I costruttori milanesi lamentano la mancanza di aree disponibili subito per costruire alloggi sociali, a prezzo scontato? «Le aree per l'housing sociale ci sono già. A sufficienza per creare subito quattromila alloggi», rispedisce l'obiezione al mittente Ada Lucia De Cesaris, assessore all'Urbanistica del Comune. Assimpredil considera insostenibile la quota di affitto (0,10 ogni metro quadrato di affitto convenzionato e 0,05 di canone sociale) presente nei nuovi progetti? «Non solo il modello è economicamente sostenibile ma farà riprendere il mercato. Anche a vantaggio delle imprese di costruzione», ribatte secca l'assessore, rispedendo al mittente le due principali obiezioni al modello dihousing sociale contenuto nel Pgt. Obiezioni segnalate dagli operatori del settore su queste pagine mercoledì scorso.
Per quanto riguarda le aree, De Cesaris fa riferimento a quelle già messe sul piatto dalla precedente giunta e non ancora sfruttate ma anche a spazi nuovi.
«L'area pubblica di Ronchetto sul Naviglio, per esempio, sarà destinata a residenza sociale», anticipa l'assessore. Che poi torna sulla questione più delicata, quella degli indici di edificabilità: «Il nostro ridisegno degli indici non è punitivo. Non cambia la sostanza rispetto agli indici del vecchio Prg. Certo, rispetto al Pgt messo a punto dalla giunta precedente abbiamo ridotto un'edificabilità enorme. Che nella situazione attuale neppure per gli operatori del settore sarebbe sostenibile».
Tornando alla quota di affitto, secondo De Cesaris «tutti dobbiamo renderci conto che il mondo è cambiato. La gente ha bisogno di locazione e vendita a prezzi accettabili. Ed è a questa domanda che dobbiamo dare una risposta. Molti imprenditori ci hanno già garantito che si può fare». Chi vuole concentrarsi solo sull'edilizia libera anche nelle aree superiori a diecimila metri quadrati può sempre consegnare al Comune la parte dell'area destinata a vendita convenzionata e ad affitto convenzionato o sociale. Ma palazzo Marino avrà le forze per gestire la messa sul mercato, attraverso bandi ad hoc, di numerose aree a costo zero (o quasi) per l'housing sociale? «Certo che abbiamo forze adeguate, questo è un compito e un ruolo che spetta al Comune».
Se sull'affitto convenzionato c'è un dialogo aperto con i costruttori, sulla quota dello 0,05 di canone sociale nessuno — né imprese, né cooperative — vuole sentire ragioni: «Troppo costoso, non si può fare dicono tutti». «Anche questo non è un problema — taglia corto De Cesaris —. Stiamo creando un sistema di monetizzazione. Permetteremo di convertire la quota di edilizia sociale in edilizia agevolata in cambio di una contropartita economica. Questi soldi andranno ad alimentare un fondo per chi fa residenze sociali».
I «canali-boulevard» di Stendhal e l'orrore del Manzoni: «Onda impura»
di Annachiara Sacchi
Certo, il paesaggio non doveva essere niente male. Una «quasi» Venezia con ponti, scorci romantici, vedute mozzafiato — e qualche prova si ha alle Gallerie d'Italia, con le opere di Giuseppe Canella e Angelo Inganni (mirabile una veduta di via San Marco). Ma la Milano dei Navigli — progettati da Leonardo, amati da Stendhal che li definiva boulevard, rimpianti, vagheggiati, sognati dai cittadini del XXI secolo — non era tutto questo splendore. Alessandro Manzoni si lamentava delle acque stagnanti (le chiamava «onda impura») e pure Filippo Turati detestava quel «gorgo viscido chiazzato e putrido». Qualcosa, mentre la città aumentava il numero dei suoi abitanti e celebrava la modernità, andava fatto. Il fascismo scelse la via più semplice: interrare tutto.
Il 6 marzo 1929 presero il via i lavori per coprire la cerchia dei Navigli, l'ultimo barcone che trasportava le bobine di carta fu scaricato sotto il Corriere della Sera il 15 marzo di quell'anno. Milano non avrebbe più avuto una circle line navigabile — forse un po' puzzolente e piena di topi e zanzare — quella che Luca Beltrami, il «salvatore» del Castello Sforzesco, cercò di difendere fino all'ultimo. In compenso, guadagnò una circonvallazione interna. Addio alla città di Leonardo, al primo canale navigabile del mondo. Fu proprio il genio di Vinci, prima di arrivare a Milano nel 1482, a scrivere a Ludovico il Moro dicendogli di sapere «condurre acque da un loco a un altro», sfruttando il fossato difensivo costruito tra il 1157 e il 1158 e quella «bella, ricca e fertile pianura» descritta da Bonvesin de la Riva nel XIII secolo «tra due mirabili fiumi equidistanti, il Ticino e l'Adda».
Dimostrò tutto il suo talento, Leonardo. E durante il suo primo soggiorno milanese (tra il 1482 e il 1489) disegnò una pianta della città in cui viene indicata la necessità di prolungare il Naviglio della Martesana fino alla «cerchia». Il suo pallino, però, rimase il Naviglio Grande, realizzato tra la metà del XII e del XIII secolo: «Vale 50 ducati d'oro, rende 125 mila ducati l'anno, è lungo 40 miglia e largo braccia 20». Un sistema redditizio. Altri ingegneri, dopo la morte di Leonardo, proseguirono nel disegnare la Milano dell'acqua. Il Naviglio di Paderno, finanziato da Francesco I, fu progettato nella seconda metà del '500 e terminato nel 1777 dall'amministrazione austriaca, mentre il Naviglio Pavese fu concluso nel 1819.
Milano porto fluviale. Utile fino al boom delle ferrovie e del trasporto su strada, gestibile finché le condizioni igieniche della città non diventarono drammatiche. Forse, nel 1929, non c'era altra soluzione se non la chiusura di quei canali. Ma da allora, sotto il cemento e il traffico, le acque «soffocate» dall'asfalto non hanno mai smesso di farsi sentire. E di suscitare dibattiti e divisioni, nostalgie e rimpianti.
Un'Expo per «riscoprire» i Navigli
di Elisabetta Soglio
Milano? Una città d'acqua. Expo rispolvera una vocazione antica e si capisce perché scatti l'applauso quando Umberto Veronesi lancia la proposta: «Dovremmo scoprire i Navigli». Sul palco del Teatro Dal Verme si parla della Milano di ieri, grazie a ricordi di milanesi d'eccezione, e di quella che diventerà con Expo 2015. Della Darsena che verrà risistemata, delle vie d'acqua e del nuovo percorso ciclabile che collegherà la città alla zona dell'esposizione, creando un «anello verde-azzurro» che dalle dighe del Panperduto al Villoresi e al Naviglio, porterà acqua e cultura: un finanziamento di 175 milioni, la più consistente eredità dell'evento.
Veronesi, che propone anche di chiudere il centro alle auto, insiste sul fatto che «l'acqua toglierebbe aridità alla nostra città e renderebbe meno aridi anche i nostri cuori». Gli fa eco Fedele Confalonieri, che oltre ai Navigli scoperti fa una petizione al sindaco: «Sul Naviglio in questi giorni d'inverno tanti anni fa vedevi la nebbia che saliva ed era una grande poesia».
Poi c'è Umberto Eco, che ammonisce: «Stiamo rischiando di perdere il senso dell'acqua» e Luca Doninelli a ricordare che «Milano porta la memoria dell'acqua anche nei suoi palazzi e nei suoi paesaggi». Fra gli uni e gli altri, le immagini e gli interventi dei commissari Roberto Formigoni e Giuliano Pisapia e dell'ad di Expo, Giuseppe Sala, raccontano cosa resterà dopo il 2015.
Lungo il percorso si potranno ammirare le bellezze del territorio: da Villa Arconati («Che 40 anni fa era uno dei luoghi più belli d'Europa», sospira Philippe Daverio) a Cascina Merlata. Gualtiero Marchesi propone il piatto per Expo: «Toglierò la foglia d'oro e lascerò un bel risotto giallo». «Milano è un modo per trovare la convivenza delle diversità», spiega Salvatore Veca dissertando con Piergaetano Marchetti, che si rivolge ai giovani: «Usate sempre la ragione e seguitela». Lo spettacolo al Dal Verme serve per parlare di Expo: «Mi aspetto — è l'auspicio di Livia Pomodoro — che la città si mobiliti per dimostrare che Milano può essere simbolo di una rinascita di tutto il nostro Paese».
Il dibattito sui Navigli, intanto, è aperto. E il consigliere regionale udc, Enrico Marcora, propone: «Invece di costruire un nuovo canale per unire la città al sedime di Expo è meglio investire quei soldi per riaprire i Navigli milanesi, là dove possibile».
Sono soddisfatte delle ultime modifiche. Ma chiedono uno sforzo in più. Le associazioni ambientaliste accolgono con favore la revisione condotta dalla giunta Pisapia al Pgt, il Piano di governo del territorio radicalmente modificato da quello approvato dalla precedente amministrazione. Dal Fai a Legambiente, da Italia Nostra a Wwf, la richiesta è di andare oltre con ulteriori rettifiche nel voto in consiglio comunale.
Italia Nostra, ieri in un convegno sul Pgt all’Urban Center, con la presidente nazionale Alessandra Mottola Molfino ha chiesto «che il Consiglio comunale lo migliori: c’è ancora troppa cubatura sulla città e poco verde». La giunta ha già accolto la proposta di verde pubblico tra Quinto Romano e il Parco delle Cave, oggi ricovero di mezzi rimossi vigili. Ma non basta, per l’associazione. L’urbanista e membro di Italia Nostra Giuseppe Boatti avverte: «Il Piano ha trascurato i rapporti con l’hinterland, e ciò lo rende medievale. Chiediamo che vengano reinserite le opere infrastrutturali.
Negli ambiti di trasformazione urbana le densità edilizie ipotizzate sacrificano troppo le ultime chance di nuovo verde in città». Assicura di continuare a vigilare sul nuovo Pgt il Fai, il Fondo ambiente italiano: «Hanno accolto molte nostre osservazioni - puntualizza Costanza Pratesi - chiediamo più attenzione e controlli, però, alle modifiche anche estetiche della città esistente, specie nel centro storico. Bene che le aree di trasformazione si siano contratte, ma attenti a non lasciar troppo alle scelte dell’investitore». Su una cosa ancora le cose non vanno, per il Fai: «L’arco temporale di 30 anni è troppo lungo - aggiunge Pratesi - meglio 20 o 10 anni, le cose oggi cambiano troppo rapidamente». Soddisfatto anche il Wwf, che però rilancia: «Il Comune realizzi davvero la rete ecologica cittadina - chiede Paola Brambilla, presidente lombardo di Wwf - intervenga di più anche sulle aree agricole del Parco Sud».
È contento dell’abbattimento robusto degli indici volumetrici Damiano Di Simine, presidente lombardo di Legambiente, ma «sul verde serve una miglior distribuzione in città. Purtroppo gli effetti del Pgt li vedremo tra anni, nulla potrà contro grandi trasformazioni in atto, da Cascina Merlata al Cerba. Il Consiglio faccia in fretta: così avremo regole certe e una visione d’insieme».
L’assessore all’Urbanistica, Lucia De Cesaris, ricorda che «si è deciso di mantenere il Piano adottato per non bloccare la città, dando però sostanza alla fase essenziale delle osservazioni, ignorata dalla giunta precedente». E, sul fronte delle opere infrastrutturali, aggiunge: «Il Piano è realistico: elimina le cose inattuabili come il tunnel Expo-Forlanini, e rende praticabili progetti già finanziati. Per il resto riporta al Piano urbano della mobilità, la sede in cui si dovranno tenere insieme le diverse scale e tutte le modalità di trasporto». In generale, invece, ricorda che «è stata complessivamente dimezzata la capacità edificatoria, rafforzando gli interventi per la residenza sociale. Per gli scali ferroviari si sta lavorando all’accordo di programma: l’edificabilità di queste aree deve essere connessa a investimenti per la rete ferroviaria».
«Possiamo essere tutti tranquilli per il nuovo e inutile parcheggio di piazza Sant'Ambrogio?». La torre medievale dei monaci, la più bassa, tradisce segni di cedimento ed è stretta dai ponteggi di restauro: «Abbiamo tutte le ragioni di temere per la resistenza del campanile del IX secolo agli assalti di una malintesa modernità». La denuncia è di Carlo Bertelli, storico dell'arte, ex soprintendente, uno dei promotori del comitato contrario alla costruzione dell'autosilo sotto la basilica del Patrono: le ruspe, dice, minacciano la storia architettonica e sacra di Milano. La sua invettiva, pubblicata dal blog «Salva la piazza», pone una domanda e rilancia un allarme: «I monumenti sono davvero sicuri? Evidentemente c'è di che preoccuparsi».
Il parcheggio interrato è stato pensato nel 2000, modificato, messo sotto indagine dalla Procura, assolto, bersagliato da proteste ed esposti. Il cantiere è stato avviato a fine 2010: cinque piani, 234 posti auto a rotazione e 347 privati, la consegna prevista nel 2013, in ritardo sulle previsioni. La giunta Pisapia, nonostante gli appelli, non ha fermato l'operazione: «Le penali sarebbero troppo onerose». Scrive Bertelli: «Il danno architettonico ambientale alla piazza è cosa certa». Ma il rischio per la stabilità della basilica si può solo stimare: quanto faranno male le vibrazioni?
L'ultimo sisma non ha provocato crolli, «per fortuna», ma è stato un «ammonimento». La chiesa di Sant'Ambrogio, ricorda Bertelli, è compromessa e fragile: «Con i restauri dell'architetto Reggiori, nel Dopoguerra, l'interno della canna del campanile fu completamente alterato con la costruzione di una struttura in cemento armato. Il pericolo del cemento inserito in una struttura laterizia antica è che i due sistemi sono tra loro incompatibili. Le sollecitazioni, in caso di scosse (un terremoto, ma anche un imponente cantiere vicino) producono comportamenti pericolosamente diversi».
Borio Mangiarotti, l'impresa che costruisce i box, studia l'impatto dei lavori secondo un piano di monitoraggio elettronico condiviso con la Soprintendenza: «Dall'ultima lettura dei dati — rassicura il presidente Claudio De Albertis — non risulta alcuna anomalia». Gli operai stanno completando la «scatola» del parcheggio sotterraneo. In aprile inizieranno a scavare.
MILANO
Cosa c'era dietro lo scontro tra Boeri e Pisapia? Expo, lo sanno tutti. Adesso che a Palazzo Marino la calma sembra tornata, a mente fredda ci si può tranquillamente chiedere: ma chi aveva ragione? Dopo la sfuriata del sindaco, Stefano Boeri ha dovuto mettere la coda tra le gambe e rinunciare alle deleghe proprio sull'esposizione universale del 2015. Dietro il generico appello al rispetto della collegialità invocato dalla giunta c'era il fastidio crescente di Giuliano Pisapia per il continuo controcanto dell'archistar sulla fiera internazionale. Si era detto di uno scontro di personalità lontane fra loro. Può darsi, ma c'è dell'altro.
Il ballo del mattone
Il 2015 è la data fatale su cui Milano si gioca il tutto per tutto. L'economia della città motore d'Italia ormai da decenni gira attorno al mercato edilizio e immobiliare, soprattutto grazie alla riconversione delle ex aree industriali. E' su questo enorme flusso di affari e cemento che si riposizionano interessi e poteri fortissimmi. Gli ultimi industriali chiudono e svendono fabbriche ancora attive per puntare solo sul valore dei terreni. Le banche (Unicredit e Intesa in testa) lesinano credito alle imprese, ma sono invece esposte per miliardi di euro sul fronte delle speculazioni edilizie. Finanza e mercato immobiliare sono sempre più intrecciati. Ma gli immobiliaristi sono sempre più in crisi. Zunino è fuori gioco e Ligresti è sempre più in difficoltà, e sta per essere salvato in extremis da Unipol. Eppure è da questo gioco del mattone che dipende tutta la lunghissima catena di appalti e subappalti che si spartiscono cantieri, bonifiche e smaltimento rifiuti. Da questo dipende il lavoro nella regione più ricca d'Italia, e anche gli affari delle ormai accertate infltrazioni della 'ndrangheta.
La politica in Lombardia, e a Milano, negli ultimi venti anni si è occupata prima di tutto di gestire questo enorme business. Su queste fondamenta di cemento armato si è sviluppato il ventennio di governo delle destre e il lungo pontificato (quattro mandati) del governatore ciellino Roberto Formigoni, ma anche il ruolo succube, per non dire connivente, del centrosinistra di Filippo Penati & Compagni, impegnati a ricavarsi un posticino nella stanza dei bottoni cercando di spartire la torta tra Cooperative rosse e Compagnia delle opere.
Adesso, però, è tutto cambiato. La crisi mondiale del mattone prima, e la crisi mondiale poi, rischiano di fare saltare il banco. Il settore immobiliare è in stagnazione, la cuccagna è finita, la torta è molto più piccola e non basta per tutti. E se il castello di cemento crolla, tutti rischiano di crollare. Per questo ognuno cerca di salvarsi come può. Il bel mondo del business milanese è diventato un verminaio di interessi incrociati e contrastanti che si riverbera nell'implosione del sistema di governo delle destre, e nella crisi non ancora risolta del Pd.
Expo rappresenta l'ultima spiaggia per tutti. Anche per Giuliano Pisapia, l'unico che con tutta questa storia non c'entrava proprio nulla e che però si trova a governare proprio nella fase più delicata. Ma questo è solo il primo di una lunga serie di paradossi legati alla fiera del 2015.
