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Titolo originale: Urban sprawl, the view from the Netherlands – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

È uno dei giochi preferiti dai bambini, quello di tracciare una linea da un punto all’altro su una pagina, e gradualmente una serie irregolare di punti si risolve in un’immagine. Un effetto simile è il risultato dell’uso del satellite per registrare immagini del nostro pianeta su lunghi periodi di tempo, ma l’immagine percepita dall’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) è quella di un’urbanizzazione dilagante, che potrebbe produrre parecchi problemi nel futuro.

Bruxelles, la “città capitale dell’Europa”, è diventata “capitale dello spazio” la scorsa settimana, quando sono arrivati delegati e giornalisti da tutto il mondo per una serie di eventi, convegni e riunioni legati alla ricerca e tecnologia spaziale. Uno degli argomenti principali è stato il programma Osservatorio Terra (EO) e come le immagini dal satellite del globo rivelano i cambiamenti nel nostro ambiente.

Un paesaggio che cambia

La professoressa Jacqueline McGlade è Direttore generale della EEA, che ha sede a Copenhagen in Danimarca. Parlando delle “ dinamiche del paesaggio europeo che cambia” ha citato la recente pubblicazione della sua agenzia, Corine Land Cover2000 per esprimere la propria preoccupazione per i “cambiamenti lenti” sulla superficie del continente più o meno nell’ultimo decennio. “L’Europa appariva piuttosto diversa dieci anni fa” ha detto. “Mi riferisco alla distribuzione delle città, allo sprawl urbano, alla quantità di infrastrutture che si spostano verso l’esterno negli spazi verdi d’Europa, al modo in cui stiamo frammentando il nostro paesaggio”.

La professoressa McGlade ha spiegato che l’incremento dell’urbanizzazione e il conseguente spezzettamento degli spazi verdi continentali genere tre aree di potenziali problemi. In primo luogo, la salute umana potrebbe venir compromessa dal vivere in sempre più stretta prossimità al traffico e ad altre fonti di inquinamento. In secondo luogo, la flora e fauna potrebbero soffrire con le aree verdi che diventano sempre più piccole e isolate l’una dall’altra. Terzo, ci potrebbero essere scontri fra le persone che rivendicano le stesse aree sempre più scarse di territorio per diversi scopi. “La nostra conclusione fondamentale è che non possiamo realizzare tutte le politiche previste, dati i modi attuali del cambiamento”.

Lo sprawl urbano

”La nostra preoccupazione è l’accelerazione nell’uso del suolo, una accelerazione nelle aspirazioni all’uso del suolo da parte di diversi attori politici e settori economici” ha proseguito la professoressa McGlade. “Ed è molto chiaro a noi che se ciò continua, ci saranno probabilmente scontri frontali fra l’uso dell’ambiente rurale per lo sviluppo dei servizi rurali, il suo uso in termini di biodiversità, e la sovrapposizione delle reti di trasporto e dell’urbanizzazione nelle stesse aree.

L’Olanda è una “zona di particolare interesse” secondo la professoressa McGlade, perché “è diventata il corridoio industriale d’Europa”, con un’alta concentrazione di reti stradali e ferroviarie. Ed è “difficile immaginare che con la risalita del livello del mare, nel futuro non si debba pensare ad una protezione di tutte queste infrastrutture vitali”.

Dati a livello del suolo

Gli scettici possono anche dire che la professoressa McGlade e i suoi icolleghi dell’EEA stanno congiungendo i punti troppo liberamente, nelle loro proiezioni dai cambiamenti nel recente passato alla previsione di questo futuro prossimo. Ma le informazioni satellitari su cui basano le proprie previsioni sono stati accuratamente verificate e “testate al suolo” confrontandole con dati da numerosi strumenti di rilevazione ambientale sparpagliati per l’Europa. Ed è questo lo scopo del programma della Commissione Europea, COoRdinate INformation on the Environment (Corine) Land Cover (CLC).

Ventinove paesi e più di 100 strutture sono state coinvolti nella produzione e circolazione dei dati CLC2000, ovvero delle informazioni uscita dall’aggiornamento all’anno 2000 del progetto originale di dieci anni prima. All’interno del programma, le immagini del satellite vengono interpretate a mostrare 44 classi di copertura del suolo, come foreste, laghi, agricoltura e via dicendo, e queste sono confrontate con altri materiali.

Collegamenti con lo spazio

”C’è parecchia gente sul terreno, a verificare direttamente quello che Image 2000, i dati del satellite, ci stanno dicendo” racconta la professoressa McGlade, e aggiunge che l’uso di una metodologia rigorosa rende questo approccio uno “strumento potente” per analizzare i mutamenti a scala continentale e renderli chiari ai decisori politici. “Ci consente di verificare un importante collegamento fra la Terra e lo spazio”.

Ma la professoressa McGlade non è venuta alla Settimana dello Spazio solo a sottolineare i problemi della rapida urbanizzazione. Ha anche posto l’enfasi sulla necessità di mantenere la rete esistente di strumenti di rilevamento a terra come parte del Global Earth Observation System of Systems (GEOSS), confermato a metà settimana durante un summit ad alto livello. “È cruciale impedire che gli investimenti nello spazio non compromettano ed erodano quanto già abbiamo” ha concluso. “La sfida sarà quella di unire le osservazioni in situ con quelle dallo spazio, e renderle liberamente disponibili alle persone per la vita quotidiana”.

Nota: qui il testo originale alle pagine in inglese del sito Radio Netherlands(f.b.)

Titolo originale: The Rise of the Ephemeral City – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Le città sono sempre state il luogo del cambiamento. Mentre ci addentriamo nel nuovo millennio, potremmo essere testimoni dell’emergere di un nuovo tipo di spazio urbano, popolato in gran parte da non-famiglie e da ricchi erranti. È la “città effimera”, che potrebbe diventare un prototipo per i paesi avanzati nel ventunesimo secolo. San Francisco, Parigi, Berlino, Vienna, alcune parti di New York, già ora fungono da città effimere. A differenza della città imperiale, che amministrava un vasto impero estraendone ricchezze, o della città commerciale che prosperava scambiando beni, la città effimera vive offrendo uno stile di vita alternativo a piccoli settori sociali.

Il rapporto della città effimera con la regione circostante e il vasto mondo è in qualche misura simbiotico. Essa si nutre della ricchezza generata altrove, offrendo un palcoscenico dove le classi agiate possono spendere i propri tesori secondo la moda. Queste città si sviluppano in parte quando la maggioranza delle funzioni industriali, commerciali e di servizio vengono esercitate più economicamente altrove. Praticamente in ogni area chiave – dalla manifattura alla finanza ai servizi all’impresa – i posti di lavoro e anche gli uffici direzionali si spostano sempre più verso i sobborghi. La rivoluzione digitale ha accelerato questo processo, consentendo alla maggior parte delle industrie dell’informazione – software, prodotti per le telecomunicazioni, computers – di localizzarsi al di fuori della metropoli, o addirittura in campagna. I servizi superiori, snodo strategico delle economie della “città globale”, si sono pure decentrati non solo in America ma anche in Europa, Giappone, e nelle zone più sviluppate dell’Asia orientale.

Decentrata la spinta demografica ed economica al proprio hinterland, le città hanno due alternative. Possono diventare più concorrenziali in termini di posti di lavoro, attirando lavoratori specializzati e famiglie di ceto medio, oppure spostare i propri sforzi verso l’offerta di spazi per lo svago di ricchi che non lavorano, giovani irrequieti, turisti. L’ultima opzione sembra quelle adottata più spesso da molte municipalità. Parecchie città ora guardano a turismo, cultura e tempo libero come elementi chiave.

Berlino è un caso interessante. Avendo in gran parte mancato l’aspirato obiettivo di ridiventare centro d’affari mondiale, la città ora celebra come principale raison d'être uno stile di vita alternativo. La sua importanza è sempre più calcolata non tanto dall’esportazione di beni e servizi, né dalla concentrazione di grandi imprese, ma dalle gallerie, negozi, vita di strada, scambi turistici in crescita. Il sindaco Klaus Wowereit, definisce Berlino “povera ma sexy”.

In un’economia globalizzata, alcune città - Parigi, San Francisco, forse anche Berlino o Monreal – hanno la possibilità di farlo. Vista la loro capacità di offrire alti livelli di qualità per il tempo libero, istituzioni culturali, quartieri “ hip”, possono essere in grado di attirare una base di utenti sufficiente attingendo a turisti, giovani lavoratori qualificati, e una crescente quota di ricchi meno giovani che sperano di sperimentare una vita più plurale. Molto più probabilmente destinati al fallimento sono comunque i tentativi di luoghi come Manchester, Cleveland, o Detroit, di legare il proprio futuro al fatto di diventare “ cool”. Concentrandosi su quello che gli antichi romani avrebbero chiamato “ panem et circenses”, i leaders di queste vecchie città industriali credono che migliorare la propria offerta culturale attirerà abbastanza giovani professionisti e ricchi singles. E nei fatti le sovvenzioni per questo tipo di sviluppo – lofts, ristoranti, circoli, musei rivolti ad una popolazione gay o di singles – sono riuscite almeno a creare una chimera di rinascimento urbano. Ma col tempo questa crescita su base culturale non farà molto per fermare il declino di questi centri verso un rango inferiore.

Guardiamo solo al triste esempio delle “ cool cities” su iniziativa del governatore del Michigan, Jennifer Granholm, a sostenere lo sviluppo di arti, quartieri di tendenza, residenza in centro. Nonostante questi hooplà le “ cool cities” del Michigan – Ann Arbor, Kalamazoo, Jackson, Grand Rapids, e anche Lansing – hanno subito perdite di posti di lavoro tra le più gravi a livello nazionale, negli ultimi anni. Sotto la guida del suo giovane sindaco “ hip-hop”, Kwame Kilpatrick, Detroit continua a decadere, in quella che l’ex capo economista della Comerica Bank, David Littman, chiama “una spirale verso la fossa”.

Cleveland e Filadelfia hanno optato per strategie “effimere”: l’abituale assortimento di centri congressi, musei, manifestazioni d’arte, appartamenti di lusso in centro. Ma con che risultati? L’orgogliosamente pubblicizzato tentativo di Cleveland, di diventare centro di tendenza, non ha impedito alla città di inaugurare il ventunesimo secolo con la più alta percentuale di popolazione povera tra le grandi città americane. E la base demografica e occupazionale continua inesorabilmente nel suo declino. Secondo Joseph Gyourko, professore di studi immobiliari a Wharton, la tanto strombazzata ascesa del “ center city” di Filadelfia è un successo un po’ più tangibile. Ma il successo delle zone centrali non ha fermato il declino di molti quartieri, o il recedere dei posti di lavoro e l’esodo del ceto medio verso i sobborghi. Si costruiscono nuovi lofts a pochi passi da quartieri dove ci sono migliaia di edifici abbandonati sul punto di crollare.

In posti come Filadelfia, queste zone centrali servono come “città Potëmkin”, per convincere residenti suburbani e gente di fuori che il posto è abitabile e degno di essere visitato. But Ma chi studia le cose urbane conosce i limiti di queste strategie. “Il centro si comporta benissimo, ma non rappresenta il resto di Filadelfia” sostiene Gyourko. “La faccenda è questa: un punto di eccellenza dove fondamentalmente è ancora in atto il declino”.

Anche al loro meglio, posti come Cleveland o Filadelfia non saranno mai in grado di competere a scala globale con San Francisco, Chicago, New York, Los Angeles, Londra, Berlino, o Parigi, per i dollari dei giovani professionisti, dei ricchi erranti, dei turisti. “Semplicemente, non ci sono in giro abbastanza yuppies” dice il demografo William Frey. Queste aspiranti città “ cool” hanno scarse probabilità di diventare qualcosa di diverso dalla copia “ anch’io” di posti di tendenza, più attrattivi. Avrebbe più senso se queste città lavorassero su problemi di base – sicurezza pubblica, istruzione, norme, tasse, sanità – in modo da attirare imprenditori e proprietari di casa consapevoli. Le attrazioni per il tempo libero seguiranno, quando ci sarà un mercato in grado di fruirne.

Ma cosa succede nei luoghi già ricchi di queste attrazioni, quelli in grado di attirare residenti part-time e giovani abitanti a tempo pieno? Devono porsi questioni ancora più radicali riguardo a che tipo di città vogliono diventare. Le gallerie d’arte, i circoli, i bar, le boutiques rendono questi luoghi indubbiamente divertenti, ma non sono certo queste le cose che convincono ceto medio, famiglie e uomini d’affari a scommettere su una città nel lungo termine. Se si basano sulla curiosità culturale, queste città possono essere destinate a diventare spazi vuoti, Disneylands per adulti.

Anche il potenziale artistico di una metropoli centrata sulla cultura può dimostrarsi seriamente limitato. Nel passato, l’arte fioriva nella scia del dinamismo economico e politico. Atene si affermò in primo luogo come dinamico centro mercantile e potenza militare, prima di stupire il mondo in altri campi. La straordinaria produzione culturale di altre grandi città – Alessandria, Venezia, Amsterdam, Londra, New York – si è sostenuta su rapporti simili fra gli aspetti estetici e quelli pratici.

La storia dimostra che anche le città culturalmente più ricche non possono prosperare a lungo quando mancano le famiglie, un forte ceto medio, una mobilità sociale verso l’alto basata sul lavoro. Si tratta di una dinamica sociologica sperimentata nella Roma del tardo impero, nella Venezia del VII secolo, a Amsterdam nel XIX, nelle città industriali dell’Ovest dagli anni ’50, e che ora si può vedere in molte città contemporanee, specie quelle – come Seattle, San Francisco, o Boston – che hanno basse percentuali di bambini e alti costi dell’abitazione.

Forse ancora più importante, un’economia orientata al tempo libero, al turismo, a funzioni “creative” mal si adatta ad offrire opportunità a chi non fa parte di una piccola quota della popolazione. Seguendo questo corso, la città si avvia ad evolversi verso una composizione per élites cosmopolite, un vasto gruppo di lavoratori di servizio a basso reddito, e una underclass permanente: o meglio in quello che sta già diventando San Francisco, e che lo storico Kevin Starr descrive come “un incrocio fra Carmel e Calcutta”.

Per mantenere un ruolo importante nel futuro, una città ha bisogno di gente che possa muoversi socialmente verso l’alto, di famiglie e attività che si identifichino con quello spazio. Una grande città è fatta più di quartieri puliti per lavorare, o centri d’affari vibranti, o scuole che funzionano, che di grandi edifici culturali o lussuosi appartamenti di tendenza. Certo gli architetti possono preferire la progettazione di stupefacenti musei o torri residenziali di lusso, ma farebbero meglio a concentrarsi sulle residenze per i ceti medi, sugli spazi per le industrie artigianali, sugli spazi pubblici per le famiglie, sui luoghi di culto piccoli e grandi.

La grande opera delle città si realizza meglio per piccoli passi, un mattone per volta. Rafforza il senso del luogo e della permanenza. Se affonda le proprie radici nell’effimero, una città può solo perdere il proprio ruolo storico, o al massimo scolorire in una graziosa vecchina che tutti rispettano, ma che nessuno prende più sul serio.

Nota: qui il testo originale al sito di Metropolis Magazine (f.b.)

Potete scaricare il file in formato powerpoint nel vostro computer, oppure semplicemente aprirlo, cliccando qui sotto sul file allegato.

Titolo originale: Farm Wars: Can “Right to Farm” Laws Resolve Growing Land Use Conflicts? – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

A chi guida verso est sulla Highway 54 da Green Bay verso il Lago Michigan, si mostrano in cruda evidenza le due principali forze in campo per l’uso della terra americana: lo sprawl suburbano – come appare evidente da dozzine di nuovi insediamenti residenziali – e le attività di allevamento su larga scala, le cui lagune di letame e stalle delle dimensioni di un hangar si stagliano sull’orizzonte.

Molte famiglie di pendolari hanno abitato vicino a piccole fattorie per anni senza lamentarsi dei classici inconvenienti, come l’odore pungente del letame sparpagliato. E a ben vedere le diffuse leggi “ Right to Farm” approvate vent’anni fa sembravano segnare una tregua permanente fra i due schieramenti. Ma nell’ultimo decennio, le attività di allevamento hanno aumentato in modo spettacolare le proprie dimensioni, e le procedure concentrate alimentari per animali ( Concentrated Animal Feeding Operations - CAFO) sono diventate il metodo dominante di produzione per la carne e i latticini americani. Quando si installa poco più in là sulla strada un complesso CAFO con 15.000 maiali, 3.000 vacche, o 250.000 galline, e un lagone da un paio di ettari e molte decine di milioni di litri di letame all’aria aperta, i vicini iniziano a preoccuparsi, perché la loro salute potrebbe essere messa in pericolo da un inquinamento locale dell’aria, o dalla contaminazione dell’acqua potabile.

Questi aumentati conflitti sull’uso delle terre hanno prodotto di tutto, da una zuffa nel Kentucky occidentale a cause legali che chiedono ai tribunali di proteggere la salute e sicurezza degli abitanti, prevenendo “interferenze irragionevoli” con il tranquillo godimento della proprietà.

Mentre si sviluppano queste battaglie, anche qualche famiglia di agricoltori di lunga tradizione, nelle zone miste di campagna e residenza, inizia a temere i nuovi arrivati suburbani li mettano fuori gioco con “cause di nocività” contro quello che hanno fatto per generazioni: accumulare e spargere letame sul terreno.

L’aumento dei CAFO minaccia le leggi sul “diritto di coltivazione”

Verso la fine degli anni ’70 esisteva, diffusa tra contadini, pianificatori e politici, la convinzione che lo sprawl urbano fosse una tangibile minaccia alle attività agricole familiari. Uno dei timori era che la dispersione residenziale in zone agricole portasse una serie di costose cause intentate da pendolari, poco abituati alle pratiche agricole correnti, contro i contadini. I sostenitori dei contadini ritenevano che, anche se i coltivatori avrebbero probabilmente vinto queste controversie, le spese legali li avrebbero portati in bancarotta prima di arrivare ad una decisione favorevole del tribunale. Fra il 1978 e il 1983, almeno 40 stati approvarono leggi “ Right to Farm” pensate per limitare la possibilità ai nuovi vicini suburbani di intentare cause di nocività alle fattorie esistenti. Poco dopo, tutti i 50 stati avevano approvato queste leggi a tutela degli agricoltori.

Nell’approvare queste norme, i legislatori statali del paese avevano seguito la dottrina della common law vecchia di 400 anni (originaria dell’Inghilterra e portata nelle Colonie) che tutela gli usi del suolo esistenti dall’invadenza di altri usi. Il Right to Farm Act, del Vermont del 1981, per esempio, garantisce tutela ai contadini contro cause di nocività se l’attività è iniziata prima delle circostanti zone suburbane, e non mette in discussione salute e sicurezza pubblica. Secondo il Professor Dan Esty del Center for Environmental Law and Policy di Yale, “scopo della prima generazione di leggi Right to Farm era di proteggere le attività americane familiari tradizionali agricole dallo sprawl”. Queste prime leggi non prevedevano né tutelavano le nuove attività industrializzate di allevamento impiantate fra vecchie fattorie e residenze, perché come dice Esty, “all’epoca i CAFO erano solo una lucina all’orizzonte agricolo”. Alla fine degli anni ’90, in gran parte a causa della diffusione dei CAFO, le leggi sul “diritto di coltivazione” non risolvevano più in modo efficace i conflitti di uso del suolo fra le attività agricole e i vicini suburbani.

