L´anno scorso era rifugio di rom, nel 2015 potrebbe diventare il nuovo polo cittadino del cibo, una grande piazza coperta dove produttori e consumatori si incontrano secondo la filosofia del chilometro zero per abbattere i costi di distribuzione. Ma anche un centro di intrattenimento e cultura con un cinema multisala, uno spazio per la musica dal vivo e spettacoli teatrali, e un impianto sportivo con piscina, palestra, campi da gioco all´aperto e una scenografica pista di atletica di quasi mille metri che si snoda fra pilastri di ferro battuto. Eccolo il futuro del Palazzo di Cristallo, l´ex stabilimento della Lambretta di via Rubattino che ha preso il nome dall´edificio in ferro e vetro costruito a Londra nel 1851 in occasione della prima Esposizione universale della storia.
Un gioiello di architettura industriale di 20 mila metri quadrati di cui oggi resta solo lo scheletro, con una facciata composta da tre grandi arcate di 25 metri ciascuna, che la Aedes, società immobiliare proprietaria di tutto il terreno dove un tempo si costruivano le automobili e dove ora è rimasto attivo solo un capannone della Innse, deve ristrutturare. Il progetto è pronto: il masterplan dello studio di architettura Chapman Taylor specializzato in centri commerciali è già stato mostrato al Comune e il piano integrato di intervento in via di definizione. Se non ci saranno intoppi, le ruspe potrebbero arrivare l´anno venturo e, nel giro di due anni, si realizzerà «il primo esperimento di queste dimensioni di una grande funzione pubblica gestita interamente dai privati», come spiegano a Palazzo Marino.
Perché l´edificio, che resterà di proprietà privata, ospiterà una serie di attività aperte alla città e non esclusivamente commerciali. La nuova struttura sarà dedicata al cibo e diventerà la casa di consorzi agricoli, associazioni e produttori che operano nel settore alimentare in modo da riunire domanda e offerta in un´unica piazza coperta dove i consumatori potranno acquistare prodotti di qualità risparmiando. «L´idea è partita dalla pista di atletica: un anello soprelevato per il jogging che girerà tutto intorno al palazzo sul modello di quella già realizzata a Londra in un edificio industriale ristrutturato - racconta Filippo Carbonari, nuovo amministratore delegato di Aedes - . Da lì si sono sviluppate le altre parti: quella dedicata allo sport verso via Rubattino, quella per l´intrattenimento all´estremità opposta. Nel centro abbiamo pensato a una funzione che a Milano manca, un grande mercato del cibo: una casa per le 26 cascine che producono all´interno del territorio milanese, per i 4600 consorzi alimentari italiani e tutti i produttori di qualità».
LE RESIDENZE
Siamo in via Rubattino, al confine con il comune di Segrate, dove nell´estate del 2009 andò in scena la protesta dei cinque operai della Innse che si asserragliarono su un carroponte per giorni chiedendo il reintegro immediato dei lavoratori licenziati in vista dello smantellamento della fabbrica. Una protesta che si concluse con la vittoria degli operai, l´acquisto da parte della società bresciana Camozzi dello stabilimento e la firma di un accordo di programma in prefettura che prevedeva alcune modifiche al piano di riqualificazione dell´intera area tra cui la salvaguardia dell´ex Innocenti. Ora il progetto è pronto a partire. La Aedes, società quotata in borsa ma finanziariamente in gravi difficoltà da qualche anno, ha presentato una proposta che piace all´amministrazione e potrebbe sbloccare una delle aree di trasformazione più grandi di Milano, inchiodata da anni. Il piano prevede, oltre alla riqualificazione del Palazzo di Cristallo mantenendone la struttura originale in ferro, la realizzazione di 87.500 metri quadrati di appartamenti - di cui 17.500 a canone convenzionato e 7.500 sociale - in fondo all´area, verso Segrate, dove sono già stati abbattuti due capannoni industriali. Per la progettazione delle nuove case - che si aggiungeranno al quartiere residenziale appena costruito al di qua della tangenziale - verrà bandito un concorso riservato a giovani architetti.
IL PARCO
Non mancherà un´area verde che, insieme a quella già messa in ordine da Palazzo Marino sotto il cavalcavia, sarà grande 300 mila metri quadrati. Il nuovo parco circonderà lo stabilimento Innse, che Camozzi si è impegnato a ristrutturare, il Palazzo di Cristallo e le nuove abitazioni. Nel verde Aedes vorrebbe anche costruire un percorso benessere con attrezzature sportive da esterno disponibili a tutti. In contemporanea il Comune ristrutturerà l´edificio all´inizio di via Rubattino, che un tempo ospitava la mensa e gli uffici dell´Innocenti, per farne un complesso scolastico - dal nido alle medie - che il nuovo quartiere aspetta da anni. Il tutto corredato da interventi infrastrutturali che prevedono tra l´altro la trasformazione di via Rubattino in un boulevard alberato secondo il modello dei viali di Milano.
«Rubattino è uno dei progetti incompiuti della città - commenta Ada Lucia De Cesaris, assessore all´Urbanistica - . Il quartiere soffre una grave carenza di servizi e ha diritto a un progetto che riqualifichi l´intero comparto. L´intervento sul Palazzo di Cristallo è essenziale per la riqualificazione, per questo abbiamo avviato un confronto tra l´operatore e la zona, al fine di definire le funzioni e le attività più idonee per garantirne la massima fruibilità». Il progetto è complesso e richiede un investimento di almeno 350 milioni di euro. Soldi ancora da trovare. Il timore del Comune è che l´immobiliare realizzi solo le residenze abbandonando la parte pubblica, ma Carbonari assicura: «Vendere case in questo momento è difficile, lo sanno tutti. Per noi ora è più importante avviare il Palazzo anche perché ci aiuterà a mettere sul mercato gli appartamenti».
la Repubblica
Il sostegno di Dario Fo "Macao mi ricorda la Palazzina Liberty"
di Nadia Ferrigo
Il popolo di Macao ha accolto un ospite d’eccezione: il premio Nobel Dario Fo. Davanti a una platea di 200 persone - artisti, curiosi, studenti - l’attore ha mostrato tutto il suo entusiasmo per il progetto e ha promesso che se ne farà garante anche con il sindaco Giuliano Pisapia: «Non mi aspettavo ci fossero così tante persone consapevoli di fare qualche cosa di straordinario. Ne ho parlato con l’assessore alla cultura Boeri, che era perplesso, come lo si può essere di fronte a un evento così inaspettato». E così dicendo Fo ha toccato un punto che crea un certo imbarazzo alla giunta: l’occupazione illegale di uno spazio, l’atteggiamento da tenere sul caso Torre Galfa, «l’appoggio politico» che gli occupanti chiedono al Comune: «Questa amministrazione non può stare zitta».
L’assessore alle Politiche sociali Majorino ieri diceva: «Lo scandalo non è l’occupazione, ma che in città ci siano tanti spazi inutilizzati». E con lui si dicevano d’accordo Antonello Patta, portavoce della Federazione della Sinistra e i consiglieri di Sel: «L’esperienza di Macao rappresenta una modalità di ricerca e di cultura che deve essere vista con interesse». La replica del centrodestra: «Mi chiedo con quale faccia assessori che non mettono a disposizione spazi vuoti del Comune possano giustificare l’occupazione di proprietà private - commentava Fabrizio De Pasquale del Pdl -La sinistra vuole tenere assieme il rispetto della legge e le occupazioni illegali di immobili, cose che non possono convivere».
Incurante di questi bisticci, l’assemblea aperta nel cortile della Torre è proseguita, tra microfoni malfunzionanti e gli interventi di Dario Fo: «Sono meravigliato, non pensavo che avrei visto qualche cosa di simile a quello che è successo 45 anni fa». Il riferimento è alla Palazzina Liberty, occupata negli anni ‘70 con la moglie Franca Rame, un’esperienza andata avanti per una decina di anni con gli spettacoli del "Collettivo teatrale la Comune". Le analogie sono molte: un luogo abbandonato e inutilizzato, un gruppo di giovani artisti che ha voglia di esprimersi ma non trova spazio, e alla fine se lo prende.
Il tema più sentito dagli occupanti è la possibilità di uno sgombero, tanto che c’è un tavolo di lavoro dedicato al tema "che fare se ci cacciano tutti?". Dario Fo prende di nuovo la parola: «La paura dello sgombero è la stessa che sentivamo quando abbiamo occupato la Palazzina Liberty, e veniva da destra e da sinistra, perché abbiamo rubato lo spazio delle assemblee, dando voce a chi non aveva mai parlato. Bisogna riuscire a coinvolgere tutti, solo così sarete forti. Vi faccio un applauso, vorrei duecento mani per applaudire come si deve». Prima di lasciare l’assemblea, l’ultima raccomandazione: «Fatevi un programma: bisogna avere le idee chiare, altrimenti siamo perduti».
la Repubblica
Il grattacielo arrugginito monumento allo spreco
di Ivan Berni
L’occupazione della torre Galfa da parte di un gruppo di giovani artisti e teatranti è, insieme, qualcosa di temerario e di fortemente simbolico. Detto che occupare un edificio di privati - ancorché di Ligresti - è un atto illegale che non va in nessun modo avallato, il fatto che nel mirino sia finito un grattacielo "storico" della città, desolatamente vuoto da circa quindici anni, in pieno centro e per giunta a ridosso della nuova "Manhattan" di Porta Nuova, assume una rilevanza tutta particolare. È come se qualcuno si fosse preso la briga di gridare che il re è nudo, e che quello spettacolo di abbandono e di impotenza non è più tollerabile. Il gruppo di occupanti reclama nuovi spazi per la cultura, per la musica, per le arti visive, per il design. Cultura autoprodotta, senza il bollino delle istituzioni. Può darsi che un grattacielo lasciato ad arrugginire non sia il luogo ideale per una simile ambizione. Che ci siano problemi di sicurezza insormontabili e che la struttura stessa del palazzo rappresenti un ostacolo impossibile da superare. Però la suggestione è davvero molto forte: a memoria non risulta che in Europa un grattacielo sia mai stato oggetto di un’occupazione abusiva.
Suggestione potente: soprattutto considerando che la vecchia Torre Galfa rappresenta la metafora dell’immobiliarismo speculativo, della logica distorta del mercato, di un’urbanistica che negli anni ha smarrito completamente il suo ruolo di guida alla destinazione della città. Torre Galfa è stata abbandonata perché così com’è non è affittabile: i lavori di manutenzione e ripristino costerebbero troppo, rispetto a quanto potrebbe rendere d’affitto come building direzionale. Inoltre è un grattacielo troppo alto e troppo snello per venire svuotato e "trasformato", com’è invece accaduto alle due torri ex Ferrovie dello Stato davanti alla stazione Garibaldi. Molto improbabile anche l’ipotesi dell’abbattimento, a meno di sostenere costi giganteschi e mettere in piedi un’operazione potenzialmente ad alto rischio, data l’altezza notevole (109 metri) e la stretta vicinanza con altri palazzi per uffici.
Si consideri, inoltre, che si tratta di un edificio che ha più di cinquant’anni, di indubbio valore storico, e che il design del progettista Melchiorre Bega ha i suoi estimatori. Ligresti lo ha comprato per 48 milioni nel 2006, quando già da anni era disabitato e in condizioni precarie. Probabilmente il costruttore sperava che lo sviluppo del progetto Porta Nuova avrebbe portato a una valorizzazione dell’immobile. Sperava che quel vecchio e inabitato grattacielo anni Cinquanta si rivelasse un affare. Una preziosa pedina di scambio nel complesso risico di cessioni e acquisizioni che ha segnato la sua escalation di re delle aree, e del mattone, a Milano.
Le cose sono andate in tutt’altro verso. Ligresti sta per uscire di scena coperto di debiti. Il gioco degli uffici sfitti e dei valori immobiliari messi a patrimonio come scatole vuote non regge più. La crisi e una lunga serie di affari sbagliati hanno messo in ginocchio l’ex re delle aree. Quella vecchia torre arrugginita occupata da un gruppo di squatter creativi è lì per dire, a tutti, che la stagione di quell’urbanistica deve finire. E che quei monumenti allo spreco sono intollerabili. Chi occupa abusivamente ha torto. Ma chi costruisce o compra grattacieli per lasciarli vuoti non ha alcuna ragione.
Corriere della Sera
Fo alla Torre Galfa occupata «Io garante contro lo sgombero»
di Annachiara Sacchi
La luce si riflette sul palazzone della Torre Galfa occupata, gli artisti che per tutto il giorno hanno zappato, pulito i locali, organizzato esibizioni e concerti si fermano ad ascoltare Dario Fo. Il premio Nobel è arrivato all'incrocio tra via Galvani e via Fara (da qui il nome del grattacielo) per portare la sua solidarietà. Per parlare di arte e ideali, di partecipazione e cultura. Per farsi garante «antisgombero» con il Comune. Ma sulla torre «requisita» sabato dal collettivo «Lavoratori dell'arte» e di proprietà di Fondiaria Sai (Ligresti), incombono grosse nuvole. Una denuncia per occupazione abusiva. E un plumbeo imbarazzo nelle stanze della politica: le varie anime della sinistra, sul tema, sembrano parecchio divise.
Oltre duecento persone, ieri, per Dario Fo nel cortile della torre occupata, abbandonata da 15 anni, acquistata nel 2006 dalla Fondiaria Sai (48 milioni di euro) con tanto di bonifica dall'amianto due anni fa. Ci sono gli attivisti che si sono presi il palazzo (terminato nel 1959 su progetto di Melchiorre Bega), che l'hanno ripulito e ribattezzato Macao. Ci sono antagonisti e studenti dell'Accademia, autori televisivi, fotografi, creativi. E poi c'è lui, il premio Nobel. Gli chiedono di spendersi con il Comune per evitare lo sgombero. «Voglio parlare con l'amministrazione — spiega Fo —, non possono stare zitti. L'assessore Boeri mi è sembrato perplesso, ma è positivo che lo sia». E continua: «Questa è un'altra Palazzina Liberty: il Comune deve capire che deve aiutare». E se non fosse ancora chiaro il messaggio, i rappresentanti di Macao aggiungono: «Chiediamo appoggio politico da questa amministrazione che ha il potere di sospendere altri tipi di logiche». E cioè lo sgombero.
«Riportare la legalità in via Galvani», ecco la richiesta del centrodestra, dal Pdl alla Lega. Meno compatto il centrosinistra. Se dai vertici dell'amministrazione sembra di capire che «non ci sono stati contatti con gli occupanti; non li proteggiamo ma nemmeno siamo noi a chiedere lo sgombero», il consiglio comunale pare diviso. Sel: «C'e bisogno di spazi sociali in città. L'esperienza della Torre Galfa, pur nel limite della situazione di occupazione, rappresenta una modalità di ricerca di cultura che non può non essere vista con interesse», dice una nota di Patrizia Quartieri, Mirko Mazzali e Luca Gibillini. Conclusione: «Una Milano aperta deve essere l'obiettivo del nuovo modo di amministrare. Ma nulla può il Comune per impedire eventuali sgomberi chiesti da privati». Carmela Rozza, capogruppo del Pd, è di altro avviso: «Invito la giunta a prendere le distanze da questa occupazione assolutamente illegale». Ed ecco che interviene l'assessore Pierfrancesco Majorino: «Lo scandalo non è l'occupazione, ma che in città ci siano tanti spazi inutilizzati per colpa di un immobilismo ventennale, mentre noi ne stiamo per mettere a disposizione 50. Trattandosi di proprietà privata, non posso condividere l'occupazione, ma questo non mi impedisce di vedere che Macao pone un tema vero».
Solidarietà agli occupanti arriva dalla Federazione della Sinistra: «Siamo con voi». Ma il punto resta: il 5 maggio la proprietà ha fatto denuncia per occupazione abusiva. Fondiaria sembra intenzionata a riprendersi (presto) il palazzo per portare avanti un progetto di «messa a reddito» dell'immobile. Attesa. Nella notte una luce blu illumina la torre. «Sarà un buon weekend con tante iniziative», salutano gli artisti.
Riflettere attorno al tema del paesaggio, in Italia e in particolare a Milano, che nel nostro Paese rappresenta una delle aree a più alto tasso di disordinata urbanizzazione, è una buona occasione per affrontare tutte le contraddizioni che caratterizzano i nostri comportamenti sul tema stesso. Come italiani, pur avendo promosso la Convenzione europea sul paesaggio, continuiamo a essere tra i più scriteriati consumatori di suolo dell'intero continente e, anche in tempi economicamente magri come questi, ci mangiamo, tra abusivismo e lassismo, leggi eluse o leggi compiacenti, centinaia di ettari al giorno sull'altare di una edilizia discutibile per qualità e per utilità.
È una politica irresponsabile, qui come altrove, che consuma territorio e suolo, a danno di altre finalità necessarie, che sono verde pubblico, agricoltura non intensiva in una parola, paesaggio. Una politica, per noi, doppiamente colpevole, perché in Italia il paesaggio non è solo l'indice di un rapporto armonico o disarmonico tra i luoghi e i suoi abitanti. È anche un prodotto vendibile, un attrattore pregiato che può convogliare verso l'Italia, in modo selezionato e territorialmente diffuso, e in particolare verso Milano con l'approssimarsi dell'Expo, visitatori e risorse economiche. Grazie a quello che continuiamo a chiamare «turismo» inteso come mix di bisogni culturali, in senso ampio, cioè l'insieme delle attività, delle emergenze storiche, delle iniziative necessarie per conservare, anche in senso evolutivo, la nostra identità. Il paesaggio riassume tutti quei valori cui il TCI, da 118 anni, rivolge ogni impegno perché sia difeso, valorizzato e promosso.
Quest'anno il Touring ha distribuito a tutti i suoi soci un volume, realizzato in collaborazione con Coldiretti, intitolato «Campagna e città» (invertendo, il binomio città e campagna spesso esaminato dagli storici) con un sottotitolo che recita: dialogo tra due mondi in cerca di nuovi equilibri. Un dialogo in atto, con segnali di un consapevole ritorno. Il rapporto campagna-città sarà anche uno dei temi centrali affrontati proprio nell'Expo 2015: per TCI e Coldiretti rappresenta un'altra grande occasione per dei progetti comuni.
È fortemente auspicabile che Milano da qui al 2015 riveda la condizione urbanistica del suo territorio e con buon senso, realismo, senza inseguire progetti utopici di improbabile realizzazione, si dedichi ad una ottimizzazione degli spazi, valorizzi la sua eccellente (e spesso insospettata) agricoltura urbana e suburbana, destini razionalmente a un uso finalizzato ai temi propri dell'Expo tutti quei «non luoghi», quelle aree degradate e recuperabili che solo la crisi economica ha salvato da una edilizia forsennata, inutile e di bassa qualità.
Anche fuori dall'area espositiva vera e propria, la città deve porgersi all'Expo. E il Touring, associazione nazionale che ha qui la sua sede centrale, crede nel ruolo turistico di una agricoltura corretta e responsabile come elemento principale per disegnare o ripristinare un paesaggio di elevato valore artistico.
