuire che il battito cardiaco del Gratosoglio, quartiere già in sofferenza, sia un po’ accelerato. E il fiato s’accorcia. Il trasloco del commercio cinese fa paura: non perché arriverà un’orda di chissà quali criminali. Ma perché, è questo il timore principale, la zona potrebbe collassare. «Il problema più importante, al di là del fatto che la gente è già sotto pressione per altre scelte fatte dalle ultime amministrazioni, è la viabilità - spiega l’architetto Ettore Brusatori, consigliere di zona per la lista Fo - Dall’uscita della tangenziale a piazzale Abbiategrasso, in certi orari, ci sono code micidiali. Cosa succederà quando la babele commerciale cinese accenderà i suoi motori? L’assessore Masseroli ha parlato di effetti positivi per il quartiere. Di investimenti importanti. Per ora sono solo belle parole. Attendiamo verifiche».
L’area su cui sorgerà la nuova Chinatown insiste su un terreno di proprietà del titolare del Car world center, Piero Mocarelli. Forse l’unico, e si capisce, a parte gli abitanti italiani di Paolo Sarpi, a gioire per il Grande Esodo programmato per il 2010 massimo 2011. Laggiù, alle spalle dell’ex Cartiera di Verona, nella landa che collega via dei Missaglia a via Ripamonti, resistono qualche rottamaio e una mezza decina di vecchi capannoni industriali. Nella trincea disegnata da via Selvanesco ora ci sono gli abitanti del Gratosoglio. «Già me lo vedo cosa succederà - dice un ex consigliere di zona che chiede l’anonimato - I cinesi saranno il pretesto per cementificare a destra e a manca. Qui si pensa a costruire e basta. Come se la riqualificazione di una zona fosse legata al mattone. Politiche sociali qua non ne vedo. Dopo le otto di sera non si vede in giro un vigile né un poliziotto. Mi sta bene che si voglia sgravare Paolo Sarpi, ma non mi sta bene che il Gratosoglio diventi il confine del mondo che, per la sua collocazione geografica, deve sopportare di tutto».
La signora Mirella Montanari usa una metafora affilata: «Non ho niente contro i cinesi, ma, le dico la verità, mi sto preparando alla tortura della goccia cinese: ogni giorno una, finché sei sfiancato. Esagero? Stiamo a vedere, io spero di sbagliarmi, ma temo che ci avrò preso».
L’ultimo monito arriva da una chiesa. Quella della parrocchia di Madre Maria delle Grazie. Lui è don Eugenio Brambilla, uno di quei preti sociali da periferia difficile. «Spero che alla conferenza stampa di ieri segua una serie di incontri con i cittadini. Il Comune deve ascoltare le esigenze del quartiere, altrimenti si rischia che un’operazione complessa come questo trasloco porti altri problemi in un quartiere che complesso lo è già di suo».
Anche dalla descrizione sommaria del progetto, emerge evidente per chi ha seguito le vicende del Cerba più di una analogia: l’emergenza (qui urbana-ambientale-sociale, là di prestigio per l’Expo e l’immagine della città), la localizzazione nel medesimo settore urbano – in effetti basta fare in bicicletta l’ex via rurale Selvanesco per passare da una zona all’altra – a ridosso della Tangenziale e ai margini estremi dell’insediamento compatto, infine, ciliegina sulla torta, la collocazione nel Parco Sud e la proprietà di Salvatore Ligresti (che proprio da queste parti in via dei Missaglia col Piano Casa in epoca craxiana mise a segno uno dei suoi colpi grossi). Col polo dei grossisti si crea evidentemente un punto di pressione insediativa, che potrebbe definitivamente esplodere una volta eliminato l’ostacolo della pianificazione territoriale di area vasta, così come vuole il ripresentato “emendamento Boni”: se un comune ha contrasti con l’ente parco per problemi di “sviluppo del territorio” interviene la Regione con procedura abbreviata, e a favore del comune. Non ci vuole un immaginazione lisergica, per ipotizzare nuove “emergenze” commerciali, produttive, sociali come quelle che emergono già dalla proteste del quartiere Gratosoglio, ed ecco là all’orizzonte già pronto il nuovo svincolo della Tangenziale, per cui già sarà necessario intervenire su qualche porzione del Parco … Beh, il meccanismo è ovvio e collaudato. Noi possiamo solo chiedere di continuare a FIRMARE l’APPELLO contro il sabotaggio degli Enti Parco, che si discute proprio oggi (f.b.)