Il paradosso dell'Archistar
Non era passato neppure un giorno dalla vittoria di Pisapia, ed ecco servito il secondo paradosso. Boeri, l'architetto di alcune della maggiori speculazioni immobiliari, l'uomo nuovo del Pd del nord clamorosamente bastonato alle primarie, ha tentato di riciclarsi interpretando l'inedito ruolo di paladino ambientalista contro le colate di cemento. Da allora non ha mai perso occasione di sparare contro la giunta (e contro Pisapia). E' stato questo «fuoco amico» insistito che ha portato allo scontro mal ricucito col sindaco.
Ma chi è, o meglio chi era Boeri, prima di scoprirsi star della politica? Insomma, da che pulpito viene la predica? Boeri ha realizzato il masterplan dei progetti sull'area destinata a Expo, quando Expo era ancora il fiore all'occhiello d Letizia Moratti. Da quando si è candidato, l'archistar ha difeso con le unghie il suo mitico orto planetario, ma sembra essersi dimenticato dei progetti di palazzoni previsti già allora su quell'area, anche se le simulazioni sulle cubature previste su quei terreni restano archiviati negli scaffali del suo ufficio. Boeri è anche l'architetto che era stato chiamato per realizzare con urgenza i lavori per il G8 alla Maddalena. Visse sull'isola mesi senza accorgersi del giro incredibile di corruzione e malaffare che ruotava intorno alle sue opere architettoniche. E Boeri, soprattutto, è anche il progettista del cosiddetto «orto verticale» (due palazzoni «verdi» nell'ambito dell'impressionante colata di cemento sull'area Repubblica-Garibaldi). E' l'architetto del Cerba, il mega centro di ricerca sognato da Umberto Veronesi da realizzare sulle aree del principe del mattone, Salvatore Ligresti, proprio nel mezzo della grande area agricola del parco sud di Milano. Ma allora, com'è possibile che proprio lui abbia potuto permettersi di rifarsi una verginità attaccando Giuliano Pisapia su Expo e accusandolo nientemeno di fare il gioco di Roberto Formigoni e degli immobiliaristi speculatori?
La sconfitta di Letizia Moratti
Il trucco c'è, e sta nel fatto che Pisapia è entrato nella partita di Expo quando i giochi erano già fatti e mancava un minuto alla fine. Quando è arrivato a Palazzo Marino mancavano poche settimana prima che il Bie, il comitato internazionale di Parigi, disgustato dall'infinita querelle tra Moratti e Formigoni, portasse via la fiera da Milano per manifesta incapacità di realizzare l'evento. Il vincitore della partita, dopo tre anni di duri scontri con Letizia Moratti, c'era già ed era Roberto Formigoni, il quale certo non ha versato troppe lacrime per la sconfitta dell'ex sindaco. Palazzo Marino non aveva i soldi per comprare i terreni di proprietà di Fiera Milano (che dipende dalla Regione) e del gruppo Cabassi. Per questo la Moratti poteva solo puntare sul comodato d'uso. In pratica, se fosse andato in porto, Fiera e Cabassi avrebbero ceduto il diritto di utilizzare i terreni fino alla fine di Expo per poi riprenderli con la concessione di potere edificare su metà dell'area a un indice di edificazione intorno allo 0,5%.
Un affarone per Fiera Milano, che quei terreni li aveva acquistati per quattro soldi pochi anni fa, e che se li sarebbe visti super rivalutati. I Cabassi erano d'accordo, anche se loro quelle terre le possiedono da sempre e su quell'area avevano già subìto sette espropri, pari a tre quarti della superficie originale.
Boeri vs Cabassi
Ai Cabassi piace essere considerati degli «sviluppatori» (non immobiliartisti alla Ligresti) interessati, oltre che al business, anche all'idea di poter gestire al meglio i progetti per il dopo Expo. Lo stesso Boeri, pochi giorni prima di accettare la sfida delle primarie, aveva riconosciuto loro questa capacità e li aveva indicati come i migliori candidati alla gestione del suo famoso orto planetario dopo il 2015. Eppure, un secondo dopo essersi lanciato in politica, come spesso gli è capitato, ha cambiato linea e non ha risparmiato duri attacchi anche ai Cabassi, dipingendoli come squali del mattone. Lo scontro non si è mai risolto tanto che la famiglia Cabassi sarebbe pronta anche a portarlo in tribunale per diffamazione, dove troverebbe a difendere l'architetto un peso da novanta come l'avvocato Guido Rossi, amico storico della famiglia Boeri.
Lo strapotere di Formigoni
Ma torniamo all'infinito braccio di ferro per l'acquisto dei terreni. Chi invece i soldi per comprare l'area li aveva eccome era il solito Formigoni, o meglio la Regione (si parla sempre di soldi pubblici). Da qui l'idea: ventilare l'esproprio dei terreni in nome dell'interesse pubblico facendo poi acquistare a prezzi scontati l'area ad una società creata ad hoc (ArExpo) - composta da Regione, Comune, Provincia, Fiera Milano e Camera di Commercio. Quindi, essendo l'unico in grado di comprare, Formigoni è riuscito mettere tutti sotto il suo dominio.
Ed ecco un altro paradosso: la vittoria di Giuliano Pisapia ha chiuso definitivamente la partita del governatore con la rivale Letizia Moratti. Formigoni è rimasto l'unico incontrastato principe di Expo. In pochi mesi è riuscito a ridurre il sindaco di Milano al ruolo di semplice controllore; e, soprattutto, gli indici edificatori delle aree sono stati confermati allo 0,52%, ma lo «sviluppatore» per il dopo Expo non saranno né i Cabassi - costretti a vendere a prezzi di saldo, prendere o lasciare - e neppure il Comune di Milano. Sarà il solito giro del Pirellone, una delle Regioni con il più alto tasso di inquisiti d'Italia.
La scelta obbligata di Pisapia
Quindi, anche se Boeri è l'ultimo che aveva i titoli per sollevare la questione, non aveva tutti i torti quando sostenne che Palazzo Marino, pur di non perdere i cospicui finanziamenti in arrivo da Roma per Expo, era rimasto schiacciato sulla linea di Formigoni. Il fatto che i terreni siano pubblici, infatti, non mette i milanesi al riparo dalla speculazione edilizia. Anzi. L'esborso di soldi pubblici (120 milioni, 80 alla Fondazione Fiera, 40 ai Cabassi anticipati per intero dalla Regione) impone di far fruttare al massimo quelle aree dopo l'Expo. Questo significa una cosa sola: costruire. Altro che parco agrolimentare, quello tanto caro a Boeri e soprattutto ai milanesi che per averlo hanno anche votato a larga maggioranza un referendum ambientale. E non è un caso se il giorno dopo la lavata di capo del sindaco a Boeri le mitiche serre dell'archistar siano diventate virtuali e gli orti abbiano lasciato il posto ad una più tecnologica e meno verde «Smart city».
Mentre intorno all'area di Expo stanno per partire due enormi progetti edilizi: Cascina Merlata e le torri di via Stephenson. A Cascina Merlata cooperative «bianche» e «rosse» - insieme a Banca Intesa - costruiranno a partire da questa primavera 4 mila alloggi low cost e per l'housing sociale, supermercati e quattro torri per uffici su una superifice di 127 mila mq. Un'operazione immobiliare da 1,2 miliardi di euro. In via Stephenson sono in attesa di partire i progetti di Ligresti, torri altissime che saranno ridimensionate solo grazie alle modifiche del Pgt (piano regolatore) volute dalla nuova giunta di Palazzo Marino. Il sospetto è che Expo fornirà i servizi per ciò che già adesso sta per essergli costruito intorno.
Ma il paradosso più grande è che il Comune di Milano, nonostante sia l'istituzione con le casse più vuote, debba però sborsare più di tutti per l'Expo di Formigoni (magari tagliando anche su quelle voci che sono irrinunciabili per chi Pisapia lo ha votato). Palazzo Marino deve pagare 28 milioni e mezzo e cedere una parte dei terreni comunali per avere il 36,7% di AreExpo (stessa quota della Regione) ai quali vanno aggiunti 20,4 milioni in 4 tranches per le spese di gestione. Una realtà difficile da accettare, anche perché il Comune forse avrebbe potuto tentare un'altra via: lasciare il gioco alla Regione senza sborsare un euro per i terreni e mantenere comunque l'ultima parola sulla destinazione urbanistica, visto che buona parte dell'area Expo è su territorio comunale. Il progetto originale, quello che aveva avuto anche la consulenza eminente di Carlin Petrini di Slow Food, è completamente snaturato e ridimensionato, i cantieri scontano anni di ritardo e molte strade e metropolitane connesse all'Expo non si concluderanno entro il 2015, ma il sindaco è costretto ad andare fino in fondo. E per questo sta facendo il possibile per portare a casa qualcosa di utile per la città, come, per esempio, la sistemazione della Darsena dei navigli e lavoro per i cassintegrati.
Ormai non si può fare altrimenti: questa è l'unica via percorribile per non buttare un'occasione d'oro e non lasciare a Roma i miliardi che dovrebbero arrivare per tutte le opere direttamente e indirettamente legate all'Expo. Tanto più adesso che al governo non c'è Silvio Berlusconi, e neppure Giulio Tremonti che all'esposizione universale non aveva mai creduto. Oggi ci sono i banchieri milanesi che nell'affare del mattone a Milano hanno investito moltissimo. E le banche adesso si trovano scoperte per miliardi e hanno una gran paura che prima o poi la bolla immobiliare milanese gli scoppi in faccia.
Dare un’unica "casa" alla Città della salute, il grande polo pubblico per la ricerca, prevista inizialmente al Sacco, unendola al Cerba, il maxi polo privato per la ricerca biomedica avanzata che sorgerà nel Parco agricolo Sud, su terreni di Ligresti. È questa la proposta lanciata da Guido Podestà, il presidente della Provincia durante l’inaugurazione del nuovo centro di Radioterapia avanzata, uno dei fiori all’occhiello dell’Istituto europeo di oncologia. Di fronte alla proposta di unire due centri di eccellenza come la Città della salute e il Cerba, il professor Umberto Veronesi ha replicato, con entusiasmo, «ma questo è il mio sogno». E ha spiegato: «Due poli come questi messi insieme farebbero il più potente centro di ricerca e di sviluppo oncologico del mondo. I terreni, i piani, i finanziamenti ci sono. Ma occorre che tutte le istituzioni siano d’accordo. Perché non partiamo?».
Podestà ha annunciato la proposta di fusione dei due centri, partendo dalla considerazione che «due anni e mezzo fa, una delle mie prime firme come presidente della Provincia è stata quella a favore del Cerba di Veronesi. Teoricamente oggi dovremmo annunciare quando lo inaugureremo. E invece no. Le pratiche burocratiche sono troppo lente, dobbiamo cercare di accelerarle per non intralciare l’avanzata della ricerca». Ma mentre il Cerba segna il passo, la Città della salute, che avrebbe unificato al Sacco anche il Besta e l’Istituto dei tumori, sembra più che mai incerta. Ora si parla di un trasferimento del Besta e dell’Istituto dei tumori sui terreni di Porto di Mare. «Speriamo che questa collocazione non finisca nel "porto delle nebbie"», ha incalzato Podestà arrivando così a proporre la fusione dei due mega poli, uno pubblico e l’altro privato, nel Parco agricolo Sud Milano accanto allo Ieo, «un’area già servita, con una localizzazione felice». E a proposito di questa "fusione" Veronesi si è detto favorevole: «Sono stato per vent’anni il direttore dell’Istituto dei tumori e si capisce che vedo volentieri i due poli messi insieme». E ha precisato: «Fino a quando si è parlato del progetto della Città della Salute" al Sacco l’abbiamo rispettosamente appoggiato. Pensavamo a un polo a Nord-ovest con la Città della salute, un polo a Nord-est con il San Raffaele e un polo al Sud, cioè il nostro. Poi il San Raffaele ha avuto problemi, il progetto legato al Sacco pare rischi di dissolversi e, così, noi saremmo pronti a raccogliere qui tutti i frammenti».
Ma sul destino della Città della salute sarà determinante il ruolo del Comune. Il sindaco Giuliano Pisapia, anche lui presente ieri all’Ieo, ha fatto sapere che «tra poche settimane il Piano di governo del territorio sarà esaminato in consiglio comunale, e lì valuteremo le proposte che possiamo fare per un progetto importante, come quello della Città della salute, che servirà Milano e su cui noi puntiamo molto». La discussione sull’unione dei due poli non ha comunque messo in secondo piano l’inaugurazione del nuovo centro di Radioterapia, diretto da Roberto Orecchia, dove verranno curati 4.500 pazienti l’anno. «Qui si applicano terapie mirate e meno invasive per il paziente - ha ricordato Veronesi - negli anni ‘60, quando noi teorizzavamo l’importanza dei "trattamenti minimi efficaci", eravamo considerati degli utopisti. Ma questo centro è la dimostrazione che eravamo nel giusto e la sfida l’abbiamo vinta noi».
Gira, rigira, salta, zang tumb tumb ci risiamo: mortalmente noioso come le cittadelle della moda che volevano i socialisti (del tutto ignorate dagli stilisti) si replica il copione dei presidi della salute, che in nome della Scienza indiscutibile e infallibile hanno il mandato divino di spaparanzarsi ovunque. Chi si oppone è automaticamente nemico del Progresso, dello Sviluppo, magari addirittura dell’Uomo. Unico segnale di speranza pare ancora Pisapia, che a differenza dello sviluppista Penati, a suo tempo più rapido del fulmine nel cambiare le regole del Parco Sud e far posto all’indispensabile Cerba (progettato da Stefano Boeri), dice: aspettate almeno il piano regolatore. Già, perché nessuno ha qualcosa contro la Scienza eccetera, ma contro la vivisezione del territorio in suo nome magari sì (f.b.)
Un canale che formerà anche delle darsene e si snoderà per cinque chilometri trasformando l’area espositiva in un’isola e 10mila piante che inizieranno a mettere radici quest’anno. È la scenografia di Expo, che dovrà accogliere i padiglioni e gli edifici principali del 2015 e che, ormai, è definita nei minimi dettagli. A cominciare dal verde: il piano prevede anche un giardino con specie esotiche dove nasceranno farfalle e giardini d’acqua.
I primi alberi inizieranno a mettere radici già quest’anno: sono i filari più esterni, destinati a correre lungo l’intero perimetro di quell’irregolare milione di metri quadrati di terra che sarà la cittadella di Expo, creando una barriera tra la strada e il canale, che si snoderà per cinque chilometri. Sono solo una parte delle 10mila piante di 400 specie diverse che, in totale, spunteranno tra i padiglioni del 2015. Tra pendii e gradinate, la collina mediterranea che verrà realizzata con 83mila metri cubi di terreno scavato dal canale, dove nasceranno olivi, viti e un bosco da visitare seguendo un sentiero di un chilometro, aree da picnic immaginate come aiuole di ortaggi e erbe aromatiche con tanto di pergolati e frutteti, giardini d’acqua e uno delle farfalle, dove l’intenzione è proprio quella di "allevare" bruchi.
Sono i segreti del progetto di Expo, quelli svelati dai dettagli della gara più importante del dossier: è il bando arrivato al suo primo traguardo (domani scade la fase della prequalifica, il 15 maggio toccherà alle offerte dei candidati rimasti in corsa) che serve a cercare chi realizzerà l’ossatura del sito espositivo: da tutti gli impianti ai percorsi verdi, appunto, da quelli d’acqua ai due viali principali alle piazze, dalle tende che ripareranno i visitatori all’ingresso che li condurrà dalla fermata della metropolitana ai tornelli. Lavori che, in tutto, valgono 270 milioni di euro e che inizieranno tra giugno e luglio.
Si parte dai tanti spazi d’acqua come il canale: è uno degli elementi cardine del progetto e, comprese diverse darsene che verranno realizzate, avrà una lunghezza di cinque chilometri e la forma di un "8". Alcune sponde saranno costruite a gradoni per permettere alla gente di sedere e riposare e sono previsti giochi d’acqua e 32 ponti per attraversare questo piccolo fiume che è concepito come parte integrante del Villoresi. Il progetto prevede anche undici vasche di "fitodepurazione" che serviranno per ripulire le acque piovane. Dedicata all’acqua anche la piazza principale, la "lake arena": uno specchio di 86 metri di diametro, circondato da 102 alberi, con una fontana ornamentale al centro e uno spazio in grado di accogliere 28mila persone.
È lì accanto che verrà creato il giardino delle farfalle, anche con specie esotiche. Il progetto si spinge a descrivere i minimi dettagli, come i materiali della pavimentazione del cardo e del decumano, i viali principali: ci saranno materiali di sei colori diversi, dal rosso corallo al giallo oro, fino al grigio e al bianco del marmo. Chi si aggiudicherà i lavori dovrà pensare anche a tutte le vie interne, comprese quelle dedicate ai mezzi di servizio, dove sarà previsto anche un sistema di trasporto degli ospiti su auto elettriche. Grande importanza è riservata all’ingresso Ovest, quello pedonale che collegherà il metrò con l’area espositiva, con tanto di camminamento protetto da una barriera di vetro. A Est, invece, arriveranno le auto e, si stima, un flusso che raggiungerà il 40 per cento dei visitatori.