L’esplosione di nuovi CAFO in North Carolina illustra bene le dimensioni del conflitto emerso per l’uso dello spazio. Secondo un rapporto congiunto del Natural Resources Defense Council e del Clean Water Network, fra il 1991 e il 1998 il numero di maiali nelle fattorie del North Carolina è quasi triplicato, fino ai 10 milioni, superando così la popolazione umana dello stato. Le deiezioni generate, accumulate e sparse dai nuovi CAFO suini inquinano localmente l’aria e contaminano i pozzi d’acqua vicini utilizzati dagli insediamenti suburbani vicini e anche dalle famiglie rurali. Uno studio su 1.600 pozzi privati nei pressi di CAFO in North Carolina ha rilevato che un’incredibile 34% di essi era contaminato da nitrati, che possono portare a un aumento dei tassi di cancro alla vescica, al linfoma non-Hodgkin, a problemi renali. Con riferimento alle crescenti preoccupazioni sanitarie riguardo a “metalli pesanti, accelerata resistenza agli antibiotici, agenti patogeni, nitrati, endotossine batteriche, gas volatili, malattie gastrointestinali, problemi respiratori” la American Public Health Association ha chiesto una moratoria nazionale sull’impianto di nuovi CAFO. In più, l’eccessivo deflusso di acque e la frequente tracimazione dei lagoni ha prodotto seri inquinamenti nelle acque superficiali: quando un lagone di quattro ettari si è riversato oltre lo sbarramento, oltre 100 milioni di litri di deiezioni liquide si sono riversati su una strada, attraverso un campo di tabacco, dentro il New River, dove di fatto per una lunghezza di venticinque chilometri è stata uccisa tutta la vita acquatica.

La battaglia nei tribunali e parlamenti statali

Negli anni ’90 le imprese di agribusiness sono diventate sempre più consapevoli che le leggi originali per il Right to Farm approvate nei tardi anni ’70 non garantivano una tutela per la nocività dei nuovi CAFO. Le lobbies agricole hanno allora tentato, con successo, di far approvare nuove leggi più “restrittive”, che mettevano al riparo le attività agricole dalle cause di nocività, indipendentemente dal farlo a spese delle abitazioni suburbane. I commentatori legali hanno immediatamente compreso i pericolosi effetti di queste modifiche. L’avvocato del Michigan Steve Laurent ha sottolineato come “invece di essere una protezione per i piccoli agricoltori come inteso originariamente” le leggi più restrittive per il Right to Farm “funzionano più come un’arma nelle mani della grande impresa di allevamento, contro i residenti suburbani e le attività agricole familiari”. Di fronte a seri problemi sanitari e ambientali, abitanti e piccoli coltivatori hanno direcente contestato queste leggi “restrittive” come “atti incostituzionali”, affermando che esse impediscono il godimento della proprietà, violando così il Quinto Emendamento.

I tribunali dello Iowa, Michigan, Minnesota, Idaho, e Kansas hanno dato ragione a residenti e piccole aziende agricole, rilevando l’incostituzionalità delle leggi Right to Farm e invalidando le parti più flagrantemente anticostituzionali. Nel 1998, per esempio, la Corte Suprema dello Iowa ha sentenziato, “lo stato non può regolamentare la proprietà isolandone gli utenti da potenziali danni da parte di altri, senza offrire un giusto indennizzo alle persone colpite dal danno”. La Corte ha ritenuto che le più restrittive leggi Right to Farm dello Iowa andavano oltre le competenze dello stato “autorizzando l’uso della proprietà in modo tale da ledere i diritti di altri”.

Di recente, il bucolico Vermont si è distinto come centro del dibattito sul Right to Farm. Nell’ottobre 2003, la Corte Suprema del Vermont ha deciso che una coltivazione di frutta radicalmente ampliata nei pressi di una abitazione non aveva diritto all’immunità del “ Right to Farm” ai sensi della legge statale del 1981. Il Segretario all’Agricoltura, il Governatore, e il Farm Bureau hanno temuto che questa interpretazione del Right to Farm esponesse tutte le attività agricole del Vermont, piccole e grandi, a cause di nocività intentate da residenti suburbani.

Concorrenza, o salute pubblica

Si è iniziato un tentativo di riscrivere le leggi del Vermont per il Right to Farm, quando il Farm Bureau e i grandi operatori si sono schierati contro i residenti vicini ai CAFO, e i piccoli coltivatori biologici, che cercavano il modo di proteggersi dall’inquinamento delle grosse attività. Il Farm Bureau ha sostenuto norme più restrittive per il Right to Farm in una deposizione davanti allo House Agriculture Committee: “è assolutamente indispensabile che aglia gricoltori sia consentito di adottare nuove metodologie, nuovi tempi, nuove articolazioni, senza offrire il fianco allo spettro di una causa legale”. L’ufficio a sostenuto che l’agricoltura ha bisogno di espandersi per sopravvivere e che i “ flatlanders” (gente di città, che viene dalle zone metropolitane senza montagne di Boston o New York) che non capiscono le necessità agricole li farebbero fallire, distruggendo il sistema delle attività. La testimonianza affermava che senza più ampie tutele di Right to Farm, le fattorie sarebbero state sottoposte a “una causa di nocività o due, o tre, o una per ogni nuovi abitante, sino a che l’attività non fosse abbandonata”.

Le grandi imprese sostenevano inoltre che senza tutele non avrebbero potuto sopravvivere alla concorrenza esterna allo stato. Spiegarono che c’erano grandi complessi per i latticini nel West, Midwest, e nel Sud, da 50 a 100 volte le dimensioni di quelli più grossi del Vermont, e che occorreva crescere in modo sostanziale per poter competere sul mercato nazionale.

Gli abitanti delle zone prevalentemente rurali, ma pendolari verso gli impieghi urbani, hanno dichiarato di apprezzare l’agricoltura, e di voler garantire all’attività nel Vermont un luminoso futuro. Ma di essere preoccupati per la contaminazione dei pozzi dell’acqua, come in North Carolina, o per gli effetti sulla salute dei CAFO, come quelli documentati dalla American Public Health Association. Temevano anche che i valori immobiliari nei pressi dei nuovi CAFO diminuissero, come accaduto altrove, fino al 50%, minacciando la possibilità per le famiglie di ottenere prestiti usando l’abitazione come garanzia, ad esempi oper far studiare i figli in college. Come ha spiegato Patty Britch di Highgate, “Abbiamo bisogno di contadini in Vermont; dobbiamo sostenerli, [ma i legislatori] non possono dare tutti i diritti ai coltivatori … Ci deve essere un equilibrio di diritti, fra contadini e famiglie residenti”.

Piccola allevatrice di mucche da latte Fran Bessette vive vicino alle 100.000 galline del CAFO Vermont Egg Farm di Highgate, che ha chiesto un ampliamento sino a 700.000 galline. Parla delle mosche, delle nubi di pesticidi, degli insopportabili odori dal vicino CAFO, e dichiara che “a causa delle disinfestazioni per contenere la popolazione di insetti, mi sono presa un’infezione ai polmoni, ho perso 20 chili, non posso lavorare e sono malata da anni”.

Leggi protettive, ma politiche preventive

Nell’era dei CAFO, è evidente come una legislazione che conferisce assoluta immunità a tutte le attività agricole contenga il difetto fatale di essere troppo estensiva: protegge attività del tutto egregie, e attività pericolose, e corre anche il rischio ( à la Iowa) di essere annullata in quanto incostituzionale rispetto ai diritti di proprietà dei vicini. C’è ancora bisogno delle leggi Right to Farm, però, a tutelare l’agricoltura e le attività preesistenti dalle cause legali.

La nuova stesura delle leggi del Vermont per il Right to Farm ha finito per codificare, nei fatti, il buon senso comune proposto da Fran Bessette: “Non penso che i contadini, o i non-contadini, abbiano il diritto di imporre disagi a nessuno. Non importa chi, ma non deve essere in grado di far danni ad altri”. Dopo cinque mesi di dibattito, nel maggio 2004, il parlamento statale ha approvato un nuovo Right to Farm Bill che tutela chiaramente le attività agricole preesistenti da nuovi vicini suburbani, sempre che non esistano “evidenti effetti negativi sulla salute, sicurezza, benessere”. Caso raro nel modo delle leggi, sembra che tutte le parti fossero soddisfatte: il Vermont Farm Bureau, i residenti vicini preoccupati, i piccoli agricoltori e biologici, i gruppi ambientalisti, i legislatori, e tutta l’Amministrazione hanno sostenuto il progetto nella versione finale.

Ma una legge anti-nocività tagliata su misura non è sufficiente per risolvere i conflitti nell’uso delle terre fra CAFO, insediamenti suburbani, attività agricole minori. Contadini, residenti, gruppi ambientalisti e legislatori riconoscono sempre più che, se le leggi Right to Farm rispondono ad alcune esigenze sentite da entrambe le parti in causa, la soluzione vera per questi conflitti è di prevenire i problemi ambientali e di sanità pubblica, prima che si pongano.

Negli anni recenti sono emersi numerosi strumenti di intervento per ottenere questo scopo. Alcune norme localizzative di “ siting provision,” per esempio, assicurano che i nuovi CAFO siano realizzati in aree più isolate e meno ambientalmente sensibili, aiutando così a ridurne gli effetti sulla salute umana ei danni ecologici. Un altro esempio sono i “ Land base requirements,” che impongono a tutte le attività agricole, compresi i CAFO, di possedere ad esempio il 75% delel terre necessarie a spargere il letame che producono. Queste norme assicurano che CAFO e attività familiari non generino problemi crescendo troppo o troppo in fretta per riuscire a gestire in modo sicuro i propri scarti. I Land base requirements impediscono anche che i CAFO delle grandi compagnie smaltiscano i propri scarti tramite “accordi di spargimento” con soggetti terzi irresponsabili.

Ci sono state anche richieste di monitoraggio statale delle acque superficiali e sotterranee, di autorizzazioni agricole in base alla qualità delle acque, di un maggior coinvolgimento dei funzionari della sanità nei processi di autorizzazione per i CAFO. Infine, alcuni responsabili delle decisioni, soprattutto a livello statale, hanno recentemente chiesto di porre fine ad una politica che destina la stragrande maggioranza delle risorse e sostegni dei programmi speciali ai CAFO, in modo tale che anche le piccole attività agricole possano avere la propria legittima fetta della torta. Anche se non è possibile tornare con successo agli anni della tregua di prima dell’emergere dei CAFO, uno sforzo comune fra decisori e soggetti di entrambe le parti può impedire la diffusione dei gravi conflitti che ha dominato il periodo più recente.

Nota: qui il testo originale, con la bibliografia, al sito di Next American City; in questa stessa sezione di Eddyburg anche alcuni testi “paralleli” sul tema del consumo di suolo (f.b.)

Titolo originale: Population shifts away from Sydney – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Per anni gli abitanti di Sydney si sono lamentati per il fatto che la città stava crescendo troppo, con troppi immigranti che arrivavano e poi restavano.

Ma ora possono rincuorarsi con le ultime cifre della popolazione dall’Ufficio Statistica, che mostrano come la quota dei nuovi arrivi si sia dimezzata dal 2000, l’anno delle Olimpiadi, e che ora sono Melbourne, Brisbane, e Perth le città che crescono più in fretta del paese.

Ma i nuovi arrivati portano benessere, o aggiungono solo affollamento o sprawl urbano?

Ben Knight ha intervistato l’uomo che ha seguito il mutamento di flussi del fenomeno, il demografo Bernard Salt.

BERNARD SALT: ogni 10.000 persone che si trasferiscono in una città, significano 80 milioni di dollari in nuovi consumi, che creano una domanda per nuove 3.000-4.000 famiglie, o case. La crescita della popolazione genera ricchezza.

Ma contribuisce anche in qualche modo allo sprawl urbano, che è un problema dell’amministrazione cittadina. È una lama a doppio taglio Da un lato c’è la crescita economica. Dall’altro c’è la necessità di governare lo sprawl.

BEN KNIGHT: una delle lamentele più diffuse fra i nuovi arrivati, è che la città o almeno quella parte della città in cui si sono trasferiti, non sembra adeguata in termini di trasporti pubblici o simili. È normale?

BERNARD SALT: il problema dei servizi e delle infrastrutture esiste nelle città australiane da 50 o 60 anni. È normale che la gente si sposti nei suburbi esterni e debba aspettare che i servizi arrivino anche nelle loro zone.

Semplicemente, non siamo abbastanza ricchi come nazione da realizzare prima tutte le infrastrutture, e poi aspettare che arrivi la popolazione. Purtroppo quello che succede è esattamente il contrario. La gente si sposta nei suburbi, e le strutture seguono.

Il problema è quanto tempo ci vuole perché i servizi arrivino fino a quella comunità.

Gli australiani sono un popolo prevalentemente suburbano. Ci piacciono i suburbi esterni. Esiste un piccolo gruppo, un gruppo di rinnegati, che si sta spostando verso il centro città, ma la stragrande maggioranza preferisce i burbs.

BEN KNIGHT: sta parlando degli immigrati da oltremare o di spostamenti da altri stati australiani? Quanta di questa migrazione è gente che si sposta solo da uno stato all’altro?

BERNARD SALT: molta della crescita nei suburbi esterni a dire il vero è dovuta al trasferimento di popolazione dai sobborghi a media distanza dal centro e da quelli più interni, verso le fasce più esterne delle città principali. Esiste certo un flusso di immigrati da oltremare, ma tendono a concentrarsi nei suburbi interni.

Dunque la crescita suburbana nelle zone più esterne delle maggiori città è determinata in larga parte da trasferimenti di australiani, semplicemente si spostano verso abitazioni migliori e più grandi, lontane dalla città.

Nota: qui il testo originale della conversazione radiofonica, al sito della australiana ABC (f.b.)

Titolo originale: The Temporary Urbanism of Critical Mass – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Critical Mass è tornata sulle prime pagine. Poco tempo dopo gli arresti dello scorso anno a Buffalo e le recenti cariche della polizia a New York City, il diluvio mensile di ciclisti urbani per le strade si è conquistato i titoli dei notiziari qualche settimana fa, a Portland. Il sindaco della città, Tom Potter, ha mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale di unirsi al raduno di gennaio ad altri 250 ciclisti. Non sorprende che i critici stiano bersagliando Potter di commenti sulla sua indulgenza, o addirittura incitazione alla cosiddetta illegalità. Il giornale The Oregonian di recente ha severamente criticato Potter per il suo “tener stramba Portland “.

È piuttosto difficile pensare che chiunque sia interessato in qualche modo alla pianificazione urbana non conosca Critical Mass, ma nel caso vale la pensa in breve di riassumerne storia e “definizione”. Nel 1992, alcuni amici di San Francisco pedalarono insieme lungo Market Street, mostrando cartelli che dicevano “Fate Spazio alle Bici”, e incoraggiando i ciclisti di passaggio ad unirsi a loro, quel venerdì sera, per una biciclettata attraverso la città. Venne parecchia gente a quella prima volta nella sera di settembre, e così fu deciso di ripetere la cosa il mese dopo. A ottobre c’erano più ciclisti, a novembre ancora di più, e via di questo passo. Da allora, il gruppo è in media di un migliaio di ciclisti (spesso un po’ di più) che si affollano sulla Justin Herman Plaza all’Embarcadero per quella che è diventato un appuntamento fisso di San Francisco. Il fenomeno si è diffuso in tutto il mondo, a circa 300 città.

Ovunque c’è un evento Critical Mass, c’è una polemica. Il fastidio di solito viene da due direzioni: il comando di polizia (spesso in comunella col sindaco), e gli osservatori non partecipanti. I poliziotti sostengono che non si dovrebbe permettere ai ciclisti di infrangere le regole del codice stradale, visto che Mass regolarmente ignora i segnali di Stop, i semafori rossi, e ferma il traffico automobilistico tenendo tutto il gruppo di ciclisti compatto, per motivi di unità e sicurezza. Chi osserva da fuori, ovvero automobilisti, qualche editorialista, ospiti radiofonici e vari personaggi pubblici e privati, esprime critiche simili, oltre a lamenti sul fatto che Critical Mass è “controproducente”, e serve solo a ricacciare indietro i ciclisti nella loro battaglia per lo “spazio sulla strada”. Credo che le critiche sulla questione del codice e le tattiche di protesta siano vetuste e noiose. Dopo tutto, se Critical Mass fosse stata solo un ingorgo mensile, non sarebbe diventata una leggenda che dura da più di dieci anni. Dato che partecipo devotamente alle biciclettate qui a San Francisco, noto che Critical Mass non solo trasforma fisicamente l’ambiente urbano di tutti i giorni, ma tende a ingarbugliare una serie di relazioni che si sono instaurate con lo status quo: da qui, le reazioni forti all’evento.

Critical Mass non è una protesta, e neanche una dimostrazione. In genere i ciclisti non hanno un programma concordato. Critical Mass non è una “organizzazione” o un gruppo per i diritti dei ciclisti, come spesso definito dai media; piuttosto, è la definizione “coincidenza spontanea” utilizzata dai partecipanti, a descriverlo meglio. Uno dei cosiddetti fondatori di Critical Mass, Chris Carlsson, sintetizza piuttosto quando dice che le biciclettate riguardano “la scomparsa dello spazio pubblico ... [e] la crisi della comunicazione e socialità umana”. Secondo Carlsson, anche se Critical Mass originariamente voleva ottenere più spazio stradale per i ciclisti, si è svoluta in una forma di “auto-espressione” dove “le biciclette sono un curioso fatto incidentale”. Cosa più importante, Carlsson sostiene che “ciascun individuo contribuisce con qualcosa di personale all’evento”, esponendo ciò che pensa a proposito di “una vita migliore nell’America urbana”.

I partecipanti alle Critical Mass, specialmente a San Francisco, riconoscono che quanto afferma Carlsson è più di un ragionamento filosofico astratto. Il raduno mensile fra amici e sconosciuti, la conseguente rivendicazione delle strade, l’urbanistica temporanea che viene a crearsi, sono l’antitesi di quanto è diventata la città americana. I ciclisti si riuniscono, chiacchierano, condividono storie con gente che non avrebbero mai incontrato prima. Crescono amicizie. Spesso qualcuno fa girare cibo o bevande. Il capitalismo e la paura degli altri se ne stanno fuori, anche se solo per qualche ora. Prende piede un senso comunitario. Gente vera – intere famiglie, insegnanti, attivisti di tutti i colori, fattorini, impiegati degli uffici, anziani, teen-agers, e chiunque altro vogliate immaginarvi – invadono le strade, e costruiscono un’immagine inedita della città. Andare in bicicletta in mezzo a questo scenario è quantomeno esilarante. Di fatto, di macchine non ce n’é, dentro o attorno alla Mass; quelle che ci sono se ne stanno ferme e aspettano: automobilisti impotenti, qualche volta a disagio e nervosi, ma spesso anche curiosi e benevoli. Con biciclette e pedoni a occupare la strade per interi isolati (che suonano, si chiamano e scherzano) è come se queste strade progettate per l’unico scopo di favorire il traffico automobilistico si siano trasformate nelle più belle piazze europee.

