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1. Limiti inevitabili ma contenibili di un piano comunale in un’area metropolitana – Unprogetto di PGT che elude i problemi del “quadro metropolitano”

1. Ingeneroso e non corretto sarebbe attribuire al Comune di Milano la responsabilità, nella sua interezza e fors’anche in larga parte, della omissione di una efficace aggressione dei complessi problemi di inquadramento metropolitano della sua pianificazione comunale od addirittura della mancanza di una pianificazione territoriale-urbanistica relativa all’intera area metropolitana della quale il Comune egemone stesso (il cui territorio non risulta però molto esteso) costituisce il nucleo centrale.

Corretto appare evidenziare, in apertura del presente breve documento, la rilevanza che sembra sia da attribuire ad “attenuanti” da riconoscere al Comune di Milano quanto al tema “quadro metropolitano”.

Pare sufficiente ricordare

- che, per varie ragioni, sfocata ormai purtroppo risulta la prospettiva della creazione della “città metropolitana” pur prevista dalla Costituzione solo di recente, in seguito alla riforma del suo titolo V intervenuta nel 2001

- che sia la maggioranza sia l’opposizione hanno alcuni anni orsono in vario modo “remato contro”, quando è stata decisa la creazione della provincia di Monza (il cui territorio arriva a qualche chilometro di distanza dai confini del Comune di Milano)

- che tale sviluppo non ha certo reso più probabile la soluzione del problema del “governo metropolitano milanese”.

Si possono subito aggiungere cenni

- ai limiti della possibile “supplenza” della Regione che è chiamata ad esercitare i suoi poteri di pianificazione territoriale al fine di affrontare alcuni dei problemi in considerazione che non sono, però, solo dell’area metropolitana milanese, ma della più vasta regione metropolitana costituita da parte rilevante della Lombardia

- nonché ai limiti di una possibile parziale supplenza della Provincia, che, in base alla L.r. n. 12/2005, può, come è noto, esercitare solo poche funzioni di pianificazione territoriale utili a fini di governo dell’area metropolitana.

Le doverose constatazioni testè indicate non consentono, però, di giustificare la disattenzione per i problemi del “quadro metropolitano” che caratterizza il progetto di piano in esame e che, a maggior ragione, desta perplessità se si considera la prospettiva dell’Expo 2015.

Non difetta, in verità, nella relazione illustrativa del documento di piano il riconoscimento della necessità di affrontare alcuni problemi che si pongono a livello di “regione metropolitana” (indicata rilevando che essa va, da un lato, da Orio al Serio a Malpensa e, dall’altro, da Como a Lecco) ed altri problemi che si pongono a livello di area metropolitana milanese (della quale risulta evidenziata l’impianto storicamente radiale).

Viene correttamente affermata “la necessità di ripensare urbanisticamente Milano entro un assetto metropolitano vasto” e più volte risulta evidenziato (per quanto superfluo) che “ non c’è un confine urbanistico tra la città di Milano e i comuni limitrofi”.

All’enunciazione del tema dell’inquadramento metropolitano non fa seguito, però, lo svolgimento del tema stesso.

Non si riscontra neppure l’indicazione di tentativi esperiti in applicazione del principio di copianificazione o solo del principio di collaborazione con gli altri enti interessati e di alcune possibili soluzioni mediante il ricorso a c.d. azioni di “governance metropolitana”.

In particolare, da un angolo di visuale attento alle suddette esigenze di inquadramento è da richiamare l’attenzione su un aspetto da considerare più problematico di altri, quello relativo al sistema infrastrutturale della mobilità, per evidenziare che non sembra sufficientemente affrontato il tema delle relazioni di scala metropolitana; ciò a fronte del previsto rilevante incremento delle funzioni urbane.

Deboli appaiono le scelte relative al rafforzamento del rapporto con il contesto metropolitano (si ha nella sostanza la sola conferma di progetti in corso) e il disegno di nuove linee di forza (LDF), prevalentemente previste dentro i confini comunali, non accompagnato dall’indicazionedella capacità di spesa alla quale fare riferimento per asserire la sostenibilità delle trasformazioni urbanistiche programmate.

Ancora più debole appare l’ipotesi di un tunnel stradale che desta rilevanti perplessità sotto l’aspetto infrastrutturale (ancora più traffico in centro città) e sotto il profilo urbanistico (invasività delle uscite nel tessuto urbano) e appare finanziariamente di dubbia credibilità, perché nebulosa risulta l’ipotizzata soluzione mediante ricorso a project financing.



2. É configurabile un condivisibile disegno di rilevanza strategica?

A tal proposito sia, in primo luogo, consentito rilevare che il disegno di rilevanza strategica del Comune egemone dell’area metropolitana del quale trattasi dovrebbe comunque presentare, per ovvie ragioni, respiro metropolitano.

Difficilmente concepibile era ed è per lo stesso un disegno di rilevanza strategica di angusto respiro comunale.

A tale conclusione si deve pervenire a maggior ragione in quanto, come è già stato rilevato, ristretto risulta il territorio del Comune di Milano ed elevata è la complessità territoriale – urbanistica dell’area metropolitana in cui esso ricade.

In ogni caso è da rilevare, pur evidenziando il già sopra indicato quadro di difficoltà, che sarebbe stato comunque possibile individuare alcuni obiettivi di una pianificazione angustamente comunale suscettivi, però, della qualificazione di “rilevanza strategica”.

E, però, da un angolo di visuale attento, in particolare, al documento di piano non sembra che detti obiettivi siano facilmente individuabili e che possa essere asserita la riconoscibilità di un “progetto di sviluppo”.

Ciò vale a meno che non si ritenga che siano da assumere a tale rango quelli che vengono indicati come “elementi di innovazione” che caratterizzano lo strumento urbanistico in considerazione ed a loro volta risultano caratterizzati, come infra si vedrà, dalla manifestazione di un elevato “favor” per le scelte che il mercato vorrà fare.

Quando si discute dei possibili obiettivi di rilevanza strategica di un piano urbanistico, la mente non può non correre, in primo luogo, alle grandi trasformazioni e, quindi, agli ambiti di trasformazione individuati con il documento di piano.

Essi, cadendo in una enfatizzazione, sono stati con il documento stesso indicati come “motore” per lo sviluppo della città.

Occorre chiedersi cosa si intende per “sviluppo della città” e se sia credibile l’affermazione secondo cui gli ambiti stessi “costituiscono le aree strategiche per il rinnovamento dell’intero tessuto comunale, i nodi della rete infrastrutturale e ambientale, in grado di riqualificare ampie aree oggi degradate e dismesse e di restituire alla città spazi oggi interclusi e “sottratti” al godimento della città”.

Certo la mera previsione della possibilità di realizzare negli ambiti di trasformazione determinate quantità di Slp e della possibilità di trasferire in alcuni (in parte da quelli di essi ricadenti nel parco agricolo sud) ulteriore superficie lorda di pavimento non fa di per sè configurare, insieme alle previsioni contenute nelle varie schede ad essi relative, un disegno strategico.

Ciò anche perchè molte scelte, come già si è detto e infra meglio si vedrà, risultano del tutto rimesse al mercato.

In particolare da un angolo di visuale attento agli ambiti di trasformazione

- si osserva che molti giochi risultano già fatti in attuazione del documento di inquadramento previsto dalla l.r. n. 9/99, che ormai da parecchi anni trova applicazione e che, di recente, è stato oggetto di modifiche

- che con il documento di piano si ha, rispetto al documento di inquadramento, una evidente conferma metodologica

- che inquietanti possono risultare alcune scelte adombrate per gli scali ferroviari che costituiscono le poche residue occasioni di riqualificazione di parti abbastanza estese della città sicuramente da non perdere

- che da un angolo di visuale attento alle previsioni di sviluppo e alla loro sostenibilità è da aggiungere che condivisibile appare la seguente affermazione fatta, in linea teorica, in tema di consumo di suolo, densità e dotazione di servizi: “la discriminante principale per occuparsi di sostenibilità fin dalla scala urbanistica, come dicono gli inglesi, è non consumare green field e preoccuparsi, invece di edificare nuove parti di città sul “brown field” vale a dire sulle aree insalubri sugli scali ferroviari in disuso e o sulle aree industriali dismesse o in procinto di esserlo”.

- che però, occorre chiedersi se non siano da considerare contrastanti, in modo stridente, con detta affermazione l’individuazione, in un parco che è e dovrebbe rimanere agricolo, di c.d. “ambiti di trasformazione peri-urbana”, e la loro inaspettata conformazione edificatoria con l’attribuzione di un indice di edificabilità, che, data anche la localizzazione degli stessi, non appare certo basso (0.20 mq per mq) e che si prevede venga, almeno in parte, in loco utilizzato (non certo ai soli fini previsti dal piano territoriale del parco stesso).

Inoltre, sempre quanto alla sostenibilità, ci si chiede quante e quali attente verifiche siano state fatte con rifermento alle densificazioni (solo alcune delle quali non si dubita possano risultare opportune) che, in parte, conseguirebbero al trasferimento su alcune superfici di diritti edificatori attribuiti ad aree destinate a verde pubblico ed anche a detti ambiti ricadenti nel parco agricolo sud Milano.

Alle considerazioni sopra svolte occorre aggiungere che la possibilità di individuare, se non un disegno strategico, alcuni obiettivi di rilevanza strategica non sembra si possa riscontrare neppure da un angolo di visuale attento alla “città pubblica” ed alla politica dei servizi, con riferimento alla quale è anche necessario esprimere i rilievi che infra verranno in breve esposti.



3. Quali sono gli elementi di maggiore innovazione caratterizzanti il progetto in esame – Eccessi di benevolenza per il mercato e di “delega” allo stesso

Gli elementi di innovazione individuabili fanno configurare un disegno unitario

- insuscettivo, a nostro avviso, come già si è detto, dell’assunzione al rango di disegno di rilevanza strategica

- e che, pur tuttavia, è un disegno politico amministrativo che merita una attenta considerazione.

Detto disegno unitario sembra sia da individuare se, al contempo, si considerano

- la scelta di omettere, nella sostanza, qualsiasi previsione relativa alle funzioni insediabili e, quindi, di operare non al fine di promuovere mirate scelte polifunzionali, ma di consentire al mercato di fare pressoché liberamente opzioni;

- la scelta di liberalizzare le densificazioni e non solo di limitarsi ad incentivarne alcune considerate opportune in relazione ad un progetto di sviluppo;

- quella avente ad oggetto l’attribuzione di un indice unico, acriticamente deciso, con riferimento a qualsiasi ambito territoriale, e in applicazione del quale si avrebbero trasferimenti di superfici lorde di pavimento che risulterebbero tutti consentiti senza la prescrizione della applicazione di coefficienti di ponderazione relativi alle funzioni che vengono insediate e alle localizzazioni che in concreto vengono promosse;

- quella di offrire spazi alla società civile ed anche al mercato, per quanto riguarda la creazione di servizi alle persone, ben oltre il limite conseguente ad una corretta applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale.

La “filosofia urbanistica” che fanno configurare tali scelte (il coordinamento tra le quali risulta agevolmente individuabile) è quella di una grande apertura nei confronti del mercato, che sembra spinta oltre il limite al di là del quale si potrebbe molto probabilmente avere, di fatto, una compressione del ruolo della pianificazione.

Al mercato indubbiamente occorre, in sede di esercizio delle funzioni di pianificazione urbanistica, prestare molta attenzione, ma occorre anche evitare che si configuri una sostanziale “concessione” al mercato stesso di larga parte del ruolo della pianificazione. Oltretutto amare esperienze maturate negli ultimi tempi suggeriscono di evitare una qualsiasi “beatificazione del mercato”.

Da un angolo di visuale attento allo sviluppo urbanistico-edilizio non pare, infatti, che le sue performance siano da considerare eccelse.

Auspicabile deve essere considerato (se ne conviene) il superamento di inutili e giustamente vituperati “lacci e lacciuoli” da urbanistica c.d. veterodirigistica, non anche il passaggio ad una politica urbanistica contraddistinta da un sostanziale abbandono del metodo della pianificazione.

Certamente si può confidare nella volontà del Comune di Milano di evitare detto abbandono.

E, però, per il momento, per evidenziare alcuni degli inconvenienti cui, a nostro avviso, potrebbe dar luogo l’applicazione del “modello” caratterizzato dai suddetti elementi di innovazione e di parziale “abdicazione” preso in esame, di seguito, al contempo, si svolgono brevi considerazioni e si formulano alcuni interrogativi.

a) Poiché al contempo opportune appaiono scelte di pianificazione attente al perseguimento di obiettivi di polifunzionalità o mixité funzionale ed il soddisfacimento di esigenze di flessibilità, può non essere assunta come una inevitabile dannazione un preciso calcolo della capacità insediativa.

Dai documenti del progetto di PGT - che pur, quanto alle funzioni da insediare si rimette, quasi del tutto e comunque troppo al mercato - si desume che sono previsti 1.787.000 abitanti teorici (Milano oggi ne conta quasi 1.300.000). Un quarto dell’intero territorio comunale dovrebbe essere investito da grandi trasformazioni insediative per 12 nuovi milioni di mq di slp e una quantità almeno doppia di slp sembra che potrebbe essere realizzata nella città esistente.

Ne risulta un dimensionamento che appare quasi incredibile, in particolare se si considera l’attuale fase di rallentamento del mercato immobiliare, e si confrontano i dati con quelli degli ultimi quindici anni (un periodo ritenuto notoriamente eccezionale sotto il profilo dello sviluppo nel corso del quale sono stati programmati, e non tutti realizzati, poco meno di 5 milioni di mq).

Si tratta comunque di quantità da considerare cospicue, soprattutto perché prive di adeguate e proporzionate compensazioni (servizi ed infrastrutture).

b) Occorre comunque chiedersi che senso possa essere riconosciuto ad un’azione di pianificazione che non risulti contraddistinta anche da previsioni, sia pur non rigide ma di massima, relative alle varie funzioni insediative. In assenza di dette previsioni, stante l’impossibilità di considerare tutte alla stessa stregua le funzioni, quale credibilità è da riconoscere alle risultanze di verifiche di sostenibilità non solo ambientale ma anche urbanistica (in merito si richiama incidentalmente il documento sulla VAS che questo Istituto ha approvato e diffuso nello scorso autunno e che al presente viene allegato)?

c) In assenza delle suddette previsioni di massima quali credibili riferimenti sono possibili per la politica dei servizi (e per il piano dei servizi)?

d) Certo, anche in considerazione della crisi dello “stato sociale” e con esso del welfare urbano, sono più di ieri da favorire apporti, oltre che della società civile e del volontariato, anche del mercato alla soluzione dei problemi relativi ai servizi alle persone.

Occorre, però, chiedersi se non sia eccessiva la delega che, per quanto riguarda i sevizi stessi, fa configurare il progetto di PGT e più precisamente il progetto del piano dei servizi con il quale il Comune (vedi art. 8 delle NTA del PS) si spingerebbe a riconoscere, anche agli operatori privati (oltre che a soggetti del mondo del volontariato etc.) che realizzano i servizi, diritti edificatori suscettivi di trasferimento.

É da considerare sempre giustificata l’attribuzione di tale premio che sembra ispirato da un eccesso di benevolenza per il mercato così come, peraltro, almeno in parte, la decisione di gettare la spugna quanto alla disciplina delle funzioni?