Un intero complesso residenziale con quattro palazzi alti nove piani, con strutture portanti interamente realizzate in legno, sarà pronto in 14 mesi in via Cenni, vicino al parco di Trenno. Sarà il più grande intervento di questo genere in Europa, ma sarà anche il primo quartiere di housing sociale di Milano voluto da Regione e Fondazione Cariplo. Nei palazzi - costruiti secondo le più moderne tecniche importate anche dal Giappone, con criteri antisismici e antincendio - ci saranno 124 alloggi, destinati in maggioranza all’affitto a canone calmierato ma anche in parte all’acquisto. «Il 2012 sarà l’anno dell’housing sociale a Milano, progetto al quale stiamo lavorando da tempo. Presto apriranno altri cantieri», ha detto Giuseppe Guzzetti, presidente di Fondazione Cariplo. L’intervento su un’area di 17mila metri quadrati sarà realizzato da Polaris investment su progetto dell’architetto Fabrizio Rossi Prodi, che ha vinto un concorso internazionale indetto dalla Fondazione housing sociale
La Repubblica Milano
Le autostrade della bicicletta
di Alessia Gallione
Un tempo, a disegnare la Milano delle due ruote, c’erano i Raggi verdi: itinerari che, dal centro, avrebbero raggiunto la periferia. Una concezione «radiale», quella dei vecchi Raggi verdi, che il nuovo Pgt dice di voler superare. Progettando una rete di piste ciclabili capillare. Che assume anche altri colori, usati come nomi in codice per definire i tracciati immaginati: dai Raggi rossi come quelli destinati a nascere a Porta Venezia e lungo il Naviglio della Martesana, agli Anelli blu che correranno lungo le tre cerchie dei Bastioni, dei Navigli e della 90/91. fino alle Linee gialle, che dovranno cucire alcuni di questi percorsi principali e che si svilupperanno lungo strade come via Washington o i grandi viali come Corsica, Umbria o Tunisia. Con un obiettivo: far sì che la bicicletta venga utilizzata sempre più come un mezzo di trasporto alternativo e che i chilometri di piste salgano dagli attuali 130 ad almeno 200.
È un studio fatto da Amat, quello contenuto nel Pgt. La filosofia è spiegata nelle risposte del Comune ad alcune delle oltre 2mila osservazioni accolte, che hanno permesso all’amministrazione di modificare il documento urbanistico. Tra le maggiori richieste, infatti, accanto alle decine che invocavano la cancellazione del tunnel Expo-Linate, la diminuzione delle previsioni degli abitanti e delle volumetrie, ci sono anche le invocazioni ad aumentare i percorsi per le due ruote. Come a Porta Venezia, dove un cittadino chiede una pista che colleghi Loreto a San Babila: viene fatta propria dal Pgt anche in nome dei quesiti referendari. Proprio quel tracciato che i tecnici ormai definiscono come la nuova "autostrada" delle biciclette, visto che molti lo percorrono per arrivare in centro. Le future azioni immaginate da Palazzo Marino partono dall’analisi degli spostamenti attuali: in una città ancora dominata dall’auto, che rimane il mezzo di trasporto più utilizzato (copre il 42,4% dei tragitti), quelli in bici rappresentano il 3,8% del totale.
L’obiettivo, nella città del 2030, è di arrivare per quelli interni al 15%. Un traguardo che viene ritenuto raggiungibile visto che, è la premessa, anche i city users «hanno mostrato interesse e disponibilità a cambiare le proprie abitudini per recarsi al lavoro o sul luogo di studio». Ed è proprio per migliorare la mobilità «casa-lavoro» e «casa-scuola», che la rete delle piste è stata ridisegnata in modo più puntuale. Con collegamenti definiti «diretti» e, soprattutto, non soltanto pensati lungo i vecchi Raggi verdi. Certo, le vie radiali rimangono. Anche se, ormai, sono stati riviste e, a definire i nuovi percorsi meglio definiti, adesso ci sono i "Raggi rossi": sono le direttrici che dal centro collegano la periferia. E, solo per citare alcuni esempi, correranno lungo Melchiorre Gioia-Naviglio della Martesana, lungo il Naviglio Grande, lungo Zara-Testi o, appunto, Porta Venezia.
Per capire la nuova programmazione, però, bisogna immaginare anche altre piste, quelle che si svilupperanno lungo le direttrici rappresentate dalle tre cerchie concentriche. Sono definite Anelli blu, come quello che seguirà i Bastioni. Per coprire il più possibile la città, vengono aggiunte le Linee gialle, che serviranno a realizzare diversi punti di interesse. La mappa prevede, tra le altre, la linea che seguirà i viali che portano il nome dell’Umbria o della Corsica, e un’altra direttrice come via Washington. Ma dove verranno trovati i soldi? I tracciati, si dice, potranno essere finanziati anche con gli oneri di urbanizzazione dei vari progetti in corso. In una città che pedala, il Comune promette anche di aumentare il numero delle rastrelliere, costruire «grandi bicistazioni dove gli utenti possano trovare - in corrispondenza delle stazioni ferroviarie - un parcheggio più sicuro, assistenza, informazione e noleggio». Infine, nel regolamento edilizio si propone di affrontare il capitolo degli spazi per parcheggiare bici nei palazzi che verranno costruiti e dell’accessibilità negli spazi pubblici.
Corriere della Sera
Se pedalare a Milano diventa un pericolo per le donne
di Isabella Bossi Fedrigotti
Le signore di Milano, quelle che in numero sempre crescente e in grande maggioranza rispetto agli uomini vanno in bicicletta per fare la spesa, portare i bambini a scuola o raggiungere il lavoro, e che pedalano perché l'automobile la usa l'uomo di casa, perché sulle due ruote si arriva più in fretta senza l'incubo del parcheggio, perché un po' di moto fa bene o perché sono del tipo doverista e vorrebbero che Milano diventasse una città meno trafficata e meno inquinata, non sono più sicure di poter restare fedeli al loro mezzo di trasporto.
Gli incidenti già c'erano, con cadenza quasi regolare, che han visto falciare ciclisti giovani e meno giovani, e la colpa era quasi sempre del traffico troppo intenso e della corrispondente assenza di piste ciclabili. Ora è arrivato anche lo scippo in pieno centro grazie al quale una di queste signore che, con un certo disprezzo, vengono spesso definite (da chi di solito va in automobile) «sciure» o, peggio «sciurete», sta tra la vita e la morte. Non che scippare le cicliste sia una novità: è, anzi, lunghissima la lista di chi si è vista sottrarre la borsetta dal cestino mentre pedalava, ma l'incidente dell'altro ieri sera in piazza della Repubblica fa la differenza perché evidenzia il fatto che pedalando si è comunque in pericolo e che vita o morte dipendono da quasi nulla, da un abbordaggio un po' più brutale, da un gesto dello scippatore più o meno brusco.
Né i tempi promettono, purtroppo, meno violenza nell'immediato futuro. La crisi economica eventualmente scatena, infatti, anche i principianti, nuovi malviventi senza curriculum, senza esperienza, incapaci di misurare i rischi che comporta uno «strappo» in motorino ai danni di un pedone o di un ciclista e, dunque, precipitosi e rozzi, con le conseguenze che abbiamo visto l'altra sera. Ma si è anche visto, ancora una volta, che, dopo gli anziani, sono le donne che nelle strade e nelle piazze corrono i rischi maggiori. Ed è ovvio che, più sono coraggiose, più sono decise, più lavorano sodo fuori casa, anche di sera tardi, più sono in pericolo. L'ex sesso debole, insomma, quello che, almeno in teoria, fa così tanta paura agli uomini, che fa loro dura concorrenza in sempre più numerosi campi, assai più di loro resta comunque vulnerabile.
Perché non è soltanto una questione di bicicletta. Anche le signore meno coraggiose, che mai pedalerebbero la sera nel traffico, che, quando vanno a piedi, rasentano i muri lungo i marciapiedi, o che viaggiano sui mezzi pubblici, non possono stare così tranquille. Passino il tram oppure l'autobus, dove per lo meno c'è un autista, ma perché una ragazza o signora si decida a scendere nei corridoi della metropolitana dopo una certa ora, deve proprio non avere altra scelta. Paradossalmente, il mezzo che fa sentire le donne più protette resta l'automobile, della quale gli amministratori vorrebbero il più possibile liberarsi. Conviene forse che lo tengano presente nelle loro politiche tese a disincentivarne l'uso, perché la sicurezza passa prima dei problemi di traffico e molto prima di quello delle polveri sottili.
C’è un aspetto che qui voglio deliberatamente trascurare, ed è quello pur essenziale dei comportamenti: la signora violentemente scippata di cui parla Isabella Bossi Fedrigotti, teneva in bella vista sul cestino la borsetta, e in quanto ciclista urbana abituale probabilmente si rendeva conto di correre un rischio, sino a che punto? Sino a che punto, cioè, nella metropoli contemporanea sono leciti e praticabili (chiedendo poi a gran voce interventi sulla sicurezza) comportamenti come quelli di chi ad esempio attraversa certi quartieri ostentando auto di lusso e orologi d’oro massiccio penzolanti dal finestrino aperto?
Si tratta però, appunto, di tema di per sé complicatissimo, e accantoniamolo momentaneamente. Resta il rapporto fra la scelta apparentemente “minimalista” degli interventi sulla ciclabilità, e l’idea complessiva di spazio urbano, sicurezza, composizione funzionale, e conseguenti scelte urbanistiche (quelle relative alle regole generali sullo spazio fisico, per distinguerle dal resto). Ci si muove per andare da un posto all’altro, attraversando altri spazi: cosa c’è là dentro? Perché e come ci si muove? Non sono domande banali, perché esistono differenze radicali fra lo spazio di un quartiere misto, quello di una zona ad elevata specializzazione, la classica zona a monocoltura residenziale, e poi il momento della giornata in cui avviene lo spostamento.
Sta nella consapevolezza reale di tutte questa varianti, l’idea di città condivisa, e non nei confusi aneliti alla metropoli “a misura d’uomo” che quasi sempre nasconde stereotipi campati per aria, che siano gli spazi di eccellenza per pochi super protetti (la declinazione preferita del centrodestra securitario) o l’impraticabile caricatura del centro storico che fu, cara a tanti che ahimè si credono progressisti e di sinistra. Tanto per fare un piccolo esempio: che spazio può avere in questo contesto la deregolamentazione, o profonda riorganizzazione qualsivoglia, degli orari di commercio e servizi? Lo sa anche un bambino tonto, che ci sono solo due modi per garantire la sicurezza urbana e una buona qualità spaziale, il primo è un uso continuo degli spazi, il secondo è la loro graduale militarizzazione, in un modo o nell’altro.
In definitiva, e da un punto di vista che vorrebbe stare ad anni luce di distanza da certe tragicomiche idee ampiamente praticate dal centrodestra, immaginare che la città giusta e equa, sostenibile, ciclabile, “a misura d’uomo”, possa assomigliare al piccolo borgo felice campato in aria di certi spot pubblicitari, fa venire qualche brivido. Non per paura di finire in quel modello, ma perché si tratta, che piaccia o meno, di un vicolo cieco. E che come tale, richiede … ehm, una certa vigilanza (f.b.)
«Vogliono bloccare la città riproponendo un metodo centralista e dirigista». Carlo Masseroli, capogruppo Pdl ed ex assessore all'Urbanistica, contesta la filosofia del nuovo pgt firmato dall'assessore Ada Lucia De Cesaris che arriva oggi in giunta. E il presidente della Provincia, Guido Podestà, ricorda: «Si era deciso di destinare gli oneri degli Scali ferroviari al prolungamento delle metropolitane».
«Gli obiettivi possono anche essere condivisibili, ma non sono realizzabili. E il rischio è che Milano si blocchi».
Carlo Masseroli, capogruppo del Pdl in consiglio comunale ed assessore che aveva messo la firma al Piano di governo del territorio adottato e poi revocato dalla giunta Pisapia, non vuole essere tranchant: «la piattaforma è rimasta sostanzialmente uguale e comunque siamo tutti convinti del fatto che Milano ha bisogno di regole certe perché non venga bloccato il necessario processo di sviluppo. Esamineremo il documento: ma se le premesse sono quelle anticipate dall'assessore, Milano è destinata ad arretrare». Masseroli si spiega: «Sembra si vogliano far prevalere il dirigismo tipico dei vecchi e falliti piani regolatori, il centralismo e la burocrazia. E' antistorico dal punto di vista culturale ed economico, soprattutto in un momento in cui anche il Governo centrale impone le liberalizzazioni, è sbagliato usare questo metodo».
Il nuovo provvedimento firmato dall'assessore Ada Lucia De Cesaris approda oggi in giunta e, subito dopo, comincerà l'iter in commissione prima dell'arrivo in consiglio comunale, previsto per metà febbraio. Un provvedimento che taglia gli indici edificatori (da 0,5 a 0,35), fissa un indice massimo di 1 (che, sulle aree non costruite, può essere raggiunto con premialità, anche per la realizzazione di residenza sociale), mette il Parco Sud al riparo dal cemento, abolisce il tunnel Expo-Forlanini ma conferma la Circle line, riporta il cambio di destinazione sotto il controllo del Comune e aumenta del 25 per cento l'edilizia sociale residenziale.
Masseroli insiste: «Se tieni bassi gli indici non hai plusvalenze. E allora mi devono spiegare come fanno il Parco Sud, la Circle line e le case in housing sociale». E poi, «basta con il dibattito sulla quantità di cemento, che è un approccio provinciale e ideologico al tema della gestione del territorio. Meglio il cemento di Brera che il non cemento di Porto di Mare, dico io per paradosso. Se continuiamo a mettere paletti, alla fine lavoreranno soltanto i grandi operatori che per paradosso sono i nemici contro cui si è spesso mossa la sinistra».
Ancora: «Bisogna aumentare quantità e qualità di servizi, siamo d'accordo. Il nostro Pgt indicava la strada, con un sistema di accreditamento per riconoscere chi fa servizi. Con tutto il rispetto per il tentativo fatto, come si muoverà questa giunta, in alternativa?».
La critica è di fondo: «Questo Pgt — accusa Masseroli — poggia tutto sulle spalle del pubblico. Ma il pubblico, in questa fase, non ha più un euro e il rischio è che questo piano resti un bel libro dei sogni. Spero che nella fase delle modifiche in aula potremo lavorare insieme, e sono pronto a ricredermi».
Preoccupato anche il presidente della Provincia, Guido Podestà: «Anzitutto, mi auguro che non si perda altro tempo, perché Milano ha bisogno di uno strumento di riferimento urbanistico. In particolare, poi, spero sia confermato l'impegno che avevamo concordato con il sindaco Letizia Moratti: destinare una parte degli oneri della riqualificazione degli scali ferroviari ai prolungamenti della metropolitana verso i Comuni della Provincia. È un intervento necessario per la battaglia all'inquinamento e al traffico».
Preoccupato il capogruppo leghista in Comune, Matteo Salvini: «La battaglia sul cemento l'abbiamo fatta noi, dai banchi della maggioranza, ed è per merito nostro che l'ippodromo è rimasto ippodromo. Ma ci vuole buon senso e il timore è che la sinistra abbia estremizzato questo tema, bloccando di fatto Milano e allontanando tutti gli operatori, che qui non potranno più costruire. Quando si ferma una città, si rischia di perdere migliaia di posti di lavoro».
L'ex presidente del consiglio comunale, Manfredi Palmeri (Fli) ricorda: «Non votai il precedente Pgt perché volevo venissero tutelate le osservazioni dei cittadini. Ma con Pisapia non è cambiato molto: si finge di ascoltare la città ma si impedisce di fare nuove osservazioni pescando fra quelle vecchie le più gradite alla sinistra: è un privilegio della giunta e della maggioranza contro i cittadini, che possono essere solo spettatori».
Meno palazzi e abitanti il nuovo Pgt di Pisapia dimezza le costruzioni
di Oriana Liso
Oltre 5mila osservazioni esaminate una per una, per decidere quali accogliere del tutto o in parte e quali respingere: un lavoro che ora confluisce nella delibera che disegna il nuovo Piano di governo del territorio, il Pgt, profondamente modificato rispetto a quello approvato durante il mandato del sindaco Moratti. Modifiche nette: il nuovo strumento urbanistico dimezza i metri cubi di cemento di nuove costruzioni, grazie alla sensibile riduzione degli indici di edificabilità e, soprattutto, alla cancellazione della possibilità di utilizzare il Parco Sud come virtuale terreno di scambio per nuove volumetrie. Una rivoluzione, insomma, che ora dovrà affrontare l’iter di approvazione: lunedì arriverà in giunta il documento di modifica del Pgt, per poi passare in commissione Urbanistica e - a metà febbraio, se saranno rispettate le previsioni - in Consiglio comunale per la discussione definitiva, che si prospetta già accesa e che dovrebbe portare all’approvazione definitiva entro fine anno.
Un primo dato: le osservazioni di enti, associazioni e cittadini accolte nella precedente versione del piano arrivavano all’8 per cento delle 4.765 totali (diventate poi 5.400 in virtù di una diversa catalogazione di alcune). Il gruppo di lavoro messo assieme dall’assessore all’Urbanistica Ada Lucia de Cesaris, invece, ne ha recepite oltre il 40 per cento, tra osservazioni generali e riferite a specifici ambiti di trasformazione del territorio. È proprio attraverso l’accoglimento di molte di queste osservazioni che si arriva al secondo dato, concretissimo: la superficie massima consentita di nuove costruzioni nei nuovi quartieri è più che dimezzata, rispetto alle vecchie previsioni, passando da quasi 5 milioni e 800mila metri quadri a 2 milioni e 800mila: di questi, oltre 2 milioni e 400mila metri quadri "scompaiono" proprio grazie all’eliminazione del concetto di perequazione con il Parco Sud tanto caro all’ex assessore Carlo Masseroli. Diminuiscono anche gli "Atu", gli ambiti di trasformazione urbana, ovvero quelle aree dismesse o sottoutilizzate all’interno della città che già esiste, altre zone (come gli ex scali ferroviari) seguono un diverso destino con l’accordo di programma con Fs e, ancora, altri ambiti (Expo, Cascina Merlata) vengono "sottratti" e inseriti in un regime transitorio a parte. Risultato: calano anche sensibilmente - nel piano che presenterà De Cesaris - i nuovi abitanti teorici degli "Atu" e di quattro ambiti di trasformazione periurbana: da quasi 100mila a poco meno di 31mila.
