Suor Letizia Moratti, come la chiama il suo ex assessore Vittorio Sgarbi, ruggì. Ma l'educato gorgoglìo del sindaco di Milano e commissario dell'Expo del 2015 non impensierì né poco né punto le iene che si aggirano intorno al salvifico evento che dovrebbe riesumare la Milano capitale da bere. Piombata l'altro giorno ad Arcore per esternare tutto il suo malumore nei confronti di Lucio Stanca, l'ex manager Ibm ed ex ministro dell'Innovazione tecnologica messo a capo della società di gestione e accusato di totale inefficienza, è stata gentilmente invitata a soprassedere, data l'assenza di Bruno Ermolli, che aveva dato forfait fornendo così a Berlusconi il destro per non affrontare l'argomento. Un congedo cortese, non ruvido come quello che la commissaria dimezzata aveva ricevuto da Giulio Tremonti, quando era andata a battere cassa: «Letizia, il governo non è tuo marito!»
Ma l'irritazione di suor Letizia è così ulteriormente montata nei confronti di Stanca, che per nessuno è un crostino facile da digerire, figurarsi per la signora della buona borghesia milanese, icona vivente del bon ton. Ex granatiere di Sardegna, nato a Lucera, l'uomo che si definisce «manager di livello internazionale» non sa cosa sia l'understatement che usa ancora in quel che resta della Milanobene. Nelle interviste che rilascia a raffica è riuscito a dire che si sente un «direttore d'orchestra», di essere quasi offeso dalla «barzelletta» rappresentata dallo stipendio di 450 mila euro che riscuote in aggiunta all'indennità di deputato, carica da cui non intende dimettersi, e che per lui Keynes è un taxi: lo usa quando non può farne a meno, ma preferisce muoversi con la sua macchina. Questo gigante del pensiero a otto mesi dall'insediamento nella società di gestione dell'Expo, secondo la Moratti ha fatto ben poco, dopo l'intero anno di paralisi trascorso in una indegna rissa politica nella maggioranza per il controllo dell'evento.
La commissaria dimezzata, che vede a rischio persino la sua ricandidatura a sindaco di Milano nel 2011, comincia a sentire l'alito del decesso in culla per il grande evento salvifico o, nel meno tragico dei casi, di un flop come quello dell'Expo di Zaragoza, che ebbe meno della metà dei visitatori previsti. Le stime sul possibile futuro fatturato sono già state ridimesionate da 44 a 34 miliardi, mentre dei soldi promessi per l'avvio ci sono in cassa soltanto 133 milioni fino al 2011, tanto che la società chiuderà il 2010 con un rosso di 15 milioni. Tra le opere previste ma che già si sa che non si faranno mai ci sono la via d'acqua navigabile, la M6 e la Torre Landmark. Poi, chissà che altro, visti i chiari di luna. Per di più pare che a Parigi sorridano un po' per l'impianto "bucolico" del conceptplan espositivo, di cui hanno richiesto modifiche.
Volete sapere allora come andrà a finire, con buona pace del sindacocommissario e del granatiere di Sardegna dall'ego ipertrofico? Che una mattina Berlusconi si sveglierà e appunterà le insegne di supercommissario dell'Expo al petto di Guido Bertolaso, che nel frattempo sarà rientrato vincitore dal salvataggio dei terremotati di Haiti.
ALCUNE BREVI CONSIDERAZIONI POLITICHE
E ALCUNE PROPOSTE
GUIDA ALLA LETTURA
(in calce il link al testo completo)
Sommario delle osservazioni:
- Dalla documentazione pubblicata rileviamo che nel piano di governo del territorio mancano i seguenti elementi fondamentali: una città e un piano di governo del territorio. Si rinuncia cioè ad un qualunque governo politico del territorio.
- Procedendo per sottrazioni, il PGT detta le condizioni del collasso liquidativo del territorio, nella misura in cui deregola il comportamento degli agenti economici.
- Il pubblico si ritira e consegna ai privati una borsa di compravendita di diritti edificatori scambiabili in una pura logica di mercato cui si sacrifica ogni bene comune non negoziabile.
- I servizi si precarizzano nel regime di sussidiarietà orizzontale.
- L'operazione Expo detta la scadenza 2015 e si sovrappone perfettamente come logo della corrispondente città vetrina.
- Occorre che i soggetti reali rivendichino un vero PGT dall'approccio sistemico. Questo PGT va fermato.
PREMESSE
Legge regionale, PTR e PTCP
La Regione Lombardia ha approvato dal '99 ad oggi una serie di provvedimenti dalla L.r9/99 sino alla legge regionale 11.3.2005 n.12 con lo scopo di ridisegnare il quadro della strumentazione legislativa in materia urbanistica.
Il PGT (Piano di Governo del Territorio) viene supportato nelle sua stesura dal PTR (Piano Territoriale Regionale) considerato dalla Regione “unausilio ai Comuni nella predisposizione dei Piani di Governo del Territorio (PGT)”. Contemporaneamente, viene sempre meno il ruolo, già debole, del PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Milano), che viene schiacciato fra una pianificazione comunale milanese sempre più proiettata verso una dimensione metropolitana “di area vasta” e una strategia territoriale regionale aggressiva, avvolgente e centralizzante.
Cos'è il PGT
L'art.23 dispone che i Comuni provvedano all’approvazione del PGT come documento che sostituisce le funzioni del "vecchio" PRG (Piano Regolatore Generale) - quale atto per la definizione dell’assetto dell’intero territorio comunale.
Il PGT è articolato in 3 atti nominati come: Documento di Piano (PdP), Piano dei Servizi (PdS) e Piano delle Regole (PdR); il PdS dovrebbe occuparsi della definizione delle strutture pubbliche o di interesse pubblico mentre il PdR dovrebbe definire propriamente la destinazione delle aree individuando quelle per l'agricoltura, quelle di interesse paesaggistico, storico o ambientale, quelle non trasformabili, nonché le modalità degli interventi sugli edifici esistenti e su quelli di nuova realizzazione.
Nell'iter, il PGT deve essere discusso in commissione consiliare, in Giunta ed in Consiglio Comunale. Al momento della stesura di questo testo la tempistica sta slittando.
Brevi note sulla presentazione del materiale
Il solo PdP - in mancanza degli altri due atti - presentato come "Proposta di Documento di Piano" di 370 pagine corredato di "Sintesi non tecnica" e Rapporto Ambientale, è stato "messo a disposizione" per la "partecipazione", anzidetta "consultazione", nel luglio 2009 (cioè poco prima delle ferie estive con scadenza delle osservazioni subito dopo le ferie), presso il Palazzo Comunale o per il download dal sito web del Comune attraverso 33 files di diverse centinaia di Mb.
La disponibilità alla "consultazione" pubblica suona vuota retorica se basata su documenti molto preliminari, generici e contraddittori. Negli incontri con i consigli di zona e con l'associazionismo non sono stati presentati i progetti principali né le schede di indirizzo dei vari ambiti di interventi con i dati quantitativi, né gli interventi per la viabilità e i trasporti. La documentazione, deficitaria e al tempo stesso pesante, appare di faticosa consultazione per il cittadino, chiamato a una "partecipazione" virtuale, non soltanto per il peso dei tecnicismi, quanto pure dal semplice punto di vista della presentazione formale, vista la distribuzione a pioggia dei contenuti in allegati ed errata corrige con lunghi giri di parole, pochi "numeri" qua e là disallineati, grafici talvolta approssimativi, locuzioni specialistiche fuori contesto e ricercate per colorire significati molto più semplici, economichese e politichese sovrabbondanti, slogan scollegati dalla realtà in esplicita contraddizione con i contenuti effettivi del documento, caratterizzato a sua volta da contraddizioni interne che segnalano tra l'altro la disomogeneità dei contributi.
ANALISI E OSSERVAZIONI SUI CONTENUTI
Visti più da vicino, scomposti e ricomposti, alcuni passaggi del cap."Un racconto inedito. La genesi del progetto" e del cap."Obiettivi e strategie" rivelano la logica politica e l'intreccio di scelte strategiche che sono sottesi al fumo progettuale del Documento di Piano.
Cit. dal Documento di Piano:
"La legge urbanistica vigente in Lombardia, pur indicando valori di riferimento di tipo quantitativo (al fine di garantire un bilancio complessivo tra abitanti insediati e i metri quadrati di servizi esistenti e previsti), non definisce i servizi da considerare all’interno del Piano, né in termini qualitativi (fatta eccezione per il sistema del verde, le infrastrutture, l’edilizia residenziale pubblica), né in termini quantitativi (ossia la quantità necessaria di verde, di servizi per l’istruzione, di servizi sociali e così via). Il PGT auspica la necessità di un riequilibrio ed una riqualificazione sul territorio dei servizi esistenti e sposta l’attenzione dalla quantità alla prestazione reale dei servizi in termini qualitativi per i servizi futuri. La sfida principale è dunque quella di inserire un universo di valori “qualitativi” (peraltro di difficile misurazione “oggettiva”) in un sistema che chiede garanzie quantitative. Per quello che riguarda il riequilibro della qualità dei servizi, il Piano abbandona la logica dello standard localizzato e dei servizi pianificati a partire dai vincoli secondo la logica del “prodotto finito” (meccanismo rigido, ulteriormente indebolito dal fatto che si ragiona su lunghi archi temporali) ed attiva un ragionamento differente da quello tradizionale dei Piani Regolatori proponendo un sistema che ruota attorno a una forte regia del Comune, soggetto portatore di obiettivi specifici e chiari, base di riferimento per il dialogo con l’operatore privato".
Sussidiarietà orizzontale e riduzione alla mera contrattazione tra privati
Cominciamo a vedere che ci troviamo di fronte allo svuotamento di un ruolo forte di governo dei processi e delle scelte: si spaccia il cosiddetto "universo di valori “qualitativi” (peraltro di difficile misurazione “oggettiva”)", tanto accattivante quanto vago, per una dimensione ideale, moderna e più flessibile, di regia comunale delle scelte di pianificazione urbanistica e di stanziamento delle risorse economiche in tema di servizi.
Ma di fatto il territorio, concepito come estensione di servizi totalmente mercificata, ridotto al calcolo della razionalità economica come parametro assoluto di "qualità", si spartisce in progetti-investimenti da contrattare - da definire e decidere - con gli operatori privati e quindi in funzione dei loro specifici interessi economici. Una regia senza vincoli e distribuita, senza controllo nei termini del pubblico, su tempi lunghi e quindi poco verificabile nella sua reale efficacia, che nei termini vaghi proposti "sposta l’attenzione dalla quantità alla prestazione reale dei servizi in termini qualitativi per i servizi futuri". Cioè, per dirla più chiaramente: meno servizi futuri, temporanei, ma con l’autocertificazione di qualità del realizzatore e del gestore privato (imprese, fondazioni e associazioni “non profit”, confessioni religiose firmatarie di patti e intese, camere di commercio, università e quant’altro), in perfetto quanto oliato regime di sussidiarietà orizzontale in salsa lombardo-ciellina (come esaurientemente spiegato al punto 2.3.5 "La sussidiarietà quale principio di relazione virtuosa pubblico-privato). Sussidiarietà che in ultima istanza produce consumo e profittabilità ma non riproducibilità.
Cit. dal Documento di Piano:
"I punti chiave sono fondamentalmente due:
1. Le infrastrutture (collettive ed individuali).
2. Il sistema degli spazi aperti incluso il verde a tutte le scale.
A questi se ne aggiunge poi un terzo caratterizzato dal tema della casa per tutti. Tutti quelli che sono gli altri “servizi costruiti” sono stabiliti di volta in volta in funzione dei fabbisogni rilevati. Affrontare il tema della qualità nella pianificazione dei servizi rappresenta oggi una sfida per le città, che si vedono costrette a riformulare le proprie politiche in modo diverso rispetto al passato, lavorando attraverso una sorta di “rivoluzione” in tema di pianificazione urbanistica. È pertanto più utile ragionare in termini di “metodo” e di “processo” a partire dal bisogno reale, sostituendo così la logica del “prodotto finito”.
Il nuovo Piano non indica il risultato finale, ma definisce un metodo di criteri che di volta in volta divengono il quadro di riferimento per la dotazione di nuovi servizi. La prassi non è più quella di cristallizzare aree per servizi e infrastrutture all’interno di uno schema ideale complessivo, ma di specificare le linee d’azione operative per arrivare a fornire servizi in maniera effettiva ed efficace; l’amministrazione pubblica si impegna a costruire e fornire un quadro di riferimento che abbia confini certi e chiaramente definiti (ad esempio sugli obiettivi di interesse pubblico).
Per quanto riguarda le nuove aree di trasformazione introdotte dal PGT, l’Amministrazione stabilisce quote della nuova edificazione da cedere per servizi indispensabili, senza indicare di quali tipologie si tratta, ma distinguendo tra aree a verde, infrastrutture e servizi costruiti.
Su questi ultimi, il Piano, costantemente aggiornato, avrà una lista da cui attingere a seconda della localizzazione del progetto, dei fabbisogni rilevati o prospettati, dell’accessibilità, della dimensione dell’intervento, ecc. Tutto ciò è possibile grazie ad una costante analisi sull’offerta e sul fabbisogno esistente/potenziale monitorata, nelle differenti aree della città, dal Settore Statistica e SIT del Comune di Milano. Il punto di partenza è costituito dalla messa in rete di tutte le più importanti risorse presenti nel territorio di Milano, da quelle economiche, creative, sociali, culturali, a quelle più di natura urbana.
Il nuovo Piano intende in questo modo attivare una strategia di sistema.
Per questo, l’Amministrazione di Milano ha dettato un “programma” connesso a 15 obiettivi che in questo capitolo verranno esplicati attraverso le strategie e le politiche del Piano ad essi connesse.
Gli obiettivi di natura politica, strutturanti per la redazione del Documento di Piano, sono articolati in 15 punti, riferiti a tre politiche principali:
1. La città attrattiva
2. La città vivibile
3. La città efficiente
da cui deriva il quadro programmatico che il Documento di Piano e il PGT in generale hanno come riferimento. Una relazione che intende, senza ambiguità, far emergere il quadro delle “politiche urbanistiche” e, quindi, la visione strategica complessiva per la città di Milano; una strategia quella del DDP che riassume anche i presupposti degli altri due documenti complementari del PGT, cioè PdS e PdR. E’ dalla visione che emerge l’idea di città del nuovo Piano".
La cancellazione dei vincoli e la sua copertura ideologica
"Strategia di Sistema" è la parola magica della neo-lingua del PGT per nominare quella che in effetti è la perdita della possibilità concreta di pianificare i servizi collettivi costituendo una metodologia tutta interna ad una vaga e indistinta razionalità “di processo” che valuterebbe, di volta in volta, ciò che è da realizzare. Si stabilisce così la morte della realizzazione delle opere e dei progetti governata da regole precise e vincoli certi in quanto principi e metodi considerati troppo rigidi e appartenenti alla pianificazione del passato (quella dei piani regolatori). Trasparirebbe nella "mente" del legislatore la volontà di lasciarsi alle spalle "l'inefficienza" dei "piani tradizionali" che "pretendono che la città si adegui forzatamente ad un disegno astratto", sostituendovi la visione di un territorio monetizzato secondo i dettami dell'economia di mercato con le parole d'ordine dell'"attrattività", dell'"efficienza", della "competitività" e della cosiddetta valorizzazione dei "poli d'eccellenza".
Risulta palese la forzatura ideologica: come se le alternative fossero dirigismo/razionalismo/statalismo dall'alto cui opporre un moderno liberismo illimitato dal basso secondo la mitica opposizione rovesciata à la Friedrich von Hayek. Così si parla il linguaggio dell'economia dell'ambiente e dello "sviluppo del territorio" (quella per cui "toh c'è un albero" è buffo romanticismo mentre va sostituito con "qual è la tua disponibilità a pagare per guardare quel vaso di piante?" etc.), si parla di "formazione della città mondiale", di "competizione tra i luoghi", di "city marketing", e così via in una pura logica di mercato deregolato.
Tornando al testo, si passa alle linee d’azione operative e ai quadri di riferimento delle “politiche urbanistiche” racchiusi in una sorta di “programma” connesso a 15 obiettivi di natura politica ed alle tre seguenti nozioni chiave:
Cit. dal Documento di Piano:
"La città attrattiva
Con città attrattiva si intende progettare un riequilibrio di funzioni tra centro e periferia favorendo progetti intercomunali, modernizzare la rete di mobilità pubblica e privata in rapporto con lo sviluppo della città, secondo una logica di rete e ottimizzando i tracciati esistenti, incrementare alloggi e soluzioni abitative anche temporanee a prezzi accessibili, incentivare presenza di lavoratori e creativi del terziario propulsivo e valorizzare le identità dei quartieri tutelando gli ambiti monumentali e paesaggistici.
La città vivibile
Con città vivibile si intende promuovere Milano città agricola, connettere i sistemi ambientali esistenti a nuovi grandi parchi urbani fruibili, ripristinare la funzione ambientale dei corsi d’acqua e dei canali, completare la riqualificazione del territorio contaminato o dismesso, supportare a livello urbanistico, edilizio e logistico la politica di efficienza energetica “20-20 by 2020” dell’Unione Europea.
La città efficiente
Con città efficiente si intende diffondere servizi alla persona di qualità alla scala del quartiere, vivere la città grazie ad una politica sulla temporaneità dei servizi e sull’accessibilità dei luoghi, rafforzare il sistema del verde alla scala locale e di mobilità lenta basata su spazi pubblici e percorsi ciclo-pedonali, garantire qualità e manutenzione degli spazi pubblici e delle strutture destinate a servizio, incentivare servizi privati di pubblico interesse attraverso il principio della sussidiarietà".
Questi tre nodi di riferimento strategici, queste “tre città nella città” sono un prisma opaco attraverso il quale leggere le trasformazioni verso cui viene pilotata la pianificazione urbanistica e sociale metropolitana. Uno stravolgimento razionale e di prospettiva lunga, all’insegna della più profonda deregulation mai progettata da un’amministrazione comunale che cede, per scelta cosciente, ampie fette di governo del territorio alla speculazione e alla gestione privata che realizza, volta per volta, le abitazioni, le infrastrutture e i servizi seguendo la vocazione che le compete ovvero la mera logica del profitto.
Verso una città aperta e sostenibile?
Tentando di rimodulare il rapporto tra la città e il suo hinterland il Documento di Piano fa alcune importanti ammissioni.
Prima ammissione:
"Il PGT legge il territorio milanese e la città di Milano come un sistema di pieni e vuoti ed esplora, nella specificità degli stessi, le opportunità intrinseche, non sempre evidenti, di diventare occasioni progettuali, a tutte le scale, per produrre innovazione e modernità e, soprattutto, qualità urbana. Occorre ricordare che la crescita della città per pura addizione non ha prodotto la necessaria qualità e funzionalità. Il PGT intende riconquistare questi aspetti attraverso la proposizione del concetto di città pubblica e attraverso una metodologia progettuale basata sulla sottrazione, introducendo strumenti di riqualificazione e di sostituzione, ponendo i cosiddetti “vuoti” in condizione di svolgere una funzione strutturante, ecologica, ambientale, sostenibile, per valorizzare al meglio i “pieni” dell’urbanizzato".
La città non è vista come un tutto vivente, con una sua progettualità e una sua storia, ma come una somma di "pieni" (da riqualificare affidando le decisioni - cioè liberalizzando, come dice il testo - la destinazione d'uso ai privati), e di "vuoti" da riutilizzare" per "produrre innovazione e modernità". La continuità della città con la sua storia, con il suo carattere, con i suoi abitanti è cancellata come tradizione e al massimo "museificata" conservando qualche monumento in un nuovo contesto ispirato alla "città attrattiva".
Seconda ammissione:
"La città, malgrado l’intensa attività edilizia degli ultimi decenni, non è cresciuta per numero di abitanti, ha di fatto mantenuto un sostanziale equilibrio demografico, ma ha cambiato il rapporto con il suo territorio".
"Milano oggi ha quindi l’opportunità di immaginare il suo futuro in modo finalmente sostenibile ma, soprattutto, ha la straordinaria occasione, nel quadro di una forte domanda di modernizzazione e riqualificazione, di stipulare un grande “patto trasversale pubblico-privato” per affrontare e risolvere concretamente le criticità peculiari dell’urbanistica milanese e della regione urbana e, soprattutto, della qualità della vita urbana nel suo complesso".
La constatazione è interessante, ma si rifiuta di assumere un atteggiamento critico verso questa trasformazione del centro (e in prospettiva dell'intero territorio urbano) in deserto abitativo riservato a uffici, sedi di rappresentanza e strutture per "grandi eventi" e dell'hinterland in dormitorio con i problemi di vivibilità, sicurezza e traffico pendolare che questo comporta. Un processo che non cesserà se le decisioni continueranno ad essere assunte dai vantati "gruppi portatori di interessi".
Arriviamo così a delineare meglio quale sarà la nuova versione della città vetrina, della città funzionale e prestazionale, della città dello sviluppo e del profitto senza limiti e senza freni.
Sussidiarietà sovracomunale: dal Comune alla Regione
Sotto queste premesse, il PdP viene riempito di progetti sulla mobilità e sul verde, di “città multicentrica”, di riequilibrio centro-periferia, di piano casa (che però non si deve appoggiare sul pubblico ma su un sistema fortemente sussidiario "dando modo così di superare il tradizionale binomio soggetto pubblico-edilizia economico-popolare”) e di efficienza (attraverso l’incentivazione dei servizi privati di pubblico interesse).
Tuttavia non si esplicita quali siano i progetti da accelerare da subito (tranne l'EXPO acceleratore ovviamente), quali gli investimenti e gli interessi in campo e quale potrà essere la qualità del vivere sociale soprattutto dei comuni vicini travolti e assoggettati da una dimensione sovracomunale che così viene descritta:
Cit. dal Documento di Piano:
"Entro questa visione il nuovo Piano ha attivato percorsi di pianificazione comune con Amministrazioni di Comuni limitrofi per favorire così importanti accordi e progetti intercomunali. Il percorso del nuovo Piano intende, in questo modo, anticipare una logica di governo alla scala metropolitana, già oggi presente nell’agenda politica per il prossimo futuro".
E' da notare l'ipocrisia del sopprimere indicazioni precise di piano in cambio di un'ipotesi di "forte regia del Comune" per altro sempre più indebolito di ruolo e di disponibilità finanziarie (una operazione che ricorda quello sul taglio della scala mobile per dare spazio alla contrattazione).
In breve: la Regione detta le linee guida, la Provincia è didascalica, il Comune delega a cabine di regia autonominate che non hanno più nulla di "civico" il compito di "dialogare" con Ligresti o magari con i Casalesi, mentre il resto dei Comuni vale come il due di picche. I cittadini invece scompaiono come lacrime nella pioggia al di là della Cerchia dei Bastioni.
Metodo NON partecipativo
Dal punto di vista del metodo (NON partecipativo), possiamo affermare che questo è il primo PGT al mondo che assume come parte integrante del capitolo sull'ascolto della cittadinanza il programma elettorale del sindaco (Moratti). Sembra paranormale ma il cosiddetto processo di ascolto delle soggettività della città si configura come una rassegna stampa e uno studio di vari blog durante la campagna elettorale della Moratti! Altro che analisi sociologiche preliminari a un governo del territorio. Il dato che emerge da questa raffinata metodologia di ascolto è la richiesta di "valorizzazione" di aree della città. Richiesta avanzata da chi? Dagli stakeholders, ovviamente! Cioè da quei soggetti che in questi ultimi due anni hanno partecipato al processo "partecipativo" nella redazione del PGT. Peccato che questo processo sia stato sotterrato anche per non dover parlare, in alcuna sede pubblica, dell'operazione EXPO in questi termini.
La desertificazione del tessuto sociale urbano
La rinuncia al governo del territorio
Perequazione, compensazione e incentivazioni
Lo "sviluppo" (di cosa?)
Arriviamo così a ricapitolare i lineamenti della nuova versione della città vetrina, della città funzionale e prestazionale, della città dello sviluppo e del profitto senza limiti e senza freni.
Cit. dal Documento di Piano:
"Per tali ragioni si è deciso di strutturare un percorso in grado di rapportarsi con tempi attuativi differenti: coordinare le trasformazioni in corso ed allineare l’interesse pubblico allo scenario del Piano (accordi di programma in corso o in via di definizione); snellire ogni procedura per un’attuazione più celere degli obiettivi urgenti (opere e trasformazioni in vista di Expo 2015). […] La flessibilità, cioè quello che si è definito mix funzionale libero costituisce l’aspetto qualificante le scelte in merito alle destinazioni d’uso degli immobili della città consolidata, la cui regolazione è affidata al Piano delle Regole [...??]. La scelta della destinazione d’uso è, infatti, liberalizzata e quindi la proprietà può scegliere quale destinazione attribuire ai beni immobili. Una scelta importante per la città di Milano quella del libero mix funzionale, in linea con molte metropoli europee. In questa maniera s’intende favorire il più possibile Milano quale laboratorio privilegiato per la creatività, incentivando tutte quelle forme di terziario propulsivo già così tanto correlate con la cultura Milanese. Basti pensare al mondo del design e della moda su tutto".
Il dato politico fondamentale è quindi l'esplicita rinuncia del PGT, cioè del piano di governo del territorio, a governare per l'appunto il territorio, ovvero l'autocastrazione della politica che attraverso i propri strumenti legislativi definitivamente svuotati delega interamente alla libera razionalità economica la determinazione dello "sviluppo" del territorio; uno "sviluppo" ben lungi dal riguardare la soddisfazione dei bisogni reali, il benessere reale, la protezione e la cura di fasce deboli e dell'ambiente, di spazi sociali e di ciò che è bene comune; la cura vicendevole tra città e cittadino; uno "sviluppo" che non potrà che essere lo sviluppo degli scambi ineguali, lo sviluppo delle remunerazioni dei privati, delle rendite fondiarie e immobiliari.
Lo scambio delle destinazioni d'uso dei territori rende di per sè non prevedibile un piano di trasporti o altri servizi sul territorio. Si tratta quindi di un documento che fa vedere i brillantini dell'immaginario della città attrattiva ridotta a logo, a city marketing, a città della moda in toto, talmente generico da non dire neppure dove verranno reperiti i soldi.