Non è di questo, a pensarci bene, che parlano il movimento del New Urbanism e per la smart growth? Prendere la realtà attuale e attuare grandi operazioni di mutamento cosmetico, fisico, di atteggiamento. Critical Mass offre l’immagine perfetta di questi obiettivi, presentata direttamente da chi vive il triste stato della vita e dello spazio americano. I critici hanno etichettati il mondo del suburbio in ogni modo: da “brutto” a “noioso”, a “auto-dipendente”, fino a “bancarotta morale e sociale”. Molte delle città centrali sono state date per morte. Certo quelle città sono piuttosto lontane dall’essere perfette. Il New Urbanism tenta di recuperare gli ambienti attuali applicando una progettazione neotradizionale. Il professionisti di quest’arte guardano un’area industriale dismessa e ci vedono quartieri vibranti di vita come Pearl District a Portland, o North Beach a San Francisco. C’è bisogno di spazi a funzioni miste, città senza auto, strade per i pedoni, spazi pubblici dove i vicini si possano incontrare, o tutte queste cose insieme; e mostrare a tutti gli scettici che questi concetti devono soppiantare la cultura prevalente dell’auto è un’impresa monumentale: una battaglia che, a dire il vero, non stiamo certo vincendo.

Critical Mass, a modo suo, rappresenta un’immagine di come la città potrebbe essere. Non sto sostenendo che sia in sé una soluzione; piuttosto, esibisce parecchie qualità, mese dopo mese, che molti indicano come scarse nella società attuale: comunità, strade a misura d’uomo, stili di vita più fisicamente attivi, un trasporto non inquinante, e altro. È abbastanza comune che i professori di urbanistica portino i propri studenti a visitare i migliori quartieri in una data città o cittadina, nel tentativo di dimostrare come si “dovrebbe” fare. Perché non portarli ad una Critical Mass, per mostrare la manifestazione di un ordine collettivo condiviso, ma che probabilmente non hanno mai sperimentato? Anziché opporsi violentemente e reprimere qualunque visione alternativa della città, i funzionari pubblici e i privati cittadini, soprattutto gli urbanisti, i politici, gli studiosi di cose urbane, dovrebbero guardare a Critical Mass, magari partecipare, come ha fatto Potter. Potrebbe essere un’esperienza che aiuta a trasformare altre parti d’America in posti “strambi” come Portland, o come dice James Kunstler “posti a cui valga la pena di voler bene”.

Titolo originale: A Fast Road to Nowhere – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Perseguitate da cronici ingorghi di traffico, le autostrade della Germania assomigliano spesso più a un’infinita striscia di parcheggi che a un paradiso della mobilità automobilistica veloce. Alcuni scienziati sperano di riuscire a spiegare la lotta dello stop-and-go con la fisica e la teoria dei giochi.

Gli ingorghi non fanno differenza. Non gli importa se sei un presidente di consiglio di amministrazione o un idraulico, se sei bloccato sull’autostrada in uno dei classici punti di strozzatura della Germania, come Lotte-Osnabrück o Swisttal-Heimertsheim, sei bloccato, indipendentemente dalla tua collocazione sociale. E se si sta seduti immobili su un tratto di quella che dovrebbe essere una possente autostrada, anziché schizzare via a 200 chilometri l’ora, ci si può anche chiedere perché.

E certamente non è per caso, come qualcuno potrebbe pensare.

“Circa l’80 per cento degli ingorghi da traffico si verificano perché, semplicemente, ci sono troppe persone sullo stesso tratto di strada nello stesso momento” dice Michael Schreckenberg, professore di traffic physics all’università di Duisburg-Essen.

Come succede ogni anno all’inizio delle vacanze estive quando migliaia di automobilisti tedeschi si dirigono verso il sud: basta che uno di loro pigi il freno solo un po’ più forte, e il traffico che scorreva liscio implode.

”Quelli che stanno dietro frenano più forte, e la cosa continua lungo tutta la linea” continua Peter Wagner, direttore del dipartimento al traffico IT dell’Istituto Aerospaziale tedesco. “Chi sta più indietro finisce per fermarsi completamente”.

In effetti il grosso non solo si ferma, ma si muove più lentamente in generale, afferma Schreckenberg. Bastano velocità di 25 chilometri l’ora per causare ingorghi sulla autobahn tedesca. È qualcosa che può provocare road rage e succede in fretta, dato che gli effetti in coda provocano rapidamente nuove vittime, tra chi si avvicina più velocemente di quanto chi sta davanti possa liberare strada.

Orrore sullo svincolo

Come se non bastassero le strozzature per i cantieri o gli incidenti. Peggio di tutto sono gli svincoli di ingresso, con un branco di macchine che vuole entrare nel flusso di traffico. Schreckenberg sostiene che il processo è simile alla respirazione: “Si tratta di un fenomeno periodico. Il sistema aspira auto, ed espira ingorghi”.

Ci sono moltissimi scienziati che vorrebbero comprendere gli ingorghi stradali per essere in grado di prevedere quando ci saranno dei problemi. Alcuni ricercatori hanno anche paragonato le auto a particelle fisiche. “Fin quando c’è spazio a sufficienza, si muovono più o meno liberamente, come un gas” spiega Wagner. “Se si aumenta la pressione cominciano a scorrere come un liquido. Aumentando solo di poco questa pressione, per così dire, si congelano”.

E a quanto pare le particelle gassose detestano sbattere l’una contro l’altra, tanto quanto gli automobilisti sulla autobahn. Ma le similitudini finiscono qui. “Ci sono persone, sedute nelle macchine, non particelle” spiega Schreckenberg. “E reagiscono in modo diverso, come frenare prima o dopo”.

In più, e per fortuna, pensano. Se la segnaletica automatica indica una velocità limite di 90 per mantenere un flusso costante, gli automobilisti esperti spesso vanno a 120, dice Wagner. “Questo non elimina il rallentamento, ma almeno li fa stare davanti”.



Togliti dalla strada

Per allentare la pressione sulla autobahn, gli automobilisti a dire il vero dovrebbero imboccare una rampa di uscita spostarsi sulla viabilità ordinaria, sostiene Martin Treiber, che lavora sui modelli di traffico al Politecnico di Dresda. “Naturalmente questo non migliorerebbe le cose per loro, ma aiuterebbe la velocità in autostrada. È un problema di teoria dei giochi.”

Ovviamente nessuno è tanto altruista da uscire dall’autostrada per fare un piacere agli altri, ma spesso le scappatoie potenziali sono comunque sovraffollate. Ecco perché Wagner predilige un “ Cellular-Automation-Approach” agli ingorghi stradali. In pratica, si divide la strada secondo una griglia, sistemando in ciascuna cellula un’auto. Se la cellula è occupata, le auto non possono avanzare finché non si rende libera. È stato calcolato che se passano 1.800 automobili attraverso una cellula su una corsia in un’ora, si arriva al blocco totale.

I tedeschi trascorrono a quanto pare una media di 58 ore l’anno seduti immobili nel traffico. Uno studio della BMW afferma che questi blocchi costano all’economia 100 milioni di Euro l’anno, escluso il logorio dei nervi.

Ma Schreckenberg sostiene che i tedeschi sono troppo lamentosi sul traffico rispetto ad altre nazioni. “Ci lamentiamo continuamente, ma bisogna guardare a Seul, Istanbul o Tokyo (con code abituali di oltre 10 chilometri): quelli sì che sono ingorghi!

Nota: qui il testo originale al sito Deutsche Welle (f.b.)

Titolo originale: Planning for a Livable City: An Open Letter to the Next Mayor and Planning Director – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Nei prossimi anni e per un lungo periodo, saranno investiti milioni di dollari pubblici e privati sulla città, nella costruzione di nuove scuole, spazi verdi, case popolari e a prezzi di mercato, estensione dei trasporti pubblici e miglioramenti delle infrastrutture. I sottoscritti rappresentanti della cittadinanza propongono una visione per Los Angeles, per creare quartieri vitali e orientare questi investimenti, in una lettera aperta al prossimo Sindaco e al Direttore dell’Ufficio Urbanistica della città di Los Angeles.

Premessa: una visione per la città

Per quante siano le sfide a cui si trova di fronte Los Angeles, esistono molte opportunità di creare comunità vitali. La nostra immagine di queste comunità si compone di case popolari a sufficienza rivolte a una classe lavoratrice in crescita, e anche ai senzatetto; di alternative valide all’uso dell’auto per andare a lavorare; posti di lavoro con un salario che consente di vivere; strade praticabili per i pedoni e accoglienti per le biciclette; spazi verdi e piazze in ogni quartiere.

Promuovere comunità vitali

Il General Plan della città di Los Angeles comprende ottime linee guida per la creazione di comunità vitali, come incoraggiare un insediamento rivolto al trasporto pubblico, complessi multifunzionali, quartieri percorribili a piedi e in bicicletta. Il Planning Department deve collaborare con gli altri uffici comunali per verificare che alcune politiche non indeboliscano gli sforzi verso una maggiore pedonalità, e altri programmi urbanistici orientati ad una città più sana e sostenibile. L’ufficio pianificazione deve verificare che gli obiettivi del piano generale siano perseguiti ai livelli di Community Plan, Specific Plan e singoli progetti. In più, il Planning Department deve definire un processo di piano più propositivo in senso comunitario, inclusivo, partecipato, che dia voce ai problemi dei vari quartieri pur nel perseguimento di obiettivi di scala urbana. Infine, data la ricchezza delle differenze etniche di Los Angeles, il Planning Department deve orientare i propri sforzi agli specifici bisogni culturali delle varie comunità.

Esplorare approcci innovativi di pianificazione

Il prossimo direttore dell’ufficio urbanistica dovrà essere dotato di conoscenze rispetto alle più innovative esperienze di piano di altre aree urbane. Ad esempio, la città di San Diego ha iniziato un processo di pianificazione estremamente ambizioso per la crescita futura, fortemente basato sull’impegno nella partecipazione pubblica a tutti i livelli decisionali. Iniziato nel 1999, questo ambizioso sforzo della città nella revisione del General Plan ha prodotto il programma “Città dei Villaggi” col sostegno delle varie comunità di tutta l’area di San Diego. Questo vasto sostegno non si sarebbe potuto ottenere senza un significativo coinvolgimento pubblico attraverso tutte le fasi intermedie.

Si può imparare molto, da questo successo, come da altre iniziative di pianificazione partecipata, e quindi sollecitiamo il futuro Planning Director a guardare a questi esempi per trovare orientamenti nello sviluppare programmi simili, qui a Los Angeles.

Aumentare l’offerta di abitazioni economiche

A Los Angeles c’è carenza di case popolari. La creazione dello Housing Trust Fund è stata un importante passo in avanti, ma la città deve dotarsi di altri strumenti di intervento, per consentire la realizzazione di altre abitazioni e per affrontare direttamente i problemi dei senzatetto e delle case antigieniche. L’ufficio urbanistica deve promuovere un’ordinanza di Inclusionary Zoning in modo che i nuovi insediamenti residenziali comprendano unità destinate agli abitanti a reddito medio e basso.

Costruire una Los Angeles più giusta

C’è un abisso a dividere le persone coi redditi più alti da quelle meno abbienti, a Los Angeles, che deve essere affrontato direttamente nella pianificazione del futuro. Da un lato è essenziale che nel creare e conservare quartieri a redditi misti si aumenti anziché diminuire la quota di case economiche, i posti di lavoro locali, i rapporti sociali fra i lavoratori. D’altra parte è altrettanto essenziale che i nuovi quartieri offrano il massimo beneficio alla città nel suo insieme: stipendi che consentano di vivere, uffici del lavoro di quartiere, case economiche, e servizi di vicinato. Le politiche di piano devono facilitare questo tipo di insediamento in stretto rapporto con la strada, a sostenere un’economia vitale per Los Angeles.

Prendere in considerazione gli effetti spaziali del commercio BIG BOX

Los Angeles e molte circoscrizioni confinanti sono state attraversate di recente da un vivace dibattito sull’opportunità dei negozi “ big box”. La municipalità di recente ha adottato un’ordinanza che richiede una valutazione di impatto economico elaborata da un soggetto indipendente, per alcune categorie di nuovi insediamenti commerciali di grandi dimensioni. Il Planning Department deve attuare questa nuova ordinanza, e promuovere strategie di progetto che rendano minimi gli impatti di questi negozi giganti.

Una città più orientata al trasporto pubblico

Los Angeles ha bisogno di un Planning Director capace di pensare in modo creativo a come possiamo infrangere la nostra paralisi dei trasporti, concentrandoci sul movimento delle persone anziché su quello delle automobili. Un elemento chiave è quello di sostenere lo sviluppo lungo alcune linee ferroviarie, di metropolitana veloce, e altre di mobilità principale, e di facilitare forme di mobilità non motorizzata come la bicicletta o gli spostamenti a piedi. È essenziale che il responsabile dell’ufficio di piano si renda conto che la maggior parte di chi dipende dal trasporto pubblico a Los Angeles è popolazione a basso reddito, che si sposta lontano per raggiungere i posti di studio o di lavoro, e deve poter contare su un servizio efficiente, economico, pulito per la propria vita quotidiana. Dobbiamo mettere in pratica il tipo di trasformazione delineato dal General Plan realizzando un percorso di uscita dai problemi della congestione, e collocando le nuove case e i posti di lavoro in aree ben servite dal trasporto pubblico.

Edilizia ecologica e energie rinnovabili

La città di Los Angeles ha compiuto progressi nello sviluppo dei green buildings e delle energie rinnovabili. Il nuovo Planning Director dovrà proseguire in questa direzione, esaminando strategie di livello superiore, come l’offerta di sostegni a maggiori densità edilizie, accelerazione delle pratiche, riduzioni tariffarie e altri incentivi per insediamenti che utilizzino pratiche ecologiche o tecniche energetiche pulite.

Pianificazione e tutela delle risorse idriche

Los Angeles si trova di fronte a numerosi problemi riguardo alla fornitura d’acqua, alla gestione delle acque pluviali, alla depurazione degli scarichi. Il Planning Department deve verificare che siano finanziati i progetti principali per il bacino idrico, in particolare quelli per il Los Angeles River e Ballona Creek, attraverso il recentemente adottato Prop O, e integrati entro il piano spaziale di usi del suolo per la città e il sistema delle autorizzazioni edilizie. In più l amunicipalità ha un’opportunità storica di aumentare gli spazi per il tempo libero, raggingere obiettivi di risanamento ambientale e di carattere sociale, rivitalizzando il corso del Los Angeles River.

Pianificazione per quartieri sicuri e vivibili

La città deve sperimentare strumenti di pianificazione come uno zoning orientato a ridurre il numero di punti vendita per alcolici, e ridurre parallelamente la criminalità, o trasformare vicoli intasati di rifiuti e spazi inutilizzati in verde di quartiere, piantare alberi dentro e attorno ai cortili delle scuole, per fare ombra e risparmiare sul condizionamento. Programmi del genere sono importanti per aiutare a mantenere i quartieri sicuri e più vivibili.

Una nuova dichiarazione di intenti

L’attuale dichiarazione di intenti del Planning Department recita: “Offrire una solida e professionale guida per quanto riguarda l’uso dello spazio al più alto livello tecnico possibile, per realizzare quartieri sani e sicuri e un ambiente economico stabile, che sostenga la crescita”. Abbiamo bisogno di nuovi orientamenti, che comprendano gli obiettivi della città sana e sostenibile: per il Dipartimento e la Municipalità intera.

Nota: per le firme, il testo originale e altro (ad esempio i murales di cui ho riportato qualche esempio), si veda il sito del Center for the Law in the Public Interest (f.b.)

Titolo originale: The American Dream Collides With A European Competitor – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

WASHINGTON – Si può discutere la saggezza delle iniziative con cui il presidente Bush vuole privatizzare parte della Social Security. Ma non c’è dubbio che si adattino perfettamente alla psicologia USA: il nostro, eterno american dream secondo cui ciascuno ha il diritto di tracciare la propria strada al benessere personale.

Aggiungeteci questioni collaterali, come la regolamentazione economica leggera, gli standards ambientali elastici, meno tutela per il lavoro, e il premiare le attività generatrici di reddito ventiquattro ore al giorno sette giorni su sette: avete messo a fuoco i valori principali della nostra ri-eletta amministrazione, e la sua ragione centrale di essere.

Ma date un’occhiata al di là dell’Atlantico, come suggerisce il nuovo libro dell’economista Jeremy Rifkin, The European Dream, e ci vedrete un’immagine potente e alternativa:

”Il Sogno Europeo privilegia le relazioni comunitarie rispetto all’autonomia individuale, la diversità culturale anziché l’assimilazione, la qualità della vita sull’accumulazione di ricchezza, lo sviluppo sostenibile contro la crescita materiale infinita, un’attività profonda sull’attivismo continuo, i diritti umani universali e quelli della natura su quelli della proprietà, e la cooperazione globale contro l’esercizio unilaterale del potere”.

Gli euroscettici grugniranno, liquidando l’Europa come retrovia di economie moribonde, orientamenti anti-mercato, programmi sociali troppo estesi e burocrazie governative gonfiate.

È vero, riconosce Rifkin, c’è qualcosa di reale in queste accuse. Ed è pure vero che i tassi di disoccupazione, specie fra i giovani europei, sono elevati e preoccupanti.

Ma considerate quello che hanno appena fatto gli europei. Il 29 di ottobre, i capi di stato, di governo, e i ministri degli esteri di 25 nazioni, dal mare d’Irlanda alle porte della Russia, hanno firmato una costituzione formale di Unione Europea che impegna tutti i membri come un singolo organismo di governo. Un continente lacerato da secoli di spaventosi conflitti, culminati negli orrori della Seconda guerra mondiale, sta creando il primo ambito di governo transnazionale della storia.

L’Unione Europea si è evoluta a velocità spettacolare dal suo inizio con l’autorità del carbone e dell’acciaio concordata da sei nazioni nel 1951. Ora esiste un passaporto comune europeo, e una sola valuta, l’Euro, utilizzata da molti membri. Sono regolamentati il commercio, e coordinate le politiche energetiche, delle comunicazioni e dei trasporti. Esistono un presidente, un parlamento, poteri di politica estera e una corte di giustizia le cui decisioni sono vincolanti per i paesi membri e i singoli cittadini.

È un’evoluzione stupefacente, anche se mancano ancora poteri fiscali diretti, e i diritti territoriali appartengono agli stati.

Noi americani siamo tanto convinti del nostro essere “speciali”, che facciamo fatica a cogliere la vastità di quanto conseguito dalla UE, e quello che rappresenta.