Forse non si cade in una esasperazione polemica se si asserisce che, dato il suddetto premio, oltre misura favorite potrebbero risultare alcune iniziative private aventi ad oggetto servizi alle persone (quali cliniche etc.) ed al contempo potrebbero invece risultare insufficienti quelle aventi ad oggetto altri servizi.

Ci si chiede inoltre se, almeno in parte, non venga gettata la spugna anche quanto a distribuzione territoriale dei servizi e razionalità degli investimenti, con conseguenze non esplorate sui costi di gestione nel lungo periodo.

e) Non sono certo da manifestare pregiudizi negativi per “densificazioni” che in determinate realtà sono anche da promuovere per contenere il consumo di suolo. E, però, occorre chiedersi se sia il caso di rimettere per molte zone agli operatori privati ed al mercato ogni decisione, così trascurando, anche, le esigenze di una disciplina tipo-morfologica e di tutela di valori paesaggistici urbani. Si torna a ripetere che al mercato vanno lasciati spazi, anche ampi, ragionevolmente individuati e non vanno, però, date acriticamente deleghe in contrasto con il metodo della pianificazione.

Per usare termini cui è stato ricorso da chi ha redatto il progetto ci si chiede

- quando sono da “valorizzare le aree porose” ed a quali condizioni,

- quando è da considerare ragionevole promuovere “isole piene”

- ed ancora a quali condizioni “consolidare ed irrobustire i nodi” e dar luogo alla “crescita della città nella città”?

Ci si deve limitare ad attendere risposte dal mercato che, come si è detto, non va trascurato e, però, neppure beatificato?

Non saranno in qualche caso da paventare quelli che, forse peccando di un eccesso polemico, in un documento sulla politica urbanistica del Comune abbiano tempo addietro indicato come sviluppi da “costipazione urbanistica”?

f) Quanto alla disciplina tipo-morfologica ed alla tutela dei valori paesaggistici, da un lato, occorre riconoscere l’approfondimento delle analisi effettuate (che non risulta però pienamente soddisfacente per quanto riguarda gli ambiti urbani a disegno urbanistico riconoscibile) e, dall’altro, sono da lamentare un deficit di “indirizzi specifici” atti ad orientare la qualità degli interventi a tutela dei valori paesaggistici ed i limiti che presentano le regole tipo-morfologiche relative ai suddetti ambiti a disegno riconoscibile e agli ambiti di rinnovamento urbano.



4. Il modello perequativo prescelto ed i suoi limiti

All’espressione di apprezzamento per la decisione comunque di applicare il principio della perequazione che appare doverosa occorre aggiungere la seguente manifestazione di perplessità per i limiti che il modello prescelto presenta.

a) In primo luogo non è dato riscontrare elementi di giudizio atti a far affermare che ricorre in modo certo l’ipotesi di scelte perequative al servizio della pianificazione e più precisamente al servizio di un progetto di sviluppo.

In casi quali quello in esame, stante l’impossibilità di affermare il testé indicato rapporto di servizio, sono da manifestare preoccupazioni per le distorsioni delle scelte e del processo di pianificazione che l’applicazione del modello perequativo potrebbe indurre.

b) Quanto all’ambito di applicazione del modello, sembra sia da lamentare

- da un lato l’esclusione dallo stesso delle aree destinate a “servizi alle persone” che (se non già di proprietà pubblica), sembrerebbe si voglia riservare a iniziative dei privati ed evitare che, in forza di scelte perequative – compensative, possano divenire oggetto di acquisizione indolore da parte dell’Amministrazione (vedi a tal proposito i rilievi già sopra formulati).

- e, dall’altro, l’esclusione delle aree già di proprietà pubblica cui ben anche può ritenersi sia, nell’interesse pubblico, opportuna l’attribuzione di diritti edificatori utilizzabili anche al fine del perseguimento di obiettivi di edilizia residenziale sociale.

c) Contraddistinta da sommarietà appare la previsione (apparentemente semplice e naturale) di un indice unico, che in quanto tale, date le diversità che presentano varie parti del tessuto urbano, finisce con l’essere un indice da perequazione zoppa.

In altri termini non è stata considerata l’esigenza di quella che, ricorrendo ad un apparente ossimoro, può essere indicata come una differenziazione dell’indice unico da prevedere in relazione alla necessaria constatazione di diverse situazioni omogenee (ad esempio zone periferiche e zone semicentrali).

d) Occorre anche rilevare la semplicità o sommarietà che contraddistingue la normativa che disciplina l’applicazione di detto modello perequativo.

In breve l’utilizzazione dei diritti edificatori attribuiti alle aree che rientrano nell’ambito di applicazione del modello viene disciplinata omettendo di dare un qualsiasi rilievo

- alle funzioni per le quali essi vengono utilizzati,

- alla localizzazione delle slp da esse derivanti

- ed alla provenienza delle slp stesse.

Tale rilievo è da considerare relativo anche (si badi bene) al contemplato trasferimento di diritti edificatori conseguenti all’indice generosamente ed inaspettatamente attribuito ad alcune parti del Parco sud agricolo (che è il solo diverso dal c.d. indice unico).

A causa della testé denunciata carenza della normativa succulente potrebbero comunque risultare, per alcuni operatori, le operazioni di trasferimento di diritti volumetrici.

Non si dubita dell’opportunità di semplificare le normative, ma forse, per quanto riguarda la disciplina del modello perequativo del quale trattasi, può essere affermato che si è configurato un eccesso di semplificazione che si auspica venga superato.

e) Inoltre è da osservare che non risultano, in alcun modo, indicate le ragioni per le quali il Comune di Milano non ritiene di esercitare la facoltà concessa dal primo comma dell’art. 11 della L.r. n. 12/2005, quella di prevedere l’obbligo delle cessione, con le convenzioni relative a piani e programmi urbanistici interessanti ambiti di trasformazione aventi c.d. rilevanza territoriale, oltre che delle aree relative a standard o cd dotazioni urbanistiche, anche di aree per c.d. “compensazioni urbanistiche”, la cui utilizzazione a fini di rilevante interesse pubblico perseguiti con la politica dei servizi potrebbe risultare importante.

g) Considerati i suddetti limiti si deve ritenere che, in sede di redazione del progetto del PGT, si sia caduti in una enfatizzazione quando (vedi pag. 172 della relazione) è stato scritto quanto segue: “l’introduzione della perequazione urbanistica consente di ripensare alla città in relazione a considerazioni precise di sostenibilità ambientale e morfologica a partire da diritti certi e da valutazioni più precise di natura economica finanziaria”. Incidentalmente ci si chiede in particolare quali siano state le “... considerazioni precise di sostenibilità ambientale e morfologica...” fatte ai fini della disciplina relativa all’applicazione del modello perequativo suddetto.



5. Le scelte relative all’edilizia residenziale sociale

Ingeneroso e non corretto sarebbe non riconoscere che, in sede di redazione del progetto del PGT, alle esigenze di edilizia residenziale sociale è stata prestata attenzione.

Diverse sono le disposizioni che risultano inserite al fine di promuovere interventi appartenenti a detta categoria.

Occorre, però, paventare che a una nozione che già forse è divenuta molto ampia di edilizia residenziale sociale si venga ad aggiungere, per quanto riguarda il Comune di Milano, una nozione ancora più ampia, ovverosia quella in base alla quale sono da assumere come interventi di ERS (vedi art. 9 delle NTA del piano delle regole) quelli che “... assolvono ad esigenze abitative – di durata indeterminata o a carattere temporaneo – di interesse generale per aumentare l’offerta di servizi abitativi a prezzi inferiori al mercato risultanti da appositi atti deliberativi comunali di carattere programmatico o specifico”.

Tale rinvio, senza (nella sostanza) reti, può destare, per ovvie ragioni, qualche preoccupazione. Inoltre è da osservare che comunque sembra si faccia esclusivo affidamento, ai fini del perseguimento degli obiettivi di edilizia residenziale sociale, su iniziative private e, quindi, ancora una volta su un’intensiva applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale.

A tal proposito si osserva che occorre non dimenticare

- che il mercato non è solidale

- che non si può far dipendere dalle iniziative degli operatori privati (che nell’attuale fase potrebbero non risultare numerose) il perseguimento di obiettivi di grande rilevanza sociale, quali quello dell’edilizia abitativa per le fasce sociali più deboli.

Inoltre occorre ricordare che, in modo virtuoso, i Comuni possono e, a nostro avviso, debbono, per quanto possibile, contribuire al perseguimento dell’obiettivo della creazione di alloggi destinati all’affitto permanente a canone sociale (sicuramente suscettivi dell’assunzione ad ogni effetto tra i servizi pubblici) mediante l’acquisizione indolore, ricorrendo alla “leva urbanistica”, di aree da utilizzare o far utilizzare per interventi aventi detta finalità.

É sicuramente da lamentare che con il progetto di piano del quale trattasi, da un lato, sia stato deciso di non esercitare la suddetta facoltà di chiedere cessioni di aree per la cd compensazioni urbanistiche, in applicazione del già sopra richiamato primo comma dell’art. 11 della L.r. 12/2005, e, dall’altro, sia stato omesso di prevedere l’obbligo, almeno nel caso degli ambiti di trasformazione di maggiore rilevanza, della cessione gratuita al Comune di aree per interventi di edilizia residenziale sociale in applicazione del comma 258 dell’art. 1 della L. n. 244/2007. Si ricorda che scelte in tal senso non possono certo considerarsi risolutive degli assillanti problemi che si pongono in materia di edilizia residenziale sociale, ma si aggiunge che esse possono valere al fine di creare piccoli demani utili per perseguire gli obiettivi dell’housing sociale (latamente inteso).

Non trattasi certo di scelte cui non attribuire rilevanza e da considerare come optional, a maggior ragione dopo l’abbandono del modello espropriativo già da tempo di fatto intervenuto.

Si confida conclusivamente in revisioni ed integrazioni del progetto di PGT tali da superare parte rilevante dei rilievi sopra espressi e da far escludere la ricorrenza di un’ipotesi di piano che dice di non voler essere un piano.



Sono allegati al documento altro documento sulla VAS relativa al PGT e alcuni contributi personali dei seguenti componenti del Consiglio Direttivo della Sezione: D’Agostini Sergio, Imberti Luca, Pareglio Stefano, Pogliani Laura, Ranzani Piero, Vascelli Vallara Umberto, Vitillo Piergiorgio.

Detti allegati sono consultabili su www.inu.it

Gentile signora Bossi Fedrigotti, ieri ho preso il Passante ferroviario alla stazione di Segrate per recarmi alla Fiera a Rho. Ho parcheggiato l'auto nel parcheggio della stazione e ho incontrato un conoscente che molto spiritosamente o tragicamente mi ha salutato: «Dr Livingstone, I presume» come se ci fossimo incontrati sulle rive del lago Tanganika. Infatti eravamo ai bordi di un lago nel bel mezzo del parcheggio. Una situazione da safari, ma non c'è da ridere. Poi mi sono avventurato verso il treno e ho potuto constatare lo squallore assoluto della struttura, incluso il sottopassaggio, autentico invito a nozze per aggressori e stupratori. Me lo immagino al crepuscolo. Le gentili signore sono avvisate. La stazione, diciamo così, di recente costruzione è immersa nella desolazione, senza indicazioni.

Solo recentissimamente hanno messo un baracchino per i biglietti. I nostri splendidi artisti di strada hanno decorato ogni spazio imbrattabile. A causa del lago Tanganika nel parcheggio, acqua alta trenta centimetri almeno, metà dello stesso è inutilizzabile, vedi foto allegata scattata oggi che non piove. Tutto questo avviene alle porte di Milano, in un comune che ospita due grandi quartieri residenziali, «Milano Due» e «Milano San Felice», di pregio e quindi ricchi, la più grande casa editrice italiana, la sede italiana della più importante società di software del mondo, e molto altre aziende del settore alta tecnologia. Non è un comune sottosviluppato, sembra. Ligio ai dettami del «Corriere» — non inquinare— ho rinunciato all'auto e ho preso il Passante, tra l'altro molto comodo. All'arrivo alla stazione di Rho, altra desolante constatazione. La stazione è nuovissima, ci piove dentro che è un piacere, metà dei tapis roulant sono «fuori servizio». Cento vetrine di negozio inutilizzate accrescono l'atmosfera di sciatta provvisorietà. La prossima volta uso l'auto. Luigi Rancati

Ho ammirato, incredula, la foto allegata: lei non esagera, c'è un vero grande lago al centro del parcheggio. E posso immaginare che con la pioggia di questi giorni il volume dell'acqua sia ulteriormente aumentato. Tra poco potrebbero arrivare i pescatori... Sullo squallore delle stazioni del passante sia di Segrate che di Rho sono arrivate varie segnalazioni già parecchi mesi fa: la sua nuovissima cronistoria ci conferma che, purtroppo, nulla è stato intrapreso per migliorare la situazione. Le risparmio il troppo abusato ritornello sull'impressione che simili contesti potrebbero fare ai visitatori dell'Expo, ma riconosco che la domanda è quasi inevitabile.

L’economista Marco Vitale si sente «l’uomo più infelice del mondo, e lo sa perché?».

Dica, professore.

«Perché Milano, città che amo profondamente e dalle enormi potenzialità, è governata in modo pessimo. E non parlo solo di ordinaria amministrazione: per dire, le buche o il traffico caotico. Ciò che manca è un pensiero, un’idea forte, un impegno profondo per rilanciare davvero la capitale morale».

E gli Stati generali promossi da Letizia Moratti dove li mettiamo?

«Ma non scherziamo: li hanno fatti per mettersi d’accordo tra di loro in questa fase finale di mandato: ma sono inutili, perché questi non sono capaci di fare niente».

Manca un’idea, lei dice. Ma non c’è l’Expo?

«Una buona intuizione, poi si è visto che disastro hanno combinato: litigi nella maggioranza e fra istituzioni, un anno di paralisi, e meno male che Tremonti ha impedito alla Moratti di gestire tutto da sola».

Non salva niente di questo sindaco?

«Che cosa dovrei salvare? Una politica ridotta, come ha spiegato Guido Martinotti a Repubblica, a marketing e comunicazione? Una volta i politici non sapevano parlare, facevano e basta. Adesso hanno imparato l’importanza della comunicazione e fanno solo quello. L’ho scritto nel mio libro "Passaggio al futuro, oltre la crisi attraverso la crisi": qua ci si riempie la bocca di riforme senza risolvere i problemi, e questa liturgia senza fede purtroppo viene seguita anche nella pragmatica Milano. Quando poi fanno qualcosa è pure peggio».

A che cosa si riferisce?

«Prenda il Piano di governo del territorio: è impantanato e comunque, se dovesse passare così com’è, sarebbe un disastro».

Perché?

«Troppo sbilanciato sul lato degli interessi immobiliari, che hanno ormai assunto un peso schiacciante. Non esiste più una visione del bene comune, e questo è l’effetto di un’altra grave stortura».

Quale?

«A Milano lo strapotere non viene esercitato dai partiti, ma dalle sette. La prima è Cielle, centro di potere straordinario. Per diventare primario devi essere ciellino: alla faccia dell’apertura che ha sempre caratterizzato l’anima vera di questa città».

Un quadro a tinte fosche. E l’opposizione?

«Sì, buonanotte».

Prego?

