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Premessa – di Fabrizio Bottini



Essere contrari ai parchi tematici vuol dire essere ciecamente passatisti, oppure ostinatamente antiamericani, tecnofobi, magari sotto sotto un po’ bifolchi? Sono domande che probabilmente ci poniamo anche noi italiani, da qualche anno a questa parte (ma i segnali c’erano da decenni) sempre più immersi nell’ambiente globalizzato di spazi artificiali che ha nel parco a tema il suo più vistoso simbolo. Già: solo un simbolo, e solo il più vistoso, perché se ci guardiamo un attimo attorno questo modello di rapporto fra spazio, società, consumi, immaginario e regole di convivenza, sta tracimando dal ristretto ambito della giostra domenicale alla vita quotidiana di lavoro o tempo “libero” che sia.

La città, nel bene e nel male, continua ad essere la casa della società, ma i suoi spazi di relazione vengono via via ritagliati da nuove entità apparentemente simili, in realtà antitetiche: gli ambiti commerciali privati “semi-pubblici”, che usiamo come fossero pubblici ma non lo sono. E lo si vede, appunto, quando assumono la forma esplicita del parco tematico, magari ridondante di simboli a goffa importazione yankee, magari atterrato brutalmente in un contesto che non lo accetta con facilità, nelle dimensioni e nelle intenzioni.

È la modernità, baby, sembra dirci questo breve estratto di Steve Mills: devi solo abituarti, e gli anticorpi verranno da soli. Visti i cantieri di questa grande trasformazione, che ci circondano da ogni lato, e che su Eddyburg tentiamo in qualche modo di discutere e descrivere, verrebbe voglia di dargli ragione.

Estratti da: American Theme Parks and the Landscape of Mass Culture”, in American Studies Today online (traduzione di Fabrizio Bottini)

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I parchi Disney nel Mondo

L’inflenza dei parchi della Disney non si limita al parco stesso e all’ambiente circostante. L’impresa di realizzare un nuovo tipo di spazio per il tempo libero ha avuto tanto successo che Disneyland, e ancor più Disneyworld, sono diventati non solo i prodotti più avanzati di questo tipo, ma il metro di paragone per valutare un ambito molto più vasto di strutture che hanno rapporto con lo stesso tipo di pubblico, sia da parte degli operatori che dell’utenza stessa. Strutture che vanno dal centro commerciale, alla nuova generazione di esposizioni internazionali, centri congressi, e via via gallerie d’arte e musei. Anche i nuovi servizi commerciali nelle aree di sosta delle autostrade britanniche, devono qualcosa al modo in cui la Disney ha fissato lo standard per rivolgersi ad un pubblico esigente e sempre più disponibile a spendere. I critici possono anche aborrire l’ubiquità dei prodotti tipo Disney, ma la loro importanza va forse valutata in modo più ampio, in termini di influenza su un vasto ambito. Qualunque costruttore di centro commerciale, e non solo di parchi divertimenti, deve riconoscere che la Disney ha fissato lo standard per i grandi complessi integrati, nello stesso modo in cui Henry Ford aveva a suo tempo fissato quello per la produzione industriale in serie. Insieme a questo standard, importiamo altri valori, codificati all’interno dello stesso spazio. L’utenza di massa richiede comunicazioni di massa. Mentre negli Stati Uniti questo significa automobile, e con essa il sistema di freeways, svincoli e rampe d’accesso, in Francia e Giappone ci si basa di più sul trasporto pubblico, ma ovunque bisogna offrire accessibilità di massa, e dove essa non esiste va realizzata.

Ancora più importante, il fatto che i parchi a tema Disney ignorino il paesaggio esistente, trattando il sito come se si trattasse di uno spazio vuoto e deserto. I paesaggi esistenti a Orange County, Orlando o a Maine La Vallée sono stati completamente cancellati. Costruttori e amministrazioni in genere sperano che le strutture ne attraggano di nuove, simili, complementari, come alberghi o parchi concorrenti, e che questo possa creare posti di lavoro e stimolare la crescita economica locale. Nonostante le idee di partenza della Disney, sia Disneyland che Disney World sono circondate da parchi concorrenti che offrono attrazioni diverse, come Sea World a Orlando, e hanno stimolato oltre ogni aspettativa l’economia locale. Un impatto ambientale sempre più forte viene considerato normale, senza pensare a quando esso potrebbe divenire insostenibile. Disneyland è stata in qualche modo corresponsabile della massiccia espansione suburbana sui bordi di quello che è di fatto un deserto, e Disney World ha generato una crescita anche maggiore in un’area dove si pompa più acqua dolce di quanta la natura possa rimpiazzare, portando all’aumento delle acque salmastre.

Nessuna sorpresa quindi, se le reazioni al progetto Disney’s America per l’area di Washington D.C., in crescita turistica, hanno condotto all’accantonamento dell’impresa, che avrebbe dovuto inaugurare una nuova generazione di parchi tematici, utilizzando le capacità della Disney per raccontare la storia americana. La paura che lo spericolato eclettismo dei parchi a tema potesse banalizzare il passato non giocava certo a favore dell’immagine della Disney agli occhi dei residenti suburbani di Washington.

Centri commerciali come parchi tematici

Una delle caratteristiche principali, che distinguono i parchi a tema Disney è il loro essere grandi, in grado di gestire grandi quantità di persone, per tutto l’anno, col sole o con la pioggia. Il mondo di Walt Disney chiude solo a Natale, e il giorno dopo è il più affollato dell’anno. Localizzato in Florida, deve fare i conti con tempeste elettriche e eventuali uragani, ma non con le nevicate di Chicago o New York. Pochi altri posti possono gestire tante persone d’inverno, eccetto forse i centri sciistici in Colorado. Non sorprende che altri costruttori, impresari e amministrazioni cittadine, in numero crescente abbiano tentato di riprodurne il meccanismo economico offrendo strutture commerciali, terziarie, e per il divertimento disponibili con qualsiasi tempo. I giganteschi stadi che ci sono in quasi tutte le città più importanti stanno a significare che si può giocare la partita anche nel cuore dell’inverno, o nei periodi più caldi e umidi dell’anno, senza badare a che tempo fa fuori. Chi fa acquisti può stare al riparo dal tempo inclemente, visto che tutte le città hanno centri commerciali al chiuso agibili con qualunque tempo, dove gli anziani passeggiano, i giovani si corteggiano, le famiglie visitano mostre d’arte. Ma, nonostante molti visitatori usino questi ambienti chiusi come spazi pubblici, essi sono in definitiva luoghi privati, da cui possono essere esclusi singoli o gruppi considerati potenziali disturbatori dell’atmosfera di pacifici acquisti o divertimenti. Predicatori o rappers, nella stessa misura, raramente sono i benvenuti, perché questa non è la pubblica strada, ma uno spazio privato, anche se pieno delle comuni presenze stradali come cassette postali, fontanelle, vigili urbani o venditori di biscotti. I tribunali sono già stati spinti a decidere sino a che punto spazi del genere possano essere considerati semi-pubblici, e di conseguenza sottoposti ai normali diritti di riunione, o accesso, previsti dalla legge. E, altrettanto importante di questa confusione fra spazi pubblici e privati, c’è la crescente convergenza fra centri commerciali e parchi tematici. Il Mall of America, in Minnesota, sembra aver portato l’esperienza dello Shopping Mall a livelli che avrebbero imbarazzato lo stesso Disney. Siamo di fronte a commercio con annesso divertimento, oppure ad un parco tematico con massicce offerte commerciali? Ma non sono solo i centri commerciali ad aver mescolato diversi tipi di strutture in un solo luogo. Las Vegas non è più solo una serie di case da gioco e sale da spettacolo nel deserto resa possibile da acqua ed energia a buon mercato. Per aumentare l’attrattività e il giro d’affari, gli spettacoli si sono allargati in arene appositamente realizzate, dove i pirati vanno all’arrembaggio dalle sartie di navi completamente attrezzate, e i visitatori possono risparmiarsi il fastidio di andare fino in Egitto a vedere le Piramidi e i tesori dei Faraoni.

Per assicurare la continuità degli affari, sono essenziali nuove aree tematiche ogni anno, nello stesso modo in cui i parchi divertimenti hanno bisogno di giostre sempre più mozzafiato. Per risucchiare affari da Las Vegas, altre località vicine ai grandi centri, come Atlantic City, non hanno solo introdotto i casino, ma anche scimmiottato il successo di Disney World sviluppando un’offerta completa di soggiorno. Le navi da crociera diventano parchi a tema galleggianti, dove gli americani possono visitare i Caraibi senza scendere a terra se non ne hanno il coraggio. Anche le camere di commercio dei distretti centrali terziari attirano i costruttori con sostegni ai centri congressi, o ristrutturazioni di aree storiche o per il tempo libero, come a Boston e Baltimora, attrezzate con televisioni a circuito chiuso e guardie private: aree che tendono ad escludere tanto quanto ad accogliere. È necessaria una certa mobilità per arrivarci, in queste aree piuttosto isolate, ed è necessaria una certa disponibilità di denaro per fare buon uso delle strutture. Centri commerciali e centri congressi nelle aree terziarie urbane sono sempre più isolati dai quartieri adiacenti in degrado, ci si accede in auto da ingressi controllati: solo un identificato tipo di consumatori entrerà in posti come il Detroit Renaissance Center. E, naturalmente, sempre più persone vivono entro comunità chiuse nello stesso modo. A Manhattan chi vive in condominio da molto tempo abita in edifici chiusi e guardati a vista. A Los Angeles si sono costruite intere città chiuse da mura, con cancelli elettronici a regolare gli ingressi, come negli acquartieramenti delle basi militari. Anche nei quartieri poveri si è chiesto che fossero chiuse le strade di attraversamento, per ridurre la quantità di presenze estranee, in particolare di bande giovanili.