In primo luogo c’è il colpo economico. Con 445 milioni di persone, l’Unione Europea è il mercato interno più grande del pianeta, e la maggiore potenza esportatrice. Fra le principali 20 banche commerciali del mondo, 14 sono europee. Le imprese europee sono all’avanguardia mondiale nella chimica, assicurazioni, edilizia, industria aerospaziale. Un esempio recente e vistoso di cosa significhi tutto ciò: l’annuncio dell’Airbus A380, ad alta efficienza energetica per 800 passeggeri, un imbarazzante salto a sorpassare la concorrenza USA della Boeing.

Secondo, la qualità della vita. Gli europei, nota Rifkin, spesso osservano che gli americani “vivono per lavorare”, mentre essi “lavorano per vivere”. Pigrizia e tempo libero sono tenuti in alta considerazione; la gente si gode lunghi pasti e visite agli amici; tipicamente, non hanno mai fretta di “andare da qualche parte”. Le ferie pagate abitualmente sono di cinque settimane l’anno, contro le due di qui. Le differenze di reddito fra i molto ricchi e i poveri sono molto meno pronunciate che negli Stati Uniti. Il tasso di omicidi è un quarto del nostro.

Là dove l’ american dream enfatizza crescita e ricchezza personale, l’Europa cerca soprattutto uno sviluppo sostenibile. È vero che l’idea di città più vivibili ha guadagnato spazio anche qui di recente, ma gli europei sono davanti a noi di secoli nel costruirle e mantenerle. E al contrario delle nostre politiche di spreco energetico, gli europei tassano i carburanti (specie la benzina) molto più pesantemente, e sono parecchio davanti a noi nello sviluppo delle fonti di energia rinnovabile.

Infine, gli europei stanno sviluppando un insieme di valori che comprende idee come quelle degli USA di libertà, democrazia, diritti individuali. Ma si va oltre. La nuova costituzione cita “pluralismo, non-discriminazione, tolleranza, giustizia e solidarietà”.

Solidarietà? Significa, dice il primo ministro olandese Jan Peter Balkenende, attuale presidente del consiglio UE, che i membri vogliono abbandonare “il semplice interesse individuale quando problemi comuni richiedono una strategia comune. Perché non siamo entro l’Unione Europea per competere, ma per completare l’uno il lavoro dell’altro”.

Se il linguaggio suona strano alle nostre orecchie americane, non c’è da stupirsi. La nostra società ipercompetitiva, il nostro crudo giostrare per il vantaggio politico o economico, la nostra pervasiva mentalità vincitore-perdente, il credere di essere la nazione unta dal Signore che ha sempre ragione nelle questioni mondiali, è fuori tono in un secolo dove un’attenta collaborazione può offrire grandi vantaggi a nazioni, regioni, e anche ai singoli individui.

L’Europa, come noi, ha alcuni vistosi difetti: proclama il valore della diversità ma spesso esprime intolleranza verso gli immigranti, ad esempio. Ma gli ideali, il potere, la spinta di questa nuova potenza mondiale meritano il nostro rispetto. E la nostra attenzione.

Nota: qui il testo originale al sito del Washington Post Writers Group (f.b.)

Titolo originale: Little Italy: Why a casino that looks like a Tuscan Village is one of South Africa's most democratic public spaces – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Ho sentito parlare per la prima volta di Montecasino a una festa di espatriati che altrimenti sarebbe stata parecchio noiosa, a Lomé in Togo, la piccola città dell’Africa occidentale dove vivo. La mia fonte era una signora sudafricana piuttosto alta sui cinquanta di nome Ebeth (diminutivo di Elizabeth, come ci spiegava, nello stesso modo in cui si dice Joburg per Johannesburg). Suo marito era un geologo. Entrambi erano appassionati di bird-watching: insomma sembravano presi direttamente da un film. Me la potevo immaginare sulla veranda con vista su un grande lago, col cameriere in giacca bianca occupato a tenere a distanza gli ippopotami.

”Dovete assolutamente venire a Joburg” ci diceva Ebeth, facendolo suonare più come un rimprovero che un invito. “Hanno appena aperto una nuova meravigliosa zona commerciale. È piena di caffè e piazzette, tutta fatta come l’Italia, e sul soffitto c’è proiettato un cielo artificiale, così che sembra di passeggiare la sera in un villaggio toscano.

Non era esattamente quello che mi aspettavo, ma era parecchio più strano, e forse più interessante. Dopotutto esiste una lunga tradizione di tentativi per ricreare nostalgici paesaggi europei di fantasia in Africa. Evelyn Waugh ha scritto che durante il suo viaggio in Kenya del 1931, chiunque incontrasse sembrava voler tentare di ricreare lo scomparso clima della campagna nobiliare inglese, con le tribù locali arruolate a recitare la parte dei contadini.

Waugh, in quanto Waugh, considerava questo stile di vita perfettamente accettabile, ma non notava quanto fosse assurdo essere interrotti nel bel mezzo del rito del tè sul prato da una donna Kikuyu nuda che chiedeva medicine. E nonostante questo tipo di assurdità possa apparire esotica, dovrebbe essere piuttosto familiare agli americani. Non è tanto diverso dalla lattaia della Williamsburg coloniale con l’accento da mall-girl. Pensiamo all’ironia e alla decontestualizzazione come caratteri tipici del ventesimo secolo, ma erano forse meno presenti nel diciannovesimo? Prendete un’idea tipica del genere Las Vegas come Montecasino (il centro commerciale e casa da gioco a tema toscano di cui mi parlava Ebeth) e paracadutatelo in Sudafrica. Non sembra uno sviluppo naturale delle magioni in stile inglese dei coloni rhodesiani, o anche delle fattorie olandesi con gli abbaini dei primi coltivatori del Capo?

Qualche mese più tardi, a un convegno di urbanistica a Lagos, ho proposto questa idea a Lindsay Bremner, direttore del dipartimento di architettura alla University of the Witwatersrand di Johannesburg. Non era d’accordo. “Non credo che esista particolare continuità fra queste fantasie originarie e Montecasino” mi ha risposto. Bremner colloca Montecasino in un contesto diverso, ed egualmente curioso. A quanto pare, non si tratta affatto dell’unico insediamento a tema toscano della Joburg contemporanea. Negli ultimi dieci anni, i quartieri di tipo gated-community fatti di “ville toscane” sono spuntati in tutti i suburbi che si estendono a nord del centro. Hanno nomi come Via Reggio e Villa Toscana. Le pubblicità di queste residenze invadono le pagine immobiliari dei giornali locali, invogliando i potenziali compratori con promesse di “giardini privati a corte in stile fiorentino” e invitandoli a “vivere la dolce vita [in italo-felliniano nel testo]”. Bremner vede questi insediamenti come fantasia consolatoria per il ceto medio bianco: una fuga estetizzante da una società razzialmente frammentata dal mutamento politico e sociale, e da un tasso di criminalità altissimo. Il saggio che ha presentato a Lagos descrive come l’Italia sia diventata la metafora favorita nel Sudafrica contemporaneo, per “fingere di stare altrove”, abitare “un’illusione storica liberandosi del peso di agire al suo interno”.

Tutto questo mi faceva sembrare Johannesburg sempre più interessante, e alla fine mi decisi a visitarla. La signora Bremner gentilmente si offrì volontaria per farmi da guida e mostrarmi quello di cui ci aveva parlato. “Le prima case in stile italiano che mi ricordo di aver visto erano a un’esposizione nel 1990”, mi raccontò mentre eravamo fermi al semaforo in uno dei più vecchi sobborghi di Joburg. “Eravamo al massimo della tensione politica. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo”. Per tutti gli anni ’90, mentre i negoziati per il futuro del paese andavano avanti con fatica, si minacciò quasi una guerra civile fra i partiti neri sudafricani e il governo bianco, e anche fra partiti neri rivali. Dopo la transizione verso una democrazia multirazziale nel 1994, la violenza da strada cresciuta nella lotta politica si orientò alle rapine, e il tasso di criminalità andò alle stelle. Il ceto medio abbandonò il centro città verso quartieri recintati, e gli affari lasciarono downtown.

Gli effetti su Johannesburg furono simili allo svuotamento di molte città americane dopo le battaglie per i diritti civili degli anni ‘70. Il suo centro simile a quello di Chicago ora è una città fantasma dopo l’imbrunire, controllata da migliaia di telecamere della polizia. Restano parecchi uffici centrali delle grandi imprese, ma altri edifici sono stati abbandonati. In maggio, quando presero fuoco alcuni piani di un grattacielo da uffici in disuso, si scoprì che ci vivevano centinaia di famiglie povere. Probabilmente pagavano l’affitto (a bande che hanno il controllo sui diritti di occupazione).

Bremner mi portò a un insediamento commerciale di tipo edge-city che aveva preso il posto del centro in decadenza. Costruita nei primi anni ‘90, Sandton Square è organizzata attorno a una piazza su cui si affacciano dei caffè, completa di fontana, con l’elemento di attrazione principale nel Michelangelo Hotel, il più costoso della città. Lo stile dell’edificio appare familiare a chiunque sia sopravvissuto aglia nni di Donald Trump: trionfo di post-modernismo con accenti mediterranei: colonne, portici, mosaici sparsi.

Contemporaneamente, nei sobborghi residenziali, le vecchie case in stile inglese di campagna stanno cedendo il passo ad abitazioni cittadine sul modello della villa toscana, organizzate in complessi chiusi da cancelli di ferro e filo spinato. In uno di questi, chiamato Verona, abbiamo incontrato il costruttore, la bionda vaporosa Donna Lee, che controllava i tocchi finali. Sembrava uscita da un manifesto pubblicitario sul sogno della Toscana sudafricana. Si è dichiarata, come il marito, “pazza per l’Italia”, dove vanno di frequente in vacanza; hanno la cantina piena di vini italiani, e nel garage il marito ha una Ferrari. Ogni villa, a Verona, ha un nome diverso. Lee abita a Villa Bellissima; per gli altri clienti resta al massimo Villa Piccolo.

Infine, sono andato a vedere Montecasino. È grosso e strano in modo impressionante: la “tematizzazione”, come si usa dire nel mondo dei complessi per il tempo libero, è più meticolosa che al Bellagio di Las Vegas. Le torri sulla cima della collina e le merlature che salutano gli automobilisti di passaggio sono incredibilmente convincenti, soprattutto nella luce del pomeriggio sull’altopiano. Dentro il complesso, una ragnatela di strade selciate si inoltra fra ville sui toni del rosa e del giallo. Gli angoli degli edifici sono consumati, come dal passaggio ripetuto di macchine italiane per la pulizia stradale; i marciapiedi sono fatti di calchi di plastica di vere pietre da pavimentazione toscane. Un’automobile Fiat d’annata, coperta di finte contravvenzioni per divieto di sosta, se ne sta di fianco a un canale. Sopra, il sedicente cielo brilla color acquamarina, con il rosa sparpagliato di prime nuvole serali.

Ma la cosa più impressionante di Montecasino è che i frequentatori non sono in stragrande maggioranza bianchi. La maggioranza, a dire il vero, ma non la stragrande maggioranza. Possono non avere l’ossessione dell’Italia come la signora Lee, ma i frequentatori neri sembrano apprezzare le architetture. “Sono edifici molto speciali, molto diversi, molto belli” mi racconta Frans Mudzugu, un disoccupato di 28 anni. “Puoi andare da qualunque parte, e non troverai un altro edificio così”. Mudzugu e il suo amico Alson Mukwewi, anche lui di 28 anni e disoccupato, amano venire a Montecasino il pomeriggio; qualche volta giocano, qualche volta guardano solo gli altri giocare. Stanno seduti sotto gli alberi finti attorno alla fontana centrale, chiacchierando in lingua Xhosa coi dipendenti, e guardando uomini d’affari del Qatar e turisti inglesi perdere i loro soldi

È una scena assurda almeno quanto la donna nuda di Waugh al tè, ma con una differenza: né i sudafricani bianchi, né quelli neri, hanno niente da spartire con la Toscana. Nessuno di loro è quello che sta bevendo il tè, sono tutti la donna nuda sul prato. La storia dell’architettura in Sud Africa trabocca di stili europei trapiantati: l’eclettismo imperiale britannico del XIX secolo di Sir Herbert Baker; il brutalismo fascista degli anni ’30 del Voortrekker Monument a Pretoria; i grattacieli international-style di Johannesburg negli anni ‘50. Ma queste architetture si prendevano sul serio; tentavano davvero di imporre norme europee agli spazi sudafricani. Montecasino non impone niente a nessuno. È totalmente, esuberantemente falso. E come a Las Vegas, è proprio questa falsità ad assicurare la sua popolarità egalitaria. Neri e bianchi si sentono egualmente a casa in questa rassicurante Toscana contraffatta. Il prezzo della democrazia, pare, è l’inautenticità.

Sono finito a far colazione al Palazzo Intercontinental Hotel di Montecasino, con Bremner e il suo progettista, l’architetto Ed Batley, che si conoscono bene. L’architetto e il critico che considera Montecasino una fantasia politica reazionaria, vanno d’accordo sulla maggior parte delle questioni. In particolare, concordano sul fatto che c’è stato un cambiamento di clima ultimamente, in Sduafrica. “La gente si sente a suo agio con la società interraziale ora” dice Batley. “Ci sono vibrazioni positive. Nessuno parla più di emigrare. Non riesco a ricordarmi un altro momento in cui la gente si è sentita più fiera di essere sudafricana”. Allo stesso tempo la tendenza dell’architettura è di spostarsi dal revival toscano post-modernista, verso il neo-modernismo contemporaneo. Batley trova sollievo in questo: per inclinazione lui è un modernista, e nonostante sia fiero del lavoro fatto a Montecasino, preferirebbe fare qualcosa che guardi un po’ più avanti

”C’è un abbandono della logica della fuga, ultimamente” continua Bremner. “Ora ci ispiriamo ad altri eroi, i neo-modernisti francesi e olandesi. Ma è ancora in parte un tentativo di essere europei. Forse non è tanto diverso”. Si guarda attorno, agli arredi dell’hotel: “Trovo ancora l’estetica moderna più piacevole di questa robaccia”.

Nota: qui il testo originale al sito di Metropolis, e una nota su Montecasino focalizzata sul solo gioco d’azzardo, dall’Economist . Qui infine il link diretto a Montecasino (f.b.)

Titolo originale: The impact of Levittown on Local Government– traduzione di Fabrizio Bottini (parte seconda)

Traffico, parcheggi, trasporti

Levittown ha avuto effetti rilevanti sui parcheggi dei villaggi vicini, al punto che le strutture esistenti sono sovraccariche. Dato che ci sono pochi servizi di autobus nell’area, i pendolari utilizzano l’automobile, e la parcheggiano per tutta la giornata nei villaggi circostanti. Le esperienze di parchimetri in due località indicano che così si mantengono liberi gli spazi in alcune zone commerciali, ma che il problema del parcheggio si sposta verso le strade residenziali retrostanti i tratti a parchimetro.

Non sembra essere in vista alcuna soluzione a breve termine, dato che le municipalità sono riluttanti a spendere denaro per aree a parcheggio. Sono stati proposti distretti speciali, ma è sorta la questione della responsabilità, e i distretti sono stati respinti con voto contrario dai residenti dei villaggi. Il problema se i parcheggi siano responsabilità delle autorità municipali o di villaggio resta senza risposta. È possibile che i villaggi possano fornire spazi autofinanziati dalle tariffe di parcheggio, ma ciò non è stato fatto.

Il problema indica una debolezza nella pianificazione sia da parte delle municipalità che della contea, ed è dovuto in parte alla divisione di circoscrizioni riguardo allo zoning. Levittown è direttamente responsabile di gran parte di questo problema, e la ditta Levitt non ha fatto nulla per la sua soluzione, né le agenzie di governo sono state tanto lungimiranti o potenti abbastanza per fare qualcosa riguardo al grande afflusso di veicoli.

In materia di trasporti, Levittown ha mostrato il grande bisogno di un sistema di autobus a scala di contea. C’è solo una linea di autobus in zona, e i viaggi sono sia poco frequenti che costosi. A causa di ciò, si devono usare molte automobili. In più la Long Island Railroad, il mezzo più efficiente di spostamento nell’area (nonostante quello che dicono i pendolari), non tocca Levittown. I trasporti pubblici ora disponibili non sono efficienti, sono scoordinati e inadeguati. Levittown ha mostrato come ci sia un grande bisogno di trasporti, sia sull’asse nord-sud che su quello est-ovest. Non c’è dubbio che il nuovo insediamento abbia considerevolmente caricato le strutture esistenti.

Lavori pubblici

Il compito di fornire Levittown con tutte le opere pubbliche e servizi, è affidato alle note strutture dei distretti speciali, e ad alcuni uffici ordinari della pubblica amministrazione. Le agenzie statali e di contea non sono direttamente interessate alla fornitura di questi servizi nell’area immediata di Levittown.

L’illuminazione stradale è fornita dal distretto speciale apposito. Tale distretto ha un contratto con la Long Island Lighting Company per la fornitura e manutenzione delle strutture di illuminazione stradale. Le relative tariffe sono esatte tramite prelievi sulla tassazione delle proprietà immobiliari entro il distretto. La struttura, in questo caso, opera esclusivamente in senso amministrativo. I contratti per i servizi della compagnia per l’illuminazione sono negoziati dagli uffici municipali interessati.

Al momento attuale la fornitura d’acqua è effettuata tramite distretti speciali per le acque, di cui il più importante è il Levittown Water District, attivato nel 1949. Le spese operative e di capitale sono caricate sulla valutazione immobiliare all’interno del distretto. Prima che fosse stabilito il Levittown Water District, la ditta Levitt provvedeva al servizio acqua senza costi diretti per i residenti. La municipalità di Hempstead aveva richiesto ai Levitt di costruire pozzi e strutture di pompaggio, oltre alle reti di distribuzione. Ai termini di un accordo con l’autorità comunale la Levitt & Sons aveva consegnato a titolo gratuito il sistema distributivo alla città. Il comune si era impegnato ad acquistare i sistemi di pozzi e pompaggio ad un ammontare pari al 50 per cento del costo di costruzione sostenuto.

Non esiste a Levittown impianto di fognatura o smaltimento. Lo smaltimento avviene attraverso pozzi singoli presso le abitazioni, nonostante si prospetti un sistema di fogne. Visto che gli abitanti devono ottenere la propria acqua potabile dai pozzi, il gran numero di impianti di smaltimento individuali solleva un problema di possibile saturazione dei terreni. Il Nassau County Department of Public Health ritiene che questo pericolo sia più di una possibilità. L’ufficio Lavori Pubblici ritiene invece che non ci sia pericolo. Non è stata trovata alcuna prova di inquinamento delle acque dovuto a infiltrazioni nel terreno. La County Planning Commission ha richiesto che i pozzi perdenti siano collocati di fronte alle abitazioni, per facilitare l’allaccio con le linee fognarie al momento della eventuale costruzione.