Ogni ipotesi di modifica, comunque, dovrà passare dal Consiglio comunale. Commenta il papà del vecchio Pgt, Masseroli: «Bisogna fare in fretta, l’assenza di regole attuali è la situazione peggiore. Ma chiedo: quale sarà il metodo di lavoro? Le modifiche potrebbero essere così radicali da obbligare a ripartire da zero. E, se stiamo alle promesse di questa giunta, le osservazioni andranno discusse tutte in aula». Dà fiducia al lavoro dell’assessore e degli urbanisti del Pim Legambiente Lombardia. Il presidente Damiano Di Simine si aspetta che «le modifiche derivanti dall’esame delle osservazioni apportino rilevanti miglioramenti al Pgt: ora la palla passa alle forze politiche, chiamate ad esprimersi in tempi ragionevoli».
L’appello anticrisi di Rosati alla giunta "Usate la riforma per aiutare il lavoro"
di Luca De Vito
Il pgt come strumento per rilanciare il mercato del lavoro in città. Uno dei temi caldi, tra quelli che verranno presentati oggi nell’incontro tra i sindacati e l’assessore al bilancio Bruno Tabacci, riguarda il Piano di governo del territorio e la possibilità di utilizzarlo come volano per la ripresa dell’occupazione. «Con il Pgt - ha spiegato Onorio Rosati, segretario della Camera del lavoro - si devono creare le condizioni per cui alcune aree vengano destinate a insediamenti produttivi del manifatturiero». Territorio cittadino che, attraverso opportuni incentivi, possa trasformarsi in spazi appetibili per la produzione industriale. «Se non riparte il settore artigianale - ha aggiunto Rosati - non riparte nulla e non riusciamo a dare una risposta occupazionale né ai lavoratori dell’industria, né degli altri settori».
Il segretario Cgil punta il dito anche contro la speculazione sui terreni e chiede al Comune di pensare a un sistema di disincentivi per quegli imprenditori che, per poter sfruttare il valore elevato delle aree, «arrivano a delocalizzare la produzione».
Nel bouquet di richieste che i sindacati faranno oggi a Tabacci, non c’è solo l’attenzione sul Pgt. Ci sono anche l’apertura di un tavolo istituzionale sulla situazione economica e il rifinanziamento del fondo anticrisi. Per la Cgil sono due temi da affrontare con urgenza, anche alla luce degli ultimi dati sul mercato del lavoro in città e provincia. Oltre ai 25mila lavoratori a rischio licenziamento, ci sono infatti 13mila persone che, tra il 2010 e il 2011, sono usciti dalle liste di mobilità senza riuscire a trovare un’occupazione. Ex lavoratori che non hanno avuto un reinserimento e che ad oggi, nella maggior parte dei casi, non hanno alcun tipo di reddito. A delineare un quadro ancora più cupo, poi, c’è anche il tasso di disoccupazione, stimato intorno al 5,9 per cento. Un dato che se riferito ai giovani arriva al 20% in provincia e al 22% in città.
L’intervento istituzionale, secondo i sindacati, non è più rinviabile. «Dal 1998 la Provincia ha in mano tutte le competenze per il mercato del lavoro - ha polemizzato Rosati - nonostante la piena crisi, l’apposita commissione non è stata rinnovata, è scaduta e non si riunisce: noi continuiamo a chiedere ma su questo fronte stiamo registrando un vuoto assoluto». Anche a livello regionale, poi, ci sarà da muoversi, e in fretta. «Il 2012 è l’ultimo anno della cassa integrazione in deroga che viene accordata da Regione Lombardia, uno strumento fondamentale che ha sostenuto il reddito delle famiglie in questi anni. Non è pensabile adesso perderla senza avere altre forme di tutela per i lavoratori».
I vincoli alla crescita del cemento per disegnare la Milano del futuro
di Oriana Liso
Accordi da trovare con Fs e Regione per convertire scali e vecchie stazioni
Milano-Romana, Rogoredo, Porta Genova, scalo Farini, San Cristoforo, Lambrate: sono tanti gli scali ferroviari su cui il vecchio Pgt prevedeva grandi sviluppi. Che, ora, vengono invece demandati all’accordo di programma in via di definizione tra Ferrovie dello Stato, Regione e Comune. Le aree di cui si tratta mettono assieme una superficie di un milione e 190mila metri quadrati su cui - nei vecchi progetti - erano previsti vari interventi: dal parco urbano di Scalo Romana con pista ciclo-pedonale e collegamento pedonale tra la stazione Lodi Tibb e la fermata omonima del metrò 3, al distretto della moda con parco sul Naviglio a Porta Genova, passando per edilizia convenzionata e residenziale ma anche un grande parco allo Scalo Farini su un’area di 500mila metri quadrati.
Addio al maxi-tunnel da Linate a Rho resiste la circle line delle ferrovie
Lo stop definitivo al tunnel che avrebbe dovuto collegare Linate alla fiera di Rho viene certificato nella nuova versione del piano. Ma non solo: scompariranno anche altre infrastrutture considerate non sostenibili, sia dal punto di vista ambientale che economico. Restano di certo - pur demandando al futuro Piano urbano della mobilità i dettagli - le previsioni di infrastrutture strategiche, ad esempio la Circle line, la cerchia ferroviaria che seguirà i contorni della città (e che invece sembrava destinata a sparire), le metropolitane 4 e 5 - anche se con tempi ormai dilatati - e la metrotranvia da Cascina Gobba a viale Certosa. Modifiche saranno previste anche per la sosta pubblica e privata, e si rivedrà la rete ciclabile «superando lo schema radiocentrico proposto» dal vecchio piano.
Spuntano i corridoi ecologici per collegare parchi e giardini
Se il Parco Sud, nella nuova versione del Pgt, resta verde anche virtualmente (perché non viene più usato come merce di scambio per costruire altrove), aumenta anche la previsione di una Milano a miglior impatto ambientale. Soprattutto, la delibera di modifica del Pgt accoglie le osservazioni di chi, come molte associazioni ambientaliste, lamentavano una scarsa attenzione alle connessioni del verde cittadino con i sistemi provinciale e regionale. Per questo si introduce il progetto di una rete ecologica comunale (Rec) con corridoi verdi che mettano a sistema grandi e piccoli parchi urbani. Importante anche l’attenzione all’efficienza energetica degli edifici (da costruire e da recuperare, con premi volumetrici per chi è virtuoso) e l’introduzione di norme specifiche per la bonifica dei suoli contaminati.
Più housing sociale per le fasce deboli le case low cost sul 30% dei terreni
Un vincolo netto, che risponde anche alle promesse di questa coalizione in campagna elettorale e che supera gli aggiustamenti fatti sul vecchio piano grazie alla battaglia in aula consiliare. Il nuovo Pgt fissa un incremento delle quote di terreno che i privati dovranno cedere per finalità pubbliche negli ambiti di trasformazione urbana, in cambio della possibilità di costruire: metà della superficie territoriale, e di questa il 30 per cento servirà per edilizia residenziale sociale. Previsioni di housing sociale, poi, dovranno esserci in tutte le trasformazioni più rilevanti dei prossimi anni, articolando gli interventi su due fronti: edilizia agevolata e convenzionata e vere case popolari. Il documento di indirizzo del nuovo piano, del resto, è preciso: tra le finalità c’è il «bilanciamento tra diritti edificatori per funzioni di mercato e per finalità di interesse pubblico e sociale»
I nuovi quartieri
Scendono a 21 grattacieli in dubbio a Stephenson
Alla base del nuovo Pgt targato Pisapia-De Cesaris c’è il concetto della promozione di uno sviluppo urbano più equilibrato. Scompaiono, quindi, le previsioni di colate di cemento su alcune aree collocate nel territorio agricolo (Forlanini, Ronchetto, Monluè, Porto di Mare). Non si parla più della possibilità di spostare il carcere di San Vittore, creando una Cittadella della giustizia, ormai tramontata. Diminuisce sensibilmente l’indice edificabile massimo previsto su alcune aree di trasformazione urbanistica che diventano 21, mentre nell’ultima versione erano 24. Nella mappa che lunedì verrà sottoposta alla giunta, sembra scomparire anche il grande progetto della "Defense milanese" nell’area di via Stephenson, che prevedeva la possibilità di costruire in quella zona fino a 50 grattacieli di un nuovo business district
la Repubblica
Alberi, ponte mobile e isola pedonale: la Darsena rinasce e si collega a Expo
di Laura Fugnoli
L’Expo parte dalla Darsena, con le sue acque, ora scarse e putride, prossime a riprendere antichi splendori. I lavori di riqualificazione del porto di Milano partiranno tra la fine di quest’anno e l’inizio del 2013 quando, contestualmente, verrà realizzato il progetto delle vie d’acqua per collegare il centro con il villaggio Expo: un intervento che garantirà, secondo le parole dell’amministratore delegato di Expo Giuseppe Sala, «l’avvicinamento dei milanesi alla "mobilità dolce", con 21 chilometri di pista ciclabile dal centro al villaggio dell’Esposizione universale, ripristino dei canali fino al Villoresi e verde attrezzato in tutta la cintura ovest della città».
Sul piatto 175 milioni di investimenti, di cui 160 a capitale pubblico attraverso Expo Spa e 15 garantiti da soggetti privati. Sul totale, sono 17 i milioni riservati al maquillage della Darsena, ben 9 in meno rispetto al progetto di partenza: «Vorrà dire che sfrutteremo meglio il granito preesistente e rinunceremo alla sistemazione completa di piazzale Cantore» spiega Edoardo Guazzoni, uno degli architetti coinvolti nel progetto, mentre il sindaco Giuliano Pisapia assicura che, «pur con le limitazioni di bilancio, le parti fondamentali del progetto saranno mantenute».
L’area tra Cantore e piazza XXIV Maggio è destinata dunque ad una vera rivoluzione urbanistica. Verranno ripavimentati l’ingresso dell’approdo occidentale e il Belvedere alla Darsena da piazzale Cantore, con l’aggiunta di un ponte tra le due sponde. Parte dei reperti archeologici affiorati nei decenni (pezzi di mura spagnole, per lo più) verranno messi sotto teca, a disposizione dei passanti. Una promenade costeggerà viale Gabriele D’Annunzio con un ampliamento della banchina destinata a manifestazioni e spettacoli.
La sponda meridionale, quella di viale Gorizia, verrà ampliata e alberata, mentre il collegamento con la sponda opposta verrà garantito da un ponte mobile all’altezza della confluenza col Naviglio Grande. L’intervento più consistente riguarderà piazza XXIV Maggio, parzialmente pedonalizzata e abbellita da uno specchio d’acqua grazie alla riapertura del Ticinello sotto la porta neoclassica del Cagnola. Complessivamente le banchine verranno abbassate, mentre elementi conservativi lungo le mura spagnole e l’innalzamento di pareti in mattoni separeranno il bacino da via D’Annunzio, sulla falsa riga di quello che accade a Parigi lungo la Senna:
«Vorremmo ricostruire il senso di un luogo separato - spiega l’architetto Sandro Rossi, coprogettista - per tenere la Darsena lontana dalla concitazione della vita urbana».
I bandi partiranno a giugno «e nel 2014 la Darsena sarà visibile e vivibile, una sorta di lascito di Expo per tutti i milanesi» afferma il sindaco, rammaricandosi di «troppi anni di violenza urbanistica, tra progetti di parcheggi rimasti sulla carta, degrado e sporcizia». C’è voluto l’appuntamento del 2015 per sbloccare un’incuria durata per decenni.
Corriere della Sera
Rinasce la Darsena in stile Expo: verde e piste per bici
di Elisabetta Soglio
Ci voleva Expo, per riqualificare Navigli e Darsena. Grazie ai 175 milioni di euro già stanziati (altri 15 arriveranno dai privati), infatti, il complesso intervento verrà realizzato all'interno del programma delle vie d'acqua, che resterà in eredità a Milano. Come ha spiegato il sindaco Giuliano Pisapia, «per anni questa zona è stata oggetto di violenza urbanistica col risultato che uno dei luoghi più belli di Milano è diventato degradato, sporco, invivibile». I lavori, sulla base del progetto firmato dagli architetti Jean Francois Bodin, Edoardo Guazzoni, Paolo Rizzatto e Sandro Rossi, rivisto per rispettare le nuove esigenze di Expo, partiranno all'inizio del 2013 (il bando sarà lanciato entro giugno prossimo) e si concluderanno entro dicembre 2014. Il disegno di questi 800 ettari di parco lineare sarà presentato il 5 febbraio prossimo, durante un grande evento al Teatro Dal Verme.
L'ad di Expo, Giuseppe Sala, ha spiegato che l'operazione delle Vie d'acqua, inserita nel masterplan di Expo, si articola su tre voci: i canali e l'acqua; i percorsi ciclabili; il verde agricolo e attrezzato. «Vogliamo valorizzare le risorse che Milano già possiede, partendo dall'elemento dell'acqua che è matrice del territorio milanese e lombardo». Ecco dunque un canale di circa 20 chilometri che porterà acqua dal Villoresi (nel comune di Garbagnate) fino al sito di Expo e da qui alle aree agricole e al sistema dei parchi dell'Ovest milanese, il Parco di Trenno, Bosco in Città e Parco della Cave, per finire nel Naviglio Grande.
Chi ama la bicicletta, potrà spostarsi lungo un percorso che partirà dalla Darsena, seguirà il Naviglio Grande fino a San Cristoforo, attraverserà il Giambellino, si snoderà lungo i parchi della zona. Sopra Trenno la pista si biforca: la parte di destra attraversa il quartiere del Gallaratese per arrivare nel sito di Expo attraverso cascina Merlata; la parte di sinistra volterà invece verso Pero per raggiungere l'accesso ovest della Fiera.
E la Darsena? È prevista una nuova pavimentazione per l'ingresso e il Belvedere da piazza generale Cantore. Sulla sponda settentrionale, verrà ampliata la passeggiata lungo il lato che costeggia viale Gabriele D'Annunzio; sulla sponda meridionale, anche questa risistemata, compariranno nuovi alberi e un ponte mobile alla confluenza con il Naviglio Grande.
Infine, piazza XXIV Maggio sarà trasformata in un nuovo specchio di acqua, con la riapertura parziale del Ticinello sotto la porta neoclassica del Cagnola. L'intero progetto di riqualificazione della Darsena sarà pagato da Expo: circa 17 milioni di euro.
Come nel film. Quando Roberto Benigni e Massimo Troisi aprirono il portone di casa e si ritrovarono nel Medioevo. Ecco, la famosa pellicola, potrebbe essere stata girata qui, a Borgo Vione, che riprende la sua storia di oltre mille anni dopo un periodo di abbandono. Un agiato rifugio scelto da chi vuole cambiare vita nel nome della sicurezza e del comfort. A 15 chilometri da Milano. L'ultimo nato della sempre più numerosa famiglia delle gated community. Centoquarantasei appartamenti chiusi da cancelli, a 500 metri da Milano 3. Vigilanza, telecamere sul muro di cinta e sensori elettronici antintrusione.
Borgo Vione, che fa parte del gruppo Vedani, è stato inaugurato la scorsa settimana, con la consegna delle chiavi, a medici, avvocati, manager. Età compresa tra i 35 e i 50 anni, tutti con famiglia, quasi tutti con bambini. I prezzi? Da 3.800 euro al metro quadro per ville che vanno dagli 80 ai 300 metri quadrati. E poi le spese condominiali: vigilantes, giardinieri, custodi. «Ma Vione — come sottolinea Stefano Fierro, responsabile alle vendite — è stato ristrutturato con la tutela della Soprintendenza ai beni culturali».
«Quello della sicurezza — spiega l'architetto urbanista Paolo Caputo — è un sentimento diffuso a tutti i livelli. Dalle case popolari in su, fino ad arrivare a palazzine con sistemi di sicurezza tra i più sofisticati e portineria 24 ore su 24. Come da modello newyorkese. In città, pur nella sicurezza, c'è un senso di non esclusività nell'incontro di persone e di eventi poco simpatici. Fuori porta, invece, la casa è intesa come club house all'interno della quale ci trovi piscina, palestra, tutto. Quella delle gated community, poi, si è aggiunta al marketing e incrocia queste aspettative».
Come il Borgo Viscontina, a Vigevano. Altra community con l'edilizia progettata in luogo sicuro. Sessanta loft singoli per ville di prestigio e 16 appartamenti in villa, inseriti in un parco nel centro del residence. Il motto? «Ritrovare il piacere antico di incontrarsi con gente conosciuta in un borgo a dimensione d'uomo».
In modo diverso, ma con la stessa filosofia, è City Life, il progetto di riqualificazione del quartiere della Fiera, nel polo di Rho-Pero, che ha tenuto conto della qualità della vita degli abitanti, con la più grande area pedonale di Milano, dove la circolazione di auto e i parcheggi sono esclusivamente ai piani interrati. Con un parco di 60 mila metri quadrati.
«Le gated community — spiega la sociologa Francesca Zajczyk — sono un fenomeno Usa. Chi vi abita ricerca sicurezza, ma vuole anche riconoscersi con i pari grado, in una sorta di individualismo collettivo. È in pratica un escludersi dalla vita collettiva urbana. Spesso la motivazione di sicurezza è solo un alibi. Gated community vuole dire stare dentro a una comunità chiusa verso l'esterno. Gli adulti, comunque, per motivi di lavoro o d'altro, incontreranno momenti di aggregazione all'esterno. Per i più piccoli, invece, potrebbe essere più difficile e molto preoccupante».