No Pianificazione = No Risorse = No Pubblico significa che viene sacrificato ciò che esce dalla logica della competitività dei privati nella corsa al cannibalismo reciproco, cioè tutto quello che è nell’interesse di chi concretamente vive sul territorio, cioè del "cittadino concreto" che ha bisogno del medico, della scuola, del verde, del tram qui, del welfare. Materialmente, il meccanismo della "perequazione" rivolto a "soggetti astratti", stando alla quale c'è meno verde qui perché ampliano il parco di là, non ci tocca come Soggetti Reali - soggetti reali cui vogliamo rivolgerci per rivendicare un'altra politica del territorio.
Quella che sembra la debolezza del PGT è in effetti la sua forza. Nel sancire l’inesistenza dichiarata di un ruolo di progetto del pubblico, nel concordare col privato tutto a partire dai servizi - neppure si dice più "pubblici" - da gestire in regime di sussidiarietà, nel distribuire in funzione dei "poli attrattivi che finalizzano", il resto rimane deserto, fatta eccezione per il centro cittadino, desertificato dal punto di vista abitativo ma mondo a parte come luogo delle funzioni di eccellenza.
La semplificazione degli urbanisti
Sul fatto che venga spazzata via la logica della pianificazione ci aspettiamo che gli stessi urbanisti abbiano tanto da dire, nella misura in cui divengono meri esecutori dei dettagli mentre viene dimezzata la loro area di competenza come progettisti, ovvero la funzione politico-sociale di creatori degli spazi del vivere urbano.
La perequazione
La stessa "perequazione" è lo strumento per la salvaguardia dei diritti (edificatori, e quindi di reddito), non certo per la pianificazione dei diritti della città pubblica. Di fatto stabilisce una norma che regola una classifica in cui hanno dignità di diritto solo i fattori che producono edificazione; un meccanismo compensatorio nel quale tutti hanno diritti edificatori che - nota bene - si possono scambiare, secondo una pura logica di mercato di compravendita su piazza pubblica di diritti edificatori.
D'altra parte, emerge la difficoltà di attuazione di questo progetto laddove dovesse dimostrarsi prevedibilmente impossibile per tanti proprietari trovare un compratore per i propri diritti di edificazione. Così di fronte alla debolezza di chi vende sarà chi compra ad essere molto più forte ed il mercato di fatto cederà, nella indeterminatezza della allocazione delle risorse sul territorio, tutto quanto al "soggetto forte", mentre il "debole" per potere contrattuale non avrà certezza del diritto. A questo proposito risalta a pagina 179 un passo eccezionale:
Cit. dal Documento di Piano:
"Il problema di maggior rilievo per l'amministrazione risiede nella possibilità, per ogni proprietario di un diritto edificatorio, di trovare un acquirente, e quindi, in altri termini, di essere indennizzato per la mancata valorizzazione del proprio terreno destinato a finzioni collettive".
Quindi, in altri termini, di essere indennizzato per la mancata valorizzazione del proprio terreno destinato a finzioni (sic!, forse funzioni, ah i lapsus rivelatori!) collettive.
Il mix funzionale libero
La definizione di "mix funzionale libero" è assolutamente fantastica, sia nel senso della bellezza artistica, quasi ossimorica della definizione, sia nel senso della irrealizzabilità, essendo chiaro a qualsiasi soggetto che pratica un'azione territoriale che la spinta alla omologazione funzionale è prevalente rispetto alla scelta del mix. Nel cosiddetto mix funzionale certe funzioni non vengono attribuite esplicitamente ma si rimanda al privato. Salta cioè qualsiasi vincolo. Non esiste programmazione per esempio sul piano sociale della tipologia abitativa che si va a costruire o del soggetto che andrà a vivere in certe zone, il che in una prospettiva di densificazione (aumenti in verticale etc) ci porta dritti a parlare chiaramente di ghetti. Abbiamo un processo di gentrificazione, cioè di espulsione radiale dei soggetti a basso reddito. Rispetto ad una analisi sociologica preliminare corrispondente a una mappa di servizi, una mera borsa di compravendita immobiliare produce come risultato "geografico" una vera e propria desertificazione.
L'orizzonte temporale
Il PGT non pensa alla città che già esiste. Non c'è rispetto dell'esistente. Non c'è nessun rispetto per il passato così come non c'è nessuna considerazione di prevedibilità di un orizzonte futuro. Non c’è riuso, non c'è manutenzione, non c'è riciclo della città, non c’è un piano finanziario che possa corrispondervi.
Il principio economico che governa il PGT è quello del puro darwinismo sociale.
Le rinunce sul sistema dei trasporti
Il sistema dei trasporti appare come la parte più evanescente perché più indeterminata. Si fanno però due esplicite rinunce: si rinuncia al ferroviario come potenziamento infrastrutturale; cioè non alle tracce, ai vettori, alle fermate, ma alle infrastrutture. La debolezza maggiore è quella relativa al secondo passante ferroviario, ciò che potrebbe far decollare propriamente il sistema ferroviario. Nell’ambito di queste non-scelte vengono dimenticati i sistemi deboli di mobilità: non si sviluppa nulla che stia sotto il livello dimensionale della automobile, il che ha conseguenze che si possono facilmente immaginare sul piano della sostenibilità ambientale.
Un piano di governo che lascia al mercato la progettazione del territorio non permette di pianificare né governare alcunché Molto significativo è ad esempio il fatto che "l'assetto di rete" non prende in considerazione lo sviluppo dei "sistemi deboli" (bici, pedoni...) in quanto gli scenari sono talmente imprevedibili che potrebbero variare radicalmente in funzione di nuove organizzazioni di spazi urbani. Ed così si è deciso di non progettarli nemmeno, tanto nessuno protesterà. Poche ma chiare parole vengono spese per i grandi progetti viabilistici onerosi, pagati con tagli e privatizzazioni. Su tutti spicca la famosa Gronda Nord e, soprattutto, il megatunnel Linate-Rho; un obbrobrio tanto economico quanto per i disagi che crea alla città, trattandosi della rinuncia a qualsiasi idea che non sia farvi passare centinaia di macchine. Un modello di mobilità ribadito alla faccia dei polmoni dei milanesi: al di là delle belle parole sulla città pubblica il PGT non difende nessun bene comune come il diritto alla salute.
Costi e tagli
Viene scritto, ad ogni modo, quanto "costano" a grandi linee certe "infrastrutture", con l'esplicita ammissione della mancanza di fondi per realizzarle. Vengono indicati 6 miliardi e 108 mila euro in totale di cui sono stati stanziati poco più di due miliardi - "accidentalmente" pari a quelli recuperati dalla legge 133 (la Tremonti dei tagli alla scuola). Si tratta quindi di un conto preventivo vincolante che viene presentato al pubblico per ricollocare risorse inutili come quelle sprecate per l'educazione. Ciò che viene stanziato da una parte è equiparabile a quanto viene tagliato altrove: potrebbe trattarsi di una sfortunatissima coincidenza o di una congiunzione astrale negativa, oppure di una scelta strategica del legislatore.
[tabella omissis]
Edilizia convenzionata (e conveniente)
L'edilizia convenzionata è prevista solo come appendice dell'edilizia normale. Viene infatti detto che il privato che decide di realizzare una parte del volume in edilizia convenzionata (che non è la casa popolare, ma diciamo si configura come "aiutino") riceve un "compenso" in termini di aumento di volumetria edificabile in più rispetto a quella già prevista dal piano! Realizzare abitazioni in edilizia convenzionata al fine di procurarsi nuova volumetria, molto più redditizia (cioè con margini molto diversi): ecco apparire un'intenzione "etica" deformata in un volto mostruoso.
Lo spazio sociale coincide con lo spazio commerciale
Esempi di ridefinizioni linguistiche
Precarizzazione del territorio
D'altra parte, nella mente perversa del regolatore lo spazio sociale è contemplato solo come arena di scambio e consumo, come spazio commerciale. C'è creatività linguistica. Ci sono le curiose ridefinizioni del verde in verde fruito, dei parchi come arredi urbani di superfici per altro già esistenti, dei "raggi verdi", delle "strade-parco"; ma ci sono anche le shopping-strips come luoghi di "aggregazione". Si veda ad esempio il "boulevard" di Buenos Aires-Padova(!) o la "rambla" di Sempione ricondotti a pura funzione commerciale. Siamo all'eterogenesi, se non dei fini, almeno delle parole? La rambla (in qualche modo anche il boulevard) sono per antonomasia luoghi dove si passeggia per passeggiare, dove si cammina per camminare, dove si perde tempo senza l'obbligo di comprare o vendere alcunché Ma la "valorizzazione" del territorio non ammette perdite di tempo; il nostro legislatore non riesce a pensare ad uno spazio pubblico dove non ci sono negozi. La razionalizzazione economica trasforma il verde in aiuola logistica, in erba di consumo: vero fumo linguistico. Prendiamo viale Certosa: ora potrebbe essere definito zona verde il tratto in cui passa il tram. Ma se lo ripavimentiamo, magari lo facciamo anche "più carino", con due vasi, et voilà: il "raggio verde". Ora nella "mappatura dei pieni e dei vuoti" questo viene chiamato "pieno". Quest'operazione geniale viene in conclusione nominata come "diminuzione dello sfruttamento dei suoli"! La "riqualificazione linguistica" non è una semplice presa in giro.
Scompaiono i bambini
Il soggetto astratto, che percorre il deserto tra casa e azienda, tra azienda e shopping-strips, il consumatore modello cui si rivolge questo PGT non contempla l'esistenza di soggetti marginali che faticano ad essere inglobati in questa logica: nel PGT non esistono i bambini. Come se a Milano non ci fossero bambini, che vanno a scuola, che giocano, che devono imparare a vivere la città e ad esplorare un territorio per diventare autonomi. Piste ciclabili intorno alle scuole? No, grazie. Zone protette intorno alle scuole d'infanzia? No, grazie. Servizi dedicati (biblioteche, etc)? No, grazie. Forse un giro panoramico a Lione, Madrid o Monaco potrebbe essere illuminante per i nostri legislatori?
Scompare l'industria
Procedendo per sottrazioni materiali, dal PGT risulta scomparsa l'industria. Sembra incredibile ma la INNSE - per dirne una a caso - diventa una tipologia non catalogata. Non ci sono operai: c'è solo un terziario avanzatissimo, talmente avanzato che è scappato in avanti e si è perso trovandosi in piena crisi. Mentre sta collassando la dimensione del lavoro, quel sistema del lavoro in cui siamo vissuti per almeno 15 anni, viene sgretolato il sistema di servizi e infrastrutture che ha sorretto quella dimensione perfino alle condizioni minime di sopravvivenza.
La precarizzazione del territorio è evidente sotto tutti gli aspetti: rispetto alla prevedibilità, al suo orizzonte temporale di riproduzione, rispetto a spazi, tempi, spostamenti, al suo percorrimento, rispetto alla sua abitabilità, rispetto allo stesso avvelenamento ambientale. Chi sta facendo dentro questo iter legislativo un ragionamento serio sulla distruzione del sistema idrogeologico dalle Alpi al pedemontano? Chi sta considerando il rapporto tra inquinamento e malattie? La precarizzazione del lavoro e quella del territorio si rispecchiano e condizionano a vicenda come parte di un medesimo fenomeno di disgregazione sociale.
Una storia distorta dal legislatore è proprio quella dell'autorganizzazione della città come sistema che si costituisce nel tempo dal continuo sovrapporsi di serie storiche agenti sulle strutture (case, vie o piazze), attraversate dalle relazioni e dalle dinamiche sociali di soggetti (soggetti, non immobiliaristi) che proprio interagendo disegnano il tessuto vivente e vissuto dell'urbe. La città si impone sulla dispersione della campagna anche perché formata da quest'incontro, perché soggetti sviluppano reti e connessioni impossibili da riprodurre artificialmente. La città del PGT è invece quella recintata da alcuni poteri contrattuali determinanti che "approfittano" di strumenti di neutralizzazione come la "perequazione" ingabbiando soggetti deboli disaggregati, controllati nell'impossibilità di creare quelle dinamiche di autorganizzazione e autodeterminazione che servono alla città per emergere come tale. La scomposizione in Ambiti di Trasformazione Urbana, Periurbana e di Interesse Pubblico Generale non sono altro che una somma di progetti (vaghi) su aree ben definite, senza un approccio di sistema che parli al sistema delle relazioni tra persone anziché tra immobiliaristi.
Quello che è successo all'Aquila è esattamente questo: non permettere l'autonomia dei soggetti, e lavorare invece su un controllo stretto e su schemi preordinati.
La scelta non è tra dirigismo e liberismo come cavallo di battaglia ideologico: si può scegliere di lasciare liberi gli immobiliaristi e ingabbiare i cittadini, oppure si può scegliere di liberare i cittadini e regolare gli immobiliaristi. Da qualche parte bisogna "sottrarre" e appare evidente la scelta del legislatore.
La città del profitto e del controllo
In questo senso, Milano sembra incarnare il laboratorio italiano che più tende ad avvicinarsi ai modelli mondiali di "città del capitale globale" e di "metropoli totale". Nel suo piccolo, una New York o una Los Angeles nostrana, che cerca di riprodurre i loro aspetti repressivi e disciplinari. Una città del profitto e del controllo, per l'appunto. Controllo e autocontrollo a monte sui corpi e sulle scelte delle persone, sui comportamenti e sui termini della comunicazione, sul tempo di lavoro, sui tempi di vita e sulle relazioni sociali. Con i ricatti economici e morali, la flessibilizzazione e la precarizzazione selvagge del lavoro e della vita, un governo ferreo delle reti produttive e comunicative, la disinformazione emergenzialista, l’invasività tecnologica e, quando serve, una repressione disciplinare classica, fatta di polizia e galera.
Dentro questa "sottrazione", non c'è da stupirsi che in questa città avanzino da più parti ondate politiche e culturali di discriminazione, di epurazione di ogni persona considerata diversa dai modelli conformi al pensiero unico del moderno ed elitario capitalismo globale. Si possono ritagliare arbitrariamente gruppi di ogni genere da escludere e tutto ciò può avere molte definizioni: Fascismo, differenzialismo, razzismo, xenofobia, ecc.; con un obiettivo ricorrente: il controllo delle classi dominanti sulle subalterne che alimenta odi, paure, avversione e rifiuto, in un conflitto permanente fra poveri e sfruttati che li mantenga tali e separati.
Quest'istituzione totale è il volto reale dell'ideologica libertà della deregolazione. Nella sottrazione dell'esistente scompare tutto il territorio come sedimentazione della storia, del lavoro, della cultura e dei cicli della natura. Rimane un arcipelago anonimo di cose, una rete di assi e poli logistici e corridoi di smistamento; un supporto inerte da occupare o edificare, una piattaforma neutrale per l'ingombro, lo stoccaggio, lo smistamento; ricettacolo di margini di profitto a monte e deposito di rifiuti a valle.
Dietro gli apparati di questo sistema, dietro le leggi e le procedure che sostengono e concretizzano la sua essenza autoritaria e produttiva, Milano "cresce" sul piano urbanistico riconsegnando territori e volumi nelle mani della speculazione finanziaria, dell'immobiliarismo e del commercio, mentre si trasforma sempre di più in una macchina sociale che stravolge definitivamente assetti sociali e vivibilità. In sinergia con le altre istituzioni locali (Regione e Provincia) il governo metropolitano rimodula, definisce e consolida privatizzazioni di sanità, servizi, infrastrutture e reti di modernizzazione, secondo criteri di mercato, di profitto e di controllo sul territorio, sulle dinamiche sociali e sui suoi stessi abitanti. La vita sempre più frenetica, caotica e irrespirabile ne fa un luogo di sfruttamento totale, dove tempo di lavoro e tempo di non lavoro si sovrappongono e si compenetrano irreversibilmente. Una ristrutturazione e una trasformazione iniziate molti anni fa, giunte ormai ad un punto avanzato e soffocante che bisogna cercare di fermare ed invertire. E per tentare di modificare il processo di mutazione, apparentemente irreversibile, di questa città, bisogna comprendere i meccanismi della macchina sociale in atto e i modi per incepparla e fermarla.
La necessità di un approccio sistemico
I fattori reali che costituiscono nel loro sistema di relazioni il territorio reale sono connessi in modo che una modifica in un punto condiziona la modifica di tutti gli altri. Favorire un polo di attrazione periferico con un centro commerciale produce congestione del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi etc; al tempo stesso, stimola l’apertura di altre valvole commerciali.
E se il territorio è un sistema, anche le azioni che lo trasformano devono essere viste in modo sistemico per mantenerne la coerenza nel tempo - come per fronteggiare i dissesti delle catastrofi "naturali". In questo senso l’uso del territorio e le sue trasformazioni devono essere governate nel loro insieme attraverso un approccio sistemico. E non c'è un metodo moderno ed efficiente da inventare per governare sistematicamente: c'è già, ed è propriamente quello della pianificazione territoriale e urbanistica.
Sovrapposizione tra PGT ed Expo 2015
Emerge una continuità logica tra Concept Masterplan della città dell'Expo e Documento di Piano del PGT. Seguendo fin dai primi stentati passi la tragica operazione Expo - che fissa a modo suo e fuor di retorica una scadenza precisa per il territorio - la Rete No Expo ha descritto questo logo, questo strumento di marketing, come motore del mercato immobiliare, come catalizzatore di certi interventi infrastrutturali, come drenaggio di ricchezza dal pubblico al privato - tolto il fumo del tema espositivo.
Alla luce delle analisi del PGT emerge come i due strumenti siano sfacciatamente sovrapponibili al punto che l'uno sembra la traduzione dell'altro nel senso che il PGT svuotato è per l'appunto ciò che spiana la via all'assalto alla diligenza per lo scoccare dell'ora fatale del 2015.
Nessuno scenario successivo al 2015 viene per altro contemplato.
Il Concept Masterplan di Expo
A settembre 2009, con la presentazione del Concept Masterplan (tipico documento evanescente di indirizzo di tre paginette), l’operazione Expo è entrata nella fase pre-esecutiva, sempre che crisi e scarsità di soldi non facciano saltare del tutto “il grande evento salvifico”. La rinuncia a padiglioni, torri e l’utilizzo parziale dei padiglioni fieristici di Rho costituiscono sicuramente una vittoria parziale per chi ha contrastato da subito Expo, ma non spostano il problema. Non è la realizzazione di un Expo "diffuso", "sostenibile", magari "bello", o "rosso", a cambiare i termini del problema. Neppure il Concept Masterplan dice nulla rispetto agli accordi con i proprietari dell’area del sito Expo (Fiera e Cabassi) ed è in tal senso complementare al PGT perché passa la palla ad altri tavoli, sicuramente non pubblici, per definire progetti e soddisfare i diversi interessi in gioco (Euromilano, Fiera, Banche, Ligresti, Compagnia delle Opere). Nel vuoto del Masterplan, che rispetto al dossier di candidatura si limita a parlare del sito Expo e delle opere “di facciata”, brillano perle di fanta-urbanistica come le vie d’acqua (20 km di canali tra la Darsena e Rho, ripresi infatti dal PGT, costosi e inutili) o reiterati progetti come quello di Boeri sullo sfruttamento delle cascine per attività ricettive - aree che vengono definite vuote mentre in realtà comprendono 70 cascine vive, attive, come Torchiera, o Monluè fino all'anno scorso, dove ci sono contadini e attività agricole, o dove vivono rom. Cascine che subiranno l’impatto delle grandi opere tangenziali e autostradali che il Masterplan ribadisce (laddove invece fa sparire una linea metropolitana, alla faccia della sostenibilità) e che non possono sicuramente convivere con l’agricoltura periurbana che i promotori di Expo vorrebbero rivalutare. Si scrive nel Masterplan che mancano i soldi, ma non si rinuncia a investire su opere "pubbliche" destinate solo a servire Fiera ed Expo, mentre il trasporto pubblico locale collassa. Si lascia intendere di volare alto con visioni di tavoli, orti, uccellini e fiori profumati per nascondere la realtà di un Expo che, come il PGT, è funzionale ai privati, ai costruttori, per definire gli interventi concreti. Come fa Euromilano, ossia Legacoop e Banca Intesa, per l’area del villaggio Expo a Cascina Merlata, con residenze, alberghi, parcheggi pullman, zone commerciali: una città nella città. E i servizi? E le connessioni sociali con il territorio circostante? Ad Aprile 2010, il Masterplan diventerà il piano definitivo di Expo 2015, ma nel frattempo, sul territorio, cantieri, alberghi e richieste edilizie su aree vanno avanti come se i proprietari sapessero già cosa Masterplan e PGT consentiranno. Alla faccia di chi crede alla svolta ambientalista del PGT e ad una Moratti buona contro un cattivo Ligresti palazzinaro.
Fermare il PGT!
Così come l'unica exit strategy per salvare la città, il territorio e quel poco di pubblico che rimane è l'uscita dall'operazione Expo, parimenti la prima conclusione che si impone come proposta urgente a partire dalle presenti analisi è: fermare il PGT!
Come si è visto dal metodo, questo PGT è scritto dai soggetti a cui si rivolge: privati, proprietari di terreni e immobili, costruttori che determineranno gli assetti futuri del territorio all'interno delle logiche di mercato. Senza vincoli, liberi di "approfittarsi" delle risorse.
E non parliamo per forza del privato delinquenziale che già spadroneggia (come da recenti inchieste) ma anche del miglior privato possibile senza soluzione di continuità, essendo racchiuso questo destino nel gioco stesso dei poteri contrattuali svincolati. Alla precarizzazione del lavoro si affianca quella del territorio e dei servizi, l'aumento delle relative tariffe e la diminuzione della loro qualità e sicurezza seguendo il contenimento dei costi, infine l'aumento di consumo di suolo e l'edificabilità selvaggia come ultima spiaggia.
E' un PGT che rispecchia il volto degli agenti economici che lo scrivono. Così tutta la partita del territorio riguarda la democrazia: chi decide? E la prima alternativa a questo modello di città desertificata è una città; e la prima alternativa a questo PGT è un PGT, una politica del territorio con un approccio sistemico alle persone, un PGT deciso da qualcun altro, cioè da tutti gli altri, dalle persone, dai Soggetti Reali. E la prima urgenza è fermare questo PGT.
PROPOSTE ALTERNATIVE PER UN’ALTRA CITTÀ POSSIBILE
In conclusione, vogliamo soltanto accennare qui a quali potrebbero essere i tratti di un'altra città possibile, una città possibile partendo proprio da ciò che viene sottratto da questo documento di non governo del territorio.
Un’altra città significa un altro modo di viverla e di trasformarla, calibrando il tutto con e per le donne e gli uomini che la vivono, la abitano e la attraversano quotidianamente.
Un’altra città è caratterizzata da una dimensione democratica intesa come partecipazione diretta e solidale nella gestione del patrimonio comune, delle risorse e della vita collettiva.
Un’altra città deve contrapporre al PGT un Progetto, collettivo e orizzontale, di Autogoverno dei Territori che la compongono.
Un progetto che veda emergere dentro la macchina del PGT, che sta scaldando i motori e sta tessendo la rete del profitto speculativo e del disciplinamento sociale, una forza sociale che possa fermarla costruendo una dimensione metropolitana alternativa di lotta e di socialità.
La città della solidarietà
- dei diritti e della libera circolazione
- dell’accoglienza e della cittadinanza
- delle culture e della loro autodeterminazione comunicante
La città del welfare metropolitano
- del diritto al reddito diretto e indiretto
- dei servizi sociali pubblici, gratuiti e di qualità
- del diritto alla casa e all’abitare dignitoso e sufficiente
La città dei saperi autogestiti
- della salvaguardia della scuola pubblica
- della libera creatività e della sua libera diffusione
- dell’autoproduzione culturale e artistica
La città della qualità ambientale
- dello stop al consumo speculativo di suolo
- del diritto alla mobilità per tutti contro traffico e inquinamento
- dell’aumento del verde pubblico e dei parchi
La città del conflitto
- del protagonismo politico e sociale dei soggetti, individuali e collettivi, che la abitano, la vivono e la attraversano quotidianamente
- dell’autodeterminazione dal basso delle scelte e dei progetti
- delle lotte autorganizzate e delle vertenze territoriali e metropolitane
La città delle reti di lotta e autogoverno territoriale
- delle reti politiche e sociali di confronto e di lotta a partire dai bisogni e dai diritti negati
- delle reti territoriali e metropolitane di solidarietà e di vertenzialità
- delle reti dell’autogestione, dell’autorganizzazione e dell’autoproduzione culturale
[Appendici omissis]
Dopo lo scontro sull’urbanistica con Palazzo Marino, Salvatore Ligresti benedice il Piano di governo del territorio della giunta Moratti: «Sembra un ottimo piano perché rispecchia quelle che sono le esigenze attuali di Milano: creare molto verde e spostare volumi dove c’è bisogno e quindi riordinare la città». E sulla richiesta di commissariamento del Comune presentata lo scorso settembre per sbloccare tre progetti edilizi, il costruttore dice: «Bisognava smuovere qualcosa». Da Ligresti anche la conferma della modifica per il grattacielo "storto" di Citylife: «Cercheremo di raddrizzarlo un po’».
Sono passati soltanto tre mesi dalla dichiarazione di guerra sull’urbanistica lanciata da Salvatore Ligresti a Palazzo Marino. Eppure sembrano trascorsi secoli dalla tensione che scatenò la richiesta di commissariamento ad acta del Comune presentata dal gruppo del costruttore per sbloccare tre progetti fermi da anni sulla carta. Almeno ascoltando le parole dello stesso Ligresti. Che, per la prima volta, ha parlato ufficialmente dello scontro scatenato con l’amministrazione. Difendendo così la scelta di quella richiesta, poi ritirata in extremis: «Bisognava smuovere qualcosa. Anche per tenere sveglia l’attenzione su quello che si realizza nell’incontro di oggi (il riferimento è al cantiere di Citylife, ndr)». Ma soprattutto dando un giudizio positivo sul Piano di governo del territorio, il documento che manderà in pensione il vecchio Piano regolatore e che il consiglio comunale dovrà iniziare a discutere a giorni. Ligresti in passato non avrebbe nascosto le sue perplessità. Ma adesso dice: «Sembra un ottimo piano perché rispecchia quelle che sono le esigenze attuali di Milano: creare molto verde e spostare volumi dove ce n’è bisogno, quindi riordinare la città». Parole che, però, scatenano la reazione del Pd. «Sono dichiarazioni gravissime - attacca il capogruppo in Provincia, Matteo Mauri - Ligresti non ha fatto altro che confermare il sospetto che già avevamo: le richieste di commissariamento servivano a fare pressione in vista dell’approvazione del Pgt e del Piano provinciale».