Si manifesta in bici a Quarto Oggiaro,Bovisa, Niguarda. Si fa unpresidio informativo a Crescenzago,nel quartiere Adriano. Con Legambientee Ciclobby, continua latrentennale lotta dei cittadini organizzatinel Coordinamento deiComitati contro la Gronda Nord.
Lo scorso 16 febbraio, giorno dedicato a “Mal’Aria”: all’indomani del tragico incidente stradale nel cuore di Milano. E nell’anniversario del protocollo di Kyoto. In un’Italia che non solo non lo rispetta, ma addirittura aumenta il suo trend di emissioni di polveri e veleni.
Con 670 automobili ogni 1.000 abitanti, il nostro paese è il secondo “regno dell’auto” al mondo, dopo gli Usa (800/1.000 ab.). Aumentano nelle nostre giungle d’asfalto urbane gli incidenti: 60 investiti dalle auto al giorno.
A Milano e nella sua area metropolitana e in Lombardia, tra le zone più intasate ed inquinate al mondo, diminuiscono i chilometri di ferrovie ed aumentano le autostrade.
Le teste dei politici e degli amministratori, di centro-destra e di centro-sinistra (poche le eccezioni), e la cultura dominante degli imprenditori e delle loro associazioni sono ossessivamente orientate a promuovere la politica stradista e cementificatrice. Che suolo e territorio non sono beni illimitati a nessuno importa? Così continuando si va verso il disastro ecologico economico civile.
La protesta in bici contiene una proposta positiva e un messaggio di civiltà: trasformare il tracciato di circa 12 km, previsto per l’autostrada urbana Gronda Nord, in un percorso verde e ciclopedonale e in un asse di trasporto pubblico su rotaia.
E’ arrivato il momento di finirla con una grottesca “storia infinita” cominciata negli anni trenta del secolo scorso all’interno del disegno del regime fascista di una “grande Milano” in espansione nel suo hinterland.
Per la prima volta nel 1953 e poi nel Piano Regolatore del 1980, si inserisce il progetto di una megainfrastruttura autostradale a sei corsie con viadotti tunnel e svincoli di collegamento tra il nodo di Gobba della tangenziale est e quello di Cascina Merlata della tangenziale ovest. Lo blocca nel 1985 la ribellione di massa dei cittadini, con 30.000 firme. Tuttavia si continua a cementificare nella fascia settentrionale infoltendo al massimo l’addensato urbano.
Con la Lega Nord a Palazzo Marino rispunta nel 1996 il vecchio progetto di Gronda. Lo si ridimensiona a quattro corsie, due per senso di marcia, ma sempre con un volume di traffico tra un minimo di 2.000 e un massimo di 5.000 auto all’ora. Si cambia nome, ma la sostanza rimane la stessa: non più Gronda Nord, che evoca la mega-autostrada, ma S.I.N. ovvero Strada Interquartiere Nord. Insistono le Giunte Albertini fino al 2006. Si spezzetta il percorso in tratti inferiori al chilometro per evitare la valutazione d’impatto ambientale. I Comitati presentano ricorsi giuridici. Il Tar dà ragione ai cittadini: il percorso autostradale, di scorrimento e non di quartiere, è unitario. Bisogna fare la V.I.A. Il Comune impugna la sentenza. Si va al Consiglio di Stato, che invia gli atti all’Unione Europea che mette in mora l’Italia. Si è oggi in attesa del pronunciamento della Corte di Giustizia Europea.
Anche la Moratti insiste ed inserisce la Gronda Nord nel progetto di candidatura di Milano all’EXPO del 2015! E’ davvero ossessiva e quasi diabolica la pervicacia con cui le giunte di centro-destra ripropongono la Gronda, arrivando a sottrarre alla città - che fatica a respirare - lembi vitali di verde del Parco Nord per consentire di arrivare al pronto soccorso di Niguarda in autostrada! E non si fa una piega di fronte alla contraddizione tra qualche timidissima e limitatissima misura (come il cosiddetto ecopass) e la politica stradista!