Una piccola premessa: non è affatto divertente dover scriverle, queste note agli articoli dei giornali, specie quando servono a solo a ribadire cose già dette e ridette, segno che purtroppo si è parlato per niente. Innanzitutto, il tema della gated community in Italia per ora praticamente non esiste, oppure, in alternativa, la gated community così come se ne parla esiste da decenni (il Villaggio Brugherio è degli anni ’60, Milano San Felice quasi contemporanea ne ha tutta la struttura, ecc.). Sul caso specifico di Cascina Vione ci si è già soffermati anche su queste pagine: è una emergenza di carattere culturale, anche piuttosto estrema, ma se si fa la tara del linguaggio fascistoide della promozione immobiliare, gli aspetti fisico-spaziali in realtà non vanno molto oltre un portone chiuso.
È certo però che se gli approcci continuano ad essere così generici, a mescolare a minestrone intenzioni e cose diversissime, singoli edifici, quartieri, complessi, localizzazioni urbane e suburbane, non si va da nessuna parte, o meglio si lascia la gated community magari avanzare strisciante, all’italiana, tutti pronti a dire fra una decina d’anni: “ma noi non potevamo sapere” (f.b.)
Ringrazio Gianni Biondillo per la sua lettera, che ho letto con attenzione e interesse, sulla riqualificazione dell'area ex Enel e, più in generale, sulla qualità della progettazione urbana. Per quanto riguarda l'area di via Procaccini non posso non ricordare che il relativo piano di riqualificazione è stato approvato dal consiglio comunale praticamente all'unanimità.
Una condivisione da parte dei consiglieri eletti dai cittadini che certamente non può essere ignorata. Nel corso dell'iter di approvazione non vi è stata alcuna osservazione da parte di cittadini o da parte di associazioni, malgrado l'espressa possibilità prevista dalla legge. L'intervento riguarda un'area di 31 mila metri quadri (dove ci sono molti edifici degradati o in totale abbandono) e prevede non solo la conservazione di tutto ciò che ha valore storico ma anche la sede, nell'edificio liberty, dell'Associazione per il disegno industriale (Adi) e del Museo del Design, dove sarà esposta la collezione del Compasso d'Oro.
È già anche iniziata un'importante opera di bonifica dell'amianto e sono previste due grandi piazze alberate, spazi verdi e parchi giochi per i bambini. È ben difficile, quindi, pensare che quel luogo possa diventare «un luogo di desolazione», tanto è vero che una partecipata assemblea di cittadini ne ha dato una valutazione positiva. Condivisibile è, invece, quello che mi pare il punto centrale della riflessione di Biondillo e cioè la valutazione complessiva della progettazione e degli interventi urbanistici, compresa la necessità di un impegno comune di tutti i soggetti in campo.
Non a caso nella lettera si fa riferimento a molti attori, tra i quali i docenti del Politecnico e le imprese di costruzioni, che possono contribuire a trovare soluzioni, anche innovative, per il domani di Milano. Il tutto, naturalmente, nel rispetto delle norme e delle competenze di ciascuno perché il ruolo di un amministratore pubblico è limitato dalle leggi (basti pensare che in questo momento non è possibile imporre concorsi internazionali su aree private). Anche per questo la giunta ha preso la decisione, difficile ma coraggiosa (prevista dal programma della coalizione oggi al governo della città) di non pubblicare il Piano di governo del Territorio varato dalla precedente Amministrazione, che era stato approvato senza considerare e valutare le migliaia di osservazioni pervenute da cittadini e associazioni.
E, nel contempo, la giunta ha anche rivalutato tutti gli interventi in corso, dopo aver ascoltato le zone, per migliorare sia la qualità che i servizi. Tra i numerosi interventi per rendere più bella e vivibile la città, mi limito a ricordare la decisione di abbattere, dopo vent'anni di inerzia, l'ecomostro di Ponte Lambro.
Quanto fatto in questi mesi dimostra che non subiamo, e non abbiamo alcuna intenzione di subire, scelte altrui, ma che ci stiamo impegnando per realizzare una Milano migliore per noi e per i nostri figli.
Gentilissimo sindaco Pisapia,
esattamente di fronte a uno dei nostri monumenti più insigni, il Cimitero monumentale, ai margini di uno dei quartieri dove il palinsesto urbano ha lasciato più e più segni negli ultimi due secoli, un progetto di riedificazione dell'area, dopo un lungo iter burocratico iniziato sotto l'amministrazione che l'ha preceduta, in questi giorni ha avuto da parte di questa giunta comunale il placet alla sua realizzazione. Quel progetto è semplicemente scandaloso.
Il lotto attualmente occupato dall'edificio storico dell'Enel, che ha una qualità storico-architettonica evidente, verrà raso al suolo per essere sostituito da un volume edilizio che ne rioccupa lo stesso sito, ma che, con la sua sorda volumetria, parodizza la memoria storica, annichilendola. Non è semplicemente un brutto edificio, è la sublimazione della mediocrità. L'esaltazione della rendita fondiaria fatta intonaci, balconi, serramenti.
Avere a disposizione un volume come quello dello storico edificio dell'Enel e non concepirlo come l'occasione per una progettazione ardita, che sappia conservare il patrimonio della memoria e al contempo riconvertirlo alle esigenze della modernità è la dimostrazione di una totale mancanza di coraggio da parte dei proprietari dell'area. Ma molto peggio è aver accettato supini, da parte dell'amministrazione comunale, tale operazione, per poter, probabilmente, battere cassa.
Signor sindaco, lasciar intaccare in modo così radicale il centro abitato, lasciare che il mercato ponga le mani sul tessuto urbano con ludibrio, violentando la città, non è politica, è connivenza. Ciò che si sta perpetrando ai danni del nostro territorio è irreversibile, appena verrà innalzata la staccionata del cantiere la ferita non sarà più rimarginabile. Io, da suo elettore, da cittadino, non voglio, non posso essere connivente di questo scempio.
Affianco accade ancora di peggio. Demolito il recinto murario e i corpi di fabbrica compresi che definiscono il lotto fra via Niccolini e via Bramante, il piano immobiliare prevede l'edificazione di un albergo di nove piani, arretrato rispetto al fronte stradale, lasciando una zona di rispetto che dovrebbe essere trasformata in una piazza.
Non ci vuole un urbanista raffinato per capire che questo segno nel tessuto è di una violenza senza pari. I due elementi, l'albergo e la piazza, sono di una totale piattezza creativa. Se proprio devo incidere il corpo urbano che almeno il risarcimento sia proficuo! Vedere innalzarsi di fronte al Cimitero monumentale un volume che ha la stessa grazia di un oscuro ministero della Corea del Nord, la stessa noiosa monumentalità d'accatto è disarmante. Ciò che lascia attoniti è la limitatezza di un'imprenditorialità che all'alba del 2012 agisce sul territorio senza alcuna lungimiranza: possibile che non ci fosse modo di affidare un segno di tali dimensioni nelle mani di un progettista con uno spessore intellettuale e creativo più solido? Possibile non comprendere che anche sulla qualità dell'edificato si gioca la fortuna economica di una operazione di queste dimensioni? Ma su tutto: cosa ci guadagna la città?
Vuole farmi credere, signor sindaco, che quello spiazzo insulso, quel vuoto che non riuscirà mai a diventare piazza condivisa dalla cittadinanza, sia un risarcimento degno? Già mi figuro lo spaccio di stupefacenti in quel nulla urbano, già mi vedo le lastre della pavimentazione divelte, le panchine scardinate. Quella che vedo sulla carta non sarà mai una piazza, ma solo un luogo di desolazione, di abbrutimento. Ne vale la pena?
Certo, c'è anche il recupero dei capannoni di via Bramante, trasformati nella sede espositiva dell'ADI. Ma mi chiedo: può una carezza risarcire uno stupro? Il progettista di tutto ciò ha un nome: Giancarlo Perotta. È l'autore dei due grattacieli di fronte alla stazione Garibaldi, concettualmente già vecchi quando vennero edificati negli anni rampanti della Milano da bere. Talmente inadeguati che non hanno retto il volgere di neppure due decenni, subendo un inevitabile restyling. È l'autore della Stazione Bovisa, dell'Ospedale San Paolo, del complesso residenziale in via Sesia… una pletora infinita di segni raffazzonati, una male orecchiata idea di progettazione urbana, una concezione stereometrica dell'edificato ai limiti dell'autistico. Un'idea di architettura che è una continua emulazione fallita di modelli incompresi e irraggiungibili.
Sia ben chiaro, signor sindaco, ho la fortuna di poter scrivere queste cose scevro da dietrologie. Non sono un abitante del quartiere, non ho mire di alcuna natura su quell'area. Scrivo queste righe non da architetto, né da intellettuale o scrittore. Le scrivo da cittadino. Abbiamo chiesto durante le elezioni amministrative un segno concreto di discontinuità dal passato. Se lei ora è il nostro sindaco lo è perché abbiamo creduto fosse capace di interpretare questa idea profondamente etica di comunità.
La logica degli oneri di urbanizzazione a scomputo, che ha retto il mercato immobiliare di questi ultimi decenni, è stata una iattura. È ora di cambiare filosofia, di cambiare politica. Mettere l'interesse pubblico di fronte a quello privato, innanzitutto. Stimolare le iniziative di riordino fondiario senza subirle passivamente, prevedere, anche su aree private, l'obbligo di un concorso a inviti per lotti di tali dimensioni, rendere partecipi gli abitanti della zona. Fare politica urbana significa ragionare a lunga gittata, essere consapevoli di ciò che si eredita e di ciò che si vuole lasciare in eredità. Vogliamo farci ricordare dai nostri figli come i costruttori di questa città senza nerbo, signor sindaco?
Lo chiedo a lei e non solo. Lo chiedo ai suoi assessori: non trovate che questa sia una battaglia da combattere nel nome della cultura cittadina? Lo chiedo ai docenti del Politecnico: è questa l'idea di architettura che vogliamo insegnare ai nostri studenti? Lo chiedo ai soci dell'ADI: nel nome di una nuova sede espositiva siete pronti ad accettare un tale scempio urbano? Chiuderete gli occhi, colpevoli, quando passerete in quel vuoto urbano che fronteggia l'albergo? Lo chiedo alle imprese che vogliono costruire nel nostro territorio: non avete ancora capito che è solo con la qualità progettuale che diverrete davvero competitivi?
Siete coscienti di essere destinati a soccombere se non renderete etico il vostro agire? Lo chiedo al FAI, a Italia nostra, alle associazioni locali: non sarebbe davvero rivoluzionario un popolo che si ribella nel nome della bellezza? Lo chiedo ai politici sia di destra sia di sinistra: siete consapevoli del male che avete fatto e continuate a fare al corpo sfinito di una metropoli che da troppo tempo sogna di rialzarsi, ma che subisce di continuo la zavorra del vostro scarso coraggio?
1923, a fine dicembre con Regio Decreto 2493 il territorio comunale di Milano aggrega una serie di circoscrizioni rurali confinanti, e raggiunge la massa critica minima, necessaria ma non sufficiente, a svolgere meglio il suo ruolo di capitale economica.
1925, l’assessore liberale all’Edilizia professor Cesare Chiodi delinea sulla rivista Il Politecnico gli obiettivi del grande concorso per il piano regolatore urbanistico: trasformazione edilizia e densificazione del tessuto esistente, espansione per quartieri coordinati innestati sui nuclei storici dei comuni aggregati; fasce e cunei verdi di interposizione e collegamento regionale; integrazione a rete tra le varie forme di mobilità, le funzioni insediate, la scala urbana e quella metropolitana.
1927, i risultati finali del concorso vedono vincitore un progetto spettacolare quanto vagamente schizofrenico, in cui da un lato la città viene completamente ricoperta da una griglia stradale che ritaglia lotti potenzialmente edificabili, proposti da accattivanti schizzi di architetture a metà fra lo stile moderno e quello tradizionale; dall’altro a quella griglia, bruscamente e inopinatamente interrotta ai confini comunali, si sovrappone una rete di trasporti che lega tecnicamente città e area metropolitana, individuando nodi di scambio, punti focali, centrali e decentrati.
Si scoprirà presto che il piano “vero” è quello della speculazione edilizia, pochissimo interessata all’equilibrio cittadino e metropolitano, ma solo a trasformare quei riquadri del piano regolatore in superfici edificate o edificabili. Delle varie linee metropolitane nessuna traccia per un paio di generazioni, e così pure del coordinamento a scala regionale, lasciato al massimo alla effimera buona volontà di partiti e singoli amministratori. Abbastanza ovvio, si potrebbe osservare: i cattivi solo nelle favole fanno una brutta fine, mentre nella realtà le cose vanno in maniera diversa. Ma c’è anche di mezzo l’idea di urbanistica che a quell’epoca (forse per forza di cose, forse per altri motivi) imperava, e di cui il succitato assessore era a suo modo uno dei campioni.
Un altro passetto indietro, 1926. Solo per citare ancora Cesare Chiodi, che estromesso dal suo ruolo di assessore dalla riforma fascista degli enti locali torna al lavoro di ingegnere urbanista e docente al Politecnico. Come ingegnere partecipa al concorso per il piano regolatore che aveva contribuito a istruire, e quasi naturalmente lo interpreta in modo coerente: schema regionale, coordinamento fra trasporti e insediamenti, quartieri su modello vagamente neighborhood unit separati da fasce e cunei verdi. Come professore propone sempre nel 1926 il primo corso di Urbanistica, che verrà attivato un paio d’anni più tardi. La cosa più interessante di questo corso, da un certo punto di vista, è la lettura comparata del programma di massima, pubblicato sulla rivista La Casa, con le idee professionali di un altro ingegner Cesare, quel Cesare Albertini capo ufficio tecnico al comune di Milano, che di lì a poco inizierà a tradurre in pratica i risultati del concorso per il piano regolatore.
Chiodi espone sistematicamente tutti gli aspetti tecnici dei trasporti, dell’edilizia, dei necessari riferimenti a discipline esterne, che un giovane dovrà affrontare per capire le basi dell’urbanistica moderna. Albertini, sempre su La Casa e nel 1926, si impegna invece a delineare quali sono gli interessi e le figure professionali attorno a cui si può costruire una specie di corporazione nazionale delle discipline della città e del territorio, magari prendendo come modello quelle che si stanno delineando a scala internazionale a partire dalle esperienze delle città giardino. Combaciano in parecchi punti, le idee dei due ingegner Cesare, probabilmente non solo per motivi di omonimia. Raccontano di una urbanistica rigorosamente inquadrata in tutto quanto concerne la produzione materiale della città, coordinamento a scala vasta, piani di massima urbani, programmi di attuazione e controllo dell’attività edilizia, trasporti, integrazione di aspetti finanziari e amministrativi. Manca qualcosa? Certo che si.
Manca arte di costruire le città, ovvero il contributo intuitivo dell’architettura, che per primo ha saputo, e non solo in Italia, cogliere il senso nuovo assunto dall’idea di progetto edilizio e sociale nella fase matura dello sviluppo industriale a cavallo tra i due secoli. È con questo decisivo e maggioritario tocco finale che, alla fine, si costruisce la figura dell’architetto-urbanista nazionale, il suo prestigio sociale, e insieme si iniziano a definire norme, leggi, ruoli, e immaginario collettivo in materia urbanistica. Tecnica, basi scientifiche, qualche dose di cuori lanciati oltre l’ostacolo, decisione politica in grado di sostenere la visione. Ma mancano ancora parecchie cose: dove stanno per esempio il carbone, o i bordelli, la raccolta della spazzatura, la gestione dei mercati rionali? Cosa vuol dire, che c’entrano con l’urbanistica? C’entrano, c’entrano eccome, almeno nel 1926.
I bordelli e i carretti del carbone, insieme a tante altre cose per nulla evanescenti ma sparite dal tavolo da disegno dell’architetto-urbanista, rispuntano nell’idea di città e urbanismo che propone un segretario comunale, Silvio Ardy. Perché se è vero che per approfondire le conoscenze è utile dividere e distinguere, al momento di decidere è indispensabile la sintesi, e non si può far sintesi credibile escludendo troppi fattori, semplificando oltre il dovuto. La città è case, strade, rotaie, condotti fognari, verde, ma è anche e soprattutto gente che va e viene su strade e rotaie da una casa all’altra, a fare varie cose fra cui anche riempire le fogne, scaldarsi col carbone, sfogare l’eccesso di testosterone al bordello, curarsi, studiare … Se l’orizzonte di una classe dirigente urbana è quello di “costruire il futuro di una città globale, coesa e protagonista di un nuovo sviluppo economico, sociale, culturale, intergenerazionale” pare difficile staccare il contenitore dal contenuto, e le due relative riflessioni, o peggio ancora lasciare il compito interamente alla discrezionalità della sola decisione politica.
O meglio: magari (magari) la cosa può funzionare in uno stato totalitario- corporativo come era o voleva essere quello fascista, non certamente in una società democratica e aperta come siamo diventati abbastanza faticosamente dopo. L’idea di urbanistica, di ruolo del piano regolatore “edilizio”, e di ruolo professionale, sociale, politico, dell’urbanista, così come si è affermata con notevole successo dai lontani anni ’20 in poi, sicuramente ci arriva oggi molto modificata, evoluta, complessa. Ma restano ancora parecchi strascichi dell’indecente esclusione di puttane e carbonai (insieme a tanti altri) dalla stanza dei bottoni, e ahimè ne paghiamo tutti le conseguenze. A Milano da cui si è fatto partire tutto, in questa fine d’anno 2011 si è approvato un documento a suo modo assai innovativo, il Piano Generale di Sviluppo. Sono poche pagine, solo apparentemente generiche, e che invece meritano una lettura attenta, di prospettiva. La citazione che chiude il paragrafo precedente è tratta da lì, come forse faceva intuire l’aggettivo “globale”, non ceto ripescata dal 1926.