È stata una luna di miele quella consumata durante la pubblica cerimonia di inaugurazione del cantiere di Citylife. Lì, dove un tempo sorgevano i padiglioni dell’ex Fiera e dove sta prendendo forma un nuovo quartiere, l’ingegnere sedeva in prima fila ad ascoltare - tra gli altri - i ringraziamenti di Letizia Moratti per aver creduto e investito nel progetto. Un progetto da cui Ligresti, assicura, non ha intenzione di uscire cedendo la propria quota a Impregilo: «Non ci pensiamo neanche». Concreta, invece, la modifica per uno dei tre grattacieli, la torre "storta" di Daniel Libeskind che ieri ha presentato anche il nuovo palazzo residenziale da 26 piani su piazzale Arduino. «Cercheremo di raddrizzarla un po’ - ha spiegato l’immobiliarista - in fase esecutiva si cerca di risparmiare e una torre storta costa di più».
Il taglio del nastro del cantiere, tra autorità e visita agli scavi che si concluderanno entro il 2015, è sembrata l’occasione per infondere una nuova ventata di ottimismo anche in tema di crisi economica. Per Claudio Artusi, amministratore delegato di Citylife, «i lavori comporteranno un investimento di circa 1,5 miliardi di euro al netto dei 523 milioni per l’acquisto dell’area e daranno lavoro a 2mila persone. Altrettanti saranno gli occupati nell’indotto». E sulle vendite delle case: «Sono iniziate lo scorso marzo: già firmati contratti preliminari di acquisto per 100 milioni, e ci sono trattative in corso per altri 40 milioni».
Cancelli agli ingressi del parco della Martesana, da chiudere ogni sera, per evitare le feste improvvisate di giovani extracomunitari. Una decisione che il Comune ha preso senza badare ai diritti dei ciclisti. Sì, perché le cancellate che stanno spuntando - in via Perticari come in via Agordat - chiudono anche la pista ciclabile che corre lungo il parco, una delle migliori in città, che arriva fino a Cassano d’Adda. Così i ciclisti che di sera si trovano a passare sulla pista accanto al Naviglio nel tratto del parco, rischiano di trovarsi imprigionati. «Ho segnalato il problema a chi sta montando il cancello - racconta Luca Martinelli, ciclista e residente della zona - ma mi è stato risposto che nel progetto di chiusura non è stato preso in considerazione il problema della pista ciclabile».
Insomma per ora l’opera di recinzione - con cartelli che indicano la chiusura serale entro le 21 del parco intitolato ai Martiri della libertà iracheni - va avanti nonostante le segnalazioni di diversi ciclisti abituati a usare la pista anche di sera, rientrando a casa dal lavoro. L’obiettivo è quello di evitare la presenza serale di giovani peruviani e ecuadoriani che ascoltano musica ad alto volume.
Attacca il consigliere Pd Maurizio Baruffi: «A nessuno verrebbe mai in mente di recintare una strada dove circolano le auto, ma evidentemente per questa amministrazione le biciclette non hanno pari dignità». I sostenitori delle due ruote, intanto, stanno mettendo a punto una manifestazione di protesta contro un altro luogo vietato alle due ruote: il nuovo tunnel in zona Garibaldi. Lì Ciclobby sta organizzando per sabato mattina un presidio di ciclisti.
Un percorso ciclabile che dal Duomo arriva a Porta Nuova, attraversando Brera, come preludio al primo Raggio verde. Un progetto che l´amministrazione aveva già accarezzato - fino a delinearlo nella sostanza - due anni fa, ma che solo ieri, dopo stop e ritardi, è arrivato in giunta per il necessario avvio burocratico. Parte così il primo dei tre progetti di piste ciclabili che dal centro città raggiungeranno corso Monforte, corso Sempione e, appunto, i Bastioni di Porta Nuova.
Ieri sono stati approvati sia il progetto preliminare del "Piano mobilità ciclistica-rete ciclabile centro storico" sia il progetto definitivo per il primo lotto (con un importo stimato di 5 milioni e 500mila euro): il primo tratto su cui verrà disegnata la pista ciclabile è quello che va da via Monte di Pietà a Porta Nuova. Considerando i tempi tecnici per la gara e le autorizzazioni esecutive, però, gli operai non saranno per strada prima di otto, dieci mesi. Di certo il percorso - ora gli uffici dell´assessore ai Lavori pubblici Bruno Simini dovranno studiarlo nei dettagli - avrà anche zone miste, in cui far convivere pedoni e due ruote: a Brera, per esempio, dove si sta disegnando una nuova isola pedonale. La filosofia resta quella di cambiare passo sulle politiche per la mobilità ciclabile: non più spezzoni di piste, ma un percorso quanto più possibile continuo, risistemando il tracciato esistente e costruendone uno ex novo, che porti i milanesi in bici dall´Ottagono fino al Raggio verde.
Un anno e mezzo fa il progetto del primo percorso ciclabile del centro sembrava pronto per l´approvazione: ma era arrivato imprevisto lo stop, perché nella stessa giunta c´era chi si preoccupava della perdita di posti auto a favore della pista per le due ruote. Ora la strada per la nuova pista sembra segnata. Ma in forse ci sono altri progetti che, nelle intenzioni, dovranno in futuro collegare il Duomo a Porta Romana e a Porta Ticinese.
postilla
Quando si parte da sottozero qualunque progresso infinitesimale è pur sempre un passo in avanti, o magari come in questo caso una pedalata, che porta un po’ più in là. Il sottoscritto non è un appassionato catastrofista, che non vede l’ora di indignarsi davanti a qualunque cosa: proprio oggi ho addirittura votato per il nuovo nome della Piramide di Formigoni I, ovvero il nuovo grattacielo della Regione (per la cronaca, ho proposto “Gioia”, forse si capisce perché).
Ma con tutto l’ottimismo possibile, qui la montagna ha addirittura bisogno di inseminazione artificiale, trattamenti nucleari e parto cesareo, per partorire quel tremante topolino. Una manciata di centinaia di metri fra le strade supercentrali terziarizzate, ed altre strade supercentrali magari lievemente meno terziarizzate: e dai! “Mobilità ciclabile” è una cosa seria, che in bocca a certe amministrazioni a quanto pare non può che diventare tragicomica. Per adesso lasciamoli lì a lavorare soprattutto con gi uffici stampa che tentano di gonfiare l’effetto annuncio, e continuiamo a pensare a cose più divertenti, utili, e puntualmente ignorate da lorsignori, come il progetto Grande Gronda presentato a Cassinetta di Lugagnano nel quasi silenzio della stampa, e che per 170 km di percorso metropolitano chiedeva cifre paragonabili a quelle della manciata di metri autopromozionali di questa Kriptonite Verde. Brr…. (f.b.)
Già la letterina del sindaco Letizia Moratti (“Cari amici…”) che apre l’opuscolo, ridicolmente intitolato “el nost milan - la nostra milano - our milan”, rivela lo scopo grossolanamente propagandistico dell’operazione. Abbiamo ricevuto a casa, come tutte le famiglie milanesi, queste paginette, smilze eppur egualmente irritanti, che vorrebbero farci tenere chiusi gli occhi, tappate le orecchie, turato il naso. Tre motivetti, nella letterina, riassumono i risultati ottenuti. I) “Milano più vivibile”. Al contrario, il problema principale, riassunto di tutti gli altri settoriali, è proprio quello dell’invivibilità attuale della città «ottenuta» nel lungo periodo dominato dal centrodestra. È talmente grave il peggioramento di tanti aspetti relativi all’abitarci e al frequentarla, che la qualità della vita e il valore, diciamo fisico, della città sono caduti a un grado non immaginabile ai tempi della Milano famosa per funzionalità e affabilità. II) “La nostra città è oggi più efficiente”. Lo sarebbe, si legge, soprattutto grazie al servizio di un call center unico 02.02.02, sempre aperto (e sempre occupato). Evidentemente il sindaco non conosce quali erano i fattori reali della vecchia efficienza, quella che aveva assicurato alla città il primato nella gestione dell’economia, dei trasporti, delle scuole, della cultura… III) “Milano è infine più sicura”. Quando mai è stata davvero insicura? La città sarebbe più sicura, si legge, perché “il numero di reati è diminuito del 16%” e perché “ci stiamo prendendo cura dei nostri ragazzi anche attraverso l’ordinanza che vieta l’alcol ai minori di 16 anni”. Si burla di noi, la signora sindaco.
Ma guardiamo ora dentro l’articolazione dei capitoli in paragrafi.
Nel primo, colpisce subito, circa “Ambiente”, una informazione sensazionale: “abbiamo piantato 128.000 alberi”! Una bufala gigantesca. Claudio Abbado (tutti ricorderanno la notizia, tanto forte ne fu la risonanza) aveva posto come condizione del suo ritorno a Milano la piantumazione di 90.000 alberi. Il sindaco non rivendicò alcun successo già conseguito. Anzi, accennò alle difficoltà di messa a dimora in piena terra e dunque alla probabilità di ricorrere ampiamente a “grandi vasi” (e, aggiungiamo, a miserevoli pianticelle o arbusti). Infelice inammissibile soluzione. L’amministrazione comunale ha decretato il taglio di migliaia di alberi per la costruzione dei parcheggi sotterranei i cui solettoni impediscono il reimpianto di essenze ad alto fusto come quelle demolite e permettono solo alberini senza crescita e cespugli o, appunto, dimora in vasi. Quello di sparare numeri senza riferimenti seri, paragoni, fonti, calcoli è il metodo applicato nell’intero opuscolo. “Ecopass”: “il traffico è diminuito del 6,8 % nell’intera città” e sarebbero diminuite secondo certe percentuali (senza alcun altro indicatore) le “emissioni allo scarico”. Sappiamo che ogni giorno entrano nel comune di Milano 600/700.000 automobili. Per parlare di successo (ma non di svolta) la diminuzione del numero dovrebbe consistere almeno nel 20%. D’altra parte se tutte le automobili fossero del tipo Euro 4, come dovrebbe accadere fra poco tempo, tutte supererebbero le barriere di controllo.
Non pollutioncharge sarebbe occorso, bensì congestioncharge, cioè un provvedimento contro la numerosità stessa dei mezzi privati, non solo contro i loro scarichi tossici. I risultati relativi agli inquinanti sono insufficienti, soprattutto riguardo al più pericoloso, le polveri sottili. Le statistiche periodiche veritiere rivelano che in quest’ultimi anni fino a oggi le polveri hanno superato il livello di pericolo di 50 mmg/mc per gran parte di ogni anno mentre il numero massimo di giorni fuori norma ammesso dall’Unione europea è di soli 35. Inoltre, qui per “polveri sottili” si considera il materiale particolato di 10 micron (Pm10), mentre le norme europee richiedono di misurare il Pm 2,5 secondo un limite massimo di 25 anziché 50 mmg/mc. “Metropolitane”, un paragrafo scarno perché non c’è nulla di cui vantarsi, anzi ci sarebbe troppo di cui vergognarsi. Il sindaco spera di inaugurare nel 2011 una prima breve tratta della bizzarra linea M5, bizzarra nel nome giacché la M4 non esiste; ma la falsa numerazione viene conservata allo stupido scopo di ingannare sulla realtà dell’effettiva dotazione di Milano. “Parcheggi”, intesi garage sotterranei. I numeri vantati non possono nascondere cosa c’è dietro di loro: sia la pena (nostra, non del sindaco) per la distruzione di una quantità di begli spazi alberati o comunque retaggio del costituirsi della forma urbana nel tempo, sia l’assurdità di una politica del traffico che mentre da una parte cerca, benché in maniera inadeguata, di allontanare le auto, dall’altro le richiama verso il centro e dentro di esso proprio offrendo loro parcheggio e ricovero.
Decine gli esempi. Cito qualche caso di massima ignominia: il silo di Piazza Meda, cinque anni di lavori ancora in corso, nel centro del centro, a un tiro d’arco dal Duomo; quello previsto, ribadito, confermato dalla pazza soprintendenza, contestato dagli abitanti, indagato, sospeso a Sant’Ambrogio, addossato in pieno al recinto della basilica; il parcheggio programmato, avviato, bloccato e ora in orribile abbandono alla Darsena dei Navigli Grande e Pavese, uno dei luoghi più rappresentativi della città “ridotto a desolata landa fangosa, sormontata però da pubblicità” (Stefano Bartezzaghi, “la Repubblica” 24.10.09).
Nel secondo capitolo, “Milano efficiente”, il paragrafo “Casa” espone numeri privi di spiegazioni. 1.714 “nuovi appartamenti realizzati” di “edilizia sociale” è il dato fondamentale. Veramente pochi, vien subito da sbottare, in una città in cui gli immobiliaristi in amoroso accordo con gli amministratori pubblici stanno realizzando, progettando, ipotizzando, noncuranti dei salutari (secondo noi) fallimenti del tipo Santa Giulia/Zunino/Foster, decine di migliaia di alloggi di lusso (250.000 in prospettiva estesa!), mentre permangono dai 35.000 ai 50.000 alloggi vuoti, e giacciono mucchi di inascoltate sofferenti domande per accedere a un alloggio popolare. “Famiglia”: ancora numeri vanterini, questa volta riguardanti i “posti nido”. 1.725 posti “in più” in oltre due anni, per una popolazione di tre classi di età stimabile in 40/50.000 unità, enormemente maggiore in avvenire se dovessimo dar retta alla famosa previsione di 2 milioni di abitanti per la città nei propri confini comunali e al prevedibile aumento della natalità. Di questo passo la domanda reale delle coppie giovani sarà continuamente delusa e ragione d’impedimento a risiedere in Milano.
Il terzo capitolo, “Milano sicura”, chiarisce, avessimo mai avuto qualche dubbio, che Letizia Brichetto Moratti raduna saldamente a sé forzismo e leghismo. Con una punta di razzismo. “Giro di vite”, sembra gridare, per la presenza di presidi militari e per certe ordinanze (andate buche) contro diversi fenomeni, dalla droga alla prostituzione all’”imbrattamento” (detto così, senza specificare). E il paragrafo “Abusivismo”? Pensiamo, prima di leggere il testo, che si riferisca all’edilizia, invece riguarda i campi dei nomadi. Questa volta ai numeri crediamo, 143 “sgomberi” (e distruzione dei ricoveri) contro 3 prima dell’epoca morattiana. Non ci ricordiamo di rimozioni mediante l’incendio di tende e baracche abitate, come avvenne nel vicino comune di Opera. Brava.
Milano, 8 novembre 2009
Pgt, il gran ritorno ai "cattivi maestri"
Il Piano di governo del territorio milanese è costruito per favorire gli interessi di pochi: i soliti. Da la Repubblica, ed. Milano, 24 novembre 2009 (m.p.g.)
Giusto una settimana fa il sindaco Letizia Moratti, introducendo i lavori per la presentazione finale del Piano di governo del territorio, ne ha sintetizzato gli obiettivi in tre punti: città più vivibile, città più verde, città più densa: ossia un’ovvietà, uno slogan e un’affermazione in parte contraddittoria con la prima. Dopo aver parlato se n’è andata: l’ascolto delle parti sociali – da cui la manifestazione – la interessa poco o nulla. Eppure questo ascolto, come ha sottolineato l’assessore Carlo Masseroli, è un adempimento previsto dalla legge regionale 12/2005, quella che ha istituito i Piani di governo del territorio cancellando i vecchi piani regolatori.
Quali erano, però, le "parti sociali" presenti all’incontro? Sostanzialmente una: gli operatori immobiliari. Il resto della platea era costituito da professionisti, architetti e avvocati amministrativisti, ossia i professionisti degli operatori immobiliari: una rappresentanza molto parziale delle parti sociali. Peraltro anche nelle fasi precedenti va notato che il termine per la presentazione delle osservazioni preliminari scadeva tre settimane prima del passaggio in giunta del Pgt ed è legittimo domandarsi se in tre settimane fosse possibile rimettere mano a un documento di più di mille pagine e ricchissimo di tavole e grafici.
L’eterna finzione della partecipazione pubblica. Non è questo lo spazio per addentrarci nei dettagli tecnici ma solo per considerazioni di tipo politico.
L’operazione Piano di governo del territorio è partita al grido: il vecchio piano regolatore frena lo sviluppo della città. Però Santa Giulia, Citylife, Garibaldi Repubblica (oggi Milano Porta Nuova) e, per finire il grattacielo della Regione, più altre cosette, sono nati col vecchio piano regolatore e se non si è fatto di più lo si deve al "mercato" che non tira, quello stesso mercato che ha lasciato tanti vuoti cadaveri sul territorio milanese a cominciare dagli edifici di via Stephenson della galassia Ligresti.
Dunque la ragione è un’altra: il tentativo di questa destra di accreditarsi come innovatrice, ideologicamente più vicina al Paese e alle sue necessità. Allora se la questione è di tipo ideologico vediamola sotto quest’ottica. In questo migliaio di pagine, comunque troppe rispetto agli obiettivi e alla praticabilità di uno strumento urbanistico, si ritrovano tutti gli slogan di un certo tipo di urbanistica della passata sinistra i cui mentori furono allora indicati come "cattivi maestri" da quella stessa destra che, insieme alla progenie mutante di quelli, oggi risciacqua gli stessi panni nell’acqua di Comunione e Liberazione con un occhio alla Compagnia delle Opere. Niente di grave nell’aver ripescato vecchie cose ma non bisogna gridare alla novità, almeno non gridarlo pensando di farla franca quando c’è chi può divertirsi con operazioni di esegesi delle fonti.
Ancora un’osservazione. Il nuovo Pgt dispiegherà i suoi effetti, buoni o cattivi, a condizione che il mercato riprenda vigorosamente: senza mercato niente nuovo verde, niente generale riassetto della città, niente densificazione ma solo parole. Ma quando riprenderà il mercato, con il nuovo scenario fatto di meno regole, gli esiti saranno assai poco diversi da quelli del passato: gli interessi di pochi, gli uomini del mordi e fuggi immobiliare, determineranno il futuro di Milano.
Podestà stoppa il Metrobosco "Progetto da ripensare"
Anche su Internet oggi non se ne sa più nulla, il sito è stato oscurato e chi volesse notizie non le trova. Metrobosco, una cintura verde attorno alla metropoli, un anello continuo di oltre 30mila ettari che coinvolgeva i Comuni dell’hinterland con l’obiettivo di piantare tre milioni di nuovi alberi in dieci anni, è stato uno dei progetti più ambiziosi della Provincia quando a governare era Penati. Iniziato nel 2006, «ha già portato alla piantumazione di 300mila alberi e 190mila erano in programma nel 2009» dicono dal laboratorio Multiplicity.lab del Politecnico, coordinato dall’architetto Stefano Boeri, che ha curato il progetto. Ma passata la gestione della Provincia al Pdl con le ultime amministrative, Metrobosco si è fermato. E ora Palazzo Isimbardi, dove il presidente Guido Podestà ha tenuto la delega sull’Ambiente, sta rivedendo la politica di forestazione. «Non intendiamo spegnere Metrobosco - chiarisce Podestà - ma integrarlo con un progetto più ampio».
Non si vuole più agire con una frammentazione di interventi e solo in alcune aree, ma è allo studio «una forestazione di più ampio respiro in modo da dare le stesse opportunità a tutto il territorio e coinvolgere i 139 comuni provinciali». «Ho chiesto un incontro con Podestà più di un mese fa - spiega Stefano Boeri - e spero che il progetto Metrobosco prosegua. Mi stupirebbe che non fosse così, ha avuto ottimi risultati in tre anni di storia. Incentiva i Comuni alla piantumazione ed è molto legato al tema dell’Expo. Il bosco pensato non solo è continuo, ma cambia natura a seconda delle aree con cui si incrocia». Il progetto, che ha coinvolto circa una sessantina di Comuni, prevede che ogni ettaro di bosco possa contenere fino a 100 alberi, per abbattere così 50 tonnellate di CO2 per anno, al costo di 50mila euro ad ettaro. Per la realizzazione di 30mila ettari di bosco in dieci anni, servivano circa 1,5 miliardi di euro «pari a un quarto della spesa prevista per la linea Tav tra Milano e Bologna» precisano da Multiplicity.lab.
«L’incontro con l’architetto Boeri avverrà nelle prossime settimane - assicura Podestà - . Metrobosco è valido, ma isolato rispetto a un progetto che vuole investire tutta la provincia. La mia idea è quella di una città espansa, dove da una parte si allungano le linee metropolitane per intercettare lo scambio gomma-ferro, e dall’altra si creano piste ciclabili contornate dal verde. Assi di riforestazione che conducano dalla città verso l’Adda e verso il Ticino. Per valorizzare anche il parco Sud, di cui difendo la natura di parco agricolo, ma che deve essere penetrabile, fruibile». Intanto Multiplicity.lab del Politecnico è stato invitato a presentare Metrobosco all’interno della mostra internazionale dedicata ai progetti di forestazione metropolitana. L’appuntamento è alla Academy Der Kunst di Berlino nel marzo 2010, quando forse si saprà già se Metrobosco è destinato a vivere o a morire.
I laghi e i prati del parco naturale il gioiello delle Cave rischia la fine
Il parco delle Cave conta quattro laghi su cui si riflettono alti alberi, specchi d’acqua attorniati da canne palustri in cui nuotano beate anatre, sottoboschi da dove è facile veder uscire fagiani, conigli selvatici o mini leprotti, mentre ogni tanto si fa sentire il toc toc del picchi che piantano il becco su piante morte per andare a pescare larve e insetti. Dicono che la colonia più numerosa della provincia abbia casa qui. E poi ampi prati sempre verdi e ben curati, antichi canali d’acqua per l’irrigazione ripristinati e pieni di pesci, sentieri in terra battuta studiati apposta per avere tutti i pregi e nessun difetto, ordinate separazioni in legno e orti. Si pota poco, lasciando che la natura faccia il suo corso, indirizzandola con interventi leggeri, ogni giorno e solo dove serve.
Si stenta a credere che fino a poco più di una decina di anni fa quello che oggi è diventato il parco delle Cave fosse la casa dell’eroina, posto pericoloso e squallido ad alto tasso di degrado, discarica per rifiuti materiali e umani. Diventato giardino di acque e di verde con Italia Nostra. Il Comune nel 1997 affidò all’associazione (dopo aver visto quello che aveva fatto nella vicina area di 120 ettari, Bosco in Città, verde e boschi dal nulla) altri 121 ettari di ex cave abbandonate, allora terra di nessuno. Trasformati in bella terra per tutti. Con criteri particolari che hanno portato questo parco ad essere diverso dagli altri. «La nostra è una gestione naturalistica - spiega il direttore del centro di forestazione urbana di Italia Nostra, Silvio Anderloni - . Ragioniamo sull’ecosistema del bosco. Molti alberi morti o caduti, per esempio, restano dove sono. Servono al rinnovamento, offrono nicchie ecologiche indispensabili. Si fa il minimo per rendere tutto fruibile, ma con interventi soft».
Gli ettari già realizzati sono 98, costo 8 milioni di euro: 23 ettari, invece, quelli della cava Ongari, sono ancora chiusi e inaccessibili, tutti da fare. Ma chissà che succederà ora che non si rinnova, per contrasti tra le parti, la convenzione per il parco tra Italia Nostra e il Comune, in scadenza il 31 dicembre. Tutti sono pronti ad andarsene e a lasciare con rammarico una creatura che hanno generato e molto amano: i sette giardinieri del centro di forestazione urbana di Italia Nostra che si occupano della manutenzione quotidiana e i tantissimi volontari che hanno contribuito a fare il parco e che adesso stanno raccogliendo in un album "le foto di famiglia". La paura è che chi verrà stravolga le Cave e il suo spirito.
«Non c’è giardino senza giardiniere, ci deve essere una quotidianità di gestione, con interventi man mano che il parco cresce - dice il paesaggista Francesco Borella, artefice del parco Nord e consigliere di Italia Nostra - . Questo è il modo di governare il verde a Parigi o a Berlino, in Olanda come in Spagna, la gestione diretta. Qui a Milano, invece, è quello della Global Service, dell’appalto per singole operazioni, potare, tagliare l’erba, senza la presenza costante del giardiniere. Gli effetti di questa operazione sono uniformare tutti gli ambienti, appiattendoli. Il problema del verde è la gestione non il progetto, posso progettare il più bel parco del mondo ma se non ho programmato come gestirlo faccio flop». Negli ultimi tre anni, quando è iniziata la querelle con l’assessore Cadeo sul contratto, Italia Nostra «non è più riuscita ad andare avanti con il suo progetto, tutto si è arenato» racconta Silvio Anderloni.
E adesso il parco chi lo gestirà? «Vogliamo affidare alla facoltà di Biologia della Statale la parte di collaborazione progettuale, per mantenere e incrementare la biodiversità - spiega l’assessore Cadeo - . Invece la manutenzione del verde, che ci preoccupa meno, sarà affidata a Global Service, come negli altri parchi». Proprio quello che Italia Nostra temeva. «A Italia Nostra - conclude - che ha dato disdetta del contratto con il Comune e noi ne abbiamo preso atto, stiamo valutando se assegnare la sistemazione della cava Ongari, legata all’Expo».
Erano già tutti in piedi alle cinque, ieri mattina, i rom di via Rubattino. Assieme a loro, ai cancelli dell’ex fabbrica, i volontari della comunità di Sant’Egidio, dei Padri somaschi e del Naga, che li aiutano da anni. Due ore dopo, non vedendo arrivare nessuno, cominciavano già a sperare: «Forse ci hanno ripensato». E invece no. Alle 7.30 è arrivata la colonna dei blindati che hanno scaricato davanti all’ex stabilimento Enel centinaia di agenti e carabinieri in assetto antisommossa, accanto ai vigili del Nucleo problemi del territorio, anche loro in tenuta da combattimento, con manganelli, caschi e mascherine antivirus. Gli zingari hanno chiuso il cancello dietro al quale erano accampati da mesi. Ma l’hanno subito riaperto, consapevoli che non c’era margine di trattativa. Ci sono voluti meno di trenta minuti per svuotare le baracche dei 250 romeni. Loro non hanno fatto resistenza, abituati come sono agli sgomberi. Sono già stati cacciati dal ponte Bacula, dalla Bovisasca, dalla cascina Bareggiate di Pioltello ad agosto, adesso anche da via Rubattino. Domani, chissà.