«Non esiste, io non la vedo né la sento. Sta lì, attorcinata attorno a se stessa, chiusa nelle sue stanze a baloccarsi di primarie senza occuparsi dei problemi veri della gente».

L’anno prossimo si vota per il sindaco, chi dovrebbe candidare il centrosinistra?

«No guardi, è proprio questo l’errore. A sinistra devono capire che prima bisogna costruire un progetto credibile e una squadra che lo possa realizzare. Il candidato viene dopo. La smettano di cercare l’oggetto misterioso e si diano da fare. L’uomo che ha amministrato meglio Milano si chiamava Radetzky, lui sì che amava la città. E il miglior "sindaco" è stato Sant’Ambrogio. Purtroppo non ci sono più».

Opposizione bocciata, dunque.

«Assolutamente sì. Ha tagliato i ponti con la città, riducendosi a fare discorsi tipici delle oligarchie burocratiche. Per non parlare dei patti che ha contratto...».

Può spiegare, professore?

«Se Cielle fa quello che vuole, è anche grazie all’accordo di ferro stipulato con la Lega delle Cooperative: una mano lava l’altra, e gli interessi veri della città vanno a farsi benedire».

Un Palazzo Marino bis, o torre Moratti. Il Comune ha scartato le alternative— acquisti d’uffici, traslochi— e deciso di realizzare il suo grattacielo in zona Garibaldi, una sede di 35 mila metri quadri per 1.600 dipendenti di fronte al Pirellino di via Gioia. Un’operazione da 100 milioni di euro finanziata dalla cessione di altri immobili, dall’anagrafe di via Larga a via San Tomaso, a largo Treves, ancora non s’è deciso quali: «Con i ricavi supereremo i costi di costruzione — stima l’assessore allo Sviluppo del Territorio, Carlo Masseroli — risparmiando anche sulle spese di gestione delle vecchie sedi», qualcosa come 50 milioni l’anno più altri 20 di manutenzione straordinaria. Bando e concorso di progettazione saranno pronti a luglio, Palazzo Marino selezionerà dieci architetti per il confronto di idee e sceglierà la migliore a marzo 2011. Due gli obiettivi: chiudere i cantieri nel 2013 e «superare il Pirellone bis di Formigoni». È una battuta, Masseroli, questa sfida ad alta quota? «Vedremo».

Il Comune completa il mosaico Milano Porta Nuova, il piano di riqualificazione del quartiere Isola-Garibaldi-Varesine: «Vogliamo contribuire al laborioso travaglio della città». Inaugurato e quasi pronto Palazzo Lombardia, la macchina dei lavori privati sta rispettando i tempi e consegnerà i primi edifici nel 2011: la torre di Cesar Pelli sul podio di fronte alla stazione (grande quanto piazza della Scala, 7.500 metri quadri) e gli uffici Varesine. «Questa è una delle prime cinque grandi opere in corso in Italia» dice Manfredi Catella, ad di Hines Italia, società capofila nel progetto: «Porta Nuova rappresenta, da sola, il 10 per cento del volume delle costruzioni in Lombardia». In numeri: 1,2 miliardi di investimenti (300 milioni appaltati negli ultimi sei mesi), 600 operai che saliranno a 2 mila nel 2011, altri 10 mila nell’indotto. «Abbiamo vissuto un 2009 difficile, ma procediamo a ritmi serrati, fiduciosi, in controtendenza rispetto al mercato».

I cantieri sono blindati, gli operai entrano col badge, sorvegliati, i tornelli sembrano quelli di San Siro, il lavoro nero sta fuori, alla porta. Dentro, si lavora a un quartiere «aperto» alla città, «interamente permeabile». Rampe e scale mobili introducono alla piazza circolare, sollevata a sei metri d’altezza, bagnata dalle fontane e impreziosita da un porticato in legno, vetro e metallo disegnato da Pelli (è previsto anche un ascensore panoramico); l’arrampicata alla torre maggiore ha raggiunto quindici piani su 32; nei giardini in via De Castillia è in costruzione il Laboratorio dell’arte, la nuova «stecchetta» degli artigiani; in via Confalonieri sono state gettate le basi del Bosco verticale progettato da Stefano Boeri (opere edilizie da maggio) e delle residenze convenzionate col Comune (3.500 euro al metro); mentre lo scheletro del grattacielo Solaria (143 metri) prende forma nel metallo. Hines ha iniziato la vendita del secondo lotto di alloggi: «Le richieste superano l’offerta». Trenta sono già stati assegnati, ne restano altri 370: il costo medio, 9 mila euro al metro.

Per capire se l’attuale maggioranza ricandiderà nel 2011 il sindaco uscente, bisognerà sfogliare la margherita fino all’ultimo petalo. Per capire quale candidato metterà in campo l’opposizione, bisognerà attendere almeno l’autunno. La città verrà colta impreparata dalla campagna elettorale, e sarà chiamata a decidere in base a una "scelta di campo": modalità logora, dietro la quale si nasconde spesso la mancanza di idee. Per questo è necessario aprire fin d’ora il dibattito, chiedendoci in che direzione orientare il futuro di Milano. Di certo, Milano non può affidare il proprio futuro (solo) all’Expo.

Anche perché l’Expo, al di là della retorica, è sempre più confinato nel recinto espositivo, non avendo accolto i ripetuti inviti a sperimentare un modello diffuso, a basso costo, basato sulla riqualificazione di strutture esistenti. Un’Expo volta soprattutto alla realizzazione di opere infrastrutturali, non tutte indispensabili all’evento, un’Expo che reperirà le risorse necessarie alla realizzazione del sito consegnando nelle mani degli enti locali la "valorizzazione" immobiliare, fin qui sdegnosamente negata.

Il futuro di Milano non può essere devoluto neanche al nuovo piano di governo del territorio. Che non decolla perché non risponde neppure agli interessi degli operatori; o almeno, della maggior parte di essi. Pensato prima e durante la crisi, appare ora inadatto, poiché prevede di realizzare i servizi pubblici impiegando le risorse generate dalle trasformazioni private, oggi al palo. Un piano introflesso su Milano, che liberalizza il mercato edilizio rinunciando in larga misura a controllarne gli esiti. Un piano che non aggredisce il problema prioritario: l’inquinamento atmosferico e i danni che determina alla salute. Come dimostrano le difficoltà delle due linee di metropolita in cantiere, la mancanza di una politica della mobilità su area vasta, la costruzione di parcheggi sotterranei in pieno centro, l’abbandono dell’Ecopass e il lancio del bike-sharing senza piste ciclabili.

Vi sono quindi molte buone ragioni per sostenere che né i grandi eventi, né la programmazione ordinaria hanno davvero coinvolto i cittadini. Ecco dunque un possibile obiettivo per i candidati sindaci: ricostruire una dimensione comunitaria, che valorizzi il capitale sociale di Milano. Una città colta, ricca di università, aperta all’Europa, capitale del terzo settore, attiva nel volontariato, non può essere gestita come un’azienda (tanto meno come un condominio), né governata da un’oligarchia. Milano gioca il proprio futuro sulle competenze delle persone che la abitano e sulla coesione sociale. Come raggiungere questo obiettivo? Qui si può solo suggerire il punto di partenza: ascoltare le voci di Milano, per censire le aspettative, conoscere ciò che già avviene, per scoprire le molte energie che chiedono di offrire il proprio contributo. Ascoltare chi costruisce ogni giorno un pezzo della nostra comunità può aiutare a rendere questa città più moderna, più dinamica, più accogliente.

Cerco le buone notizie, per non passare come l’eterno pessimista. Questa settimana ne avevo trovata una: il sindaco Moratti annuncia un grandioso piano per rimediare alle buche delle strade. Una buona notizia? No. Pessima: la definitiva attestazione di una città che va a rotoli. Se scorrete ogni tanto le cronache di altre città d’Europa, quelle alla quali Milano indica spesso se stessa quale esempio, non avrete mai incontrato la notizia di un sindaco che deve "decretare" lo stato di calamità delle sue strade ed emettere una "grida" al riguardo.

Nelle città normali, e Milano non lo è, la sistemazione delle strade è un fatto di ordinaria manutenzione, routine, come lavarsi i denti il mattino. Per capire l’anomalia v’invito a osservare con attenzione le poche notizie di cronaca dall’estero che le televisioni nazionali, ormai dedite solo al gossip o ai minuti particolari degli sgozzamenti domestici, pur sempre passano sui nostri video: le strade e le piazze delle città europee si presentano bene, ben tenute e senza buche, non sono inutili selve di pali, i marciapiedi sembrano puliti e sgombri da autovetture.

Se poi avete la fortuna di viaggiare all’estero, meglio se in automobile e alla fine dell’inverno quando gelo e pioggia hanno dato il meglio di sé, non siete costretti alla gimcana tra una buca e l’altra per evitare di rimetterci le sospensioni e, se siete in moto, di franare a terra con quel che ne consegue. A Milano è tutto diverso. L’inverno passa, l’asfalto di pessima qualità si sbriciola, i chiusini stradali sprofondano e l’asfalto se ne viene via: lungo le rotaie dei tram si aprono solchi profondi e micidiali.

È il momento della grande rivincita dei villani in Suv che finalmente provano l’emozione del fuoristrada e il piacere di affrontare le pozzanghere come nei Camel Trophy, per la gioia dei pedoni innaffiati da capo a piedi. Il sindaco vuol provvedere: ha aperto gli occhi. La prossima "grida" sarà sulla carta igienica delle scuole e degli asili comunali.

Notizia numero 2: gli alberi di Abbado. Siamo a livello pollaio. Che cosa dobbiamo aspettarci ancora dalla fertile mente dalla nostra Minerva di Palazzo Marino in trepida attesa degli sponsor, la mitica figura entrata nell’olimpo cittadino? È ora delle grandi innovazioni istituzionali: niente elezioni, facciamo delle primarie per un sindaco sponsor all’insegna del vecchio proverbio "a caval donato non si guarda in bocca". Notizia numero tre: la Beic – Biblioteca europea di informazione e cultura – quella che doveva nascere a Porta Vittoria, non si farà più. L’assessore Masseroli sta già pensando a un riassetto urbanistico della zona. Si nutrivano speranze di trovare i soldi per la Biblioteca tra gli stanziamenti per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Pure di questo nulla, dell’Unità d’Italia alla Lega non importa un fico secco e l’ultimo baluardo della cultura milanese a seguire. In questa tragicommedia dello scambio di ruoli di plautina memoria ecco dunque la Lega nei panni del Barbarossa: «... la primavera in fior mena tedeschi / pur come d’uso. Fanno Pasqua i lurchi / ne le lor tane e poi calano a valle." (G. Carduci – Il parlamento). Alberto da Giussano chi lo fa? Con la primavera arriva la Lega: i barbari.

«Io, Abbado, il verde e un’idea per la città

Il sogno è finito. Peccato»

di Renzo Piano

Le città sono immobili. Talvolta bellissime, ma immutevoli come la pietra di cui sono fatte: sono i suoni, gli odori, la gente e gli alberi ad animarle. Tutto ciò che è effimero e cambia le rende sempre nuove ed inattese, le tiene vive. Mi chiedo cosa sarebbe a Parigi Place des Vosges senza i suoi tigli.

Ci passo sotto tutte le mattine andando in studio, scandiscono il passare del tempo e il susseguirsi delle stagioni: è una delle tante cose che gli alberi fanno in una città. Mi domando se continuerei lo stesso a passarci ogni mattina, oppure se cambierei strada per incontrare altri alberi. Un delicato gioco d’equilibrio, un’alchimia tra durevole e passeggero; forse è questo il segreto di una città felice?

Sono architetto, e naturalmente sono innanzitutto sedotto dalla città costruita: la sua è una bellezza edificata dal tempo. È il tempo che rende le città così complesse e così ricche, specchio come sono di infinite vite vissute tra le loro mura. Le città belle sono una delle più straordinarie e complesse invenzioni dell’uomo, veri monumenti allo stratificarsi del tempo. Ma sono gli alberi a scandire il tempo che ha reso belle queste città. Sono loro la finestra aperta sul ciclo della natura, che poi è anche il ciclo non eterno della nostra vita. E ci ricordano che anche noi facciamo parte della natura, con tutte le conseguenze del caso. Per questo guardare un albero in un dialogo silenzioso è una piccola ma profonda seduta di autoanalisi. Un momento di silenzio e di meditazione, una breve pausa dedicata allo spirito. Con gli alberi si stringe un patto di complicità contro il tempo che passa. Si scambiano promesse alla fine di ogni stagione, e ci si dà appuntamento al ritorno di quella successiva.

Piantare gli alberi in città è un gesto d’amore, ma è anche un gesto generoso che altri godranno dopo di te. Nel farlo sai che solo tra cinquant’anni quell’albero sarà adulto e svolgerà la sua straordinaria missione. Se ne era già accorto Cicerone quando scriveva «Serit arbores, quae alteri saeclo prosint» (i vecchi piantano alberi che gioveranno in un altro tempo).

Niente di nuovo, ma non bisogna dimenticarlo. Sembra un gesto umile e semplice ma è un gesto carico di significato e di fiducia nel futuro. Ci sono alberi antichissimi, come il pino di Matusalemme in California o l’abete rosso Old Tjikko al confine tra Svezia e Norvegia, che sono cresciuti quando l’uomo non aveva ancora inventato la ruota. Neppure il deserto del Sahara esisteva, e l’Europa del Nord era mezza coperta dai ghiacciai.

Italo Calvino, cresciuto col padre botanico sulle alture di Sanremo, fa vivere la sua intera vita al giovane Barone Rampante sugli alberi di Valle Ombrosa, in Liguria, per ribellione e per scelta poetica. Ed il giovane Barone vive, si innamora, milita e viaggia sino in Spagna senza mai scendere dagli alberi. Straordinaria metafora della magia degli alberi, che anche in città rappresentano una parentesi di trascendenza...

Ma la città ha bisogno di alberi anche per una ragione molto più pratica e concreta. C’è un effetto termico detto effetto città per cui la pietra, i mattoni e l’asfalto si infuocano d’estate elevando la temperatura media di 4/5 gradi.

Questo effetto è enormemente mitigato da un importante presenza di alberi e dal loro fogliame. L’ombra sotto gli alberi non crea solo uno straordinario spazio urbano e sociale, ma abbassa anche la temperatura in modo considerevole. Gli alberi contribuiscono anche a modificare l’umidità relativa verso un maggior conforto fisico. Infine collaborano, come è noto, all’assorbimento del CO2 emesso dal traffico.

Per fare un esempio, 100mila alberi compensano lo smog prodotto da 5.000 automobili.

Se vogliamo quindi che le città diventino luoghi più vivibili, e che non facciano pagare un eccessivo prezzo al loro essere luoghi di vita associativa e di scambio, allora hanno anche bisogno degli alberi che così assumono un ruolo tutt’altro che decorativo.

Ho lavorato su questo tema, come architetto e urbanista, in molte città in giro per il mondo, fianco a fianco con straordinari botanici e uomini di scienze.