Sicuramente non è un caso, se i primi due capitoli del PGS sono dedicati a urbanistica e trasporti. Il consenso ai vari livelli di una amministrazione quasi sempre si gioca in larga parte sul tipo di sviluppo locale che ha alla base trasformazioni edilizie e mobilità. Occupano quindi un abbondante spazio, non solo ideale, questi due capitoli, con sicura soddisfazione dei fantasmi dei due Cesari e di tutte le schiere dei loro discendenti, ma pare proprio scorrendo il resto che finalmente puttane, carbonai &Co. siano riusciti a rientrare dalla finestra. Nel senso che, dalle premesse agli sviluppi sino alle conclusioni, il PGS pare proporsi come contenitore di neo-urbanismo in cui l’interpretazione politica, vuoi conservatrice o progressista nelle varie sfumature che si possono immaginare, non significa arbitrio. Non può significare, cioè, tanto per fare un esempio, lasciar libero corso a un aspetto (il mitico “sviluppo del territorio” di recente memoria) contando su un effetto traino generalizzato. Gli edifici oggi si giudicano anche da quanto carbone fanno consumare, no? Il fatto che lo si pronunci in inglese non cambia la sostanza.
Ma a questo punto, dopo una specie di chilometrica “introduzione”, meglio lasciare campo libero alla lettura diretta del documento, allegato di seguito. Per chi non le avesse mai lette, alcune delle idee del secolo scorso citate, e di sicuro interesse ancora oggi, stanno lì ad aspettare eventuali curiosi nella cartella Urbanistica, Urbanisti, Città.
la Repubblica
Parte il piano wi-fi in tutta la città
di Alessia Gallione
La mappa è pronta: 1.200 punti tra strade, piazze, parchi e luoghi all’aperto. Una rete che arriverà a coprire tutta la città con almeno 2.500 hot spot, fino ai quartieri più periferici. Perché è soprattutto nella cerchia più esterna che il Comune vuole concentrare la propria attenzione, garantendo la gratuità per il nuovo progetto di wi-fi che verrà discusso oggi in giunta. Una rivoluzione da sei milioni di euro, che partirà con l’installazione delle prime antennine dalla primavera del 2012.
Era una delle promesse del programma elettorale di Giuliano Pisapia, un punto a cui il sindaco ha sempre dichiarato di tenere molto. Lanciare una rete capillare di wi-fi pubblico e a banda larga - quindi con la possibilità di navigare molto velocemente - per rendere Milano non soltanto la città più connessa d’Italia e sempre più tecnologica in vista di Expo, ma anche per diminuire le differenze tra quanti utilizzano già oggi la rete e quanti non hanno accesso a internet. È anche per questo, ad esempio, che la gratuità del servizio sarà garantita nei quartieri più lontani dal centro. L’internet free, però, potrà essere previsto anche per fasce di popolazione (gli anziani) o per luoghi e orari particolari. Un esempio: per far vivere il centro come luogo alternativo della movida, perché non dare il wi-fi gratis dopo le 21 ai giovani?
I dettagli, compreso il tempo oltre cui si pagherà o la cifra, verranno definiti strada facendo, ma l’obiettivo del Comune è quello di garantire la massima gratuità. Anche perché quella ragnatela di hot spot servirà per far funzionare una serie di servizi che l’amministrazione vuole far partire grazie all’infrastruttura che verrà creata: dalla mobilità alla sicurezza, dalle informazione alle pratiche. Ma, da oggi, si parte. I sei milioni messi sul piatto, infatti, sono una sorta di anticipo del Comune che potrebbe veder diminuire la quota di contributo pubblico. Questo perché, tra gennaio e febbraio, Palazzo Marino ha intenzione di seguire una doppia strada per lanciare il progetto che è stato seguito dal direttore generale Davide Corritore: partecipare a bandi europei o stringere alleanze con aziende e privati disposti a partecipare al piano e a finanziarlo. Al termine delle gare, a partire dalla prossima primavera quindi, inizieranno a essere creati gli hot spot.
I 1.200 luoghi segnati sulla mappa pubblica sono stati scelti con i consigli di zona e comprendono anche gli spazi all’aperto degli edifici pubblici. È soltanto all’aperto, infatti, e non tra le mura domestiche, che ci si potrà collegare e navigare. Qui verranno montate le antennine per la rete senza fili. Che, però, sono solo una base di partenza. La rete è pensata per essere "federale", ovvero altri privati, ma anche condomini, locali o chiunque ha già una propria rete potranno unirsi a quella del Comune per estendere il raggio di azione. Non solo: Palazzo Marino ha già preso contatti con la Provincia e, in futuro, il wi-fi milanese potrebbe estendersi a tutto l’hinterland, una sorta di antipasto virtuale della città metropolitana.
Corriere della Sera
Milano va in Rete Wi-fi in tutta la città
di Elisabetta Soglio
Wi-fi in tutta la città, aperto a creare connessioni con le reti private, predisposto per una diffusione che coinvolga tutta l'area metropolitana. Il progetto della giunta Pisapia per rendere Milano «più accessibile, efficiente e funzionale» comincia con una delibera che arriva oggi in giunta. Con un finanziamento di sei milioni di euro (che in teoria potrebbe ridursi ai minimi termini se funzioneranno i bandi internazionali e le partnership con i privati) parte l'operazione di «trasformazione tecnologica della città», che ha come punto di forza l'accordo del 22 febbraio scorso con Metroweb per l'utilizzo della fibra.
Entro gennaio verranno individuati fra mille e 1200 punti significativi della città (piazze, strade e altre zone selezionate) sui quali saranno installati impianti wi-fi che consentiranno a chiunque di collegarsi con il proprio computer sfruttando la banda larga e quindi una velocità sostenuta. Verrà indetta una gara per affidare fornitura e servizio e l'aggiudicazione avverrà secondo il criterio dell'offerta più vantaggiosa. Come sottolinea il direttore generale Davide Corritore, che già dai banchi dell'opposizione aveva elaborato un progetto per il wi-fi recepito dalla giunta Moratti ma rimasto quasi totalmente inattuato, «obiettivo è creare una rete pubblica estendendo questo tipo di servizio alla popolazione che ancora non sfrutta le potenzialità di Internet».
I costi? Internet sarà gratuito in alcuni luoghi e per alcune fasce d'età secondo il criterio fissato in delibera: «L'accesso alla tecnologia, da parte dei cittadini, costituisce un'irrinunciabile leva di crescita e di integrazione della città, secondo criteri di maggiore omogeneità, che possano meglio favorire l'occupazione e l'aggregazione. Da qui la necessità di avviare un ciclo di profondo ammodernamento della città secondo principi ispiratori di democrazia ed equità che meglio integrino le periferie». Altro principio potrebbe essere quello di rendere l'uso gratuito nelle ore serali in alcune zone «morte» per renderle appetibili.
Il conto alla rovescia, quello vero, è iniziato una mattina di fine ottobre sotto i flash dei fotografi e le telecamere intente a seguire ogni singolo movimento della prima ruspa che è entrata sul milione di metri quadrati della "discordia" di Rho-Pero.
È partito dopo 1.306 giorni dalla festa di Parigi, a 1.208 giorni all’inaugurazione ufficiale. Dagli ultimatum del Bie al primo cantiere. Da Letizia Moratti, ex sindaco plenipotenziaria – sulla carta – a Giuliano Pisapia e Roberto Formigoni, il tandem di commissari costretti ad andare d’accordo per non far fallire l’evento. Dall’interminabile balletto tra Comune e Regione sulla soluzione per acquisire le aree all’accordo di programma urbanistico che le ha rese edificabili, siglato, ironia della sorte, dal "sindaco arancione" con annessi tormenti del centrosinistra che, per tre anni, aveva cannoneggiato contro l’Expo del cemento del centrodestra.
Dall’orto botanico planetario (che avrebbe dovuto rivoluzionare la formula di un’Esposizione fatta di padiglioni tradizionali) alla smart city, il nuovo sogno di una cittadella digitale capace di anticipare il futuro e conquistare sponsor. Perché il 2011 per l’Expo non è stato solo l’anno della partenza operativa dopo tre anni di lotte di potere, ma anche quello del cambio dell’impostazione del progetto, l’anno delle rivoluzioni al vertice e delle nuove alleanze, dei tagli nell’era della crisi economica. Con un dossier uscito ridimensionato (300 milioni e qualche voce, come la via di terra, in meno). E, soprattutto, con molte incognite davanti. Che dovranno essere risolte nel 2012, l’anno della verità.
I prossimi obiettivi li ha fissati l’amministratore delegato Giuseppe Sala: far salire ad almeno 100 le adesioni dei Paesi (già a quota 68, oltre il target); conquistare altri quattro sponsor di peso dopo l’arrivo delle prime aziende; far partire a luglio i lavori della cosiddetta "piastra", l’ossatura del progetto. Ma ci sono altre certezze, quelle economiche del governo, che adesso dovranno arrivare. Eppure, è un’Expo diversa quella che ha iniziato a scaldare i motori. Vista dal cantiere spuntato quella mattina di fine ottobre, sembrava ancora un’opinione. Ci sono voluti i tecnici e una mappa per capire che nel punto in cui gli operai avevano montato le cesate sarebbe nato il viale centrale dove si affacceranno i padiglioni, che a separare i visitatori dal traffico delle due autostrade arriveranno alberi e un canale.
E poi? Dai progetti sono spariti i campi coltivati in cui i Paesi, secondo il primo concept plan firmato dalla Consulta di architetti guidata da Stefano Boeri, avrebbero dovuto mettere in scena le loro filiere alimentari: dalla pianta del caffè alla tazzina. L’orto è stato cancellato. «Troppo verde non sfonda», ha sentenziato Sala. «Milioni di visitatori non arriveranno per vedere distese tutte uguali di melanzane», gli ha fatto eco Vicente Gonzales Loscertales, il segretario generale del Bie. Quel progetto tutto basato sull’agricoltura, è stata la sintesi, non piaceva ai Paesi, al Bie, alle aziende. Meglio puntare sulle buone ragioni commerciali.
La nuova immagine è quella di una cittadella sospesa tra il reale e il virtuale, con avatar e schermi elettronici e la firma del premio Oscar Dante Ferretti sulle scenografie dei viali principali. E la tecnologia, magari, potrà contribuire anche a salvare le grandi serre con tutti i climi e le vegetazioni del mondo: ormai è troppo tardi per seguire il rigore scientifico del primo disegno. Cosa diventeranno? Si cerca un creativo che possa reinventarle e, magari, uno sponsor per mantenerle in vita dopo il 2015. Perché il grande dubbio riguarda il futuro: quando verranno smontati i padiglioni, cosa nascerà su quel milione di metri quadrati?
Sarà Arexpo, la società a maggioranza pubblica creata per acquistare le aree, a deciderlo. A partire dal 2015, per non correre il rischio di passare i prossimi tre anni a litigare sul post-Expo. Sarà inevitabile – e Formigoni non lo nasconde – realizzare una quota di case anche per rientrare degli investimenti fatti. Ma poi? Ci sarà un parco, è la rassicurazione. Ci sono le solite ipotesi, quelle cittadelle che, da anni, spuntano da Nord a Sud come in un grande Monopoli: la cittadella della giustizia, quella della comunicazione con la Rai, l’Ortomercato... La sfida più grande è l’eredità di quell’evento che avrebbe dovuto rilanciare l’immagine internazionale di Milano. Insieme alla capacità di riaccendere l’interesse della gente, dopo che molto si è già perduto per strada, di concretizzare qualche progetto.
Dal 2012 l’Expo dovrà correre per recuperare il tempo perduto e trasformarsi in un cantiere aperto giorno e notte, ma nelle mani di Sala la società sembra avere chiare le tappe. Sono altre le promesse che, adesso, andranno mantenute: c’è la via d’acqua con il recupero della Darsena da far partire e ci sono le infrastrutture legate al 2015 e attese da decenni. Per tutte le vie e i collegamenti, ormai – sia che si tratti di nuovi binari o della grandi autostrade come la Pedemontana o la Tem – la consegna è concentrata in una manciata di mesi, tra la fine del 2014 e i primi mesi del 2015. Ce la faranno a rispettare l’appuntamento? Già ora si sa che non sarà così per la linea 4 della metropolitana: l’obiettivo minimo è realizzare tre fermate, da Linate a Forlanini. Anche questa era una promessa di Expo.
postilla
Ai conformisti, anzi conformistissimi, ragionieri che fanno sorrisi di compatimento davanti al progetto dell’Orto Planetario, presumibilmente sognando l’Expo del Metro Cubo, si potrebbe semplicemente rispondere che il mondo non verrà certo a Milano per vedere un campo di melanzane, ma neppure per salire le scale mobili di un supermarket, o attraversare un baraccone tecnologico. Ma come giustamente sottolinea l’articolo quei sorrisetti di compatimento sono quantomeno mal rivolti, perché la posta in gioco non è solo portare visitatori, ma cosa resterà alle generazioni future. Qui l’Orto Planetario di risposte ne dava, e non pare proprio invece che ne diano né il Metro Cubo né il Telefonino Pervasivo della sedicente Smart City. Non si tratta di allestire un padiglione, ma fissare, secondo alcuni criteri internazionali, espositivi, ma anche ambientali e regionali, il futuro di un’area strategica. La facciamo uguale al baraccone cementizio della Fiera lì accanto? Sigilliamo definitivamente l’ultimo angolino di spazio aperto metropolitano facendo le tabelline di quanto edificato e quanto lasciato a giardinetti, nani e madonnine di gesso esclusi? Non si tratta di difendere a spada tratta quella che magari in sé e per sé era solo la sparata pubblicitaria di Stefano Boeri e dei suoi soci archistar. Però in una prospettiva di uso futuro l'idea alla base dell'Orto poteva diventare una Cittadella della Scienza (ricerca avanzata sulle produzioni agricole sostenibili a chilometro zero?) che se le mangia tutte, quelle sanitarie in versione brick & mortar targate CL, e destinate a tradizionalissimi bisturi e supposte, per quanto futuribili. Quindi bando alle polemiche sugli slogan, ma al solito mettere in prima fila la questione: che serve alla città? E intendere per “città” qualcosa che magari va oltre i confini amministrativi, naturalmente (f.b.)
Per arrivare in questo luogo di confine e smaltimento, il metodo migliore - non il più veloce - è prendere il tram numero 14, fino al capolinea Lorenteggio. Tagliamo la zona sud ovest di Milano, attraverso la dismissione industriale esaltata dal credo della riqualificazione. Riqualificare. Uno dei verbi feticcio dagli anni '80 a oggi. Riqualificare un quartiere, una ex area produttiva, un lavoratore dopo il licenziamento.
Questa zona di Milano si snoda sui due lati della ferrovia, da Porta Genova viaggia lungo il Naviglio Grande. Sfilano, appena oltre l'ombra dei palazzi residenziali, i fantasmi novecenteschi di Ansaldo, Bisleri, General Electric, Riva Calzoni, Loro Parisini, Osram, Richard Ginori, e più avanti, a Corsico, le Cartiere Burgo. Migliaia di lavoratori hanno preso gli autobus nel dopoguerra, dall'hinterland e dagli altri quartieri cittadini, pullman già pieni alle cinque del mattino per raggiungere i cancelli delle industrie, il primo turno delle sei.
La retorica del Cerutti Gino
Da almeno tre decenni, l'industria ha celato la sua parte meno attraente per limitarsi alla superficie del marketing, all'esaltazione dell'aggregato artificiale dei consumi: ha stretto un patto con la finanza e generato una nuova geografia. A partire dagli inizi degli anni '80, il prezzo degli immobili è diventato pura rappresentazione, non a caso attraversiamo il glamour di via Tortona e via Solari, studi di produzione e post produzione televisiva, studi di grafica, showroom, atelier, agenzie di una non meglio precisata immagine connessa alla visione dell'esistenza da sbirciare nei talk show leggeri e intelligenti, da sfogliare negli inserti dei quotidiani, dei magazine, quando il surrogato di questa rappresentazione è comunicazione, evento chiacchierabile, così vorace da fagocitare tutto, compresa l'aura di autenticità ridotta a feticismo dei luoghi, come via Giambellino 50, la retorica del quando eravamo Cerutti Gino, usata anche dagli immobiliaristi come additivo.
Nel grande spazio di via Savona, all'altezza del cavalcavia, la Osram produceva lampadine, alla sinistra del tram, e ora occorre torcere un po' il collo come quando ci arrampichiamo sulla sedia per svitarne una fulminata, e lì in alto, nei palazzi costruiti dalle Acli, c'è l'appartamento di Pier Carlo Scajola, il figlio dell'indimenticabile ministro di tutto, e in particolare del «Marco Biagi era un rompicoglioni che voleva solo il rinnovo del contratto». Questi palazzi edificati all'inizio degli anni zero segnano la demarcazione tra due parti distinte di via Giambellino. Subito dopo il semaforo, superata una delle sedi della Cgil, il tram si avvia ai lotti delle case popolari costruite a partire dagli anni '30, edifici a quattro piani, con gli intonaci scrostati che disegnano figure involontarie sui muri, accanto alle paraboliche lasciate a germogliare sui balconi di appartamenti spesso sfitti e murati per evitare occupazioni. Attaccati ai muri di questi edifici, campeggiano i grandi cartelloni pubblicitari, sotto di essi i carrelli vuoti dei supermercati vagano smarriti, ma almeno sembrano avere una vita indipendente, senza più la moneta nell'ingranaggio.