Uno spiraglio si apre nel 2005: il Consiglio Provinciale di Milano approva il 20 ottobre un ordine del giorno contro la Gronda Nord, che non solo accoglie le istanze dei cittadini ma indica una politica della mobilità e dei trasporti diversa da quella dominante di tipo stradista e su gomma e prevalentemente privata. L’analisi coincide con quella dei Comitati: “Il sistema viario di Milano, caratterizzato da grandi assi che dividono il territorio a fette, è fondamentalmente di tipo centripeto e funzionale allo sviluppo di una metropoli monocentrica. La SINGronda nord sviluppa ulteriormente, e in senso trasversale (estovest) la logica dei grandi assi stradali urbani. Si deve invece passare ad un’altra concezione che: escluda la costruzione di nuovi assi autostradali e razionalizzi il sistema viario esistente, trasformandolo, con adeguati raccordi, in un sistema a rete”; si afferma inoltre che “tale sistema può migliorare la mobilità in tutte le direzioni se si sviluppano al massimo e prioritariamente i mezzi di trasporto pubblico, in primis quelli su ferro” sia di superficie che sotterranei, ”sviluppando la rete metropolitana su scala interurbana”. Finalmente il Consiglio Provinciale rivendica la competenza della Provincia ad intervenire in quanto la Gronda Nord “non può appartenere all’esclusiva pertinenza del Comune di Milano, ma interessa tutti i Comuni dell’hinterland e della corona urbana nord-est e nordovest”.
Si stigmatizza che “la Gronda e gli interventi sui nodi delle tangenziali, se fossero realizzati danneggerebbero irrimediabilmente sia porzioni consistenti del Parco Nord, del costituendo Parco Adriano e della media Valle del Lambro e del Parco Lambro (già spaccato dalla tangenziale), sia un rilevante patrimonio di beni ambientali, paesaggistici ed architettonici (cascine, ville, naviglio Martesana) già da anni tutelati dalla regione”. Nella parte finale dell’o.d.g. si impegna “la Presidenza della Provincia di Milano e la Giunta, dati i compiti istituzionali ed il ruolo di Ente promotore della metropoli policentrica e come socio di maggioranza della Società Serravalle, ad intervenire con urgenza, ponendo un problema di legittimità giuridico-amministrativa relativo ai progetti succitati, ad assumere e proporre un’iniziativa di grande valore: una Variante al PRG che trasformi il tracciato previsto per la Gronda Nord-SIN in un corridoio verde da utilizzare come percorso ciclopedonale e la realizzazione sullo stesso asse di una infrastruttura di trasporto pubblico su rotaia”.
Dal 2005 ad oggi nessun atto conseguente alla presa di posizione del Consiglio Provinciale di Milano è stato assunto. Presidente Penati, giunta, assessori alla mobilità e trasporti (Matteucci), al territorio (Mezzi), all’ambiente (Brembilla), se ci siete battete un colpo.
E i consiglieri della maggioranza di centro-sinistra aspettano, continuano ad aspettare invano? Si vuole predicare bene e razzolare male? Si vuole approfondire ulteriormente le distanze tra le istituzioni e la società civile?
gronda nord
Con i soldi dell’Expo non solo opere faraoniche e colate di cemento, ma tutela dell’ambiente, del paesaggio, dell’agricoltura, delle acque, dei borghi e delle ville milanesi. Il sindaco Moratti le aveva invitate a far parte della consulta ambientale per Expo 2015, ma tre associazioni ambientaliste hanno risposto no. Niente adesioni a scatola chiusa. Fai, Wwf e Italia Nostra hanno preferito non entrare, per ora, a fianco del Comune nel gruppo che dovrà valutare e mitigare l’impatto ambientale che le opere per l’esposizione internazionale, se Milano vincerà la gara con Smirne, inevitabilmente avranno sul territorio milanese. «L’invito sembrava più un’operazione di immagine che non un coinvolgimento vero e proprio» dice Enzo Venini, presidente nazionale del Wwf. E dal Fai Costanza Pratesi, responsabile dell’Ufficio studi, aggiunge: «Vorremmo essere ascoltati e portatori di idee, non solo certificatori di idee altrui, e vedere per l’Expo un progetto ambientale forte sul nostro territorio, che ancora non c’è». Così hanno preferito fare un loro osservatorio esterno, e presentare al sindaco, dopo aver spulciato il progetto di candidatura di Milano, 900 pagine, una serie di punti che ritengono «imprescindibili e vincolanti». Vorrebbero, prima di tutto, la gestione responsabile del suolo, limitando il consumo alle aree ex industriali o già urbanizzate, introducendo