Da ieri mattina nemmeno più quest’ultimo rifugio. «Con questo sgombero, il numero 166 - è il commento del vicesindaco Riccardo De Corato - restituiamo alla città un’altra fetta di territorio degradato, l’ultima grande baraccopoli, in condizioni igieniche spaventose con tonnellate di rifiuti. Ora non rimangono che piccoli insediamenti». Ma la maggior parte delle 61 famiglie, con un centinaio di bambini, ha dovuto per ora accamparsi sotto il vicino ponte della tangenziale. Il primo a denunciare il trattamento riservato ai rom è stato il cardinale Dionigi Tettamanzi: «La miseria non sia zittita, ma piuttosto ascoltata per essere superata. A vincere deve essere sempre l’infinita dignità dell’essere umano. Chi ha alte responsabilità deve ascoltare l’invocazione che viene da tante forme di miseria, di ingiustizia e di solitudine». I funzionari del Comune hanno offerto posti in comunità solo a cinque donne con bambini sotto i 7 anni: «I minori sopra questa età - precisavano - possono essere ospitati in appositi centri ma senza i genitori».
Una frase che per le famiglie rom suona come una condanna: «Come faccio a separarmi da mia figlia? Alina ha dieci anni, fa le elementari in via Pini. Come faccio a mandarla da sola, senza madre, padre, fratelli?» ripeteva Doriana, madre di quattro bambini. Eppure l’assessore alle Politiche sociali Mariolina Moioli, proprio ieri a Palazzo Marino per la vigilia della giornata mondiale dell’infanzia, ha parole rassicuranti: «Abbiamo garantito i diritti dei bambini. Sei nuclei familiari su 61 sono stati accolti in strutture del Comune e altri sei hanno accettato l’alternativa al campo. Abbiamo dato massima attenzione a piccoli e mamme». Di parere opposto i consiglieri del Pd David Gentili (presente allo sgombero così come Patrizia Quartieri del Prc), Andrea Fanzago e Marco Granelli: «Le condizioni in Rubattino erano insostenibili - dicono - ma così è meglio? È molto grave che alla vigilia della giornata dei minori si sgomberi il campo senza preservare nemmeno i 40 bambini che frequentavano la scuola».
I temi dei compagni di classe "Dovrebbero aiutarli a restare"
«E se i rom fossero ricchi e il Comune una mattina si trovasse una ruspa che gli distrugge la sua casa? Sicuramente sarebbe deluso, ma poi il Comune che cosa ci guadagna? I rom passano da un campo all’altro e per la città sono nuovi problemi». Hanno fatto un tema, ieri mattina gli alunni delle scuole elementari di via Pini, di via Feltre e di via Cima. Un tema che in qualche caso ha preso la forma di lettera al sindaco Letizia Moratti, in qualche altro ha semplicemente raccontato lo sgombero del campo rom di via Rubattino. Pagine disperate e incredule dei compagni di classe dei piccoli rom che hanno terminato il loro anno scolastico. «In classe piangevano tutti, non solo i bimbi rom che hanno perso tutto e che da ora dormiranno in strada», diceva ieri, mentre le ruspe assaltavano le baracche dentro all’ex Enel, la maestra Barbara Bernini, responsabile del progetto stranieri nei tre plessi della primaria «Elsa Morante». C’era anche lei in via Rubattino, ieri, assieme alla dirigente Maria Cristina Rosi: «Tutto il nostro lavoro, tutta la fatica che abbiamo fatto per accoglierli, per metterli in grado di seguire le lezioni e di ottenere grandi risultati, tutto questo buttato via! È una vergogna, una cosa scandalosa». In classe intanto scrivevano: «Quello che è successo non mi piace per niente - si legge in un tema - . Le autorità dovrebbero mettersi nei panni della mia compagna Isabela, che a me all’inizio non sembrava proprio una rom. Mi sembrava africana. Aveva un grande senso dell’umorismo e era ottimista e positiva».
C’erano diversi genitori della scuola Elsa Morante, accanto agli insegnanti, davanti ai cancelli della fabbrica occupata dai rom. Ma c’erano soprattutto le maestre: Flaviana Robbiati, Silvana Salvi e Ornella Salina, che da mesi si occupano dei bambini iscritti a scuola, 36 quelli in età dell’obbligo, oltre a un altro centinaio più piccoli, in età da nido o da materna. «Nelle nostre scuole si stava costruendo concretamente quella integrazione di cui tanti parlano», racconta Veronica Vignati, una delle maestre che hanno dovuto consolare i bambini in classe, in via Pini, cercando di incanalare tutta la tristezza nel fiume di parole che ha riempito le pagine dei quaderni. «Secondo me dovrebbero aiutare questi rom a trovare un posto nuovo dove stare, invece di rendergli sempre più difficile la vita», conclude una bambina nel suo tema. «Per loro è incomprensibile, inimmaginabile che un loro compagno di scuola resti senza tetto - continua la maestra Veronica - anche se conoscevano la povertà di quelle persone. Sono disperati e noi non sappiamo come consolarli, con quali parole spiegare questo sgombero, che non ha avuto rispetto delle famiglie che volevano integrarsi». Anche l’onorevole pd Patrizia Toia si indigna: «Nel campo di via Rubattino si stava compiendo un autentico miracolo. Chiedo al sindaco Moratti, all’assessore Moioli in quale scuola andranno domani quei bambini. Chiedo se si rendono conto che hanno interrotto colpevolmente un cammino di integrazione scolastica, il primo passo di un percorso che può cambiare la vita di quei bambini».
Fondo solidarietà della diocesi altri 500mila euro dalla Cariplo
Oltre sei milioni di euro per il Fondo Famiglia e lavoro lanciato dal cardinale Dionigi Tettamanzi la notte del Natale 2008. Ieri il presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti ha annunciato di aver aggiunto altri 500mila euro alla dotazione del fondo. Guzzetti aveva già donato un milione di euro, dopo il primo milione messo dall’arcivescovo. Ieri sera oltre 500 volontari dei decanati Caritas e delle Acli sono accorsi ad ascoltare Tettamanzi nella chiesa di santo Stefano. Il Fondo ha aiutato 1.985 famiglie che vivono sul territorio della Diocesi ambrosiana. Oltre 4.100 sono state le richieste delle famiglie colpite dalla crisi. I contributi sono concessi per pagare spese non comprimibili, come l’affitto della casa, l’asilo dei figli. Nella maggior parte dei casi si tratta di famiglie con un reddito mensile inferiore a 500 euro. Il Fondo ha aiutato in uguale misura famiglie italiane e straniere, sposate (66 per cento), con figli piccoli a carico (72 per cento). Ieri sera il cardinale Tettamanzi ha ringraziato la Cariplo e tutti i volontari che dedicano tempo ed energie a raccogliere e vagliare le richieste d’aiuto: «I soldi non bastano mai perché la situazione economica è complessa. Devono svegliarsi le coscienze dei singoli se si vuole risolvere un problema che è morale, educativo e culturale».
Forse la coincidenza toponomastica sarà sfuggita a qualcuno: la via Rubattino, scenario delle belle trovate di rinnovo urbano descritte sopra, è la stessa della INNSE, fabbrica (probabilmente) salvata l’estate scorsa grazie alla mobilitazione dei suoi operai, ma che era destinata, così come quel fazzoletto di terra occupato dai rom, alla Milano da Due Milioni di Ciellini. Se questi sono i metodi, figuriamoci i risultati finali! Sembrano proprio riemersi da qualche tombino di sventramento ottocentesco, questi neo-cattolici-liberisti, che delegano alla compassione di qualche ala minoritaria di credenti locali tutte le rogne collaterali, tenendosi stretto il timone di comando per le grandi manovre: operai, rom, …a chi toccherà, la prossima volta? Magari qualche commentatore delle strategie del PgT potrebbe anche metterli nel conto, questi minuscoli effetti collaterali (f.b.)
La star della musica italiana sarà Luciano Ligabue. E poi il gruppo che ha fatto la storia dell’heavy metal, gli AC/DC. Si sta definendo in queste setti mane il programma dei concer ti per la prossima estate a San Siro. Con una novità: una delle cinque date sarà riservata all’opera lirica, l’intero campo trasformato in palcoscenico per il «Nabucco» o il «Renzo e Lucia». Eventi che richiameranno al «Meazza» centinaia di migliaia di persone. E che allo stesso tempo disegnano il futuro dello stadio: la stessa erba può essere calpestata da Milito e Ronaldinho; dagli All Blacks; dal pubblico metallaro degli AC/DC; da soprani e tenori. Impianto «multi-evento», come vuole la moderna filosofia di gestione degli stadi europei. Il modello sono loStade de Francedi Parigi e l’ AmsterdamArena .
Inter, Milan e Comune stanno programmando gli interventi per portare San Siro a quel livello. I nuovi lavori parti ranno tra qualche mese.
L’entusiasmo degli 80 mila spettatori che sabato pomeriggio hanno assistito a Italia-Nuova Zelanda di rugby sarà una spinta in più sulla strada del nuovo San Siro. A partire da una certezza: «Le fonda menta dello stadio sono ancora quelle di ottant’anni fa — riflette Alfonso Cefaliello, amministratore delegato del Consorzio San Siro 2000 in quota Milan — ma il 'Meazza' dimostradi essere flessibile per ospitare eventi al massimo livello». Co me dire: storia e futuro. Una miscela in grado di rendere unico un evento (che sia concerto o partita di calcio) se la cornice è San Siro. «La prova del rugby — spiega Pierfrancesco Barletta, amministratore delegato del Consorzio per l’Inter — dimostra che lo stadio, quando non ci sono partite di calcio, può essere aperto ad altre iniziative che da una parte rappresentano un’occasione e un servizio per la città, dall’altra aumentano i ricavi dell’impianto ». La sfida dei prossimi anni: aumentare i servizi perrendere San Siro più moderno e accogliente.
Il programma dei prossimi mesi prevede: ristrutturazione dell’intera copertura (a partire da giugno); rinnovamento del museo; creazione di due nuovi megastore, uno dedicato all’Inter e l’altro al Milan; quattro nuove salelounge ,più grandi delle attuali, nei settori d’angolo del primo anello; «una nuova offerta di ristorazione — conclude Cefaliello — più ampia sia per quantità, sia per qualità». Serviranno investimenti. E per questo il Comunesta mettendo a punto una modifica nel contratto d’affitto al le due società: oggi Inter e Milan pagano il 50 per centocashe il 50 per cento in opere di ristrutturazione dell’impianto. L’obiettivo è quello di passare a una proporzione 30-70, per aumentare i lavori e puntare a ospitare la finale di Champions League nel 2015.
La società di Massimo Moratti continuerà ad investire in questo progetto a medio termine, anche se non ha ancora abbandonato l’idea di costruire un nuovo stadio di proprietà. «Sabatoabbiamo assistito a un grande evento sportivo — dice l’assessore comunale allo Sport, Alan Rizzi — che ha confermato le eccezionali potenzialità dell’impianto. Stiamo lavorando per renderlo più moderno e fruibile, non solo in occasione delle partite e dei concerti, ma sette giorni su sette».
Col rinnovamento si parte già oggi: questa mattina, dopo la serie infinita di mischie tra Italia e All Blacks, inizierà il rifacimento completo del prato.
La prima chiave di lettura è una delle ultime frasi, ovviamente quella che dice “non ha ancora abbandonato l’idea di costruire un nuovo stadio di proprietà ”. Ovvero che il riuso della struttura urbana rischia di essere un “inoltre” e non un “invece”, e quindi siamo ancora dalle parti della pura speculazione, delle corsie preferenziali, dello sprawl suburbano indotto da nuove opere sul territorio aperto ecc. ecc. Potrei anche aggiungerci, nota puramente personale, che ho una sorella che sta da quelle parti (in un raggio di alcune centinaia di metri) e deve suo malgrado seguire da parecchi anni le cronache sportive e dello spettacolo giusto per sapere come organizzarsi la vita, i rientri, le uscite, il sonno.
Ma, escluse queste premesse, rimane una convinzione: è fuor di dubbio che gli operatori delle trasformazioni territoriali, e chi poi le sfrutta per le varie attività, stiano puntando sul modello del grande, a volte enorme, polo multifunzionale attrezzato. Come doveva, e deve, essere evidente che non è più - quantomeno - maggioritario e dominante il modello di erogazione di commercio e servizi spontaneo così come siamo stati abituati a vederlo per generazioni nei nostri quartieri, specie nei centri minori.
Se si vuole evitare che una pura opposizione di principio a questi “mostri” non finisca per rivelarsi un boomerang, probabilmente val la pena iniziare a riflettere sui migliori strumenti ad esempio sovra comunali, ad esempio di coordinamento delle attività, per integrarli nel territorio, favorire una loro collocazione urbano-metropolitana, trasformarli insomma nei limiti del possibile anche in valore aggiunto per la comunità. Anziché annegare nel cemento inutile sognando improbabili età dell’oro, quando si stava peggio ma si stava tanto meglio … (f.b.)
Vade Retro Manhattan
di Enrico Bertolino
Ogni anno il Corriere mi cerca per chiedermi un articolo sull'Isola, ovviamente ironico e se possibile anche un po' comico.
Per due anni ce l'ho quasi fatta ad essere divertente e divertito, a commentare la vita di questo quartiere, Isola felice in un mare di problemi che Milano sta affrontando, con la determinazione e la grinta di sempre... ma ora si fa dura.
« Chi volta el cù a milan volta el cù al pan» si diceva una volta... (la traduzione dato che siamo sulle pagine locali la lascio alla fantasia del lettore milanese) ma oggi non si tratta di gente che volta la faccia e se ne va, anzi...
Magari se ne andassero. Stiamo parlando invece di personaggi che più che la faccia ci mettono le mani sopra. E non se ne vanno più. Negli ultimi anni qui all'Isola di persone conosciute nel mondo dello spettacolo ne sono venute a vivere tante, tutti attratti dal miraggio del quartiere «friendly living» (dove si vive bene a misura d'uomo) tipo Berlino, dagli sviluppi culturali che si prospettavano e dagli spazi che avrebbero dovuto rendere quest'Isola il paradiso dei naufraghi, sopravvissuti alla deriva veloce di una città che si muove come l'acceleratore di particelle del Cern di Ginevra. Accelera accelera poi basta un tombino che salta e si ferma tutto per giorni. «All'Isola se stava ben... ma — dicono i più ottimisti — aspettiamo e vedarem», tanto l'Expò sarà nel 2015 chi vivrà vedrà. E qui mio padre che ha 83 anni «el se da una gratada ai ball» con antica discrezione.
E così un quartiere che ho visto sin da bambino (sono nato qui a pochi isolati da dove nacque il Nostro Conducator, Silvio Primo... e Ultimo, io in via Volturno, Lui in Via F. Confalonieri non Fedele ma Federico), un aggregato urbano a vocazione popolare, con botteghe artigiane (a parte la «fu» Stecca rasa al suolo alla svelta nemmeno fossimo a Dresda), un tessuto sociale misto, dalle case popolari ai nuovi stabili ma soprattutto con un clima da grande Paesone, con persone che si salutano ancora e massaie che si fermano con la gamba alzata come le Gru a chiacchierare sugli angoli, di ritorno dal mercato rionale.
Ebbene, lungi da me l'idea pasionaria di una Milano che torna al calesse trainato dai cavalli, mentre a Londra si mette la banda larga nei parchi... a Londra perché da noi nei parchi per fare largo si tolgono le panchine; però tra la trasformazione dell’antico Paesone in un moderno quartiere di una capitale europea e la frenetica rincorsa per ridurlo ad una pseudo Manhattan dei Bauscia c'è una bella differenza... anche economica.
Infatti l'esempio di Santa Giulia la dice lunga su come gli interventi urbanistici vadano valutati più sulle risorse disponibili e sull'ottimizzazione delle stesse piuttosto che sui plastici di architetti che, ovviamente qui all'Isola non ci sono nati e che si guarderanno bene di venirci a vivere dopo averla cementata con il grattacielo di vetro nel nome della trasparenza, detto il Palazzo dell’Uno, ovvero del Presidente della Regione.
E così l'anno prossimo, se il Corriere rivolesse un altro articolo da me mi troveranno sempre qui perché per me l'Isola che non c'è invece c'è ancora, e non ho alcuna intenzione di abbandonarla nelle mani dei pirati.
Isola, cantiere aperto verso il futuro Grattacieli, metrò e cittadini antidegrado
di Armando Stella
«Io riciclo. Io riutilizzo. Insieme ri-arrediamo». L’ultimo progetto per l’Isola è firmato da una squadra di mini-architetti, sono Rachel, Armando e i compagni delle sezioni B e C, seconda elementare «Confalonieri»: hanno chiesto al sindaco i vasi di fiori attorno alla scuola, se ne occuperebbero loro e li difenderebbero coi cartelli «si prega di non toccare», ché in via Dal Verme s’aggirano «pericolosi ladri di primule». Davvero.
Lo sanno anche i bambini: qui si disegna il futuro di quel pezzo di città che fu di don Bussa e dei partigiani eroi, si sta rivoluzionando il quartiere che ha visto la mala nei bar e adesso osserva crescere i grattacieli nei cantieri Expo. Le torri di Porta Nuova (Isola, Garibaldi, Varesine e Repubblica). La Regione che alza il Pirellone bis. Lo scavo del metrò 5. Oggi i lavori provocano rumore, polvere e proteste. Tra cinque anni, chissà: questa zona avrà il terzo parco pubblico cittadino (90 mila metri quadri), un’unica isola ciclopedonale tra piazza XXV Aprile, via Confalonieri e l’hotel Principe di Savoia, oltre a 7 fermate tra metrò e passante, i treni e la Tav, i tram e i bus. Dicono in Comune: «Sarà il quartiere italiano con più infrastrutture di trasporto pubblico».
Intanto, è il laboratorio della Milano che cambia. Tra ruspe e proteste. Con i valori delle case triplicati in dieci anni e destinati a crescere. Nell’attivismo dei comitati contro e nel super impegno delle associazioni per. La Fondazione don Eugenio Bussa e la Fondazione Catella hanno ottenuto dal Comune il trasloco del monumento ai Caduti per la libertà dell’Isola, dall’incrocio trafficato di Gioia al podio di piazzale Segrino: il cantiere è aperto, arriveranno luci e aiuole. «Bisognerebbe dare decoro anche a piazza Minniti», aggiungono da Botteghe Isola: il problema è il mercato, Palazzo Marino e ambulanti non si mettono d’accordo. I sette artigiani «sfrattati» dalla vecchia Stecca (marzo 2007) si ritroveranno invece nell’Incubatore d’arte in via De Castillia: la Stecchetta sarà pronta nell’estate 2010, le polemiche sulla demolizione del rudere sono archiviate.
«Il cambiamento è nell’aria», è lo slogan di un’associazione di quartiere. Lo hanno disegnato venti archistar e tra quest’anno e il prossimo sono programmati investimenti per 1,2 miliardi: le torri Varesine, le case a prezzo convenzionato all’Isola e i grattacieli in Garibaldi saranno conclusi nel (2011); seguiranno l’inaugurazione di centro espositivo, museo della Moda, Casa della Memoria e Bosco Verticale (2012) e infine il parco pubblico che ricoprirà l’area (2013). Parliamo di circa 400 appartamenti (prezzi da 3 mila a oltre 7 mila euro al metro), negozi, uffici e 80 mila metri quadri di posteggi. La cima Coppi è a 219 metri d’altezza, punta della torre di Cesar Pelli (antenna inclusa). La Hines, società capofila dell’affare Porta Nuova, l’ha definito un progetto «romantico »: perché è stato «condiviso» coi cittadini e «ricuce» una vecchia frattura urbanistica. La nuova linea del metrò 5 garantirà un afflusso ecologista: i lavori del secondo lotto, Garibaldi- San Siro, partiranno all’inizio del 2010; la prima tratta, da Zara a Bignami, sarà «in esercizio » nel primo semestre 2011.
Il Pirellone bis cresce «secondo programma»: l’edificio sarà consegnato a dicembre, per gli allestimenti interni, e nel luglio 2010 inizierà il trasloco dei dipendenti sparsi in 31 uffici decentrati. L’unico nodo, per la Regione, è la palazzina verde su cinque piani realizzata nel 1939 in via Bellani 3: un tempo si affacciava sul Bosco in Gioia, oggi è accerchiata dai vetri a specchio del grattacielo. Infrastrutture Lombarde ha spedito un’ultima proposta d’acquisto dell’immobile ancora il 4 novembre scorso, vuole comprare ai «prezzi di mercato» del 2008, con il «consenso unanime» delle sedici famiglie residenti. E poi demolire. Loro, gl’inquilini, hanno rifiutato: «Noi vorremmo andar via contenti, non con una ciotola di riso...». Tradotto: chi ci ripaga il disturbo per i cantieri e i costi imposti dal trasloco, chissà dove, dopo una vita di sacrifici? «Siamo noi, i prigionieri. Senza un’offerta adeguata, restiamo qui. E vediamo come va». Intanto, questi milanesi vedono solo i canali Rai: l’antenna sul tetto non prende, il segnale è «oscurato» dal Pirellone bis. Tutto cambia, ma la tv è tornata agli anni Settanta.
Va bene per avere finanziamenti dal governo, ma chi volete che venga qui? Su quell´asse un viale alberato è accettabile ma va salvata la prospettiva Ho grande stima per lui, non posso credere che faccia davvero sul serio Sarebbe come mettere piante in piazza del Campo a Siena: la storia ha un valore.
Architetto Gregotti, le piace l´idea di andare a passeggiare in piazza Duomo con le scarpe da trekking?
«L´idea di far diventare Milano più verde mi sembra bellissima, ma l´unico posto dove non vanno piantati degli alberi è la piazza del Duomo».
Vittorio Gregotti, uno dei massimi esponenti italiani dell´architettura contemporanea, uno che è ben più di un «archistar» perché la sua non è una fama recente né effimera, una firma rigorosa che ha sempre sfuggito le mode, sorride. È nel suo studio dalle parti di via San Vittore, immerso in mille progetti, e fa un po´ fatica a ragionare sull´ultima trovata che racconta il centro della città trasformato in un bosco. Quasi non ci crede. Ma se proprio deve rispondere facendo finta che si tratti di un progetto reale e non di una boutade, allora è categorico: no, non gli piace per niente. Anzi: gli sembra una cretinata.
«Quella piazza è storicamente consolidata con una struttura diversa: è il luogo deputato ad accogliere grandi eventi pubblici come assemblee, manifestazioni, comizi. Ed è così da un secolo e mezzo. Lì c´è la chiesa più importante della città... non è possibile trasformare quello spazio in un parco, significherebbe contraddire il suo carattere strutturale. Se l´idea è di piantare tre, quattro alberi negli angoli, allora è un altro discorso».
L´idea, come è stata presentata, non è così minimalista: almeno settanta alberi sul lato della piazza verso palazzo Carminati, una piccola parte dei novantamila che la città ha promesso a Claudio Abbado. E a realizzare il progetto sarà Renzo Piano che ha offerto a Milano la sua collaborazione.
«Ho grande stima per Piano, e poi Renzo è amico di Claudio ed è comprensibile che si sia offerto di dargli una mano e sono felicissimo che lo faccia. Il progetto di aumentare il verde è interessante e ragionevole, anche se novantamila mi pare una cifra che non ha molta attendibilità. A patto però di non pretendere di invadere il centro che ha già una sua struttura definita e di cambiare il significato dello spazio. Ci sono le periferie, lì si potrebbero distribuire ragionevolmente. I contesti contano, la storia di una città anche e quasi tutte le città italiane hanno una piazza che ha la funzione di luogo di adunanza pubblica. Sarebbe come pensare di mettere gli alberi sulla piazza del Campo di Siena. Mi sembra irragionevole».
Pare che i primi alberi saranno piantati alla fine di questo mese. E che saranno aceri; il suo collega Piano ha detto che qui i platani soffrono.
«Non ne so abbastanza per dare giudizi, dico solo che a me i platani piacciono. E non so nemmeno se stiamo parlando di qualcosa di concreto o di cose riferite male. Piano è un bravissimo architetto, magari è stato male interpretato, o si è pentito subito dopo aver parlato. Perché non posso credere che uno che stimo fino in fondo abbia pensato sul serio di fare un bosco in piazza Duomo. Non si può dire "facciamo Milano più verde" e pensare di cominciare da lì».
L´onda verde dovrebbe allargarsi anche a via Dante e seguire il percorso fino al Castello.
«Beh, ai lati di via Dante si può. Un percorso pedonale che diventa viale alberato. A patto che venga mantenuto come asse e che si salvi la prospettiva del Castello».
Non ci sono problemi dal punto di vista pratico?
«Certo, sotto è pieno di infrastrutture. Ma i problemi tecnici si possono superare, è solo questione di costi. Quello che non si può superare è il valore e il significato che un luogo ha per la città, quello va mantenuto. Direi che è importante soprattutto oggi, che c´è una tendenza alla privatizzazione degli spazi pubblici».
Milano si sta preparando all´Expo. Sulla carta ci sono molti progetti di modernizzazione. Nel 2015 sarà una città diversa e migliore?
«Perché, esiste l´Expo? È un´idea assurda che può avere solo due esiti pratici: o un modo per avere finanziamenti dal governo, e allora va bene; o tradursi in un flop. Ma chi vuole che venga a Milano, a vedere che cosa? Del cibo si sta occupando da sessant´anni la Fao. Se faranno una linea del metrò sarà già un gran risultato. E poi bisogna stare attenti al nuovo: modificare non vuole dire violentare e la modernizzazione non sono i grattacieli».
Si erano immaginate grandi cose: i Navigli scoperti, le vie d´acqua...
«Sa cosa le dico? Il buonsenso è un´utopia moderna, ed è qualcosa che non ha nessuno».
la Repubblica ed. Milano
Un bosco da Piazza Duomo al Castello
di Oriana Liso
La prima offerta era stata lanciata un mese fa. «Aiuterò Abbado nell´impresa di piantare i 90mila alberi, mi piace l´idea di una Milano più verde»: così l’archistar Renzo Piano, a margine di una lectio magistralis a Bologna. Un desiderio che ora si fa via via più concreto, con un grande progetto che l’architetto genovese sta mettendo a punto con il Comune: un "muro verde", fatto di alberi piantati nel suolo, sul lato di piazza Duomo verso palazzo Carminati. Una scia verde che potrebbe poi proseguire fino al Castello, attraverso piazza Cordusio e via Dante. Qui, dove il sottosuolo difficilmente permetterà piantumazioni, causa metropolitana, si potrebbero piantare degli alberi, magari quelle magnolie tanto care al maestro Claudio Abbado, in "vasconi" rialzati. Di certo non nei vasi, come è stato fatto finora, vista la riuscita poco felice di quell’esperimento, tra piante morte in poche settimane e vasi presto trasformati in discariche.