Parchi a tema e influenza americana

Il parco tematico è, sempre di più, parte dell’esistenza moderna, di europei e americani, in tempo di lavoro o di vacanza. Ma se Alton Towers ora finalmente chiama sé stessa un parco a tema, nonostante mantenga la propria struttura storica, il giardino e il castello, i parchi Disney in modo del tutto diverso sono luoghi deliberatamente senza tempo e senza spazio. In modo simile, Legoland si diletta a mostrare una bella vista del castello di Windsor nel corridoio di volo del Concorde, inglobando anziché escludere il mondo esterno. E la tradizione dei parchi divertimenti britannica è piuttosto indipendente dal mondo di Disney, visto che risale almeno a Vauxhall Gardens sulle rive del Tamigi, attraverso i lungomare, le luminarie di Blackpool, i campi vacanze. I danesi sono fieri dei loro famosi giardini di Tivoli, o delle vecchie montagne russe in legno. Imprese olandesi realizzano alcune delle più moderne attrazioni dei parchi a tema, e i francesi da tempo hanno trasformato Mont Saint Michel in una occasione di shopping per pullmanate di turisti.

Anche Disneyland Paris è piena di fiabe popolari e personaggi di cartoni animati europei. Può darsi che i parchi Disney siano solo quelli più pubblicizzati, anziché qualcosa di tipicamente Americano. Il pregiudizio comune, che i parchi tematici siano la caratteristica più marcatamente americana del mondo moderno, ha bisogno di un esame più attento anziché di essere accettata di primo acchito. La Blackpool Pleasure Beach, è davvero parte di una invasione americana, oppure è solo una Goose Fair di Nottingham un po’ più grande? Visto che quasi ogni nazione ha i suo parchi a tema, essi possono essere ben considerati parte del mondo moderno, nel bene e nel male, anziché qualcosa di tipicamente americano, qualunque cosa la Disney Corporation voglia farci credere.

Ma questo non spiega comunque come mai la Disney abbia conquistato posizioni di alto livello, chiedendo di essere riconosciuta non solo come capofila, ma come metro di misura col quale tutti i concorrenti si confrontano. Forse questa fama non si costruisce solo sui parchi tematici, ma anche sul lungo e solido legame con la televisione per ragazzi. E questa è una posizione di forza, molto americana, per dominare i mercati mondiali. Forse, la Disney in fondo ha più a che fare con i dividendi azionari e i mercati, che non con la cultura americana.

La versione integrale e originale di questo articolo, completa di una bibliografia di riferimento, al sito di American Studies Today online

La via principale della nazione

La costa nord-orientale degli Stati Uniti è oggi sede di uno sviluppo notevole - una distesa quasi ininterrotta di aree urbane e suburbane dal New Hampshire del Sud alla Virginia del Nord, e dalla costa atlantica alle colline ai piedi degli Appalachi. I processi di urbanizzazione, che hanno profonde radici nel passato americano, hanno operato qui in modo costante, fornendo alla regione sistemi di vita e di utilizzazione del suolo eccezionali. Nessun’altra regione degli Stati Uniti ha una concentrazione di popolazione altrettanto forte, con una densità media cosi alta, e che si estenda su un’area cosi vasta. E nessun’altra regione ha un ruolo paragonabile all’interno della nazione e un’importanza paragonabile nel mondo. Si è sviluppato qui un genere di supremazia, nel campo politico, economico e forse persino nel campo delle attività culturali, raramente raggiunto prima d’ora da un’area di tale ampiezza.



Una regione eccezionale: Megalopoli.

Questa regione ha quindi una eccezionale Il personalità », che per circa tre secoli ha subito mutamenti ed evoluzioni continue, ha determinato continuamente nuovi problemi per i suoi abitanti ed esercitato un’influenza profonda sulla organizzazione generale della società. Le tendenze attuali del suo sviluppo e il grado odierno di affollamento offrono esempio ed insegnamento ad altre aree meno urbanizzate sia in America che altrove, e richiedono una revisione integrale di molti vecchi concetti, quale la distinzione abitualmente accettata tra città e campagna. Ne consegue che ad alcuni vecchi termini vanno attribuiti nuovi significati e che si devono coniare termini nuovi.

Ma per quanto grande sia l’importanza di questa parte degli Stati Uniti e il valore dei processi operanti al suo interno, è però difficile separare quest’area dalle aree circostanti; sia perché i suoi confini tagliano regioni storiche tradizionalmente riconosciute - come il New England e gli stati del Medio Atlantico -, sia perché essa comprende unità politiche diverse, e alcuni stati per intero ed altri solo in parte. Per definire quest’area geografica particolare è dunque necessario un nome speciale.

Questo particolare tipo di regione è nuovo, ma è il risultato di processi di lungo periodo, quali un imponente sviluppo urbanistico, la divisione del lavoro all’interno di una società civilizzata, la valorizzazione qui delle risorse provenienti da molte parti del mondo. Il nome dato a questa regione dovrebbe pertanto essere nuovo come fattura, ma anche richiamarsI a formule di età molto più lontane, in quanto questa regione può considerarsi un simbolo di una lunga tradizione di aspirazioni e di sforzi umani: sforzi e aspirazioni che qui troviamo, in parte almeno, e con certi particolari orientamenti, realizzati. Di qui la scelta del nome “Megalopoli” usato in questo studio.

Circa duemila anni prima che sulle spiagge del fiume James, della baia del Massachusetts e dell’isola di Manhattan sbarcassero i primi pionieri europei, un gruppo di antiche genti, progettando una nuova città-stato nel Peloponneso, in Grecia, la chiamò Megalopoli, poiché per essa sognava un grande futuro e sperava che sarebbe diventata la più grande delle città greche. La loro speranza non si realizzò. Megalopoli compare ancora sulle carte moderne del Peloponneso, ma è solo una cittadina annidata in un piccolo bacino fluviale. Nel corso dei secoli la parola “Megalopoli” è stata usata in molti sensi da varia gente, ed ha perfino trovato posto nel dizionario Webster, che la definisce “una città molto grande”. Il suo uso, tuttavia, non è divenuto tanto comune da non poter venir applicato con un nuovo senso, come toponimo per l’eccezionale gruppo di aree metropolitane della costa nord-orientale degli Stati Uniti. Qui, ammesso che ai nostri tempi ciò sia possibile, il sogno di quei Greci antichi potrebbe essere divenuto entro certi limiti realtà.

Un’area urbanizzata a struttura nebulare.

Percorrendo le autostrade e le linee ferroviarie principali tra Boston e Washington, è difficile perdere di vista aree costruite, zone residenziali ad alta densità o potenti concentrazioni di impianti industriali. Sorvolando questo medesimo percorso, si scopre, d’altra parte, che oltre le fasce di terreno denso di costruzioni che si stendono lungo le principali arterie del traffico, e tra gli agglomerati dei sobborghi che circondano i vecchi centri urbani, rimangono ancora ampie zone coperte di foreste e boscaglie, alternate a qualche appezzamento di terreno amorosamente coltivato. Tuttavia, anche questi spazi verdi, se osservati a distanza ravvicinata, si presentano popolati da una quantità imponente di edifici, per la maggior parte di carattere residenziale - e alcuni pure di carattere industriale - sparsi qua e là. Infatti, molte di queste zone che sembrano rurali in realtà fungono in gran parte da sobborghi, nell’orbita del centro di qualche città. Perfino nelle fattorie, che occupano i più grandi appezzamenti coltivati e che in realtà forniscono notevoli quantità di prodotti, raramente lavora gente la cui sola occupazione e il cui solo reddito sia esclusivamente agricolo.

Quindi non è più possibile applicare qui la vecchia distinzione tra rurale e urbano. Anche un rapido sguardo alla vasta superficie di Megalopoli rivela una rivoluzione nell’utilizzazione del suolo. La maggior parte della gente che vive nelle cosiddette aree rurali, e che viene ancora definita, dai recenti censimenti,”popolazione rurale” ha ben poco, per non dire niente, a che fare con l’agricoltura. Se si prendono in considerazione i suoi interessi e il suo lavoro essa costituisce quella che un tempo era definita “popolazione urbana”, ma il suo modo di vivere e il paesaggio che circonda le sue abitazioni non si adatta al tradizionale significato di urbano.

Dobbiamo perciò abbandonare in questa zona l’idea di città come unità fittamente costruita ed organizzata, in cui la gente, le sue attività e le sue ricchezze sono condensate in un’area molto piccola, chiaramente distinta dai suoi dintorni non urbani. Ogni città di questa regione si stende in lungo e in largo attorno al suo nucleo originario; cresce in mezzo a un miscuglio irregolarmente colloidale di paesaggi rurali e suburbani; si fonde su ampi fronti con altri miscugli, di struttura per qualche verso simile, anche se paesisticamente diversi, che appartengono ai dintorni suburbani di altre città. Si può osservare questa fusione, per esempio, lungo le principali arterie di comunicazione che uniscono New York a Filadelfia. Vi sono qui molte comunità che potrebbero essere classificate come appartenenti a più di un’orbita. È difficile dire se essi siano sobborghi o città “satelliti”, di Filadelfia o di New York, di Newark o New Brunswick o Trenton. Persino queste ultime tre città si sono ridotte sotto molti punti di vista al ruolo di sobborghi di New York, sebbene Trenton appartenga anche all’orbita di Filadelfia.

Le “aree metropolitane standard”, usate per la prima volta dal Bureau of the Census degli Stati Uniti nel 1950, hanno chiarito in parte, ma non del tutto questa situazione confusa. Per esempio, la classica area metropolitana New York-New Jersey nord-orientale taglia dei confini politici, mettendo in luce i rapporti di questa vasta regione con il cuore di New York. Eppure l’applicazione meccanica del, termine “area metropolitana standard” si è risolta nella creazione di aree separate per Trenton - che è strettamente legata sia a New York sia a Filadelfia - e per Bridgeport - che per molti motivi pratici fa parte dell’area di New York. Possiamo rilevare problemi analoghi in altre parti di Megalopoli.