Una scatola vuota
Durante la campagna elettorale, negli anni scorsi, su questi stessi muri spiccava sempre la grande faccia di Berlusconi, il cerone e il ritocco digitale erano ancora più significativi e provvidenziali, se confrontati con l'intonaco sfatto dei palazzi che lo circondavano, e lo sorreggevano. Di fronte, resiste l'insegna del Pussycat, uno degli ultimi cinema porno di Milano, e subito dopo inizia piazza Tirana, e il rettilineo che conduce al capolinea. Il marciapiede a destra è Milano. Se attraversiamo la strada siamo a Corsico. Le linee di confine sono luoghi che svelano comportamenti di solito celati.
Nel Canton Ticino, per esempio, gli svizzeri hanno costruito una discarica a pochi metri dalle case italiane. E anche qui, tra Milano e Corsico, la situazione è simile: si tratta sempre di rifiuti, anche se di un altro genere.
Camminiamo verso i palazzi di vetro, i loghi nel cielo pressato, uniforme. Sopra sei di questi edifici spicca il marchio Vodafone, gli altri sono in netta minoranza. Proprio Vodafone, nell'autunno del 2007, ha effettuato la più grande cessione - finora - di lavoratori in Italia: 914 persone allontanate dalle sedi di Ivrea, Milano, Padova, Roma, Napoli e cedute da una multinazionale - con profitti di miliardi di euro - a un'azienda, Comdata Care, fondata per l'occasione, una scatola vuota destinata ad accogliere il business - le attività cedute - più che i lavoratori. Comdata Care è ospitata nell'edificio della casa madre, Comdata, a trecento metri da Vodafone, ma è come se ci fosse una frattura di tremila chilometri, proprio sul confine tra Milano e Corsico.
Visto da fuori, l'edificio di Comdata pare il carcere di Opera. È un blocco rettangolare, quattro piani di cemento armato si estendono in orizzontale, punteggiati da una serie di finestrelle quadrate. In questo edificio, senza marchi e loghi, lavorano un'ottantina di superstiti di quell'operazione finanziaria spacciata per «focalizzazione e specializzazione delle competenze», come recita l'accordo ministeriale del 2007. La vendita di 914 persone è avvenuta grazie a uno dei punti più controversi della legge 30, la cosiddetta cessione del ramo d'azienda, la legge che, di fatto, ha aggirato l'articolo 18, la legge per cui il celebre brano cantato da Sergio Endrigo sarebbe un'idiozia.
Per fare un fiore ci vuole un ramo / per fare il ramo ci vuole l'albero, scriveva Gianni Rodari nel testo. Ma per i legislatori, per i politici della destra italiana, entusiasti sostenitori di questa legge - e per i politici di sinistra, che nel 2006, benché al governo, non hanno fatto nulla per cancellarla, aggrappandosi alla patetica distinzione tra flessibilità e precarietà - il ramo è sempre indipendente dall'albero, non è strettamente legato alla pianta e può essere segato in qualsiasi momento, tanto avrà una vita autonoma, anzi, era già autonomo prima del taglio.
Nei giorni della cessione, un esercito di esperti ha sostenuto l'operazione, non sarebbe cambiato nulla, i lavoratori sarebbero stati tutelati per sette anni, questa la durata dell'accordo. Bisognava guardare avanti, verso nuovi orizzonti. Lo diceva - e lo dice ancora - Pietro Ichino, il cui studio legale milanese avrebbe poi difeso Vodafone contro i lavoratori che hanno fatto causa alla multinazionale. Pier Luigi Celli - ex direttore generale di molte cose, compresa Omnitel, l'azienda italiana fagocitata da Vodafone - aveva scritto, in un intervento sul Corriere della Sera, che «la sicurezza a tutti i costi sta portando, anche ai lavoratori più danni, in prospettiva, che vere e proprie certezze».
Nuovi vocaboli
Già nel 2010, il lavoro per cui 914 persone sono state cedute da Vodafone è in gran parte finito a Galati, Romania: una violazione del punto 11 dell'accordo ministeriale, per cui non è previsto «il ricorso al sub-appalto per l'esecuzione delle attività oggetto del trasferimento». Galati è una città di circa trecentomila abitanti, costruita sulle rive del Danubio, al confine con la Moldavia. Alcuni lavoratori italiani di Comdata Care sono andati a Galati per la formazione del personale rumeno che avrebbe svolto le mansioni dei lavoratori italiani.
C'è sempre qualcuno disposto a eliminare qualcun altro, anche quando, paradossalmente, questa azione comporta l'eliminazione di se stesso. Le aziende italiane come Comdata - composte da migliaia di lavoratori - utilizzano in Italia per lo più interinali o personale assunto con un basso inquadramento contrattuale, e capita che facciano svolgere la stessa mansione a lavoratori con quattro contratti differenti. Comdata fornisce i proprio servizi a una quarantina di grandi aziende, come Telecom, Wind, Enel, Eni, Eon, Edison, Banca Mediolanum, Mondadori, Osram. Le aziende come Comdata utilizzano una concatenazione al ribasso per cui, a Galati, impiegano manodopera rumena e la mettono in competizione con quella moldava, che vive a pochi minuti di distanza, incentivando il pendolarismo frontaliero tra Galati e Cahul, il capoluogo dell'omonimo distretto moldavo. Un lavoratore a Galati guadagna in media 1000 ron per 6 ore e 10 minuti di lavoro, dal lunedì al sabato. 1000 ron sono 230 euro al mese.
Il neologismo che descrive questa pratica industriale di sfruttamento - delocalizzare - è comparso nel dizionario italiano dal 1991, subito dopo la fine degli stati comunisti nell'est europeo. E tuttavia, fino agli '90, delocalizzare riguardava la produzione di lavatrici, automobili, beni industriali materiali. Negli anni '90, le aziende italiane dei settori come le telecomunicazioni, gli assicurativi o i bancari investivano ancora nella formazione del personale, in Italia. Ma nell'ultimo decennio, l'unico credo è stato risparmiare e aumentare ancora di più i profitti. Questo capitalismo italiano predatore, senza cultura del lavoro, è privo non solo di etica ma anche di un obiettivo industriale a breve termine, concentrato solo sul report giornaliero di pezzi, di pratiche gestite, non importa come. È un capitalismo digitale e cottimista, che vorrebbe considerare i luoghi un accessorio vago, grazie all'utilizzo della tecnologia.
Il vero luogo della delocalizzazione è nessun luogo, il fluttuare nell'indeterminatezza, è il flusso di dati che giunge a un terminale alla periferia di Galati, dove la manodopera e gli uffici costano molto meno che a Milano.
Sul binario laterale
Il lavoro immateriale trasferito dalle aziende italiane in Romania è la rappresentazione di uno spettro, come i vuoti delle aziende dismesse milanesi o convertite in altro. I clienti di una compagnia telefonica o di una banca, per esempio, devono mandare via fax la fotocopia fronte retro della propria carta di credito, le coordinate bancarie e la carta di identità. Si tratta di dati sensibili, i clienti sono titubanti, sospettosi, ma alla fine inviano i documenti a un numero verde italiano. La tecnologia converte i fax in formato elettronico, così possono essere gestiti in qualsiasi zona del pianeta, in questo caso a Galati, dove i lavoratori parlano anche italiano.
I volti fotocopiati dei clienti vagano nell'etereo tecnologico e incontrano la tastiera di una lavoratrice che si alza all'alba a Cahul, Moldavia, esce nel mattino gelato e attende l'autobus che la conduce fino al confine, e lì prende la coincidenza per Galati dove digita il proprio login di accesso alla rete di un'azienda italiana, la password derivata dal soprannome del fidanzato o del figlio, e in questo istante, la lavoratrice sta guadagnando, per una giornata di 6 ore, 9,58 euro, ovvero 1,59 euro all'ora.
Il capitalismo italiano ha il problema di gestire lo smaltimento dei rifiuti, siano esse scorie industriali o umane. Ha depositato le persone in edifici anonimi, ai margini delle città, lungo le linee di confine, in attesa che i deboli vincoli contrattuali - già ampiamente violati - scadano. Un po' come capita in alcune stazioni di provincia, dove vagoni tossici attendono su un binario laterale da anni, prima di scomparire chissà dove. Nel caso di Vodafone, la gran parte di 914 residui era costituita da donne tra i 30 e i 40 anni, con almeno un figlio. Ma nel gruppo c'erano anche disabili e alcuni sindacalisti sgraditi.
Il veleno negli orti
Disabituati a forme di lotta collettiva, educati da decenni in cui - per la narrazione dei media dominanti - il conflitto è qualcosa di cui vergognarsi, sinonimo di sconfitti e di perdenti, ai lavoratori è richiesto uno sforzo biografico individuale, silenzioso e asettico, per affrontare una legislazione che può solo accentuare situazioni endemiche aggravate dall'economia, ignorate da una politica autoreferenziale, schiava di se stessa. E un governo politico come quello di Monti, travestito da tecnico, da dottore di famiglia accorso al capezzale con il camice del paternalismo ricattatorio, può solo aggravare la situazione, allungando l'età lavorativa quando, nella realtà, i lavoratori sono sgraditi già alla soglia dei quarant'anni, a meno che non accettino condizioni rumene o, meglio, moldave.
A poche centinaia di metri di distanza da Comdata, c'è un terreno di 260 mila metri quadrati, recintato e sigillato dai lucchetti della magistratura nel novembre 2010. È la ex cava Garegnano, si estende fino al capolinea della metropolitana e lambisce il carcere minorile Beccaria. Nella cava, per decenni è stato sepolto ogni tipo di rifiuto urbano e industriale, dall'amianto ai solventi, dai metalli pesanti alla diossina. La giunta Moratti aveva autorizzato la costruzione di palazzi, uffici, negozi, un quartiere residenziale di oltre cinquemila abitanti. Ma la falda acquifera è avvelenata. I pensionati che coltivavano gli orti su quel terreno hanno mangiato verdura contaminata.
Le classi dirigenti italiane dimenticano che i rifiuti - di qualsiasi tipo - benché compressi e mansueti, si esprimono, e rilasciano il male che hanno dolorosamente subito e trattenuto in se stessi, e il morbo prima o poi si espande ovunque, dalla falda silenziosa alla superficie seduttiva, con una forma di tragica e gioiosa liberazione.
postilla
Eh già: gran brutta cosa la condizione di orfani! Ma lo è davvero quella di orfani del capitalismo industriale? Vero, verissimo, che la rapina dei territori via via che le barriere fisiche si ritirano e consentono di accedere, di guardare e considerare, appare sempre più evidente e lacerante. Ma nella prospettiva del ricordo, specie del ricordo indiretto e mediato, il tram operaio all’alba sferragliante nella nebbia cronica di una periferia da quadro delle avanguardie novecentesche finisce per assumere una funzione ideologica, e se non altro farci guardare nella direzione sbagliata. Quegli spazi sono lì ad aspettare senso nuovo, non a piangere quello perduto. Mentre l’acuto senso di animazione sospesa di Giorgio Falco - come già nel caso delle preesistenze contadine nello sprawl metropolitano deL’ubicazione del bene – forse pencola involontariamente troppo verso una pietrificazione in positivo di certe culture novecentesche. Che sono state, non dimentichiamolo, esattamente il carburante della macchina che ci lascia quella montagna di detriti (f.b.)
Tra «lievi difformità», segnaletica «inadeguata», «anomalie» e «problemi» di larghezza e curvatura, la rete delle piste ciclabili milanesi non spunta neppure la sufficienza. Bocciata. Il 65 per cento degli itinerari non rispetta le norme, alcuni tratti sono «pienamente» fuorilegge e altri sono malfatti, sbagliati, da aggiustare. La valutazione incrociata di caratteristiche formali e standard di (bassa) qualità ha indotto quest'analisi: solo una corsia su due è utile, sicura e dunque «consigliata»; il 30 per cento dei percorsi va affrontato solo in caso di necessità e il residuale 10 per cento va sempre evitato. Motivo? «Le condizioni della pista o la pericolosità degli accessi rendono la sua percorrenza più insidiosa della viabilità ordinaria». Meglio buttarsi nel traffico: possibile?
Paradossi d'una città piana, incardinata su cerchi concentrici e tagliata da raggi stradali, urbanisticamente ideale per le due ruote, che proprio non riesce a far convivere auto, bici e pedoni. Il dossier «CicloMilano» — progetto di Ciclobby e Actl con il sostegno della Fondazione Cariplo — è il risultato di un anno e mezzo di sopralluoghi, campagne fotografiche, studio delle soluzioni. È la prima completa mappatura dei tracciati per la mobilità dolce, un censimento puntuale di 135 chilometri di percorsi ciclabili. I difetti peggiori: corsie che sbucano nel traffico, tronconi spezzati, carenza di stalli. Le priorità: piccola manutenzione, auto più lente, marciapiedi in condivisione, rastrelliere. Un lifting, più che una rivoluzione: «Una buona ciclabilità — osserva il presidente di Ciclobby, Eugenio Galli — nasce da un mix di interventi messi in campo con cura e competenza, pensati attraverso una progettazione partecipata». Punti chiave: «continuità», «percorribilità» e «visibilità» degli itinerari.
Il dossier è stato presentato ieri all'assessore comunale alla Mobilità, Pierfrancesco Maran. Che commenta: «Nei prossimi mesi realizzeremo nuove piste e corsie ciclabili. È uno dei punti qualificanti della nostra azione amministrativa. Progetti come quello di CicloMilano ci danno indicazioni molto importanti». Eccone alcune. La pista di via Venti Settembre è ricavata «a fianco di un controviale non molto trafficato» e spesso «ingombra di auto parcheggiate». Giudizio: è inutile, superflua, potrebbe persino essere cancellata. Andiamo oltre. Il tratto lungo via Pavia non è «distinguibile dal marciapiede», «interrotto da una veranda ristorante», purtroppo «inutilizzabile»: funzionerebbe meglio come parcheggio per le bici. E ancora, via Dezza: «Il fondo è attraversato dalle radici degli alberi che creano continui ostacoli, se ne propone il declassamento a marciapiede di zona pedonale».
La riforma della mobilità ciclistica, suggeriscono Ciclobby e Actl, potrebbe partire da tre progetti pilota alla Bicocca (zona a 30 chilometri orari), nell'area dei viali delle Regioni (itinerari «cerniera») e al quartiere Sarpi (ridisegno della viabilità). Con la firma sulla Carta di Bruxelles, Milano s'è impegnata a dimezzare il rischio d'incidenti mortali per i ciclisti entro il 2020. C'è molto da pedalare.
Non c´è più tempo per piantare e far crescere le specie da tutto il mondo Si cerca un progetto bis che punti sulla tecnologia. Pesano i dubbi sul futuro dell´area dopo l´Esposizione e i costi di gestione Oggi il via alla gara da 300 milioni per le altre opere 2015. La ricerca è partita. Obiettivo: trovare il prima possibile un nuovo "padre" per le serre di Expo, una grande firma che possa inventarsi un´idea capace di salvare quello che è stato il simbolo del progetto del 2015. Magari usando la tecnologia, quella che ha già trasformato l´orto planetario in una smart city. E che, adesso, potrebbe aiutare a riprodurre, in modo virtuale, i climi e le colture di tutto il mondo. Accanto alle specie che metteranno fisicamente radici a Rho-Pero. Perché, ormai, per realizzare il progetto originario e ricostruire realmente tutti gli habitat e tutte le piante e colture, non c´è più tempo.
Quei complessi marchingegni pensati inizialmente, hanno calcolato i tecnici della società di gestione, avrebbero bisogno di almeno cinque anni di preparazione. Troppo. Così come troppo costoso - 90 milioni di euro il primo budget - sarebbe realizzare strutture senza la certezza, poi, di mantenerle in vita dopo il 2015. Perché è questo il rischio maggiore: doverle smantellate alla fine. E, così, si cambia ancora. Sperando, anche, che insieme al grande nome possa arrivare un privato disposto a gestirle in futuro sobbarcandosi dei costi che il pubblico non potrebbe mantenere.
È questo l´ultimo rebus del progetto che l´amministratore delegato della spa Giuseppe Sala dovrà risolvere, l´ultimo tassello da completare sulle mappe di Rho-Pero. Al più presto, visto che la macchina operativa è partita: oggi il consiglio di amministrazione darà il via libera alla gara della "piastra", il bando da 250-300 milioni per realizzare non solo le "fondamenta" del futuro sito espositivo, ma anche alcuni padiglioni.
Gli spazi immaginati dalla Consulta architettonica non sono in discussione: strutture di vetro alte fino a 45 metri dove riprodurre, accanto ad aree all´aperto, tutti i climi del mondo. Lì avrebbero dovuto attecchire vegetazioni di tutte le latitudini. Un sistema complesso, che avrebbe bisogno di terra particolare, tempo, cure scientifiche complesse. Non a caso, gli esperti - capitanati dalla docente di Agraria Claudia Sorlini - che hanno seguito il progetto avevano lanciato l´allarme: «Siamo preoccupati che i ritardi possano compromettere il lavoro». I primi test per valutare la bontà dei terreni sarebbero dovuti partire lo scorso gennaio, per poi iniziare a far arrivare le prime specie rare entro l´estate. Una tabella di marcia che è saltata.
Sala vuole mantenere le strutture previste, così come l´idea di far sorgere le piante. La vera domanda, però, è: cosa diventeranno? E soprattutto: rimarranno in vita dopo l´evento? È per questo che la società sta cercando un nome capace di creare comunque di creare qualcosa di originale e affascinante. La prima idea sarebbe stata quella di affidare gli spazi a Jacques Herzog, l´architetto che ha già seguito il masterplan. Ma per accettare l´incarico, Herzog avrebbe voluto i consigli di Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food che ha ispirato l´orto globale. L´accordo, finora, non è andato in porto e difficilmente si riuscirà a convincere il guru dell´alimentazione.