La rimozione dei rifiuti è effettuata da operatori privati a contratto, e non attraverso distretti speciali. Nell’ultimo anno il problema di gestione dei rifiuti è stato piuttosto grave. Le ditte private hanno utilizzato le strutture di smaltimento a Oyster Bay, ma quanto gli impianti sono stati sovra-tassati, i gestori hanno rifiutato di accettare materiali dalle aree esterne al territorio comunale. Sono stati raggiunti accordi con l’ufficio dell’Ingegnere capo di Hempstead, per scaricare la spazzatura in una cava, fino al completamento dell’impianto di Hempstead, che è ora in costruzione. Le imprese privato di rimozione dei rifiuti si lamentano perché i propri bilanci sono peggiorati dalle molte bollette non pagate, in particolare nella zona di case in affitto di Levittown.

Le strade interne dell’insediamento sono di tipo approvato, e sono state consegnate gratuitamente alla città. Dato che si tratta di vie nuove, non ci sono stati seri problemi di manutenzione. Non ci sono stati sollevamenti del manto stradale. C’è stato lavoro di manutenzione quotidiana, e qualche allargamento di strade che esistevano prima della costruzione di Levittown. Lo Hempstead Highway Department ha un piccolo gruppo di lavoro operante a Levittown per manutenzioni minori. Le riparazioni principali e la pulizia stradale sono responsabilità dell’ufficio centrale. Le strade costruite dai Levitt a Oyster Bay sono state solo recentemente consegnate a titolo gratuito alla città, e sinora non ci sono state trasformazioni degli uffici municipali responsabili. C’è stata una notevole domanda di riparazioni e ricostruzioni nelle strade di contea e statali nella zona circostante Levittown. Dopo qualche scaricabarile, ora si sta provvedendo a riparazioni e allargamenti.

Il fatto di prescrivere che le strade e altre strutture principali fossero realizzate dai costruttori e consegnate alla città, si sono ridotte di molto le spese dirette in opere pubbliche. Ora tutti i costruttori devono realizzare le strade e i sistemi di distribuzione idrica, da consegnare gratuitamente alle municipalità. Ai costruttori viene rimborsato il 50 per cento dei costi di realizzazione degli impianti per l’acqua. Le opere devono essere approvate dall’ufficio dell’Ingegnere Capo di Hempstead.

Ci sono segni del fatto che i residenti di Levittown ricevano un migliore servizio in termini di opere pubbliche, di quanto non avvenga in altre zone della municipalità di Hempstead. Non è chiaro se questo sia dovuto a considerazioni politiche. La struttura compatta di Levittown certamente rende efficace la domanda. La maggior parte dei macchinari acquistati dall’ufficio strade di Hempstead è utilizzato a Levittown. Questo può essere dovuto al fatto che lì le strade sono più nuove, e i macchinari moderni possono essere usati al meglio. L’equipaggiamento per la pulizia stradale usato a Levittown, per esempio, non può essere usato per le strade più vecchie. Non ci sono indicazioni che le strade di Levittown ricevano più attenzione pubblica di quanta ne abbiano vie simili in altre zone.

È degno di nota il ruolo avuto dalla ditta Levitt nella realizzazione di opere pubbliche. Le sue grosse dimensioni l’hanno posta in una posizione tale da attivare un processo di scambio con gli enti pubblici. In generale, la Levitt è andata oltre il proprio ruolo cooperando alla fornitura di servizi in un modo che altri costruttori non avrebbero saputo o voluto.

Strutture per il tempo libero e parchi

L’impatto di Levittown per quanto riguarda il tempo libero si può misurare al meglio nella sua area immediata. L’effetto del nuovo insediamento sulle strutture offerte dalle cittadine di Hempstead e Oyster Bay e dalla Nassau County non può essere valutato con precisione a causa del generale aumento di popolazione a livello regionale.

Levittown è unica per composizione in classi di età. C’è una forte concentrazione di giovani adulti nei gruppi da 25 a 35 anni ed una egualmente alta concentrazione di bambini in età da 0 a 8 anni. È evidente che questa distribuzione demografica ha peso diretto sui tipi di strutture e programmi ricreativi di cui hanno necessità i residenti di Levittown.

Nel 1947 e 1948 la ditta Levitt ha costruito approssimativamente 6.000 abitazioni destinate all’affitto. Non sono state realizzate abitazioni Levitt destinate ad essere vendute fino al 1949, e solo in questa data successiva la Levitt & Sons Inc. ha iniziato a costruire strutture per il tempo libero. Erano stati destinati spazi a questo uso nelle zone d’affitto, e furono completati nel 1949.

Ora a Levittown ci sono dieci parchi e nove piscine, completati o in corso di realizzazione. Due dei parchi e tre delle piscine solo localizzati entro i confini di Oyster Bay. Il resto nella circoscrizione di Hempstead. Un parco contiene un campo da baseball con tribune fisse, un altro un campo da soft-ball. Campi da gioco di varie dimensioni sono collocati in ciascun parco e dentro ad ogni spazio verde di vicinato. Piste da bowling si trovano in due degli spazi verdi vicinali. Queste piste, insieme ad altre strutture negli stessi spazi, sono affittate a imprese private per la gestione.

Dopo che la Levitt aveva completato le strutture per il tempo libero entro la circoscrizione di Hempstead, chiese agli uffici municipali di istituire un ufficio parchi di area a cui affidare la gestione dei parchi, piscine, campi da gioco. Come risultato, nell’agosto 1950 nacque il Levittown Park District, attivato dallo Hampstead Town Board. Mentre vengono stese queste note, solo le piscine adiacenti ai campi da gioco sono state date in gestione al Park District. Le piscine naturalmente rappresentano una grossa spesa di gestione, rispetto a quanto avviene per parchi e capi da gioco, che sono stati pesi in carico per primi. Per le altre strutture ci si aspetta un’acquisizione da parte del distretto parchi nel prossimo futuro. Nessuna delle strutture per il tempo libero di Levittown entro la circoscrizione di Oyster Bay, sinora, è stata ceduta al comune. Questi impianti si trovano nelle zone più nuove di Levittown e al momento attuale non sono ancora state completate.

Uno dei più ambiziosi progetti per il tempo libero intrapresi dalla Levitt è la sala comune attualmente in corso di costruzione. Il fatto che l’edificio sia localizzato entro i confini di Oyster Bay pone un difficile problema amministrativo. La ditta Levitt, volendo disfarsi dal carico delle spese correnti di gestione e manutenzione, vuole cedere l’edificio ai residenti di Levittown. Ma non esiste un distretto speciale adatto che copra tutto l’insediamento. I due principali distretti per i parchi (Levittown e Hicksville) sono separati dalla linea di confine Hempstead-Oyster Bay. Un distretto congiunto sarebbe legalmente fattibile, ma una proposta del genere incontrerebbe l’opposizione dei funzionari di Oyster Bay, i quali escludono che Levittown possa essere considerata un’entità definibile.

Qualunque discorso sulle strutture per il tempo libero, deve tener conto del gran numero di apparecchi televisivi installati dalla Levitt Corporation. Durante i due anni di picco delle costruzioni residenziali (1949-1950) gli apparecchi televisivi facevano parte dei servizi standard delle case.

Non possiamo dire che le strutture ricreative a Levittown siano inadeguate. Quelle attuali sembrano sufficienti, per famiglie con figli piccoli. Comunque, quando i bambini cresceranno e saranno più liberi da uno stretto controllo dei genitori, i piccoli campi da gioco e parchi saranno probabilmente inadatti; il tempo libero per adolescenti e adulti sarà il problema più pressante.

Va sottolineato che i residenti di Levittown beneficiano delle strutture realizzate dalla Levitt. Essi non le hanno chieste, né ora ne chiedono di nuove. Il Levittown Park District è stato creato si richiesta della ditta Levitt, non dei residenti. Allos tesso modo, non c’è stata alcuna visibile domanda da parte dei cittadini per la sala comune, che è realizzata su iniziativa del costruttore.

Sanità pubblica

Lo studio sull’influenza di Levittown nei confronti dei servizi sanitari pubblici è stato condotto esaminando: 1) la natura dei problemi sanitari di Levittown; 2) il tipo e quantità di strutture di servizio sanitarie e personale fornito dalle agenzie pubbliche, prima e successivamente alla costruzione di Levittown, e ultimo 3) i programmi generali correlati ai bisogni di Levittown.

I principali problemi sanitari si devono in parte alla composizione demografica della comunità, in parte come risultato della rapida crescita di popolazione in un’area che prima richiedeva pochi servizi sanitari. Il Nassau County Department of Health è la struttura locale responsabile per la salute dei residenti anche nella zona di Levittown.

Una delle due divisioni del Dipartimento più toccate è stata la Nursing Division. Il numero di visite domiciliari fatte dalle infermiere è più che raddoppiato dal 1945 e il personale infermieristico per l’area di Levittown è cresciuto da una a quattro unità. Il carico di assistenza riguarda gli aspetti sanitari della maternità e dell’infanzia prescolare, a causa dell’alto tasso di nascite nell’area. Hanno dovuto essere aperti ambulatori, e c’è ancora bisogno di centri per la salute del bambino.

L’epidemia di poliomielite del 1949-1950 ha fatto aumentare la richiesta di tempo impiegato da assistenza infermieristica. I programmi, a Levittown, differiscono da quelli di altre zone del paese, dove l’enfasi si pone sull’assistenza agli anziani e convalescenti.

L’altra sezione del Dipartimento sanitario di contea che richiede un ampliamento nei servizi e nel personale, è la Division of Sanitation. La carenza nelle fognature e nello smaltimento dei rifiuti, di cui si è riferito sopra, pone una grossa minaccia di ordine sanitario. L’aumento del carico di lavoro per gli ispettori sanitari ha richiesto l’assunzione di personale aggiuntivo. I nuovi controlli attivati riguardano la fornitura d’acqua, le piscine, e i numerosi nuovi ristoranti e negozi nelle vicinanze di Levittown.

Il Meadowbrook Hospital, e i distretti speciali di contea, sono di grande utilità nel segmentare e distribuire l’impatto finanziario di questo grosso insediamento residenziale. I carichi di costi aggiunti per nuove scuole, fognature, campi da gioco e altri servizi localizzati, sono limitati ai nuovi gruppi che richiedono i servizi aggiuntivi. Lo strumento del distretto speciale probabilmente è utile, anche, per il suo effetto di controllo; le persone che richiedono servizi aggiunti hanno di fronte una richiesta di tasse più alta, a ricordare concretamente come più servizi significhi più spese pubbliche.

Effetti finanziari e programmi di modernizzazione delle entrate

In un’epoca precedente, quando la tassa sugli immobili aveva una relazione più diretta rispetto alle entrate pubbliche totali, era senza dubbio possibile misurare l’impatto finanziario in modo piuttosto preciso. Oggi questo obiettivo è più difficile, quando una parte crescente della struttura delle entrate dipende dal sostegno di sovvenzioni e tasse speciali. I programmi di sovvenzioni statali per la salute, l’istruzione e altre attività, promettono di inviare grosse somme nelle casse degli enti pubblici nell’area di Levittown (il primo di questi incrementati sussidi attende la determinazione dell’importo in base alle cifre del censimento 1950). I versamenti per le licenze edilizie, le ispezioni, i permessi di lavoro, non sono sufficienti per essere considerati un ritorno economico congruo per un insediamento delle dimensioni di Levittown.

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Aprirà i battenti nel marzo 2007 il parco divertimenti di Roma-Valmontone (40 chilometri dalla capitale) la megastruttura ideata e finanziata da Alfa Park (la Srl costituita per il 55% dal gruppo Draco, per il 25% da Gruppo Hopa, per il 16% da Zorzafin Srl e per il 4% da Maxinvest Spa, con un patrimonio netto di 50 milioni).

Il parco rappresenta la seconda tappa del polo turistico integrato di Valmontone, un intervento nato sulla base di un accordo di programma firmato con le istituzioni locali nel 2001, che prevede un investimento complessivo di 500 milioni di euro, su un'area di 200 ettari.

Gli investimenti previsti per il parco a tema ammontano a 300 milioni, di cui 200 nella prima fase ripartiti tra interventi di urbanizzazione e parcheggi (20 milioni), opere civili (45), tematizzazioni (35 milioni), impianti (30), attrazioni (65), start up (cinque).

Il progetto esecutivo prevede la realizzazione, sui 770mila metri quadrati del parco, di quarantanove attrazioni complessive, cinque teatri, cinque ristoranti, sette self service. Prevista, tra l'altro, anche la realizzazione di dieci sale di intrattenimento, tredici bar, ventiquattro negozi e due cinema. Dei 70 ettari, 25 circa saranno adibiti a verde e parcheggio per circa seimila posti auto, mentre le superfici coperte ammonteranno a 40mila metri quadrati.

Secondo Giuseppe Taini, amministratore delegato di Alfa Park Srl «il giro di affari intorno al megaparco frutterà cento milioni l'anno tra ingressi, ristorazione, negozi e giochi».

All'interno dell'area sarà avviato anche un progetto sperimentale per la realizzazione di una centrale-laboratorio di produzione idrogeno da fonti rinnovabili per l'alimentazione del polo turistico.

Nella stessa area ha già aperto i battenti, con un investimento, in corso, di 100 milioni, l'outlet factory store previsto dallo stesso polo turistico integrato, che si completerà a marzo, con una seconda inaugurazione.

Il master plan del polo turistico integrato prevede inoltre, a partire, dal 2007, la realizzazione di strutture turistico-alberghiere e congressuali (60 milioni di investimenti previsti). A completare il piano complessivo da 500 milioni, i 40 milioni stimati per le infrastrutture.

Sempre a Valmontone sta per aprire i battenti (l'inaugurazione è prevista per il mese di maggio 2005) anche il megastore della pubblica amministrazione, una sorta di sportello unico, allestito all'interno della stazione ferroviaria, dove sarà possibile espletare ogni tipo di pratica amministrativa.

Lo spazio, che il Comune ha inserito nel piano triennale delle opere pubbliche con un bilancio di circa 800mila euro, sarà dotato anche di un parcheggio multipiano (in fase avanzata di realizzazione) con decine di posti macchina, spazi di sosta per gli autobus pubblici e per gli esercizi commerciali, di giardini pubblici.

Il progetto prevede inoltre la realizzazione di trenta negozi e sportelli dell'amministrazione pubblica centrale e locale, tra cui uno sportello anagrafe comprensoriale collegata con gli uffici anagrafe del territorio, punti informativi della questura, degli uffici delle imposte, dell'Inps e delle Poste, collegati fra loro da un sistema informatico.

Lo spazio sarà inserito all'interno della stazione ferroviaria della cittadina, oggetto di radicali interventi infrastrutturali quantificati in 15 miliardi di vecchie lire.

Nota di premessa : Il testo che segue non è in versione integrale: mancano i paragrafi sulla demografia, i mezzi di trasporto circolanti urbani e non, l'economia e altro . Oltre ai passi segnalati di seguito con "[...]" omessi, mancano tutte le tabelle, tranne una, anche se credo bastino i riferimenti nel testo a dare almeno un'idea generale dei loro contenuti. Sono state omesse per motivi di tempo anche le (poche) note bibliografiche a pie' di pagina. Le fotografie a colori inserite nel testo a titolo soprattutto "ornamentale" sono mie, e rappresentano tratti urbani e suburbani di una delle componenti base del "corridoio padano": la Statale 11 Padana Superiore. Per sapere quale tratto di strada raffigurano, basta cliccare sull'immagine.

Fabrizio Bottini

l. Generalità del “Corridoio Padano” ed altri esempi similari nel mondo

Se da Torino a Venezia si traccia una linea ideale, corrente mediamente fra il tracciato della ferrovia Torino-Milano-Venezia, quello dell’autostrada e quello della Strada Statale n. 11 Padana Superiore, se si considera un’area racchiusa entro una fascia larga circa 40 km, il cui asse sia rappresentato dalla linea ideale sopraindicata, se a questa fascia si aggiunge, fra Ticino e Adda, una espansione a nord di altri 20 km ed infine si racchiude l’area, alle due estremità di Torino e di Venezia, con linee aventi, grosso modo, andamento semicircolare, con raggio di 20 km e centro rispettiva mente in piazza Castello a Torino e Piazza S. Marco a Venezia, si delinea un territorio estendentesi in lunghezza per quasi 400 km da Ovest a Est, corrente lievemente più a nord del 45° parallelo, avente caratteristiche singolari ed una importanza geo-demografico-economica eccezionalissima; denomineremo tale territorio metropolitano Corridoio Padano, per analogia con altre aree ad elevata concentrazione demografica aventi pure una distribuzione lineare.

Come indicato nelle tabelle 1 e 2, riassumenti l’ampiezza demografica (cioè la distribuzione dei comuni in funzione del numero degli abitanti) del Corridoio Padano e nelle tabelle 3 e 4 (vedremo nei capitoli successivi i criteri con cui queste ed altre tabelle sono state elaborate), nonché nelle tavole I e II fuori testo, si rileva anzitutto che questa vera e propria megalopoli padana interessa direttamente e sensibilmente le province piemontesi di Torino, Novara, Vercelli, quelle lombarde di Milano, Varese, Como, Brescia, Bergamo e quelle venete di Verona, Vicenza, Padova e Venezia; interessa in minor misura le province lombarde di Pavia, Cremona e Mantova e la provincia veneta di Treviso, e infine riguarda solo marginalmente ed in misura esiguissima le province piemontesi di Asti e di Alessandria.

Dalle tabelle riassuntive 3 e 4 si rileva altresì che la popolazione complessiva residente nella megalopoli lineare padana al 31-12-1968 era di ben 11.140.279 abitanti, distribuiti su 20.022,2 kmq di superficie che, al netto delle aree lagunari venete, si riducono a 19.497,1 kmq.

La densità di popolazione pertanto, riferita alla superficie emersa, risultava al 31-12-1968 mediamente di 571 abitanti per kmq, con un valore massimo di oltre 1.500 abitanti per kmq, per la parte compresa nella provincia di Milano, valori fra 700 e 800 abitanti per kmq, per le parti comprese nelle province di Torino, Varese, Como e Venezia (terre emerse), e per il resto (salvo Mantova, Vercelli e le due zone marginali di Asti e Alessandria) valori di almeno 250 abitanti per kmq. Se in particolare si tiene presente che una certa parte del Corridoio Padano, appartenente alle province di Torino, Novara, Vercelli, Como, Varese, Verona, Vicenza, e soprattutto Bergamo e Brescia, comprende anche zone orograficamente accidentate, per cui in tali zone l’area realmente utilizzabile per gli insediamenti umani è assai minore di quella complessiva delle circoscrizioni comunali prese in esame, le densità, risultanti statisticamente, possono considerarsi apparenti e mascherare, per talune province a densità media minore, delle densità reali ben più elevate.

Senza entrare in ulteriori particolari, che saranno oggetto dei paragrafi successivi, in rapporto al complesso delle tre regioni entro cui si estende la Megalopoli Lineare Padana (Piemonte, Lombardia e Veneto) e in rapporto all’intera nazione, l’area del Corridoio Padano (riferita alle terre emerse e cioè esclusa la zona lagunare veneta, che però statisticamente figura compresa, a differenza di quella lacuale, nei comprensori dei relativi comuni) costituisce rispettivamente il 28,8 e il 6,5%; la popolazione residente è invece (al 31-12-1968) il 67,1% e il 20,7%.