Cosi è stato creato lungo le coste atlantiche nord-orientali un sistema quasi continuo di aree urbane e suburbane che si intersecano in profondità, con una popolazione totale di circa 37 milioni di abitanti nel 1960. Esso scavalca confini di stato, si stende attraverso ampi estuari e golfi e racchiude caratteristiche regionali molto diverse. In effetti, i paesaggi di Megalopoli offrono una tale varietà che l’osservatore medio può nutrire seri dubbi sull’unità della regione. E potrebbe avere l’impressione che i principali nuclei urbani della costa abbiano scarsa affinità tra di loro. Sei delle sue grandi Città sarebbero altrettante metropoli nettamente caratterizzate, se fossero situate altrove. Questa regione ci richiama le parole di Aristotele, che le città come Babilonia hanno “le dimensioni di una nazione piuttosto che di una città”.



Megalopoli: via principale e incrocio della nazione.

Vi sono molte altre grandi aree metropolitane, e perfino raggruppamenti di esse, in varie parti degli Stati Uniti, ma nessuna tuttavia è paragonabile a Megalopoli per quantità e densità di popolazione o importanza e densità di attività, siano queste espresse in termini di trasporti e nodi di comunicazioni, di operosità finanziaria o istituzioni politiche. Megalopoli fornisce a tutta l’ America una tale quantità di servizi essenziali, di quel tipo che ogni comunità trovava di solito nel proprio centro urbanistico, che ben merita la definizione di “via principale della nazione”. E per tre secoli ha sostenuto questa parte, anche se la marcia compiuta dai colonizzatori attraverso il continente si è svolta lungo un asse est-ovest, perpendicolare a questa regione della costa atlantica.

Negli ultimi tempi Megalopoli ha più che mai concentrato in se un gran numero di grandi funzioni, solitamente assolte da una “via principale”: e si ha l’impressione che non sia disposta ancora a ,rinunciarvi. Ne è prova, ad esempio, la presenza determinante del governo federale a Washington, una presenza che influenza molti aspetti della vita nazionale; e poi la concentrazione permanente di operazioni finanziarie ed amministrative a Manhattan; e poi il predominio esercitato da New York sul mercato nazionale dei mezzi di comunicazione di massa, che resiste ad ogni tentativo di concorrenza; e poi l’influenza preminente delle università e dei centri culturali sul pensiero e sulla politica americana. Megalopoli è anche la facciata principale del paese di fronte al resto del mondo. Da essa, come dalla via principale della città, la popolazione locale parte per viaggi lontani, e ad essa giungono gli stranieri in arrivo. Per gli immigranti essa ha sempre rappresentato un porto di sbarco. E proprio come i viaggiatori di passaggio spesso vedono di una città solo qualche edificio della sua via principale, cosi la maggior parte dei viaggiatori stranieri vedono solo una parte di Megalopoli durante il loro soggiorno negli Stati Uniti.

Proprio come la via principale vive per fornire di servizi l’intera città e si arricchisce per merito di essi, più che per delle sue risorse puramente locali, cosi Megalopoli è legata a tutti gli Stati Uniti e alle loro abbondanti e articolate risorse. Nel complesso Megalopoli non è stata eccessivamente favorita dalla natura. Non ha grandi estensioni di terreni ricchi (vi sono dei buoni terreni, ma quelli poveri sono in maggior numero), nessun particolare vantaggio climatico (il suo clima ciclonico è lontano dall’essere ideale) e nessun grande giacimento minerario (sebbene ve ne sia qualcuno). Sotto questo punto di vista non si può paragonarla alle generose vocazioni o capacità naturali del Middle West o del Texas o della California. Ma primeggia per i vantaggi che le derivano dalla sua ubicazione: porti profondi di una costa ove sono avvenuti fenomeni di ingressione marina, e lungo la quale furono presto fondate - nelle insenature - le sue città principali, e poi la sua posizione di anello di congiunzione tra il ricco cuore del continente e il resto del mondo. Con intensa, dura e continuata operosità l’uomo ha messo a frutto al massimo la maggior parte delle virtualità contenute in quella ubicazione: che sono in effetti le risorse più rimarchevoli di un patrimonio naturale altrimenti mediocre. Come risultato, ben presto Megalopoli divenne un centro dinamico di relazioni internazionali, ed ha mantenuto e costantemente accresciuto questo suo ruolo fino ad oggi. È ora il punto di incrocio più attivo della terra, per la gente, per le idee, per le merci, e la sua influenza si stende molto lontano dai confini della nazione, In realtà solo in quanto è stata valorizzata come punto di incrocio questa regione ha potuto raggiungere la sua attuale preminenza economica.

Megalopoli, laboratorio dello sviluppo umano.

La tecnologia moderna e la evoluzione sociale dei nostri tempi forniscono da una parte un crescente sviluppo di attività urbane, e dall’altra sistemi in continuo miglioramento per produrre quantità maggiori di prodotti agricoli con minor manodopera. Queste tendenze, integrandosi accomunandosi e reagendo con i fenomeni di accrescimento demografico, sono quindi destinate ad incanalare un flusso crescente di popolazione verso occupazioni e sistemi di vita di tipo urbano: A mano a mano che questa marea raggiunge un numero sempre più grande di città, queste ultime traboccheranno oltre i loro vecchi confini per espandersi e disseminarsi su tutto il paesaggio, assumendo nuovi aspetti, come quelli che si possono osservare in tutta Megalopoli. Questa regione serve cosi da laboratorio, nel quale possiamo studiare la nuova evoluzione che va rifoggiando sia il senso del nostro vocabolario, sia tutta la struttura materiale del nostro sistema di vita.

La società di domani sarà diversa da quella nella quale siamo cresciuti, soprattutto perché sarà maggiormente urbanizzata. Modi di vita non agricoli saranno seguiti da una quantità sempre più grande di gente, ed occuperanno più spazio che mai, e simili cambiamenti non potranno prodursi senza modificare profondamente anche la vita e la produzione agricola. Le conseguenze dell’evoluzione generale annunciata dall’attuale crescita e complessità di Megalopoli sono cosi grandi che un’analisi dei problemi di questa regione dà spesso la sensazione di essere spettatori del sorgere di una nuova fase della civiltà umana. L ‘autore ha visitato e studiato molte altre parti del mondo, ma non ha mai provato una simile sensazione in nessun altro luogo. Quest’area può davvero essere considerata la culla di un nuovo ordine dell’organizzazione dello spazio abitato. Questo nuovo ordine tuttavia è ancora lontano dall’essere disciplinato; qui, nella sua culla, ogni cosa è in perenne mutamento e conflitto, e questo non semplifica il lavoro di chi ne intraprende l’analisi. Nonostante ciò, uno studio su Megalopoli può gettar luce su processi che sono di grande importanza ed interesse per tutti.

Uno studio di rapporti complessi.

Man mano che procedeva il lavoro di raccolta dei dati e di analisi, diventava evidente che la possibilità di risolvere la maggior parte dei problemi che questo studio di Megalopoli faceva emergere stava nelle interrelazioni tra le forze e i processi operanti all’interno di quest’area piuttosto che nelle tendenze del suo sviluppo o nel miglioramento delle sue tecniche. Cosi la tendenza dell’incremento demografico, facile da misurare e forse da prevedere approssimativamente, aiuta meno a comprendere la natura di quest’area che non le interrelazioni esistenti tra i processi che provocano la crescita della popolazione locale, quelli che attirano un certo tipo di gente a Megalopoli, e quelli che forniscono a questa popolazione in aumento i mezzi per vivere e per lavorare. Molti di questi processi sono statisticamente misurabili e alcuni possono essere rappresentati su una carta geografica, ma il grado in cui ciascuno di essi deriva dagli altri o li determina è una questione molto più sottile, ed è più importante per la comprensione di come si è formata la regione di Megalopoli e di come la sua vita si svolge.

La maggior parte degli studi regionali restano sul terreno sicuro e superficiale delle descrizioni statistiche e delle classificazioni funzionali. Se il mio lavoro avesse seguito questo schema sarebbe stato principalmente dedicato ad una ricapitolazione degli abbondanti dati che si possono ottenere attraverso i censimenti e da altre fonti di informazioni generali sulle svariate caratteristiche di Megalopoli. Una descrizione delle condizioni naturali, come la topografia, il clima, l’idrografia e la vegetazione, avrebbe preceduto un breve profilo storico, per essere poi seguita da trattazioni sulla popolazione, sulle industrie, sul commercio, sui trasporti e le comunicazioni, sul mercato immobiliare, su altre attività e infine dalla descrizione delle città principali e delle caratteristiche generali delle aree “rurali”. Un lavoro del genere avrebbe messo capo alla illustrazione dei problemi attuali, e con l’aggiunta di qualche previsione per il futuro presentata per mezzo di grafici e basata sul presupposto che le tendenze degli ultimi venti-cinquant’anni si manterranno per i prossimi venti.

La pura compilazione di questo panorama potrebbe essere forse di qualche utilità a qualcuno, ma difficilmente ne trarrebbe giovamento chi chiedesse uno studio in profondità, una penetrazione e una comprensione esaurienti dei problemi fondamentali di quest’area. Cercando di scoprire i processi più profondi e il loro intrecciarsi, si può sperare di addivenire a un tipo di conoscenza più essenziale, ed anche di fondare una metodologia di ricerca che potrebbe essere usata - anche se ciò non pare agevole - per lo studio di altra area analoga o proiettata nel futuro con qualche validità. Questa è la ragione per cui il presente lavoro è organizzato secondo uno schema che in un certo senso non è più quello tradizionale ed antiquato dei geografi, essendo il suo fine una discussione più ragionata ed una analisi obiettiva. Fenomeni cosi complessi, come i processi sociali ed economi ci che si stanno svolgendo in Megalopoli, denunciano un intreccio amplissimo di cause e di componenti numerose: e l’autore si è sforzato di cercare nella integralità queste componenti e di esaminarle in ogni loro forma e interrelazione, con quanta maggior dose ha potuto di spirito critico. (estratto da Vol. I, pp. 3-13)

(...)