Insomma una collaborazione che entra nel vivo. Renzo Piano - che anche ieri era a Milano - ha scritto qualche tempo fa una lettera al sindaco Letizia Moratti. Per dirle, in sostanza: il desiderio di Abbado di vedere tanti alberi a Milano (messo come presupposto per un suo ritorno alla Scala l’anno prossimo, dopo 24 anni di assenza) non si sta realizzando come lui avrebbe sperato, quindi metto a disposizione la mia conoscenza (e il mio nome) per elaborare dei progetti che meglio possano concretizzare il sogno di una città più verde. Ci sono stati incontri e scambi di idee, anche con l’assessore al Verde Maurizio Cadeo e con il sovrintendente ai beni architettonici e del paesaggio Alberto Artioli, che dovrebbe in ogni caso dare il via libera a progetti che riguardano luoghi così importanti e centrali. Su via Dante, per esempio, non c’è solo il vincolo degli scavi (nei prossimi giorni dovrebbero essere completate le verifiche tecniche), ma anche quello di non rovinare la prospettiva che da Cordusio porta al Castello, né di oscurarla con alberi ad alto fusto, come platani o tigli (le magnolie, oltre a piacere ad Abbado, riprenderebbero anche l’aiuola alle spalle del Duomo).
Ma la collaborazione di Piano con il Comune potrebbe anche andare oltre i progetti di verde calibrati sull’architettura urbana del centro, perché tra le ipotesi a venire potrebbe esserci anche quella di una sua collaborazione sui Raggi verdi e, in futuro, anche su Expo. Ieri Piano ha partecipato, alla Fondazione Corriere della sera, a un incontro sul tema "Fare architettura", in occasione dell’uscita del numero speciale di "Abitare" diretto da Stefano Boeri che racconta sei mesi di lavoro dell’architetto genovese. E se Boeri spiegava che «il progetto di Expo è una svolta, e la scelta di piantare gli alberi in molti luoghi della città fa parte di una sfida più ampia a cui mi auguro che Piano voglia collaborare», quest’ultimo replicava: «Mi piace l’idea degli alberi, e anche il progetto Expo è molto innovativo».
Presto la collaborazione tra Piano e il Comune potrebbe dare i suoi frutti, con i progetti esecutivi dei nuovi viali verdi nel centro città. Secondo i piani del Comune - fondi e sponsor permettendo - nei prossimi mesi dovrebbe partire anche il progetto dei dieci "boschetti di benvenuto", con la piantumazione di 30mila alberi, mentre altre 1.600 piante dovrebbero andare a "costruire" il primo Raggio verde dal centro all’area espositiva di Expo.
Il Corriere della Sera
Un bosco al Duomo Il progetto di Piano per la Milano verde
di Stefano Bucci
MILANO — Un bosco («una settantina di piante») in Piazza del Duomo, a Milano, quasi come l’avevano immaginato Dino Buzzati e Bruno Munari (ma c’è anche il precedente storico della raccolta del grano durante la guerra); un centinaio di alberi in via Dante e poi altro verde in via Orefici (però sul lato non percorso dai tram) e in Piazza Cordusio (potrebbe essere una grande aiuola). E poi altre piante che scacciano macchine e motorini (quelli in circolazione e quelli parcheggiati in via Giulini). Renzo Piano immagina così i suoi primi interventi («un lavoro d’équipe: il Comune, la Soprintendenza, il mio studio, i tecnici») per piantare quei novantamila alberi («potrebbero essere aceri, i platani qui in città soffrono») che rappresentano il cachet «in natura » che riporterà Claudio Abbado a dirigere alla Scala (il 4 e il 6 giugno 2010 con l’ Ottava Sinfonia di Mahler).
L’architetto che sta cambiando Londra con il progetto per la sua London Bridge Tower (a Milano per presentare il numero monografico di Abitare a lui dedicato dal titolo Being Renzo Piano ) ha un’idea molto chiara di quello che dovrebbe essere il suo lavoro: «Qui faccio solo il contadino e il geometra per Claudio, il mio compito è piantare alberi e basta». Una boutade , sicuramente, perché questi novantamila alberi non sono altro (per il progettista premio Pritzker 1998) che un’occasione, l’ennesima (dopo il Beaubourg a Parigi e Postadmer Platz a Berlino) per riaprire il discorso intorno al futuro delle città, dal centro alle periferie.
Ieri, nuovo sopralluogo per Renzo Piano lungo la dorsale che collega Duomo e Castello Sforzesco: un gruppetto di otto persone (più un cane) a fare compagnia all’architetto che, ad un certo punto si mette addirittura a fare correzioni sul disegno di massima (naturalmente con il suo Pentel verde d’ordinanza) inginocchiato per terra con i passanti incuriositi ma non troppo (qualche tempo prima, aveva disegnato la sua green belt per Milano sulla tovaglia bianca di un ristorante toscano). «Il problema — spiega — è trovare un equilibrio tra la disposizione degli alberi, l’arredo urbano, le vetrine dei negozi, i servizi e i sottoservizi. Per questo è fondamentale questo lavoro di collaborazione». Intanto si parla di un modello settecentesco di «taglio» che permetta di lasciare libere le vetrine, di una «Berlino dove è più facile abbattere un albero se è malato»; di una «Milano che vuole bene alle piante»; di un arredo urbano che dovrà essere uniformato e migliorato»; di quanti alberi si potrebbero piantare tra due lampioni di via Dante (uno? due?); di un Expo 2015 «meno cementificato » che saprà ben considerare l’occasione di questi novantamila alberi.
L’idea del bosco in Piazza Duomo («opposto» alla Cattedrale) è affascinante ma, concorda Piano, «presenta una serie di difficoltà, perché, ad esempio, il bosco dovrà essere in qualche modo presidiato, per evitare ogni possibile forma di degrado» (altro ostacolo potrebbe essere l’«intoccabile» pavimento del Portaluppi). Eppure l’architetto sembra fiducioso: «il 30 di questo mese ci incontreremo con Claudio qui a Milano e se tutto va bene potremmo cominciare a piantare i primi alberi già entro la fine dell’anno, al più tardi ai primi di gennaio». Questo centro di Milano tutto pieno di alberi («Stiamo lavorando su una decina di case story ») non rappresenta che l’ulteriore frammento di un progetto ben più grande: che terrà conto delle aree di verde che già esistono (il Parco Sud come quella intorno a San Siro). E che «non si dimenticherà delle periferie». Piano l’ha ribadito spesso: «le città del futuro si ricostruiranno dalle periferie »; ieri, partendo per Parigi, ha aggiunto un’altra considerazione: «questi alberi sono un piccolo grande gesto di generosità verso le prossime generazioni» .
Dopo anni di lavoro e mesi di polemiche, il Piano di governo del territorio, destinato a mandare in pensione il vecchio Piano regolatore, è pronto: questa mattina le nuove regole che ridisegneranno la Milano dei prossimi vent´anni, verranno approvate dalla giunta. Poi l´approdo in consiglio comunale all´inizio di dicembre per quella che si annuncia una maratona in aula. Con un obiettivo ribadito dal sindaco e dalla maggioranza anche ieri: riuscire a votare entro l´anno lo strumento con cui Palazzo Marino punta a costruire case per 300mila nuovi abitanti, che porteranno la popolazione a quota 1,6 milioni. Ma anche le infrastrutture, il verde e i servizi necessari: 4,5 milioni di metri quadrati (450 ettari) di nuove aree, è la stima. Per avere un ordine di grandezza corrispondono a 900 campi di calcio. Un progetto da realizzare grazie a un mezzo diverso rispetto al passato, una sorta di Borsa delle volumetrie per cui si potranno acquistare e scambiare non titoli ma metri quadrati da edificare. Si parte da un indice che, per tutta la città, il Comune ha fissato in 0,50 ma che potrà salire. E che, in alcune zone dotate di metropolitane o stazioni ferroviarie parte da un minimo di 1.
Eccolo, il Pgt. Che adesso inizia un nuovo percorso a ostacoli per essere adottato entro aprile del 2010, il termine fissato dalla Regione. Finora si conosceva soltanto una parte del documento: quello che stabilisce il destino di 31 grandi aree strategiche come gli ex scali ferroviari o le caserme. Da oggi anche il "documento dei servizi" e "quello delle regole" sono nero su bianco. Centinaia di pagine, cartine e tabelle per stabilire il futuro urbanistico della città.
La novità sarà la "perequazione", come si chiama in termini tecnici. Finora l´indice volumetrico generale della città era 0,65: diventerà 0,50 ma si potranno sommare metri cubi acquistati spostandoli da altre aree che interessano al Comune per realizzare parchi o infrastrutture. Nelle zone densamente collegate, invece, si parte da un minimo di 1 per salire. La Borsa servirà anche per far crescere i metri quadrati di verde e servizi pubblici: in proporzione dagli attuali 21 metri quadrati per abitante a 39,7. Dei 450 ettari totali, 250 saranno spazi a uso pubblico, compreso il verde; altri 200 ai trasporti definiti «la spina dorsale della vita della metropoli».
Bilancio coi buchi e finanza tossica
Un viaggio in più puntate nella bolla milanese che deve ancora scoppiare: dal bilancio del Comune, ai derivati e al contesto di nuova bolla finanziaria che incombe a livello internazionale, per passare poi ai grandi progetti edilizi in crisi, agli intrecci finanza-mattone e alle bolle prossime e venture del cemento e degli aeroporti.
Milano, inverno 2010/2011: vaste aree della città, da Porta Garibaldi fino alla Fiera e alle aree periferiche, sono cantieri lasciati a metà e abbandonati al completo degrado. Il Comune, dopo la seconda ondata dello scoppio della bolla finanziaria e immobiliare, è rimasto praticamente senza fondi, ma in compenso ha debiti per centinaia di milioni di euro in seguito alla ennesima virata in negativo dei derivati di Albertini. Le banche della città, dopo decine di scambi “azioni a fronte del debito” per svariati miliardi con immobiliari fallimentari sono sprofondate in una voragine di passivi e sono quasi tutte chiuse. Dopo i nuovi tagli apportati dalla Gelmini-bis gli studenti vanno a scuola in classi di 100 alunni ciascuna per due ore al giorno nei soli mesi estivi (non ci sono fondi né per gli insegnanti né per il riscaldamento invernale). Nell’hinterland milanese non c’è ormai più una fabbrica aperta, ma politici e giornali riassicurano: anche questa volta il peggio della crisi è ormai passato. Per la città intanto si aggirano centinaia di camice verdi volontarie: la Lega le ha messe a disposizione dei propri colleghi di governo per proteggere i punti nevralgici del potere politico ed economico dalla rabbia dei cittadini diventati tutti, in base a un decreto padano, dei clandestini. Il sindaco da parte sua ribadisce che l’Expo 2015 si farà e stanzia gli ultimi 100.000 euro in contanti disponibili nelle casse comunali per un maxiconvegno intitolato: “Expo 2015: quali nuove scuse inventarci per produrre la prossima bolla?”… Fantascienza? Sì, ma non poi così irreale come potrebbe sembrare a prima vista. Gli ultimi sviluppi milanesi, e non solo quelli, vanno in una direzione che potrebbe avere esiti non poi così differenti da quelli dipinti sopra.
Cominciamo dal bilancio del comune e dalla bolla finanziaria che in alcuni punti è sull’orlo dello scoppio, in altri viene nuovamente gonfiata. Bilancio: da mesi alcune delle maggiori voci di entrata di Palazzo Marino, e più segnatamente gli oneri di urbanizzazione e gli introiti sulla pubblicità, stanno registrando forti cali, ai quali vanno ad aggiungersi gli effetti sulle casse del Comune della cancellazione della voce di entrata dell’Ici sulla prima casa, voluta dal governo Berlusconi. A luglio è stata messa a punto una prima manovra per tagliare circa 30 milioni dal bilancio comunale 2010. Ma in questi giorni sono arrivate notizie pesanti come macigni per il bilancio da approvare prima della fine di quest’anno. L’Ue ha comminato all’Italia una pesante multa, diventata definitiva, per le agevolazioni fiscali concesse alle ex aziende municipalizzate nei primi tre anni successivi alla loro privatizzazione. Ora le ex municipalizzate dovranno restituire le somme così accumulate in violazione delle normative europee. In particolare la A2A, società controllata dai Comuni di Milano e Brescia, dovrà restituire ben 200 milioni di euro e di conseguenza non sarà in grado di versare alle due municipalità i dividendi previsti. Il Comune di Milano dovrà pertanto tagliare dal bilancio gli 80 milioni di dividendi A2A previsti, una cifra enorme. E a ciò va aggiunto che quasi sicuramente il Comune non otterrà dividendi, a differenza degli anni passati, nemmeno dalla Sea, società di gestione aeroportuale gravemente colpita nei suoi conti dalla crisi di Malpensa. A queste cifre già da capogiro vanno poi ad aggiungersi i 18 milioni di buco della società comunale Zincar, gestita allegramente in assenza di controlli adeguati da parte di Palazzo Marino. Ma non è tutto, alcuni giorni fa è arrivata un’altra notizia pesantissima. Il governo centrale chiede al Comune di Milano di effettuare 380 milioni di tagli al bilancio nel triennio 2009-2011 per rispettare il patto di stabilità nazionale, una cifra enorme, tanto più se sommata agli altri buchi di bilancio. Il tutto si tradurrà inevitabilmente in drastici tagli ai servizi e agli investimenti: dopo anni di privatizzazioni e finanza allegra volute da loro e dai loro amici capitalisti, è un po’ come se gli amministratori ci stessero cantando in coro uno slogan popolare, ma di significato opposto, degli anni ‘70, “pagherete caro, pagherete tutto”. E stiamo già pagando cara anche l’Expo, nonostante finora non sia stato fatto nulla di nulla, a parte le operazioni di immagine, per l’evento previsto per il 2015. L’amministratore delegato di Expo 2015 S.p.A., Lucio Stanca (circa 450.000 euro/anno tra stipendio e bonus), a fine 2009 ha annunciato che la società avrà già un passivo di 11,6 milioni di euro e ha chiesto a Comune e Podestà di rimpinguarne subito le casse con 7,2 milioni di euro. Il secondo nicchia, il primo si dimostra subito disponibile. Dall’opposizione qualcuno fa osservare che magari Stanca potrebbe anche spiegare come sono stati spesi quei milioni. Ma è una domanda retorica: è noto a tutti che le lotte intestine per accaparrarsi poltrone costano sempre care ai cittadini. Che anche questa volta pagheranno caro, pagheranno tutto.
Al quadro generale vanno poi aggiunti i derivati del Comune e della Regione (si vedano in merito i nostri articoli Derivati e bilancio: le mani della finanza creativa su Milano e L’allegra Milano della bolla), riguardo ai quali non vi sono da registrare recenti novità, anche se le indagini della magistratura proseguono, ma che continuano a pendere su Milano e la regione come una pesantissima spada di Damocle fatta di centinaia di milioni di finanza tossica. A proposito di derivati va osservato che a livello internazionale si sta sempre più chiaramente profilando la formazione di una nuova bolla finanziaria, che va ad accavallarsi con quella precedente, ancora per la massima parte non smaltita. Milano, in quanto principale centro finanziario italiano, ne è pienamente coinvolta. All’argomento hanno dedicato una serie di articoli i quotidiani La Stampa e il Corriere della Sera. Nell’articolo pubblicato il 5 ottobre dalla Stampa, gli autori Luca Fornovo e Gianluca Paolucci rilevano che nel solo scorso mese di luglio le cartolarizzazioni a livello globale sono state di 49 miliardi di euro, contro i 54 miliardi del luglio 2008 (poco prima del crac Lehman) e i 51 miliardi del 2007 (alla vigilia della crisi dei subprime). Stanno riprendendo anche le emissioni dei tossicissimi Abs (asset backed securities, titoli garantiti da prestiti), come testimoniato dalle recenti emissioni miliardarie di Volkswagen, Tesco e Lloyds. Rincara la dose Federico Fubini sul Corriere della Sera: “già quadruplicato fra il 2003 e il 2008, il valore nominale dei derivati esistenti ha continuato a crescere dalla seconda metà del 2008 alla prima metà del 2009. I più diffusi, quelli sui tassi d’interesse, sono passati da un valore nominale di 403 mila miliardi nella seconda metà del 2008 a 414 mila miliardi alla fine di giugno del 2009. I “cds” [credit default swap] sono la sola classe di derivati in calo sul 2009, ma a un valore nominale di 31.223 miliardi di dollari (circa la metà del prodotto lordo della Terra). A metà 2009 l’ammontare totale dichiarato del nominale su derivati esistenti era a 445.312 mila miliardi di dollari, più o meno nove volte più del Pil del mondo (dopo essere sceso appena solo nella seconda metà del 2008). A copertura dai rischi sul petrolio, sui tassi o sulle valute, i derivati Otc vengono usati dal 94% delle imprese dell’indice Fortune 500, le più grandi del mondo in tutti i settori”. Gli Otc (over the counter) sono titoli “creati e venduti bilateralmente fra privati senza passare per una Borsa e i suoi strumenti di regolamento e compensazione delle transazioni”. Per questo nessuno in realtà sa quanti siano i derivati Otc in circolazione. E in fatto di cartolarizzazioni le banche italiane non rimangono indietro: nell’ultimo anno e fino a oggi hanno cartolarizzato poco meno di 100 miliardi di euro di mutui e altri crediti, con Unicredit (oltre 27 miliardi) e Intesa Sanpaolo (oltre 24 miliardi) in prima fila. Gli autori dell’articolo della Stampa così spiegano le caratteristiche che hanno oggi queste operazioni: “Prima i titoli emessi venivano venduti ad investitori istituzionali, che a loro volta li rimpacchettavano e li rivendevano in altre forme, all’infinito, con i risultati che abbiamo visto. Adesso è la banca stessa che li riacquista, per darli in garanzia alla Bce a fronte di nuova liquidità. [...] Nel momento in cui la Bce interrompesse il meccanismo, o questi titoli vanno sul mercato, agli investitori istituzionali, oppure ci sarà una nuova crisi di liquidità”. Oltretutto, “nessun può impedire che gli investitori istituzionali ‘reimpacchettino’ all’infinito quei mutui fino a ricreare i meccanismi che hanno portato alla moltiplicazione di liquidità non sostenuta dai depositi che ha messo in ginocchio la finanza”. Qualcuno osserva che i titoli emessi ora hanno un “rating elevato”, ma va sottolineato che da una parte anche in passato era così e che nulla è stato cambiato nei meccanismi, dimostratisi inefficaci, del rating e che dall’altra, come nota Elio Lannutti, dell’associazione dei consumatori Adusbef, “con la crisi che c’è parlare di prestiti di buona qualità appare un paradosso”. Ma arrivano a dare cedole anche dell’8%: l’importante è incassare ora senza curarsi della bolla che scoppierà, la stessa filosofia che ha portato alla crisi attuale.
Che l’attuale apparente “ripresina” sia pericolosamente gonfiata lo testimonia anche quanto constata ancora il Corriere della Sera: “continuano a crescere le insolvenze sui prestiti immobiliari, su quelli alle imprese e ai consumatori Usa, ma Jp Morgan ha appena dichiarato un utile netto sul trimestre di 3,6 miliardi di dollari: sette volte e mezzo più di un anno fa”. L’euforia attuale per quella che erroneamente viene interpretata come un’inversione di tendenza, viene smentita, oltre che da quanto abbiamo riferito sopra, anche da altri dati inquietanti: “giovedì scorso nella trimestrale di Citi sono spuntati otto miliardi di perdite sul credito. Venerdì Bank of America ha aggiunto 11 miliardi di cuscinetto contro svalutazioni future”. E secondo il Fondo Monetario Internazionale “il processo di riconoscimento delle perdite sul credito e sui titoli cartolarizzati non è ancora neanche a metà: secondo il Fondo le svalutazioni già effettuate dagli istituti sono di 1.300 miliardi di dollari, ma quelle da portare alla luce arriverebbero a 1.500″ e in due anni di crisi gli Usa hanno coperto appena il 60% del percorso, mentre l’Europa è messa addirittura molto peggio, con solo il 40%. Anche a livello italiano ci sono segnali preoccupanti. Come segnala La Stampa il 17 ottobre: “mercoledì scorso [14 ottobre] due emissioni del gruppo bancario Unicredit sono state messe ’sotto osservazione’ da parte di Moody’s, mentre erano già state declassate in maggio da Standard & Poor’s”. Se finora le cartolarizzazioni italiane hanno tenuto, ci sono però oggi segnali di un preoccupante rapido deterioramento. Per esempio, per una emissione da 1,68 miliardi di euro dell’ex Banca di Roma su immobili principalmente di Milano e Roma il tasso di default (insolvenza) è passato dallo 0,62% del gennaio 2008 al 2,74% di fine anno, per salire al 3,20% nel primo trimestre di quest’anno e al 3,4% a luglio. A fronte di questo rapido crescere del tasso d’insolvenza c’è un’altrettanto preoccupante riduzione del fondo di garanzia, che serve a coprire i mancati pagamenti, calato a 12,2 milioni rispetto ai 37,2 del suo target. Per tornare alla bolla globale, invece, va registrato il caso della Cina, la cui ripresa artificialmente gonfiata è in larga parte alla base dei piccoli segni di miglioramento, o piuttosto di freno della caduta, registrati negli ultimissimi mesi dall’economia globale. Il Sole 24 Ore del 16 ottobre richiama l’attenzione sul fatto che nei primi nove mesi dell’anno le banche cinesi hanno messo in circolazione la cifra astronomica di 1.270 miliardi di dollari, “finiti in larga parte sui listini azionari e sul mercato immobiliare gonfiandone le quotazioni”. Il settore immobiliare assorbe ormai il 20% degli investimenti interni del paese e le vendite di case nei primi nove mesi hanno fatto registrare un balzo enorme del 73,4%, con un aumento dei prezzi dell’11% su base annua. Tutti sintomi identici a quelli che hanno portato al recente e non ancora esaurito scoppio della bolla globale.
C’è un altro aspetto particolarmente preoccupante, quello delle crisi di aziende insolvibili, che vengono risolte mediante complessi piani che hanno come esito quello di uno scambio dei debiti con una partecipazione azionaria da parte delle banche creditrici (lo abbiamo già visto nel caso Risanamento in L’allegra Milano della bolla) o l’emissione di maxiprestiti obbligazionari per coprire i debiti in scadenza (cioè apertura di nuovi debiti per coprire vecchi debiti in presenza di una situazione di insolvenza!). In entrambi i casi si ha un ulteriore e ingente invischiamento diretto delle grandi banche in situazioni sull’orlo del crack, con il conseguente aumento del rischio complessivo per il sistema finanziario. Vale la pena di citare a tale proposito il caso di Telco, la società “cassaforte” che controlla il 24,5% di Telecom Italia e che entro tre mesi dovrà restituire 2,6 miliardi di euro di debiti. Ad aprile Telco ha chiuso i conti con 1,66 miliardi di euro di perdita (anche in conseguenza della svalutazione della partecipazione in Telecom Italia) ed è stata costretta a coprirla abbattendo il capitale nonché azzerando le riserve patrimoniali, con la conseguenza che non dispone di risorse per rimborsare i 2,6 miliardi di euro di debiti. Per risolvere la situazione le strade (alternative al fallimento) sono due: o un costoso aumento di capitale, o l’emissione di un maxibond. Secondo il Corriere della Sera si starebbe optando per la seconda soluzione. Gli azionisti di Telco coinvolti nella più che complessa situazione sono due banche, Intesa e Mediobanca, un’assicuratrice, Generali, e due grandi aziende, Benetton e la spagnola Telefonica.
C’è poi un altro maxibond di cui è il caso di parlare, quello da 1 miliardo di dollari fatto sequestrare dalla magistratura milanese. Era stato emesso da una società inglese costituita appena il giorno prima dell’emissione stessa e dal capitale dichiarato di 50 miliardi di sterline, di cui però solo due versate (non due miliardi, ma due [2] sterline!). Una banca vera e “primaria” come il Credit Suisse lo aveva trasmesso a un’altra banca altrettanto vera, la Banca Mediolanum, e, come scrive il Corriere della Sera: “sarebbe potuto essere usato come robusta garanzia per ottenere dalle banche ingenti finanziamenti, o come sponda per negoziare altre operazioni”. Un altro sintomo di come la finanza tossica sia ancora viva e vegeta e trovi facili canali nel circuito bancario. E un episodio inquietante che va ad aggiungersi a quello misterioso del sequestro di obbligazioni per 131 miliardi di dollari (forse false, ma la vicenda non è ancora stata chiarita ed è oggetto di svariate teorie cospirazioniste) sequestrati a giugno a Chiasso a due giapponesi e a quello altrettanto misterioso del sequestro di bond americani per 180 miliardi di dollari sequestrato in agosto a Malpensa a due filippini, cifre in grado di provocare un terremoto nella finanza globale (si veda il relativo articolo del Corriere della Sera).
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Un viaggio in più puntate nella bolla milanese che deve ancora scoppiare: dal bilancio del Comune, ai derivati e al contesto di nuova bolla finanziaria che incombe a livello internazionale, per passare poi ai grandi progetti edilizi in crisi, agli intrecci finanza-mattone e alle bolle prossime e venture del cemento e degli aeroporti.
DAL FLOP…
Doveva essere “il sogno nel cielo di Milano”, anche se a chi non è un cultore dell’architettura bollaiola faceva piuttosto pensare a un incubo avvolto dallo smog della città. Ma la Torre delle Arti, 24 piani di cemento per 96 metri di altezza, affiancati da due edifici più bassi, non si farà. Secondo i progetti originari doveva essere terminata entro il 2010 in via Principe Eugenio, una residenza di extralusso alla cui realizzazione avrebbero dovuto contribuire anche noti artisti, ma da dieci mesi il cantiere era fermo. E’ scoppiata la bolla e per il fondo immobiliare australiano Babcock & Brown, attualmente in amministrazione controllata (e “con rapporti molto stretti con il gruppo assicurativo Generali”, scrive Repubblica), i 70 milioni di euro di investimento sono evidentemente ormai senza prospettiva di rendita adeguata. Al posto dei 20.000 mq per 140 appartamenti di lusso che si intendeva vendere a 10.000 euro al mq per ora rimane solo un enorme buco. Si tratta del primo rilevante progetto immobiliare milanese che dà completamente forfait dopo lo scoppio della bolla ed è una pessima notizia per gli speculatori immobiliari, perché potrebbe essere un primo caso seguito da altri e ben peggiori naufragi. E i sintomi di uno stato di profonda malattia del settore sono davvero tanti e preoccupanti.