Significativa la dinamica demografica che pel momento ci limitiamo ad indicare nel suo assieme. Dal censimento 1961 al 31-12-1968 la popolazione è aumentata del 14%, contro il 9,46% delle tre regioni Piemonte, Lombardia, Veneto e il 6,06% della intera Nazione. Per contro l’aumento della popolazione residente nei comuni delle tre regioni, esclusi dal Corridoio Padano, è stato, dal 1961 al 1968, solo dell’1,2%. Se poi facciamo riferimento agli anni più recenti, l’aumento demografico assoluto del Corridoio Padano (mediamente di circa 180.000 abitanti all’anno); ha raggiunto i 2/3 di quello relativo all’intera nazione e praticamente costituisce la quasi totalità dell’aumento demografico delle tre regioni.

Per quanto riguarda il reddito lordo totale, nell’area del Corridoio Padano si concentra quasi il 30 per cento del prodotto nazionale.

Premessi questi dati fondamentali che, come si è detto, verranno successivamente illustrati, vediamo ora di stabilire qualche elemento di raffronto con altre grandi aree metropolitane similari esistenti.

In Europa concentrazioni demografiche con caratteristiche tipicamente metropolitane, estendentisi linearmente per circa 400 km, praticamente non esistono.

Nel mondo invece sono ben noti il Corridoio Nord-Est degli Stati Uniti e la Megalopoli Lineare del Tokaido in Giappone che, pur essendo di dimensioni maggiori del Corridoio Padano, presentano notevoli analogie.

Riassumiamone le caratteristiche.

Il Corridoio Nord-Est degli Stati Uniti è costituito da una fascia relativamente stretta (in taluni punti non più larga di 50 km), che si svolge lungo un allineamento Nord-Est Sud-Ovest, praticamente parallelo alla costa atlantica, fra Boston, ubicata poco più a nord del 42° parallelo e all’incirca sul 71° meridiano, e Washington, sul 39° parallelo e ad ovest del 75° meridiano. La distanza in linea d’aria fra i centri delle due città terminali è di 625 km; le vie terrestri correnti fra i due suddetti centri e colleganti anche i vari grossi insediamenti abitati intermedi (autostrada e ferrovia) si sviluppano per circa 700 km.

Il litorale lungo il quale si svolge questa fascia metropolitana è dotato di numerose attrezzatissime installazioni portuali, tutte aventi facile accesso dall’Oceano Atlantico.

I centri urbani, che si sono sviluppati lungo questa fascia, costituiscono, salvo limitate interruzioni, una continuità abitata, cui giustamente si attribuisce la denominazione di megalopoli. È l’area degli Stati Uniti che presenta la più forte densità di popolazione, in quanto al suo interno trovansi concentrazioni urbane che raggiungono i 40.000 abitanti per kmq (del tutto inesistenti in Europa e possibili solo in America, per gli edifici eccezionalmente elevantisi in altezza).

La popolazione racchiusa nel Corridoio Statunitense, che ricopre solo l’1,6% della superficie totale della Nazione (all’incirca 175.000 kmq), è di oltre 40 milioni di persone, che si prevede, entro la fine del secolo, divenga di 70 milioni.

In questa megalopoli lineare si svolge il 50% dell’attività finanziaria dell’intera nazione, il 30% delle vendite all’ingrosso e il 20% della produzione industriale e praticamente la stessa percentuale del reddito totale lordo degli Stati Uniti.

La città di New York trovasi press’a poco in mezzo a questo asse di 650 km di lunghezza e, sebbene la sua regione metropolitana si estenda fino a 100 km dal suo centro, l’influenza di questo gigantesco agglomerato intermedio abbraccia l’intera area del corridoio.

Le zone comprese nel corridoio statunitense sono state divise in:

a) zone urbane di particolare concentrazione abitata ad elevata densità (oltre 4.000 abitanti per kmq), estendentisi solo per 2.000 kmq circa, con 15,4 milioni di abitanti;

b) zone urbane a media densità (da 400 a 4000), che coprono poco più di 12.000 kmq, con 14,6 milioni di abitanti;

c) zone suburbane (con densità compresa fra 40 e 400 abitanti per kmq, che si estendono per circa 52.000 kmq e raggruppano quasi 7 milioni di abitanti;

d) zone rurali (densità minore di 40 abitanti per kmq) con 2 milioni di abitanti, che circondano le precedenti e che si estendono nel resto del Corridoio.

Come vedesi, poco meno di 40 milioni di abitanti sono raggruppati nelle aree urbane e suburbane del corridoio statunitense, che coprono globalmente un’area di circa 66.000 kmq, sui 175.000 totali della megalopoli, con una densità media di 600 abitanti per kmq.

La Megalopoli Lineare del Tokaido si estende invece esattamente lungo il 35° parallelo fra Tokyo e Kobe, nell’isola di Konshu, la maggiore dell’Arcipelago Giapponese, ed essa pure collega una serie di grossi centri fra cui sussiste pressoché una continuità abitata. Come il corridoio statunitense molti centri della Megalopoli del Tokaido sono facilmente accessibili anche via mare, essendo importanti porti del litorale sud-orientale giapponese sull’Oceano Pacifico.

La distanza in linea d’aria fra i centri delle città estreme è di 450 km; le vie terrestri di comunicazione si sviluppano invece per quasi 600 km, collegando tutte le grosse località intermedie; (sei delle sette città giapponesi con più di 1 milione di abitanti sono situate lungo la megalopoli del Tokaido).

La popolazione totale compresa (al 1968) in questa gigantesca area urbana è di poco superiore ai 40 milioni di abitanti, all’incirca il 43% della popolazione totale della nazione, ed è in forte espansione demografica.

La superficie si aggira sui 60.000 kmq, per cui la densità media è di poco inferiore ai 700 abitanti per kmq, oltre due volte e mezzo la media dell’intera nazione. In quest’area è concentrata più della metà del reddito totale lordo dell’intero paese.

Per quanto riguarda le infrastrutture di trasporto a servizio delle due suddette megalopoli lineari, si ricorda che in quella statunitense, con un investimento di circa 2 miliardi di dollari, era stata ampliata la gigantesca autostrada corrente lungo tutta l’intera estensione fra Boston e Washington e con l’investimento di altri 2 miliardi di dollari erano state ampliate le infrastrutture aeroportuali.

Dimostratisi insufficienti tali interventi di fronte all’ingentissimo e sempre crescente traffico svolgentesi lungo l’asse del corridoio, recentemente l’attenzione dei politici si è rivolta all’ammodernamento dell’infrastruttura ferroviaria, il cui potenziamento, mediante un servizio frequentissimo e ad elevatissima velocità, pressoché a carattere metropolitano, dovrebbe decongestionare le attuali vie di comunicazione stradali ed aeree, al limite di saturazione e di difficile ulteriore potenziamento, ed in pari tempo con sentire nuove rapide, frequenti e comode relazioni fra i centri serviti.

Nel corridoio giapponese del Tokaido i servizi di trasporto interno dapprima erano disimpegnati per via aerea, per autostrada e con una ferrovia a doppio binario, inserita nel resto della rete giapponese a scartamento ridotto; in questi ultimi anni, come è noto, è stata costruita la ferrovia del Tokaido, vera e propria ferrovia metropolitana interregionale, a elevatissima velocità, di cui è previsto un ulteriore prolungamento oltre Osaka.

Si richiama infine l’attenzione sul fatto che mentre negli Stati Uniti la motorizzazione individuale è elevatissima (alla fine del 1968 circolavano circa 83 milioni di autovetture, rispetto ad una popolazione di 200 milioni di abitanti), assai modesta è invece la motorizzazione individuale giapponese; alla stessa data circolavano poco più di 5,2 milioni di autovetture, per un centinaio di milioni di abitanti.

Quale è la posizione del Corridoio Padano rispetto alle due massime Megalopoli del mondo, di cui ora abbiamo richiamato sommariamente le principali caratteristiche?

Per estensione territoriale il Corridoio Padano è circa 1/3 delle aree di maggior concentrazione demografica appartenenti alle due suddette megalopoli; poco meno ne è la consistenza demografica, mentre la densità media è pressoché la stessa, superando alla fine del 1968 i 570 abitanti per kmq, cioè pari a quella delle aree urbane e suburbane del corridoio statunitense e di poco inferiore alla densità media della megalopoli del Tokaido.

Economicamente, come meglio vedremo più avanti, il Corridoio Padano corrisponde ad 1/3 di quello giapponese e ad oltre un decimo di quello statunitense.


Zone Demografiche Corridoio Statunitense Corridoio Padano
Sup. (kmq) Ab. (milioni) % Sup. % Pop. Sup. (kmq) Ab. (milioni) % Sup. % Pop.

Urbana (oltre 400 ab/kmq) 14.250 30,0 8,2 78 5.900 8,71 30,3 78,2

Suburbana (40400 ab/kmq) 51.800 6,7 29,5 17 13.400 2,42 68,7 21,7

Rurale (meno di 40 ab/kmq) 109.400 2,0 62,3 5 0,200 0,01 1,0 0,1
175.450 38,7 100 100 19.500 11,14 100 100

2 .Caratteristiche geografiche del Corridoio Padano

Si è detto che la Megalopoli Lineare Padana è costituita da una fascia, compresa fra il 45° e il 46° parallelo corrente fra Torino e Venezia, larga all'incirca 40 km, salvo un breve tratto intermedio in cui è larga 60 chilometri.

La distanza in linea d'aria fra i centri delle città estreme è di 360 km; le comunicazioni terrestri (strada statale, autostrada e ferrovia) hanno invece uno sviluppo alquanto superiore ai 400 km.

Fra il Ticino e l’Adda questa fascia, ad andamento lievemente arcuato verso settentrione, si estende a nord per altri 20 km, fino al confine svizzero, così da comprendere un’area urbanizzata avente caratteristiche del tutto simili a quelle della restante fascia.

Per la sua posizione pedemontana, una parte dei comprensori delle circoscrizioni comunali, comprese in questa fascia è orograficamente accidentata e di conseguenza le superfici disponibili, per insediamenti umani di notevole produttività (attività industriali o commerciali), sono inferiori a quelle figuranti statisticamente.

Il Corridoio Padano è completamente entroterra, dispone di un solo porto marittimo (Venezia) ad una delle sue estremità, per cui le relazioni commerciali promiscue terra-mare, interessanti la maggior parte dei centri, dislocati lungo la megalopoli, devono svolgersi secondo direttrici più o meno inclinate rispetto all’asse della megalopoli stessa. Per il suo traffico interno comunque non dispone di vie marittime; non solo, ma a tutt’oggi praticamente non dispone neppure di idrovie; il corso del Po, che da anni è in via di canalizzazione, non può considerarsi una efficiente via di acqua interna al servizio delle aree comprese nel Corridoio Padano, e i progettati canali Milano Po e Mincio-Ticino sono ancora lontani da una loro completa realizzazione, anche se sono stati iniziati i lavori di costruzione del primo.

Nel Corridoio Padano esiste un susseguirsi di numerosi importanti centri abitati di varia grandezza, di cui 2 oltre il milione di abitanti, 4 da 200 mila a 1.000.000, 3 da 100 a 200.000 e 11 da 50 a 100.000; fra i 10 e i 50.000 abitanti si contano 131 centri, cui se ne aggiungono 76 compresi fra i 7.500 e 10.000 abitanti; tutto ciò dimostra il notevole frazionamento amministrativo dell’area da noi considerata, ma pone anche in particolare evidenza le sue caratteristiche urbane.

Geograficamente la distribuzione di questi centri costituisce un’unica continuità; rare e molto ridotte sono le zone meno affollate, che si trovano solo nella parte piemontese.

Questa circostanza determina una netta distinzione fra il concetto di megalopoli lineare, che qui è stata definita Corridoio Padano e che è l’oggetto del presente studio, ed altri raggruppamenti demografici che si possono ricavare fra i maggiori centri dell’Italia settentrionale. Un esempio di tali raggruppamenti è la Metropoli Padana che recentemente ha autorevolmente esaminato, sotto i suoi molteplici aspetti, il Prof. ZIGNOLI, riprendendo un precedente studio di G. VIGLIANO. Tale raggruppamento si riferisce al famoso triangolo industriale Torino-Milano-Genova, dove però fra il vertice genovese e gli altri due esiste una netta separazione, costituita dalla barriera appenninica, che, per quanto possa essere attraversata da infrastrutture ferroviarie, stradali e autostradali sempre più efficienti, rappresenta una soluzione di continuità non indifferente.

Inoltre se in tutta l’estensione della megalopoli lineare Torino-Venezia esiste qualche punto di minore continuità questo trovasi proprio nel tratto piemontese fra Torino e Milano.

Considerando all’interno dell’area del Corridoio Padano la ripartizione dei comuni in funzione della loro densità, con gli stessi criteri secondo cui è stato suddiviso il Corridoio nord-est degli Stati Uniti (criteri che si è ritenuto opportuno adottare come base, anche nel presente studio, per facilità di raffronto, la superficie complessiva di 19.497,1 kmq (escluse le aree lagunari) si distribuirebbe per kmq 361,2 in zone urbane ad elevata densità, con oltre 4.000 abitanti per kmq, praticamente limitate ai comprensori comunali di Torino, di Milano e di alcuni grossi centri contigui a Milano (Bresso, Cinisello Balsamo, Cologno Monzese, Cormano, Corsico, Cusano Milanino e Sesto San Giovanni), e per kmq 5.551,4 in zone urbane con densità compresa fra 400 e 4000 abitanti per kmq. Le zone suburbane, da 40 a 400 abitanti per kmq, si estendono invece per kmq 13.396,5; infine le zone rurali sono limitatissime, complessivamente 188,0 kmq, di cui la maggior parte (155,1 kmq) in provincia di Vercelli. In particolare non figurano entro l’area del Corridoio Padano in Lombardia e nel Veneto, zone rurali, cioè con densità inferiore ai 40 abitanti per kmq.

La tab. 6 indica, per le varie province, la distribuzione della popolazione e l’ampiezza delle varie zone comprese nei limiti di densità demografica sopracitati. Complessivamente poco meno di un terzo della popolazione (il 28 % circa) risiede nelle aree di maggior densità, la metà nelle aree urbane di media densità (400-4000 ab/kmq); poco più di 1/5 (il 21,7 %) risiede infine nelle zone suburbane; trascurabile è l’apporto delle aree rurali (soltanto lo 0,1 %).

A differenza delle megalopoli lineari statunitense e giapponese, di cui uno degli estremi è costituito dalla capitale di stato, il Corridoio Padano non comprende la capitale della nazione italiana; ne comprende però il maggior centro economico (Milano), che è anche il capoluogo della provincia che ha il reddito lordo totale prodotto più elevato dell’intera nazione. Similmente a quanto avviene per il Corridoio Statunitense, in cui l’influenza di New York si estende praticamente a tutti gli altri centri della megalopoli, l’influenza di Milano si estende in modo sensibile da Torino a Venezia.

Vediamo ora altre caratteristiche geografiche del Corridoio Padano. Dato il suo andamento secondo i paralleli, esso taglia tutte le direttrici di traffico da nord a sud interessanti l’Italia, per cui buona parte dei suoi centri sono anche importanti nodi di traffico fra le correnti che si svolgono secondo i meridiani e il movimento trasversale che si effettua lungo il suo asse.

La maggior parte dell’area della Megalopoli Lineare Padana è pianeggiante, tuttavia una certa percentuale appartiene a zone collinari e una aliquota minore è montuosa. Questa circostanza, come si è detto, altera nella realtà e non di poco i valori ufficiali delle densità demografiche per taluni centri. Comunque ciò non muta la sostanza dei problemi che gravano sul complesso, salvo influire negativamente sulle difficoltà delle sue vie di comunicazione.

Nelle province piemontesi, ed anche in talune lombarde, il territorio è eccessivamente frazionato, comprendendo numerosissime circoscrizioni amministrative di limitatissima entità; 18 di esse, di cui una è in Piemonte e 17 sono in Lombardia, incluse nell’area del Corridoio Padano, ricoprono una superficie addirittura inferiore ai 2 kmq. Questo eccessivo fraziona mento territoriale, al quale per analogia corrisponde (vedi capitolo successivo) un frazionamento demografico pure eccessivo, rivela ancor viva l’esistenza, in una area ad elevatissimo livello economico e sociale, di una mentalità campanilistica ormai largamente superata, che si riflette sfavorevolmente sulla evoluzione generale della zona. Il fenomeno è poi stranamente in espansione; infatti non sono mancate anche in questi ultimi anni scissioni di piccoli comuni in circoscrizioni amministrative ancor minori.

Il Corridoio Padano, riguardo alla sua ubicazione, rispetto alle regioni contigue, è aperto verso sud sulla Pianura Padana ed è chiuso invece per gran parte a nord dalla barriera delle Alpi. Le regioni però che lo circondano, tanto a sud quanto a nord, sono pur esse aree demografiche attive ed intensamente abitate. Infatti la Liguria e l’Emilia Romagna a sud, la Valle d’Aosta, la Regione Trentino Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia a nord e nord-ovest, nonché le regioni d’oltralpe francesi, svizzere, austriache e tedesco-occidentali, più vicine alla Megalopoli Lineare Padana, sono regioni che poco si scostano dal suo livello demografico ed economico, anche se meno densamente abitate.

[...]

5 La viabilità extraurbana

Premesso il quadro, che si ritiene sufficientemente esauriente, tratteggiato nei capitoli precedenti, nel quale sono state passate in rassegna tutte le caratteristi che geografiche, demografiche ed economiche del Corridoio Padano, vediamo ora come si presenta il sistema di vie e mezzi di comunicazione a servizio di detta area metropolitana, al fine di valutarne l’attuale consistenza nonché la eventuale sua corrispondenza alle esigenze future.

Consideriamo per prima la viabilità. Circa la rete di strade amministrativamente definite urbane, cioè di pertinenza dei maggiori centri abitati della zona, non esistono statistiche dalle quali trarre elementi per stabilirne la consistenza, l’efficienza nonché il grado di utilizzazione. È assodato comunque la circostanza che molte di tali strade, specie se importanti ed attraversanti i centri maggiori, si presentano oggi quasi permanentemente congestionate, cosi da esigere da parte delle autorità comunali competenti l’imposizione di norme restrittive (divieto di parcheggio, sensi unici, corsie riservate ai mezzi pubblici, ecc.) miranti a disciplinare in qualche modo la circolazione, dato che interventi infrastrutturali, in quel determinato settore, si presentano onerosissimi e di difficile attuazione, dovendo in gran parte interessare centri storici, vincolati da un complesso di esigenze (artistiche, residenziali, commerciali, ecc.), che non possono essere trascurate.

Elementi più precisi si hanno invece nei riguardi della rete stradale extraurbana, un esame della quale può di riflesso consentire importanti considerazioni anche nei riguardi della rete urbana.

Le statistiche ufficiali (ISTAT, ANFIA, ACI) danno l’estensione della rete stradale extraurbana, ripartita per ogni provincia e per ognuna delle varie categorie di strade, secondo cui amministrativamente è suddivisa la rete italiana (autostrade, strade statali, strade provinciali, strade comunali).