Novus ordo seclorum

Lo sviluppo di Megalopoli è un fenomeno estremamente complesso. Molti fattori hanno contribuito a realizzare il suo attuale grado di urbanizzazione e la spettacolare concentrazione di gente, di industrie e di ricchezza. La posizione geografica fu certamente un immenso vantaggio nelle prime fasi dello sviluppo della regione; e le istituzioni ereditate dal passato sostengono vantaggiosamente fino ad oggi la grande struttura moderna che negli ultimi anni ha dominato l’economia e la politica del nostro globo. Eppure non si può attribuire alla sola combinazione di forze materiali il fatto di aver determinato lo sviluppo di Megalopoli fino al suo attuale stato di superiorità. Lo spirito del popolo che si servi delle occasioni materiali che poteva sfruttare deve essere riconosciuto come l’elemento decisivo della storia della regione: questa è la lezione del passato e questo l’ammaestramento per il futuro.

L impeto prometeico.

Le prime città fondate sulla costa nord-orientale americana, dalla baia del Massachusetts al fiume Potomac, formarono un’audace frontiera, la cui popolazione si preoccupava di risolvere il problema delle sventure umane almeno nella stessa misura in cui tentava di sviluppare un continente e di controllare un oceano. Se si considerano le colonie del secolo diciassettesimo e dell’inizio del diciottesimo come costituenti un cardine sulla sponda del continente, questo cardine deve essere riconosciuto come “tridimensionale”: considereremo cioè come suo terzo componente le aspirazioni spirituali che animarono i vari esperimenti: il Massachusetts, Providence, e poi il Connecticut, tutti puritani, la quacchera Filadelfia, i mennoniti e gli amish a Lancaster in Pennsylvania, il Maryland cattolico (a parte gli altri). Ognuno di questi gruppi era guidato da una fede che ardeva viva e che sembrava in condizioni di realizzare le sue migliori imprese nella terra vergine del nuovo mondo.

Le origini di New York furono un poco diverse e sotto molti punti di vista più materiali. Ma New York divenne presto un centro molto tollerante, aperta a molte fedi, e un grande centro di cooperazione tra gente dalle origini più disparate. Tutti i grandi porti marittimi, situati sulla fascia della facciata del continente, erano rivali ma anche esercitarono influenza l’uno sull’altro. Erano tutti figli dell’età delle grandi scoperte geografiche, da cui ereditarono una disposizione prometeica presto stimolata dal fervore religioso e dalla concorrenza tra vicini.

Se si esamina la storia di Megalopoli si trova uno stretto legame tra lo spirito della frontiera e l’impeto dei grandi esperimenti religiosi. La teoria della frontiera nella storia americana esposta da Frederick Jackson Turner si fonde qui con la “missione nelle terre selvagge” di Perry Miller , per produrre uno sforzo continuo a migliorare il destino dell’uomo, attraverso lo sviluppo di risorse nuove e illimitate. L’ardore prometeico rifulge dopo l’indipendenza, come è dimostrato da scritti del genere della dichiarazione di Nicholas Collin, che occupano una posizione di primo piano nelle pubblicazioni dell’ American Philosophical Society.

Molti storici hanno sottolineato il fatto che i programmi redatti e le politiche seguite in questa regione sorsero di giorno in giorno come prodotti della pressione dei tempi, che offrivano possibilità, assieme ad ostacoli e difficoltà. La gente si levava per far fronte a queste sfide successive, facendo del suo meglio, senza grandiosi progetti o piani. Tuttavia vi sono molti modi per far fronte a una particolare sfida o per trarre vantaggio da una data occasione. Gl’Indiani precolombiani lo fecero in un certo modo, i colonizzatori del New England in un altro, mentre i piantatori della Virginia scelsero ancora un terzo sistema. La massa degl’individui che forma una comunità spesso è pienamente cosciente delle forze da cui viene sospinta, ma in genere è troppo occupata per passare il suo tempo a studiarle con cura e lascia perciò questo sforzo ad un’élite che ha più tempo a sua disposizione: e che viene designata d’abitudine col nome di intellettuale. Non c’è dubbio che il gruppo dominante nelle grandi città della costa nord-orientale ponesse attenzione ai fondamenti e ai motivi della originalità della potenza americana.

È significativo che le commissioni che discussero e scelsero il disegno allegorico del Gran Sigillo degli Stati Uniti, immediatamente dopo l’indipendenza, abbiano inciso su una delle facce del sigillo la frase latina Novus ordo seclorum, frase che appare su tutti i biglietti di banca, stampata sotto la piramide incompiuta la cui base porta la data 1776. I capi della nuova repubblica credevano che gli Stati Uniti e il loro modo di vivere dovessero essere e sarebbero stati un “nuovo ordine del tempo”, una grande svolta nella storia. Non c’era un modo più forte per rivendicare un simile ruolo di quello di incidere un motto del genere sul Gran sigillo della Federazione, e più tardi sulle banconote. Un’iscrizione non vale molto in pratica, a meno che non esprima un sentimento profondamente vivo nel cuore di molte persone, e un tale sentimento era caratteristico della classe dirigente delle città di Megalopoli dell’ultima parte del diciottesimo secolo. Una dose notevole di questo stesso spirito è ancora viva nella mente degli Americani e ne ispira ancora le azioni. La vecchia politica del navigatore di Boston, di “tentare tutti i porti”, e la formula più recente dei grandi pianificatori di “non fare progetti ridotti” rappresentano una tradizione di Megalopoli, piena di vigore e di determinazione, basata su un’esigenza di sperimentazione coraggiosa e su una chiara fiducia nel successo finale dello sforzo umano.

Dietro allo sviluppo di questa regione sta un’era di grandi scoperte e di fervidi dibattiti religiosi: essa ha raggiunto la sua supremazia attuale in un tempo in cui il genere umano, soddisfacendo un antico sogno, ha aperto ancora una volta i cancelli della scoperta e dell’esplorazione: questa volta in mondi ancora nuovi come sono gli altri pianeti. Oggi ci viene ricordato costantemente che le idee precedono e foggiano l’aspetto di “fatti” nuovi. Un antico filosofo di Alessandria, il giudeo Filone, c’insegnò che esiste una grande città di idee che predetermina e dirige il mondo materiale in cui viviamo, e questa grande città delle idee fu chiamata da Filone Megalopoli. Perciò sembra particolarmente conveniente applicare lo stesso nome a questa straordinaria regione, il cui aspetto e il cui stile attuale nacquero dalla fede e dai tentativi di coloro che vi si stanziarono per portare un nuovo ordine ai loro fratelli sulla terra.

Risorse senza limiti: una filosofia dell’abbondanza.

Che genere di nuovo ordine era questo? Ogni gruppo certamente se lo raffigurava a modo suo, ma doveva essere un “ordine migliore”, un ordine di abbondanza e di giustizia, nel quale le genti sarebbero state felici, nel quale la ricchezza avrebbe regnato e sarebbe stata equamente distribuita. Nel loro fervore religioso le varie comunità erano perfettamente consapevoli della necessità di un successo materiale che dimostrasse la loro verità a tutto il mondo. L’approvazione divina alla loro condotta si sarebbe manifestata in una prosperità generale. Per raggiungere questa prosperità erano tutti preparati a lavorare duramente, risparmiando fatica quando fosse possibile, perché gli uomini erano pochi e il continente immenso, perché anche il compito era enorme, e tutti i sistemi per accrescere il benessere della comunità e la sua capacità di produzione sarebbero si credeva piaciuti a Dio.

A queste idee iniziali la natura dei tempi aveva dato una grande spinta. La costa nord-orientale fu colonizzata allorché l’era delle grandi scoperte ampliò gli orizzonti in tutte le direzioni, e fece esplodere una vasta espansione commerciale. I primi stanziamenti del diciassettesimo e diciottesimo secolo si svilupparono di fronte alle spiagge orientali dell’Europa, in un’epoca in cui gli abitanti di quest’ultima stavano aprendo in varie direzioni nuove strade del progresso scientifico e tecnico e davano vita all’illuminismo. Le città di Megalopoli iniziarono a svilupparsi con la rivoluzione industriale e con un grande sconvolgimento delle migrazioni e dei consumi di massa.

Megalopoli assorbi avidamente ogni novità di qualunque tipo. Lo sviluppo commerciale, l’industrializzazione, la meccanizzazione, la motorizzazione, e l’automazione, tutto fu messo in opera su larga scala. Il “nuovo ordine” che doveva svilupparsi - precisamente perché fondato sui risultati della rivoluzione industriale - poteva essere soltanto un ordine urbano. La vecchia economia rurale, che predominava nei vecchi paesi e da cui provenivano la maggior parte dei colonizzatori o gli ultimi emigranti, era inadatta a sostenere il genere di vita che la costa nord-orientale aveva incominciato ad assicurare.

Non si possono trovare risorse illimitate in qualsiasi area agricola, e fu l’economia urbana, inizialmente basata su un commercio attivo, a sviluppare in misura quasi illimitata la ricchezza della popolazione. Il continente era colonizzato e sviluppato; ma Megalopoli non poteva solamente servire da base principale per il suo impulso economico. Assetati di maggiori forniture e di maggiori mercati, i commercianti di Megalopoli organizzarono una produzione sempre più grande in patria e fuori. E allorché gli utili di questa attività furono raccolti, essi furono immessi sul mercato e spesso trasformati in necessità, attraverso processi a cui spesso abbiamo fatto riferimento in questo volume. La ridistribuzione degli utili è sempre stata la funzione del mercato e delle economie urbane.