Corriere della Sera Milano
Gli artisti del gruppo «Macao» occupano la torre Galfa
di Livia Grossi
«Vogliamo restituire ai cittadini la Torre Galfa». Da ieri il primo dei 31 piani del grattacielo tra via Fara e via Galvani, abbandonato da oltre 15 anni (proprietà gruppo Ligresti), diventa la sede di Macao, il nuovo centro per le arti di Milano. A ridargli vita, un gruppo di «lavoratori dell'arte» composto da artisti, critici, grafici, performer, giornalisti, studenti e insegnanti, una compagine compatta unita da un solo obiettivo: «La cultura come bene comune»; la stessa parola d'ordine che ha mosso diverse occupazioni, dal Teatro Valle di Roma, alle Docks di Venezia, al Teatro Garibaldi di Palermo.
«Un luogo aperto a tutti dove artisti e abitanti del quartiere possono partecipare in prima persona, l'unico modo per far diventare la cultura un soggetto di trasformazione sociale», afferma il collettivo Macao. Laboratori artistici, teatro, musica, film, dj set, ma anche assemblee cittadine (oggi ore 14) e momenti d'incontro con il gruppo San Precario (oggi pomeriggio) e riflessioni collettive sulla formazione in collaborazione con rappresentanti delle università milanesi e incontri sul tema «stereotipi di genere». Un calendario aperto, aggiornato di ora in ora, un lavoro entusiasta anche nelle fasi più difficili. «I lavori di pulizia e di messa in sicurezza sono già iniziati — fanno sapere gli occupanti — come quelli di costruzione del palco che ospiterà performance create ad hoc per lo spazio». Dopo l'inaugurazione di ieri sera con Andrea Labanca e Cassandra Casbah, stasera sono attesi Paolo Bonfanti, i Motus, Walter Leonardi e una special guest a sorpresa.
Ma i contenuti sono più importanti. «Non siamo un sindacato né vogliamo diventarlo», sottolineano i portavoce. «Siamo quella moltitudine di lavoratori precari delle industrie creative tagliati fuori anche dall'attuale riforma del lavoro, tutta concentrata intorno all'articolo 18. Macao è la risposta a una città devastata dalla logica, fare il profitto di pochi per escludere i molti».
Cosa vi aspettate dalla giunta Pisapia?
«Il nostro interlocutore non è il Comune, è la cittadinanza» rispondono, «Macao vuole essere un ambiente diverso, né luogo istituzionale né privato, un luogo gestito dai cittadini. Boeri ieri, di passaggio alla torre, ha fatto trapelare possibili soluzioni, vedremo».
Quali sono i rapporti con la proprietà?«Nessuno. Per ora sappiamo che la Torre è sotto tutela dei Beni culturali, dopo essere stata la sede della Banca Popolare di Milano, il palazzo è stato venduto all'Immobiliare lombarda del Gruppo Ligresti. Dopo la bonifica per l'amianto del 2008, i lavori di ristrutturazione sarebbero dovuti partire l'anno scorso, ma la torre è tuttora vuota e senza lavori in corso. Sappiamo che c'è un curatore fallimentare che sta gestendo i rapporti con i creditori», concludono i manifestanti.
la Repubblica Milano
L’arte invade i 31 piani della torre Galfa
di Alessandra Corica
Grattacielo occupato: ieri mattina i Lavoratori dell’Arte hanno invaso i 31 piani della Torre Galfa, il grattacielo di proprietà del gruppo Ligresti alle spalle della Centrale, abbandonato da anni. Scopo: realizzare Macao, un centro per l’arte e la cultura, in cui tutti i cittadini possano andare e partecipare attivamente. «In Italia si investe poco sulla cultura», spiegano gli occupanti. Il Comune mette dei paletti:« Gli spazi vuoti a Milano ci sono, stiamo studiando come utilizzarli. Ma il no alle occupazioni abusive è netto».
L’arte all’attacco dei grattacieli. Ieri i protagonisti della scena creativa milanese hanno occupato la torre Galfa, per chiedere «un luogo per la cultura in cui tutti possano partecipare e sentirsi protagonisti». Sono i Lavoratori dell’Arte, il collettivo di artisti che già a dicembre aveva occupato il Pac per chiedere luoghi per la creatività a Milano. Ieri hanno preso di mira il grattacielo alle spalle della Centrale. Scopo: dare vita a Macao, «un nuovo centro per le arti, un esperimento di costruzione dal basso di uno spazio dove produrre arte e cultura». Tra gli occupanti, anche i lavoratori del teatro Valle di Roma (in autogestione dal giugno 2011), quelli del teatro Coppola di Catania, del Garibaldi di Palermo, del Sale Docks di Venezia e dell’Asilo della creatività di Napoli. Tutti all’insegna della stessa frase, scritta su uno striscione di 50 metri che da ieri campeggia sull’edificio: «Si potrebbe anche pensare di volare».
L’arte tra fili elettrici, pavimenti divelti e spazzatura. Perché la torre (che sorge tra le vie Galvani e Fara, da cui il nome Galfa) è uno scheletro di vetro e acciaio, «abbandonato da quasi 15 anni», dicono gli occupanti. Che sono danzatori, artisti, attori e creativi di tutte le età, accomunati dalla stessa condizione: la precarietà. «In Italia si investe poco sulla cultura - dice Camilla, frangetta bionda e fisico esile - abbiamo deciso di occupare per rivolgerci non alle autorità, ma alla cittadinanza: vogliamo creare uno spazio autogestito in cui realizzare laboratori, spettacoli e performance». Grattacielo occupato a oltranza, insomma. Dalle 10 di ieri, quando in 150 (nel pomeriggio sono diventati una cinquantina) sono entrati e hanno riempito il primo piano del palazzo, progettato dall’architetto Melchiorre Bega nel 1956. Un edificio avveniristico di 31 piani per 109 metri, annoverato tra i beni culturali della Lombardia. Ma da anni in rovina: costruito per la società Sarom, fu poi acquistato dalla Bpm, che per 30 anni ne fece la sua sede centrale.
Abbandonato dalla metà degli anni ‘90, nel 2006 è stato comprato dalla Fonsai di Ligresti, che lo ha fatto bonificare dall’amianto due anni dopo. Da allora, è in attesa di ristrutturazione. «Abbiamo scelto questo luogo - spiega Andrea, un altro degli occupanti - perché simbolo di una società basata solo su economia e profitto. È per superare questo pensiero che vogliamo costruire Macao. Sarà un centro per l’arte, all’insegna della partecipazione dal basso». In programma ci sono concerti, spettacoli serali e dj set notturni. Un’occupazione a cui Palazzo Marino guarda con preoccupazione «per lo stato dell’edificio». Ieri pomeriggio l’assessore alla Cultura Stefano Boeri ha fatto visita agli artisti. «Ne condivido le idee, ma non l’azione - spiega Boeri - visto che si tratta di un’occupazione abusiva. A Milano ci sono molti spazi vuoti che potrebbero essere una risorsa per le imprese creative: stiamo studiando come fare. Il modello è quello di città come Londra o Berlino, dove gli edifici abbandonati, anche privati, possono essere affidati agli artisti, con la vigilanza delle amministrazioni».
il manifesto
L’arte di occupare un grattacielo non dispiace a Boeri
di Luca Fazio
Esagerati. L’esperimento di costruzione sarà pure partito dal basso, però è forte la tentazione di volare altissimo. Dal 32esimo piano di questo grattacielo occupato gira quasi la testa. Si vede tutta Milano. Bello, anche sotto il primo monsone di maggio. Di fronte svetta «il nuovo» che avanza – lo scempio, oppure un gioiello, è questione di punti di vista: il palazzo di Formigoni, di fianco la pancia di un grattacielo a spirale che punta ancora più in alto (160 m.) e nemmeno troppo all’orizzonte - guarda che combinazione - «il bosco verticale» progettato dall’architetto Stefano Boeri, l’assessore alla cultura del comune di Milano.
Da quassù tira aria di immaginario metropolitano che sta precipitando nel futuro, tutto sta a ridisegnarlo ad immagine e somiglianza di chi la città sempre la subisce senza avere mai la possibilità di costruirsela al di fuori di logiche speculative. Questa è la scommessa delle ragazze e dei ragazzi di Macao, metterci le mani (e anche la faccia) per trasformare la retorica piena di insidie dei beni comuni in «pratiche reali». C’è qualcosa di più folle dell’occupazione di un grattacielo? No, eppure, dopo un anno di Pisapia, veniva quasi spontaneo chiedersi come mai nessuno aveva ancora osato tanto.
Adesso bisogna continuare a ragionare, confrontarsi, discutere, magari anche litigare e prendere la cazzuola. Il grattacielo è malconcio.Ma gli spazi, per ora due piani, sono enormi. Luminosi. Pieni di persone che già fanno e disfano confrontandosi anche solo per darsi il «cinque». Sì, è una figata. Intanto, chi sono. Una parola non basta, in rozza sintesi: sono il Teatro Valle di casa nostra.Maè poco. E nemmeno «giovani» funziona più. Loro dicono che Macao diventerà «il nuovo centro per le arti e la ricerca di Milano », da restituire ai cittadini. Cultura, roba che non si mangia e soprattutto non dà da mangiare - ecco allora spunta la richiesta di unwelfare che garantisca il futuro anche dei lavoratori delle arti applicate o anche solo sognate.
Ma loro chi? Sono artisti (definizione piuttosto scivolosa), curatori, critici, guardia sala, grafici, performer, attori, danzatori, musicisti, scrittori, giornalisti, insegnanti d’arte, ricercatori, studenti, insomma la parte più vivace sfruttata e precaria di questa città che è pur sempre la capitale del terziario avanzato. Ribelli, almeno nelle intenzioni: «Siamo il cuore pulsante dell’economia del futuro, e non intendiamo continuare ad assecondare meccanismi di mancata redistribuzione e di sfruttamento». E questo proposito, tra un suicidio e l’altro, basterebbe come premessa per progettare la rivoluzione.
Da dove cominciare è la questione più controversa, e di questo sono chiamati a ragionare artisti, intellettuali (speriamo anche no), esperti del diritto (speriamo anche di storia o genetica) e attivisti vari. Insomma, cittadini. Ma se lo tengono il grattacielo? Una volta si sarebbe detto: ma quando li sgomberano? L’assessore Stefano Boeri ha l’aria di essere troppo intelligente per non saper gestire una situazione di questo genere, forse è un’occasione da non sprecare, anche per lui e per Milano. Ha detto questo: «Siccome rappresento una istituzione, non posso condividere il metodo dell’occupazione, ma...».
E in quel ma, c’è qualcosa che da queste parti non siamo ancora abituati a sentire: «Le questioni che sollevano gli occupanti sono importanti, a Milano esiste il problema dei troppi spazi inutilizzati per imprese di tipo creativo. Mi auguro che questa esperienza venga formalizzata attraverso forme legali di riutilizzo temporaneo degli spazi, come già accade in città come Berlino. Con un gruppo del Politecnico stiamo lavorando in questa direzione».
Come toccare il grattacielo con un dito (poi tocchiamo ferro).
In occasione della presentazione al Politecnico di Milano di un volume curato da Andrea Arcidiacono e Laura Pogliani [1], si è parlato, sia pure per vaghi cenni, del nuovo PGT: presenti il sindaco Pisapia, l’assessore all’Urbanistica Ada De Cesaris, alcuni relatori titolati, fra cui il professore emerito Giuseppe Campos Venuti.
Aula affollatissima di studenti, docenti e cultori della materia; atmosfera da attesa di una “nuova stagione urbanistica” che, però, a ripensarci, è iniziata in maniera anomala: nessuno dei presenti conosceva, se non attraverso poche paginette di sintesi, i contenuti del nuovo PGT, emendato dagli uffici tecnici del Comune con la consulenza esterna di alcuni ricercatori del Politecnico, quasi tutti riferibili a una molto identificabile area cultural-disciplinare.
Ma anche dopo questo affollato evento, il piano non è stato fatto circolare; solo quando è stato consegnato in forma di bozza a tutti i membri del Consiglio Comunale, se ne è potuto conoscere il contenuto, di fatto ingenerando molte perplessità: in generale, sullo stile di comunicazione della Giunta e dell’Assessorato all’Urbanistica e, in particolare, su alcuni aspetti del piano stesso. La scelta di ri-partire dalle osservazioni dei cittadini per modificare il PGT di Moratti & Soci era stata motivata con argomenti più che condivisibili: restituire democrazia al processo di pianificazione e legittimità di ascolto alla società civile[2]. Ma questa scelta è stata obbligata: per non ‘rifare il Piano’, dati i vincoli strettissimi sui tempi di approvazione e pubblicazione, si è deciso di procedere a una sua correzione, sulla base delle osservazioni ricevute, per passare poi rapidamente al dibattito consiliare e all’approvazione. Si è trattato di una correzione puntuale e pignola, fatta di tagli, aggiunte, modifiche (alcune anche molto consistenti e certamente migliorative, quali la drastica riduzione delle volumetrie previste dall’insensato PGT di Moratti & Soci, la tutela del Parco Sud, l’attenzione per l’housing sociale): ma sul risultato complessivo ci sono molte perplessità.
Alcune riflessioni critiche sono già state pubblicate in eddyburg; mi riferisco alle osservazioni di Italia Nostra, di Alberto Roccella e di Roberto Camagni: le ultime due in particolare nel merito del modello di perequazione urbanistica proposto a suo tempo nel PGT di Moratti & Soci che rimane nella nuova bozza di PGT sostanzialmente inalterato [3]. Intendo di seguito aggiungere qualche elemento alle considerazioni critiche di Camagni e Roccella in merito alla assoluta anomalia della “perequazione sconfinata alla milanese”, o di “seconda generazione” come l’ha più eufemisticamente definita Ezio Micelli.
Esistono esperienze simili in ambito internazionale? Sulla base di una mia ricerca piuttosto approfondita mi sembra di poter sostenere che in nessun paese o contesto locale, neppure là dove il Transfer of Development Rights (TDR) è stato inventato e sperimentato da più lungo tempo, e cioè gli Stati Uniti, se ne trova traccia.
E, naturalmente, la domanda che mi pongo e pongo al sindaco Pisapia è: perché proprio a Milano insistere nello sperimentare questa sedicente ‘innovazione’? perché, soprattutto, per iniziativa di una Giunta di sinistra che si è insediata dopo venti anni di potere berlusconiano in cui la logica del mercato ha totalmente prevalso sulla logica del piano?
Il trasferimento dei diritti edificatori nel paese che l’ha inventato. Gli Stati Uniti.
“If in a given community unchecked popular rule means unlimited waste and destruction of the natural resources - soil, fertility, waterpower, forests, game, wild-life - which by right belong as much to subsequents generations as to the present generation, then it is sure proof that the present generation is not yet really fit for self-control, that it is not yet fit to exercise the high andresponsible privilege of a rule which shall be both by the people and for the people” (Theodore Roosevelt, 1916).
Spesso, gli scritti americani, teorici o operativi, sul Transfer of Development Rights (TDR) iniziano con la citazione di questa frase lungimirante, che precede di 70 anni la nota definizione di sviluppo sostenibile contenuta nel Rapporto Bruntland.
Ed è stato proprio per contrastare lo sprawl insediativo, l’abnorme e incessante dilatazione del suburbio nordamericano divoratore di risorse territoriali, che il TDR è stato sperimentato nel corso del tempo e in numero crescente di Stati e di amministrazioni locali degli USA: uno strumento che viene utilizzato per la prima volta a New York nel 1968 per tutelare gli edifici storici del centro (dove viene incorporato nella “ New York’s Landmarks Preservation”), ma che verrà applicato estesamente, dagli anni ’80 in poi, soprattutto per garantire tutela perenne alle aree agricole suburbane minacciate dal proliferare di quartieri a bassa densità, autostrade e grandi centri commerciali.
Il meccanismo del TDR è noto: per arginare lo sprawl, per preservare il territorio agricolo e tutelare le risorse di paesaggio, si procede a spostare i diritti edificatori che ogni suolo di proprietà privata incorpora negli USA [4]in altre aree già destinate dal piano di zonizzazione locale a funzione residenziale/commerciale/produttiva: acquistando diritti edificatori dalle “ sending zones” (SZ) e trasferendoli nelle “ receiving zones” (RZ), il developer otterrà un surplus di edificabilità ( downzoning), mentre il proprietario del suolo agricolo vedrà per sempre congelato il diritto a trasformare la sua proprietà.
Come già sottolineato, il TDR è stato utilizzato negli USA anche con un secondo obiettivo: tutelare gli edifici storici dei downtown, consentendo che diritti edificatori garantiti dallo zoning in una porzione centrale del tessuto urbano non vengano dal proprietario esercitati demolendo o elevando gli edifici stessi, ma trasferendo la capacità edificatoria concessa in isolati, per lo più prossimi, che gli garantiscano comunque il vantaggio economico atteso.
Il TDR si affida dunque a meccanismi di mercato per rendere più flessibile e, se ben amministrato, più vantaggioso anche per la collettività, il rigido piano di destinazione d’uso dei suoli : uno zoning che da un lato inonda di case e casette unifamiliari il territorio agricolo suburbano e, dall’altro, rischia di omologare gli edifici dei distretti più centrali cancellando le testimonianze architettoniche del passato.
In breve: a quali condizioni si realizza il TDR “all’americana” ?
Occorre una precisa identificazione delle aree di origine e delle aree di atterraggio e, come già detto, il proprietario che vende i diritti edificatori, o chi gli succederà, deve accettare di vedere congelata per sempre ogni possibilità di trasformazione.
Il TDR opera inoltre all’interno di un sistema di regole molto preciso e cogente (e quindi anche molto complesso); non sostituisce il mercato al piano, poiché lungi dall’annullare lo zoning, richiede anzi l’elaborazione di un comprehensive plan (un piano generale relativo a tutta la città e che vuole mettere a sistema gli aspetti economici, sociali, ambientali e trasportistici) molto più coerente, integrato e proiettato al futuro di quanto normalmente avviene nelle routine tecnico-amministrative locali. Obbliga infatti le amministrazioni a “guardare avanti”, tenendo in piena considerazione i futuri bisogni e cambiamenti della comunità; e richiede una precisa identificazione nei piani locali (sia nel comprehensive plan che nello zoning plan) delle aree che si intende sottoporre a tutela perenne e delle aree meglio vocate alla densificazione.
Richiede inoltre la presenza nell’amministrazione di competenze sofisticate, capaci di realizzare esercizi assai complessi per definire un “predictable real estate environment” e, in particolare, per verificare l’esistenza di una forte domanda di mercato nelle RA; e per effettuare una valutazione finanziaria del valore delle specifiche aree al fine di determinare il giusto valore dei diritti maturati dalle SA, da corrispondere da parte dei developer delle RA [5].
Infine, può essere utile per la comunità locale istituire una Banca dei Crediti ( TDR Credit Bank) dove i diritti edificatori possano essere temporaneamente depositati in attesa che siano acquistati dai developer. E in tale banca possono essere depositati anche i crediti (diritti edificatori) acquistati dai governi locali per tutelare aree di alto pregio ambientale [6]
Si può dunque affermare che il TDR americano si è sviluppato secondo un setting molto controllato dalla amministrazione locale su dove potrà avvenire lo sviluppo e dove non potrà realizzarsi; in questo senso possiamo attribuirgli un connotato “regolativo” atto a facilitare una più virtuosa destinazione degli usi del suolo (nonché una precisa definizione del valore dei “crediti”). E infatti oggi, nelle grandi città con amministrazioni locali lungimiranti, il TDR viene utilizzato come strumento di Smart Growth; viene associato ad altre misure e progetti che connotano il modello “sostenibile” di trasformazione urbana: quartieri a dimensione del pedone, diversificazione funzionale locale, potenziamento dell’offerta abitativa per i gruppi meno agiati, accessibilità con il trasporto pubblico, etc.