Stralciare dalle varie province interessate la parte relativa alla zona compresa nel Corridoio Padano, costituirebbe una valutazione, se non praticamente impossibile, comunque estremamente laboriosa; pertanto, nei riguardi della viabilità ci limiteremo anzitutto (e ciò dà già risultati sufficientemente significativi) a considerare, nel loro complesso, le sedici province più interessate alla Megalopoli Lineare Padana, cioè tutte quelle sin qui prese in esame, escluse Asti ed Alessandria, interessate in modo limitatissimo e marginale.

Nella tabella 12, per ognuna delle suddette province, è riportata l’estensione della rete stradale extraurbana alla fine del 1968, ripartita secondo la classificazione amministrativa sopracitata.

Dalla tabella stessa si rileva subito che, rispetto al complesso nazionale, le province interessate al Corridoio Padano, nel loro insieme presentano una buona disponibilità di autostrade, una disponibilità invece assai modesta di strade statali e disponibilibilità più favorevoli nel settore delle strade provinciali e soprattutto in quello delle comunali. Ciò è logica conseguenza del fatto che, essendo gli enti locali dell’Italia del Nord più ricchi di quelli dell’Italia meridionale, anche nel settore delle infrastrutture stradali, l’intervento dello Stato è minore, mentre percentualmente più elevato è l’intervento degli enti locali.

Nel complesso (tab. 12), ragguagliato alla superficie, lo sviluppo stradale delle sedici province considerate è maggiore della media nazionale, 1,24 km per kmq in luogo di 0,94; ragguagliato alla popolazione, 10 sviluppo stesso è invece minore, 3,98 km per 1000 abitanti anziché 5,26. Elemento significativo è la dotazione, cioè il prodotto dello sviluppo per kmq moltiplicato per quello relativo ad ogni 1000 abitanti, che, per il complesso delle suddette province, è praticamente uguale alla media italiana; cioè praticamente la deficienza di rete stradale rispetto alla popolazione è compensata dall’eccedenza rispetto alla superficie territoriale.

I dati sopra citati variano però notevolmente da provincia a provincia; nei riguardi della superficie, le province più dotate di strade sarebbero Varese, Verona, Mantova e Padova, le meno dotate Novara, Venezia, Vercelli, Pavia e Bergamo. In rapporto alla popolazione, la meno dotata risulta nettamente la provincia di Milano, seguita da Venezia e Torino; le più dotate sono Vercelli, Verona, Mantova e Novara. La dotazione maggiore si ha per Verona; dotazioni più basse si riscontrano a Milano, Venezia e Torino.

Volendo confrontare i valori relativi alla rete stradale extraurbana delle province interessate al Corridoio Padano, considerate nella loro estensione, con quelli, sempre riferiti alla fine del 1968, relativi a talune nazioni d’Europa e agli U.S.A., la conclusione è sconfortante; solo la Grecia e il Portogallo presentano uno sviluppo stradale per ogni 1000 abitanti inferiore alla media delle province padane; gli U.S.A. hanno invece uno sviluppo circa 8 volte maggiore.

Come si è detto all’inizio di questo capitolo, non sarebbe praticamente possibile ottenere, sia pure mediamente per tutta l’area del Corridoio Padano, valori esatti della rete stradale afferente. Tuttavia sembra ipotesi attendibile ammettere uno sviluppo della rete stradale extraurbana nell’area del Corridoio Padano (la cui superficie territoriale è circa il 40 % di quella complessiva delle sedici province maggiormente interessate), pari alla metà di quello totale risultante nella tabella 12.

Si tenga presente che se per talune delle province considerate una parte del territorio escluso dal Corridoio Padano è montuosa, per cui è da presumersi una estensione minore della rete extraurbana rispetto all’intero territorio provinciale, nelle zone incluse trovansi i centri abitati maggiori, all’interno dei quali esiste una rete urbana molto sviluppata, che non figura nei dati statistici, mentre più limitata risulta la rete stradale extraurbana.

Ammessa questa ipotesi, l’estensione complessiva della rete stradale extraurbana dell’area del Corridoio Padano si aggirerebbe su poco più di 29.000 km, in ragione di 1,5 km per kmq e 2,6 km per 1000 abitanti. L’indice di dotazione si ridurrebbe a 3,9. È evidente la carenza di sviluppo della rete stradale extraurbana a servizio della Megalopoli Lineare Padana. Questa carenza, come si vedrà meglio nel capitolo successivo, assume aspetti preoccupanti se viene ragguagliata alla massa dei veicoli motorizzati circolanti.[...]

Nota: per motivi di spazio, il resto del materiale relativo all'articolo di Matteo Maternini è reso disponibile in 5 PDF scaricabili. Quattro files riproducono la Tavola Fuori Testo n. 1 allegata all'articolo sulla rivista; un file è la seconda parte degli estratti, con le conclusioni (fb)

Titolo originale: Watsonville renews push to create industrial park– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini



WATSONVILLE — Vogliono creare centinaia di nuovi posti di lavoro, i rappresentanti della città, e hanno trovato un accordo per iniziare le procedure di annessione che trasformerebbero i terreni agricoli a destinazione industriale.

Il consiglio municipale esaminerà oggi la proposta di annettere 40 ettari, noti col nome di proprietà Manabe/Burgstrom, da inoltrare all’agenzia regionale responsabile per la revisione dei confini.

La proposta di annessione, elemento chiave della strategia economica della città, segue di cinque anni la bocciatura di un progetto simile da parte della Santa Cruz Local Agency Formation Commission, a seguito di alcune opposizioni. I rappresentanti della Città ritengono che i tempi – e l’atteggiamento - siano cambiati.

”Il momento è quello giusto” crede il sindaco Judy Doering-Nielsen. “Non conto i voti finché non sono stati espressi ... [ma] credo che il consiglio sia favorevole [all’annessione], e spero che anche la LAFCO veda le cose nello stesso modo ... Abbiamo bisogno di posti di lavoro”.

Il terreno, un appezzamento a forma di “L” ai margini occidentali della città, è il posto giusto per l’industria leggera, dice la signora Doering-Nielsen. Delimitato da una parte dalla zona industriale “pesante” della città lungo West Beach Street, e da nuove lottizzazioni residenziali sull’altro lato, si collega alla Highway 1 dalla vicina Riverside Drive.

In un’assemblea alla LAFCO nel 1999, centinaia di residenti si erano opposti gli uni agli altri, pro o contro l’annessione. Quelli a favore insistevano sul fatto che l’insediamento avrebbe generato posti di lavoro e entrate fiscali per il comune. I contrari erano preoccupati per la perdita di terreni agricoli, i danni alle zone umide e una potenziale espansione disordinata lungo il tracciato della Highway 1.

Dopo il no della LAFCO, rappresentanti dei vari gruppi di interesse (agricoltori, ambientalisti, imprenditori, politici) si sono riuniti a definire uno schema generale di crescita urbana. Il risultato si chiama Measure U: un piano di crescita per 25anni approvato dal 62 per cento degli elettori nel novembre 2002.

Measure U richiede che la città annetta i terreni Manabe/Burgstrom, insieme a circa 200 ettari nella zona di Buena Vista a ovest del Watsonville Municipal Airport, e a 30 ettari nell’area Atkinson Lane a sud della città.

La zona Manabe/Burgstrom è considerata il primo test per Measure U, mentre Buena Vista, un’area rurale che ha espresso forte resistenza all’annessione, può rivelarsi un caso più controverso.

Lisa Dobbins è direttore esecutivo della Action Pajaro Valley, l’agenzia non-profit formata per l’attuazione del piano Measure U. Anche lei ritiene che la situaizone sia cambiata rispetto al 1999.

Il lavoro per sviluppare un piano ha consentito alla gente di vedere “un quadro più ampio”, la necessità di un equilibrio fra residenza e crescita dei posti di lavoro, afferma Dobbins.

”Ero presente quando hanno liquidato la questione all’udienza della LAFCO” dice. “Dove aver visto quello, è sorprendente notare quanta strada abbiamo fatto in cinque anni ... È incoraggiante vedere che la città non è in guerra con la comunità, ma c’è collaborazione”.

Un esempio di questo nuovo rapporto è il sostegno della Watsonville Wetlands Watch all’annessione.

Marian Martinez, membro del gruppo ambientalista e residente della città, definisce l’impegno dell’amministrazione per il sistema delle paludi “un cambio di centottanta gradi”.

”Il vecchio progetto era semplicemente di annettere i terreni e destinarli all’urbanizzazione, senza riconoscere l’importanza della palude” dice.

Ma negli anni recenti, l’amministrazione ha dimostrato una nuova considerazione per la tutela dell’ambiente, con gli sforzi per sviluppare un sistema di percorsi attraverso le zone umide e un piano per il recupero della palude. Questo ha provocato un ribaltamento nelle prospettive del gruppo ambientalista, riguardo al futuro dell’area Manabe/Burgstrom.

”Abbiamo bisogno delle zone umide per la salute generale della valle” dice Martinez. Contiamo sull’annessione per raggiungere questo scopo”.

Il Santa Cruz County Farm Bureau, che si era opposto al precedente tentativo di annessione, non sembra incline ad opporsi al nuovo piano, dato che è parte della Measure U, afferma Jim Rider, che rappresenta il gruppo ai negoziati di Action Pajaro Valley. Ma distingue, fra il non opporsi e il sostegno all’annessione. La comunità degli agricoltori non rinuncerà alle buone terre coltivabili Manabe/Burgstrom senza guadagnarci qualcosa in cambio.

”È un grosso compromesso” afferma Rider. “Ma [ Measure U] ha messo le aree critiche, le zone agricole migliori, al sicuro, incoraggiando la crescita urbana verso zone con terreni poveri, come l’area di Buena Vista “.

Nota: qui il testo in originale al sito del Santa Cruz Sentinel online; per un esempio di assemblea partecipata locale, anche se su temi diversi come quello parallelo della residenza, un link al Watsonville Livable Community Workshop (fb)

Titolo originale: Is Urban Planning “Creeping Socialism”? – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Il socialismo è comunemente definito come la proprietà governativa dei mezzi di produzione. Eccetto per un certo numero di servizi considerati monopoli naturali, come le fognature o l’acquedotto, il socialismo come forma di proprietà pubblica non ha mai avuto spazio negli Stati Uniti. Al suo posto, gli enti di governo si sono basati sull’emanazione di regole, come metodo per ottenere gli stessi scopi che il socialismo afferma di perseguire: efficienza, equità, controllo delle esternalità. Se questo approccio è socialismo, allora l’urbanistica rappresenta un socialismo strisciante più o meno dal 1920. Ma di recente ha subito un’accelerazione, e sembra correre anziché strisciare. In più, ha un tale vantaggio di partenza che gli amanti della libertà potrebbero anche non essere in grado di fermarlo, e men che meno di invertirne la rotta.

L’urbanistica si basa sull’idea che gli abitanti delle città impongano numerose esternalità l’uno sull’altro e che le norme di pianificazione e altre regole possano minimizzarle. Nonostante la loro affermazione di fondatezza scientifica, gli urbanisti spesso non hanno idea di quello che stanno facendo: le città sono semplicemente troppo complesse da capire, o controllare. Di conseguenza, la storia dell’urbanistica è la storia di una serie di mode stravaganti, la maggior parte delle quali si sono risolte in disastri. Lo urban renewal e le case poplari pubbliche sono due esempi evidenti.

Per ironia, il fallimento dell’urbanistica passata rappresenta la premessa per l’ultima moda, variamente denominata new urbanism, neo-tradizionalismo, o smart growth. Gli urbanisti smart-growth notano numerosi problemi nelle nostre aree urbane, dalla congestione, all’inquinamento atmosferico, ai prezzi troppo alti delle abitazioni, alla scomparsa dello spazio pubblico, al costo dei servizi. Per tutti questi problemi, danno la colpa alle scorse generazioni di urbanisti che, dicono i sostenitori della smart growth, hanno sbagliato tutto. La soluzione, naturalmente, è di dare agli urbanisti di oggi più potere che mai, perché ora, affermano, hanno la soluzione giusta.

Le ricette della Smart-Growth

Le ricette della smart-growth comprendono variazioni sui temi:

La smart growth ha avuto impulso governativo nel gennaio 1999, quando ottenne il sostegno del Vice Presidente, Al Gore. Le agenzie di pianificazione metropolitane di tutto il paese stanno considerando se adottare politiche smart growth, o simili. La Environmental Protection Agency ma minacciato di tagliare i finanziamenti sui trasporti e altri sostegni federali a molte città che non adottano programmi del genere.

La smart growth sta tentando di invertire due solide tendenze del ventesimo secolo. La prima è il crescente uso del trasporto motorizzato personale. Col crescere del reddito, persone che un tempo si muovevano a piedi o sui mezzi pubblici hanno scelto invece di comprare e guidare automobili. La seconda, legata alla prima, è la domanda crescente di spazio di vita privato, sotto forma sia di dimensione della casa che del lotto fabbricabile. Dato che le auto hanno reso il trasporto meno costoso, le persone si sono spostate dai grandi centri urbani, acquistando grandi lotti per le proprie abitazioni.

Queste tendenze sono evidenti negli Stati Uniti, ma non sono soltanto americane. In tutto il mondo, al crescere del reddito, la gente compra automobili e si sposta verso sobborghi a bassa densità. Negli Stati Uniti, i sostenitori della smart-growth danno la colpa di questa tendenza ai sussidi governativi come quelli per le autostrade, o alle garanzie sui mutui per le abitazioni. Ma si possono osservare le medesime tendenze nei paesi dell’Europa occidentale, dove i sussidi sono stati orientati al trasporto pubblico e a insediamenti ad alta densità, mente chi desiderava automobili e abitazioni a bassa densità è stato penalizzato.

Già nel 1922 l’architetto Frank Lloyd Wright vedeva come le nuove tecnologie stessero decentrando le città. “In quest’epoca di energia elettrica, automobili e telefoni” diceva, la concentrazione urbana “diventa congestione senza senso: è una bestemmia”. Oggi, Wright aggiungerebbe gli aerei a reazione e internet alla sua lista di tecnologie decentratrici. Negli Stati Uniti, la quantità di guida pro capite è cresciuta costantemente dal 25 al 35 per cento a decennio, con una media dal 2 al 3 per cento l’anno, almeno dagli anni ‘20. Parallelamente, le persone si sono spostate sempre più verso zone a bassa densità, fino a che oggi circa la metà degli americani vive nei suburbi, e metà del rimanente in piccole cittadine a bassa densità e zone rurali.

Sin dagli anni ’50 i critici hanno denunciato i suburbi come luoghi sterili, senza vita e identità. John Keats definiva i sobborghi “concepiti per errore, alimentati dall’ingordigia, corrosivi per ogni cosa che toccano”. Little Boxes, una canzone del 1960 dell’autrice di Berkeley Malvina Reynolds, resa popolare da Pete Seeger, li etichettava “ ticky-tacky.” Più di recente, James Kunstler li ha descritti come “un habitat umano di scarto, pomposo e senza futuro” e “tic istintivo di una cultura mentalmente morta”. Opinioni negative di natura soprattutto estetica, e che non hanno impedito alla gente di spostarsi verso zone a bassa densità.

Sin dagli anni ’60 i critici sul versante dei trasporti avvertivano che le automobili stavano distruggendo le città. A. Q. Mowbry sosteneva che i favorevoli alle autostrade stavano “soffocando il paese in una coperta di asfalto”. Ancora nel 1997 Jane Holtz Kay afferma che l’automobile ha abbassato “sia la qualità del muoversi che quella della vita”. Ma gli americani continuano a guidare, sempre di più.

La smart growth rappresenta una fusione fra il movimento degli anti-suburbio and quello degli anti-automobile. Per invertire la tendenza a suburbanizzazione e uso dell’auto, gli aderenti vogliono imporre misure draconiane ai residenti urbani. Regole che vanno da requisiti minimi di densità, a rigide norme di progetto, a limiti sui parcheggi e i trasporti.

Requisiti minimi di densità

I requisiti di densità sono il logico passo successivo delle regole di zoning, che le città americane hanno iniziato a adottare negli anni immediatamente precedenti il 1920. Lo zoning originariamente era finalizzato a proteggere i valori immobiliari dalle esternalità. Nessuno vuole vivere di fianco a una fabbrica sporca e puzzolente. Per questo, la gente in molte zone residenziali si oppone a insediamenti commerciali al proprio interno, e quartieri di abitazioni unifamiliari non vogliono che si costruiscano edifici ad appartamenti.

Inizialmente, le città adottarono quattro zone base: industriale, commerciale-terziaria, case multifamiliari, case monofamiliari. Lo zoning originario era cumulativo, ovvero era disponibile a qualunque uso l’area industriale; si consentiva qualunque uso tranne quello industriale nelle zone commerciali, e via dicendo. Alla fine, si svilupparono categorie di zoning più raffinate, come case unifamiliari su lotti da mille metri quadri, o da cinquecento metri quadri, eccetera, ma si mantenne la natura cumulativa. Nessuno obiettava se si costruiva su un lotto da duemila metri in una zona destinata ai lotti da mille. Dopo la seconda guerra mondiale, lo zoning divenne sempre più esclusivo fra le quattro tipologie base. Un’area industriale consentiva solo industria, e non era permessa alcuna costruzione commerciale. Ma le sub-categorie restavano cumulative: le ordinanze di zoning potevano specificare densità massime, ma non minime.

Al contrario, l’azzonamento smart-growth è prescrittivo. È totalmente esclusivo, e comprende sia densità massime che minime. In più, tende a contenere molti altri requisiti di progetto, su cui tornerò più tardi. I requisiti di minima densità possono portare ad una rapida trasformazione del quartiere, specialmente quando è trasformato da area a tipi monofamiliari verso abitazioni multifamiliari. Questa trasformazione di usi è abituale nell’area urbana di Portland, Oregon, il cui governo regionale ha adottato un piano smart-growth diversi anni fa.

Orenco, sobborgo occidentale di Portland, è stato trasformato in zona ad altissima densità quando è stata realizzata lì vicino una linea di metropolitana leggera. Molti residenti possedevano grossi lotti, o secondi lotti adiacenti a quelli costruiti. Alcuni prevedevano di costruire una seconda casa su quei terreni per i figli, per i genitori, o semplicemente per venderla. Ma il nuovi azzonamento richiedeva invece che si costruissero edifici a quattro appartamenti o altri tipi multifamiliari. Non era permesso realizzare case unifamiliari.

A Gresham, all’estremità orientale della metropolinata leggera di Portland, è stato trasformato un altro quartiere da case unifamiliari a multifamiliari. Se una casa bruciava, le regole di zoning richiedevano al proprietario di ricostruirla in forma di edificio ad appartamenti. I residenti che tentavano di vendere le proprie case scoprirono in fretta di non poter trovare acquirenti, perché le banche non concedevano mutui su case che non potevano essere ricostruite dopo un incendio.

Anche se un proprietario non ha progetti per costruire su un lotto disponibile e non intende vendere, la trasformazione di un quartiere da unifamiliare a multifamiliare può essere molto stressante. Più persone portano più congestione. La natura temporanea degli abitanti gli appartamenti può portare all’aumento della criminalità o alla riduzione dei valori immobiliari.