Dall’accumulo di ricchezza e di mezzi di produzione conseguiva un certo sperpero. Il consumo di massa ebbe una grande spinta in avanti dall’organizzazione della pubblicità e del credito su larga scala, dall’obsolescenza incorporata, e da tutto il funzionamento del mercato dei mezzi di diffusione che resta concentrato nei principali centri di Megalopoli. E necessario comprendere che una simile filosofia dell’abbondanza, poteva portare solamente ad uno sviluppo urbano e a una espansione su larga scala. Ma portò anche a una specializzazione costante - e in rapida metamorfosi - di una grande parte della forza lavoro di Megalopoli, verso quelle occupazioni, cioè quei settori dell’attività economica, che pagavano meglio o che stavano allargando la loro richiesta di manodopera. Da un’economia che si basava sull’equilibrio agricoltura-commercio, Megalopoli passò ben presto a dare maggiore importanza a una combinazione d’industria più commercio. Nel ventesimo secolo le industrie terziarie avevano invaso la regione e la maggior parte della forza lavoro era passata alle occupazioni dei white collars. Nel 1960 i maggiori centri erano specializzati in quelle che possono essere dette le forme quaternarie dell’attività economica: le funzioni direttive e artistiche, il governo, l’istruzione, la ricerca e la mediazione di tutti i tipi di merci, servizi e titoli.

Simili attività sono sempre state concentrate nei quartieri degli affari, nelle downtown, nelle piazze di mercato che caratterizzano il centro urbano, nella City. Per un secolo almeno e forse di più, Megalopoli è stata in prima linea per il progresso e la raffinatezza dell’economia urbana. La sua fortunata espansione fa pensare che la sua dinamica abbia aderito esattamente ai principi base di ogni sviluppo urbano.

Vi è nella meccanica di ogni città l’esigenza della produzione di surplus, di una grande mobilità negli equilibri fra necessità e risorse, come pure una fluidità sufficiente nella natura stessa delle risorse che procurano un reddito. L’abbondanza di merci e di denaro è pure un’antica specialità della città. Il confluire di molte correnti di forniture e di traffico è necessario per ottenere una tale abbondanza, che non sarà limitata solo a poche merci prodotte localmente. Tuttavia, le città non hanno sempre raggiunto una equa distribuzione delle loro abbondanti forniture. Gli Stati Uniti possono ritenere di essere la prima grande nazione che ha raggiunto un alto grado di ricchezza generale abbastanza ben distribuita tra la popolazione e non vi è dubbio che questa ricchezza la si dovette non tanto alla estensione e alla fecondità della terra quanto al dinamismo dell’economia urbana sviluppata a Megalopoli e fondata sulla amministrazione della ridistribuzione.

Il grande impeto tecnologico del periodo nel quale Megalopoli si sviluppò fu un fattore importante, e le ricchezze naturali del continente americano furono solo strumentali. Eppure, molte nazioni nello stesso arco di anni vissero la loro storia senza avere uno sviluppo economico simile a questo, anche se talvolta avevano doni naturali altrettanto ricchi di quelli degli Stati Uniti. In effetti sono stati appena scoperti e studiati in parecchi continenti, vasti giacimenti petroliferi, immensi giacimenti minerari e vaste distese di terreno fertile. Ma la ricerca e lo sviluppo di tutte le risorse possibili nei paesi che erano nell’orbita di Megalopoli (e che in parte coincisero durante gli ultimi 150 anni con l’orbita di Londra) non fu compiuta dal resto del mondo. Se ci dovessimo chiedere “perché” e tentare una risposta, dovremmo certamente metterla in relazione non tanto col desiderio di raggiungere una produzione più ampia quanto con la sicurezza di espandere il consumo (persino in un modo rovinoso, se necessario) come fattore costruttivo dello sviluppo economico. Tra uno o due secoli lo storico dell’economia che studiasse un resoconto dettagliato del passato, potrebbe concludere che la ricchezza naturale degli Stati Uniti, specialmente ad est delle Montagne Rocciose, non era nulla di eccezionale; potrebbe persino apparire, allora, al di sotto della media. Ma l’abbondanza di risorse con la quale la sua gente l’ha messa a profitto sotto la guida dei centri megalopolitani, potrà anche allora apparire eccezionale.

Che cosa riserverà il futuro, è un problema a cui si deve rispondere in altra sede. Possiamo tuttavia domandarci quanto sia valido l’insegnamento che Megalopoli, con il suo passato e con il suo presente, offre alla sua popolazione e alla popolazione di altre terre.

Il nuovo ordine: come esportarlo?

Sarebbe certamente piaciuto immensamente ai padri fondatori delle città di Megalopoli scoprire che il modo di vivere e l’organizzazione economica che si sono sviluppati qui servono ora da modello ad alcune altre parti del mondo che stanno vivendo lo stesso processo di urbanizzazione.

Le tendenze attuali non sono tuttavia cosi semplici. Il processo di sviluppo urbano alla nostra epoca è un fenomeno di portata mondiale ed è fonte di preoccupazione per molti governi e comunità. In ogni regione questo sviluppo si manifesta secondo linee specifiche, la maggior parte delle quali differiscono da luogo a luogo; ogni comunità ha una sua propria varietà di problemi abituali, e il suo modo e i suoi mezzi per affrontarli. Queste caratteristiche locali e singolari devono essere rispettate. Ma conoscere i problemi più o meno simili di altri luoghi, e il modo in cui essi sono stati affrontati, è di grande aiuto; e ciò che s’impara in questo modo può servire a risolvere i problemi di un’area qualsiasi nel modo che le è più congeniale.

Naturalmente i paesi che si trovano a fronteggiare i problemi dell’urbanizzazione moderna per prima cosa guardano ai precedenti e agli esperimenti tentati nelle aree che hanno assunto una posizione di guida. Ai tempi nostri Megalopoli viene quindi studiata ed esaminata perché molti dei suoi vari problemi si ripetono e si ripeteranno, con alcune varianti e su scale diverse, nella maggior parte degli altri paesi. Che l’azione da lei intrapresa riguardo ad un qualsiasi problema umano o suburbano dia garanzia o meno di successo, Megalopoli sa che essa verrà anche esaminata da molti a lei estranei, alcuni dei quali la copieranno solo per il prestigio di cui la regione gode al momento attuale, mentre altri ne potranno ottenere suggerimenti per apportare delle migliorie alle tecniche ivi applicate. Qualunque cosa si faccia, qualunque sia il suo valore reale, per le persone interessate, l’esempio di Megalopoli sarà seguito più spesso di quanto si creda. Gli osservatori che viaggiano oggi per il mondo riferiscono di molti esempi, osservati in aree completamente diverse, della evidente influenza esercitata dai metodi americani di trattare i problemi urbani; e poiché Megalopoli resta il più imponente e il più vasto sistema urbano, poiché è la facciata principale degli Stati Uniti verso il mondo esterno, sono soprattutto gli esempi di Megalopoli quelli che caratterizzano tante città e tanti paesi di tutto il globo.

Chi scrive ha ultimamente viaggiato a lungo attraverso il Nord America, l’Europa occidentale e alcuni paesi mediterranei. Dappertutto ha trovato città in espansione. Le aree metropolitane più vaste attirano la parte più grande della massa della popolazione. Le città si estendono l’una verso l’altra. La struttura nebulare delle regioni urbanizzate sta diventando frequente e suggerisce una nuova ridistribuzione delle funzioni all’interno di queste regioni. L’utilizzazione del suolo a scopo residenziale sta guadagnando terreno in tutte le direzioni attorno ai più vecchi nuclei sovrappopolati. I nuclei più densamente popolati non si specializzano più nell’industria e nell’amministrazione come facevano un tempo. Le industrie produttive spesso si spostano verso la periferia della città e oltre. in zone che fino a poco tempo fa erano considerate rurali o interurbane. Le funzioni che continuano a raggrupparsi in quelli che possono essere chiamati i distretti centrali o centri della “nebula " urbana sono gli uffici, i laboratori, e tutte le attività legate alle varie forme di divertimento. Come ai tempi dell’antica Roma, l’arena e il foro nella loro versione moderna, occupano una parte sempre più grande del centro. I divertimenti e gli uffici sono legati gli uni agli altri, e prosperano per questa vicinanza. Essi creano un vasto mercato per il lavoro dei white collars. Tutte queste tendenze ebbero inizio molto presto e si sono già sviluppate su larga scala a Megalopoli. Le forze che producono questa evoluzione sono radicate in una profonda trasformazione dei moderni modi di vita e di habitat.

Queste tendenze danno una grande responsabilità agli attuali abitanti e alla classe dirigente di Megalopoli. Sotto molti punti di vista essi possono essere giustamente orgogliosi di servire da modello. Tuttavia devono ricordarsi delle conseguenze a lunga distanza di queste tendenze. Gli uomini imitano quelli che sono più ricchi, più potenti e che hanno avuto maggior successo di vita nella speranza di raggiungere, attraverso una tale imitazione, uno stato migliore o per lo meno uguale. Il Mahatma Gandhi raccontò che nella sua giovinezza egli tentò di mangiare la carne di bue, nonostante la sua profonda ripugnanza, nella speranza di poter diventare intellettualmente e politicamente uguale agli Inglesi, mangiatori di carne di bue, che allora dominavano l’India. Egli comprese presto che non era quello il modo di risolvere il suo problema. Può darsi che Megalopoli provi una certa ansietà al pensiero che una imitazione istintiva e irragionevole dello stesso genere possa svilupparsi e si svilupperà; ma nel campo dei problemi urbani e metropolitani non si possono impedire tali indesiderabili imitazioni. Ciò nonostante sussiste una certa responsabilità nel fatto di essere in prima linea, perché la condotta di colui che segue è influenzata dal capo.