Mi sono sentito dire che gli alberi in un contesto urbano hanno bisogno di terra per le radici, e gliela abbiamo data. Mi sono sentito dire che gli alberi in città soffrono, e abbiamo trovato il modo di farli stare bene. D’altronde, se soffrono gli alberi figuriamoci la gente e i bambini. Mi hanno fatto notare che alcuni alberi provocano allergie, e abbiamo selezionato piante che non emettono pollini. E poi che perdono le foglie, e bisogna raccoglierle: giusto. E poi che coprono le insegne dei negozi: vedete voi. E infine, che rubano spazio ai parcheggi per le automobili. E su questo hanno ragione: gli alberi prendono inevitabilmente il posto dei parcheggi e del traffico automobilistico.

Ma è proprio quello che ci vuole: questo è l’aspetto più importante, nella visione umanisticamente corretta delle nostre città nel futuro. Occorre assolutamente salvarle dal traffico e dall’enorme quantità di parcheggi che le stanno soffocando. Più parcheggi si fanno e più traffico si attira, come la fisica insegna. Alcune città più dotate di trasporti pubblici l’hanno capito: a Londra è vietato costruire parcheggi in centro, a Stoccolma per disincentivare l’uso dell’auto una fermata del tram non è mai più lontana di trecento passi, e se il mezzo non arriva entro venti minuti il passeggero mancato ha diritto al taxi gratis. Occorre mettere tutte le risorse per costruire trasporti pubblici e dotare le nostre città di parcheggi di cintura. È chiaro che gli alberi in città hanno un ruolo importante in questa visione. C’è chi, cinicamente, dice che questo non avverrà mai. Scommettiamo che sì? È ormai inevitabile: spendiamo meno in parcheggi e sottopassi, e investiamo nel traffico pubblico.

E poi costruiamo una cintura verde come baluardo alla crescita scriteriata ai bordi delle città, rinforziamo i parchi urbani, cogliamo ogni possibile occasione di riconversione industriale o ferroviaria per aumentare gli spazi verdi e sfruttiamo ogni occasione ragionevole per dotare di alberi le strade, le piazze, i viali dei centri urbani. Così salveremo le città. Insomma, bisogna piantare alberi nelle città, e bisogna farlo con le Soprintendenze, perché si deve valutare ogni volta il rapporto sottile tra la città costruita, storia e monumento, e l’effimero degli alberi che cadenzano le stagioni. Gli alberi così fragili e vulnerabili diventano testimoni di una rivoluzione che è ormai irrinunciabile. Cito ancora Calvino, che nelle Città invisibili ci esortava a riconoscere in ogni città, anche la più brutta, un angolo felice. E in un angolo felice c’è sempre un albero.

Così quando Claudio Abbado, con la sua ormai famosa richiesta di remunerare «in natura» il suo ritorno alla Scala, mi chiese di aiutarlo a piantare alberi a Milano risposi con entusiasmo. Non solo perché c’e un nesso tra gli alberi e la musica (ambedue nel segno della leggerezza, del momentaneo e del passeggero) ma anche perché sono metafora di una visione diversa del futuro nostro e delle nostre città bellissime. Certi progetti hanno bisogno di un grande disegno e non sempre le amministrazioni ne sono capaci. Ho pensato che con gli alberi a Milano si potesse ricreare quell’equilibrio che è il segreto di una città felice. Anche perché si sta preparando all’Expo 2015, proprio sul tema della natura e della sostenibilità. Purtroppo devo prendere atto che la città di Milano non intende proseguire su questa strada. Peccato.



Il divorzio di Milano dagli alberi di Piano

di Stefano Bucci

MILANO— Il divorzio c’è stato, indubbiamente. Da una parte il maestro Claudio Abbado e i suoi novantamila alberi come compenso per tornare a dirigere alla Scala dopo 24 anni d’assenza (appuntamento già fissato il 4 e il 6 giugno) affiancato da Renzo Piano, l’uomo del Beaubourg e dell’Auditorium di Roma, che quegli stessi alberi avrebbe dovuto collocare (i primi avrebbero dovuto essere 220 frassini lungo l’asse via Dante-Castello-Cordusio). Dall’altra, il Comune di Milano (con tutti i suoi tecnici) da sempre assai critico, più o meno velatamente, nei confronti del progetto di Piano.

Ieri, a quanto pare, lo stop definitivo che ha portato Piano a dire: «Non ci sono più le condizioni per andare avanti». E questo perché, secondo il Comune, il progetto (che avrebbe dovuto prendere il via nella primavera 2011 e concludersi nel 2015) potrebbe essere realizzato solo trovando gli sponsor, «una ricerca di cui si dovrebbero però occupare direttamente» (per l’appunto) Piano, Abbado e il loro Comitato (dove compaiono il giurista Guido Rossi, l’ingegner Giorgio Ceruti, l’architetto Alessandro Traldi, il paesaggista Franco Giorgetta, la coordinatrice Alberica Archinto).

Piano, a questo punto, avrebbe dunque detto basta. Anche se il Comune non sembra così drastico: «Il progetto è davvero troppo oneroso, la situazione economica attuale non lo permette e non vogliamo esporci a facili critiche». Ma, allo stesso tempo, il sindaco di Milano Letizia Moratti si dice «disponibile a piantare quei 150 alberi destinati al "cuore" della città» ( una piccola parte della tranche iniziale di 3.500 tra centro e periferia). Per Piano il gran rifiuto del Comune è colpa di una visione deformata di questo progetto inteso solo «da un punto di vista semplicemente decorativo». Mentre per lui si tratta di qualcosa che contribuisce a migliorare la qualità generale di vita di Milano (seguendo, secondo un’idea da tempo a lui cara, quello che già hanno fatto città come Londra, Stoccolma, la stessa New York).

Appunto per questo Piano avrebbe voluto partire proprio dal centro: «Dove lo smog colpisce di più, dove l’aria è irrespirabile, dove la gente ha soltanto voglia di andare via, di scappare». I contrari hanno sempre visto in quegli stessi alberi (tutti da piantare per terra, nessuno nei vasi) un elemento che avrebbe rovinato la prospettiva della città. Mentre molti commercianti vedrebbero negativamente quelle chiome verdi che potevano oscurare le insegne e i tecnici parlano di troppo poco spazio tra le radici e i «sottoservizi» (metropolitana e altro). Tutto questo proprio nell’anno in cui la giapponese Sejima, direttrice della Biennale di Venezia, propone una mostra per «analfabeti dell’architettura», magari quegli stessi analfabeti che si ricordano con entusiasmo di una Piazza Santo Spirito a Firenze, di un Prato della Valle a Padova e di tutte quelle belle piazze e strade d’Italia piene d’alberi.

postilla

Se è consentito ai comuni mortali di esprimere modeste opinioni su alte sensibilità urbane ed estetiche, che di solito sfuggono al terrigno uomo della strada e della periferia, direi che si può trarre un insegnamento positivo da tutta quanta la vicenda: il Doppio Brodo Archistar stavolta invece di bollire l’opinione pubblica ha cucinato gli incolpevoli protagonisti. Che, speriamo proprio, da persone intelligenti quali sono potrebbero anche trarne altrettanto intelligenti conseguenze. Ovvero che la loro sensibilità, attenzione alla storia, all’estetica, al quadro internazionale ecc. ecc. risulta del tutto sprecata (per usare un eufemismo) in un contesto dove riflessioni e proposte del genere servono nel migliore dei casi come pudica foglia di fico per nascondere altre vergogne. Ad esempio che quella passeggiata di alberi cascava nel nulla strategico, era un gioiello della corona senza corona, buttato lì sulla pelata di un re nudo da far pena. Che va guardato per quello che è.

Insomma, forse in altri contesti si può forzare un pochino, e raccontare per le riviste di viaggi che tutto lo sviluppo della città si deve al grande architetto che ha firmato il museo, o la fontana nella piazza. Ovviamente non è vero: alla base di tutto ci sono anni di strategie, di sforzi collettivi, di piani e progetti coordinati. A Milano, l’unica strategia che emerge la leggiamo a pezzi e bocconi sui giornali da parecchi anni, almeno quando qualche cronista riesce a orecchiare particolari fra un consiglio di amministrazione e una sagrestia brianzola. Vada in pace, architetto Piano, guarderemo da qui volentieri - con un po' di invidia - le cartoline dei suoi progetti in altre città che li sanno digerire meglio (f.b.)

Una volta, l’urbanistica di rito ambrosiano funzionava così: l’operatore privato (il Ligresti di turno) comprava a quattro soldi un’area agricola; l’amministratore pubblico (il comune) la toccava con la bacchetta magica di una variante di piano e questa diventava edificabile; il costruttore costruiva, ci faceva su un guadagno stratosferico e ringraziava, con una bella stecca, la mano di chi aveva agitato la bacchetta magica. Oggi, nell’era di Roberto Formigoni e dell’Expo, il rito ambrosiano cambia. Fa tutto lui, Formigoni: il venditore, il compratore, lo speculatore immobiliare. Il presidente della Regione Lombardia ha deciso infatti di acquistare l’area su cui si terrà l’Expo 2015. A vendere è la Fondazione Fiera (ente pubblico della Regione, in mani cielline). A comprare, e pagare, è Finlombarda (finanziaria pubblica della Regione, in mani cielline). A operare e far costruire sarà Infrastrutture lombarde (altra azienda regionale, sempre in mani cielline). Insomma: Formigoni stabilisce il prezzo, lo fa pagare, agita la bacchetta magica che permetterà di costruire, e poi nel 2015, a Expo fatto, rivenderà a prezzo maggiorato e incasserà.

“L’Expo sarà fatto con investimenti pubblici e quindi tutti i vantaggi andranno al pubblico”, garantisce. Staremo a vedere. Intanto un paio di cose sono certe: il sindaco di Milano, Letizia Moratti, è stato del tutto esautorato dall’affare Expo (“Scacco alla Regina” si dice fosse il nome in codice dell’operazione di Formigoni); e l’amministratore delegato della società di gestione dell’Expo, Lucio Stanca, è stato addirittura umiliato (ha cercato invano per settimane i soldi per comprare le aree e ora si deve fare da parte). Trionfa Formigoni, che diventa il vero regista della partita da qui al 2015. E gongola Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia che ha negato finora i soldi a Letizia Moratti e a Lucio Stanca e ora brinda a champagne perché ci pensa Roberto, “uno di noi” (come diceva il suo slogan elettorale). Felice anche la Lega, che all’Expo non ha mai creduto troppo. “È una soluzione che dà alla società la possibilità di lavorare meglio”, ha dichiarato Leonardo Carioni, il leghista che rappresenta il ministro Tremonti nel consiglio d’amministrazione della società guidata (per ora) da Stanca. Sarà presto sostituito?

Chissà. I rumors danno in arrivo, come suo sostituto, Luigi Roth, di fede ciellina e obbedienza formigoniana, che era ai vertici della Fiera. La Regione (e il comune, se vorrà rientrare nella partita e se troverà i soldi per una quota più piccola) diventano direttamente operatori immobiliari. Comprano un’area che ora è a verde agricolo e inedificabile. La pagheranno (ma a debito) a un prezzo ben più alto del valore agricolo (la cifra che gira è attorno ai 200 milioni di euro). Si assumono tutti i rischi di un imprenditore privato, in tempi grami, di crisi nera. E sperano domani, a Expo finito, di rientrare rivendendo i gioielli. Cioè la possibilità di costruire sull’area. Quanto? L’indice d’edificabilità indicato è 0,6 ossia un totale di 600 mila metri quadri. Ma il nuovo piano di governo del territorio (Pgt) in approvazione a Milano innalza l’indice a 1 per questa che considera “zona di trasformazione speciale”: dunque si potrà costruire ben 1 milione di metri quadri, e con un mix funzionale libero, a gentile discrezione degli operatori. È il rito ambrosiano 2.0.

Le mani di Roberto Formigoni sull´Expo. Sarà la Regione, infatti, ad acquistare i terreni attualmente di Fondazione Fiera e gruppo Cabassi. La proposta del governatore, che dribbla i dubbi sulla compravendita manifestati dal ministro Giulio Tremonti, è stata formalizzata ieri nell´incontro tra i soci di Expo 2015. Il sindaco Letizia Moratti potrà partecipare, ma di fatto è stata messa nell´angolo. Come l´ad Lucio Stanca, che potrebbe essere affiancato presto da un direttore generale.

Roberto Formigoni dribbla i dubbi del ministero dell´Economia sull´acquisto delle aree e mette le mani sull´Expo 2015. Sarà la Regione attraverso Finlombarda, oppure una newco composta da Regione, Comune e Provincia a comperare i terreni attualmente di Fondazione Fiera e del gruppo Cabassi dove si svolgerà la manifestazione nel 2015. La proposta è stata formalizzata ieri dal governatore all´incontro tra i soci di Expo 2015 spa, in cui si doveva scegliere tra l´ipotesi di acquisire il solo diritto di superficie dell´area o quella dell´acquisto vero e proprio. Si è scelto per la seconda. «La soluzione preferibile - spiega Formigoni - per superare l´impasse cui la società di gestione ha cercato di porre rimedio in questi mesi. Eravamo pronti a farlo da soli, ma ben venga la partecipazione degli altri soci pubblici anche con quote differenti. Lavoreremo in tempi strettissimi perché le idee le abbiamo chiare. Tutti i cittadini devono sapere che l´Expo sarà fatto con investimenti pubblici e quindi tutti i vantaggi andranno al pubblico. Questo spazza via ogni ipotesi o sospetto di un vantaggio privato». La nuova società, infatti, avrà solo il compito di acquistare le aree, che naturalmente aumenteranno di valore dopo la manifestazione del 2015.

Il sindaco Letizia Moratti non sembra preoccupata dai vincoli posti al suo bilancio dal patto di stabilità: «L´acquisto da parte degli enti pubblici - dice - è un segnale importante perché gli enti pubblici avranno poi anche i vantaggi delle eventuali plusvalenze rispetto agli investimenti che verranno fatti». Lucio Stanca, amministratore delegato della società di gestione dell´Expo, è soddisfatto anche se ora non sarà più lui a trattare. «Un´ottima soluzione - commenta - molto più lineare e istituzionale». Anche se in realtà la sua idea iniziale era che fosse la società di gestione ad acquistare le aree. Persino il presidente della Provincia Guido Podestà, che in mattinata si era improvvisamente convertito all´ipotesi dell´acquisto del solo diritto di superficie, nel pomeriggio corregge il tiro: «Siamo disponibili a partecipare con una quota ancora da definire».

Il ministero dell´Economia ufficialmente tace, anche se la proposta di Formigoni di fatto lo solleva dalle spese per l´acquisto dei terreni. Il suo rappresentante nel cda di Expo 2015 spa, Leonardo Carioni, della Lega, non sembra avere dubbi: «È una soluzione che dà alla società la possibilità di lavorare meglio». Anche i vertici della Fondazione Fiera sembrano soddisfatti e aspettano di incontrare al più presto chi tratterà per il Pirellone. Sanno di poter contare finalmente su un acquirente con un portafoglio più ricco di Comune e Provincia.

Chi attacca l´operazione senza mezzi termini è, invece, l´opposizione di centrosinistra. «Con questa mossa di Formigoni la Moratti non toccherà più palla e il governatore sarà l´unico regista dell´Expo» incalza Matteo Mauri del Pd. Gli fa eco il deputato Vinicio Peluffo: «Per un problema politico tutto interno al centrodestra, vale a dire il disinteresse del governo a investire sulla società di gestione, siamo di fronte all´ennesima scelta che moltiplica le spese e fa perdere tempo nel decidere chi fa cosa».