Infine, e questo aspetto è da considerarsi cruciale, il TDR è legittimato da processi partecipativi. Soprattutto nelle aree di atterraggio, in tutte le leggi dei singoli Stati, i cittadini non solo devono essere informati in merito all’incremento del carico insediativo e ai suoi possibili effetti, ma anche in merito al mix funzionale e alle tipologie di intervento progettuale; e possono determinare la drastica modifica o addirittura la soppressione del progetto di intensificazione.
Casi di successo in USA.
A puro titolo di esempio cito alcuni casi, che corrispondono alle principali tipologie di applicazione del TDR:
- una buona pratica “pionieristica”: si tratta della Grand Central Station di New York dove, nei tardi anni ’60, per impedire che la proprietà usufruisse del diritto di sviluppo in altezza che le veniva accordato dallo zoning (una addizione di 53 piani che avrebbe compromesso irreversibilmente un importante Landmark), la amministrazione locale decide trasferire gli ‘height development rights’ (i diritti di sviluppo in altezza) in una zona adiacente, ottenendo altresì di ridurre l’effetto canyon promuovendo edifici ad altezze differenti in tutto il distretto centrale;
- una buona pratica recente: si tratta del ‘Comprehensive Downtown Restoration Plan’ iniziato a Seattle nel 1985 con gli obiettivi di tutelare le abitazioni per i gruppi basso livello di reddito, gli edifici storici e quelli dedicati alla cultura e all’arte; promuovere un addensamento compatibile con il tessuto preesistente in alcuni distretti specifici; incentivare la realizzazione di nuovi interventi edilizi molto diversificati per dimensione. Il modello di TDR sperimentato a Seattle è complesso: in alcuni distretti molto vivibili e turistici (i frequentatissimi Harbourfront e Pike Market Mixed Zone) non è consentito individuare alcuna SA; nel downtown commerciale il TDR può avvenire soltanto fra edifici appartenenti allo stesso isolato urbano con un rigido controllo sulla qualità estetica e la diversificazione del mix funzionale; in altri distretti centrali il TDR è utilizzato più estesamente, ma con il criterio di trasferire diritti da zone con importanti istituzioni storiche e culturali a zone prevalentemente destinate ad uffici. Accanto alla definizione di una densità di base (generalmente inferiore a quella prevista dallo zoning), l’amministrazione introduce due tipi di incentivi economici: use incentives per i developer che realizzano edilizia per i gruppi a basso reddito e servizi locali, e design incentives per i developer che realizzano aree pedonali, piste ciclabili, spazi pubblici al piano terra, tetti verdi, spazi espositivi;
- infine, per la tutela perenne delle aree agricole, possiamo citare, fra le esperienze di successo, quella della Montgomery County nel Maryland e di Pinelands nel New Jersey dove la dimensione delle superfici agricole sottoposte a tutela perenne risulta molto elevata.
Ad oggi, più di 20 Stati hanno introdotto il TDR. Buon ultimolo Stato dell’Oregon, noto per l’eccellenza della sua legislazione urbanistica[7]. Sette stati hanno specifici statuti TDR dedicati a proteggere esclusivamente il territorio agricolo.
E in Canada?
Nel caso del Canada, il TDR, opportunamente ridefinito Trasfer of Development Credits, è stato applicato in maniera molto più limitata e prevalentemente in contesti urbani (mentre nel caso degli USA il 63,5% dei programmi TDR riguardano la tutela del territorio agricolo). I più importanti sono stati quelli sperimentati a Vancouver, Toronto e Calgary: tutti e tre dedicati alla tutela del patrimonio storico-architettonico. In particolare, Vancouver ha a tutt’oggi un programma di TDC ( Heritage Density Transfer System), iniziato nel 1983 e revisionato nel 1993, che viene utilizzato per proteggere e restaurare i Lamdmark storici, ma anche per tutelare spazi aperti e realizzare parchi urbani. Inoltre, sono i governi provinciali, da cui dipende il controllo degli strumenti urbanistici delle municipalità, che definiscono le direttive e le modalità di supporto tecnico e finanziario dei progetti.
In Canada non soltanto il coinvolgimento della comunità è considerato cruciale, ma è previsto il ricorso alle urne ( polling) nel caso si manifestino forti opposizioni locali.
Potremmo estendere il nostro sguardo anche ad alcuni paesi dell’America Latina o dell'Asia, ma veniamo piuttosto all’Europa.
Il trasferimento dei diritti edificatori emigra in Europa.
In Europa il TDR ha ricevuto molto minore attenzione e gode di una assai modesta applicazione.
In primo luogo, perché in molti paesi del Nord Europa vige il principio che la proprietà del suolo non include il diritto del proprietario alla cattura del plusvalore determinato dall’urbanizzazione e il plusvalore è catturato per l’essenziale dalla collettività (Svezia, Finlandia, Danimarca, Germania, UK,…). Nell’Europa del Sud invece, tendenzialmente si lascia al proprietario fondiario la cattura del plusvalore, ma lo si tassa (più o meno adeguatamente…notoriamente in modo assolutamente inadeguato in Italia).
Ciò avviene perché vi è una differenza sostanziale in materia di diritti di proprietà applicati allo spazio nei sistemi giuridici ispirati dal diritto romano, rispetto a quelli ispirati dalla common law anglosassone. Nella maggior parte dei paesi dell’Europa Occidentale vale infatti il principio del non indennizzo dei proprietari di aree in cui vige l’interdizione a costruire.
Su questo principio che genera iniquità nel trattamento dei singoli proprietari, alcuni paesi (dell’Europa del Sud) hanno introdotto il TDR come rimedio alla eccessiva rigidità e arbitrarietà del piano di destinazione d’uso dei suoli e, come in Italia, come strumento sostitutivo dell’indennità di esproprio al fine di costituire un patrimonio di aree a destinazione pubblica e incrementare il capitale fisso sociale.
La Francia [8] è stata fra i primi paesi dell’Europa del Sud a inserirlo nella legislazione urbanistica: il “ transfert de COS (Coefficient d’Occupation des Sols)” è oggetto della Loi Galley del 1976 che dà la possibilità di trasferire diritti da una zona ( émettrice) a un’altra ( réceptrice). L’obiettivo dichiarato nel testo di legge è, come negli Stati Uniti, la protezione di zone dotate di “buona qualità del paesaggio”; ma questa locuzione, come ha ben evidenziato Renard, si è prestata a vistose ambiguità. Infatti, poiché il territorio agricolo, negli anni ‘70/’80 era difficilmente assimilabile a questa categoria, il consumo di suolo agricolo periurbano in Francia non solo non è diminuito ma, anzi, proprio a partire dalla metà degli anni ’70 è diventato esplosivo grazie alle politiche di incentivazione dell’accesso alla casa in proprietà promosse da Giscard d’Estaing [9]. E anche Renard giunge alla conclusione che il meccanismo della perequazione può funzionare solo nelle condizioni di un contesto di pianificazione e di regolamentazione molto stretto e con il supporto di una valutazione molto fine dei mercati locali.
Comunque, in Francia, a 23 anni dalla approvazione della legge Galley che ha suscitato infinite polemiche, le esperienze di trasferimento dei COS risultano assolutamente modeste per entità. Si è trattato spesso di accordi informali fra pochi proprietari soprattutto e a piccolissima scala. E, comunque, la stretta identificazione delle aree di partenza e di atterraggio è requisito indispensabile per la realizzazione dello strumento TDR: di nuovo, una differenza sostanziale, rispetto al “modello milanese”.
Inoltre, la legge urbanistica nazionale approvata in Francia nel 2000 ( SRU) ha posto severi argini regolamentari al consumo di suolo agricolo periurbano, senza ricorrere a meccanismi perequativi. Essa riconferma l’importanza del piano di destinazione d’uso dei suoli comunale, che diventa il “prodotto finale” di un esercizio complesso di messa in prospettiva del territorio comunale attraverso l’individuazione degli obiettivi di medio periodo, la definizione di “progetti di futuro” e il coinvolgimento civico ( Plan Local d’Urbanisme); e rilancia altresì la pianificazione di scala intercomunale con precise regole non contrattabili in materia di consumo di suolo perturbano ( Schéma de la Cohérence Territoriale).
In Spagna esiste la TAU (Transferencia de Aprovechamiento Urbanistico), anche se non tutte le leggi urbanistiche regionali la hanno adottata: comunque le aree di origine e di atterraggio devono essere chiaramente individuate all’interno di comparti omogenei (“los terrenos se encuentran en una misma área de reparto).
Assai differente (e per molti aspetti anomala) la situazione lombardo/milanese: una legislazione urbanistica regionale piena di contraddizioni e aporie, che consente una eccessiva flessibilità dello zoning; l’eredità di un bruttissimo PGT morattiano, che è stato certo emendato e migliorato significativamente, ma sottovalutando completamente il rischio implicito nel modello, unico al mondo, di “perequazione sconfinata”. Infatti, la trasferibilità dei diritti edificatori su quasi tutto il territorio comunale (sugli ambiti del Tessuto Urbano Consolidato) potrà determinare abnormi processi di addensamento centrale e un indebito vantaggio per il proprietario di aree non centrali al quale sono attribuiti diritti edificatori utilizzabili ovunque.
Una domanda al Sindaco Pisapia: perché non è stato emendato il principio della “perequazione sconfinata”?
Perché non si è ritenuto opportuno modificare, nella riscrittura del Piano delle Regole, l’art. 7, comma 5 che recita “L’impiego, anche in forma frazionata, dei diritti edificatori di cui al comma 4 è libero e può essere esercitato su tutto il territorio comunale edificabile nel rispetto della presente norma (…)”?
Perché non rimediare immediatamente al danno riscrivendolo, ad esempio in questo modo: “ la perequazione attua il principio di equità consentendo la trasferibilità dei diritti edificatori all’interno di fasce omogenee del territorio comunale, oppure stabilendo rapporti di concambio di diritti volumetrici per fasce omogenee di origine e di destinazione”?
Era il minimo che ci si poteva attendere. Ma forse è ancora possibile!
RIFERIMENTI CITATI
Gibelli M. C. (2012), “Governare l’esodo urbano e il consumo di suolo. Perché? Come?, in Bonora P. (a cura di), Visioni e politiche del territorio. Per una nuova alleanza fra urbano e rurale, Quaderni del Territorio n. 2, http://www.storicamente.org/quadterr2/index.html
Merlin P. (2009), L’exode urbain, Paris, La Documentation française.
[1] Arcidiacono A., Pogliani L. (2011) (a cura di), Milano al futuro. Riforma o crisi del governo urbano, Milano, et al.
[2] Era una scelta che auspicavamo anche noi di eddyburg: in un articolo pubblicato in questi giorni sulla rivista spagnola Urban, ma scritto nel maggio scorso prima delle elezioni municipali, avevamo successivamente aggiunto una postilla: “Riconosciuta l’aperta violazione delle procedure partecipative, si è deciso di revocare la delibera di approvazione del Piano di Governo del Territorio, tornando all’esame delle osservazioni dei cittadini che erano state respinte in blocco dal governo precedente: un preludio necessario a una complessiva revisione del Piano con cui si intende ricostituire un sistema di garanzie, trasparenza e pubblicità” (Bottini F., Gibelli M. C., “Milán: la difícil herencia de veinte años de desregulación urbanística”, in Urban, n. 3, marzo-agosto, Madrid).
[3] La perequazione sconfinata avrebbe limitata coerenza giuridica e debole base normativa, godrebbe di iniqui vantaggi fiscali, attribuirebbe diritti edificatori a titolo definitivo riacquistabili quindi soltanto a titolo oneroso per la collettività (Roccella); e introdurrebbe una nuova fattispecie di esiti speculativi basati su un incremento di rendita differenziale di cui godrebbe un diritto edificatorio generato su un’area periferica trasferibile senza limitazioni in un’area centrale (Camagni).
[4] Il Quinto Emendamento della Costituzione Americana recita: “nor shall private property be taken for public use without compensation”.
[5] La definizione del giusto valore, anzi di un valore che incentivi il proprietario delle SA ad alienare i diritti edificatori, è fondamentale, in quanto il meccanismo dei TDR non ha carattere obbligatorio.
[6] Soltanto con una precisa definizione del valore dei “crediti” scambiati, implicita nella loro connotazione di origine e di destinazione, la Banca dei Crediti può funzionare come una cassetta di sicurezza di beni preziosi e come un mercato “regolato” di questi beni. Cosa che non si verificherebbe in una Borsa dei diritti alla milanese in cui si scambierebbe un unico astratto metrocubo edificabile a Milano, soggetto a facilissime e prevedibili manovre speculative.
[7] Nel 2009 lo Stato dell’Oregon ha approvato il Senate Bill 763 che autorizza i governi locali a sperimentare il TDR e, allo stesso tempo, ha approvato l’House Bill 2228 che istituisce un programma pilota che autorizza la Land Conservation and Development Commission (il “ministero” statale che ha competenza in materia di pianificazione urbanistica, territoriale e ambientale) a selezionare tre progetti pilota di TDR. Nel caso dei progetti pilota, i meccanismi di controllo sono severissimi e molto centralizzati: le SA vengono identificate dall’Oregon Department of Geology and Minerals; le RA devono essere individuate anche attraverso processi comunicativi e partecipativi; ma preliminare alla discussione dei progetti, è il benestare della contea, in particolare se l’area è interna all’Urban Growth Boundary. Necessario per decidere della eleggibilità della RA e del livello di addensamento è il parere di un comitato di peer review composto da valutatori, giuristi, rappresentanti della LCDC e della amministrazione locale coinvolta.
[8] Faccio qui riferimento all’utilissimo saggio di Vincent Renard: “Où en sont les sistémes de transfert de COS” pubblicato inEtudes Foncières, 1999.
[9] A conferma della osservazione di Renard stanno i dati sul consumo di suolo agricolo per urbanizzazione in Francia: 807.000 ettari urbanizzati fra il 1992 e il 2004 (184 ettari al giorno); e sono stati le abitazioni unifamiliari (410.000 ettari contro 11.000 ettari destinati a edilizia condominiale) e le infrastrutture stradali (148.000 ettari) i maggiori consumatori di territorio aperto. Il dato ancora più preoccupante è il seguente: nel periodo analizzato l’80% del territorio urbanizzato per realizzare la “villettopoli” francese era precedentemente dedicato alla produzione agricola (Merlin, 2009; Gibelli, 2011).
I guai di Ligresti travolgono i cantieri del Cerba. Umberto Veronesi l’aveva definito il progetto «apripista di Expo». Eppure, quella cittadella della scienza che l’oncologo sogna fin dagli anni Novanta, non sarebbe comunque riuscita a inaugurare i reparti come previsto insieme ai padiglioni del 2015. Colpa del grande gelo calato sulla disponibilità finanziaria dei possibili sponsor, che aveva già fatto slittare di un anno, all’autunno del 2012, anche l’ultima ipotesi di avvio dei lavori. Adesso anche questo obiettivo si allontana sempre di più. E, nella migliore delle ipotesi, gli operai non si presenteranno su quei 620mila metri quadrati di Parco Sud destinati a trasformarsi nel Centro per la ricerca biomedica avanzata prima della primavera-estate del 2013. Tutto sospeso. In attesa che si definisca proprio il primo dei presupposti: la disponibilità delle aree di proprietà di una società del gruppo Ligresti (la Im.Co.) per cui la procura ha chiesto il fallimento.
È un cammino accidentato quello del Cerba: un moderno polo dedicato alla cura e alla ricerca (dall’oncologia allo studio del Dna), accanto all’attuale Istituto europeo di oncologia, che avrebbe dovuto ospitare anche un campus per far lavorare i cervelli di tutto il mondo, un grande parco, strutture per accogliere i familiari dei pazienti. Ma che stenta a prendere il via. I lavori sarebbero dovuti partire nel 2009 per terminare in due fasi: un primo taglio del nastro nel 2012, il completamento del progetto nel 2017. Sono stati rimandati di anno in anno, tra ostacoli burocratici, la crisi economica, la difficoltà a trovare partner per un disegno che, in totale, vale 1 miliardo e 300 milioni. E ora arriva anche l’ultimo rinvio, che non consegna neppure una data certa a cui appigliarsi.
Il motivo? Proprio in questi giorni sarebbe scaduto il tempo a disposizione della Fondazione Cerba per siglare gli ultimi atti urbanistici necessari per inaugurare i cantieri. Ma «in via prudenziale» le istituzioni hanno «rinviato» ogni decisione che riguarda la stipula delle convenzioni finali del Piano integrato di intervento. Impossibile mettere quelle firme nell’incertezza di base che riguarda le aree stesse su cui gettare le fondamenta. Serve tempo per capire come sciogliere il nodo dei 620mila metri quadrati di terra nel Parco Sud. I terreni, infatti, sono di proprietà di Im.Co., una società del gruppo Ligresti che rischia il tracollo sotto il peso dei debiti. Dopo la richiesta di fallimento della procura, i legali della spa hanno presentato un piano di salvataggio e il tribunale fallimentare si è riaggiornato al prossimo 13 giugno. È da queste decisioni che dipende il destino del Cerba. Ed è per questo che tutti gli attori (Regione, Provincia, Comune, Parco agricolo Sud, Fondazione Cerba e la società Im.Co.) che partecipano all’accordo di programma urbanistico ieri hanno rinviato ogni passo urbanistico. Al Pirellone, però, sarebbe stata assicurata la volontà di portare avanti il progetto. Con il governatore Roberto Formigoni che ha sottolineato la necessità «di non pregiudicare la realizzazione di questo importante e strategico intervento». È questo che ha fatto il Collegio di vigilanza che sovrintende all’accordo urbanistico: concedere una proroga. La soluzione per il Cerba sarebbe quella di far confluire i terreni in un fondo immobiliare, gestito dalla società Hines di Manfredi Catella, che potrebbe farsi carico anche dei debiti di Ligresti con le banche. Sempre che le trattative con creditori e procura vadano in porto.
Una precisazione: contemporaneamente a questo articolo di Repubblica , il berlusconiano Giornale pubblica un brevissimo trafiletto intitolato “La Città della Salute verso via Ripamonti” in cui senza citare fonti particolari si afferma che il potenziale polo di ricerca pubblico (sinora presentato come complementare al privato Cerba) potrebbe rinunciare alle opzioni localizzative in aree dismesse prospettate, per andarsi a collocare esattamente al posto dell’ospedale caldeggiato da Veronesi. Il che conferma se necessario la natura tutta speculativa delle pressioni sui terreni di Ligresti, e l’estraneità sostanziale degli aspetti sanitari, di accessibilità ecc., lasciati tutti alla pura capacità della comunicazione. Insomma i vecchi vizi sono non solo duri a morire, ma ancora vivi e vegeti (f.b.)