…AL CRACK?
Solo alcuni giorni dopo questo annuncio il Tribunale di Milano rimandava la decisione su un eventuale dichiarazione di fallimento per la Risanamento di Luigi Zunino (probabilmente verrà presa verso metà novembre). La fragilità dell’operazione di salvataggio prevista dalle banche (si veda per i dettagli L’allegra Milano della bolla) è testimoniata tra le altre cose da un nuovo sviluppo e più precisamente dal fatto che prima dell’ultima udienza queste ultime abbiano dovuto aggiungere al loro piano una nuova linea di credito di 76 milioni per i problemi dell’immobiliare milanese con l’Agenzia delle entrate. I pm hanno inoltre contestato che una quota non indifferente del valore dell’operazione di salvataggio delle banche andrebbe a finire in commissioni, parcelle, oneri vari, e non nelle casse della Risanamento. Da parte loro i legali delle banche vanno all’attacco con argomenti che paiono minacciosi: il fallimento della società costituirebbe il “dissesto più grave dopo Parmalat, con conseguenze gravissime in termini di costo sociale e sul comportamento delle istituzioni finanziarie chiamate a risolvere numerose le crisi di impresa”. Non hanno tutti i torti e lo testimonia indirettamente il fatto che nel giro di una sola settimana nuove nubi si sono addensate su Risanamento e Zunino. La Stampa il 24 ottobre rileva che il fisco ha contestato alla società una serie di irregolarità contabili per 12 milioni, e che se le banche italiane creditrici spingono per il piano, meno entusiaste sembrerebbero quelle estere (che vantano crediti per oltre 170 milioni di euro), mentre Pirelli Re ha fatto partire un decreto ingiuntivo nei confronti di Risanamento per 2 milioni di euro di credito mai onorato. Sulle pagine del Corriere Economia il giornalista Jacopo Tondelli formula alcune osservazioni su quello che è uno dei pilastri del piano di salvataggio delle banche, cioè la vendita delle aree Falck di Sesto San Giovanni, sulle quali era prevista la realizzazione di un progetto da 5 miliardi di euro: “per passare dalla carta al cantiere, bisogna poter contare su cinque miliardi in cinque anni. ‘Cifre,’, secondo protagonisti del mercato immobiliare milanese, ‘che oggi risultano fantascientifiche e che erano sostenibili sia in termini di investimenti che in termini di prezzi offerti al mercato solo quando il mattone era ai massimi’”.
Il rischio è che l’operazione si dilati di anni. Come se non bastasse, negli ultimi giorni sulla testa di Risanamento è caduto il mattone dell’arresto di Giuseppe Grossi (si veda in merito il nostro articolo Casei Gerola: la speculazione al posto della produzione) nell’ambito di un’inchiesta partita con le indagini sulle fatture gonfiate per la bonifica del quartiere di Santa Giulia. Risulta sotto inchiesta anche lo stesso Luigi Zunino per una (finora presunta) appropriazione indebita di 1 milione di euro della società. Indagine che preoccupa in modo particolare le banche creditrici perché potrebbe incidere sulla decisione dei giudici in merito all’eventuale fallimento. Per loro ora, scrive la Stampa, “la parola d’ordine è quella di allontanare il più possibile la figura di Zunino da Risanamento. Operazione non facilissima anche perché [...] il piano di ristrutturazione prevede che Zunino resti azionista con una quota anche superiore al 20%. Quota che solo in un secondo tempo potrebbe passare in altre mani grazie alla liquidazione delle tre holding dell’immobiliarista”. Ci si mette poi anche Il Sole 24 Ore, che pubblica prima un articolo (“Quell’asse tra Panama e il Lussemburgo”) sul sistema di società personali di Zunino e della moglie e con perno tra Panama e il Lussemburgo, “scomparse” quando la capogruppo dell’immobiliarista, la società off-shore Domus Fin, nel 2006 è diventata una società di diritto italiano con il nome di Zunino Investimenti Italia, e poi un impietoso, ma davvero ottimo, articolo di Marco Alfieri (“I sogni infranti della old new town”) sul progetto fallimentare di Santa Giulia, anch’esso un pilastro del piano di salvataggi delle banche, un articolo che vi consigliamo caldamente di leggere per avere un’immagine concreta delle cause e, soprattutto, delle conseguenze della bolla immobiliare milanese.
IL NODO CITYLIFE
Alle sempre più evidenti difficoltà di CityLife, uno dei maggiori progetti edilizi di Milano, avevamo già accennato di recente. Visti gli ultimi sviluppi nel settore immobiliare vale la pena di ripercorrere in poche righe la storia di questo progetto, con particolare riferimento alle origini delle attuali difficoltà. La gara per la realizzazione del progetto sull’area dell’ex Fiera di Milano è stata vinta nel 2004 da una cordata formata da Generali, Ras (ora Allianz), Immobiliare Lombarda (Ligresti) e Gruppo Lamaro. A fronte della vendita dell’area alla cordata che ha preso il nome di CityLife, la Fiera Milano SpA preventivava di ottenere 200-250 milioni di euro. Alla fine si è giunti a un prezzo che quasi tutti gli osservatori hanno giudicato gonfiatissimo, 530 milioni di euro. Rispetto al progetto originario è però stata successivamente approvata una variante che ha ampiamente aumentato il valore dell’operazione CityLife: l’indice di edificabilità di zona è stato portato dallo 0,65 mq/mq vigente in tutta la città a 1,15 mq/mq. Sulla superficie utile di 366.000 mq si riverseranno circa 900.000 metri cubi tra residenziale extralusso e commerciale, con tre grattacieli alti fino a 204 metri. La data prevista per il completamento è quella fatidica del 2014-2015 (per materiali sulla storia del progetto CityLife si vedano le ricche e aggiornate rassegne stampa dell’Associazione Vivi e progetta un’altra Milano e del Comitato Residentifiera). E’ da tempo che il progetto CityLife evidenzia criticità. Nel giugno del 2007 la Banca d’Italia aveva contattato i maggiori gruppi bancari italiani cercando di riportarli all’ordine: i finanziamenti immobiliari non avrebbero dovuto superare il 70% del valore del rispettivo progetto. CityLife ha sempre viaggiato sull’80%, Garibaldi-Repubblica sul 75%-85%. Ma l’avvertimento della Banca d’Italia era solo una moral suasion priva di vincoli obbligatori: i risultati li si vedono oggi. E non a caso il Sole 24 Ore nello stesso anno scriveva che “lo sviluppo immobiliare di Milano riproduce il bancocentrismo dell’industria italiana” e in un altro articolo notava che “le iniziative in corso rischiano di arrivare sul mercato in tempi ravvicinati e di creare eccesso di offerta”.
Nello stesso 2007 ci sono state le dimissioni di Ugo Debernardi da presidente di CityLife, in merito alle quali il Sole 24 Ore scriveva: “Il motivo? Diversità di vedute con Salvatore Ligresti: la sensazione è che CityLife abbia costi enormi dai quali bisognerà rientrare in fase di vendita”. Prosegue il giornale: “Ora, secondo indiscrezioni, il progetto originario si starebbe rilevando più costoso del previsto [...], lo stesso Salvatore Ligresti avrebbe rilevato che spese troppo elevate potrebbero essere un boomerang. In particolare, l’innalzamento del costo per metro quadrato potrebbe rendere difficile la successiva vendita sul mercato. [...] Il progetto iniziale non è modificabile. Infatti proprio in virtù del piano architettonico presentato, il raggruppamento CityLife aveva battuto Pirelli e Risanamento con un’offerta di 523 milioni di euro economicamente più elevata dell’8% rispetto ai contendenti”. Riassumendo: già più di due anni fa erano in molti a rilevare che si trattava di un’operazione con una leva finanziaria enorme, altamente rischiosa e vulnerabile di fronte all’andamento della finanza globale. I nodi ora stanno venendo al pettine. Ne scrive nei dettagli Vittorio Malagutti su L’Espresso del 22 ottobre, giungendo a dire che CityLife “rischia di essere ridimensionato se non addirittura di naufragare”. Come abbiamo già riferito, i costi del progetto sono lievitati dai 1,7 miliardi iniziali a 2,1 miliardi. L’unica che mostrerebbe qualche disponibilità a mettere mano al portafoglio per coprire la differenza è Generali. Non così Allianz, e tantomeno Ligresti e la Lamaro della famiglia Toti. Secondo L’Espresso questi ultimi due sarebbero addirittura pronti a vendere le quote, ma non riuscirebbero a trovare compratori.
Le banche finanziatrici sarebbero altrettanto renitenti, a cominciare dai tedeschi di EuroHypo, già pieni di problemi a casa loro, fino a Intesa Sanpaolo e Unicredit, già altamente esposte al potenziale crack di Zunino. L’Espresso cita a tale proposito un verbale del consiglio di amministrazione di Generali Properties: “Dal giugno 2008 le banche finanziatrici hanno sospeso l’erogazione del finanziamento (a CityLife, ndr) e non si sono rese disponibili a finanziare l’importo finanziato pur a fronte delle modifiche intervenute sul progetto” e ipotizza un compromesso, “le banche sarebbero pronte a sbloccare i finanziamenti rilevando anche la quota dei tedeschi in uscita. Il fabbisogno finanziario, però, dovrà essere rivisto al ribasso e quindi è facile prevedere che CityLife verrà ridimensionata”. Ma c’è ancora dell’altro. Nonostante i responsabili del progetto si mostrino ottimisti, a fine settembre di quest’anno erano stati stipulati compromessi solo per 45 sulle 300 residenze già messe in vendita, su un totale di oltre mille che verranno realizzate, senza contare che poi bisognerà vendere anche il commerciale e il terziario. E più si tarda, più bisogna pagare interessi sugli enormi prestiti contratti, senza coprirli con gli introiti delle vendite. Abbiamo quindi molti dei sintomi che hanno preceduto il precipitare della situazione di Risanamento: problemi di finanziamento, costosissimi ritardi, sempre maggiore esposizione delle banche creditrici alla bolla immobiliare.
I GRATTACAPI DI DON SALVATORE E I FONDI POCO TRASPARENTI
Come abbiamo già scritto in precedenza (Cemento sul piede di guerra), l’impero immobiliare e finanziario di Salvatore Ligresti dà preoccupanti segni di scricchiolio. Tra debiti non rimborsati alla scadenza, società come Sinergia (la “cassaforte” del gruppo) e Imco con perdite in aumento e debiti in rapida ascesa, i problemi sono davvero molti. Insomma, come scrive Milano Finanza, “una situazione reddituale che a partire dal 2008 si è andata appannando”. E così il peso massimo del gruppo Ligresti, cioè la FonSai, ha deciso la cessione di immobili situati a Milano, Torino e Firenze per un valore di perizia di 523 milioni di euro e un valore di libro di 340 milioni, mediante il loro conferimento a un fondo immobiliare che verrà costituito appositamente, il Fondo Rho. Tramite un complesso giro di finanziamenti bancari, accollamenti di debiti, conferimenti immobiliari e altro ancora, il gruppo Ligresti dovrebbe trarre risorse liquide per 339 milioni di euro, di cui 215 milioni di rivenienti dal debito bancario e 123 milioni dal collocamento delle quote. Nulla cambia nella sostanza, ma l’alchimia finanziaria produce “liquidità” e, lo notiamo ancora una volta, le banche rimangono esposte. Abbiamo citato a proposito degli immobili del gruppo Ligresti il termine “valore di perizia“. Si tratta di un termine alquanto imbarazzante in questo momento, soprattutto se riferito ai fondi immobiliari (cioè fondi aperti ai piccoli investitori o chiusi e riservati agli investitori istituzionali, che permettono di investire indirettamente in immobili gestiti da apposite società come se fossero normali prodotti finanziari). La Consob, l’organo che tutela tra le altre cose la trasparenza del mercato mobiliare italiano, ha adottato recentemente un position paper in cui richiama l’attenzione su numerosi aspetti preoccupanti dei rapporti tra fondi e periti che effettuano le valutazioni. Scrive il Sole 24 Ore del 17 ottobre: “a partire da giugno 2008 vi è stata una progressiva flessione dei principali indicatori [del valore degli immobili]. Flessione, spiegano in Consob, che invece non si ritrova nei rendiconti al 31 dicembre 2008 dei fondi immobiliari italiani, i cui valori sono rimasti in linea con il 2007. [...] Una rigidità nell’adeguarsi al mercato quanto meno strana. Eppure i gestori sanno bene ciò che sta avvenendo nel mondo del mattone (Risanamento insegna)”.
Inoltre la Consob ha constatato che addirittura l’81% delle perizie vengono effettuate da due sole società, la CB Richard Ellis e la Reag. Tali società, che oltre ad agire come periti forniscono anche consulenze per la compravendita, traggono i loro guadagni non tanto dalle attività di perizia, quanto essenzialmente dalle percentuali sui valori di compravendita suggeriti. La Consob rileva che vi è un potenziale conflitto di interessi nell’esercizio contemporaneo delle due attività. Milano Finanza del 13 ottobre scrive poi che la Consob “lamenta che le metodologie adottate [dalle società di valutazione] non consentono di ricostruire il processo speculativo: le scelte non sono argomentate, il tasso di attualizzazione non indica le componenti di rischio e i prezzi di riferimento non sono noti” e osserva che deve essere evitato, “come accaduto, di indicare per esempio immobili vuoti per pieni”! Per riassumere: vi è una pressoché totale mancanza di controlli effettivi sui valori di perizia degli immobili con la conseguente loro scarsa credibilità, un altro elemento che potrebbe ulteriormente alimentare la nuova bolla in corso. Non è un caso che, come riferisce Milano Finanza del 17 ottobre, nonostante l’attuale situazione di grave crisi i fondi immobiliari chiusi abbiano registrato a fine settembre forti rialzi che li hanno riportati agli “stessi livelli dell’estate 2008 prima che si verificasse il fallimento di Lehman Brothers”.
PROBLEMI FINANZIARI ANCHE PER LA PEDEMONTANA
Aria di problemi anche per la Pedemontana, la megautostrada lombarda i cui costi stimati sono già lievitati da 3 a oltre 4 miliardi di euro (l’opera rientra nell’elenco delle opere connesse a Expo 2015) e il cui progetto di realizzazione è gestito dalla società Pedemontana Lombarda, controllata al 68% dalla Provincia di Milano tramite la società Serravalle e per il 26% da Intesa Sanpaolo tramite la Biis. Dopo l’arrivo di Guido Podestà alla guida della Provincia di Milano i vertici di Pedemontana sono stati azzerati, l’ad delegato Fabio Terragni, uomo di Filippo Penati, è stato rimosso dal proprio incarico, e sono stati nominati nuovi vertici più vicini alla destra. Ma i problemi ai quali accennavamo non sono questi e sono in realtà molto più preoccupanti. E’ stata infatti effettuata recentemente, prima da Deloitte&Touche e poi da Kpmg, un’analisi del piano economico-finanziario per la realizzazione dell’autostrada che dovrebbe partire tra pochi mesi, nel marzo 2010, e sono emerse “alcune criticità”. Citiamo a proposito il Sole 24 Ore del 18 ottobre: “Il piano a oggi non sarebbe bancabile, ovvero le banche non lo finanzierebbero. Tra i punti critici principali: la valutazione dei rischi di costruzione, che non terrebbe conto del fatto che i costi di realizzazione potrebbero essere maggiori del previsto (si parla di un miliardo in più); i rischi legati al nuovo sistema di riscossione pedaggi introdotto (senza barriere, dunque con potenziali mancati incassi sul pedaggio che richiederebbero di prevedere nel piano tassi di non riscosso maggiori di quelli programmati); le garanzie sul valore di subentro, ovvero l’entità dell’indennizzo che il concessionario riceverebbe qualora, a scadenza della concessione, non avesse ammortizzato tutti i lavori. [...] E’ difficile che le complesse alchimie del piano possano essere risolte a breve per far approdare la convenzione di Pedemontana al Cipe”.
Nel frattempo ci dovrebbe essere un aumento dell’esposizione delle banche al progetto: Serravalle cederà il 30% del capitale di Pedemontana Lombarda e tra i candidati in lizza vi sarebbero Unicredit, Bpm, Bnp Paribas e Santander. Le criticità di Pedemontana, quindi, assomigliano in parte a quelli di CityLife: problemi di finanziamento, insufficiente messa in conto dei rischi, banche sempre più esposte a questi ultimi. Colpisce in particolare il fatto che Intesa Sanpaolo sia esposta in prima linea a quasi tutte le situazioni di rischio che abbiamo affrontato in questo viaggio nella nuova bolla, e cioè Risanamento, CityLife e Pedemontana.
QUALCHE ALTRA CILIEGINA SULLA TORTA
Va rilevata anche la posizione della Pirelli e in particolare del suo ramo immobiliare, rappresentato da Pirelli Re che, lo ricordiamo, si ritrovava a fine 2008 con 195 milioni di perdita in bilancio e le cui azioni hanno subito un tracollo dopo lo scoppio della bolla (o meglio, della prima fase dello scoppio della bolla), si veda a proposito “La parabola di Pirelli Re”, pubblicato da Repubblica il 20 aprile scorso. Il primo semestre 2009 non ha migliorato le cose: si è chiuso con una perdita di oltre 42 milioni, ricavi in calo, indebitamento netto di 430 milioni di euro. Per porre rimedio alla situazione è stato effettuato un aumento di capitale di 400 milioni ed è stato siglato un accordo con un pool di banche (tra cui Unicredit e Intesa Sanpaolo) per una ristrutturazione delle linee di credito da svariate centinaia di milioni che ha fornito ossigeno (la situazione era [è] davvero preoccupante, tanto che il 31 luglio scorso il Corriere della Sera scriveva: “È chiaro che il braccio immobiliare della Bicocca, oggi che il trading e la rotazione del portafoglio real estate sono pressoché bloccati, non ha la cassa per coprire tutte le scadenze [di rimborso dei prestiti]“). Inoltre Intesa Sanpaolo (sempre lei!) è già entrata come socio al 5% e aumenterà la sua quota al 10%. Intanto a Milano è stata siglata una delle maggiori operazioni immobiliari dell’anno. Il Maciachini Center (86.000 mq, ma è un progetto che va ancora portato a termine nel suo complesso) è stato acquistato da Generali Immobiliare per 300 milioni di euro, una delle maggiori operazioni del settore in Europa e la maggiore in Italia in questo 2009.
Generali, lo ricordiamo, è già esposta a CityLife. A livello nazionale c’è da rilevare la moratoria sui mutui annunciata dalle banche italiane. Una mossa strombazzata dai media come una testimonianza della responsabilità sociale degli istituti finanziari italiani. Per chi conosce bene le banche si tratta di una spiegazione poco credibile. I veri motivi li spiega con chiarezza Luca Fornovo sulla Stampa del 22 ottobre: la moratoria è uno strumento che può essere di grande aiuto alle banche perché evita loro di dovere mettere a bilancio prestiti non rimborsati e di creare maggiori accantonamenti per le relative sofferenze. Non a caso proprio in questi giorni l’Associazione bancaria italiana “ha annunciato che per effetto della recessione continua a peggiorare la qualità del credito. A fine agosto le sofferenze lorde delle banche italiane hanno raggiunto quasi 52 miliardi di euro, oltre 12 miliardi in più rispetto a novembre 2008, quando avevano raggiunto il valore più basso degli ultimi anni”. Secondo altri esperti citati da Fornovo, quest’anno i conti economici delle banche saranno inoltre gravati da 8 miliardi di utili in meno a causa dei maggiori accantonamenti. “Secondo stime prudenti degli esperti”, scrive Fornovo, “il beneficio della moratoria dei mutui potrebbe tradursi per le banche in minori accantonamenti per 150-200 milioni. C’è poi un terzo piccione da prendere [con la singola fava della moratoria]. La moratoria potrebbe servire anche a limitare i pignoramenti delle case ed evitare una caduta del mercato immobiliare in Italia come è avvenuto negli Stati Uniti, dove c’è stato un vero e proprio crollo, dopo il boom delle confische di immobili”. La moratoria non è quindi un gesto filantropico, quanto piuttosto una mossa studiata dalle banche per mettere una pezza alla loro difficile situazione, ed è anche un segno di quanto ancora si temano gli effetti dello scoppio della bolla.
E PER FINIRE…
Dopo avere parlato tanto di mattone e finanza, chiudiamo con una piccola nota di storia dell’architettura: i grattacieli, per dirla un po’ volgarmente, portano sfiga. Lo ha rilevato, seppure con uno stile elegantemente britannico, il Financial Times, constatando che durante gli ultimi cento anni nei periodi immediatamente precedenti alle crisi economiche vi è sempre e regolarmente stato un boom dei grattacieli. Mentre tra gli anni venti e gli anni trenta la torre della Chrysler e l’Empire State Building lottavano per diventare l’edificio più alto del mondo, intorno a loro l’economia crollava. Il World Trade Center è stato completato quando nel mondo iniziava il pesante periodo della stagflazione. In Malaysia, le due enormi Petronas Towers sono state terminate nel 1997, quando si è verificato il crollo dei mercati asiatici. Negli ultimi anni a Londra è stata pianificata la costruzione di decine di grandi torri e, puntuale, è spuntata la crisi. Non osiamo immaginarci, aggiungiamo noi, cosa si debba attendere Milano con i suoi folli progetti di grattacieli di ogni forma, dalla fallica nuova sede della Regione di Formigoni, fino al beffardo Bosco verticale di Garibaldi-Repubblica e all’inedita banana di CityLife. C’è comunque una consolazione, scrive il Financial Times. I periodi successivi alle crisi hanno sempre visto un abbandono degli eccessi della “oligarchitettura” e il ritorno a stili molto più sobri: la crisi degli anni trenta ha portato all’emergere del modernismo, mentre quella della fine degli anni ottanta ha posto fine agli eccessi del postmodernismo. Speriamo quindi che anche il bancointeso-ligrestismo milanese sia ormai prossimo al tramonto.
La “pace ligrestiana”, il Pgt e il Parco Sud; Il diktat di Formigoni, gli altri progetti faraonici; Aeroporti impazziti; Contro Milano; La bufala del social housing
LA “PACE LIGRESTIANA”, IL PGT E IL PARCO SUD
Nelle prime due puntate del nostro speciale sulla “bolla che deve ancora scoppiare” abbiamo passato in rassegna i casi più clamorosi della crisi finanziaria e immobiliare che incombe su Milano, e non solo. In quest’ultima puntata passiamo invece in rassegna una serie di sviluppi meno eclatanti, ma altrettanto indicatori della tesa frenesia che continua a contraddistinguere l’urbanistica milanese e lombarda. Lo facciamo cominciando dall’intreccio Ligresti-Piano di governo del territorio (Pgt)-Parco Sud. La notizia più recente è quella della raggiunta “pace” tra Salvatore Ligresti e Palazzo Marino, con il ritiro da parte del primo della richiesta alla Provincia di commissariare il Comune di Milano (si veda “Il cemento sul piede di guerra“). L’accordo è arrivato nella più totale mancanza di trasparenza dopo una serie di riunioni private, anche presso l’abitazione del sindaco, che hanno coinvolto tra gli altri, oltre alle società del gruppo Ligresti, la Moratti, l’assessore Masseroli e perfino Manfredi Catella del gruppo Hines (non si capisce cosa c’entri quest’ultimo nella storia della richiesta di commissariamento: sta sì realizzando insieme a Ligresti il megaprogetto Garibaldi-Repubblica, ma non è assolutamente coinvolto nella questione che avrebbe dovuto essere oggetto dei colloqui, evidentemente si è negoziato anche su altro). L’opinione più diffusa nei media è che si sia raggiunto qualche accordo riguardo alla vera posta in gioco, i diritti edificatori delle vaste aree del Parco Sud di proprietà di Ligresti e il ruolo della Provincia nell’urbanistica milanese.
Come scriveva il Corriere della Sera del 6 ottobre, Podestà “ha osservato che il Pgt non tiene conto dei Piani di Cintura, cioè dello strumento urbanistico che dipende interamente dalla Provincia e che riguarda i criteri e le regole sulla possibilità di edificazione nella zona del Parco Sud” e ha chiesto che i Piani di cintura vengano integrati nel Pgt, sollevando inoltre questioni riguardo alla filosofia generale del Piano e in particolare sulla perequazione (cioè la possibilità di utilizzare altrove i diritti edificatori di cui non si può godere sui terreni di propria proprietà, in base a specifici indici di edificabilità). L’assessore provinciale all’urbanistica, Fabio Altitonante, ha detto che il lavoro sui Piani di cintura comincerà subito, ma richiederà almeno 16 mesi, specificando che si tratta di un territorio che riguarda il 40-50% delle volumetrie del piano regolatore (circa 18 milioni di metri cubi). Il Pgt invece, secondo i piani del Comune, dovrebbe essere approvato al massimo a gennaio. I Piani di cintura urbani riguardano nello specifico aree al confine tra la metropoli e otto comuni dell’hinterland comprese nel Parco Sud o in altri polmoni verdi come il Bosco in Città, il Parco delle Abbazie, i Navigli, il Parco Est Idroscalo, Lambro-Monluè, per una superficie di 4.800 ettari, più del 10% del totale del Parco Sud. Secondo la Repubblica del 6 ottobre, a Podestà “non piacerebbe un’impostazione del Pgt che accentrerebbe a Milano le nuove costruzioni – e le relative volumetrie – trascurando le possibilità di espansione dell’hinterland”. A quanto abbiamo riferito sopra si aggiungono altri due recenti sviluppi. Il 6 ottobre il consiglio comunale di Milano ha approvato la variante urbanistica per la costruzione del megacentro di cura e ricerca Cerba all’interno del Parco Sud, su un’area di proprietà di Ligresti, mentre qualche giorno dopo ha deciso che non si costruirà nella zona dell’ippodromo di San Siro, dove era previsto un megaprogetto di edilizia di lusso. Roberto Losito, immobiliarista e finanziere consulente della Snai, che ha un diritto di opzione sull’acquisto delle aree, si dice non stupito dalla decisione e formula un velenoso commento: “Immagino che se fosse uscita sul mercato, l’offerta qualitativa di San Siro avrebbe creato grossi problemi alla concorrenza”, cioè, si intuisce, ad altri grandi progetti come CityLife o Garibaldi-Repubblica che vedono Ligresti in prima fila, per esempio.