La prima responsabilità degli abitanti di Megalopoli è, tuttavia, verso loro stessi. Se essi sono soddisfatti di avere fatto tutto quello che era in loro facoltà di fare, e nel modo migliore, per governare la loro regione e risolvere i loro problemi, allora essi possono affrontare coraggiosamente il giudizio del resto del mondo, oggi e domani. Se essi rimangono fedeli alle loro tradizioni, se essi, comunità e individui, continuano con lo stesso entusiasmo egli stessi sforzi del passato, a lottare per costruire nel deserto di questo complicato, duro e mutevole mondo una città migliore, allora si potrà guardare con ottimismo al futuro di Megalopoli. Tuttavia questa fiducia esige dubbi continui, esami di coscienza e autocritica da parte di tutti. Se dovessero instaurarsi autocompiacimento e rassegnazione, il grande esperimento di Megalopoli sarebbe compromesso e l’equilibrio del nostro mondo ne verrebbe alterato. (estratto da Vol II, pp. 943-952)

DENTRO LA MEGALOPOLI

Scendiamo a terra dallo spazio per vedere come è dal di dentro la megalopoli, per capire come funziona. Anzitutto la disomogeneità è solo un aspetto della diversità. La quale si ritrova anche nei suoi riflessi visivi, cioè nel paesaggio, con varie manifestazioni. Una delle più evidenti è quella che induce ad una discriminazione tra il tessuto delle permanenze, assai variegato, ed il tessuto formato dagli sviluppi più recenti, cioè della seconda metà del Novecento.

La descrizione delle preesistenze può essere sintetizzata da una bella pagina dedicata alla terra lombarda di Carlo Emilio Gadda:

La pianura lavorata persiste, nelle parvenze della natura e dell’opere, ad essere madre cara e necessaria, la base di nostra vita. Dai secoli, ormai remoti al pensiero, quando i Cistercensi di Chiaravalle sotto al Bagnòlo di Rovegnano ebbero ad intraprendere le prime livellazioni del terreno, i primi escavi dei canali adacquatori che captavano le polle di risorgiva della cosiddetta “zona del fontanili” per distribuirne la portata nei prativi ad irriguo, ad aumentarne il numero e la copia delle fienature: su su fino alle opere maggiori del comune e della munificenza viscontea, e ai consorzi e comprensorii irrigui delle età più vicine e addirittura della nostra; quale assiduità paziente, che amorosa tenacia! La derivazione del Naviglio Grande dal Ticino, il Naviglio di Pavia: poi la Martesana, il Villoresi. Il tipo della nostra terra è schiettamente rappresentato in queste vedute colte dall’aereo: della terra esse dicono la bontà verso gli uomini, la forma silente. Le opere allineate per il pane.



Una caratteristica fondamentale della megalopoli padana è quindi la sua immagine fortemente legata ancora al suo passato rurale. Di fatto, quando si parla di megalopoli si pensa subito a qualcosa di avveniristico, a paesaggi urbani di grattacieli, autostrade a più corsie, palazzi di vetrocemento, col cielo rombante di aerei ed elicotteri, cioè agli aspetti propri della modernità più avanzata, a forme urbane nuove, spregiudicate. Il pensiero va alle megalopoli americane. Niente di tutto questo nella megalopoli padana, ancora segnata dagli elementi del passato rurale, che si direbbero incancellabili, con i campanili e le torri medievali che dominano i centri urbani, le belle cattedrali di mattoni, antichi e pregevoli monumenti, che hanno fatto la storia dell’arte, case basse di periferia, con gli orti all’ombra di vecchi alberi, magari il gelso secolare sopravvissuto, vicoli e stradine che si inoltrano nei campi.

Le permanenze del passato sono rappresentate in primo luogo dai centri urbani storici, i nuclei di edifici che sorgono intorno alle piazze e alle antiche cattedrali, con i nobili palazzi della borghesia che spesso ha fatto la storia delle antiche città. Le quali, rispetto all’alluvione edilizia che ha portato alla formazione della megalopoli, appaiono come isole, nuclei fondativi di un arcipelago che ha disseminato intorno a se elementi minori ma importanti e rintracciabili nelle campagne più vicine alle città, dove sorgono, umiliate magari da nuove edificazioni, vecchie residenze della borghesia cittadina, tracce di giardini, di parchi, con le corti ora abbandonate del mondo contadino del passato: immagini spesso desolanti, monumenti alla caducità del tempo e dei successi sociali, alla mutabilità dei giochi economici.

Superata questa cintura intorno alle città, isole del passato, l’alluvione ha sommerso paesaggi agrari da cui affiorano vecchie case e corti contadine, qualche residuo lembo di campagna, alberate che fiancheggiavano un tempo strade e viali, le chiese e i campanili dei paesi, emergenze antropiche nei paesaggi padani avvolti dalle nebbie invernali. Tutto questo in generale: richiami ad un passato sommerso dai capannoni industriali, dalle nuove edificazioni, nuove case, condomini, residences ecc., per cui anche se lo spazio non è edificato dappertutto, esso ormai dappertutto ha perso le valenze, le qualità che per le vecchie generazioni avevano gli spazi esterni ai centri abitati, divisi e diversificati per storia, paesaggi, condizioni ambientali, organizzazione produttiva ecc. Differenze che l’alluvionamento economico ed insediativo ha eliminato, lasciando solo dei lacerti.

La profondità storica degli elementi sopravvissuti all’alluvione è però ancora richiamata, all’occhio dell’osservatore attento, da particolari che un tempo segnalavano in maniera. omogenea la varietà delle situazioni territoriali, per cui passando, ad esempio, dal Piemonte all’Emilia e al Veneto si vedeva cambiare il volto della terra e rivelarsi luci, colori, linguaggi diversi.

Ad esempio, semplicemente passando dalla Lombardia all’Emilia, cioè scavalcando il Po, subito si coglievano e ancora in parte si colgono, sotto l’ondata di piena dei capannoni industriali e dei quartieri d’abitazione nuovi fatti di banali architetture, differenze riconducibili a tradizioni diverse e a particolari umori della terra, talora quasi inavvertibili eppure significative: ad esempio, il diverso colore dei laterizi di cui sono fatte le case, le torri, i castelli, i coppi dei tetti. Scuro, ferrigno il rosso dei laterizi della Lombardia, chiaro, rosa pallido che sfuma nel giallo la tinta dei laterizi dell’Emilia. Diversità che dipende dalle argille con cui sono fatti i laterizi, a loro volta dipendenti dai diversi apporti alluvionali delle Alpi e degli Appennini. Una differenza che rimanda a quei rapporti diretti fra attività umane e ambiente naturale che gli sviluppi recenti hanno obliterato, anche se non del tutto. Ma poi, superato il Po, ecco ancora la diversità delle architetture, delle case coloniche, delle campagne con gli usi diversi degli alberi, le diverse alberate, la maggior tendenza a creare scenografie sul lato dell’Emilia piuttosto che su quello lombardo, il fascino diverso delle strade cittadine porticate, delle piazze e degli antichi monumenti, insomma di tutti quegli elementi che oggi ci appaiono come relitti del passato, in qualche caso assunti e riconvertiti dalla modernità megalopolitana, in qualche altro emarginati o eccezionalmente mantenuti come sacre testimonianze, nei contesti urbani o rurali della megalopoli.

Ma poi, oltre questi elementi ricordati che rimandano al passato, emergenze non ancora sommerse dall’alluvione edificatoria più recente, quella che ha conferito una struttura megalopolitana allo spazio padano, che cosa si ritrova nel paesaggio? Per rispondere, percorriamo qualcuna delle strade su cui si impernia la struttura urbana della megalopoli: prendiamo ad esempio il percorso da Treviso a Vicenza, da Vicenza a Verona, da Verona a Brescia e a Milano, percorrendo non le autostrade, ma le storiche strade nazionali che seguono le più antiche direttrici di collegamento tra una città e l’altra, le quali sono state brutalmente utilizzate come direttrici di espansione urbana, non come “corridoi urbani”, “vie di città” capaci di attrarre vita urbana e dispensarla intorno a se, tenendo lontane le infrastrutture più oppressive e funzionali (autostrade, industrie ecc.). Il richiamo, in proposito, può andare alla ciudad lineal di Soria y Mata, o alla “città continua” di C.A. Doxiadis, ma con una funzione più di asse urbano che di via di traffico.

Oggi invece si presentano come arterie malate del corpo megalopolitano. Esse anzitutto sono sempre intasate di automezzi, invischiate dai traffici locali oltre che da quelli di raggio maggiore: ciò, perché tutto si concentra intorno a queste arterie, attività industriali, aree residenziali, servizi ecc. Ed ecco a riprova di ciò quartieri di villini, sempre di architettura banale, residences condominiali, capannoni industriali, negozi per l’automobilista (gommisti, meccanici, carrozzieri, elettrauti), supermercati e ipermercati, edifici in vetro cemento di una modernità dozzinale dove si esibiscono i prodotti delle industrie locali, dai mobilifici ai piastrellifici e ai calzaturifici, dai magazzini dove si esibiscono prodotti dell’industria nazionale (dagli elettrodomestici alle motociclette ecc.) ai grandi negozi di abbigliamento, dagli autosaloni alle industrie dolciarie, e così via. Ma i modelli di urbanizzazione sono diversi, soprattutto passando dal Veneto alla Lombardia dove si trova, a nord di Milano ad esempio, il complesso residenziale concepito come blocco abitativo (copie di Milano Due) ai margini dei nuclei storici ancora centrati sulla chiesa parrocchiale e la vecchia piazza, il quartiere di villette tipo città-giardino, oltre ai vecchi assembramenti di condomini che rimandano agli anni sessanta e settanta. I rapporti delle aree residenziali con le piazze, i supermercati, gli impianti sportivi, la stazione ferroviaria o la linea del trasporto urbano sono vari.

Le tipologie urbanistiche che formano il tessuto insediativo della città diffusa nell’alta pianura lombarda sono state studiate nella ricerca sugli sviluppi urbani recenti dell’area metropolitana milanese da S. Boeri, A. Lanzani e E. Marini, che ne hanno riconosciute diverse e tutte in generale con una loro logica che sintetizza persistenze tradizionali e nuove esigenze. A parte stanno le realizzazioni che recuperano le aree industriali dismesse, come nel territorio di Sesto San Giovanni, che sta diventando uno dei centri più nuovi dell’area metropolitana milanese, con i suoi slarghi, le sue architetture avveniristiche, il suo paesaggio che ha in larga parte cancellato le tracce della grigia e rugginosa città-fabbrica del passato. Da Company Town a New Town che guarda al futuro, anche se tutt’intorno alle nuove realtà succedono uno dopo l’altro i capannoni delle più diverse industrie.