È la rivincita dei nuovi contadini. La riscoperta dell’agricoltura sana, biologica, legata al territorio, capace non solo di produrre alimenti buoni, ma di tutelare il paesaggio e l’ambiente, di disegnare la pianura con i filari di piante, le siepi, i canali tra i campi, il recupero degli antichi fontanili. È l’agricoltura come bisogno di bellezza e di armonia. Parte dal convegno "L’agricoltura è salute. L’agricoltura è arte", nell’ambito del progetto Expo Days, promosso dall’assessore Stefano Boeri, la sfida milanese al tema "Nutrire il pianeta, energia per la vita", che sarà al centro dell’Expo 2015. Sabato prossimo, dalle 9,30 alle 13,30 alla Triennale, agricoltori, medici, agronomi, esperti in alimentazione, si danno appuntamento per discutere come migliorare la nostra vita, a partire dalla nostra città. Perché anche Milano, molti non lo sanno, è ricca di campi e allevamenti.
Giulia Maria Crespi, presidente onorario del Fai, il Fondo per l’ambiente italiano, fondatrice della più grande azienda agricola biodinamica italiana, alla Zelata di Bereguardo, in provincia di Pavia, racconterà questa «nuova consapevolezza»: «I milanesi stanno cominciando a imparare che il loro Comune e la loro provincia non è fatta solo di cemento e asfalto. Basta inforcare una bicicletta e uscire dalla città per riscoprire, a pochi minuti, quel mondo contadino che ci può ancora salvare e che noi dobbiamo aiutare a crescere».Su "Povertà, qualità del cibo e salute" sarà l’intervento di Matteo Giannattasio, docente di Qualità degli alimenti e salute all’Università di Padova. «In passato i ricchi erano obesi e i poveri erano magri e sofferenti di disturbi legati alla malnutrizione - spiega Giannattasio. - Oggi paradossalmente l’obesità dilaga maggiormente tra i poveri, ma si accompagna, nonostante gli eccessi alimentari, a carenze nutrizionali. Un paradosso che si spiega col fatto che la povertà porta al consumo di alimenti di bassa qualità».
Segnali incoraggianti per l’agricoltura più attenta alla salute viene dal forte incremento del numero di consumatori che si rivolgono ai prodotti biologici. Fabio Brescacin, amministratore delegato di EcorNaturaSì spa, la più grande rete di distribuzione di alimenti biologici in Italia, tra i relatori del convegno, spiegherà come cambiano i gusti alimentari degli italiani: «Anche in epoca di crisi, il mercato dei prodotti bio, che costano mediamente almeno il 50% in più degli altri, è in notevole espansione». Sul delicato tema del monopolio dei semi, e della biodiversità perduta, in un pianeta dominato dalle multinazionali agroalimentari, interverrà Salvatore Ceccarelli, genetista, consulente in miglioramento genetico dell’International Center for Agricultural Research. «Il 60% del mercato del seme è nelle mani di 10 grosse compagnie, delle quali quattro, Monsanto, DuPont, Syngenta e Bayer detengono circa il 40% - denuncia Ceccarelli. - A fronte delle circa 250mila specie di piante viventi sul pianeta, di cui 50mila sono commestibili, noi ne mangiamo solo 250, ma soltanto 15 forniscono il 90% delle calorie».
postilla
Da quando sono tramontate almeno in parte le fortune del centrodestra monolitico-cementificatore pare che il tema del grande evento inizi a incidere davvero su ciò che si fa e si propone, e non fare da sfondo confuso a vari progetti di trasformazione territoriale, quasi tutti con contenuti diametralmente contrari. Ma, c’è sempre un ma.
In parole molto povere: riuscirà l’animazione culturale di alto livello a recuperare davvero, prima di tutto localmente (e non è egoismo planetario), il dibattito dalle secche tragicomiche dello scontro fra i sedicenti modernizzatori a colpi di nuova tecnologia a vanvera, e la scombinata banda un po’ frescacciona (diciamocelo, va’) dei sedicenti neo-contadini? Ovvero a riportare su binari visibili la questione città/campagna?
A chi scrive è capitato di recente, solo per fare un esempio, di leggere un articolo “scientifico” dove si sosteneva la liceità di colture destinate agli agro-carburanti nelle aziende agricole di prima cintura milanese, presentandole come sostenibili. E si leggono tutti i giorni, o si ascoltano per radio, ridicoli richiami a quanto si stava bene cent’anni fa, magari mangiando solo polenta e abitando in famiglie allargate tutti dentro la stessa stanza di una cascina, insieme alle galline.
Ecco: speriamo che discutere ad alto livello su come nutrire il pianeta, vivere la metropoli, coniugare ambiente ed economia con una nuova qualità della vita, insieme a sperimentazioni locali trasparenti, magari proprio sponsorizzate da Expo, inizi a diradare certe nebbie padane sinora un po’ troppo fitte (f.b.)
Città della Salute? Riflettiamo prima. L'articolo di Schiavi sulla «Città della Salute» ha avuto il pregio di rimettere al centro dell'attenzione l'opportunità o meno che «questo» progetto vada in porto. Occorre riflettere bene prima delle decisioni annunciate per i primi di maggio. Il precedente progetto di Città della Salute poggiava su di una triangolazione forte tra i due Irccs (Tumori e Besta) e l'Azienda ospedaliera Sacco, sede di alcune divisioni di eccellenza, oltre che polo universitario. Un progetto credibile, in cui le sinergie dei vari soggetti venivano amplificate, creando un autentico polo pubblico di ricerca e di insegnamento, una vera e propria perla di interesse nazionale all'interno del complesso sanitario della città di Milano.
Caduto tale progetto per ragioni varie (mancanza dei fondi per garantire l'intera opera; problemi di bonifica dell'area; carenza di infrastrutture), la Regione Lombardia ha optato per il solo trasferimento dei due Irccs, e su questa base si è innestata la ricerca della sede urbanisticamente più idonea, tra l'ex area Falck di Sesto e quella di Piazza d'Armi, a Milano.Ma il problema non è solo urbanistico. C'è da domandarsi se una simile fusione valga davvero la candela e risponda alle esigenze dei malati e degli operatori. Le consonanze tra Istituto Tumori e Neurologico sono del tutto marginali, e la loro fusione non otterrebbe reali miglioramenti degli assetti di base dei due presidi.
L'uno non risolverebbe i problemi dell'altro, e anche le prospettive di ricerca comuni riguardano campi solo marginali. È proprio la mancanza di un grande ospedale, con tutte le strutture di base e i supporti necessari, a rendere discutibile l'operazione. Va detto per inciso che Milano detiene già oggi un primato nella disponibilità di posti letto per acuti e una anomalia nel numero di presidi monospecialistici esistenti. Potendo spendere gli oltre 300 milioni di euro a disposizione della Regione Lombardia (sempre che si tratti di un dato reale e non di una pura messa in scena), questo «tesoretto» potrebbe essere investito in altri modi più vantaggiosi. Da un lato consentendo ai Tumori di stare dove sono (come a suo tempo chiesto dagli operatori e dagli utenti con una cospicua raccolta di firme), valorizzando le ristrutturazioni già fatte e completando quelle necessarie. Dall'altro provvedendo al trasferimento del Besta (in condizioni non più sostenibili) in contiguità con un Ospedale Generale in grado di accoglierlo e di offrire tutte le integrazioni cliniche e le sinergie opportune per la ricerca. Senza dimenticare infine le esigenze del Sacco, oggi sacrificato dall'attuale progetto di Città della Salute.
Una ipotesi di buon senso che consentirebbe di utilizzare al meglio le risorse disponibili, senza prestarsi a operazioni di pura facciata. Sarebbe anche il primo passo per riflettere sulla programmazione sanitaria della città di Milano: una città dove molte scelte sono parse più seguire criteri di occasionalità o di convenienza che non quelli di una seria pianificazione, con conseguenze negative nelle possibilità di assistenza delle persone fragili e dei pazienti subacuti, e più in generale nell'articolazione dei servizi socio-sanitari territoriali.
Alessandra KustermannGiuseppe Landonio Alberto Maspero, Amedeo Amadei, Bruno Ambrosi, Luigi Campolo Roberto Satolli, Mauro Venegoni
L'Accordo di programma è stato approvato nel 2009. La firma al Piano Integrato d'Intervento risale invece ad un anno fa, al 15 aprile 2011. Ora, il progetto per il Cerba è tornato sul tavolo del sindaco Giuliano Pisapia, accompagnato da una lettera del presidente della Fondazione, il professor Umberto Veronesi, anima e testa di questa idea «che porterebbe a Milano il centro di ricerca biomedica più avanzato d'Europa». Il tema è caldo, anche perché in questi ultimi giorni si è dibattuto dell'ubicazione della Città della Salute che invece unirebbe Istituto dei Tumori e Besta (sulle aree ex Falck di Sesto, o come suggerito dal Comune, nella ex caserma Perrucchetti?).
Il progetto del Cerba nasce prima. E, nel frattempo, qualcosa è cambiato: nel senso che i terreni sui quali dovrebbe sorgere questo centro multifunzionale (raggrupperebbe lo Ieo, il Monzino e il Besta) erano originariamente di proprietà della società Im.Co del gruppo Ligresti per la quale i pm hanno appena chiesto il fallimento. Ma, prima ancora dell'intervento del tribunale, si era già deciso di affidare le aree a un fondo di investimento che comprende una serie di banche, tra cui Unicredit, che gestirebbe l'intera operazione finanziaria: a costo zero per gli enti pubblici.
Nel suo studio, il professor Veronesi parla con passione di un progetto «anticipatore dei tempi, visto che in un prossimo futuro la sanità dovrà cambiare molte delle sue politiche e strategie». Anzitutto perché, «abbiamo avuto la rivoluzione del dna, che ci impone una ricerca difficile e costosissima». Poi, perché «stiamo assistendo ad una continua evoluzione della tecnologia anche in campo medico». Infine perché «dobbiamo definire un nuovo rapporto tra medico e paziente, che si deve riflettere anche in un diverso modo di concepire le architetture ospedaliere». Il Cerba potrebbe anticipare i tempi proprio perché riuscirebbe a dare una risposta a tutte queste rivoluzioni. «Unire tre istituti di eccellenza — riassume Veronesi — significa creare un grande centro di ricerca sul Dna che può servire l'oncologia, la cardiologia e la neuroscienza: così, gli apparecchi diagnostici e di cura sarebbero a disposizione di tutti e sarebbe più semplice ammortizzare i costi elevatissimi». Per quanto poi riguarda l'aspetto umano, il disegno del Cerba, elaborato dall'architetto Renzo Piano, abbraccia e traduce in urbanistica la filosofia del «malato al centro» garantendo tra l'altro che metà dei terreni, quindi oltre 300 mila metri quadrati, saranno destinati a parco pubblico.
«Una Città della Salute — incalza il sociologo Guido Martinotti — va sostenuta in tutti i modi. E ci sono almeno tre motivi per cui vedrei bene il progetto Cerba. La prima è che quell'area abbandonata rappresenta oggi una sorta di buco, alla fine della città urbanizzata e prima dello Ieo: certo, è all'interno del Parco sud ma al Parco sud va data qualche funzione urbana, altrimenti finisce degradato, come in questo caso, o mangiato poco alla volta da speculazioni incontrollate». Secondo tema posto da Martinotti è che «questa zona è facilmente accessibile con le auto e i mezzi, al contrario ad esempio di quello che succederebbe se si realizzasse la Città della Salute nel cuore di Milano, dove c'è la Caserma Perrucchetti». Infine, «lo sviluppo delle periferie va equilibrato. Un centro di ricerca a Sesto sovraccaricherebbe il nord Milano, mentre c'è bisogno di qualificare la zona sud della città».
Insiste Veronesi: «Il nostro è un progetto modulare e flessibile, che consentirebbe di riattivare la parte agricola, di valorizzare un'area oggi abbandonata e di rappresentare un'eccellenza per Milano». Quanto ai tre istituti, «ciascuno manterrebbe la propria autonomia giuridica e amministrativa», godendo dei vantaggi della vicinanza: «Avremmo un'unica piattaforma in cui condividere conoscenze e tecnologie, realizzando sinergie e diventando punto di riferimento per i pazienti che qui troveranno le cure migliori e la migliore ricerca».
postilla
Ormai ci restano solo due certezze: 1) il Corriere della Sera non è la Pravda , nel senso che non segue una precisa, granitica, immutabile linea, e 2) il giornalismo di inchiesta, che tallona la notizia e i suoi protagonisti, sta un pochino fuori dalla grande tradizione italo-meneghina. Avevamo salutato con favore l’emergere sulla stampa locale di una “scoperta”, ovvero che il problema della salute, della ricerca scientifica, del ruolo socioeconomico di Milano, era difficile da valutare pensando costantemente al rapporto fra metri quadri, metri cubi, localizzazioni e relative proprietà e interessi. Certo quello poteva essere – le cose vanno anche così – uno dei motori per avviare la macchina, ma la questione non si poteva mortificare in quel modo. E invece rieccoci al punto di partenza, stavolta coinvolgendo oltre al solito Veronesi (detentore del brevetto eccellenza scientifica = scelta dell’area) anche il sociologo Guido Martinotti, che famoso per aver divulgato il concetto dei flussi vaganti di city users metropolitani adesso evidentemente si presta per dichiarazioni à la carte anche sul ruolo della greenbelt (che sarebbe valorizzata costruendoci sopra la famosa eccellenza). Evidentemente travolta dall’entusiasmo, la prosa dell’articolo si spinge a tirar dentro l’allegra compagnia anche l’archistar Renzo Piano, attribuendogli il progetto del Cerba: ma non era dello studio di Stefano Boeri? Basterebbe dare un’occhiatina veloce ai ritagli di qualche anno fa per verificarlo, inclusi quei renderings con la via Ripamonti a sei corsie ma verniciate di verde per non dare nell’occhio, o le colline dell’Oltrepo traslocate per l’occasione a ridosso della Tangenziale. Insomma, parafrasando il Grande Timoniere: grande è la confusione sotto il cielo, e qualcuno ci marcia alla grande. O almeno ci riprova (f.b.)
(per i lettori occasionali del sito: i "ritagli" del dibattito pregresso a cui si riferisce la postilla sono tutti disponibili anche su queste pagine, stessa cartella Milano, a decine: basta sfogliare, miracoli della scienza anche senza metri cubi!)
«Solo con questo spirito si esce dalla crisi». Ha ragione Carlo Guglielmi, presidente di Cosmit, nel sottolineare la volontà del settore design di «uscire dalla recessione senza chiedere l'aiuto di nessuno», lavorando per Milano e per tutto il Paese. Il risultato è stato un grandissimo Salone, in grado di attrarre migliaia di aziende e centinaia di migliaia di visitatori da tutto il mondo. La Milano di questi giorni è lontanissima dalla città statica a cui siamo abituati. Internazionale e positiva, aperta e rivolta al futuro: grazie ad aziende e progettisti, buyer e creativi, allestitori e addetti stampa, la Milano del Salone del Mobile sembra farci dimenticare la crisi economica e i suoi devastanti effetti. L'energia positiva che la percorre è la miglior risposta al pessimismo. Senza contare l'indotto legato ai visitatori: lavoro per alberghi, ristoranti e negozi in genere.
Bilancio più che positivo, che ha messo in luce un duplice aspetto: la capacità del settore di affrontare la crisi e la larghissima partecipazione di giovani progettisti e, dunque, di «futuro». Purtroppo, questo miracolo di dinamismo ha vita breve: una settimana. Ma, dato che il design è l'unico settore in cui Milano può vantare un primato internazionale, perché non puntarvi maggiormente, trasformando la città in un perenne festival della creatività? Gli effetti, sull'immagine e sull'economia milanesi, sarebbero immediati. Basterebbero poche e semplici idee, realizzabili grazie alla collaborazione fra settore pubblico e privato. A Milano esiste già una formidabile rete costituita da scuole e università, showroom e negozi, aziende e laboratori artigianali. E non dimentichiamo le fondazioni dedicate a maestri come Franco Albini, Achille Castiglioni e Vico Magistretti, i cui archivi contengono una documentazione in alcuni casi ancora inedita e ricca di sorprese. Una rete che potrebbe essere potenziata, con l'aiuto di Cosmit.
Investimenti sui giovani, con ospitalità periodiche a designer provenienti da vari Paesi, grazie all'amministrazione comunale; scambi con università straniere che facilitino il ricambio generazionale dei creativi; esposizione, in strutture comunali, musei e teatri, di pezzi prestati, a rotazione, dalle varie aziende, che, immaginiamo, sarebbero liete di far conoscere la loro produzione; arredi urbani progettati e realizzati da giovani utilizzando materiali di riciclo; convegni e seminari distribuiti nell'arco dell'anno; una giornata al mese dedicata al design. Milano potrebbe diventare una perenne vetrina, un luogo da cui chiunque si occupi di disegno industriale deve passare. Non soltanto per pochi giorni.
Il design è cambiato. Non esiste più una scuola milanese: il mondo, ora, viene a Milano per far produrre i suoi oggetti. Qui può trovare una qualità e una raffinatezza di esecuzione che non hanno uguali. Proprio questo è l'aspetto su cui puntare per il futuro. Si è sempre cercato di definire Milano in vari modi, dimenticando quella che sarebbe una definizione perfetta: fabbrica di bellezza.
Ponte Lambro è un quartiere di Milano fino a ieri noto come una zona da evitare. Se oggi ci passate scoprirete un moderno quartiere residenziale accogliente. Le famigerate «case bianche» non sono più tali: hanno colori allegri, coordinati e diversi; dalle facciate sono sparite (perché centralizzate) le mille parabole che denunciavano il recente carattere multietnico del quartiere; i piani terra una volta invasi di scritte e graffiti, sono puliti e ben tenuti; le aiuole fiorite e curate, gli spazi pubblici frequentati; i pochi servizi come la posta, il mercato comunale, il centro civico, la parrocchia, la scuola elementare sono animati da persone gentili e capaci. Insomma qualcosa è cambiato.
Le ragioni dello stigma del quartiere avevano molto a che fare con la disattenzione pubblica, sfociata più volte nel maltrattamento. All'origine vi erano i due grandi interventi di edilizia popolare realizzati in fretta e furia negli anni 70, occupati abusivamente, che si erano inseriti con violenza in un piccolo borgo di artigiani. A metà degli anni 80 viene chiusa la scuola media per insediarvi l'aula bunker per i processi di mafia (più sicurezza!). Per i Mondiali di calcio del '90 viene iniziata la costruzione di un grande albergo il cui scheletro abbandonato è rimasto per vent'anni come monito e vergogna per Milano. Più di recente un'area verde è stata trasformata in un deposito di autobus. Anche gli interventi di pregio come l'ospedale Cardiologico Monzino e il Centro di riabilitazione della Fondazione Maugeri sono atterrati come isole in un territorio ostile. Un territorio dove la città ha scaricato tutto ciò che non poteva mettere altrove.
La situazione inizia a cambiare a metà degli anni 2000 quando il Comune lancia il Progetto Periferie che prevede la realizzazione di un «laboratorio di quartiere». Le prime mosse producono ulteriore delusione: il promettente progetto di Renzo Piano per inserire nuove funzioni nelle case bianche si risolve nello svuotamento di 40 appartamenti che restano murati per anni: mancanza di fondi. Ma il coinvolgimento degli abitanti, la passione di chi si occupa del Laboratorio di quartiere e la volontà di riscatto producono risultati concreti: i programmi di riqualificazione degli stabili, la risistemazione dei servizi pubblici e il loro rilancio, la scelta dei colori delle case, vengono decise insieme agli abitanti. Negli ultimi mesi il processo di rigenerazione si è accelerato: è stato finalmente aperto il cantiere per la riutilizzazione degli appartamenti murati e l'assessore all'Urbanistica è riuscita a ottenere la possibilità di demolire finalmente entro l'estate ciò che resta dell'albergo dei Mondiali.