CHE LA GUERRA COMINCI
Un quadro complessivo di grandi manovre e grandi tensioni, e addirittura grandi veleni, dovuti al fatto che si stanno adottando (con un’assoluta mancanza di trasparenza) decisioni che orienteranno l’urbanistica milanese, e quindi il business del mattone, per svariati anni. La posta in gioco del Piano di governo del territorio è molto alta, soprattutto in questo momento di crisi: 14 miliardi di euro. Lo scrive sul Sole 24 Ore del 16 ottobre Marco Alfieri. Il Pgt infatti definisce “15 grandi progetti di interesse pubblico e 31 ambiti di trasformazione” che vanno da Cascina Merlata, Stephenson ed Expo, a Bovisa/Farini, all’area Porta Genova/San Cristoforo e molto altro ancora, per “ben 42 milioni di metri quadrati interessati su un tessuto urbano consolidato attuale di 134. [...] La rivoluzione costerà la bellezza di 14,3 miliardi. E’ questa la vera incognita. Non basta infatti estendere il meccanismo della perequazione negoziale che, in teoria, consentirà a palazzo Marino di acquisire a costi nulli 2,6 milioni di metri quadrati di suoli strumentali alle dotazioni della città pubblica riconoscendo ai privati proprietari diritti edificatori sfruttabili altrove in città. Non basta il gettito derivante dai mega oneri di urbanizzazione che, sull’intero Pgt, dovrebbero aggirarsi sui 3 miliardi di euro [...]. Il disavanzo resta comunque superiore agli 8 miliardi” e quindi andranno trovate altre formule. Come “il project financing, i trasferimenti pubblici a fondo perduto, le cartolarizzazioni, il ricorso ai Boc, alla Cassa depositi e prestiti o alla Bei (Banca Europea per gli Investimenti). Altrimenti sarà difficile resistere alle pressioni dei grandi costruttori (e ai soldi delle banche). Anche perché le volumetrie più appetibili del Pgt riguardano soprattutto aree come gli scali ferroviari dismessi e le caserme. Terreni di demanio pubblico non ‘catturabili’ con la perequazione”. C’è in più l’incognita politica, “perché è evidente – abbozza una fonte – che se s’incentiva a costruire in città vietando al contempo di edificare nel Parco Sud, che peraltro è intercomunale, chi governa l’urbanistica dell’hinterland si vedrà giocoforza svuotato di competenze e cantieri…”. Insomma, è stata fatta la pace, ora può cominciare la guerra. E c’è subito chi tenta di avviare la guerra con idee apparentemente balzane, ma dalle finalità ben chiare. L’architetto Paolo Caputo (ha lavorato per la realizzazione del villaggio Expo a Cascina Merlata, del Pirellone bis e per Santa Giulia…) ha lanciato la proposta di cementificare il Parco Sud creando intorno alle cascine “nuclei per 500-600 abitanti”. Oltre al fatto che difficilmente si troverà chi vuole andare a vivere in posti isolati a fianco di maleodoranti allevamenti di vacche e maiali, è chiaro che un tale progetto richiederebbe in breve tempo la costruzione di strade, infrastrutture… cioè sarebbe una testa di ponte verso una totale cementificazione del Parco Sud.
IL DIKTAT DI FORMIGONI, GLI ALTRI PROGETTI FARAONICI
Su quella che sembrava a essere destinata a diventare la “madre di tutte le bolle”, e cioè l’Expo 2015, non si registra ancora alcuna novità concreta, a un anno e mezzo dell’assegnazione dell’evento a Milano e a sei mesi dalla nomina del berlusconiano di ferro Lucio Stanca che, secondo quanto promesso, avrebbe dovuto dare il via immediato all’organizzazione pratica dell’evento. Intanto però è stata messa in atto l’ennesima mossa per porre un’ipoteca politica sulla sua gestione. Con un colpo di mano il governatore lombardo Roberto Formigoni e la Lega Nord, nella persona dell’assessore regionale all’urbanistica Davide Boni, hanno assegnato alla giunta regionale il potere di decidere in totale autonomia la necessità o meno di effettuare una valutazione dell’impatto ambientale per le opere essenziali per l’Expo 2015. In pratica, come spiega il verde Carlo Monguzzi, “Formigoni potrà decidere in autonomia se un’autostrada, una centrale o un insediamento industriale saranno compatibili con l’ambiente e la salute dei cittadini”, aggirando le regole urbanistiche e per la salvaguardia dell’ambiente. E’ prevista addirittura l’autocertificazione da parte dei costruttori. E, lo si noti bene, questi poteri vengono assegnati alla giunta e non al consiglio regionale. Quindi le decisioni non saranno nemmeno oggetto di una discussione pubblica e verranno prese senza la minima trasparenza: è questo evidentemente il concetto di democrazia che hanno Comunione e Liberazione e i suoi alleati leghisti. La finalità, oltre alla concentrazione del potere decisionale nelle loro mani, è quella di consentire ai loro amici capitalisti e speculatori di agire rapidamente e senza regole.
Formigoni e la Lega Nord sono in prima fila nel promuovere altri due progetti faraonici che possono giovare unicamente agli speculatori e ai costruttori. Il primo è quello dell’Autostrada dell’acqua, di cui riferisce Repubblica del 6 ottobre. Si tratterebbe di rendere navigabile il Po fino all’Adriatico, un’idea che all’apparenza sembrerebbe allettante, perché suscita immagini di acque naturali, di verde e di trasporti “puliti”. La realtà è esattamente opposta. Innanzitutto il costo di realizzazione sarebbe astronomico, 2,4 miliardi di euro (che come è regola aumenterebbero di molto in corso d’opera) destinati a finire in mano ai cementificatori e ai baroni dell’energia. Eh sì, perché per dare vita all’Autostrada dell’acqua bisognerebbe creare lungo il corso del Po cinque dighe di altezza compresa tra i 2 e i 5 metri, e questo già non suona molto ecologico. Poi il costo dell’opera verrebbe ripagato in parte dalla creazione di quattro centrali idroelettriche lungo il corso del fiume (l’altro vero motivo del progetto). Infine i materiali da costruzione verrebbero prelevati da cave lungo il Po, con il conseguente abbassamento del livello del fiume. Citiamo ancora Carlo Monguzzi: “Il Po era già navigabile prima che rubassero l’acqua ai campi per le centrali elettriche. Questo piano è peggio del ponte sullo Stretto di Messina”. L’altro progetto faraonico, che non a caso ha un costo preventivato identico, di 2,4 miliardi di euro, è fortemente voluto dall’assessore ciellino all’urbanistica milanese Carlo Masseroli. Si tratta del maxitunnel sotterraneo che dovrebbe collegare Linate con l’autostrada dei laghi. Il Comune ha dato il via libera, entro tre mesi ci dovrebbe essere la gara d’appalto per la prima tratta e nel 2010 quella per la seconda e ultima tratta. I lavori verranno realizzati dalla società Torno (già in difficoltà finanziarie e responsabile in larga parte degli enormi ritardi nella realizzazione dell’ultima tratta della linea 3 della metropolitana) con il probabile finanziamento di Intesa Sanpaolo e Unicredit. Per percorrere l’intero tunnel bisognerà pagare oltre 10 euro, un costo che evidentemente non spingerà a utilizzarlo da un capo all’altro della città disintasando così le tangenziali, ma ne farà un tunnel per il business di fascia medio-alta destinato a riversare in centro altro traffico automobilistico.
C’è infine il capitolo dei parcheggi voluti a suo tempo dalla giunta di Gabriele Albertini, che da anni hanno ridotto Milano a un gruviera, ma in compenso hanno rimpinzato le tasche dei costruttori. Dopo 5 anni dal varo del progetto, e innumerevoli proteste e polemiche, il Comune ha fatto marcia indietro sul parcheggio della Darsena, uno dei capitoli più folli dell’impresa parcheggi. L’area, ridotta da lungo tempo a una discarica a cielo aperto a causa dei lavori per il parcheggio, sarà oggetto di interventi di ripristino. Il progetto non è stato definitivamente annullato (potrebbe essere ripreso dopo il 2015), ma intanto è stato cancellato il contratto con la ditta che aveva vinto la gara d’appalto e aveva realizzato parte dei lavori, la Darsena SpA. Ora probabilmente partirà una guerra dei ricorsi che potrebbe costare cara al Comune (la Darsena SpA afferma di avere già investito 14 milioni di euro, oltre a lamentare di essere costretta a licenziare 40 operai) e che in più potrebbe bloccare per lungo tempo i lavori di ripristino. Albertini, invece di pagare i danni arrecati alla città con questo e altri progetti, nonché per i fallimentari derivati, ha addirittura il coraggio di non escludere una sua ricandidatura a sindaco. Nel frattempo sono stati cancellati i progetti relativi ad altri due parcheggi, ma in compenso è stato confermato quello di piazza S. Ambrogio e ne sono stati approvati di nuovi, come quello che andrà a deturpare una delle zone più storiche e verdi del centro storico di Milano, in via Marina, e quello di via Canaletto a Città Studi. Ed è stato approvato il progetto della criticatissima “Gronda Nord” (ora si chiamerà Zara-Expo), una specie di autostrada urbana da 105 milioni di euro contro la quale si erano pronunciati praticamente tutti, dai comitati locali agli urbanisti, fatta eccezione per il Comune. L’unica novità è che si farà la valutazione di impatto ambientale.
AEROPORTI IMPAZZITI
Accanto alla bolla immobiliare sempre più incombente e ai vari megaprogetti miliardari c’è da registrare l’ulteriore peggioramento del caos nel sistema aeroportuale lombardo e italiano, che ha già causato danni enormi alla Lombardia (si veda in merito “Sulle ali del caos“). E’ tornato alla ribalta l’aeroporto bresciano di Montichiari (il D’Annunzio), che rischia di aggiungere una nuova tessera al caos generato dalla concorrenza reciproca tra Malpensa, Linate e Orio al Serio. Attualmente Montichiari è nelle mani della società che gestisce l’aeroporto Catullo di Verona (a sua volta controllata dalla Provincia di Trento…) e nella primavera scorsa a Brescia si è costituita una cordata costituita da Comune, Provincia, Camera di Commercio e Associazione Industriali locali per rilevarne il controllo, con un’operazione dal costo complessivo di circa 80 milioni di euro (lo scalo bresciano, va notato, è in passivo di 4-5 milioni di euro all’anno), il tutto all’insegna dello slogan “fare di Montichiari il volano dello sviluppo territoriale”. All’inizio di ottobre l’accordo, voluto tra l’altro fortemente da Umberto Bossi, sembrava ormai imminente. Poi sono arrivati i primi intoppi. A Verona si è cominciato a parlare del fatto che la cessione di quote ai bresciani sarebbe stata una svendita, nonché del rischio che si formasse un polo lombardo (Orio, Malpensa e Linate) a svantaggio della città veneta e via dicendo, sulle ali delle eterne lotte intestine tra le lobby di destra. Il 24 ottobre si arriva alla rottura delle trattative, in mezzo a penosi scambi di accuse non solo tra le due opposte fazioni, quella bresciana e quella veronese, ma addirittura al loro interno. Salta subito all’occhio che l’idea di “brescianizzare” Montichiari non è il frutto di una strategia di largo respiro per mettere ordine nel caotico sistema aeroportuale del Nord Italia, ma solo una misera guerra di campanile da combattersi subito, senza idee per il futuro.
Che la situazione del sistema dei trasporti aerei sia in Italia del tutto fuori controllo lo testimonia la nuova Alitalia, su cui pesano debiti per circa 450 milioni di euro, che ha registrato una calo delle attività pari al 30% e ha ridotto di oltre 7.000 unità i propri dipendenti. Negli ultimi anni in Italia, grazie anche alle situazioni di monopolio, sono stati investiti 2,5 euro a passeggero a fronte di una media europea di 12 euro, e il sistema sta collassando. La Adr dei Benetton che gestisce lo scalo romano di Fiumicino ha 1,6 miliardi di debiti, la Sea risente dei problemi enormi di Malpensa. Dei 47 aeroporti italiani, per fare solo un esempio della mancanza di programmazione, appena 5 sono raggiungibili con il treno. Tutto questo non impedisce di programmare altro caos. Nella sola Sicilia, Enna ha in previsione un mega-aeroporto internazionale, ambizioni analoghe hanno anche Agrigento, Messina e Comiso. In Campania è guerra aperta tra Caserta e Salerno per il ruolo di secondo aeroporto campano nel momento in cui lo scalo napoletano di Capodichino è saturo. Nel Lazio la lotta a tutto campo è tra Viterbo e Frosinone, che puntano entrambe a conquistarsi i voli della Ryanair che dovrà traslocare da Ciampino. In Toscana è in corso da anni un conflitto aperto tra gli aeroporti di Firenze e Pisa. In Lombardia, come se non bastasse la caotica situazione che coinvolge Malpensa, Orio, Linate, Montichiari e la contigua Verona, si aggiungono le ambizioni di Mantova, che vuole riattivare la pista di cui è dotata.
Intanto la romana Adr e la lombarda Sea aumenteranno le tariffe aeroportuali applicate ai passeggeri per rimpinguare le proprie casse sempre più vuote. A fronte dell’aumento dei prezzi hanno promesso al premier Silvio Berlusconi di effettuare investimenti di 5 miliardi entro il 2011 e di altri 10 entro il 2040 (cioè più di trenta anni!). Ma si tratta solo di promesse, come spiega il Corriere della Sera: “a giugno di due anni fa il Cipe aveva fatto discendere l’eventuale aumento tariffario dalla stipula di contratti tra i gestori e l’Enac (Ente aviazione civile): insomma, prima gli impegni scritti dei gestori, dopo i rincari”. Ma siccome la stipula dei contratti “sta procedendo a rilento”, si è passati a un altro principio: prima gli aumenti poi eventualmente si penserà ai contratti. Il decreto con cui sono stati approvati gli aumenti tariffari è tra l’altro in contraddizione con la direttiva europea che impone la mediazione di un’Agenzia imparziale per gli adeguamenti tariffari concertati tra i gestori e i vettori. Vale a dire che, esattamente come nel caso della milanese A2A citato nella prima puntata di questo nostro speciale, le società aeroportuali ora incassano, ma con il forte rischio che tra anni l’Italia sia costretta da Bruxelles a pagare multe enormi il cui peso ricadrà sui contribuenti. A Malpensa intanto si pianificano 2 miliardi di nuovi investimenti entro il 2020, in assenza di strategie valide coordinate a livello lombardo che evitino il caos attuale. Entro il 2010 dovrebbe essere realizzato un nuovo terminal uno, insieme agli alberghi di fronte all’aeroporto; entro il 2015 dovrebbe essere pronto un nuovo terminal low-cost, la cargo-city e la terza pista, mentre entro il 2010 dovrebbero essere realizzati un nuovo terminal e un nuovo polo logistico. Con ogni probabilità, visto quanto esposto sopra, si tratterà delle ennesime cattedrali nel deserto. E infine un’amenità targata Formigoni. Su decisione della Regione, gli aeroporti milanesi verranno dotati di detector speciali che riveleranno la temperatura dei passeggeri al fine di contrastare la diffusione del virus H1N1, per un costo totale di 100.000 euro. Briciole rispetto alle cifre citate sopra, ma “briciole” davvero buttate al vento. Installare tali apparecchi avrebbe forse avuto senso nella primavera scorsa, quando in Italia il virus non era ancora molto diffuso. Ora è diffuso tanto in Italia quanto nel resto del mondo e la misura (che tra l’altro non si sa con precisione quando verrà realizzata) non ha alcuna razionalità. Senza poi contare il fatto che non viene detto cosa ne sarà dei poveri passeggeri con la febbre. Una buffonata che la dice lunga sull’inettitudine di chi ci governa.
CONTRO MILANO
Il Comune di Milano ha varato il suo secondo fondo immobiliare, proprio come ha fatto Ligresti con alcune sue proprietà. Nel fondo confluiranno 67 immobili comunali per un valore stimato (ma per le stime degli immobili dei fondi immobiliari si veda la Puntata 2 di questo speciale sulla bolla) di 100 milioni e Palazzo Marino dice che potrebbe ricavarne 15-20 milioni di euro di plusvalenza con i quali conta di coprire in parte la mancata corresponsione dei dividendi da parte dell’A2A. Si tratta di (ipotetici) introiti che in realtà l’attuale normativa vieta ai comuni di utilizzare per investimenti ma, spiegano i funzionari, Tremonti starebbe rivedendo tali norme. Un’operazione fatta nel momento peggiore, quando le quotazioni degli immobili sono al ribasso, e che in più costituisce l’ennesimo travaso dal pubblico al privato. C’è però un altro particolare. Tra gli immobili che verranno inseriti nel fondo per essere “valorizzati” ci sono luoghi storici della Milano democratica come il Circolo Arci Bellezza nei pressi della Bocconi, il centro anarchico Ponte della Ghisolfa in viale Monza, il centro sociale Torchiera in piazzale Cimitero Maggiore e il centro sociale Cox di via Conchetta, dove tra l’altro è conservato il preziosissimo archivio di Primo Moroni, la sede della Cgil di via Giambellino e il palazzo di Via Bagutta 12 che ospita alcune associazioni. Un vero e proprio attacco alla tradizione alternativa e democratica di Milano (descritta tra l’altro con minuzia dallo stesso Moroni, si veda il nostro “Dalle bande di quartiere ai centri sociali“) all’insegna della politica bancarottiera del Comune di Milano e della speculazione immobiliare. Intanto stanno per partire le aste del primo fondo immobiliare del Comune, creato nel 2007 per un “valore stimato” di 255 milioni e sempre gestito da Bnp Paribas. Verranno venduti immobili ex popolari come quello di via Cesariano 11 e la Casa di via Morigi, occupata da decenni e che ospita numerose associazioni nonché attività culturali.
(per motivi tecnici di capacità dell'editor, purtroppo gli ultimi paragrafi di questo lungo articolo non possono essere resi disponibili in lettura a correre: si allega di seguito il pdf integrale scaricabile)
A caccia di germani reali sui confini del Boscoincittà. Se di questi tempi vi capita di passeggiare o andare in bicicletta lungo i sentieri del polmone verde che si estende oltre il Gallaratese e cascina Melghera vi conviene prestare molta attenzione: pochi metri più in là potrebbe esserci una doppietta in agguato. E’ quello che è successo, sabato scorso, a un abituale frequentatore del Bosco a spasso con il figlio: a qualche passo di distanza si è ritrovato un gruppetto di cacciatori armati e pronti a sparare.
Brividi nella schiena, ma sia chiaro: è tutto legale. L’attività venatoria nell’area agricola compresa tra il parco e le case di Trenno è consentita. Ma ancora una volta si ripropone l’anomalia dei cacciatori scatenati nei campi adiacenti il Boscoincittà e il tema dei rischi per la sicurezza dei cittadini.
Non c’è da sorprendersi, del resto, se i confini del Bosco (escluso dalla caccia in quanto parco urbano) rappresentano uno spazio ambito. Appostarsi in vicinanza di una zona protetta dove si rifugia la selvaggina è per i cacciatori una scelta del tutto naturale. Quello che naturale non è, invece, è che si possa sparare in una campagna a pochi passi da dove giocano i bambini, e comunque non distante dalle case.
Forse anche per questo sulla scrivania dell’assessore al Verde, Maurizio Cadeo, sono arrivate alcune segnalazioni. E anche il verde Enrico Fedrighini presenterà un’interrogazione in consiglio comunale: «Chiederò a Cadeo — annuncia — di promuovere presso il suo omologo assessore provinciale l’inserimento dell’area del Boscoincittà e zone agricole confinanti nell’elenco delle Oasi di Protezione della Provincia, dove è vietata qualunque forma di caccia per consentirne il transito e il ripopolamento della fauna».
Anche l’assessore Cadeo intende vederci chiaro. «E’ vero che la legge lo consente — premette — ma mi sembra disdicevole sparare a pochi metri dal parco urbano. Sentirò i colleghi di Provincia e Regione per capire come si può intervenire ».
Le decisioni sul futuro di Milano? Si prendono a casa del sindaco Letizia Moratti (che poi è anche la casa del petroliere Gianmarco Moratti, suo marito). In un paese normale sarebbe da non crederci. Ma siamo in Italia, paese in cui il presidente del Consiglio riunisce la corte nella reggia di Arcore e prende decisioni a Palazzo Grazioli, magari nel lettone di Putin. Un paese in cui il Parlamento è considerato un ente inutile e le istituzioni (dalla magistratura alla Corte costituzionale, fino alla presidenza della Repubblica) sono svillaneggiate e offese. Che sarà mai, allora, una mancanza di rispetto al Consiglio comunale, alla Giunta, a Palazzo Marino? Il potere è roba personale, da manovrare a casa (anche perché a Palazzo Marino potrebbe esserci nascosta qualche microspia: è già successo). Dunque, per risolvere la faida che si è aperta dentro il centrodestra milanese sugli affari urbanistici e immobiliari, riunione a casa Moratti, venerdì 16 ottobre. Presenti, oltre alla padrona di casa (Pdl-area Moratti), l’assessore all’urbanistica Carlo Masseroli (Pdl-area Cl), il presidente della Provincia Guido Podestà (Pdl-area laica) e Ignazio La Russa (Pdl-area ex An).
Che ci fa La Russa a casa Moratti? Che un ministro della Repubblica – e ministro della Difesa, non della Semplificazione dei Bruscolini – trovi il tempo e la voglia di partecipare alle riunioni di Donna Mestizia, la dice lunga sull’importanza degli affari trattati in quegli incontri. E della necessità per La Russa di essere presente di persona. Perché? I maligni hanno una spiegazione maliziosa: che ha a che fare con il rapporto che lega indissolubilmente tre generazioni di La Russa a un costruttore, immobiliarista e finanziere particolarmente attivo sulla piazza di Milano: Salvatore Ligresti da Paternò. Il padre di Ignazio, il patriarca Antonino La Russa (anch’egli di Paternò), è anche padre finanziario di don Salvatore, avendo pilotato nelle sue mani le eredità del vecchio ras Michelangelo Virgillito (da Paternò) e del suo discepolo Raffaele Ursini. Il figlio d’Ignazio, Geronimo, siede nei board delle società ligrestiane, a cominciare dalla holding Premafin in cui è entrato a 25 anni.
Sì, Salvatore Ligresti: un nome che è anche l’ordine del giorno segreto della riunione a casa Moratti di venerdì 16 ottobre. Don Salvatore si era accorto, qualche settimana fa, che tre sue pratiche urbanistiche, ferme da quasi tre decenni, erano diventate di colpo urgenti: aveva allora chiesto a Podestà nientemeno che di commissariare il Comune. Era seguito un braccio di ferro tra Podestà e La Russa da una parte, Moratti e Masseroli dall’altra. Ora la situazione si è sbloccata e nessuno vuole più commissariare nessuno. Quale soluzione è stata trovata? Quale papello è stato discusso? Quale trattativa è stata conclusa? Quale scambio è stato pattuito (a spese della città)? Non lo sappiamo: è un segreto chiuso nelle mura di casa Moratti. Sappiamo però che il futuro urbanistico di Milano non sarà più tutto nelle mani del sindaco e del suo assessore (che sta distillando il nuovo Piano di governo del territorio): al tavolo delle decisioni – e degli affari – ora si sono accomodati ufficialmente anche La Russa e Podestà (che da qui in poi ha mano libera per i suoi Piani di cintura, relativi ad aree preziose attorno a Milano, tra le quali il Parco sud). Buone notizie in arrivo per Ligresti, statene certi.
Expo 2015 ha un masterplan concettuale. Il consenso politico è unanime: una buona notizia, dopo mesi di baruffe sulla guida della società di gestione. E a soli sei mesi dalla presentazione al Bie del masterplan esecutivo. Un’altra buona notizia è la sobrietà del nuovo site layout, pur se concettuale. Più di un anno e mezzo è passato dalla vittoria e molte cose sono cambiate, in Italia e nel mondo. Ridimensionare il dossier di candidatura, disegnare un sito in linea con il tema dell’Esposizione era indispensabile. Così è stato: dunque, si può ben dire che l’indisponibilità a ogni modifica non derivava dal timore della revoca dell’assegnazione, ma da una banale sordità politica.
Transeat. Veniamo a oggi. Il nuovo masterplan abbandona la monumentalità. Promuove l’esperienza diretta dei visitatori. Immagina un grande parco botanico da lasciare in eredità a Milano. Enuncia impegni per la sostenibilità. Dispensa leggerezza a piene mani. Contiene anche qualche sana furbizia, dovuta alla ristrettezza delle risorse. La via d’acqua tra la Darsena e l’Expo riappare in forma di canali navigabili interni al sito. La monumentale via di terra di 22 chilometri, tra Milano e l’Expo, è ridotta a itinerario turistico, tra il Palazzo di giustizia e il Castello Sforzesco, passando per piazza Duomo.C’è qualche dimenticanza (che fine fanno i raggi verdi e la "cintura verde" del dossier di candidatura?) E qualche strizzata d’occhio alla storia: i due assi ortogonali che dividono l’area assurgono a "cardo e decumano", la piazza posta al loro incrocio diventa un "foro centrale". Ci sono anche idee meno che abbozzate, come il "tavolo planetario" lungo l’asse principale, o le grandi serre bioclimatiche perimetrali, elevate a principale attrattiva per i visitatori (e si tratta di ben 29 milioni di persone, uno su quattro dall’estero).
Questo l’Expo concettuale, che diventerà reale a tappe forzate: masterplan esecutivo in aprile, concorsi da concludere entro l’autunno del 2011, poi inizierà la preparazione del sito. Come evolveranno le idee della consulta nelle mani della società di gestione? Per evitare che l’attivismo meneghino distribuisca biciclette in assenza di piste ciclabili, proviamo a elencare alcuni temi degni di attenzione.
[Il risultato finale]
Ora l’area è coperta, non ce ne vogliano i progettisti, da una distesa di tende: quale trasformazione verrà indotta dalle opere oggetto di concorso e dai padiglioni nazionali che dovranno ospitare (per ben sei mesi) coltivazioni esemplari di ogni Paese?
[Il post-Expo]
Tramontato il referendum, l’unica indicazione viene dalla Consulta degli architetti: «Expo creerà le condizioni per un nuovo pezzo di città che crescerà attorno ad una grande area aperta, verde e produttiva». Tradotto con malizia: il parco centrale, più o meno esteso, sarà il fulcro di nuovi quartieri residenziali. Del resto, la diatriba sull’acquisto delle aree lascia intendere che la direzione è quella, al di là delle enunciazioni di principio.