Resta ancora da capire quando Berlusconi firmerà la lettera di garanzia dei finanziamenti, che la società di gestione dovrà presentare con il dossier definito di candidatura al Bie a Parigi entro il 30 aprile. «Il presidente la dovrebbe firmare proprio in queste ore» assicurava ancora ieri la Moratti. Mentre Formigoni preferiva non sbilanciarsi e aggiungeva prudentemente: «Lo dice lei».

La sindrome da grattacielo non perdona. Adesso anche il sindaco Moratti vuole il suo per gli uffici del Comune e dice di volerlo per razionalizzare le membra sparse dell´amministrazione. Io mi domando sempre perché si è dimenticata l´origine tutta newyorchese dei grattacieli. Due furono sostanzialmente le ragioni: la limitata superficie dell´isola di Manhattan e la convinzione delle grandi Compagnie che l´addensare tanti colletti bianchi facilitasse gli scambi interpersonali e aumentasse la produttività del lavoro intellettuale, soprattutto quello di modesto livello.

Insomma, eravamo in un momento nel quale la maggior parte delle persone comunicava guardandosi in faccia: c´erano, in assai parziale alternativa, prima il telegrafo, poco dopo il telefono e poi la posta pneumatica per trasferire documenti al posto di solerti fattorini. Questa seconda ragione è ovviamente sfumata perché i sistemi di comunicazione attuali hanno annullato le distanze e lasciando in campo solo drammaticamente il fattore tempo personale e in particolare quello che impieghiamo per andare da casa al lavoro. Il concentrare i luoghi di lavoro, ma anche di residenza, in aree limitate, ossia fare i grattacieli, è una soluzione a questo problema o il suo contrario?

Per Manhattan resta ormai prevalente il valore simbolico: chi vuol contare nel mondo della finanza e degli affari vuole essere a New York e meglio ancora se a Manhattan. Così anche per Londra e in parte per Parigi. Per le città asiatiche c´è il fenomeno dell´imitazione simbolica e per Tokio un po´ di tutto. E Milano? Milano fa un po´ ridere.

Il solo grattacielo fatto, a uso uffici, è l´esplicitazione della sindrome da faraone di chi ci amministra, la sua piramide; per il resto le abitazioni in costruzione sono case molto alte ma non certo grattacieli: aspettiamo Citylife e le sue torri residenziali, quelle che Libeskind definisce la sua utopia di una Milano «verde e senza motori». Ha solo però sbagliato il sito per la sua utopia, perché il sottosuolo di Citylife è tutto un parcheggio e sarà l´unico insieme di edifici collegato direttamente con l´autostrada. Quanto al verde è inutile ripetere che saranno giardini condominiali, come la favola di liberare spazi al piede dei grattacieli.

Siamo solo vittime di provincialismo culturale e della sindrome del grandioso. Ma tornando al tema: perché fare grattacieli a Milano? Manhattan con i suoi grattacieli ha dato la risposta a una domanda pressante a cavallo di due secoli e poi, tracciata la via, si è innestato un meccanismo difficile da fermare che aveva però alla sua base un forte impulso del potere economico e dei suoi simboli. A Milano non è così, dopo la scomparsa del produttivo vediamo migrare altrove anche il potere economico, perché quest´ultimo è figlio ormai degenere della politica e la politica, quella vera, si fa a Roma con il pieno consenso della Lega.

Qui si tratta solo di vani gesti simbolici perché ormai non ci resta che fare da curiosi spettatori ai convegni sul lago di Como e poco altro. Forse i grattacieli li facciamo per quello: speriamo nelle giornate limpide di riuscire a vedere i grandi a Cernobbio, perché l´Appennino e la curvatura della terra non ci permettono di vedere fino a Roma.

Danilo Broggi, maganer vicino alla Lega, a un passo dalla nomina a direttore generale di Expo 2015 spa. Francesco Magnano, geometra di fiducia di Silvio Berlusconi, verso la poltrona di assessore regionale all´Urbanistica o all´Ambiente della nuova giunta del Pirellone.

Le condizioni dello scambio sarebbero state poste dal premier, prima al coordinatore regionale del Pdl Guido Podestà, che gli perorava ad Arcore la riconferma di Stefano Maullu. Poi al governatore Roberto Formigoni per dare il suo via libera alla sua giunta.

Il Carroccio, in cambio, oltre ad incassare un nuovo posto di peso nell´Expo conserverebbe per Davide Boni la delega del Territorio in aggiunta a quella della Casa, lasciata libera dall´Udc. Inoltre, otterrebbe le Attività produttive finora gestite da Romano La Russa, che passerebbero ad Andrea Gibelli, vice governatore in pectore del Carroccio. Il fratello del ministro della Difesa, in questo caso, correrebbe per la presidenza del consiglio regionale.

Con la nomina di Magnano, che non è risultato eletto perché occupava solo il nono posto del listino di Formigoni, Berlusconi, metterebbe una seria ipoteca sul suo sogno: Milano 4. Un villaggio di 1.200 appartamenti sulle sponde del Lambro, in Brianza. Un investimento da ben 220 milioni. A pochi metri dalla sua residenza di villa San Martino, ad Arcore. Magnano, infatti, potrebbe giocare un ruolo decisivo. Il geometra di Berlusconi, oltre ad essere amministratore di diverse società immobiliari, è consulente della Idra, l´immobiliare di famiglia del premier, che ha presentato il progetto del nuovo villaggio alla giunta di centrodestra che governa Arcore. Spetta, però, alla Regione decidere le eventuali varianti alla valutazione ambientale dei piani territoriali. E quello del parco regionale Val di Lambro, presieduto dal ciellino Emiliano Ronzoni, è in netto contrasto con il progetto.

Per la famiglia del premier sarebbe una sorta di rivincita dopo il naufragio del progetto di trasformare in quartiere residenziale la Cascinazza, un´area protetta sulle sponde del Lambro a Monza, che nel frattempo è stata venduta da Paolo Berlusconi.

Si intrecciano sempre più quindi la partita dell´Expo con quella della nuova giunta del Pirellone. A pochi giorni dalla riunione tra i soci di Expo 2015 spa per cercare di trovare una posizione comune sull´eventuale acquisto delle aree dove si svolgerà la manifestazione, attualmente di proprietà di Fondazione Fiera e gruppo Cabassi, tutto sembra ancora in alto mare. Tanto che la Fondazione non inserirà l´argomento nell´ordine del giorno della riunione di lunedì. Nel frattempo, si rafforza sempre più l´ipotesi che Danilo Broggi, ex presidente di Confapi e attualmente ad di Consip, società per azioni del ministero dell´Economia, molto vicino sia alla Lega che a Paolo Berlusconi, venga nominato il 22 dall´assemblea dei soci di Expo direttore generale della società. Anche se nelle ultime ore circola anche un altro nome gradito al Pirellone. Quello di Antonio Giulio Rognoni, potentissimo direttore generale di Infrastrutture lombarde, la società che ha costruito in tempi record il Pirellone bis.

Lunedì 26 aprile, a quattro giorni dall´appuntamento al Bie a Parigi, la società Expo 2015 presenterà davanti a ministri e autorità il progetto definitivo della manifestazione all´auditorium del nuovo polo fieristico di Rho-Pero. Previsti gli interventi di Renzo Piano, Gualtiero Marchesi e di monsignor Erminio De Scalzi. L´amministratore delegato di Expo Lucio Stanca comunque è fiducioso. «Stiamo lavorando per avere la lettera di garanzia firmata da Berlusconi entro la prossima settimana - ha precisato ieri - anche sulle aree siamo alle battute finali». Ignora la questione del direttore generale («mi occupo di cose più importanti»). Mentre replica alle critiche di Pdl e Lega: «Ho un cda in cui sono rappresentate tutte le istituzioni e la coalizione che le sostiene. Le decisioni sono state prese sempre all´unanimità».

Perfino il vigilante, all’ingresso, è cortese, di simpatia, e non s’atteggia a mastino del fortino. Prima dice che di notte, i rom, che abitano attorno nelle sconfinate fabbriche dismesse, la Maserati e l’Innocenti ormai scheletri di edera e ruggine, provano a intrufolarsi. Cercano pezzi di ferramenta, vetri, bancali per le baracchine. Poi, il vigilante, apre una cartelletta, tira fuori il primo foglio, «questo signore è un perito meccanico, di lunga esperienza, si è presentato qualche giorno fa. Anche lui ha perso il lavoro. È l’ultimo della lista».

Un altro curriculum, alla Innse. Ci sono state tre assunzioni, poi ci sono due ragazzi a tempo determinato.

Con due tonalità di grigio e una di giallo, è stato ridipinto l’interno dello stabilimento. Alcune macchine sono state ristrutturate, altre sono tornate in funzione. Max Merlo, uno dei quattro che salì sulla gru, dice: «Schiavi salariati eravamo, schiavi salariati siamo». Il padrone tale resta, ma se non sarà mai amico qui, forse, è un po’ meno nemico. Attilio Camozzi, il bresciano che ha rilevato la Innse, ha investito, ha in mente progetti (un impianto fotovoltaico sull’antico tetto dello stabilimento, maestoso, d’inizio secolo), ha preso commesse (dall’Ansaldo, daranno lavoro per settimane), e aspetta fine mese. A fine mese dovrebbe decidersi il futuro dell’area, che rimane di proprietà della società immobiliare Aedes. Qui gli interessi erano altri: edificare palazzi e servizi, e del resto il vicino nuovo quartiere di Rubattino è in crescita, si riempie di giovani coppie, spunta del nuovo verde, giardinetti, peccato per la vista-tangenziale e il centro lontanissimo.

«Non parliamo del futuro», invita il sciur Camozzi, gli piace il basso profilo, niente parole, solo lavoro. In giro si dice che l’Aedes non dovrebbe piantare ostacoli, costruirà tutt’intorno tranne che sul terreno della Innse, e poi ci sarà comunque il parere del Comune, e perché mai dovrebbe opporsi alla conservazione di una realtà produttiva, che funziona, che assume?

Il direttore dello stabilimento, il dottor Pietroboni, uno appassionato, ci conduce in visita. I torni, gli enormi macchinari, questo l’hanno fabbricato in America, quest’altro i tedeschi, e poi ecco la sala degli utensili, i trapani, i cassetti con le varie frese, gli spogliatoi (nuovi), la mensa (nuova), le gru, e altri macchinari, che trattano pezzi lunghi anche venti metri e pesanti decine di tonnellate.

Sono una quarantina, gli operai, su due turni: una trentina sul primo, dalle 6.30 alle 14.30 e gli altri sul secondo, dalle 14.30 alle 22.30. «Vede», dice Pietroboni, «almeno 150 lavoratori possono starci tranquillamente. Ci arriveremo? Un attimo. Noi dobbiamo procedere per gradi».

Sbuffano due operai, dicono che «lavoriamo soprattutto la ghisa, non il ferro, e la ghisa mette in circolo una polverina bastarda che ammazza il respiro, la gola, i polmoni». Uno tossisce. Chiede: «A che sta pensando? Che è meglio la ghisa della disoccupazione?».

Fuori, nel piazzale, stanno lavorando una ventina di dipendenti di aziende esterne, che a vario titolo fanno ristrutturazioni della facciata, del tetto, delle vetrate, insomma restyling, in grande. Oltre il piazzale, dopo la casupola del vigilante, dopo il cancello, c’è la massicciata con quella scritta, «giù le mani dall’Innse», e la fermata «Rubattino» della linea 87, che poi ferma in via Pitteri, la via dei Martinitt, in via Rombon, monte di battaglie nella Prima guerra mondiale, e al capolinea di Cascina Gobba, con il suo angolo dell’Est Europa, era un mercatino abusivo e sgarruppato, con gli anni è diventato una cittadella con security e chiesetta.

«Come è diventata questa nostra Milano? Triste. Molto triste. Infelice. Camminando per strada, mi sono messa a guardare le facce della gente. Erano tutti di cattivo umore. Molti parlavano al cellulare. Avevano l´espressione del viso tirata. È la Milano del grande mercato delle volumetrie». Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente onorario del Fai, il Fondo per l´ambiente italiano, denuncia la sua grande preoccupazione per il futuro della città, parlando dritto al cuore dei milanesi. Lo fa ricordando la Milano scomparsa, quella della borghesia di una volta, capace di grandi opere pubbliche e impegno civile. Mentre oggi ci si preoccupa solo di soddisfare gli appetiti del mercato e gli interessi dei grandi speculatori.

A dibattere del nuovo Pgt, il Piano di governo del territorio, ieri sera, nei saloni del Fai di Villa Necchi Campiglio, il circolo milanese di Libertà e Giustizia ha chiamato urbanisti, architetti, economisti e avvocati appassionati di difesa del paesaggio. Tutti terrorizzati da un piano che, come ha sintetizzato meglio di ogni altro l´architetto Luca Beltrami Gadola, è «uno dei peggiori che si potesse immaginare».

«La verità è che nessuno ha ancora capito, dietro alla grande quantità di numeri e di dati che riempiono la montagna di pagine del Piano di governo del territorio, quale idea di città si nasconda - spiega Stefano Pareglio, docente di Economia ambientale alla Cattolica ed esponente di Libertà e Giustizia. - Non è disegnato un profilo esplicito del futuro di Milano. Vengono indicate tante cose che possono succedere. Ma non si sa bene quale sarà l´esito finale e neppure quali saranno i passaggi intermedi».

Mentre l´avvocato Ezio Antonini, uno dei garanti del Fai, ha definito il Pgt di Milano niente altro che «lo strumento operativo di una grande commissione di affari»: «Ormai i consiglieri della maggioranza di Palazzo Marino non rappresentano più la comunità dei cittadini milanesi, ma solo affari privati. Ciascuno di loro ha presentato più di 50 emendamenti che riguardano semplicemente loro clienti. A questo siamo arrivati».

Un piano che tutto affida al mercato, mentre gli strumenti di controllo sono volutamente deboli per garantire al mercato di esprimersi con tutta la sua forza. «Nelle culture vetero socialiste si dava ai piani il compito dirigistico di organizzare lo sviluppo delle città - commenta Pareglio. - Oggi tante cose sono cambiate. Però questo Piano sembra in qualche modo rinunciare a una funzione di controllo pubblico per assecondare esclusivamente gli interessi privati».

L’ispirazione l’ha presa dall’architettura lombarda, stile gotico ed edifici gemelli. Il Duomo e piazza Duca d’Aosta, ma anche la Besana e l’Ospedale Maggiore, rivisti però con lo sguardo di oggi. Un colpo d’occhio su una lunga stecca di vetro con arcate lungo i Bastioni, che di notte s’illumina quasi fosse un edificio-lanterna urbana. A Porta Volta il piccolo Beaubourg di Milano dovrà diventare la sede della fondazione Feltrinelli e della casa editrice. È stato firmato da Jacques Herzog, archistar svizzero già nel team dell’Expo e autore di opere note come lo stadio-nido di Pechino. Il cantiere partirà nel 2011, completato l’iter burocratico, per arrivare entro il 2013 a quella che il sindaco Moratti chiama «cittadella della cultura».