Si sta anche discutendo di un progetto modello che aumentando la popolazione consenta la riapertura della scuola media, la realizzazione di un parco e di nuove attrezzature capaci di attrarre utenti dall'esterno per integrare meglio il quartiere nella città. Ponte Lambro è una dimostrazione che risanare le periferie si può, che la rigenerazione ha soprattutto a che fare con la cura e la ricostruzione del senso di cittadinanza degli abitanti. C'è da augurarsi che l'esplosione che demolirà l'ecomostro seppellisca per sempre anche un approccio alla periferia come luogo della disattenzione e della semplificazione.
Tutto è bene ciò che finisce bene, e l’ultimo chiude la porta, recitava sui titoli di coda un vecchio cartone animato. Dato che però le politiche urbane non sono un cartone animato, forse val la pena ricordare qui un aspetto su cui Balducci sorvola, ovvero i veri motivi del degrado, che sono squisitamente spaziali. Certo molto ha pesato, come in tanti altri contesti periferici (milanesi e non) l’inserimento di quantità massicce di moderne abitazioni popolari in un contesto di ex borgo storico autonomo. Altrettanto ha pesato l’aspetto gestionale di quell’inserimento, lasciato al laissez-faire – per usare una eufemistica metafora – delle occupazioni abusive, del clientelismo familiare e peggio. Ma c’è una radice urbanistica, che più urbanistica non si può.
Tutti abbiamo prima o poi letto o sentito parlare del famoso caso della Bronx Expressway, quando nel secondo dopoguerra un prosperoso quartiere operaio e piccolo borghese è stato trasformato appunto nel famigerato “Bronx” delle leggende metropolitane e dei film semi-horror. Ecco, anche il caso del quartiere parzialmente descritto da Balducci è identico: si scaraventa brutalmente una infrastruttura stradale (nel caso specifico la Tangenziale Est) a costruire una cesura urbana invalicabile, senza né prima né poi tenerne alcun conto e attivare qualche genere di compensazione, preventiva o successiva. E i risultati sono poi gli interventi di emergenza tipo Protezione Civile, si tratti del fallito progetto architettonico di Renzo Piano o del più efficace laboratorio partecipativo di Balducci. Dato però che non è possibile attivare procedure di emergenza generalizzate per il territorio nazionale e internazionale, forse sarebbe meglio pensarci prima, anziché poi. Ad esempio oggi, quando il dinamismo autostradale di tutti i livelli istituzionali propone cinture e bretelle ovunque, progettate sul lontano tavolo di qualche ingegnere, e puntualmente scaraventate dove capita, a costruire i potenziali “Bronx” metropolitani del terzo millennio. Una buona notizia magari per gli operatori dell’emergenza. Un po’ meno per il resto del mondo (f.b.)
L'intervista inizia con un'ammissione irrituale, soprattutto se a farla è il più grande architetto italiano nel mondo, Renzo Piano, 75 anni: «Stavolta sono di parte».L'argomento è la costruzione della Città della Salute, il progetto da 330 milioni di euro che prevede di unire l'Istituto dei Tumori e il neurologico Besta, un'idea con ambizioni a livello europeo, su cui s'è aperto di recente un balletto delle aree tra Sesto San Giovanni e il Comune di Milano. La sfida è tra l'ex area Falck (il cui progetto di riqualificazione è firmato proprio dall'archistar) e la piazza d'Armi della caserma Perrucchetti. Ma alla fine di un'ora di chiacchierata, nel suo studio di Punta Nave a Genova, il messaggio di Renzo Piano va al di là di qualsiasi lotta di campanile e si concentra sulle caratteristiche che deve avere un ospedale modello: «Un mix di umanesimo e scienza, da realizzare in periferia e in mezzo al verde».
È un'idea nata undici anni fa, di questi tempi.«Il 21 marzo 2001 ho presentato al Sant'Anna di Roma, insieme con l'allora ministro della Salute Umberto Veronesi, il progetto per un cosiddetto ospedale modello».
Quali sono le linee guida che lo contraddistinguono?«Un ospedale non deve essere solo una macchina con determinate caratteristiche di funzionalità, ma anche un insieme di accorgimenti ambientali che aiutano il malato a stare bene psicologicamente».
In concreto?«Per ogni letto devono essere previsti complessivamente 200 metri quadrati. Per 700 letti, insomma, ci devono essere a disposizione almeno 140 mila metri quadrati di terreno».
I motivi?«Sono almeno due. Il primo: l'edificio ospedaliero vero e proprio deve svilupparsi orizzontalmente, in modo da limitare in altezza il suo numero di piani. L'obiettivo è realizzare una struttura che non sia mai più alta degli alberi che lo circondano. Di qui, il secondo motivo, che rende necessaria la disponibilità di grandi aree: tutt'intorno all'ospedale ci deve essere il verde».
Non è che la sua visione pecca di romanticismo?«Nient'affatto. L'altezza limitata è utile anche per fare funzionare meglio la macchina ospedaliera. È una questione, poi, scientifico-ambientale: il verde fa diminuire almeno di due gradi la temperatura nella calura estiva, l'effetto città si annulla, si respira meglio».
Duecento metri quadrati a disposizione per letto vuol dire un rapporto tra volume edificato e superficie del terreno davvero bassa.«La densità territoriale ideale nel caso di un ospedale è di 0,5 contro una densità territoriale di città come Milano, per avere un termine di confronto, di 5».
Ma un ospedale di solo quattro piani in altezza come dev'essere organizzato?«Il piano terra è dedicato alla vita quotidiana, con gli ambulatori, il day hospital, il front office per chi deve prenotare le visite e ritirare gli esami, i negozi. Al meno 1 c'è la diagnostica, con Tac, risonanze, eccetera. Al meno 2, l'impiantistica. Salendo, il primo e il secondo piano sono dedicati alle degenze, l'ultimo alle sale operatorie e alle cure ad alta intensità, tra cui la rianimazione».
Tutt'intorno, gli alberi.«Sono una condizione fondamentale per fare stare meglio i pazienti e gli operatori sanitari. Di qui l'esigenza di sfruttare le zone periferiche. Un ospedale modello è difficile farlo nel cuore della città proprio per una questione di spazi».
Ecco, allora, che spezza una lancia in favore dell'ex area Falck di Sesto San Giovanni, dove è stato annunciato un parco di 450 mila metri quadrati.«Attenzione, io non voglio innescare alcuna polemica. Penso, però, che la Città della Salute potrebbe essere il primo grande ospedale italiano a essere realizzato sulle linee guida studiate con Veronesi».
Sesto contro Milano?«È una contrapposizione che, a mio avviso, non esiste. Sesto è Milano, lì dove, proprio in quanto periferia, la città può giocarsi il futuro».
Entra in gioco, insomma, il tema della città metropolitana?«Io sono convinto che Milano sarà grande solo se accetterà di essere la grande Milano».
postilla
Per la salute, per la metropoli, niente meglio di un'architettura scintillante?
Qualche anno fa al sottoscritto venne conferito una specie di incarico per organizzare una specie di biblioteca (resto volutamente molto sul vago per non provocare inutili polemiche), a partire dai contenuti tematici naturalmente. La cosa curiosa, che provai spero con qualche successo a spiegare ai “committenti”, è che tutto il loro progetto di fattibilità pur non trascurando il “cosa” mettere in quella collezione, dava un ruolo anche decisionale assolutamente spropositato al “come” e “dove” collocarla. Il tutto nel vuoto quasi pneumatico su entità e qualità dei contenuti. In pratica, per organizzare da zero una biblioteca si dava carta bianca soprattutto a muratori e falegnami, considerandoli competenze assai più importanti, che so, del bibliotecario, dell’operatore culturale ecc.
Lo stesso avviene con queste dannatissime cittadelle, che siano della salute, della moda, dell’innovazione o chissà che altro. Da lustri sul loro contenuto tematico, la domanda sociale,le strategie di gestione, gli obiettivi di sviluppo, nessuno ci dice nulla, o quasi nulla. Si dà per scontata la grande utilità, anzi indispensabilità di ciascuna, fino a sfiorare e superare il ridicolo quando nel caso del Centro Ricerche Biomediche Avanzate di Umberto Veronesi si bollavano come “nemici della ricerca” tutti coloro che dubitavano di una certa localizzazione urbanistica dei metri cubi dentro cui metterla, la ricerca. Anche con quest’altra cittadella però (con buona pace di Renzo Piano o di qualche altro suo collega che sta pensando legittimamente a contenitori alternativi altrove) nessuno parla mai dell’obiettivo salute, ricerca, innovazione … E soprattutto del contestoo generale della città e del territorio, salvo quei riferimenti vaghi, alla dimensione metropolitana, persi dentro alle magnifiche sorti del bel progetto di architettura. Fino al punto da far pensare: che sia tutta una scusa, quella della nostra preziosissima salute? Dubbio quanto mai lecito, si spera (f.b.)
Si discute tanto, e tanto giustamente, di quanto sia diversa la prospettiva di affermazione di un diritto, rispetto al puro risarcimento monetario di chi ne è stato privato. La cosa si applica naturalmente al posto di lavoro, e anche agli spazi urbani soprattutto quando un proprietario deve rinunciare - in tutto o in parte - alla proprietà per qualche motivo di ordine superiore, o sedicente tale. E quando questo “proprietario” è collettivo? Chi o cosa lo tutela? A quanto pare proprio nulla: pare che valga l’esatto contrario dell’esproprio per pubblica utilità, e qui l’interesse “alto” è quello dell’operatore economico, quello da liquidare con somma da stabilirsi il collettivo. Bene. Anzi mica tanto bene. A Milano c’è un detto, ciapa e porta a ca’, dal senso variabile a seconda dei casi, e quello della Galleria Vittorio Emanuele è proprio un caso studio, il caso studio. Qualcuno vuole “rilanciarla”, la Galleria, con un meccanismo del genere.
I cittadini, e anche tanti altri, da generazioni la chiamano “salotto della città”, perché naturalmente quello spazio già a metà XIX secolo era stato concepito per essere molto più di un gruppo di vie coperte. Il tempo e l’immaginario collettivo hanno fatto il resto. Oggi nella Milano mediamente avara di spazio pubblico, dove piazze vere e proprie all’italiana latitano, i modelli moderni sono al massimo i soliti risicati fra un nodo di traffico e un ritaglio di area pedonale (quando va bene), la Galleria spicca per ruolo diretto e indiretto. Diretto perché appunto funge da salotto, indiretto perché in quel salotto convergono altre stanze e corridoi dell’appartamento collettivo, che altrimenti non avrebbero gran senso da soli. Se si scorre certa stampa internazionale però si scopre che dell’idea di salotto non frega niente a nessuno, quello è, dal concetto originario del progettista attraverso i decenni, un paradigmatico modello ideale di shopping mall. E qui tocca mettersi a pesare le parole, manco si fosse avvocati o giuristi.
Shopping vuol dire, terra terra, far la spesa, e il mall in sé e per sé altro non è che un percorso, un passeggio, magari pure con grande forza simbolica di identità nazionale, vedi quello di Washington, o quello originario di Londra, dove è pure nato in termine “mall”, da una cattiva pronuncia della parola italiana “maglio”. Ma le due parole unite necessariamente evocano il segregato scatolone suburbano. Che c’entra con la Galleria? Mica siamo in mezzo a uno svincolo sotto le insegne un po’ pacchiane! Invece c’entra parecchio, perché il concetto di shopping mall è una formula chimica che non ha affatto bisogno dei prefabbricati o di qualche ettaro di parcheggi per funzionare. Basta un altro ingrediente, molto meno vistoso, e si chiama correntemente management. Ovvero come quello spazio viene gestito, e prima ancora quali poteri sono conferiti a chi lo gestisce. A Milano questi poteri potrebbero cambiare bruscamente, e sorprendentemente. Oppure no: dipende.
Il cambiamento era nell’aria da parecchio. Con la giunta precedente di centrodestra si era arrivati anche, piuttosto spudoratamente, a un bel progetto di sostanziale scatolonizzazione del tutto. Ovvero chiudere materialmente, con la scusa dell’aria condizionata, tutti gli ingressi, e “rilanciare” così gli esercizi commerciali. Lì la differenza coi grandi contenitori suburbani si assottigliava giusto alla mancanza dello svincolo, ma forse col tunnel Linate-Expo l’impagabile duo Moratti-Masseroli pensava di risolvere pure quel problema! Adesso salta fuori che una delle punte di diamante del jet-set fighettone, nientepopodimeno che Versace, ha presentato al comune un suo piano di rilancio e riorganizzazione di tutto quel bendiddio commerciale. Giunta Pisapia-Tabacci un po’ meno spudoratamente incline a inclinarsi in certe direzioni, oggi, ma il dubbio è lecito: che si vuol fare? Che tipo di management dovrebbe imperare dentro le prestigiose arcate del Mengoni, ed estendere i suoi effetti anche fuori? That’s the question.
Si discute proprio in questi giorni ad esempio dell’opportunità o meno della presenza di esercizi fast food, e comunque di attività relativamente “povere” rispetto al potenziale prestigio e ritorno economico di quegli spazi. Spesso si parla di superfici lasciate al degrado, o occupate da enti e associazioni che magari meglio starebbero in altri posti, lasciando campo libero a chi può pagare di più. La collettività ci guadagna, almeno se facciamo i conti solo col borsellino. Ma se facciamo i conti in un altro modo? Viene in mente il caso recentissimo di Zuccotti Park, che ha messo il marchio su una intera stagione di conflitto sociale e culturale. Quella piazza era qualcosa di simile alla Galleria, dal punto di vista del management, anche se il percorso è del tutto opposto. Si tratta del genere di spazi, privati ma aperti alla frequentazione pubblica, faticosamente introdotti nelle norme urbanistiche di New York (e di altre città americane) esattamente per superare le gravi lacune di spazio collettivo determinate da un’urbanistica storicamente disegnata dalle forze del mercato. Detto molto in breve, in cambio di un incremento di cubature il costruttore si impegna a lasciare e mantenere un arretramento dell’edificio rispetto al filo stradale, o altro tipo di organizzazione spaziale, da adibire a luogo di incontro, sosta, eventualmente attrezzato con verde, posti a sedere ecc. È il tipo di luoghi dove l’umanità metropolitana, a volte con risultati sorprendenti, prova in qualche modo a recuperare ciò che la città-macchina del Novecento pare avergli provvisoriamente strappato. Ne ha costruito una vera e propria sinfonia William “Holly” Whyte nel suo commovente documentario The social life of small urban places. (1980). Ma privati erano e privati restano: appunto i meccanismi dello sgombero di Zuccotti Park ci hanno raccontato fin nei particolari come si esercita il management spaziale nei casi di conflitto fra uso collettivo e proprietà privata.
Lo shopping mall è da sempre terreno di scontro per l’equilibrio fra utenza pubblica e spazio privato, al punto che esiste una ricca letteratura sociologica e giuridica a proposito. E in tempi più recenti l’attenzione si è concentrata anche sui processi di cosiddetta “mallizzazione della città”, ovvero quando soprattutto nei progetti di riqualificazione urbana vie e piazze smettono di essere tali, trasformandosi nel corridoio di un centro commerciale, che per esempio può chiudere la domenica, o di notte, e dove per esempio un vigilante privato ha una specie di potere di polizia discrezionale conferito da un management privato. Esistono però molte sfumature possibili, per questo oscillare fra il modello della via o piazza pubblica e il cortile privato aperto discrezionalmente al pubblico tipo Zuccotti Park. E vengono stabilite in sostanza dalla convenzione. Pare che nel caso di Milano (almeno così si capisce dalle prime notizie sui giornali) non venga messa in discussione la proprietà pubblica della Galleria. I potenti mezzi della multinazionale Versace riverseranno le proprie aspettative di valorizzazione sui modi d’uso, sulla gestione dello spazio. E qui potrebbe cascare l’asino, o no.
I casi sono due: reintegro obbligatorio dei cittadini in caso di espulsione, oppure monetizzazione del licenziamento e semplice indennizzo, da calcolarsi a cura dell’Assessore al Bilancio. Forse qui si potrebbe capire meglio l’idea di città della nuova amministrazione.
(di seguito, la notizia)
Rossella Verga, Grandi manovre sul Salotto, Corriere della Sera Milano, 6 aprile 2012
Cogestione pubblico-privato, cessione del 49 per cento delle quote, conferimento dell'immobile a un fondo. I contorni dell'operazione in fase di approfondimento a Palazzo Marino non sono ancora chiari, ma quel che è certo è che il Comune ha ricevuto una proposta di valorizzazione della Galleria dalla Fondazione Altagamma, che riunisce i più grandi nomi della moda e del design made in Italy e di cui è presidente l'onorevole Santo Versace. La notizia anticipata dal quotidiano Milano Finanza è stata confermata ieri dall'assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, e ha lasciato di sasso molti esponenti della maggioranza. «È arrivata una manifestazione di interesse — ha spiegato l'assessore —. Il sindaco si è riservato di approfondire e la prossima settimana incontrerà i vertici di Altagamma».
Cogestione pubblico-privato, cessione del 49 per cento delle quote, conferimento dell'immobile a un fondo. I contorni dell'operazione in fase di approfondimento a Palazzo Marino non sono ancora chiari, ma quel che è certo è che il Comune ha ricevuto una proposta di valorizzazione della Galleria dalla Fondazione Altagamma, che riunisce i più grandi nomi della moda e del design made in Italy e di cui è presidente l'onorevole Santo Versace. La notizia, anticipata dal quotidiano Milano Finanza, è stata confermata ieri dall'assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, e ha lasciato di sasso molti esponenti della maggioranza. «È arrivata una manifestazione di interesse — ha spiegato l'assessore uscendo dalla giunta —. Il sindaco si è riservato di approfondire e la prossima settimana incontrerà i vertici di Altagamma».
Sullo sfondo il Salotto di Milano, valore stimato attorno al miliardo di euro, che potrebbe essere trasformato in una vetrina mondiale di cui il Comune manterrebbe la proprietà con il 51 % del bene (che è inalienabile). Per la cessione delle rimanenti quote, Palazzo Marino avrebbe un incasso previsto di 450 milioni di euro. Più 35 milioni all'anno per gli affitti.
L'idea, accennata da Versace a Tabacci sugli scranni del Parlamento («Siamo vicini di banco alla Camera», ha ricordato scherzosamente l'assessore), è stata riassunta in una lettera datata 15 marzo e protocollata a Palazzo Marino. La Fondazione Altagamma, attraverso il suo segretario generale Armando Branchini, propone al Comune di «realizzare un piano di merchandising che possa coinvolgere l'intera struttura edilizia, compresi i piani superiori attualmente destinati a residenze o uffici e, comunque, sottoutilizzati», per realizzare nel tempo un centro dedicato «a design, arte, cultura, moda, ristorazione e prodotti alimentari». Una vetrina dei prodotti italiani soprattutto per stranieri.