Anche se si decide di lasciare le intasate vie nazionali per imboccare, sulle stesse direttrici, l’autostrada, si resterà affranti dall’impossibilità di vedere il paesaggio, perché i capannoni industriali si moltiplicano lungo le maggiori arterie autostradali, come accade in una misura che ha qualcosa di ributtante e angoscioso, tra Brescia e Milano, dove i varchi in cui lo sguardo può infilarsi per rimirare l’incredibile Bergamo alta e i profili dei non lontani massicci prealpini (le Grigne, il Resegone, la Presolana ecc.) che avevano affascinato Leonardo da Vinci, sono rari e brevissimi, come ha mostrato uno studio della Regione Lombardia, peraltro colpevole per non aver provveduto ad impedire un simile disastro paesistico. Certo, in tutto questo c’è una logica, ma è di puro interesse economico e se questa è l’immagine che la Lombardia ambisce dare di se, industriale, vitalistica, laboriosa e cementificata, si può anche lasciarle questo primato; ma i conti presto o tardi dovrà farli con altre istanze che finiscono sempre per esplodere nel giro di pochi decenni, tanta è la rapidità dei processi oggi.

D’altra parte l’automobilista in viaggio su quelle stesse autostrade non avrebbe certo il modo di guardarsi intorno, perché il traffico che le percorre non consente disattenzione tra sfilate di autocarri Tir che riempiono le due corsie, il correre indisciplinato degli automobilisti dalle macchine potenti o dalle macchine troppo lente, come se andare sull’autostrada fosse una corsa alla morte, una gimkana infernale, incredibile, eppure manifestazione stessa della vitalità della megalopoli, corpo sanguigno che ha bisogno, oggi, di queste vene portanti che, data la diversa funzione delle autostrade e delle ferrovie, collegano una città all’altra, un assembramento di capannoni alla città, una città alla cittadina, questa ai più piccoli paesi e alle case sparse, la rete delle strade interconnessa alle grandi direttrici del corpo megalopolitano.

Intanto su questo fremente vivere della megalopoli, che non ha momenti di sosta, che non ha respiro, che non allenta a nessun’ora il traffico di autocarri, di autovetture, questo fiume ininterrotto di fragori, vi è poi lo sfondo, quando è percepibile, della campagna e delle montagne lontane. L’eternità da una parte, l’accadimento dall’altra, la vita con i suoi mille effimeri episodi, avvenimenti. E allora si pensa che andando verso questi paesaggi appartati si possa trovare la quiete perduta. Ma è un’illusione, anche tra le campagne e nelle vallate si ritrovano i capannoni e il traffico lungo le strade che congiungono le direttrici pedemontane ai paesi e ai quartieri residenziali proliferati dappertutto. La tranquillità e il silenzio (un certo silenzio) si possono trovare soltanto nei giardinetti delle case isolate, le ville della ricca o media borghesia che hanno realizzato il sogno di vivere in campagna, nei paesi lontani dagli inferni urbani ma attrezzati come le città, con gli ipermercati, la piscina comunale, la palestra, i campi sportivi, il giardino pubblico per i quattro passi pomeridiani, i giochi dei bambini.

Ma questa è la città diffusa che ha dilatato lo spazio urbano, ha riempito la pianura di edificazioni, con sprechi enormi di spazio, di verde, di silenzi. E che comporta il moltiplicarsi del traffico con la reticolarità degli insediamenti, la loro diffusione particolare che distanzia l’abitare dal lavorare, lo spazio pubblico dallo spazio privato. E crea veri e propri labirinti data la complessità delle reti stradali, delle loro confluenze molteplici prima di arrivare alla centralità che interessa. Spesso vengono meno i riferimenti per muoversi nel labirinto: un tempo essi potevano essere rappresentati dai campanili dei paesi, ora invisibili dentro le quinte dei capannoni. I quali sorgono in aree industriali che si raggiungono lungo viali asfaltati che, per la loro stessa dimensione, si pensa che portino in un paese o in un centro urbano; si resta delusi poi quando si vede che il viale costituisce l’accesso all’area industriale; oltre la quale non c’è ancora il paese ma un’altra area industriale oppure un’area residenziale sorta tra i campi, assurda geografia della campagna urbanizzata, in realtà del territorio massacrato, dilacerato, che suscita scoramenti, delusioni in chi un tempo trovava nella campagna una sorpresa dopo l’altra, piccoli ma significativi episodi, come un’alberata, un fossato, una chiesuola o un’edicola votiva, riferimenti che diventavano elementi inscindibili di una geografia sentimentale. La domenica e nei giorni festivi questo paesaggio dei capannoni intristisce nella solitudine, nell’abbandono, nel silenzio metafisico, irreale, come fossse l’immagine di un mondo vivo sino al giorno prima ed ora abbandonato dagli uomini fuggiti via per paura o per non vivere nell’angoscia che quei luoghi di lavoro suscitano appena si smette di lavorare.

Spesso a sostituire il riferimento territoriale in passato costituito dal paese c’è oggi il supermercato o la città mercato, coagulo di vita nuova, non più all’ombra delle vecchie chiese, dei vecchi palazzi signorili, del vecchiume che, si dice, non serve più alle nuove generazioni. Ma gli urbanisti spesso guardano poco dentro l’animo della gente, ai suoi vuoti, ai suoi smarrimenti, che sicuramente non si possono escludere in una fase di trasformazione come quella a cui stiamo assistendo. n riferimento storico,’ d’ altra parte, il sentimento del vivere in un humus lievitato attraverso il tempo costituirà sempre un’esigenza profonda dell’uomo, al di là di tutte le possibili libertà di scelta ubicative e residenziali che la città diffusa consente e che, secondo alcuni urbanisti, rappresenta la sua qualità migliore (P. Rigamonti).

Così intanto appare la megalopoli dal di dentro, risultato spontaneo, non ordinato secondo un disegno funzionale, un uso più efficiente dello spazio che la natura ha fornito alla Padania tra le Alpi e gli Appennini. Eppure, nonostante gli errori e gli orrori, la mancanza di stile, gli aspetti confusi di una società industriale che non ha saputo funzionalizzare per il meglio lo spazio in cui abita, la megalopoli funziona, vive, produce. Funziona perché nonostante le inefficienze del sistema stradale, autostradale e ferroviario la circolazione arteriosa non si ferma, ma soprattutto perché gli abitanti della megalopoli si sono adattati alle disfunzioni, alle brutture, alla mancanza di grazia e di ordine della megalopoli, alla morte sulle autostrade, ai sacrifici, alle angosce e ai vuoti imposti dalla città diffusa. Con pazienza o perché quello che ricevono dalla megalopoli è più di quanto potrebbero ricevere tornando indietro ad una vita diversa, al lavoro nei campi o nella fabbrica esigentissima, condizione che le vecchie generazioni ricordano ancora, data la rapidità con cui si è affermata la condizione megalopolitana. Le certezze di oggi sembrano più solide di quelle di ieri e questo fa loro accettare i disagi di una vita che non ha più niente di rurale anche se non ha ancora realizzato l’urbanità a cui forse aspirerebbero.

L’ARTICOLAZIONE MEGALOPOLITANA

La megalopoli non è nata per caso o semplicemente per un moto disordinato e illogico; esso al contrario ha obbedito a precisi interessi, il cui difetto più vistoso era quello di avere un significato puramente locale e immediato. Ciò vuol dire che sono stati trascurati altri e non meno importanti interessi, ritenuti secondari e rimandabili rispetto ai primi, più urgenti.

La prima logica che ha dato forma alla megalopoli è stata quella di soddisfare le richieste di avere lavoro e residenza. Esigenza a cui è stata data una risposta bruta, immediata, che va considerata come il primo fattore che ha fatto quantitativamente crescere l’urbanesimo padano. In un secondo tempo però vi è stata, da parte dei nuovi cittadini, la richiesta di servizi urbani, di un livello di vita via via più elevato con lo stabilizzarsi della situazione e il comporsi della condizione urbana. Passaggi successivi segnati da storie diverse, da ribellioni o adattamenti che in diverso modo ogni abitante padano delle generazioni oggi anziane ha vissuto.

Vi sono state sofferenze, situazioni penose, lunghi calvari da parte dei cittadini (specie nelle città più cresciute, nelle loro periferie) sulla via che doveva portare ad un tipo di vita urbana migliore, la quale aveva i suoi modelli irraggiungibili nei cuori aristocratici delle belle città padane, riservati a pochi o fruibili solo occasionalmente o illusoriamente, dato che stare nella periferia di Bologna o di Milano non voleva dire stare in belle e ricche città come erano, nell’immaginario provinciale, Bologna e Milano. L’espansione progressiva e inarrestabile dell’urbanesimo intorno ai cuori storici non ha potuto evitare che il cittadino di periferia fosse costretto a diuturni spostamenti per lavorare e vivere nella città. Ed ecco la condizione che la nuova vita urbana ha imposto e che gli sviluppi megalopolitani non sono riusciti a risolvere sino ad ora, come dimostra il gigantesco traffico che intasa le sue strade, il pendolarismo quotidiano che scarica sulle tangenziali milanesi, come sulle circonvallazioni di tutte più o meno le maggiori città, file ininterrotte di autovetture, come migliaia di pendolari alle stazioni ferroviarie.

La dipendenza spaziale non è stata risolta dall’organizzazione attuale della megalopoli, anche se forse non potrà mai essere risolta sinchè non si avrà la moltiplicazione delle centralità autonome secondarie, allentando il peso gravitazionale sulle grandi centralità che per prime hanno dato origine alla megalopoli. D’altra parte l’eccessiva frammentazione delle centralità toglierebbe ad esse la forza propulsiva e generatrice di nuova cultura e di nuova vita economica che può essere sola delle grandi polarità urbane. E anche questa un’ impasse che pesa sugli sviluppi della megalopoli padana.