[La sostenibilità dell’evento]
La fitodepurazione nei canali è un’idea suggestiva, ma non è certo questa la partita decisiva. Nulla si dice sui temi dell’energia. O sull’accessibilità: eppure, dopo il via libera a infrastrutture di rilievo regionale, ma poco significative per l’Expo (Pedemontana, Tem, Brebemi), mancano le risorse per le opere davvero necessarie, come le linee 4 e 5 del metrò e il collegamento ferroviario Malpensa-Centrale. La stessa ipotesi di costruire strutture riciclabili va meglio precisata: perché non decidere fin d’ora di ricavare dai padiglioni e dagli impianti moduli di case, ospedali e scuole da destinare ai paesi in via di sviluppo?
[Il recupero delle cascine]
Se l’obiettivo principale è riqualificare gli edifici e recuperare spazi per l’ospitalità, prima bisognerebbe indirizzarsi agli oltre 300 mila metri quadrati di terziario inutilizzato. Per le cascine metropolitane, il tema fondamentale è quello di aggiornare le funzioni produttive; anche per questo, stupisce l’assenza di richiami al Parco agricolo Sud Milano, paglione en plein air già pronto per Expo 2015.
[Il rapporto con la città]
Ultimo tema, ormai dimenticato. La Regione tiene le fila della partecipazione (gli Stati generali) e delle scelte infrastrutturali (il Tavolo Lombardia). Il Comune sta per varare il nuovo Piano di governo del territorio, con un percorso parallelo e autonomo. Partite riferite allo stesso tema, ma irrimediabilmente divise: il masterplan di Expo finisce così per rifugiarsi all’interno dell’area "di competenza". Ci dicevano che l’Esposizione non sarebbe stata solo un evento e non si sarebbe ridotta alla trasformazione di un’area libera di 1,7 milioni di metri quadrati. Al contrario, si trattava di una straordinaria occasione per ripensare a fondo la nostra città e il suo futuro. Dobbiamo ancora esserne convinti?
Difficile dire chi ha vinto e chi ha perso, nella guerra lampo tra Salvatore Ligresti e il Comune di Milano, guerra che tanto imbarazzo ha creato al sindaco Letizia Moratti e che è riuscita a frantumare in poche settimane l´utopia da campagna elettorale della magica armonia tra Palazzo Marino e la Provincia di Milano, oggi finalmente governati da una maggioranza monocromatica.
Difficile dire se è stato Ligresti, a cedere, o non piuttosto il Comune. Difficile perché la trattativa tra l´amministrazione comunale (pubblica) e il più potente esponente del business immobiliare (privato) a Milano è avvenuta tutta nelle segrete stanze. Di Palazzo Marino e, quel che è peggio, di casa Moratti. Più facile immaginare che l´oggetto del negoziato non siano state solo le due pratiche immobiliari di via Natta e via Macconago, tutto sommato modeste. La vera posta in palio, quella che ha spinto Ligresti a inviare il suo avviso a Palazzo Marino è, come hanno capito anche i bambini, il Piano di governo del territorio. E allora, in attesa di atti pubblici, di carte e numeri su metri quadri e volumetrie, è lecito avanzare qualche domanda, alla quale un´amministrazione trasparente avrebbe il dovere di dare risposte nette.
La rinuncia alla richiesta di commissariamento del Comune da parte di Ligresti è avvenuta in cambio di una contropartita? Nel caso, la contropartita riguarda le altre proprietà ligrestiane interessate dal Pgt? E, in particolare, quelle nel Parco Sud? O, se corrispondono al vero le indiscrezioni secondo cui il progetto Citylife (di cui Ligresti è grande azionista) non navigherebbe in acque finanziariamente tranquille, l´imprenditore siciliano ha incassato qualche rassicurazione sul futuro del quartiere? («Ho chiesto personalmente alle banche di lavorare per dare risposte positive per lo sviluppo della città», ha detto il sindaco il 21 ottobre scorso). Ha qualcosa a che vedere con ciò lo stop (benedetto) alla costruzione di un nuovo quartiere a cinque stelle sulle piste dell´ippodromo di San Siro, potenziale concorrente di Citylife sul mercato delle residenze di lusso?
Domande maliziose? Forse. Necessarie, quando le trattative sono opache e le decisioni sul futuro della città si prendono tra i velluti del salotto di casa Moratti, anziché nelle sedi istituzionali a ciò preposte, insieme ai leader dei partiti di maggioranza, magari pure amici di famiglia del re del mattone. Il Pgt è un rivoluzionario progetto di ridisegno della città che, per quello che si è visto fin qui, contiene alcuni principi condivisibili e tante buone intenzioni. Merita, nella sua applicazione (che è il passaggio più delicato), fermezza nella tutela dell´interesse pubblico e massima trasparenza.
Ci sono cose che tocca rileggere almeno due volte per convincersi che la realtà, di questi tempi, supera la fantasia. Anche la più inconcepibile. Dunque, al nostro sindaco Letizia Moratti piace da pazzi l’idea di un tunnel automobilistico sotterraneo da Linate a Rho: quattordici chilometri che dovrebbero tagliare la città da Est a Nord-ovest, congiungendo il "city airport" al nuovo polo fieristico. Costo previsto 2,4 miliardi di euro, finanziamento interamente privato, sette anni di lavori, inizio dei cantieri nel 2011, fine nel 2018, pedaggio stimato 10 euro per l’intera tratta, profondità dello scavo fino a 40 metri. Tralasciando il fatto che la scaramanzia consiglierebbe prudenza nel promuovere una maxi-opera di dimensioni colossali come questa a ridosso della decisione di buttare a mare il progetto del parcheggio alla Darsena, è quasi imbarazzante mettere in fila incongruenze, contraddizioni, controindicazioni, insensatezze di una simile idea.
La prima incongruenza riguarda il calendario: l’opera sarà completata fuori tempo massimo per l’Expo, nel 2018, ma in compenso l’Expo riuscirà a disturbarla alla grande, essendo inimmaginabile che il cantiere per un’autostrada urbana underground rimanga invisibile e non sconvolga mezza città. Il sindaco dice: sarà pronto metà tunnel. Ma che ce ne facciamo di un tunnel da Lancetti a Rho, visto che per tre quarti del percorso coincide con lo snodo autostradale di Certosa?
Seconda assurdità, non meno stupefacente della prima: il collegamento con l’aeroporto di Linate. Scusate, ma non si era detto e ripetuto che Linate, giocoforza, è destinato a ridimensionarsi per non infliggere il colpo definitivo, probabilmente letale, a Malpensa? È vero o no che si sta discutendo della riduzione di Linate ad aeroporto d’affari, destinato a gestire un traffico passeggeri di cinque milioni l’anno contro i dieci degli anni scorsi? Ma se è così, e il Comune dovrebbe saperlo benissimo essendo azionista di larga maggioranza della Sea, a che serve prevedere un maxitunnel di collegamento a un aeroporto dimezzato, oltretutto in sovrapposizione con la nuova linea del metrò, prevista da Lorenteggio al Forlanini?
Ma non è finita. Terza follia, il costo. Ogni chilometro di tunnel costerà circa 150 milioni di euro. È tanto? Probabilmente troppo poco, tenendo conto che si dovrà perforare, ancora una volta, il cuore di una città che negli ultimi cinquantenni è stata bucata e ribucata come un groviera. Si dovrà scendere con gli scavi fino a 40 metri, passando sotto le linee di tre metropolitane e incrociando i cantieri delle nuove linee progettate, si incontreranno le falde, i parcheggi sotterranei, qualche antica necropoli, qualche resto medievale e spagnolesco. Si inietterà un’altra mostruosa quantità di cemento in un sottosuolo esausto, sempre più impermeabilizzato.
I costi, come accade regolarmente, saliranno di molto rispetto alle previsioni iniziali, ma facciamo finta che davvero l’opera si possa fare con 2,4 miliardi. Li metteranno i privati, spiega Letizia Moratti, che rientreranno dall’investimento incassando i pedaggi. Si prevedono 10,22 euro per l’intero tracciato, con un costo a chilometro di 0,70 centesimi. Ma ammesso e non concesso che il costo di transito rimanga questo, chi sarà disposto a pagare una cifra simile? Difficile pensare che saranno i cinquantamila al giorno previsti dal progetto, numero minimo per rendere conveniente l’impresa. Oggi con 10,10 euro di pedaggio si va da Milano a Modena, per 173 chilometri di percorso. E se pare inverosimile che si trovino cinquantamila automobilisti disposti a pagare 10 euro per andare da Linate a Rho, non può stupire che, finora, non si sia capito chi scucirà 2,4 miliardi di euro per placare la voglia di grandi opere di Donna Letizia.
postilla
Naturalmente, come si intuisce al volo, le questioni in gioco sono altre: prima fra tutte la solita politica al servizio degli interessi di “sviluppo del territorio”: come non notare la sovrapposizione del tracciato del tunnel con l’asse trasversale della mitica T rovesciata del Documento di Delega agli Amici delle Politiche Urbanistiche Comunali? Ma oltre le facili polemiche su attori forti, comparse e suggeritori dietro le quinte, forse val la pena di ricordare la vicenda, assai poco nota qui da noi, dello Zar dei Lavori Pubblici di New York, Robert Moses. Del suo sistematico smantellamento di una idea di città collettiva e condivisa, in sostanza di qualunque politica urbanistica in senso proprio, a favore delle Grandi Opere. Proprio in questi giorni la massima responsabile per la pianificazione urbana della città, la signora Amanda M. Burden, di estrazione alto borghese e nominata da un’amministrazione di destra, riceve il più alto riconoscimento da una prestigiosa associazione di costruttori privati (Urban Land Institute) … esattamente per “remare contro” la vecchia impostazione di Moses: la città disegnata attorno a autostrade, gallerie, ponti ecc. E operare invece a favore del Piano, senza enfasi e soluzioni spicce studiate a tavolino, ma seguendo quell’impiccio che da noi pare sempre inutile tara: le regole condivise. Per chi vuole saperne di più, su Mall ho riportato una nota di agenzia con le motivazioni del premio alla signora Burden. Per saperne di più su questa demenza anni ’50 del tunnel milanese, traslocata di peso da un’altra signora borghese nel terzo millennio, non mancheranno purtroppo le occasioni in futuro (f.b.
nel cuore di Milano fu una tappa fondamentale nella storia contemporanea della città riguardo all’architettura e all’urbanistica. Era in corso di completamento la potente operazione immobiliare alla Bicocca concordata fra il Comune e la Pirelli, cioè fra il sindaco Albertini e Tronchetti Provera, che per la prima volta designava a grande scala l’espansione urbana fuori di qualsiasi pianificazione generale e persino di una qualche idea complessiva di città presentata pubblicamente. Una pretesa autoritaria oltre che un grave sbaglio verso la realtà milanese e gli esistenti o futuribili equilibri territoriali e sociali. Con l’iniziativa ex-Fiera (poi “City Life”) fu peggio. Erano coinvolti il destino della città storica, la vita dell’architettura urbana, centro di una questione generale che non è quella di un’architettura isolata quale monumento d’autore, bensì di un’urbanistica che diventa forte se inclusiva di un’architettura civile; insomma, parliamo di architettura della città, la forma funzionale e rappresentativa che ha contraddistinto la storia del nostro paese. Erano in causa all’interno della città compatta la cura e la tutela oppure la trasformazione aggressiva di un consolidato ambiente fisico e sociale. Vinse il nuovo modo privatistico di organizzare, progettare, realizzare; sarà l’unico per il futuro. Il concorso non aveva nulla della forma tradizionale di affidabile confronto, nominativo o no, fra diversi progetti di architetti o équipe professionali. È l’impresa o il gruppo di imprese a gareggiare, se così si può dire dubbiosamente, a offrire il prodotto e il prezzo. Il progettista è al suo servizio, è subalterno, fornisce gli elaborati figurativi adatti a colpire l’immaginazione. Il caso dell’ex-Fiera preluse a una miriade di altri analoghi, diffusi a Milano e in tutto il paese, pseudo concorso o commessa diretta che sia. Una particolare condizione di base li collega tutti: la totale assenza di analisi urbana, di studio del luogo e della società, di considerazione della situazione fisica e sociale al contorno e nell’intera città. Soffermandosi sul progetto vincitore per “City Life”, peraltro il peggiore (è bene ricordare: cordata di imprese Generali-Ligresti-Lanaro-Grupo Lar Desarollos Residential, triade di architetti Hadid-Isozaki-Lebeskind), Alain Croset scrisse di progetto, anziché rappresentativo di una “Nuova Milano”, «emblematico dell’autoreferenzialità di una parte dell’avanguardia internazionale. Nessun riguardo per le relazioni con la città esistente». Nello stesso momento Dejan Sudijc, commentando la mostra della Biennale veneziana (quella curata da Kurt Forster) scriveva che gli architetti «vogliono proporsi come figure creative autonome avulse dalla funzionalità, dal contenuto e persino dalla costruibilità».
Cinque anni non sono passati invano per decretare la sconfitta forse definitiva sia dell’urbanistica sia dell’architettura come le abbiamo considerate e coltivate, unite, nella nostra preparazione disciplinare e nella contesa a favore del bene pubblico e contro lo strapotere di proprietari fondiari e imprenditori. Costoro e i loro architetti detti archi-star o super-architetti a causa della loro appartenenza a un mercato internazionale dell’edilizia “grandiosa”, godono di illimitata libertà; agiscono per così dire extra legem, in conformità a indici di fabbricazione decretati per il luogo dall’amministratore pubblico e dal proprietario o impresario privato accordati: indici tutti a beneficio del secondo per larghezza di sfruttamento e scelta di destinazione, di tipo, di forme e misure, di materiali, senza alcuna preoccupazione delle doti urbane esistenti, locali e generali. Così sorgeranno, fra tanto d’altro astruso per lo più in veste di grattacielo, la banana di Lebeskind, lo sciancato di Hadid, il materasso verticale di Isozaki, il tortiglione di Fuksas alla Magonara di Savona, il doppio fungone di Botta a Sarzana, i nuovi Punta Perotti di Bofill a Savona e di Bohigas a Mola di Bari, i volumi rotti o molli di Gehry e di suoi provinciali imitatori (come per Via Principe Eugenio a Milano), il pretenzioso svettante gigante di Renzo Piano sbeffeggiante la Mole Antonelliana di Torino…
Non esiste un’autorevole critica dell’architettura paragonabile alla critica d’arte. Solo la stampa quotidiana locale è talvolta attenta alle più gravi vessazioni verso la città. Solo la vitalità di certi comitati di abitanti riesce magari a ritardare il danno che gli crea la nuova edificazione distruttiva del loro ambiente, a ottenere qualche modifica di scarso rilievo; non a impedirla. Un articolo del Manifesto del 2 settembre riportato in eddyburg (Un albero di trenta piani) torna sul caso milanese del quartiere Isola. Ci informa della lotta degli abitanti nell’ultima trincea dopo le avanzate del nemico: i giardini, ubicati fra due strade storiche, da sottrarre alla cementificazione prevista da impresa e progettista. I quali continuano a vantare i loro ingannevoli “grattacieli verdi” (perché dotati di terrazze cespugliose) e a trovare consenso anche sulla stampa giacché, scrive Nicola Bertasi, «sono troppo importanti per essere criticati».
Grattacieli… Ormai scelta quasi inevitabile, maniacale degli operatori pubblici, privati, professionali ben conciliati (Comune, proprietario, imprenditore, progettista).
La cultura architettonica rappresentata in questi casi dal progettista di turno si sottopone a diversi dogmi:
- indiscutibilità dell’abnorme densità di fabbricazione e perseguimento fino all’ultimo centimetro cubo dell’inusitata e sostanzialmente illegittima volumetria, mentre sono proprio queste le condizioni di partenza da contestare;
- obbligo, più che preferenza, di edificazione in altezza come menzognera occasione di ottenere grandi superfici verdi in regime di forte densità, mentre per ricavare larghi spazi verdi davvero efficaci la forte altezza deve accompagnarsi con la bassa densità e garantire così grandi distanze fra i volumi;
- accettazione del verde prativo quasi totalmente posato sui solettoni sotto i quali brulicheranno i box per le automobili, falso verde incapace di sopportare la piantumazione di alberi ad alto fusto;
- condivisione morale, umile e umiliante, del fallimento economico dello speculatore, prima accettato a occhi chiusi senza la minima preoccupazione etica, come nella vicenda dell’incredibile finanziere Zunino accudito da Foster per il quartiere Santa Giulia a Milano (lavori sospesi) e da Renzo Piano per il grande progetto sulle aree Falk di Sesto San Giovanni (accantonato).
Sic transit [infelicĭter] gloria ad architécti artem pertĭnens.
Milano, 8 settembre 2009
Vedi anche Nnpp, nella cartella delle Opinioni di Ludovico Meneghetti
Il sindaco dà il via libera al tunnel di 14 chilometri che collegherà Linate all´autostrada dei Laghi. E chiede di accelerare sui tempi per portare il progetto in giunta entro la fine del mese. La maxigalleria dunque si farà. A realizzarla saranno due società, Torno e Condotte, sarà completamente finanziata dai privati e costerà 2,4 miliardi. Entro la fine dell´anno partirà la gara d´appalto per la prima tratta. Cambia il conto economico: percorrere tutto il tunnel costerà oltre 10 euro.
Il progetto del maxitunnel che attraverserà la città collegando l´aeroporto di Linate all´autostrada dei Laghi procede spedito. E già entro la fine del mese lo studio di fattibilità della prima parte della galleria (da Expo a Garibaldi) potrebbe arrivare in giunta per l´approvazione definitiva. Dopo di che l´opera verrà inserita nel piano delle opere dell´anno venturo. Un passaggio importante che riporterà alla ribalta l´opera promossa dall´ex sindaco Albertini e che sembrava dimenticata nei cassetti.
A spingere sui tempi è stato il sindaco Moratti a cui, nei giorni scorsi, è stata sottoposta l´ultima versione del progetto: un´opera mastodontica, completamente finanziata dai privati e realizzata da due società la Torno e la Condotte, appoggiata dalla Regione Lombardia, la cui realizzazione costerà 2 miliardi e 400 milioni di euro. Una galleria ultramoderna, con un sistema di areazione antismog e nove uscite lungo il percorso, che potrebbe cambiare radicalmente la mobilità in città, spostando sotto terra 50 mila auto al giorno. Il tutto però a un costo non indifferente: il nuovo conto economico infatti ha fatto salire il pedaggio da 0,50 centesimi al chilometro (prima ipotesi della società Torno) a 0,70, che significa 10,22 euro se si percorre tutta la tratta. Un cifra salata che non è detto i milanesi siano disposti a spendere pur di saltare la coda delle tangeziali.
L´entusiasmo dal sindaco, che quando riprese in mano il progetto della giunta Albertini chiese il prolungamento della galleria fino a Linate, è già stato tradotto dagli uffici tecnici in una tabella di marcia serrata. Se tutto procederà come previsto i lavori partiranno nel 2011 e l´opera sarà consegnata alla città entro il 2018. Il primo passo sarà l´approvazione della giunta della prima tratta, quella che dovrà realizzare la Torno. Intantola Condotte, la seconda società entrata nel progetto prima dell´estate, dovrà preparare uno studio di fattibilità per il tratto da Garibaldi a Linate, che entro Natale sarà sottosposto all´esecutivo. Quindi le due gare d´appalto (per la prima parte fra tre mesi, per la seconda nel 2010) e l´avvio dei lavori senza ulteriori indugi. Non è ancora stato stabilito se gli scavi saranno in contemporanea nelle due tratte, ma è più probabile di no. Forse anche per arrivare all´appuntamento con l´Expo con almeno un pezzo di galleria concluso, quello che da Cascina Merlata arriverà a Lancetti passando in prossimità dei capannoni della fiera di Rho-Pero.
Sempre in tema di infrastrutture, la riunione del Cipe di venerdì potrebbe dare finalmente una risposta agli interrogativi sul futuro delle metropolitane M4 e M5. Soprattutto sulla linea 4 di cui mancano ancora i finanziamenti del governo per la seconda tratta. Un ritardo che per i tecnici di Palazzo Marino mette a serio rischio la realizzazione di tutta l´opera. Tanto che è già allo studio la possibilità di costruirne solo un pezzo per non arrivare al 2015 con la città bloccata dai cantieri della linea che dovrà collegare Linate a Lorenteggio passando per il centro storico.
La prima visita lunedì 28 settembre 2009: un duro avvertimento. Mercoledì 7 ottobre scorso: presa di possesso in pompa magna. I rappresentanti di Comune e Provincia di Milano, di Regione Lombardia e del Consorzio Garibaldi-Repubblica (Catella-Hines, Ligresti, ecc.) con avvocati e poliziotti e uomini della vigilanza urbana, sono entrati nella Cascina Romagnina in via De Castillia al numero 30, al quartiere Isola di Milano, per appropriarsi degli edifici e degli spazi verdi dell’Immobiliare Romagnina. Obiettivo: demolirli subito e costruire sull’area una strada e infrastrutture funzionali al megaprogetto Isola-Garibaldi-Repubblica- Varesine. Nonostante sia aperto il contenzioso giuridico, si vuole predeterminare il fatto compiuto. E’ l’ennesimo delitto urbanistico di questa pestilenziale città che affoga nel cemento. La preda o la vittima è un complesso di valore storico e architettonico, culturale e sociale: l’antica Cascina Romagnina (già Colombara) che faceva parte di un sistema di cascine, peculiare sin dall’epoca romana del borgo Isola.
È l’unica testimonianza rimasta, in zona centrale di Milano, della civiltà rurale che, a parole, si dice di volere valorizzare in occasione dell’EXPO 2015!... I nuovi proprietari dettero vita (fine XIX secolo) alle Officine Villa, che si specializzarono nella lavorazione del ferro battuto. I loro manufatti diventarono opere molto richieste e di prestigio, che una buona amministrazione pubblica avrebbe potuto valorizzare. Cascina-officina: testimonianza di due culture, e della trasformazione del quartiere da rurale in industriale con l’insediamento dagli inizi del ‘900 di fabbriche importanti, quali Pirelli, Breda, Tecnomaso, ed altre. Finora i locali della cascina venivano usati per tre sere settimanali come discoteca (Nuova Idea), che si è cominciato a smantellare e quindi ad approntare la demolizione completa. Stabili, che potevano essere conservati come patrimonio di archeologia industriale e riutilizzati per altre funzioni, sono già stati distrutti: le scuderie Del Nero, la fabbrica di pettini Janecke e del sapone Heiman, la Tecnomaso Brown Boveri ridenominata «Stecca degli Artigiani»...
Si vuole completare la tabula rasa dell’Isola per correre dietro al business del mattone. È una politica urbanistica nefasta che investe l’intera città. La fa respirare male (il climaviene sconvolto e peggiora anche per la sovrabbondante cementificazione). La inquina ancora di più. La distrugge nella sua identità storica e culturale. E’ sensato aver distrutto il verde già fruibile (Bosco di Gioia, giardini di Via Gonfalonieri...) e concentrato in uno spazio ristretto (ribattezzato Porta Nuova) un accumulo cementizio di proporzioni gigantesche: più di un milione di metri cubi e sette cantieri aperti contemporaneamente per costruire uffici, abitazioni, impossibili «città della moda» e centri commerciali, ampliamenti stradali ed enormi parcheggi sotterranei, una selva di grattacieli tra cui quello faraonico dannoso dispendioso e inutile di Formigoni per la nuova sede della regione e le torri «verdi verticali» (?!) dell’architetto sedicente innovatore Stefano Boeri... E’ sensato concentrare in un solo punto della città un gran numero di sedi e funzioni?
È tollerabile che gli amministratori e i politici non prendano in alcuna considerazione precise e serie proposte, avanzate da comitati ed associazioni di cittadini e di artigiani ed artisti, da urbanisti e studiosi di problemi urbani? E si continua a violare norme e regolamenti, come dimostrano tanti ricorsi
Può apparire curioso che, a distanza di oltre trent’anni dall’ultima elaborazione di un nuovo piano per Milano, essa avvenga, oggi come allora, nel pieno svolgersi di una crisi economica drammatica. Certamente, il contesto non è paragonabile a quello della fine degli anni 70; e anche ciò che si intende per governo del territorio è ben diverso dall’elaborazione di un vecchio piano regolatore urbanistico (come nel caso dello strumento approvato nel 1980).
Tuttavia, atti di governo di tale significato non possono e non debbono ignorare il contesto generale e – per quanto riguarda il nuovo Pgt – la specificità della crisi in atto. Una crisi che ha mostrato fin dall’inizio le relazioni distorte proprio tra le dinamiche finanziarie e i processi di produzione e allocazione di beni immobiliari (ricordiamo tutti i cosiddetti subprime statunitensi). Realtà distinte e lontane, si potrebbe dire con alcune ragioni: basta poi sfogliare i giornali per comprendere quanto i legami tra banche e settore immobiliare mostrino segni preoccupanti anche in Italia e a Milano in particolare. Questo per dire che la classe dirigente locale farebbe bene a prendere sul serio il mutamento di fronte imposto dalla crisi e – come sembra per l’Expo – orientare con lungimiranza le proprie scelte strategiche, a partire da quelle nevralgiche riguardanti lo sviluppo territoriale.
Dalla prima lettura dei documenti sinora elaborati – mancano il documento delle regole e un compiuto piano dei servizi – sembrano presenti molte suggestioni che alludono a una diversa strada, maggiormente sostenibile. Ma sappiamo quanto scarto possa esistere tra carta e pratiche effettive di costruzione della città. Ci limitiamo a constatare che la sfida è lanciata. Non è poco, in una città come Milano: e ciò va attribuito al tenace lavoro dell’assessore Masseroli. Ma sembra necessario un serio bilancio del recente sviluppo urbanistico della città, senza il quale ogni proiezione in avanti appare più una fuga dalle responsabilità che una necessaria precisazione della rotta di governo. Infatti, una volta tramontata ogni visione salvifica dei piani e della pianificazione, il nuovo Pgt non sarà certo giudicato per la raffinatezza di alcune rappresentazioni grafiche o per l’eleganza di alcune interpretazioni della città, ma per la capacità effettiva di intercettare i concreti processi di sviluppo e per orientarne efficacemente alcuni esiti. Milano ha maledettamente bisogno di produrre sensibili effetti di governo nella produzione di beni pubblici indispensabili a qualificarne la crescita (spazi pubblici e servizi alle varie popolazioni, in primo luogo), ma la strada per conseguire tali risultati non può che essere strategicamente selettiva. Saprà la gestione del nuovo strumento dare segnali in questo senso? È questa la chiave migliore per valutare l’urbanistica milanese dei prossimi anni e per coglierne la sua autentica dimensione politica e civile.