Come? La proposta è quella del «conferimento del cespite a fondo immobiliare gestito da una società di gestione del risparmio». Verrebbe inoltre predisposto un «piano economico finanziario che preveda il mantenimento perpetuo della titolarità della proprietà al Comune attraverso la proprietà della maggioranza delle quote del fondo».Altagamma suggerisce quindi di «classare» la minoranza delle quote del fondo immobiliare (49%) «offrendo prelazione agli attuali conduttori». Incasso previsto per il Comune, appunto, 450 milioni. Nel tempo, inoltre, si propone di «prevedere l'adeguamento dei valori locativi in modo da ottenere per il Comune, a fronte della sua quota di maggioranza, canoni di affitto pari a circa 35 milioni di euro all'anno». Secondo la Fondazione, l'operazione determinerebbe un «volano di sviluppo del turismo finalizzato allo shopping dell'alta gamma italiana nei mercati extracomunitari». Con evidenti ricadute economiche, creazione di posti di lavoro e di servizi.
«Ci sono dei pareri da richiedere alle sovrintendenze — frena l'assessore Tabacci — ma l'idea è che la Galleria sia un bene di somma importanza che deve essere valorizzato al servizio dei milanesi. Non è un'offerta vincolante, è una manifestazione d'interesse». E ancora: «Non siamo un bancomat che deve sempre intervenire per tappare falle e gestire perdite. Bisogna che gli asset siano gestiti al meglio perché la crisi morde». Nessun commento sulle polemiche politiche e le prese di posizione dei consiglieri sulla necessità di garantire in Galleria presenze storiche e attività a prezzi accessibili. «Non vedo cosa ci sia di politico — ha tagliato corto Tabacci — per me ci sono cose serie e cose meno serie. Le botteghe storiche vanno tutelate nelle zone storiche».
Sulla base delle informazioni in nostro possesso in merito alle intenzioni di modifica del Piano di Governo del Territorio da parte della nuova Giunta, il Piano che ci si avvia a discutere in Consiglio mostra significativi miglioramenti su temi importanti (la tutela del Parco Sud, la riduzione del dimensionamento del piano, l’incremento della residenza sociale, l’eliminazione di alcuni ambiti di trasformazione irrealistici e di alcune infrastrutture stradali dannose). Purtuttavia, esso contiene ancora elementi di possibile criticità, in particolare per quanto riguarda la tutela della città esistente, che riteniamo possibile correggere in fase di approvazione.
Il nuovo Piano conserva inoltre i gravi vizi di fondo derivanti dall’impostazione data dalla precedente amministrazione; alcuni dei quali è impossibile emendare in questa fase, ma che riteniamo necessario sinteticamente evidenziare in vista di una prossima, indispensabile, revisione generale del PGT.
Comprendiamo molto bene la difficoltà della situazione ed i vincoli sui tempi; abbiamo tuttavia molti dubbi sulla possibilità di procedere all’approvazione del Piano senza ripubblicazione; e riteniamo francamente inaccettabile non aver potuto prendere visione del documento completo emendato dalla Giunta, tavole comprese, in tempo utile. Uno strano modo di procedere che darà la stura prevedibilmente a un severo contenzioso.
ALCUNE CORREZIONI CHE RITENIAMO IMPORTANTE APPORTARE IN FASE DI APPROVAZIONE DEL PIANO
Piano delle regole – Norme tecniche di attuazione
1) art. 4.6 - Definizione di S.L.P: La definizione di Superficie Lorda di Pavimento, parametro fondamentale per la determinazione del carico urbanistico, è affetta da una serie di esclusioni già oggi rilevante (porticati, androni, spazi comuni, spazi privati ad uso pubblico, ecc.), tale da raddoppiare e più la superficie effettivamente realizzata rispetto a quella assentita. Al fine di limitare gli effetti di densificazione incontrollata e snaturamento tipologico della città si richiede di:
− (punto 4.6.m) inserire nel computo della S.L.P gli edifici adibiti a servizi, ad eccezione solo di quelli pubblici su aree pubbliche . Si chiede inoltre di verificare e correggere il testo delle norme al fine comunque di evitare l’attribuzione di ulteriore capacità edificatoria trasferibile a tutte le aree occupate da servizi privati, trattate come se fossero inedificate; o addirittura lo spostamento su nuove localizzazioni dei servizi esistenti, con riuso delle volumetrie per funzioni urbane private. Ove prevalesse tale interpretazione o formulazione della norma l’effetto sarebbe inevitabilmente quello di un diluvio di intasamenti, sopralzi e densificazioni destinato ad abbattersi dovunque nel tessuto urbano esistente, e soprattutto nella sua parte centrale più appetibile.
− punto 4.6.h) inserire nel computo della S.L.P i box per autoveicoli realizzati fuori terra, almeno per una quota pari al 50% della loro superficie oltre il primo piano f.t.; scopo di tale proposta di modifica è di mettere un freno alla realizzazione di garage all’interno degli edifici esistenti e al trasferimento della volumetria abitativa in nuovi edifici realizzati nei cortili;
− Si richiede inoltre di valutare l’opportunità di introdurre un limite massimo (indicativamente 150%), al rapporto tra l’effettivo sviluppo della superficie lorda di pavimento di tutti i piani agibili e la S.L.P. convenzionalmente definita; oltre tale limite detta superficie dovrebbe concorrere al calcolo della S.L.P. convenzionale.
2) Modificare l’articolo 7 comma 5 delle Norme di attuazione del Piano delle regole, limitando la trasferibilità dei diritti edificatori a porzioni omogenee del territorio comunale, che dovranno essere definite, in modo da prevenire abnormi processi di addensamento centrale.
3) Gli ambiti di trasformazione urbana (ATU) comprendono alcune aree che costituiscono opportunità uniche di riconformazione e riqualificazione della città. Soprattutto Bovisa/Farini/Lugano, Piazza d’armi/ Perrucchetti/Ospedale militare e gli scali di Porta Romana/Vigentina e Porta Genova/San Cristoforo, devono diventare grandi aree pubbliche di verde naturale ed attrezzato. La loro estensione può infatti permettere a centinaia di migliaia di milanesi di conquistare per la prima volta la fruizione diretta di grandi spazi a parco. Viceversa le densità edilizie ipotizzate, benché ridotte, non permetterebbero di raggiungere tale obbiettivo. Riteniamo che nessun eventuale ritorno economico per il Comune giustifichi il sacrificio delle ultime grandi opportunità di penetrazione di verde nella città, per di più su aree già di proprietà pubblica. Si chiede pertanto un ridimensionamento insediativo assai più consistente su dette aree, riducendo (indicativamente e mediamente) a meno della metà le nuove edificazioni proposte, ed incrementando almeno del cinquanta per cento il verde. In alternativa il piano potrebbe contenere un semplice rinvio di ogni determinazione quantitativa sulle aree ad una successiva precisazione, contestuale a quella degli aspetti qualitativi e convenzionali. Si chiede inoltre che le procedure attuative su queste aree siano affiancate da un costante processo di partecipazione dei cittadini, compresa l’eventualità di indizione di referendum consultivi sui progetti. Per quanto riguarda lo scalo Farini si richiede l’impegno a prevedere il ripristino del giardino all’italiana del 1500 di Villa Simonetta, gravemente mutilato con la realizzazione dello scalo ferroviario (per l’attuazione di questo importante progetto è sufficiente aggiungere un’area di circa 7000 mq all’attuale superficie del giardino)
4) art. 10.4 - Edilizia bioclimatica e risparmio energetico Si ritiene che il premio volumetrico del 15% per interventi di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo finalizzato al miglioramento energetico sia incompatibile con la definizione di interventi conservativi. Si richiede quindi che
− sia chiarito in modo esplicito che il premio sarà concesso in modo graduale in base alla verifica del rispetto di soglie elevate di prestazione energetica che saranno definite nel regolamento edilizio (nel comma 4 il riferimento al regolamento edilizio è generico)
− l’eventuale utilizzo di detto premio sul fabbricato stesso dovrà essere oggetto di un progetto di ristrutturazione edilizia soggetto alle relative procedure autorizzative e regole morfologiche e tipologiche.
5) art. 11 - Attuazione del piano:
Si ritiene necessario rafforzare il controllo pubblico sugli interventi che possono influire significativamente sulla forma e sulla qualità della città esistente, in modo particolare di quella storica. Si richiede pertanto che siano soggetti a Piano attuativo e non a modalità diretta convenzionata:
− la realizzazione di interventi che superano l’indice fondiario di 7 mc/mq(art. 11.3.1.c)
− l’utilizzo di diritti perequati e benefici volumetrici nei NAF (art. 11.3.1.d)
6) art. 13 – Disciplina ( Nuclei di antica formazione -NAF) – Si richiede che: Siano soggetti a Piano attuativo e non a modalità diretta convenzionata:
− gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 13.3.c e 13.3.3d
− gli interventi di cui all’art. 13.4.
7) art. 15 – Disciplina ( Ambiti contraddistinti da un disegno urbano riconoscibile - ADR) - Si richiede che:siano soggetti a Piano attuativo e non a modalità diretta convenzionata i casi di cui all’art.15.7
8) Art 18 (e Documento di Piano). Si propone di integrare la Carta di sensibilità del paesaggio corredandola di schede che evidenzino i caratteri paesaggistici irrinunciabili di cui tenere conto nella progettazione degli interventi e nella formulazione dei pareri da parte della Commissione per il Paesaggio, il cui ruolo risulterà fondamentale per la reale gestione del paesaggio. Tale integrazione dovrà essere proposta o in sede di controdeduzione o, al più tardi, in forma di variante da adottarsi immediatamente dopo l’entrata in vigore del piano. Inoltre si ritiene necessario che nei nuclei di antica formazione l’apparato conoscitivo non si limiti all’aspetto descrittivo, ma individui i caratteri irrinunciabili e fornisca indirizzi di gestione, richiamati nella normativa. L’apparato conoscitivo dovrà essere esteso progressivamente non solo per singoli edifici ma dovrà individuare in tutto il territorio anche ambiti e contesti a caratterizzazione unitaria per configurazione o rappresentatività dello sviluppo storico della città; anche tale integrazione dovrà essere effettuata al più tardi in forma di variante da adottarsi immediatamente dopo l’entrata in vigore del piano.
9) Miglioramenti si ritiene possano anche essere apportati alla definizione delle quote e delle modalità attuative del social housing, per garantirne l’effettiva rilevanza sociale e la concreta realizzazione, in quanto la sola cessione delle aree appare del tutto insufficiente nell’attuale contesto di mancanza di finanziamenti pubblici per la costruzione.
10) Si evidenzia infine una generale scarsa intelligibilità della normativa, che genera frequenti dubbi interpretativi; ne conseguono gravi rischi nella fase di applicazione del piano. Italia Nostra è disponibile a dettagliare ulteriormente tale considerazione di carattere generale.
ALCUNI IMPEGNI DA ASSUMERE PER UN PROSSIMO ADEGUAMENTO DEL PIANO
Il Pgt di Milano ha un limite di origine difficilmente correggibile in sede di controdeduzioni: aver completamente trascurato i rapporti con l’hinterland, dove vive tre quarti della popolazione metropolitana. Chiediamo perciò che sia esplicitato l’impegno ad attivare rapidamente un processo di consultazione metropolitana sistematica per definire scelte urbanistiche e di investimento condivise a livello di area vasta. L’avvio di tale processo, e la riserva su future modifiche del piano per effetto della sua più estesa ottica territoriale dovrebbe essere esplicitati, anche ai fini degli effetti giuridici, negli elaborati fondamentali del Piano ed in particolare nelle Norme del Documento di Piano
Lo stralcio, in fase di controdeduzioni, di gran parte delle scelte infrastrutturali, e il loro rinvio in sede di pianificazione di settore non consente la verifica di coerenza tra sviluppo del sistema insediativo e di quello infrastrutturale, che dovrebbe invece costituire la base essenziale di qualsiasi piano. Inoltre mette in forse la garanzia di un adeguato supporto di infrastrutture rare alla competitività del sistema territoriale, particolarmente grave nel momento in cui si affacciano ipotesi di privatizzazione di aziende strategiche, come la SEA. E’ dunque essenziale che le scelte infrastrutturali principali vengano reintrodotte nel PGT e non rinviate e demandate al Piano urbano della mobilità (PUM), almeno nei loro lineamenti essenziali, eventualmente mediante una variante al PGT da adottare subito dopo l’approvazione del Piano
Alla positiva notizia dell’intenzione della Giunta di cancellare le potenzialità edificatorie degli Ambiti di trasformazione di interesse pubblico generale (ATIPG) e degli Ambiti di trasformazione periurbani (ATPU), dovrebbero accompagnarsi indicazioni specifiche per le aree del Parco sud interessate dai futuri PCU (Piani di cintura urbana). Si chiede che il PGT contenga precise dichiarazione degli intenti del Comune di Milano per ciascuna di queste aree, da sottoporre poi al confronto e alla verifica con i profili di tutela di competenza del Parco Sud, ovvero che tali indirizzi siano precisati mediante una variante da adottare subito dopo l’approvazione del Piano.
Il tema della riqualificazione delle periferie e del recupero di molte aree della città che presentano problemi di degrado non era adeguatamente affrontato nel piano adottato. Anche su questo punto si chiede di avviare, immediatamente dopo l’approvazione, un apposito processo di specificazione del Piano.
Appare opportuno che gli interventi per l’Expo non viaggino su strade separate da quelle della pianificazione urbanistica e della tutela ambientale. In particolare suscita dubbi di sostenibilità ambientale ed economica l’ipotizzata nuova Via d’acqua, rispetto alla quale pare assai più significativa la riqualificazione ed il recupero delle vie d’acqua storiche.
Milano, 28 marzo 2012
C'erano tre grandi progetti per il 2015 a Milano. L'Expo, la Grande Brera e la Città della salute. L'Expo va avanti, anche se il taglio dei fondi ne ha ridimensionato in parte le ambizioni. La Grande Brera sopravvive, anche se è difficile immaginare con 23 milioni di veder conclusa un'operazione che ne costa più di 100. La Città della salute è su un binario morto: tramontata l'ipotesi del polo pubblico d'avanguardia con ospedale Sacco, Istituto dei tumori e Neurologico Besta, si è sciolto il consorzio, con i costi a carico del contribuente per un milione e mezzo di euro.
Prendiamo quest'ultimo caso per capire come mai è nata e poi sfumata un'operazione da più di 600 milioni destinata a rafforzare i primati di Milano nella sanità, settore in cui la città è all'avanguardia sia nel pubblico che nel privato. E facciamoci un paio di domande, visto che di Città della salute ancora si parla, da realizzare all'interno dell'area Falck di Sesto San Giovanni o nella piazza d'Armi della caserma Perrucchetti a Milano.La prima: il progetto, sia pure ridimensionato, resta una necessità per pazienti e operatori della sanità? La seconda: perché la discussione su un nuovo ospedale si fa sull'area, su questo o quel terreno, e non sulla funzione, sul luogo ideale, sull'esigenza di cambiare in meglio una struttura che si occupa di malati? In sostanza: se si deve costruire un nuovo ospedale si faccia perché serve e nel posto più idoneo, evitando il sospetto di favorire questo o quel costruttore.
Istituto dei tumori e Neurologico Besta per quello che rappresentano nella sanità milanese e nazionale meritano un altro tipo di approccio: se l'esigenza è quella di fare un salto qualitativo anche nelle strutture (la qualità delle cure è indiscussa) si spieghi meglio la questione alla città che da anni assiste a un'infinita partita di Monopoli: un giorno spunta il capannone dell'ex Maserati, un altro la Bovisa, poi Rogoredo, Santa Giulia, via Ripamonti, Sesto, una caserma, la Bicocca. Non si ripeta quel che è successo con la Città della salute: si va, non si va, ci sono i soldi, no, lo Stato si tira indietro, la Regione si divide sul coordinamento dei lavori, il Comune non garantisce il collegamento con il metrò... Il progetto Città della salute, nonostante i mille dubbi su uno spostamento da una parte all'altra di Milano, era valido perché aveva una peculiarità: creava un polo scientifico e didattico unico in Italia. Sarà così anche con il nuovo (eventuale) trasloco a Sesto o nella caserma Perrucchetti?
È questa la domanda da fare a Regione e Comune. L'istituto di via Venezian, dove è nata l'oncologia italiana, ha bisogno di una nuova sede o basta ammodernare quella esistente? Il centro neurologico Besta, ospitato in una struttura vecchia e fatiscente, deve essere ricostruito altrove o si può ampliare sui terreni vicini? Il braccio di ferro che la politica ha avviato sulle due diverse destinazioni sembra più una lotta di campanile che una disputa su funzioni, costi e servizi, per dare risposte adeguate ai cittadini. Ai grandi progetti serve una grande e onesta regia: un investimento di 330 milioni la richiede, Milano se l'aspetta.
Il Giornale
Città della salute, a Veronesi piace Milano
di Luca Fazzo
Ancora quasi un mese per decidere il futuro dell'Istituto dei Tumori e del Neurologico Besta, due eccellenze della sanità milanese alla cerca disperata di una sede più adeguata: ma mentre in Regione il Collegio di vigilanza chiamato a scegliere l'area dove sorgerà la Città della salute (così si chiamerà la unione dei due istituti) si prenderà ancora una pausa di riflessione, nel braccio di ferro sulla scelta della Regione fa irruzione a piedi uniti Umberto Veronesi.Che tecnicamente non ha voce in capitolo, ma quando si parla ditumori parla comunque ex cathedra, per la sua carriera di medico e di ricercatore: e ieri mattina , intervistato dall'agenzia Omnimilano, fa una scelta di campo plateale a favore di una delle due opzioni in gioco. Il nuovo ospedale, come si sa, è conteso tra Milano e Sesto San Giovanni. E Veronesi si schiera apertamente a fianco dei milanesi, ovvero di Giuliano Pisapia: «Io sono milanese e questi due istituti sono una forza per Milano e credo debbano rimanere nella città di Milano, non vedo perché debbano andare in un'altra città».
É lapidario, Veronesi. L'ex ministro della Salute sa bene di affrontare un tema non solo sanitario, anzi: intorno alla nuova sede dei due istituti si gioca una partita soprattutto di urbanistica e di interessi di cassa. Pisapia vuole portarlo alla Perrucchetti, la caserma di via Forze Armate in fase di dismissione; il sindaco sestese Giorgio Oldrini preme per insediare la cittadella nel cuore dell'area Falck, la sterminata distesa abbandonata dove sorgeva l'acciaieria. Entrambi sanno che una struttura di eccellenza come quella nata dalla fusione Tumori-Besta porterà un indotto economico e occupazionale rilevante in due aree problematiche. E quindi remano ognuno dalla sua parte, anche se - in nome anche della comune appartenenza politica - hanno promesso di non farsi sgambetti plateali.