forme di compensazione ecologica (solo la cittadella per l’Expo conta 1 milione e 700 mila metri quadrati di insediamento). Poi vedere «un chiaro segnale di volontà di tutela della fascia agricola periurbana». Altra questione importante, la riqualificazione delle vie d’acqua che già ci sono, abbandonando l’idea di costruire un nuovo naviglio, «impresa costosissima, inutile e di pura funzione estetica». E, ancora, cogliere l’opportunità Expo per lanciare un progetto di recupero del patrimonio monumentale del nord Milano, come villa Arconati, villa Litta di Lainate, villa Reale a Monza - «unica grande reggia europea scandalosamente dimenticata» - , i borghi (Figino, Trenno, Chiaravalle, Ronchetto delle Rane), le cascine, i beni minori. Non ultimo si chiede anche il coinvolgimento delle sovrintendenze al tavolo delle decisioni. «Noi avevamo l’intenzione di discutere questi punti perché pensiamo che il piano Expo deve rifiutare aspetti non consoni alla valorizzazione e tutela dell’ambiente e dei beni culturali - spiega ancora Venini - . Il sindaco ci ha risposto che era importante adoperarsi per ottenere l’assegnazione, il problema lo avremmo affrontato dopo. Il nostro osservatorio nasce con spirito di collaborazione, ma vorremmo che la sostenibilità ambientale diventasse concretezza anche sul nostro territorio. La preoccupazione vera è che con l’Expo si vada, invece, a distruggere il patrimonio verde attorno a Milano».
Nota: una preocupazione più che fondata, se è vero come è vero che fra le "eccellenze" della Milano futura c'è ad esempio il discutibilissimo Cerba
Tutto è bene ciò che finisce bene, ma l’inizio dell’Ecopass sembra non essere negativo, almeno secondo le fonti ufficiali. Certo l’impatto è destinato ad attenuarsi: molti si abboneranno, altri cambieranno i veicoli per non pagare. Ma vediamo le possibili conseguenze sulle due variabili "strategiche" cui è destinato l’Ecopass: smog e congestione. Paradossalmente l’impatto ambientale, dichiarato prioritario, è quello con minori prospettive di successo. Gli inquinanti tradizionali (ossidi di zolfo e di azoto, composti del piombo, monossido di carbonio) sono sotto le soglie critiche, e l’anidride carbonica (che provoca l’effetto serra ma non nuoce alla salute) non diminuisce con veicoli "puliti". Resta solo il particolato, che è fuori norma e non cala. Ma è emesso dal traffico solo in parte, quasi solo dai diesel, e si muove rapidamente, per cui sembra problematico (e iniquo) cercare di fare del centro di Milano un’isola felice.
Situazioni di alta pressione atmosferica, infatti, mostrano una presenza di particolato fuori dai limiti europei, diffusa "democraticamente" su tutta la pianura lombarda. Qui occorre dunque vedere gli effetti reali nel medio periodo, e dei dubbi sono legittimi.
Parzialmente diverse possono essere invece le prospettive sulla congestione, che ha andamento molto più che proporzionale al traffico: bastano, cioè, relativamente pochi veicoli in meno sulle strade urbane per avere rilevanti benefici in termini di velocità di deflusso. Il problema tuttavia è la stabilità nel tempo del fenomeno: infatti il miglioramento delle velocità ha un fortissimo effetto di attrarre nuovo traffico (principio dei "vasi comunicanti"). Ben diverso sarebbe stato l’impatto di una disciplina più severa della sosta (le sanzioni comminate per divieto di sosta sono una piccolissima frazione di quelle necessarie a scoraggiare le infrazioni, come d’altronde è evidente dal perdurare, in questo settore, di comportamenti da terzo mondo). Tale disciplina avrebbe determinato condizioni più stabili di riduzione del traffico, e più equamente distribuite.
Ma qualche segnale positivo emerge anche su questo fronte. L’indisciplina del carico e scarico delle merci è uno dei fattori maggiori di congestione (la sosta in seconda fila, insieme alla mancata delimitazione delle corsie di marcia, genera una sostanziale sottoutilizzazione della rete viaria), ed è già stata oggetto di limitazioni, rimaste però, come ognuno di noi può vedere, perfette "grida manzoniane". Milano rimane ancora la capitale mondiale delle soste in doppia fila. Ora sembra che sia imminente il varo di nuove regole che limitino il carico e scarico alle ore notturne. Eccellente iniziativa (i vecchi furgoni diesel tra l’altro inquinano molto): ma lo scetticismo è purtroppo d’obbligo, visto il destino del provvedimento precedente.