La zona interessata, 17mila metri quadri, è un’area tra i viali Pasubio e Crispi di proprietà Feltrinelli, e una tra viale Montello e Porta Volta del Comune. Dietro i caselli daziari, che verranno riqualificati, e su quel che resta delle Mura spagnole, l’architetto svizzero ha progettato tre edifici gemelli alti sette piani, in vetro e cemento, a riprodurre l’antica cinta muraria ma con il profilo a punta del Duomo. Il primo ospiterà la nuova sede della Fondazione Feltrinelli e il suo patrimonio di circa 200mila volumi, 17.500 riviste italiane e straniere e 4.500 opere rare, con libreria e giardino, auditorium e spazi polifunzionali per il pubblico. Il secondo edificio, il più grande, sarà occupato dagli uffici della casa editrice, mentre per il terzo, di proprietà comunale, non è chiaro ancora se Palazzo Marino intenda venderlo o trasferirvi alcuni uffici amministrativi. Un progetto anche verde, con un parco, un boulevard alberato e un belvedere, per cui il Consiglio di zona uno, settimana scorsa, aveva espresso parere negativo ma solo perché «servono più parcheggi e il silos in costruzione in viale Montello deve integrarsi con il nuovo complesso», chiede la presidente di zona Micaela Goren Monti.

La famiglia Feltrinelli cerca di realizzarlo da anni, il suo Beaubourg, che si sbloccherà definitivamente se la giunta tra un mese e mezzo ne approverà il piano integrato d’intervento. «Un punto di forte aggregazione culturale soprattutto per i giovani», ha spiegato Carlo Feltrinelli, presidente della Fondazione. Conferma anche l’architetto Herzog: «Questo edificio raccoglie lo spirito della storia di Milano, diventerà un luogo per tutti i milanesi». Una ricucitura di una striscia irrisolta, per il sindaco Moratti: «Restituisce alla città un’area dismessa ed è un ottimo esempio della Milano del futuro».

Nota: qui una scheda del progetto scaricata dal sito del Comune (f.b.)

Vivo a Milano dalla nascita, 54 anni fa, e sono sconcertato dallo stato in cui versa oggi la nostra città. È in atto la cementificazione di ogni minimo spazio disponibile, al solo beneficio, a mio parere, di chi sul cemento si arricchisce. Parlo della ex Fiera, nella quale ci hanno fatto credere sarebbero sorti tre grattacieli e ci è stato taciuto il volume di milioni di metri cubi di cemento adibito a edilizia residenziale a prezzi stratosferici. Parlo delle ex Varesine, dove mi dicono sorgerà il nuovo centro direzionale e una torre di 37 piani per centinaia di inquilini. Innumerevoli persone in più graviteranno perciò nella zona. Ma lo sanno i nostri amministratori che uno a casa e al lavoro ci deve arrivare e ne deve anche uscire? Con quale incremento di traffico, tutto ciò?

Parlo della torre che sta sorgendo in via Lomazzo, ex Sole 24Ore. Sedici piani più non so quanti sotterranei, in una via a senso unico, già oggi paralizzata da ingorghi nelle ore di punta. Parlo della neonata Torre della Regione, per far posto alla quale è stato abbattuto un bosco che, per volontà testamentaria del donatore, doveva rimanere tale. Non si poteva costruire la «reggia del governatore» in periferia? Anche qui lavoreranno migliaia di dipendenti. Ma davvero si crede che questi abitino tutti in zona stazione Centrale? Nessuno si è mai chiesto perché la Défense di Parigi è sorta dov’è?

Parlo del Portello, dove palazzoni a vetri per uffici e abitazioni stanno venendo su a grande velocità. Dove è in costruzione un tunnel che, dalle autostrade nord porterà direttamente... Già, dove porterà? Molto probabilmente a un semaforo contro il quale si inviperiranno migliaia di automobilisti ogni mattina, bloccati nel tunnel. Una volta si diceva che bisognava tenere le auto fuori dalla città, incrementando il mezzo pubblico. Ma allora perché fare un tunnel che ne faccia entrare migliaia ogni mattina?

Francesco Tricoli

Tenere le auto fuori dalla città? Era un’aspirazione, però tramontata. Nemmeno l’Ecopass è riuscito a scoraggiare il traffico privato. E come potrebbe, del resto, vista la vita cui sono costretti— ne abbiamo parlato tante volte in questa rubrica— gli sfortunati pendolari? A noi già adesso sembra di essere seppelliti dal traffico e non voglio pensare a cosa sarà domani.

Da Faq (Frequently asked questions) del Pgt. «Va poi menzionata la trasformazione verso una distinzione sempre più labile tra servizi pubblici e servizi privati. … È il mondo della scuola … dei mercati … del concetto di "tagesmutter" … dell’esteso universo della sussidiarietà. … Siamo abituati a vivere in un mondo in cui la nostra domanda di servizi è soddisfatta dal soggetto pubblico alle sue varie scale. Per una serie di motivi troppo lunghi (da trattare in questa sede) il modello esistente non è più in grado di funzionare in maniera soddisfacente. … "

Precedentemente avete usato il termine "sussidiarietà". Che cosa si intende con questo?".

La maniera più semplice per spiegare che cosa è la sussidiarietà può essere facendo qualche esempio. A Milano c’è una carenza cronica di asili nido. Nel contempo sappiamo che una grande quantità di mamme si auto organizza usando il meccanismo del sopracitato "tagesmutter" (madre di giorno: donne che accudiscono a un gruppo di bambini - n. d. r.). Queste mamme stanno fornendo un servizio prezioso alla città.. .. La sussidiarietà non è un prodotto. Si tratta piuttosto di un metodo per affrontare i bisogni concreti della persona e della comunità....».

e ANCORA. «La sussidiarietà non è l’unica risposta possibile. Se le organizzazioni della società civile non sono in grado di soddisfare i requisiti stabiliti dal Comune, quest’ultimo interviene fornendo direttamente il servizio. Si tratta di una risposta residuale, basata sulla convinzione secondo cui la risposta sussidiaria dovrebbe essere privilegiata ove possibile. …. Da questo punto di vista, è un ribaltamento completo rispetto alla maniera tradizionale di guardare ai servizi. Non si parla più di "scuole", quanto piuttosto alla necessità di soddisfare il bisogno di "istruzione". Non è detto che la maniera tradizionale di rispondere a questi bisogni … sia l’unica maniera possibile o la migliore».

Ho riportato questa lunga citazione dal Pgt perché il lettore potesse ben capire di cosa parliamo. Se, come si è gridato, i vecchi piani regolatori erano "vittime" di un’ideologia (si dice di sinistra) qui siamo allo tsunami ideologico e non abbiamo bisogno di altra conferma. La dottrina politica di Cl, che in Lombardia ha la sua culla, è chiara: da un lato si chiudono i rubinetti verso le istituzioni pubbliche - scuole, sanità, assistenza sociale - poi si elargiscono contributi alle strutture "accreditate" che, privatamente, offrono quei servizi che il pubblico strangolato non riesce più a offrire. Ma perché parlarne nel Pgt?

La ragione è semplice: in altra parte si dice che i volumi edificati destinati ai servizi - pubblici o privati (sussidiari) che siano, tra i quali anche scuole, asili, spazi commerciali e via discorrendo - non costituiscono cubatura ai fini urbanistici, dando una spinta alla sussidiarietà: gli accrediti arriveranno poi. Io credo che una riflessione vada fatta proprio mentre celebriamo il 150° anniversario dell’unità d’Italia e parliamo di Costituzione: quell’unità e questa Costituzione si reggono anche sul principio di una scuola pubblica, uguale per tutti. La scuola di Formigoni ci riporta all’Ottocento, tre secoli fa, e anche questo Pgt ne è uno strumento.

Cari amici,

guardate un po' in cosa mi sono imbattuto per caso gironzolando sul BURL per tutt'altra questione: a p. 566 un'integrazione all'Accordo di Programma che consente la trasformazione di 10.000 mq da Manifestazioni espositive a show rooms, atelier, uffici privati, piccolo e medio commercio e la possibilità di trasformarne altri 10.000 da Manifestazioni espositive nelle altre funzioni private del PII.

Saranno ancora rispettati gli standard pubblici prescritti dalle norme?

Una volta tutto ciò avrebbe richiesto una delibera di Consiglio con pubblico dibattito, una pubblicazione comunicata a mezzo stampa, osservazioni, controdeduzioni, eccetera. Oggi si fa tutto alla chetichella e se uno non se ne accorge per caso... e poi ci sarà qualcuno che avrà interesse legittimo, voglia e soldi per opporsi con un ricorso? Ormai è passato il principio: facciamo quel c.... che ci pare!

Fatemi sapere se avete qualche idea riguardo al che fare (scaricabile qui di seguito il Bollettino Regionale)

In questi giorni di pioggia, il quartiere integrato, la città nella città, «il nuovo stile di vita», è ancora più triste. Strade di fango e sterpaglie al posto del «polmone verde» da 33 ettari. Poche vetrine illuminate al posto del «bulevard», anzi di «Montecity avenue», come era stata ribattezzata nei pomposi progetti di sir Norman Foster, l’architetto di grido fatto sbarcare dall’Inghilterra per dare vita alla nuova zona modello di Milano che invece è entrata di diritto nel modello delle Grandi Incompiute, le opere degli sprechi finanziate con soldi privati e pubblici e che sembrano non terminare mai. Qui per fare la spesa, per andare in farmacia, per prendere un tram, bisogna alzare i tacchi e andare in centro, quello vero, perché di negozi, servizi, scuole o asili, non si è vista ancora l’ombra. Benevenuti a Rogoredo Montecity-Santa Giulia, una bella idea finita male.

Con l’aggravante di un’inchiesta ancora aperta e che rischia di far scoprire rifiuti tossici seppelliti nelle aree ancora da costruire invece delle bonifiche promesse. Bonifiche che, quando nei primi anni ’90 s’iniziarono a stendere i progetti, erano stati stimati, secondo Legambiente, in 60 milioni di euro, e che sono arrivati a sfiorare costi per oltre 200 milioni, in buona parte finanziati dagli enti pubblici, Regione e Provincia, senza la certezza che i terreni siano stati davvero bonificati.

E’ la storia dell’inchiesta che nell’ottobre scorso portò in carcere l’imprenditore Giuseppe Grossi, titolare della Green Holding, uno dei colossi delle bonifiche nel Nord Italia, accusato di aver gonfiato le fatture proprio sul trasporto della terra inquinata per decine di milioni. E di aver corrotto, con regali, automobili, orologi e prebende di vario genere, diversi politici locali e vari funzionari. Anche se, a quasi un anno dall’inizio dell’inchiesta, ancora non si è riuscito a capire che fine abbiano fatto, ad esempio, «due milioni e mezzo di euro» in contanti che «nel solo 2008» Grossi si era fatto riportare in Italia dagli spalloni della società svizzera Silvoro per distribuirli non si sa bene a chi.

Una storia da manuale che mescola corruzione, lassismo amministrativo, sprechi e speculazione, per un’area, quella di Montecity Santa Giulia, tormentata anche dal mezzo fallimento della società proprietaria, quella Risanamento dell’immobiliarista piemontese Luigi Zunino arrivata a un passo dalla bancarotta e tenuta in vita dall’intervento massiccio delle banche. Sulla carta, un ottimo affare: 550 milioni di euro per acquistare oltre un milione di metri quadrati, infestati un tempo dagli impianti chimici Montedison, a fronte di investimenti per un miliardo e 100 milioni e previsioni di ricavi doppi.

Peccato che basta farsi un giro tra le case nuovissime e spettrali del quartiere per capire che qualcosa non ha funzionato. Eppure, ancora qualche mese fa, il Comune di Milano aveva tentato il rilancio promettendo, per bocca dell’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli, la ripresa dei lavori e la realizzazione di quei servizi indispensabili per le decine di famiglie che già vivono Santa Giulia, entro il 2010.

Ma rischia di arrivare prima la conclusione delle indagini dei pm Laura Pedio e Gaetano Ruta con relative richieste di rinvio a giudizio per un’inchiesta che si è rivelata complessa come una matrioska con filoni diversissimi tra loro: dall’ombra della malavita organizzata sugli appalti alle bonifiche mai realizzate, fino ai conti all’estero custoditi da Rosanna Gariboldi, ex assessore alla provincia di Pavia nonché moglie di Giancarlo Abelli, ex ras della sanità lombarda e vicecoordinatore nazionale del Pdl, uscita dalle indagini dopo aver patteggiato una condanna a due anni e mezzo di reclusione. Rimangono poi da chiarire le vicende intorno all’ex area Sisas di Pioltello, con una pioggia di milioni versati a Grossi dalla Regione come «paracadute» per le sue speculazioni fino alla questione del piano cave in Lombardia. E i cui costi per la collettività, tra tangenti, false fatture, lievitazioni varie, potranno essere contabilizzati dalla Corte dei Conti solo tra qualche anno.

OSSERVAZIONI IN MERITO ALLA PROPOSTA DI VARIANTE URBANISTICA AL PIANO REGOLATORE GENERALE PER LA REALIZZAZIONE DELL’ESPOSIZIONE UNIVERSALE DEL 2015

In merito alla “Proposta di variante urbanistica al piano regolatore generale vigente mediante l’accordo di programma promosso dal Sindaco di Milano in data 16 ottobre 2008, per la realizzazione dell’esposizione universale del 2015” si osserva quanto segue:

1 – OSSERVAZIONI METODOLOGICHE PROCEDURALI

1A) L'accordo di programma è strumento inadeguato

Lo strumento dell'Accordo di Programma (ADP) finalizzato all'evento EXPO 2015, appare inadeguato quale elemento promotore della variante.

L'ADP infatti definisce i caratteri e le finalità della manifestazione prevista per il 2015, e contemporaneamente assume il compito di definire le linee principali della variante urbanistica, semplificando e riducendo il complesso rapporto che dovrebbe esistere tra la programmazione territoriale, la pianificazione economica di un'area vasta, le valutazioni ambientali, trasportistiche, produttive, residenziali.

Si contesta la riduzione drastica degli elementi di complessità considerati nell'area, la mancanza di una adeguata analisi socio-territoriale, la semplificazione implicita negli strumenti adottati, in prima analisi riconducibili unicamente all'obiettivo di "rendere le aree suddette compatibili alla realizzazione dell'Expo"

Tale procedura, nel metodo ma soprattutto nel merito, non è accettabile dal punto di vista della prassi urbanistica.

1B) Assenza di un inquadramento complessivo

Il nuovo PGT di Milano, in corso di approvazione, dovrà dare le linee guida di una città di rilevanza nazionale ma certamente anche europea come Milano. Non si comprende quindi la necessità di una variante "particulare" che anticipa di qualche mese il documento di inquadramento complessivo, con il rischio di dover successivamente di nuovo porre mano all'area per nuove modifiche alle destinazioni ed all'assetto interno.

Da questa analisi verrebbe il dubbio, non suffragato da prove ma certamente sostenuto da indizi, che il PGT dovrà adeguarsi, diremmo pedissequamente, a quanto previsto nella variante in oggetto.

Tale modo di procedere in tutta evidenza appare strutturalmente errato ed inefficace, oltre che profondamente contrario al ruolo a cui è chiamato il PGT.

Si pongono infatti dei paletti, probabilmente inamovibili, prima che siano definitivamente fissati i criteri generali, e si rende di fatto vano il Piano di Governo del Territorio nella sua intrinseca funzione.

Diverso sarebbe, ma non vogliamo nemmeno pensarlo, che il PGT sia pensato come ridotto ad un banale ricettacolo di istanze particolari, tra cui quella, prioritaria, dell'Expo 2015. O che, peggio ancora, sia redatto esattamente in funzione di questo.