Ma ieri, davanti alla discesa in campo di Veronesi, Oldrini mette da parte la diplomazia: «Non mi è chiaro a che titolo Veronesi intervenga - dice il sindaco di Sesto - visto che non mi risulta che sia un'urbanista. Perch´ un grande ospedale deve per forza avere la sede dentro i confini di Milano? Se ben ricordo, anche l'Istituto europeo di oncologia (diretto da Veronesi, ndr) è praticamente a Opera. E considerare oggi Sesto San Giovanni qualcosa di estraneo alla realtà metropolitana milanese mi sembra un modo abbastanza antico di ragionare». In realtà, nonostante l'endorsement di Veronesi, la sensazione è che Sesto San Giovanni sia in questo momento in vantaggio su Milano come futura sede della Città della salute. Da qui al 20 aprile, i rappresentanti dei due Comuni potranno partecipare ad un tavolo tecnico insieme alla Regione, ed è in quella sede che i rappresentanti dei due Comuni potranno fare valere le loro ragioni. Ma Sesto parte avvantaggiata su due fronti: la disponibilità immediata delle aree, e la loro vicinanza alla stazione ferroviaria e della metropolitana. Mentre la caserma Perrucchetti è a quasi un chilometro dal metrò, e il suo terreno appartiene al ministero della Difesa: «Il ministero ha già dato parere positivo», fa sapere l'assessore all'urbanistica milanese Ada De Cesaris. Ma a quale prezzo i militari siano disposti a cedere i 165mila meri quadri non è stato reso noto.
Alla Regione non interesserà, ma c'è un altro elemento che porta Oldrini a spingere per portare la cittadella a Sesto San Giovanni, e proprio sull'area Falck: ed è il valore simbolico che una vittoria avrebbe per una amministrazione comunale che proprio sulla riqualificazione della vecchia acciaieria è stata accusata di avere incassato tangenti.Vicende che riguardano la giunta prima di Oldrini, quella presieduta da Filippo Penati, e i vecchi proprietari dell'area, la holding di Luigi Zunino: proprio ieri la Procura di Monza ha annunciato la fine delle indagini per corruzione contro Zunino, l'ex assessore Pasqualino Di Leva e altri, in relazione a mazzette sulla Falck. Brutte storie. Ma, se sulla Falck arrivasse la Città della salute, con un lieto fine.
la Repubblica Milano
La cittadella della salute verso l’area Falck di Sesto
di Alessandra Corica
La decisione è rimandata al 20 aprile. Ma le speranze dell’ex cittadella industriale crescono sempre più. Ieri il Collegio di vigilanza dell’accordo di programma della Città della salute ha decretato ufficialmente l’entrata in gara di Sesto San Giovanni per decidere dove il nuovo polo ospedaliero - che nascerà dalla fusione del Sacco, del Besta e dell’Istituto dei tumori - avrà sede. Due le opzioni, tra le quali la commissione nominata dalla Regione deciderà entro un mese: l’ex caserma Perrucchetti o le ex aree Falck.
Tramonta per sempre l’ipotesi di costruire la struttura al quartiere Vialba: ieri il collegio ha revocato l’accordo di programma del 2009 che designava l’area adiacente al Sacco quale nuova sede del polo scientifico. Una decisione dettata soprattutto da ragioni economiche: in questo modo si risparmieranno circa 80 milioni di euro che sarebbero stati necessari per costruire nella zona. E che si sarebbero sommati ai 520 che già di per sé richiede la realizzazione del polo. Un’operazione che, nonostante i numerosi rimandi, per la Regione resta prioritaria: «È un progetto che realizzeremo - ha ribadito su Twitter Roberto Formigoni - non ci rinunceremo per nessuna ragione al mondo». Per arrivare all’individuazione della sede, sarà così avviato un tavolo a cui parteciperanno sia Palazzo Marino sia il comune di Sesto: «Lo scopo - spiega il governatore - è stabilire in tempi rapidi quale sarà la localizzazione dell’intervento, in modo da promuovere e firmare un nuovo accordo di programma».
Da Palazzo Marino fanno sapere che proprio in questi giorni è arrivato il parere positivo del ministero della Difesa (proprietario dell’area della Perrucchetti) per posizionare il polo nella Piazza d’Armi davanti alla caserma. «Il Comune ascolterà tutti i soggetti coinvolti - assicura l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris - per noi è importante che non vadano disperse le risorse economiche messe già in campo». In pole position, però, sembrerebbe l’area ex Falck: non a caso, per la prima volta si parla di un’ubicazione del polo scientifico in area metropolitana e non solo cittadina. «Le aree Falck - dice il sindaco di Sesto Giorgio Oldrini - permetterebbero lo sviluppo di quell’indotto di mezzi di trasporto, parcheggi e alberghi che dovrà accompagnare il nuovo polo». Contrario all’ubicazione a Sesto, invece, l’oncologo ed ex ministro Umberto Veronesi, fondatore dello Ieo: «Questi due istituti - ha detto il professore, riferendosi all’Istituto europeo dei tumori e a quello di via Venezian - sono una forza per Milano e credo debbano rimanervi. Non vedo perché debbano andare in un’altra città».
Corriere della Sera Milano
Città della Salute, nuovo rinvio
di Simona Ravizza
Nuovo rinvio sulla decisione dell'area dove sorgerà la Città della Salute. «La scelta sarà effettuata in tempi brevi, presumibilmente già il prossimo 7 marzo», aveva annunciato il governatore Roberto Formigoni lo scorso febbraio.Ma la partita è complicata e ieri, dopo l'ennesima riunione del Collegio di vigilanza che riunisce i politici e i tecnici interessati, l'attesa presa di posizione non è arrivata. «La riunione, inizialmente prevista per il 7 marzo, era stata rinviata su richiesta del Comune di Milano», ha precisato Formigoni.
Ma per il progetto che mira a riunire l'Istituto dei tumori e il neurologico Besta i giochi sono aperti. Restano, dunque, in campo le ipotesi della piazza d'Armi della Caserma Perrucchetti per Milano (oltre ad altre eventuali soluzioni su cui Palazzo Marino dovesse decidere di lavorare) e l'area ex Falck, proposta dal Comune di Sesto San Giovanni. Sul più importante progetto di edilizia sanitaria della Lombardia, con investimenti previsti per 400 milioni di euro (contro i 520 inizialmente preventivati), sarà avviato un tavolo di lavoro con i Comuni di Milano e Sesto San Giovanni, oltre che con i due ospedali interessati, per stabilire in tempi rapidi quale sarà la localizzazione dell'intervento, in modo da promuovere e firmare un nuovo accordo.
Come già anticipato, l'idea iniziale di ricomprendere anche il Sacco è definitivamente tramontata: «In questa situazione contingente di crisi e stante l'impossibilità di reperire nuove risorse, anche statali — ha sottolineato Formigoni — la Regione non è in grado da sola di far fronte alla realizzazione della Città della Salute in Vialba».Soddisfatto il sindaco di Sesto, Giorgio Oldrini: «Questa decisione è per noi importante per due motivi. È esplicitata l'indicazione di individuare l'ubicazione della Città della Salute all'interno dell'area metropolitana, includendo quindi ufficialmente la nostra città, e invita la nostra amministrazione al gruppo di analisi sulle proposte in campo». La gara con Milano s'annuncia, comunque, dura.
Eccolo, dunque. Il Piano di Governo del Territorio rivisto, che attualmente è in esame in Commissione Urbanistica. Così, integrale, con tutti i tecnicismi, non l'ha ancora visto nessuno. A renderlo pubblico su Affaritaliani.it è il capogruppo del Pdl a Palazzo Marino Carlo Masseroli, il papà del Pgt varato dalla Moratti e rivisto dall'assessore De Cesaris insieme alla giunta guidata da Giuliano Pisapia.
(il resto sul sito Affari Italiani)
Ci sono diverse ragioni per parlare dell'abitabilità di Milano. Il rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà, pubblicato sulCorriere della Seradel 13 Marzo, analizza le città italiane da questo punto di vista osservando, come spesso in queste classifiche, le difficoltà della nostra città. Il problema è che Milano sta cambiando profondamente sotto i nostri occhi e manifesta segnali di crisi proprio sul terreno dell'abitabilità, della vivibilità intesa in senso complessivo. Qualche dato: Milano ha perso dal 1973 a oggi circa 700.000 residenti, che si sono spostati prima nei comuni della provincia, poi nelle province confinanti. La città è diventata il cuore di una vasta regione urbana fortemente integrata. Al contempo ha assorbito oltre 200.000 immigrati provenienti per lo più dai paesi poveri del Sud del mondo e dell'Est Europa. Aveva 1.750.000 abitanti, ne ha oggi poco più di 1.300.000. Chi è rimasto è invecchiato, in famiglie sempre più piccole, mentre i giovani si sono trasferiti. Nello stesso periodo Milano ha affrontato un altro profondo cambiamento: ha perso 250.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero, compensati dalla crescita sostenuta di posizioni nel settore dei servizi. Le case e gli opifici svuotati dalla popolazione residente e dalle industrie si sono riempiti di uffici, di showroom, di popolazioni provvisorie come gli studenti (ce ne sono 190.000 nelle nostre università), di lavoratori temporanei, di immigrati.
Ogni giorno arrivano a Milanocity-usersin auto (ne entrano circa 800.000) in treno (320.000 persone ogni giorno in stazione centrale), in aereo (37 milioni di passeggeri l'anno) e con altri mezzi pubblici. Si stima che la popolazione diurna di Milano sia circa il doppio di quella residente. Da una parte la città dei residenti, invecchiati, un po' impauriti e oppressi da problemi di congestione, inquinamento e abuso nei quartieri della movida, dall'altra la città-piattaforma delle funzioni dinamiche della Milano produttiva fatta di ricerca, finanza, moda, servizi avanzati, svago. Abitata questa da pendolari che faticano a raggiungerla nelle code interminabili di auto, nei treni malandati e nei bus spesso sovraffollati. È nella relazione fra queste due città che si gioca la questione dell'abitabilità: oggi la città-piattaforma schiaccia la città dei residenti. Occuparsi di abitabilità significa non pensare a progetti faraonici ma a ciò che può rendere la città accogliente, viva e in armonia, dando la casa ai giovani, ai lavoratori che fanno funzionare la macchina urbana, alle popolazioni temporanee. È necessario occuparsi degli spazi collettivi e dei luoghi della cultura che consentono l'incontro, del verde urbano, della valorizzazione delle aree agricole e naturali, della qualità dell'aria, delle forme e dei luoghi della mobilità, dei mezzi pubblici, della ciclabilità e di un uso delle auto non invasivo, dei servizi di welfare per la popolazione anziana e per l'accoglienza degli immigrati e delle nuove famiglie, di un decentramento vero di funzioni non marginali.
Il fatto nuovo è che l'abitabilità non è più solo un'esigenza degli abitanti: in un mondo sempre più interconnesso e globale è un fondamentale fattore di attrattività e quindi anche di successo economico.(Sandro Balducci è prorettore del Politecnico)
Il derby tra Milano e Sesto San Giovanni sulla nuova sede per la Città della salute continua. Dopo la proposta del sindaco di Sesto Giorgio Oldrini (offrire alla Regione parte delle ex aree Falck ora di proprietà della Sesto Immobiliare per la realizzazione del progetto di fusione dell’Istituto dei Tumori, del neurologico Besta e dell’ospedale Sacco), Milano rilancia e propone la piazza d’armi della caserma Perrucchetti che, però, è di proprietà dello Stato. «Bene la proposta di Sesto, ma Milano si conferma disponibile al confronto con tutti i comuni dell’hinterland» precisa l’assessore comunale all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris. «Evitiamo le fughe in avanti» aggiunge l’assessore comunale ai Servizi Sociali Pierfrancesco Majorino. Ma il sindaco di Sesto Oldrini, anche lui del Pd, insiste: «È da anni - spiega che il centrosinistra dibatte sulla nascita dell’area metropolitana, poi quando si tratta di fare una scelta cambia strada». Oldrini non risparmia un’altra stoccata: «Il concetto di città metropolitana non può certo fermarsi dentro i dazi doganali. Altrimenti finisce che è peggio per chi vive dentro e per chi vive fuori»
Alle obiezioni del Comune e dell’assessore regionale alla Sanità Luciano Bresciani (Lega) sulla «compatibilità ambientale» dell’area ex Falck, Oldrini, che ieri si è presentato alla stampa al fianco di Roberto Formigoni, risponde: «Saremo pronti, questa potrebbe essere un’operazione straordinariamente importante per allargare i confini di Milano». Il governatore conferma che Milano e Sesto sono in pole position, ma annuncia che la Regione deciderà il 7 marzo, quando si riunirà nuovamente il Collegio di Vigilanza dell’Accordo di Programma della Città della Salute. «La scelta dell’area - anticipa - si baserà sulla possibilità di realizzare l’opera nei tempi più rapidi, con i costi più bassi e con tutte le garanzie di accessibilità e pulizia dei terreni che sono necessarie». Il sindaco di Sesto sembra convinto che riuscirà a spuntarla e fa sapere che il 1° marzo incontrerà già i tecnici della Regione e che l’architetto Renzo Piano potrebbe avere un ruolo nella realizzazione della "cittadella". Escono di scena, invece, le ipotesi dell’area del Parco sud, vicino all’area in cui sorgerà il maxi polo privato Cerba. L’area di Porto di Mare e del Canale navigabile Cremona-Po che sono già state giudicate impraticabili. Mentre solo ieri si è fatta avanti Novate Milanese con un’offerta che, però, deve essere ancora perfezionata.
L’annuncio di ieri è stato per la Regione anche l’occasione per fare il punto su un progetto annunciato da anni, che negli ultimi mesi sembrava essersi arenato. Il Pirellone infatti si era impegnato nel 2009 a mettere a disposizione 228 milioni di euro su un costo totale previsto di 520 milioni. Che nel frattempo è aumentato di 90 milioni tra tagli ai fondi dello Stato e spese affrontate nel frattempo. Come la realizzazione di tre vasche di laminazione a nord dell’area Vialba, che era stata scelta inizialmente; l’istituzione di due shuttle dedicati per il trasporto, e la realizzazione della viabilità locale per collegare l’ipotetica cittadella con la nuova Rho-Monza. Il tutto mentre l’Inps, proprietaria di quei terreni, non ha ancora fatto sapere le sue pretese, costringendo così la Regione a valutare altre opzioni. Tra due settimane il verdetto finale.
Milano, 21 febbraio 2012 - L'area ex Falck di Sesto San Giovanni potrebbe essere scelta per ospitare la 'Citta' della Salute'.Dopo l'incontro dei giorni scorsi tra il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni e il sindaco di Sesto San Giovanni, Giorgio Oldrini, quest'ultimo ha comunicato al governatore l'interesse e la disponibilità che Regione Lombardia insedi sull'area ex Falck la nuova Città della Salute, potendo contare sul fatto che tale iniziativa incontri il favore della Sesto Immobiliare SpA, la società che si sta occupando della riqualificazione immobiliare dell'areae che da tempo, insieme all'architetto Renzo Piano,sta studiando l'inserimento nel progetto di centri di eccellenza.Il sindaco sottolinea come sia possibile valutare insieme la disponibilità a concedere come standard l'area, che verrebbe assegnata già bonificata senza costi per la Regione Lombardia.
postilla
Nessuno lo dice (ancora) ma pare che anche nelle menti perverse di chi ha sinora preso decisioni sbagliate e intempestive si sta facendo strada, in un modo o nell’altro, ciò che Richard Rogers chiama il principio “town center first”: le prime trasformazioni urbanistiche sono quelle delle aree già urbanizzate, meglio ancora se di dismissione industriale, e se con un intervento di alto profilo e contenuti se ne garantisce la bonifica ambientale. Nel caso specifico si potrebbero anche affiancare la bonifica socioeconomica, con un polo di eccellenza e di occupazione al posto delle acciaierie, e la “bonifica morale” col definitivo riuso di aree sinora famose per tangenti, scorrettezze urbanistiche e altro (i casi Zunino, Penati ecc.). Speriamo davvero se ne faccia qualcosa di concreto, lasciando che il Parco Agricolo Sud se ne stia a fare … il parco agricolo, appunto, e non il parcheggio di un ospedale (f.b.)
Pgt in aula, tre mesi per la Milano del futuro
di Alessia Gallione
Un anno dopo, Milano ci riprova. Un’altra maratona, un’altra battaglia per approvare il nuovo Pgt rivisto e corretto dalla giunta Pisapia che oggi torna in Consiglio comunale. E un traguardo che, realisticamente, Palazzo Marino ha tracciato: fare in modo che le regole dell’urbanistica diventino legge entro l’estate. Tre, al massimo quattro mesi di tempo considerando che a marzo l’aula dovrà affrontare il dibattito sul bilancio, già annunciato ad alta tensione.
Sarà una seduta importante quella del Consiglio di oggi: prima la discussione sulla delibera che permetterà alla giunta di concludere l’accordo con le banche per i derivati. Subito dopo, l’esigenza - per rispettare tempi e scadenze - di dare avvio al percorso del Pgt con la relazione all’aula dell’assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris.
Era il 4 febbraio del 2011 quando la giunta Moratti riuscì ad approvare il suo Piano di governo del territorio. Un documento mai pubblicato che il nuovo esecutivo ha revocato per riaprire la rilettura delle 5mila osservazioni di cittadini, associazioni, operatori. Oltre 2mila sono state accolte ed è così che molti punti sono cambiati: le quantità di cemento sono state ridotte così come le previsioni di nuovi abitanti; le volumetrie che avrebbe generato il Parco Sud cancellate; il tunnel Expo-Linate eliminato. Adesso l’imperativo del centrosinistra è fare in fretta. Senza stravolgere, con il passaggio in aula, le nuove regole. Con appelli che partono in direzione centrodestra: «Ci daremo un programma e la possibilità di approfondire anche in altre sedute di commissione - dice la capogruppo del Pd, Carmela Rozza - Ci auguriamo però che le opposizioni abbiano la consapevolezza di quanto sia importante dare alla città regole urbanistiche, e che abbandonino lo strumento dell’ostruzionismo».
Per il capogruppo del Pdl Carlo Masseroli, tuttavia, il dibattito di oggi non dovrebbe neppure cominciare: «Non è stato possibile - dice - affrontare nel merito molte questioni: sembra che la maggioranza abbia paura». Le critiche piovono anche sul metodo: «Il Piano è stato modificato in modo sostanziale e dovrà essere ripubblicato per riaprire una nuova fase di ascolto della gente». Se no scatterà un ricorso? «Spero di non essere messo nelle condizioni di doverlo fare - dice l’ex assessore all’Urbanistica - perché politicamente non è la partita che vorrei giocare. Temo però che i ricorsi saranno moltissimi». Le osservazioni sono state divise in 99 gruppi. Sarà il Consiglio, adesso, a stabilire come impostare il dibattito. Anche se il presidente Basilio Rizzo si augura che non siano necessarie «maratone notturne dettate solo dalla volontà di fare ostruzionismo. Pensiamo piuttosto a lunghe sessioni di lavoro durante il giorno».
"Troppi cantieri sono arenati alla città servono regole subito" (intervista all’assessore De Cesaris)
«Questa amministrazione l’aveva promesso: avrebbe chiuso il lavoro delle osservazioni e portato in Consiglio la sua proposta di Pgt all’inizio del 2012. Adesso chiediamo a tutti di partecipare a un lavoro che deve essere di confronto e approfondimento, con un obiettivo: fare presto». Eccolo, l’appello dell’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris.
Perché è importante che il Pgt sia approvato velocemente?
«Perché Milano ha bisogno di nuove regole. E perché, se si supera questo momento di conflitto politico sulla pianificazione, si può cominciare a occuparsi in modo serio di quale disegno si voglia dare alla città, tenendo conto del numero e dell’impatto di interventi ancora in corso e delle forti criticità che molti presentano, soprattutto in periferia».