Il destino delle serre, però, è legato anche a quello del milione di metri quadrati di Rho-Pero che le istituzioni non hanno ancora deciso. La società ha fatto i conti. Le strutture avrebbero dovuto vivere anche dopo il 2015 come eredità di Expo, un grande parco ludico-scientifico. Questa impostazione, però, prevederebbe un ingente investimento (prima) per realizzarlo e (poi) per gestirlo. Sarebbero gli enti pubblici a sostenerlo e i dubbi economici, in tempi di crisi, sono tanti. Per questo l´obiettivo di Sala è anche di trovare un privato che, poi, possa seguire il parco. Anche se, a quel punto, perderebbe l´aspetto prettamente scientifico per quello di spazio del divertimento.
Ecco qualcosa di davvero incomprensibile per gli elettori: la maledizione di Montezuma della sinistra, l´eterna sfida di personalità che avvelena i pozzi della politica e porta lo scontro nella stessa metà campo per la gioia scomposta degli avversari, quelli dell´altro schieramento, che ridono sguaiati e fanno sberleffi. Che smacco, che delusione per le decine di migliaia di cittadini milanesi, cittadini che hanno festeggiato appena pochi mesi fa la nuova primavera arancione. Che delusione questo scontro tra Boeri e Pisapia, gemelli diversi, queste "personalità incompatibili" segnate da storie personali e politiche così simili, un grande avvocato e un grande architetto, buone famiglie buona borghesia buoni studi buone frequentazioni buon cursus honorum, buona gavetta in politica fino al successo elettorale clamoroso e insperato, miracolo a Milano. E che bella fu la scelta di Boeri di sostenere Pisapia in campagna elettorale, dopo aver perso le primarie: che lezione di stile, che esempio di buona politica, che lezione per quei dirigenti del Pd che consideravano – con la vittoria di Pisapia – di aver perso le primarie quando, disse Boeri, «le primarie non si perdono mai: si fanno, e ci si stringe a chi le vince». Dunque cosa impedisce a questi due campioni della sinistra milanese di trasformare la città e la politica, di ridare slancio alle speranze e fiato alle passioni – si chiedono sgomenti a migliaia i militanti, catene di appelli sul web, artisti mobilitati, Celentano che interviene a far da paciere, raccolte di firme e tam tam sulla rete?
Due modi diversi di concepire la politica, dicono sottovoce e con qualche malanimo gli uomini e le donne dei rispettivi staff. Rivalità personale, certo, come è ovvio tra due sfidanti che continuano a darsi di fioretto, come se le primarie non fossero mai finite. Ma soprattutto due modi diversi di pensare la sinistra. Dicono gli uomini di Pisapia che Boeri sia un battitore libero, una personalità solitaria incapace di giocare in squadra, un radicale intemperante, un utopista. Dicono gli uomini di Boeri che Pisapia sia l´incarnazione della realpolitik di sinistra, un mediatore che cerca e trova il compromesso, una figura classica della sinistra milanese cresciuta tra eccellenti salotti e centri sociali, un radicale che piace al centro. E dal rapporto con Formigoni, in effetti, nasce la polemica che sottotraccia è venuta crescendo in questi mesi. Avuta la delega all´Expo, Stefano Boeri non ha mai smesso di ripetere che non si doveva e non si poteva sottoscrivere il progetto Moratti: per quanto non ci fosse tempo, per quanto le ragioni della convenienza dicessero contrario, per quanto potesse essere il prezzo da pagare per ottenere la vittoria elettorale e forse proprio per questo. Lo ha ripetuto fino a che in un´intervista a Radio Popolare lo ha detto chiaro: È stata regalata l´Expo a Formigoni. Cementificazione. Le aree verdi saranno un´elemosina.
Pisapia ha dato segni d´insofferenza pubblici ad ogni esternazione di Boeri: troppo twitter, troppo Facebook, troppe decisioni comunicate in solitudine senza discuterle, troppo fastidio per le liturgie della politica. Il caso dell´Ambrogino a Cattelan è stato il più recente diverbio esemplare. Boeri lo ha proposto, Pisapia ha replicato «mi avvalgo delle facoltà di non rispondere», Cattelan non ha avuto il premio.
Alla differenza di stile personale si aggiunga che non tutto il Pd ha appoggiato Boeri, per quanto possa apparire paradossale. L´uomo delle 13.500 preferenze, secondo a Milano solo a Silvio Berlusconi e oggi capodelegazione Pd in Comune, è vissuto dall´apparato storico del partito come un estraneo. Un outsider che ha scombinato piani e gerarchie, che non deve ringraziare nessuno e si comporta di conseguenza: molto polemico col partito stesso, un battitore libero amato più dagli elettori che dai colleghi in consiglio comunale, più dai giovani che dai dirigenti, più stimato all´estero che in patria. Del resto, che Boeri fosse estraneo alla disciplina di partito lo si sapeva dal principio. Che la sua posizione sull´Expo – di cui lui stesso, da architetto, si è occupato – fosse assai poco conciliante pure. Ora che si è dimesso da assessore alla Cultura, ora che i militanti e gli intellettuali milanesi chiedono a Pisapia di respingere quelle dimissioni siamo in mezzo al guado, alla prova del fuoco. Il sindaco, dicono, è tentato di lasciargli la Cultura riprendendosi la delega all´Expo – e Boeri accetterebbe – ma teme di "fare marcia indietro", di perdere la faccia. Dalla base sale la richiesta unanime: sensatezza, coraggio, rinuncia all´orgoglio personale in nome dell´interesse della città e di una certa idea di sinistra che da Milano si vorrebbe contagiasse il Paese. Sarebbe un piccolo passo per l´uomo un grande passo per l´umanità. Pisapia ha una enorme responsabilità, una grande occasione di mostrare cosa può essere la politica. I milanesi, gli italiani lo guardano.
La «rottura insanabile» si è consumata nel giro di settantadue ore, anche se parte da lontano, dai tempi delle primarie di un anno fa. Tra il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, l´artefice della vittoria del centrosinistra nel capoluogo del berlusconismo, e il suo assessore alla Cultura, l´architetto Stefano Boeri, il divorzio potrebbe essere firmato oggi: «Non c´è più il necessario rapporto di fiducia, che si è andato progressivamente dissolvendo, e da parte tua non c´è mai stato gioco di squadra con il resto delle giunta», avrebbe ribadito ieri Pisapia a Boeri, in un incontro nelle stanze di Palazzo Marino. Mettendogli sul piatto una scelta che sembra obbligata: dimissioni entro oggi, presentate o subite.
È stato un fine settimana di tensione crescente, quello vissuto nella giunta arancione, con una mediazione solo tentata - ma sembra non riuscita - da parte del Pd locale, su richiesta diretta del segretario Bersani. Un crescendo partito venerdì, quando il sindaco ha usato parole durissime e irrituali in un comunicato stampa con oggetto, appunto, l´ultima sortita dell´archistar iscritto al Pd. «Le sue dichiarazioni sul futuro Museo di arte contemporanea rappresentano valutazioni personali mai discusse in giunta e non condivisibili nel merito», scriveva il sindaco. Furibondo perché Boeri, poche ore prima, aveva messo in serio forse la realizzazione di un museo che, invece, è espressamente compreso nel programma elettorale con cui Pisapia è stato eletto. Ma non solo: «Quanto al ruolo di Milano nella preparazione di Expo, la giunta non ha mai evidenziato alcun problema, ragion per cui le affermazioni di Boeri sono da considerarsi evidentemente originate da problematiche personali e non politiche». E qui si arriva ad uno dei nodi cruciali del rapporto tra Pisapia e Boeri. O meglio: tra Boeri e la giunta, che più volte ha manifestato insofferenza per le sue prese di posizione in solitaria sui temi più vari. Ancora negli ultimi giorni, da più parti, è arrivata la lapidaria sentenza: «Boeri non ha mai digerito la sconfitta alle primarie».
Su Expo la tensione è stata alta sin da giugno, perché inizialmente Pisapia aveva affidato all´architetto - uno degli autori del masterplan dell´Esposizione del 2015 - solo la cura degli eventi, e non delle questioni sostanziali (terreni, fondi). Delega ottenuta solo dopo alcuni mesi di lotte neanche tanto sotterranee, ma senza che l´attitudine di Boeri alla dichiarazioni non concordata svanisse: soprattutto, i suoi attacchi si sono concentrati sul presunto eccessivo feeling tra il sindaco e il governatore Roberto Formigoni, con accuse non velate di appiattimento delle scelte sugli appetiti edificatori di quest´ultimo. E ieri Boeri avrebbe provato a superare l´impasse proprio restituendo al sindaco quella delega ad Expo tanto agognata: niente da fare, «se manca la fiducia, manca su tutto». Le cronache del rapporto a corrente alternata si alimentano di episodi minori: Boeri che in pieno agosto e senza parlarne prima con il sindaco afferma di voler portare in Comune il "Quarto Stato" di Pellizza da Volpedo perché «non valorizzato» al Museo del ‘900 o, sempre lui, che entra a piedi uniti nelle difficili trattative in consiglio comunale per far approvare la vendita delle quote della Sea, proponendo un´altra strada.
In questi mesi, in realtà, l´architetto ha deciso di seguire stabilmente una sua linea d´azione, generando più di un malumore: decisioni spesso comunicate su Facebook ancor prima dei passaggi formali in Comune, dibattiti sul futuro della città (vedi cosa fare dell´opera di Cattelan, il cosiddetto "dito medio" in piazza Affari) fatti convocando i cittadini attraverso i social network. Ieri Bersani avrebbe chiesto ai suoi uomini in Lombardia di tentare la trattativa, rimandando qualsiasi decisione per una settimana, in attesa - forse - di una diversa collocazione per Boeri a Roma. Difficile che lo stallo duri tanto: l´assessore avrebbe chiesto tempo fino a stamani solo per comunicare la sua decisione. Su Facebook sono comparsi appelli all´unità, come quello dei consiglieri Pd Civati e Monguzzi: «Pisapia e Boeri difendano il sogno di centinaia di migliaia di elettori milanesi che ci hanno chiesto di cambiare, c´è bisogno di tutti e due». Attacca il leghista Salvini: «Boeri licenziato perché scomodo? Pisapia allora ha fallito, si dimetta anche lui».
Pgt revocato. L'aula di Palazzo Marino ha approvato la delibera presentata dall'assessore all'Urbanistica Lucia De Cesaris con 26 voti a favore (centrosinistra), 3 contrari (la Lega) un astenuto (il radicale Marco Cappato) e il Pdl che ha continuato con lo sciopero del voto. L'aula del Comune fa un salto indietro nel tempo. Si torna alla fase d'adozione del piano di governo del territorio. Con l'esame delle osservazioni presentate dagli enti e dai cittadini. E con l'imperativo da parte di giunta e maggioranza di chiudere in tempi relativamente brevi. E comunque non oltre il termine ultimo e inappellabile del 31 dicembre 2012.
Aria frizzantina in consiglio comunale. L'assessore all'Urbanistica, Lucia De Cesaris conferma la scelta dell'amministrazione: «La decisione presa dalla giunta per il Pgt è giusta, equilibrata, ponderata. Sono tante le criticità del Pgt. A partire dal fatto che spoglia il Comune dei suoi poteri di pianificazione e lascia al mercato la più ampia libertà possibile. Un Pgt che rischia di consentire una pesante cementificazione del Parco Sud. Potevamo buttare all'aria tutto. Abbiamo invece deciso di ripartire dalle osservazioni». Poche ore prima il sindaco Giuliano Pisapia aveva ribadito la linea. «Abbiamo preso un impegno con i cittadini, noi revochiamo il Pgt sotto il profilo della necessità di valutare ed esaminare le osservazioni dei cittadini, cosa che non era stata fatta nel passato.
Ci sono oltre 4 mila osservazioni che vanno valutate per migliorare il futuro della città». Durissima la replica dell'opposizione con il capogruppo Carlo Masseroli, padre del Pgt: «Per rispondere a una élite state ammazzando il popolo milanese. State distruggendo il sistema economico di Milano, con tempi che non riusciamo a capire quali saranno. Vi prendete la responsabilità di questa fase senza regole che mette a repentaglio 40 mila posti di lavoro in una fase di crisi. State distruggendo un sistema economico senza dirci dove volete andare». La replica della De Cesaris è secca. Intanto ricorda che la revoca consente il mantenimento delle misure di salvaguardia, in vigore dal 14 luglio 2010, e l'approvazione dei programmi integrati di intervento e degli interventi diretti.
E poi affonda il colpo: «Non c'è nessuna città bloccata ma una città che ha bisogno di essere ripresa pezzettino per pezzettino per chiudere interventi fermi da anni che la devastano e rendono gli operatori arrabbiati contro la pubblica amministrazione. Ho la fila di persone davanti alla mia porta che mi chiedono di mandare avanti interventi fermi da anni, e non si capisce perché».
Adesso si riparte. Dalle 4765 osservazioni. I tempi? «È necessario adesso muoversi con rapidità e con grande senso di responsabilità - conclude la De Cesaris – per arrivare quanto prima, nell'interesse di tutti, all'approvazione definitiva del Pgt, cercando di anticipare, quanto più possibile, la data ultima del 31 dicembre 2012». «Se, come riteniamo, verranno fatte grandi modifiche al Pgt - replica Masseroli - i tempi si allungheranno a dismisura e sarete costretti a ripubblicare il Pgt. E a questo punto si sforerà il limite del 31 dicembre 2012». Appuntamento per un'altra maratona in aula.
Trentadue pagine con le indicazioni per disegnare il nuovo Piano di governo del territorio. Dove c'è scritto, per esempio, che l'indice edificatorio verrà ridotto a 0,35, che difficilmente si realizzerà la metropolitana leggera denominata «circle line», che scomparirà il tunnel sotto la città. Si racconta che all'origine il titolo del documento fosse la «Milano arancione», poco apprezzato dalla fetta più rossa della città che pure ha contribuito a far vincere il centrosinistra. Sarà per questo che oggi, in cima alla relazione elaborata dalla Consulta del Centro studi per la programmazione intercomunale dell'area metropolitana (Pim) si legge un più neutro «Linee guida per l'esame delle osservazioni al Pgt di Milano».
Il plico è arrivato in questi giorni negli uffici comunali e nelle mani di qualche politico della maggioranza. Ci hanno lavorato i 10 esperti, tra docenti universitari e architetti (alcuni dei quali tra gli estensori delle osservazioni) nominati il 28 settembre e incaricati dall'assessore all'Urbanistica, Lucia De Cesaris, di «supportare» l'amministrazione e in concreto di trovare un bandolo alla matassa delle 4765 osservazioni da riesaminare senza perdere troppo tempo.
Il primo punto sta proprio qui: l'attenzione si potrà rivolgere solo su «un campo ristretto di questioni». Pena la paralisi della città. Si procederà a una «riaggregazione tematica», con prevedibile battaglia in aula da parte del centrodestra.
Nella passata legislatura le osservazioni erano state controdedotte dagli uffici seguendo la stella polare del piano adottato in consiglio comunale. Ora sembra di capire che gli uffici si dovranno attenere alle indicazioni degli architetti scelti dall'assessore, che vanno nella direzione di una diminuzione delle potenzialità edificatorie ma che dicono tante altre cose.
Per cominciare, come annunciato, il Parco Sud non genererà più volumetrie da spalmare in città e saranno i piani di cintura e l'ente parco a dire l'ultima parola sul futuro dell'area. Cambia inoltre l'indice di densificazione attorno alle stazioni del trasporto pubblico: non sarà più 1 come previsto dalla precedente impostazione. Un'altra novità rispetto al piano adottato dall'assessore Carlo Masseroli riguarda la riduzione dell'indice unico anche per gli ambiti del tessuto urbano consolidato (Tuc): era dello 0,50. Rispetto al vecchio documento di inquadramento, le aree oggi vengono in sostanza «svalutate», con una potenzialità edificatoria dello 0,35 mq/mq.
«È sempre ammesso — si legge nel documento a proposito di nuove edificazioni o ristrutturazioni — il recupero della Slp esistente con cambio d'uso nel rispetto comunque dell'indice massimo di 1. In tal caso una quota pari a 0,35 dell'edificabilità massima realizzata dovrà comunque essere determinata da finalità sociali e di interesse pubblico». L'impianto del cambio di destinazione d'uso, libero nella testa di Masseroli, è nella bozza attuale assai diverso. Si tornerà all'antico e alla valutazione delle singole proposte. Con i tempi che ci vorranno.
Capitolo scali ferroviari, anch'essi interessati all'abbassamento dei volumi (0,35 per diritti edificatori liberi, idem per le finalità sociali). «Vi sono problemi — sottolinea il documento — di tipo programmatico/progettuale, emersi dall'accoglimento delle osservazioni in fase di adozione e poi approvazione. Le 2 grandi complicanze sono: quota di verde e housing inserite in adozione, stralcio dell'obbligo di accordo di programma in approvazione del Pgt». Troppo verde e housing sociale diventano «complicanze». E ancora: «Altro nodo è la previsione della circle line, che secondo Rfi andrebbe in conflitto con l'attuale servizio». Sul fronte della mobilità, «lo scenario di medio periodo» conferma oltre alla realizzazione della MM5 fino a San Siro anche la MM4.Il tunnel Expo-Forlanini appare «non coerente con il Pgt». Da «approfondire» la strada interquartiere Nord.