Se cosi fosse, evidentemente, si tratterebbe di un tale stravolgimento da meritare considerazioni ed azioni in sede ben più seria che non la presente relativa alle osservazioni

2 - OSSERVAZIONI DI MERITO

2A) La destinazione a verde coerente con il sistema circostante

Gli scarsi elementi a supporto della proposta di variante risultano ampiamente insufficienti a rendere la stessa sostenibile secondo molti punti di vista.

Il fatto che al momento l'area sia per la maggior parte non edificata, in stato agricolo, dovrebbe portare ad una valutazione complessiva del sistema del verde nell'area identificabile con il quadrante nordovest esterno a Milano. Non si comprende il motivo intrinseco di un intervento esattamente in quella sede.

Inoltre il fatto che l'area si colloca lungo una direttrice territoriale (asse nord-ovest) da tempo interessato da "profondi processi di trasformazione e riqualificazione" non induce necessariamente ad assegnarle la vocazione a "polo fieristico", al contrario indurrebbe ad evidenziarla come polmone verde necessario per uno sviluppo equilibrato, ed economicamente vantaggioso, di un sistema compresso tra autostrada ed alta velocità, e da nuovi insediamenti abitativi che hanno provocato una profonda densificazione del territorio circostante.

2B – In assenza di bonifica, l'area non è funzionale alla destinazione d'uso

Il sito individuato per lo svolgimento della manifestazione “Expo 2015”, è localizzato in un’area adiacente al Polo Fieristico di Rho Pero. Sull’area occupata da quest’ultima, insisteva in precedenza l’ex impianto di raffineria Agip Petroli, con un’estensione di circa 130 ettari , ed era stato per decenni, a partire dal 1953, sede di attività di raffinazione di prodotti petroliferi. La raffineria aveva una capacità di raffinazione pari a 5 milioni di tonnellate anno. La bonifica del suolo, completata nel 2003, ha riguardato il perimetro dell’attuale Polo Fieristico, ma l’area circostante non ne è stata toccata. Riteniamo assai probabile che l’area proposta per il “sito Expo” abbia subito, a causa della sua adiacenza alla Raffineria, ricadute in termini di residui da combustione, liquami e oli o altri eventuali liquami penetrati nel terreno. Non ci risultano analisi e/o bonifiche avvenute in tal senso. In virtù anche del fatto che nel Concept Plan per Expo 2015, presentato a settembre 2009 dal Comune di Milano, si identifica il sito come sede di “un grande orto botanico”, in cui “ogni Paese avrà il suo pezzetto di suolo da coltivare” (Boeri), e che “si tratterà di far crescere cibo e generare prodotti che la gente consumerà” (Burdett), sottolineiamo, nell’intento di non avvelenare gli ospiti dell’Esposizione Universale, che in nessun documento allegato alla Variante Urbanistica, né all’interno dell’Accordo di Programma si accenna alla necessità di realizzare una bonifica del sito Expo, che sembrerebbe invece opportuna. A supporto di tale tesi ricordiamo che all'interno del progetto sono previsti anche nuovi bacini di acqua artificiali e la nuova “via d'acqua”, che potrebbero influire sulla sedimentazione dei residui derivanti dall'attività di raffinazione, con il rischio evidente di inquinamento della falda acquifera.

2C – L'accessibilità al sito ne compromette la destinazione.

Al contrario di quanto si evince dalla relazione illustrativa prodotta dalla Direzione centrale sviluppo del territorio del Comune di Milano, la prossimità del Polo Fieristico può risultare fonte di grandi problemi di gestione della manifestazione Expo 2015. Bisogna infatti considerare che le stime di ospiti della manifestazione contenuti all’interno del progetto presentato al BIE dal Comune di Milano durante la fase di candidatura, è di 29 milioni in sei mesi, pari ad una media aritmetica di 160 mila al giorno. Prendendo per buona la stima inserita nello steso documento, secondo cui il 60% dei visitatori utilizzerà i mezzi pubblici, ne risulta che circa 65 mila persone tutti i giorni per 6 mesi si recheranno al sito Expo con mezzi privati, senza contare i volontari e i lavoratori coinvolti. Alla luce di ciò, se si considera anche il traffico che deriverà dalle normali esposizioni fieristiche che si terranno in quei 6 mesi, la prossimità del Polo Fieristico di Rho Pero potrebbe incrementare i rischi già elevati di congestionamento del traffico.

Si propone pertanto in via prioritaria l’identificazione di un altro sito in cui realizzare Expo 2015 e in via subordinata l’ipotesi di vietare altre manifestazioni fieristiche in contemporanea all’Esposizione Universale.

2D – Perdita di un’area strategica per l’eco-sistema del Nord-Ovest

La trasformazione dell’area prescelta e la sua definitiva antropizzazione (al pari dell’area adiacente in località Cascina Merlata anch’essa interessata dai progetti per Expo 2015), porta alla perdita dell’unico corridoio ecologico esistente nel territorio del Comune di Milano, in grado di fornire appoggio alle specie animali migratorie e ideale anello di congiunzione tra il sistema dei parchi del nord Milano (Groane, Grugnotorto, Parco Nord) e dell’ovest Milano (Boscoincittà, Parco dei fontanili, Parco Sud), pregiudicando in via definitiva la realizzazione dell’anello verde attorno alla città. In tal senso si propone altra localizzazione per la rassegna espositiva.

3 – DESTINAZIONE D’USO DELL’AREA

In considerazione di quanto ai punti 1 e 2 delle presenti Osservazioni, si chiede che la variante di PRG sia ritirata.

L’eventuale necessità di utilizzare comunque l’area per Expo 2015, malgrado le osservazioni qui riportate, si concretizzi almeno attraverso un uso temporaneo della stessa per i sei mesi della rassegna, previa bonifica profonda e a condizione della sospensione di ogni altra manifestazione fieristica contemporanea all'evento, per poi restituire l'area alla sua attuale destinazione VA con opportuna sistemazione e riqualificazione per uso pubblico.

Documento elaborato dal Comitato No Expo e dal Centro Sociale Fornace il 22 dicembre 2009.

Documento presentato al Comune di Milano e al Comune di Rho il 23 dicembre 2009

(di seguito scaricabili alcune altre osservazioni del Comitato sull'iter complessivo del Piano di Governo del Territorio di Milano)

Una settimana fa vi ho scritto che ad un convegno sull´Expo 2015 sia l´amministratore delegato Stanca che il governatore Formigoni avevano assicurato che tutto procede secondo programma e che la manifestazione si svolgerà in tutta la sua magnificenza, tanto da attirare a Milano turisti da tutto il mondo anche dopo i sei mesi. Esprimevo qualche dubbio: la Fiera inaugurata nel 2005 ancora non ha i servizi e le infrastrutture previste, non vedo muoversi foglia. Ebbene, ora apprendo dai media che soldi non ce ne sono! Anzi, Berlusconi vorrebbe affidare la conduzione a Bertolaso e ciò mi fa pensare che siamo in emergenza rifiuti più terremoto: i troppi interessi, forse anche mafiosi, stanno bloccando tutto. Qualcuno ha proposto addirittura il ritiro della candidatura! Che figura. Dopo i festeggiamenti per la vittoria, la sindaco Moratti & c. chiuderebbe i battenti dell´evento. Allora sì che verrebbero turisti da tutto il mondo, ma per partecipare al Carnevale ambrosiano tanto più lungo rispetto ad altri, da essere reso "eterno" dai nostri pubblici amministratori!

Francesco Gentile

Carnevale italiano, non solo milanese. Non pochi cittadini italiani (senza voce in tv e nell´80 per cento dei media) vedono nelle scelte politiche e in alcuni rappresentanti pubblici non lo specchio della nostra società, ma una versione grottesca, patetica e a volte criminale dei difetti italiani. Le ultime intercettazioni riguardo il giro di Bertolaso, con amici influenti a destra come a sinistra, che ci dicono? Che si può scherzare persino sul terremoto e gli appalti, e benvenuti i soldi che verranno macchiati di morte e macerie. Anche noi giornalisti siamo cinici, a volte scherziamo sulle disgrazie per non «morire dentro» ma, cavolo, non ci guadagniamo un euro in più da sciagure e omicidi. Questi qua sì. E c´è sempre un´autoassoluzione. C´è, in Berlusconi e nei suoi succedanei, questa idea che si può dire e fare tutto, che non si risponde mai alle domande, o se si risponde lo si fa in un ambiente protetto, amico, che di giornalismo ha solo l´etichetta, ma non la sostanza.

L´Expo di Milano - e noi lo vediamo - è stato sinora una sorta di «fiera della palla». Si staglia un titolo: «L´occasione sprecata di un´ex metropoli». Sperando - e lo dico per davvero - che alla fine non andrà così.

Piero Colaprico

Nel giorno in cui Guido Bertolaso va in Senato e assicura che non diventerà commissario straordinario dell’Expo, la Provincia lancia «Expo fuori le mura». Ma il sottotitolo potrebbe essere l’Expo dei dimenticati: i 134 comuni della provincia milanese che per adesso hanno visto l’Expo solo sulle pagine dei giornali. Per questo motivo, il presidente della Provincia, Guido Podestà, ha deciso di chiamarli a raccolta. Da Palazzo Isimbardi assicurano che non c’è nessuna volontà polemica nei confronti del sindaco Letizia Moratti e dell’ad della società, Lucio Stanca. Ma che si tratta solamente di declinare quello che è uno slogan ripetuto da mesi: l’Expo, un’occasione per tutti. Anche per quei comuni della Grande Milano che la Provincia coordina e vorrebbe far entrare nella partita dell’evento del 2015. Sul tavolo ci sono tre progetti.

Due che riguardano direttamente i comuni metropolitani. Il terzo riguarda invece l’Idroscalo, che nelle intenzioni di Podestà, deve diventare «la seconda zattera di Expo» che si andrebbe ad aggiungere al sito ufficiale dell’evento a Rho-Pero. Un progetto ambizioso che vorrebbe trasformare il «mare dei milanesi» nel Parco dell’Acqua, una sorta di città del benessere (dalla medicina sportiva, al fitness, alla riabilitazione post-traumatica, alle terme, all’alimentazione, alle piste ciclabili). Il primo obiettivo, naturalmente, visto che si tratta del Parco dell’Acqua, è recuperare la «balneabilità». I progetti che riguardano i comuni della cinta sono altrettanto ambiziosi. Il primo riguarda la messa in rete di tutti i comuni per la pianificazione urbanistica e le infrastrutture in modo da avere uno sviluppo ordinato del territorio. Piani di governo del territorio in comune. E infrastrutture come il prolungamento dei metrò al di fuori dei confini cittadini.

L’ultimo progetto riguarda un tema contenuto nel dossier di candidatura. Le vie d’acqua. Un progetto «sfortunato» e irto di difficoltà tecniche, visto che in un primo mento era stato ritirato e poi, per volere della stessa Moratti, rimesso allo studio. Podestà si porta avanti. E sia che si faccia sia che non si faccia la Via d’Acqua dalla Darsena a Rho-Pero, lancia la «Gran Traversata dei Navigli» per realizzare un percorso navigabile che attraversa l’intera provincia dall’Adda al Ticino. Progetti realizzabili? Sicuramente ci vogliono tanti fondi. Ma dal punto di vista politico il messaggio è chiaro: la Provincia vuole giocare un ruolo strategico in Expo in alternativa al Comune.

I terreni e le piste di trotto e di allenamento di Trenno saranno venduti al miglior offerente. Snai, la proprietaria, entro un anno dovrà restituire ai creditori 250 milioni. Ora, fallita la strada di un bond, resta solo la cessione. In bilancio gli immobili valgono 90 milioni ma si spera di farli fruttare quasi il doppio: l´operazione potrebbe essere curata da Cushman & Wakefield, società Usa controllata dalla Exor della famiglia Agnelli. Esclusa dall´affare solo la pista del galoppo, che è vincolata.

La posizione è ideale per un nuovo campo di calcio in grado di ospitare la finale 2015 di Champions e gli Europei del 2016. Chiunque acquisti dovrà fare i conti con l´imprenditore Losito: il suo piano per un quartiere di lusso è tramontato ma resta l´opzione

Nell´area non si può (per ora) costruire ma sull´affare si muovono già in molti.

Il Comune, che vuole «restituire verde alla città»? La Provincia amica di Salvatore Ligresti che teme la concorrenza alle future case di Citylife? Un imprenditore privato con il sogno di aprire a Milano il primo golf club o una spa di lusso? Le squadre di calcio che da anni vorrebbero costruire uno stadio bis?

Alla luce della complicata storia del trotto su cui, dopo anni di silenzio, la giunta Moratti ha riaperto la partita nel 2008 una delle ipotesi più probabili è che il Comune stia pensando di sostituire i cavalli con il pallone. L´ippodromo del trotto, infatti, a due passi dallo stadio di San Siro sarebbe la posizione ideale dove costruire un nuovo campo da calcio. Un impianto costruito ex novo in grado anche di ospitare la finale di Champions League del 2015 e gli Europei del 2016, e che potrebbe soddisfare il desiderio dell´Inter di avere uno stadio tutto per sé. Certo, se fosse così, seppur nella legalità l´operazione potrebbe sollevare qualche dubbio.

La vicenda infatti è cominciata nel 2008 quando Palazzo Marino ha dato un´improvvisa accelerata al progetto di trasferimento dell´ippica fuori Milano per «riqualificare un´area verde che oggi la città non può fruire», come diceva allora l´assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli.

Le trattative con Snai sono andate avanti mesi, con soddisfazione. Tanto che lo scorso settembre il quartiere di superlusso proposto da Roberto Losito, imprenditore milanese con un´opzione di acquisto sull´area fino al 2012 e advisor di Snai, è stato inserito nel Piano di governo del territorio. Il progetto edilizio che prevedeva il trasferimento dell´ippica fuori città per rilanciarla, si diceva, ma anche per far spazio a un grande parco cittadino, a un centro polifunzionale per lo stadio e a complesso di residenze a cinque stelle immerse nel verde.

L´operazione però è naufragata. Un mese dopo, per portare a casa il Pgt senza l´ostruzionismo della Provincia, il Comune ha siglato un patto con il presidente Guido Podestà che prevedeva la salvaguardia del verde all´ippodromo. «Neanche un metro cubo di cemento potrà essere costruito in quell´area» esultava allora la Provincia, sbandierando un´insolita politica ambientalista. Unica eccezione, stabiliva l´accordo, verrà fatta per le strutture funzionali allo stadio o dedicate allo sport e all´intrattenimento. Il progetto di Losito quindi venne abbandonato e dell´ippodromo non si parlò più.

Oggi, mentre il Pgt sta paralizzando i lavori del consiglio e creando molti imbarazzi al sindaco Moratti, il tema torna d´attualità. Le banche chiedono a Snai di vendere i terreni al più presto, fissando il prezzo base a 90 milioni di euro. Il valore dell´area - che Losito un anno fa era disposto a pagare 260 milioni di euro - è crollato una volta esclusa la possibilità di costruirci sopra. E per chi vuole farci strutture sportive, diventa un affare. Nel frattempo, l´assessore allo Sport Alan Rizzi ha dichiarato la sua intenzione di ristrutturare San Siro per ospitare gli Europei del 2016, senza dare però nessun dettaglio sul reperimento di quei 40 milioni di euro necessari al restyling. Se tutti i pezzi vengono messi insieme verrebbe da pensare che il primo interessato a comprare l´ippodromo sia l´Inter, in cerca da anni della location giusta dove innalzare il suo stadio.