Si riferisce a quartieri come Santa Giulia?
«A Santa Giulia, ma anche a piani come Rubattino, Marelli, Porta Vittoria... C’è un’enormità di progetti che vanno avanti a singhiozzo e che vanno reinseriti in un contesto generale. Dobbiamo riannodare i fili di interventi avviati che vanno ripensati per essere portati a termine garantendo, però, infrastrutture e verde».
Qual è il disegno di città che viene fuori da questo Pgt?
«Questo Piano ha in sé un’idea di città in cui lo sviluppo non può coincidere con un’incondizionata crescita edilizia. Al centro di ogni trasformazione urbana deve esserci l’interesse collettivo, il miglioramento della qualità della vita».
Non teme l’opposizione dei costruttori?
«Parlare di indici in un momento di crisi del mercato non ha molto senso. Quello che il Pgt mette in gioco è la possibilità di costruire rispondendo alle effettive esigenze dell’abitare, di rimettere in comunicazione domanda e offerta reali».
A cosa si riferisce, all’housing sociale?
«Sicuramente la residenza sociale, in tutte le sue declinazioni, è la vera scommessa. Ma penso anche alla possibilità di realizzare trasformazioni che poi non rischino di morire ancora prima di essere terminate o che siano prive di collegamenti, parchi, strutture pubbliche».
Questo Pgt non è stato scritto ex novo dalla giunta. Qual è il cambiamento di cui è più orgogliosa e quale, invece, quello che non è riuscita a fare?
«Sicuramente questo non è il mio Piano. Ma sono molto contenta delle scelte fatte per il Parco Sud, di aver limitato una pioggia di volumetrie che difficilmente avremmo gestito. Attraverso la rilettura delle osservazioni, poi, abbiamo ridato, non in modo ideologico, una funzione alla regìa pubblica. So, invece, che tutta la parte relativa alla mobilità e alle infrastrutture è rimasta debole: dovremo occuparci quanto prima del Piano urbano della mobilità».
L’opposizione vi accusa di aver stravolto il Pgt.
«Non è stato stravolto. Abbiamo ascoltato la città, recepito i pareri dei vari enti, tenuto conto dell’esito dei referendum ambientali. Un Pgt è sempre la sintesi della proposta che fa un’amministrazione e delle osservazioni dei cittadini, che comportano inevitabilmente modifiche e aggiornamenti».
Crede che, economicamente, l’impianto stia in piedi?
«Per noi i conti tornano. Certo, a chi consuma un bene come il suolo chiediamo di partecipare alla costruzione della città pubblica con case di edilizia sociale, con servizi».
Teme ricorsi?
«Un ricorso non si nega a nessuno. Il vecchio Piano è stato impugnato ancora prima di essere pubblicato e, nella mia storia professionale di avvocato, non ho notizie di Pgt che non lo siano stati. L’importante è aver lavorato nel rispetto della legge».
Il sindaco Pisapia dorma sonni tranquilli, non ha svenduto la memoria di sant'Ambrogio per colpevole parsimonia: la verità è che non esiste nessun argomento razionale contrario a questo parcheggio. Tanto per incominciare: le piazze stanno di solito davanti all'edificio che dà loro il nome, piazza della Scala sta davanti al teatro e piazza del Duomo davanti alla cattedrale, e il parcheggio del quale parliamo non è davanti alla chiesa, non è in piazza Sant'Ambrogio.
Questione di lana caprina? No, ricorrendo alla falsa denominazione viene suggerita l'idea che la basilica abbia a che vedere con il parcheggio, se viene scavato sulla sua piazza. Non è così, lo stradone di Sant'Ambrogio — come più appropriatamente lo denominava Dal Re nella sua stampa del 1734 — è disposto diagonalmente dispetto alla basilica, dalla quale è separato dagli edifici della canonica, sicché proprio non c'è alcun rapporto di continuità tra l'area del parcheggio e la chiesa, tant'è che lungo lo stradone correva un tempo una roggia frequentata dalle lavandaie. Le facciate sullo stradone, poi, non sono antiche, sono state ricostruite tutte dopo il 1945, sicché non c'è alcun ambiente originario da salvaguardare.
Il campanile è stato rifoderato in cemento armato dopo l'ultima guerra dall'ingegner Locatelli, il più valido esperto strutturalista della città, e insinuare che non sapesse tenere conto delle diverse dilatazioni dei materiali tra cemento e mattoni è semplicemente un insulto alla sua memoria. Nelle città romane era d'obbligo seppellire i morti fuori dalle mura, e questo divieto venne mantenuto dai cristiani per secoli, sicché la Milano romana è circondata da più di un milione di sepolture: difficile non trovare, scavando, un qualche osso dell'antenato.
Il sindaco Pisapia dorma sonni tranquilli, non ha svenduto la memoria di sant'Ambrogio, anche gli argomenti sentimentali sono molto fragili perché dovrebbero venire condivisi da tutte le città europee. Ma a Torino il sindaco Chiamparino ha scavato un parcheggio sotto la più nobile piazza della città, piazza San Carlo. A Montpellier la collina davanti alla promenade royaledel Peyrou è scavata da un parcheggio e sembra un gruviera. A Barcellona i parcheggi sotterranei sono sotto la piazza de Cataluña, sotto la Rambla e — udite udite — davanti alla Cattedrale. A Bordeaux il primo venne scavato sotto le avenue de Tourny, oggi gli altri circondano il centro storico. A Parigi sotto piazza Notre Dame. A Colonia sotto la piazza del Duomo, a Lione sotto place de la Bourse, a Strasburgo sotto la piazza principale, piazza Gutenberg. A Monaco di Baviera sotto la piazza monumentale, la Maxplatz.
Ma queste sono soltanto quelle che mi vengono in mente, Google vi consentirebbe di ampliare la casistica a dismisura: non sembra che i cittadini di queste città considerino questi parcheggi un insulto alla sacra memoria della città, e neppure che i solerti visitatori milanesi se ne lamentino, e anzi trovano comodissimo infilare le loro automobili lì sotto. La percezione sentimentale della città deve essere condivisa nel contesto europeo — come quella di pedonalizzare il centro storico — altrimenti è un capriccio locale del quale non è necessario tenere conto.
Fa benissimo, il professor Marco Romano, a ricordarci che una visione solo localistica, di cortile, sentimentale, ci sprofonda in una specie di infernale autosilo del provincialismo, da cui poi non basta pagare l’adeguata tariffa per riemergere a una sensibilità “condivisa nel contesto europeo”. In effetti spesso, un pochino complice la stampa attenta a cogliere certi accenti e punte del dibattito, lasciando sullo sfondo questioni di più ampio respiro, pare che la disputa box sotterranei (o su altre varie trasformazioni urbane contemporanee) venga vissuta come opposizione di alcuni benintenzionati quanto fanatici intellettuali, all’ingresso di qualunque segno di progresso umano fra atrii muscosi e fori cadenti. Mentre invece, pur non mancando certo isolate posizioni del genere, magari dettate da piccoli interessi particolari, ciò che un pochino di sicuro tormenta i sonni del sindaco Pisapia ha un altro nome, e si chiama idea di città. In cui, proprio come accade nella citata Europa del professor Romano, le amministrazioni non procedono per progetti isolati, ma seguendo strategie di lungo periodo, ad esempio ispirate a idee generali come il ruolo della città storica rispetto alle periferie e all’area metropolitana, il contenimento delle emissioni e dei consumi energetici per quanto possibile a quella dimensione, e in cui le considerazioni formali, soggette a gusti o sensibilità particolari, se ne stanno al loro giusto posto nell’ambito dei progetti di trasformazione. I quali progetti hanno senso appunto entro un programma più vasto. Conosciamo ahimè il “programma” delle giunte che da almeno vent’anni si sono susseguite a Milano, di cui fanno parte il sistema dei parcheggi sotterranei in centro, o il tunnel autostradale Linate-Expo con relativi svincoli urbani ecc. Il nuovo programma urbanistico, trasportistico, di sostegno ad alcuni comportamenti rispetto ad altri, pare indicare una direzione diversa, quella di sicuro “condivisa nel contesto europeo” molto più della modernità stupidotta delle automobili dappertutto, sempre che ce lo si possa permettere. Ed è in questo contenitore logico, che vanno giudicate anche le opposizioni, magari esclusivamente e soggettivamente estetizzanti, magari pure un po’ discutibili nel merito. Ma questo il professor Romano lo sa già benissimo: si era solo dimenticato di scriverlo, oppure la redazione del Corriere gli ha tagliato le ultime righe per motivi di spazio. Ne siamo certi (f.b.).
1) Il Pgt di Milano ha un limite di origine difficilmente correggibile in sede di controdeduzioni: aver completamente trascurato i rapporti con l’hinterland, dove vive tre quarti della popolazione metropolitana. Chiediamo perciò che venga avviato subito il processo di consultazione metropolitana sistematica per definire scelte urbanistiche e di investimento condivise a livello di area vasta, che potranno poi portare anche alla modifica di alcune delle opzioni del PGT.
2) Lo stralcio, in fase di controdeduzioni, di gran parte delle scelte infrastrutturali, annunciato dalla Giunta, e il loro rinvio in sede di pianificazione di settore non consente la verifica di coerenza tra sviluppo del sistema insediativo e di quello infrastrutturale, che dovrebbe invece costituire la base essenziale di qualsiasi piano. Inoltre mette in forse la garanzia di un adeguato supporto di infrastrutture rare alla competitività del sistema territoriale. E’ dunque essenziale che le scelte infrastrutturali principali vengano reintrodotte nel PGT e non rinviate.
3) Gli ambiti di trasformazione (ATU) comprendono alcune aree che costituiscono opportunità uniche di riconformazione e riqualificazione della città. Soprattutto Bovisa/Farini/Lugano, Piazza d’armi/ Perrucchetti/Ospedale militare e gli scali di Porta Romana/Vigentina e Porta Genova/San Cristoforo, devono diventare grandi spazi di verde naturale ed attrezzato. La loro lunghezza può infatti permettere a centinaia di migliaia di milanesi di conquistare per la prima volta la fruizione diretta di grandi spazi a parco. Viceversa le densità edilizie ipotizzate (0,35 + 0,35 + 0, 28 circa di bonus energetici = 0,98 mq/mq circa di densità territoriale, che salgono a 1,14 circa nel caso di Bovisa/Farini, se calcolate, come è corretto fare, al netto dei sedimi ferroviari da mantenere) non permettono certo di raggiungere tale obbiettivo. Per aver chiari gli effetti congestivi di quanto ipotizzato basta visitare il cantiere di City life, costruita con una densità territoriale molto simile (1,15 mq/mq). Nessun eventuale ritorno economico per il Comune può giustificare il sacrificio delle ultime grandi opportunità di penetrazione di verde nella città, per di più su aree già di proprietà pubblica.
Con riferimento agli altri ATU e ai piani attuativi in genere sembra utile ricordare i quartieri approvati alla fine degli anni 90 con lo standard di 44 mq/100 mc. Non è chiaro se vi siano ragioni per scendere al di sotto di questo livello di qualità ambientale già acquisito in passato e realizzato.
4) Alla positiva notizia dell’intenzione della Giunta di cancellare gli ATIPG situati tra i margini della città e il Parco sud, sembra d’altro canto accompagnarsi la mancanza di indicazioni per le aree del Parco sud interessate dai futuri PCU (Piani di cintura urbana). Si chiede che il PGT contenga una precisa dichiarazione degli intenti del Comune di Milano per ciascuna di queste aree, da sottoporre poi al confronto e alla verifica con i profili di tutela di competenza del Parco Sud.
5) Una normativa molto creativa del PGT adottato prevede il convenzionale azzeramento della SLP di tutti i servizi pubblici e privati (edilizia residenziale pubblica compresa) con la conseguente attribuzione di ulteriore capacità edificatoria a tutte le relative aree, trattate perciò esattamente come fossero vergini ed inedificate. Questa norma, unitamente all’edificabilità virtuale attribuita alle nuove previsioni puntuali di verde e viabilità genera un’ulteriore mostruosa capacità insediativa di circa 16 milioni di mq di SLP, pari a più di cinque volte tanto quella ora prevista negli ATU. Se una tale norma dovesse essere confermata, gli effetti sarebbero inevitabilmente quelli di un diluvio di intasamenti, sopralzi e densificazioni che si abbatterà dovunque nel tessuto urbano esistente, e soprattutto nella sua parte centrale più appetibile. Si chiede la cancellazione di tale incredibile disposto normativo, facendo rientrare, come dovrebbe essere assolutamente del tutto ovvio, anche gli edifici per servizi nel calcolo della SLP.
6) Molti miglioramenti possono essere introdotti nel PGT adottato sotto il profilo della promozione della qualità progettuale, del recupero delle periferie, della tutela della città storica sia antica che recente, della conservazione dei nuclei urbani periferici, dell’attenzione complessiva al paesaggio, e della accentuazione del ruolo del Comune, accanto a quello delle Sovrintendenze in tutti questi campi. Alcuni interventi preciseranno le proposte su questi punti. Miglioramenti possono anche essere apportati alla definizione delle quote di social housing, per garantirne l’effettiva rilevanza sociale.
7) Appare opportuno che gli interventi per l’Expo non camminino su strade separate da quelle della pianificazione urbanistica e della tutela ambientale. In particolare suscita dubbi di sostenibilità ambientale ed economica l’ipotizzata nuova Via d’acqua.
8) In conclusione si evidenzia il rilevante rischio giuridico che potrebbe comportare l’approvazione in fase di controdeduzione di modifiche sostanziali al PGT, se non si procedesse poi ad una sua conseguente ripubblicazione.
La Triennale di Milano, che fu una grande istituzione culturale, ha un nuovo presidente, Claudio De Albertis, che già sedeva nel consiglio di amministrazione, ingegnere noto per essere da tempo presidente di Assimpredil, cioè presidente della associazione dei costruttori della provincia di Milano, i fautori, evidentemente, insieme con i precedenti amministratori, dal sindaco Moratti al suo assessore Masseroli, di quell’ondata di cemento che si è abbattuta e si sta abbattendo su Milano. De Albertis viene dopo Rampello, Davide Rampello regista di varietà prima in Rai e poi alla Fininvest, autore tra l’altro di Premiatissima e di Risatissima, per canale 5, ormai lodatissimo e rimpiantissimo ex presidente per due trienni, indimenticabili secondo alcuni, modestissimi per quanto variopinti a mio timidissimo giudizio.
Su De Albertis non saprei che dire. Non lo conosco, se non per le sue imprese edili (credo siano opera sua molti di quei contestati parcheggi sotterranei, compreso quello che si sta scavando sotto la Basilica di S.Ambrogio, parcheggi fortemente voluti da un altro sindaco di Berlusconi, e cioè Gabriele Albertini). Sarebbe offensivo dire che si sarebbe potuto trovare di meglio. Mi auguro che De Albertis faccia benissimo. Però non posso non condividere una dichiarazione dell’assessore alla cultura Stefano Boeri. Che trascrivo: “Il mio orientamento, come si sa, era del tutto diverso e chiedeva una discontinuità con il passato, anche in considerazione della difficile situazione di bilancio in cui Triennale si trova. Faccio quindi appello a tutte le forze vive e responsabili della cultura milanese affinchè sostengano con idee e programmi innovativi un luogo fondamentale per l’architettura l’arte e la cultura di Milano e difendano la qualità scientifica e artistica della sua programmazione, in coerenza con il prestigio che – anche grazie alla nostra Triennale – questa città si è conquistata in Italia e nel mondo”. In modo meno istituzionale, Boeri ha pure dichiarato che non si può pensare a un risanamento economico della Triennale, senza ripensare a un programma di rilancio culturale che rimetta al centro l’architettura e il design, un programma che riporti la Triennale in rete con le grandi istituzioni internazionali…
Insomma Boeri, gentilmente, ha calato una pietra tombale sul passato di Rampello, considerando quella di De Albertis la scelta mediocre di una maggioranza (di centrodestra) che tarda a capire che cosa sta succedendo a Milano e in Italia, che non capisce evidentemente il valore della Triennale, che conobbe, anche durante il fascismo (la Triennale venne fondata negli anni venti e trovò la sua sede definitiva negli anni trenta, nel palazzo che fu costruito su progetto di Giovanni Muzio e con i soldi di un industriale tessile, Antonio Bernocchi) giorni e giorni di grande fermento culturale, proponendosi come luogo di conoscenza e di dibattito delle idee più nuove dell’architettura e del design (e di progetto: nacque qui ad esempio, per merito di Piero Bottoni, una delle più interessanti esperienze urbanistiche del dopoguerra in Italia, il Qt8, Quartiere dell’ottava Triennale), in stretto rapporto con quanto andava maturando nel resto del mondo. Non vorrei che De Albertis venisse invece a presentarci qualche bel manufatto della Milano d’oggi, tipo i palazzoni di Citylife o i banali semigrattacieli del Garibaldi o i suoi umidi parcheggi sotterranei. Il dubbio ce l’ho. Lui ha già spiegato che alla Triennale si dovrà discutere del futuro di Milano: purtroppo un futuro al cemento non ce l’hanno mai fatto mancare.
Una postilla sull’articolo 18. Dalla Triennale alla Biennale, per citare Franco Bernabè, che a Venezia è stato ben tre anni alla presidenza, ma che è stato soprattutto amministratore delegato dell’Eni, di Telecom ed è tornato a capo di Telecom: cioè uno che da una parte o dall’altra ha sempre mandato a casa migliaia di lavoratori. L’ho sentito a Ballarò, intervistato da Floris, trascinato nell’annoso dibattito sull’articolo 18. Bernabè ha ricordato con eleganza le tante ristrutturazioni da lui guidate, ha ricordato le trattative sindacali (con Cgil, Cisl e Uil, ha precisato), ha ricordato quanto poco d’ostacolo fosse stato l’articolo 18, concludendo che l’articolo 18 sarebbe meglio lasciarlo stare, perché vengono prima altri problemi. Sembrerebbe tutto semplice, quasi ovvio, persino banale…
La Triennale si occupa da sempre di faccende urbane, la possiamo considerare una vera e propria fabbrica di città. Vero che l’unico prodotto direttamente tangibile di questo tipo resta ancora il quartiere modello QT8 voluto dal commissario Piero Bottoni a far da riferimento alla ricostruzione post-bellica. Ma vero anche, come ci insegnano tutti i giorni, che viviamo nel mondo della comunicazione, e non c’è bisogno di manipolare materia per cambiare il mondo: a quello ci possono pensare altri. Solo per fare un esempio particolarmente vicino alle tematiche di questo sito, è dalla Triennale che è partito qualche anno fa con grande clamore lo slogan pataccaro della “città infinita”, espressamente pensato per nascondere sotto il tappeto qualunque forma di considerazione oggettiva sullo sprawl e i suoi costi collettivi. Con risultati a modo loro incredibili, se è vero come è vero che molti studenti di discipline del territorio (e non solo loro ahimè) usano correntemente e acriticamente quell’eresia geografica. In quali altri modi l’impegno diretto di un operatore delle trasformazioni urbane potrà influenzare l’urbanità in senso lato e meno lato? Bisognerà stare a guardare con una certa attenzione, questo dispiegarsi dell’urbanistica subliminale (f.b.)