Queste osservazioni pongono una domanda importante, se cioè la megalopoli, nella sua essenza di grande e unitaria costruzione urbana, debba essere considerata come manifestazione di un momento, di una fase transitoria dell’urbanesimo o come una sua tendenza irrinunciabile e irreversibile. Si può rispondere osservando che la megalopoli nei suoi attuali sviluppi è forse principalmente una risposta al bisogno di moltiplicazione delle polarità urbane, alla distribuzione dei servizi urbani più avanzati in più centri che possano integrarsi tra loro funzionalmente grazie alla contiguità spaziale, consentendo in tal modo risparmi di tempo e di spazio. In rapporto a questi assetti tendenziali ecco non solo il moltiplicarsi delle funzioni urbane in più città (anche in tal senso R. Guiducci parlava di “pluricittà”) ma anche la popolazione distribuirsi intorno alle centralità più attrattive, formando come degli aloni, destinati a loro volta a produrre alloro interno nuove centralità che, pur di grado inferiore, riducano il peso gravitazionale, centripeto, verso poche centralità. I miracoli della comunicazione, così come si prospetta per il prossimo futuro, consentiranno forse nuove ristrutturazioni della megalopoli.

Sulla base dell’attuale polinuclearità urbana intanto la megalopoli padana si struttura su pochi centri che assolvono a funzioni diverse nei confronti di spazi limitati, anche se gerarchicamente si riconosce un ruolo prioritario a Milano e a poche altre città. Essa quindi non è un tutto continuo ma risente delle preesistenti centralità urbane, la cui evoluzione oggi tende non ad eguagliarle ma a mantenerle differenziate. Da ciò il suo sezionamento, la sua articolazione geografica in base alla quale si riconoscono settori megalopolitani diversi, ognuno facente capo ad una delle città che si snodano linearmente lungo,le grandi direttrici pedemontane.

Il sezionamento megalopolitano comporta differenziazioni che trovano nella città locale la loro espressione, nel senso che città come Modena o Verona o Asti svolgono il ruolo richiesto dalle specificità dei rispettivi territori. Così a Modena, a Verona o a Asti si trovano cose e servizi diversi, che non hanno nulla in comune; ciò che richiedono allo stesso modo però dovranno cercarlo in una città di rango superiore, come Milano, dove di fatto si svolgono manifestazioni e attività che non possono trovare sede ad Asti o a Modena. Inversamente certe altre attività e manifestazioni possono benissimo svolgersi a Modena o a Verona o a Asti, che da ciò trarranno una loro qualificazione.

Alle spalle di Asti, di Modena e Verona del resto stanno territori complessi, estesi tra la pianura e la montagna, che alle loro città si legano economicamente e culturalmente, cosicché la megalopoli deriva la sua forma da questa articolazione legata ad un urbanesimo che ha nelle città capoluoghi di provincia una forza gravitativa capace di plasmare i territori particolari che la compongono. La loro varietà è di pochi altri spazi regionali in Europa e non solo in Europa. Un territorio come quello astigiano non ha nulla che lo fa assomigliare al Varesotto o questo al Bellunese o al Forlivese. Tessere diversissime tra loro sia per ciò che riguarda il paesaggio, sia le caratteristiche dell’urbanizzazione passata e recente, sia il rapporto tra pianura e rilievi, oltre naturalmente le condizioni naturali, le tradizioni, il sentimento di se ecc.

La diversità d’altra parte è la forza stessa della megalopoli padana, la sua bellezza, il fattore primo del suo dinamismo. Ma è anche la causa della sua complessità, la quale se è vero che genera flessibilità, autonomia nei confronti dei sistemi esterni, pone non indifferenti problemi di gestione al suo interno. Come deve essere governata perché al suo interno siano armonicamente combinati gli interessi e le istanze dell’abitante di Asti, con quelli dell’abitante del Forlivese o delle valli bergamasche?

Somiglianze o differenze. Forse è questa l´alternativa o non vi sono differenze senza somiglianze e viceversa? E´ vero e necessario che solo le condizioni estreme siano non solo significative ma addirittura obiettivi a cui aspirare?

Come si scrive ormai da quarant´anni, «oggi il 50% del mondo abita in città, e di questo il 60% si trova in situazioni di periferia esterna, mentre alla fine del XIX secolo solo il 10% del mondo era urbanizzato». Ma si tratta di una città che è però scomparsa (o in via di sparizione) come afferma lo stesso Richard Ingersoll, nell´introduzione del suo nuovo libro dal titolo Sprawltown. Sprawl significa sdraiato, senza forma, ma anche nebuloso, diffuso.

Le quantità sono un fatto ma un fatto che si deve discutere,( vedi l´intervento di Massimo Cacciari di martedì scorso ndr ) anche se sembriamo travolti dall´accelerazione con cui questo è avvenuto e la constatazione di esserne superati ci fa sembrare anche la semplice presa di coscienza dello stato delle cose un obiettivo: persino un obiettivo estetico. Ma forse un mondo molteplice, mobile, senza limite non è il mondo della libertà ma solo il mondo dell´assenza di progetto.

Non vi è solo la resa alle forze inaccessibili «della città generica che è cinicamente utilitaristica, pronta a condonare e senza etica», cioè indifferente ai vincoli, né la risposta è ritorno alla piccola comunità chiusa della città di Leon Krier. Forse le questioni sono tra loro più intricate: permanenze e cambiamenti producono una dialettica più complessa e concreta ma assai più creativa socialmente per l´architettura. La cultura della Grecia antica ha vissuto per secoli in quella romana, quest´ultima ha attraversato il Medioevo costituendone materiale ineliminabile e così via.

Il nuovo è essenziale per le differenze quanto le memorie che ne costituiscono il terreno di costituzione. Il centro storico delle città forse non è solo materiale per le cartoline turistiche e per le attività della popolazione del periurbano ricolma di futuro, ma anche luogo delle identità collettive.

E´ vero: «Gli ingredienti dello sprawl - il turismo, i centri commerciali, le tangenziali, i parcheggi, gli svincoli, i mezzi telematici, le villette, i vuoti - possono apparire brutti, ma anch´essi possono essere indirizzati verso un ulteriore obiettivo di qualità», come scrive Ingersoll ma tutto questo non solo la cultura architettonica non ha ancora trovato i modi per attuarlo ma ci attraversa il sospetto che siano proprio i massimalismi, sia quelli dell´entusiasmo per lo sviluppo senza limiti che quello dell´ideologismo ecologico non meno di quello «neohemait», ad impedirlo. Senza dialettica con il passato non vi è nemmeno progetto di futuro.

La nozione di modificazione necessaria e quella di progetto come dialogo è da molti anni collocata accanto a quella di nuovo come valore: essa non è liquidabile solo come riformista, è il fondamento di un nuovo realismo critico, l´opposto cioè del relativismo empirista (e un po´ cinico) con cui oggi si trasforma la constatazione in valore.

Detto questo, consiglio di leggere con attenzione il libro di Ingersoll, che ha come sottotitolo (che interpreto a mio modo positivamente) "Cercando la città in periferia" come stimolo progettuale, cioè in ogni modo di costituzione di ordine: anche quello che "bergsonianamente" non si vede.

I cinque capitoli che lo compongono, ciascuno commentato con una didascalica sequenza di illustrazioni, cominciano con il descrivere gli estremi della sprawltown non solo come nuova metafora della città ma come inevitabile futuro dell´aggregato-disperso urbano.

Il secondo capitolo è dedicato alla trasformazione dei centri storici a causa del turismo di massa. Nella «città-cartolina» dove il senso civico è perduto, il cittadino ideale è il turista. Peraltro due miliardi di turisti producono quasi duecento milioni di posti di lavoro. E´ al cittadino turista di se stesso che è rivolta l´evoluzione dei centri commerciali che dalla periferia si stanno ritrasferendo nei centri urbani, con una sempre più importante percentuale di coniugazione con gli stessi musei: musei shopping mall.

Questa sostituzione dell´antico centro civico offre sicurezza e sorveglianza in cambio di privatizzazione e si espande come ideologia ai modelli delle aree urbane anch´esse privatizzate: le comunità-club ad ingresso controllato come Las Colinas presso Dallas e, più in piccolo, Milano 2. Anche se la connessione con il tema della sprawltown è più indiretta, è questo il capitolo nel quale più si esercita criticamente Ingersoll.

Poi l´autore si occupa della nuova percezione dell´urbano (anche attraverso la frammentazione della visione dall´automobile anche vecchia di ottant´anni) e vede nel montaggio cinematografico lo strumento adatto a rappresentare la periferia esterna, luogo senza centralità dove tutto è sfondo e figura nello stesso tempo, forse proprio perché, proprio al contrario, la sequenza cinematografica è sommamente e rigorosamente ordinata. Il capitolo successivo è un invito ad utilizzare le infrastrutture come occasioni di progetto, anzi d´arte, «alla ricerca però di readymade urbani» piuttosto che nell´imitazione dei grandi acquedotti romani: anche se non si può negare che i nodi autostradali siano al contempo i simboli della catastrofe ecologica.

Da ultimo Ingersoll paragona la «questione ecologica di oggi» a quella ottocentesca dell´alloggio posta da Engels. Da Ernest Haeckel (il fondatore nel 1866 dell´ecologia) attraverso Rudolf Steiner e poi le attenzioni al problema di Le Corbusier e di «Broadacre City», arriva ai movimenti sociali Usa degli anni Sessanta sino al social forum di Porto Alegre. L´autore ripensa in termini ecologici all´intera storia dell´architettura moderna per arrivare a un´ipotesi dell´agricoltura come componente importante della Sprawltown.

Il testo è pieno di citazioni colte che affondano nella tradizione della modernità e si muove in tutta Europa con i propri esempi e con le differenze e somiglianze tra questa e la cultura nordamericana.

Nell´insieme una felice, positiva contraddizione rispetto al «tutto-futuro» che sembra invece essere la preoccupazione centrale dell´autore.

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