Ma il futuro delle piste del cavalli può anche essere un altro. Approvare oggi un Pgt che stralcia di fatto l´Ippodromo dalle aree su cui si potrà edificare non significa che un domani la destinazione d´uso possa cambiare. Non è detto quindi che chi investirà in questo spicchio di verde non stia pensando di iniziare con una struttura legata allo sport per aggiungere, fra qualche anno, anche delle residente. Lo spazio di certo non mancherebbe.

Chiunque però voglia rischiare in questa operazione dovrà vedersela con l´opzione di Losito. L´imprenditore al momento non sembra intenzionato a rinunciare alla sua prelazione che dice essere blindata per i prossimi due anni. E, come advisor della Snai, dovrà necessariamente essere coinvolto. «Se cercheranno di sfilarmi l´advisor - spiega - andrò per vie legali».

Milano. Il contratto da cui nasce l’Expo di Milano è un documento di 25 pagine e sette planimetrie che nessuno ha mai visto: non il consiglio comunale, che lo aspetta da un paio d’anni, non i cittadini milanesi che avrebbero diritto di sapere che cosa si sta progettando. È una convenzione sottoscritta, già nel giugno 2007, dal comune e dai due proprietari dell’area su cui, nel 2015, si svolgerà l’evento: la Fiera di Milano e la società Belgioiosa (gruppo Cabassi). È il documento, finora segreto, che fa finalmente capire dov’è il trucco dell’Expo 2015: un’iniziativa intitolata “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, che nutrirà però soprattutto i proprietari dell’area, i quali potranno cementificarla con grande energia, oltre ogni regola.

IL CONTRATTO. Che cosa prevede, infatti, il contratto? Che quell’area sghemba a nord di Milano tra Pero e Baranzate, contigua alla nuova Fiera, prescelta per celebrare i fasti dell’Expo, resti ai proprietari. Viene data in concessione alla società Expo per sette anni (2010-2017), al termine dei quali Fiera e Cabassi se la riprenderanno. Ma, passata la festa, ci troveranno alcune gradite sorprese. Oggi l’area (circa 1 milione di metri quadri, 70 per cento della Fiera, 30 di Cabassi) è agricola. Non ci si può costruire nulla. Che cosa dice invece la miracolosa convenzione segreta? Che nel 2017 l’area sarà restituita a Fiera e Cabassi con un indice d’edificabilità 0,6: ossia puoi costruire 6 metri quadri ogni 10, per un totale di 600 mila metri quadri. Non è meraviglioso? Ma c’è di più. Il nuovo Piano di governo del territorio (Pgt) in approvazione a Milano innalza per le aree agricole l’indice di costruzione allo 0,2 (puoi costruire 2 metri quadri ogni 10); ma l’area Expo è considerata un’eccezione (“zona di trasformazione speciale”), con un eccezionale indice 1: dunque si potrà costruire ben 1 milione di metri quadri. E con un mix funzionale libero, dice il contratto Expo, a gentile discrezione dei proprietari.

In una prima ipotesi, c’era anche un regalo aggiuntivo, come nelle fiere di paese. Guardate l’illustrazione numero 1 in questa pagina: padiglioni, edifici, uffici, abitazioni, una grande torre... Il primo progetto prevedeva che la società Expo costruisse molto, sull’area. Così nel 2017 i proprietari si sarebbero ritrovati una gran parte del lavoro già fatto, senza neanche la fatica di costruire a loro spese. Poi la crisi, i litigi politici, i ritardi, le incertezze, la mancanza di soldi hanno determinato un cambiamento di rotta. Il sindaco di Milano Letizia Moratti ha chiamato cinque architetti a ripensare l’Expo. Una consulta internazionale formata da Stefano Boeri, Richard Burdett (quello che sta progettando le Olimpiadi di Londra 2012), Jacques Herzog (quello dello stadio-nido di Pechino), William McDonough (collaboratore di Al Gore) e Joan Busquets (Olimpiadi di Barcellona). Il nuovo progetto, presentato in pompa magna nel settembre 2009, lo vedete nell’immagine numero 2. Niente più grandi padiglioni, ma un immenso orto botanico. Ognuno dei 120 paesi che parteciperanno all’Expo avrà una striscia di terreno larga 20 metri in cui potrà presentare le sue coltivazioni, i suoi prodotti, le sue eccellenze, con serre e terreni che riproducono le biodiversità, i climi del mondo e le loro tipicità alimentari. Ogni striscia s’affaccia su un lungo boulevard-tavola dove i paesi ospiti potranno mettere in mostra e condividere le loro colture e i loro prodotti. Un piccolo villaggio-Expo, di edifici bassi, sarà costruito discretamente sui bordi dell’area. Così, dopo l’Expo, alla città potrà restare in eredità un grande parco botanico planetario.

L’EXPO DOPO L’EXPO. Questo dice il progetto realizzato con la collaborazione anche di Carlin Petrini, il papà di Slowfood. Ma se le aree nel 2017 torneranno ai loro proprietari, e con la possibilità di costruirci sopra un milione di metri quadri, dove andrà mai a finire la promessa del parco botanico planetario da regalare alla città? Per non sbagliare, comunque, si sta passando dal “concept plan” al “masterplan”. Ovvero: ora che i cinque grandi architetti, sotto l’ala del sindaco Moratti, hanno detto la loro (“concept plan”), la palla passa all’Ufficio di Piano dell’Expo, che dovrà realizzare il progetto vero (“masterplan”). E qui arriva il bello. L’Ufficio di Piano sta remando in direzione opposta: il sogno dei cinque super-architetti è troppo leggero, troppo agreste, troppo bucolico. Bisogna riempire, costruire, appesantire. Dare la possibilità ai paesi espositori di potersi esibire innalzando come vogliono i loro padiglioni nazionali. Ad aprile vedremo il risultato. Questo è il primo dei durissimi scontri in atto. Il secondo è sulla proprietà dell’area. Il terzo è sul dopo: che cosa sarà l’Expo dopo l’Expo?

LA FIERA. La Fiera (più che Cabassi) vuole mantenere il controllo dell’area, come previsto dal contratto, e dopo l’Expo avere uno spazio immenso da valorizzare, con un guadagno immenso. Case, uffici, il nuovo centro di produzione Rai (ma con quali soldi?), magari un po’ di housing sociale (abitazioni a basso costo) tanto per indorare la pillola. L’amministratore delegato di Expo spa, Lucio Stanca, sta invece provando a percorrere un’altra strada, su cui s’incamminerebbe qualunque manager serio: acquistare le aree. Perché lasciarle ai proprietari, a cui regalare un valore immenso? Oggi l’area Expo è terreno agricolo, potrebbe dunque essere comprata a prezzi ragionevoli (100-130 milioni di euro). Ma, naturalmente, la Fiera non ci sta. Preferisce il regalo miracoloso del milione di metri quadri di cemento. Se proprio costretta, potrebbe anche vendere, ma alzando di molto il prezzo. Ma per capire questa partita, che è il vero, feroce conflitto in corso, bisogna capire la geografia del potere che si sta ricomponendo attorno all’Expo.

Fiera vuol dire Roberto Formigoni, cioè Pdl ala Comunione e liberazione. Formigoni, eterno presidente della regione Lombardia, ha lavorato sottotraccia per diventare il vero padrone dell’Expo. Sottraendo il giocattolo a Letizia Moratti. Formigoni non solo controlla attraverso i suoi uomini la Fiera, proprietaria dell’area, ma ha anche abilmente occupato l’Ufficio di Piano, d’ora in avanti vera cabina di regia dell’Expo. Sono di area Comunione e liberazione (e formigoniani di ferro) Matteo Gatto, il direttore dell’Ufficio di Piano; Andrea Radic, responsabile della comunicazione; Alberto Mina, responsabile delle relazioni istituzionali. Il comitato scientifico è presidiato da uno dei grandi capi di Cl, Giorgio Vittadini. Nel consiglio d’amministrazione di Expo spa siede invece Paolo Alli, già capogabinetto di Formigoni. La guerra è cominciata.

Personaggi e interpreti delle battaglie milanesi

Chissà se è pentita, Letizia Moratti, di aver fatto vincere a Milano la gara internazionale per l’Expo 2015. Finora da quel successo le sono venuti solo guai. Ora è preoccupata, tesa. È in forse anche la sua ricandidatura a sindaco. Credeva di poter gestire l’evento con i suoi uomini senza le interferenze dei partiti. Ha imparato a sue spese che non è possibile. Ha dovuto subire subito i boicottaggi degli expo-scettici, Lega e Giulio Tremonti. E poi gli assalti dei poteri, delle correnti, delle cordate. Umberto Bossi all’Expo non ha mai creduto, lo chiama “Expo di territorio”, vorrebbe che coinvolgesse paesi, città, territori e genti di tutta la Padania. Vorrebbe insomma che, se proprio si deve fare, fosse utile a portare consenso (ma anche poltrone, potere e soldi) alla Lega. Ha imposto un suo uomo, Leonardo Carioni a presidiare il consiglio d’amministrazione.

Tremonti dell’Expo avrebbe proprio fatto a meno: il suo ministero ha pochi soldi da spendere e non li vuole buttare per la gloria di Donna Letizia, che quando è andata a Roma a batter cassa si è sentita rispondere: “Letizia, il governo non è tuo marito”. Così Tremonti ha garantito per ora soltanto 133 milioni per il triennio 2009-2011, che dovrebbero diventare (chissà) 1,4 miliardi entro il 2015. Non si sa se arriveranno davvero i 600 milioni di competenza degli enti locali e i 500 dei privati. Tanto per cominciare bene, già quest’anno il bilancio previsionale di Expo spa è in rosso di 15 milioni di euro. Le grandi opere già previste e infilate a forza nel progetto Expo (le superstrade Pedemontana, Tem, Brebemi, le linee di metrò M4 e M5) non si sa se saranno finite in tempo per il 2015. Si sa però che mancano i soldi: almeno 2,5 miliardi di euro. Alcune opere sono state addirittura cancellate: non sarà fatta la linea M6, non sarà fatta la torre Landmark; non sarà fatta la via d’acqua navigabile che avrebbe dovuto portare dalla città all’Expo. Per fortuna gli orti costano meno. Del resto, alla stima iniziale di 30 milioni di visitatori previsti non crede più nessuno. E le previsioni di fatturato sono già precipitate da 44 a 34 miliardi.

Chissà se Lucio Stanca, il mediatore imposto da Silvio Berlusconi dopo tante polemiche, tanti litigi, tanti ritardi, resisterà fino al 2015. C’è già chi lo dà per sconfitto, bruciato dal braccio di ferro in corso (lui vuole comprare l’area, la Fiera vuole mantenerne la proprietà). C’è chi fa già il nome del successore: l’uomo di Berlusconi per le imprese impossibili, il super commissario Guido Bertolaso. Intanto ha messo il suo cappellone sull’Expo anche Bruno Ermolli, a cui piace tanto essere definito il Gianni Letta di Milano. Attraverso la Camera di commercio-Promos, ha organizzato nei giorni scorsi un incontro sull’Expo per dire: occhio, ci sono anch’io.

Ma è la Fiera, ormai, il vero dominus dell’operazione, strappata alla povera Moratti. Dunque Roberto Formigoni, che ha occupato anche l’Expo, e non si fa certo disturbare dall’arrivo del nuovo presidente della holding di controllo della Fiera, l’ex banchiere craxiano (ora berlusconiano) Giampiero Cantoni. L’uomo forte di Formigoni che ha lavorato nell’ombra (anche) per l’Expo è – tenetevi forte – l’avvocato Paolo Sciumè. Ora ha dovuto sospendere il suo impegno, perché è stato arrestato con l’accusa di aver presentato clienti mafiosi al presidente della Banca Arner, Nicola Bravetti. Il personaggio giusto, Sciumè, per lavorare a un’impresa che, già per conto suo, è a rischio infiltrazioni mafiose.

Sull’ inquinamento a Milano le parole hanno perso di senso: non basta più dire allarme o emergenza, non serve scrivere che la città soffoca o non respira. Una rassegnata accettazione al peggio ambientale contagia da mesi la politica e la pubblica opinione: se non fosse per un gruppo di mamme indignate, dell’aria avvelenata che da tredici giorni intossica i polmoni di bambini e anziani non si parlerebbe nemmeno. Dieci anni fa un’analoga esposizione ai pericoli delle polveri sottili avrebbe provocato il blocco del traffico, una settimana di targhe alterne, il divieto di uscire nelle ore di punta per le persone a rischio. Si esagerava prima o si sottovaluta oggi?

Colpisce il silenzio generale che accompagna la ritirata ecologica che da Milano si espande al resto d’Italia: tace il sindaco, non parla il governatore, è disinteressato il ministro. Nonostante gli appelli al civismo dei piccoli gesti, delle questioni ambientali si parla quasi con fastidio. Alle prese con la crisi e la lotta quotidiana per la sopravvivenza, il problema dell’aria avvelenata sembra rimosso dall’agenda politica. C’era una volta lo smog.

Bisogna andare all’altro secolo per trovare un’azione coordinata tra governi e Comuni, alla metà degli anni Novanta, quando smog e pubblica salute diventarono materia per accordi e interventi coordinati tra Regioni. Incentivi, domeniche a piedi, blocchi infrasettimanali del traffico, divieti alla circolazione dopo sette giorni di allarme. L’inquinamento era in cima alle preoccupazioni dei cittadini quando l’ex ministro della Salute, Sirchia, si sbilanciava con una provocazione: «Per salvare i polmoni dei bambini di Milano d’inverno portateli in Riviera...».

Non c’è nostalgia per quei blocchi che in passato hanno appiedato le domeniche degli italiani: come cerotti sul bagnato tamponavano appena la ferita. Avevano però un effetto sui cittadini e sulla politica: evitavano l’assuefazione ai veleni, ricordavano un problema irrisolto. Quello che si presenta ad ogni inverno nella pianura Padana, quando la pioggia non spezza l’assedio dei mefitici veleni. Anche se Napoli, Torino e Lodi stanno peggio, Milano ha la poco invidiabile fama di capitale dello smog. È per questo che dovrebbe dare un segnale. Qui l’Ecopass voluto da Letizia Moratti ha fatto pensare a una coraggiosa svolta: il sindaco ha rischiato il consenso imponendo un pedaggio alle auto inquinanti. Ma quando il divieto doveva essere allargato, sul bilancino del consenso è finito l’assessore che l’aveva voluto: ed è stato dimissionato. Così oggi siamo al nulla: lo smog cresce, la pioggia non arriva, l’allarme resta, nessuno agisce.

Ma non può vincere la neoindifferenza, credere che tanto non cambierà mai niente. Una task force di medici ed esperti dovrebbe decidere le politiche sulla qualità dell’aria da applicare a livello nazionale facendo uscire l’inquinamento dalle logiche di una infinita campagna elettorale. Si mettano i tecnici attorno a un tavolo e si concentrino risorse per la qualità dell’aria: una battaglia civile che vale per i figli, i nipoti, i pronipoti, il futuro.

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