Per ironia, lo zoning originariamente fu ammesso da una sentenza della Corte Suprema nel 1926, che consentiva ai quartieri di case unifamiliari di ricorrere ai poteri pubblici di polizia per tenere fuori le case ad appartamenti. In quartieri di case unifamiliari, “le abitazioni ad appartamenti, che in ambiente diverso sarebbero non solo totalmente ineccepibili, ma altamente desiderabili, vengono ad essere quasi nocive”, afferma la sentenza Euclid contro Immobiliare Ambler.Ora lo strumento dello zoning è usato per imporre le stesse cose nocive a quei quartieri.

Le zone della smart-growth consentono le abitazioni unifamiliari, ma di solito richiedono che tali abitazioni siano collocate su piccoli lotti. Là dove i lotti urbani tipo sono di circa 600 metri quadrati (17x35) e quelli suburbani anche parecchio più grandi, le dimensioni di quelli smart-growth possono essere anche di soli 300 metri quadri (circa 17x17), o anche meno. La smart growth incoraggia anche le case a schiera, nonostante a Portland recentemente gli urbanisti abbiano osservato che non sono dense a sufficienza: vorrebbero piuttosto case ad appartamenti e condomini.

Rigide norme di progetto

Oltre ai requisiti di densità, l’azzonamento smart-growth può contenere regole progettuali altamente prescrittive. Alcune forme progettuali, è sostenuto, favoriscono l’uso dell’automobile e riducono il senso comunitario di un quartiere. I nuovi codici di progetto sono orientati ad incoraggiare alternative all’auto, e a promuovere il senso di appartenenza. Un obiettivo prioritario delle regole per le zone residenziali è l’abitazione col garage sul fronte, derisa come “casa col muso.” Il fatto di richiedere garages sul retro e portici sul fronte, dovrebbe incoraggiare la gente a camminare anziché guidare.

Le norme progettuali possono anche specificare l’uso di fronti più stretti e giardini laterali, limitando severamente lo spazio a disposizione per parcheggiare le macchine. Per insediamenti di grosse dimensioni, dove vengono costruite anche le strade altre alle case, i codici specificano l’uso di sezioni stradali ridotte, e limitano il parcheggio ad un solo lato. Le regole per le zone commerciali limitano i parcheggi nello stesso modo. Là dove i moderni supermercati e centri commerciali hanno di solito ampi piazzali a parcheggio fra il negozio e la strada, i codici progettuali smart-growth richiedono che i punti vendita si affaccino direttamente sulla strada. Il parcheggio, sempre che sia consentito, deve essere nascosto sul retro. Questo tipo di organizzazione è inteso a rendere più facile ai pedoni raggiungere il negozio, e se possibile scoraggiare il traffico automobilistico.

Oltre a prescrivere densità e modi di progetto, l’azzonamento smart-growth può richiedere insediamenti a usi misti. Per esempio, un’ordinanza proposta in un sobborgo di Portland richiedeva che gli edifici di 4-5 piani destinassero il pianterreno ad uso commerciale, e quelli superiori a residenza. Gli abitanti avrebbero potuto andare a far la spesa a piedi, o anche a lavorare. Idealmente, questi insediamenti sarebbero localizzati vicino a stazioni ferroviarie, o lungo corridoi di mobilità serviti da autobus.

Limiti sui parcheggi e i trasporti

La smart growth cerca anche di scoraggiare gli spostamenti in auto con altri mezzi. A Portland si richiede a tutti i principali centri commerciali e per uffici di ridurre la disponibilità di parcheggi del 10 per cento. Le leggi federali richiedono che le principali imprese nelle città con inquinamento atmosferico trovino metodi per ridurre del 10% il pendolarismo in auto dei propri dipendenti.

Fra le principali strutture socializzate, negli Stati Uniti, spicca l’offerta di strade e autostrade. Anche se molte strade nel diciannovesimo secolo erano private e a pedaggio, l’attenzione al problema dei monopoli ha portato nel ventesimo secolo gli americani a realizzare e gestire quasi tutto il sistema stradale attraverso i governi statali e municipali. La maggior parte dei fondi destinati alle strade provengono dagli utenti, principalmente dalle tasse sui carburanti. Attraverso questo aggravio sugli utenti, le strade in larga parte si pagano da sole, ma il tipo di pagamento è inefficiente: gli utenti pagano nello stesso modo sia che utilizzino strade non asfaltate o freeways lastricate d’oro; pagano uguale se le percorrono a mezzanotte, o all’ora di punta. Una migliore gestione dei pagamenti potrebbe ridurre la congestione, ma questo fatto non va contro l’uso dell’automobile.

Durante la maggior parte del ventesimo secolo, gli ingegneri dei trasporti hanno controllato le politiche stradali e realizzato nuove infrastrutture dove erano necessarie. Ma gli urbanisti smart-growth affermano che costruire nuove strade semplicemente incoraggia nuovo traffico. Il loro obiettivo, al contrario, è di scoraggiare l’uso dell’auto riducendo le capacità stradali. Chiamano questa strategia “ traffic calming”. Consiste nel porre barriere sulle strade per ridurre le velocità o i flussi. Ora, un’arteria di comunicazione principale suburbana può avere due corsie per ogni direzione di marcia, con una corsia centrale continua per la svolta a sinistra, e una ausiliaria per la svolta a destra in prossimità degli svincoli. La corsia per la svolta a sinistra consente al traffico di accedere alle strade locali e ai piazzali dei parcheggi nelle aree commerciali. Quella per la svolta a destra consente di rallentare e curvare senza ostacolare chi non curva. Una politica di traffic calming potrebbe trasformare questa arteria di comunicazione in un viale: una strada a quattro corsie con aiuole e piante al centro. Le curve a destra sarebbero limitate ad alcuni specifici svincoli, e il traffico in uscita a destra rallenterebbe le auto che seguono. Il risultato sarebbe una riduzione delle velocità e della capacità stradale. La città di Portland sta spendendo 2 milioni di dollari l’anno in traffic calming.

Gli effetti della Smart Growth

Daniel Chirot sostiene che gli europei dell’est avrebbero accettato enormi restrizioni della propria libertà, se il comunismo avesse avuto successo economico. “Qualunque cosa avrebbe potuto essere tollerata, se questa promessa essenziale avesse trovato il modo di realizzarsi”. In modo simile, gli abitanti di Portland e altri cittadini tollerano la smart-growth e le sue regole perché è stato loro promesso che migliorerà la vivibilità dei centri. Ma lo farà davvero?

La vivibilità, come la sostenibilità e la comunità (due altre promesse della smart-growth), è un concetto sfuggente. Ma un’analisi della letteratura smart-growth suggerisce che nella vivibilità ci siano meno congestione, aria più pulita, case a prezzi accessibili, minori costi dei servizi urbani, tutela degli spazi aperti, e un maggiore senso comunitario. Visti i risultati della pianificazione centralizzata in altri campi, non sorprende che la smart growth manchi quasi tutti questi obiettivi. Tutti, eccetto l’ultimo, sono obiettivi quantificabili, e i dati disponibili indicano che la smart growth produce esattamente l’opposto di quanto promesso.

La congestione

Il Sierra Club e altri sostenitori della smart-growth sostengono che lo sprawl urbano (termine spregevole a indicare la suburbanizzazione a bassa densità) aumenta la congestione perché le persone devono guidare per distanze più lunghe per arrivare dove vogliono. In realtà, come sottolineano i professori di pianificazione Peter Gordon e Harry Richardson, della University of Southern California, “La suburbanizzazione è diventata il principale meccanismo di riduzione della congestione”.

L’affermazione che la smart growth ridurrebbe la congestione si basa su studi che affermano come chi abita in aree più dense, ben servite da trasporti pubblici, usi meno l’auto. Questi studi ignorano il processo di autoselezione, in cui chi desidera guidare meno tende a vivere in aree dove ci si può spostare senza macchine. Ma anche se questi studi fossero corretti, la smart growth continuerebbe ad aumentare la congestione. Raddoppiare la densità di un’area ridurrebbe la congestione del traffico solo se la media degli abitanti riducesse la guida di oltre il 50%. Ma gli studi smart-growth indicano che il raddoppio della densità riduce la guida pro capite solo dal 10 al 30%. Questo risultato, incrementa in modo significativo la congestione.

Il piano smart growth di Portland prevede un incremento di densità di popolazione di due terzi, di alloggiare molte più persone in appartamenti e in quartieri basati sui trasporti pubblici, e di realizzare un totale di 200 chilometri di trasporto su rotaia, ma poche nuove strade. Nel 1990, i portlandesi usavano l’auto per il 92% dei loro spostamenti urbani e il trasporto collettivo per meno del 2,5% (il resto erano movimenti a piedi e in bicicletta). Gli urbanisti prevedono ottimisticamente che il loro piano incrementerà l’uso del mezzo pubblico fino a circa il 5%, mentre gli spostamenti a piedi e in bicicletta aumenteranno dal 5 al 7%. Questo vuol dire che la quota delle automobili nel mercato degli spostamenti scenderà all’88%: non è una differenza significativa. Questo leggero decremento della guida pro capite sarà superato di gran lunga dal previsto incremento del 75% di popolazione. Gli urbanisti calcolano che il piano triplicherà la congestione da traffico, rallentando di parecchio i tempi di spostamento nella regione.

Nonostante i sostenitori della smart-growth usino la congestione come spauracchio per attirare sostenitori, è difficile vedere nei loro obiettivi qualcosa di diverso da un significativo incremento, della congestione. Alcuni in privato sperano che questa maggior congestione porti le persone a guidare di meno, nonostante i dati indichino il contrario. Ma gli urbanisti non sono sempre tanto riservati, riguardo al tema della congestione. Il piano regionale dei trasporti di Portland afferma che “la congestione è un segno positivo di sviluppo urbano”. Earl Blumenauer, già commissiario per la città e attualmente suo rappresentante al Congresso, ha detto alla National Public Radio che la congestione “è stimolante. Significa affari per i commercianti” a quanto pare perché gli automobilisti frustrati si fermano a fare shopping. Il Twin Cities Metropolitan Council ha deliberato una moratoria di vent’anni sulla realizzazione di superstrade nella dichiarata speranza che “all’aumentare della congestione da traffico diventino più attraenti forme alternative di spostamento”: compreso il sistema di autobus, che guarda caso è gestito dallo stesso ente.



Inquinamento atmosferico

È articolo di fede, fra i sostenitori della smart-growth, che meno distanze percorse in automobile porteranno automaticamente a meno inquinamento. Ma l’inquinamento è qualcosa di più complicato dei soli chilometri percorsi. Le automobli inquinano di più quando i motori sono freddi, perché i convertitori catalitici non funzionano finché non sono in temperatura. I motori devono lavorare di più, e dunque inquinare di più, quando si trovano in accelerazione. Fino a circa 70 km/ora per alcuni inquinanti, e a 90 per altri, le auto inquinano meno a velocità più alte. Quindi un sistema di trasporti che si risolve in moti spostamenti brevi a basse velocità, in un traffico che si muove a scatti, produrrà molto più inquinamento di uno a spostamento lunghi, in un traffico scorrevole ad una media di circa 70 km/ora. Dato che la smart growth probabilmente produrrà le condizioni del primo tipo, potrebbe degradare significativamente la qualità dell’aria. E a dire il vero i pianificatori di Portland prevedono che il loro piano porterà ad un incremento del 10% di smog.

La tabella seguente mostra come ci sia una stretta correlazione fra densità urbane e inquinamento atmosferico, misurato secondo i criteri dell’EPA (Environmental Protection Agency). Il peggiore inquinamento si associa alle medie più alte di densità di popolazione. Le città meno inquinate hanno le densità più basse. L’area urbanizzata in modo più denso degli Stati Uniti, Los Angeles, è anche l’unica classificata come avente problemi “estremi” di inquinamento.


Media densità di popolazione in Aree Urbanizzate, secondo la classificazione di inquinamento EPA
Tasso di Inquinamento Densità di popolazione
Estremo 2077
Molto serio 1168
Serio 918
Moderato 801
Marginale 673
Nessuno 581

Nota: “Area Urbanizzata” è un termine censuario che comprende la città centrale di un’area metropolitana più quella di tutto il territorio adiacente con densità di popolazione superiore a 386 ab/kmq [questo dato, come gli altri, è stato riportato al sistema decimale con piccoli arrotondamenti, n.d.T.]. Dati del Bureau of Census USA, 1993.



Abitazioni a prezzi accessibili

Costruendo più case ad appartamenti, condomini, abitazioni su piccoli lotti, la smart growth dovrebbe ottenere più case a prezzi accessibili. Ma se la gente non vuole vivere in questo tipo di abitazioni, non importa quanto siano convenienti. I sondaggi e i dati di mercato indicano che le persone preferiscono case su lotti relativamente ampi. Nella maggior parte dei mercati immobiliari, il costo del terreno è una piccola percentuale del costo delle abitazioni, e dunque i lotti più grandi non rendono le case più care. Ma i limiti rigidi all’espansione dell’area urbanizzabile e altri strumenti smart-growth per il controllo della densità creano una penuria artificiale di terreni, e portano a significativi incrementi nei costi del tipo di case desiderate dalla gente. La National Association of Home Builders effettua valutazioni trimestrali sull’accessibilità dei prezzi delle case, nei principali mercati urbani. Queste valutazioni sono basate sulla quota di famiglie presenti in un mercato che guadagnano abbastanza per comprarsi una casa a prezzo medio in quel mercato.

Quando Portland e altre città dell’Oregon posero limiti alle proprie aree urbanizzabili nel 1979, queste zone comprendevano una disponibilità stimata in vent’anni di terreni edificabili. Al 1989, gran parte di quei terreni era ancora disponibile, e il mercato delle abitazioni urbane in Oregon era considerato fra i più convenienti della nazione. Ma le aree disponibili divennero presto più scarse, e nel 1996 il prezzo dei terreni nella zona di Portland era sestuplicato. La Home Builders allora classificò Portland fra i cinque mercati meno convenienti del paese. Al 1998, tre delle quattro aree urbane dell’Oregon classificate dalla Home Builders stavano fra i dieci mercati immobiliari meno convenienti, e la quarta stava tra i primi venti. Le città in Oregon sono cresciute nel corso degli anni ’90, a dire il vero, ma l’hanno fatto anche altre città. Las Vegas, Reno, Boise, e Phoenix sono tra le città che sono cresciute più in fretta di quelle dell’Oregon, ma i loro mercati dell’abitazione non sono classificati come poco convenienti.

Per affrontare i costi crescenti delle abitazioni, la città di Portland ha approvato un’ordinanza che richiede per ogni nuovo insediamento di più di dieci unità residenziali, di destinarne almeno il 20% ad abitazioni per redditi bassi. Gli urbanisti di Portland stimano che questo si tradurrà nella costruzione di circa 1.600 unità del genere l’anno. A questo ritmo, ci vorranno più di 65 anni per fornire di abitazioni tutte le attuali famiglie a basso reddito. Nel frattempo, sottolinea l’ufficio studi Hobson-Johnson, l’ordinanza di Portland farà salire i costi delle abitazioni per tutti gli altri (compresi quelli a basso reddito non abbastanza fortunati da ottenere immediatamente una casa).



Costo dei servizi urbani

Un’altra delle principali affermazioni smart-growth è che la suburbanizzazione a bassa densità costa alla società più dell’urbanizzazione ad alta densità, a causa dell’estensione dei servizi urbani (fognature, acqua potabile, strade, scuole) fino alle zone di nuova urbanizzazione. Ma gli studi sui Costidello Sprawl che affermano di voler dimostrare questa correlazione sono tutti basati su dati ipotetici. Una ricerca condotta dalla dottoressa Helen Ladd, della Duke University, ha confrontato i costi reali dei servizi urbani in centinaia di contee degli USA. Ha rilevato che, a partire da densità superiori a 80 ab/kmq (approssimativamente la densità del Conncticut rurale) più densità significa costi dei servizi urbani più alti.

Gli studi sui Costidello Sprawl confrontano costi ipotetici dell’alta densità, contro quelli dell’insediamento a bassa densità su terreni liberi. È molto diverso, però, il programma della smart-growth per riurbanizzare i quartieri a bassa densità esistenti, verso densità maggiori. Queste riurbanizzazioni possono essere estemamente costose, perché spesso richiedono la demolizione delle infrastrutture esistenti per installare servizi di più alta capacità. Nel 1980, San Diego adottò un piano che incoraggiava lo infill development [riurbanizzazione “di riempimento” a maggiore densità n.d.T.] delle aree centrali e scoraggiava le coostruzioni a bassa densità nei sobborghi. Al 1990, la città aveva un deficit di un miliardo in carenza di infrastrutture perché le reti esistenti di acquedotto, fognatura ecc. non potevano reggere le nuove, maggiori densità. I costi dei servizi urbani sono aumentati ulteriormente da norme di azzonamento smart growth commercialmente irrealistiche. La maggior parte delle aree urbane ha zone residenziali ad alta densità sufficienti per la domanda. I costruttori sono naturalmente riluttanti a realizzare altre abitazioni del genere, per un mercato debole. Per rendere fattibile l’insediamento orientato ai trasporti pubblici, i governi locali devono fornire sussidi e riduzioni fiscali.

Portland, Oregon, ha realizzato linee di metropolitana leggera nella speranza che il trasporto su rotaia stimolasse l’urbanizzazione, in particolare quella ad alta densità. Dieci anni dopo il completamento della prima linea, il consigliere municipale e sostenitore della smart-growth, Charles Hales, comprese che si stava realizzando ben poca urbanizzazione lungo la linea dei binari. Persuase quindi il consiglio cittadino ad offrire dieci anni di esenzione fiscale ai costruttori. All’estremità orientale della metropolitana leggera, il comune di Gresham garantì a un costruttore 400.000 dollari di riduzione fiscale e altre facilitazioni, per realizzare una struttura per appartamenti a densità più elevate di quanto non avesse originariamente progettato. A ovest di Portland, la municipalità di Beaverton garantì 9 milioni fra riduzioni fiscali e sussidi alle infrastrutture per un quartiere orientato al trasporto pubblico, chiamato Beaverton Round. L’imprenditore non è riuscito a trovare inquilini e, quasi al fallimento, ha chiesto ed ottenuto altri 3,4 milioni di sussidi.

La stessa metropolitana richiede sussidi. L’urbanista di Portland John Fregonese afferma che la metropolitana leggera “non vale il suo costo se si pensa solo al trasporto. È un modo per sviluppare la città a densità maggiori”. Nonostante fossero originariamente presentai come meno costosi dei progetti stradali, quelli su binario considerati da più di sessanta città degli USA costano circa 30 milioni al chilometro: quanto basta per realizzare quattro chilometri di freeway a quattro corsie. Il trasporto su rotaia è spesso reclamizzato come capace di trasportare tante persone quanto un’autostrada da otto corsie, ma la maggior parte delle metropolitane leggere delle città americane oggi porta meno di quanto porti una sola corsia.



Conservazione degli spazi aperti

Per il Sierra Club, organizzazione molto interessata alla natura, il valore principale di un insediamento ad alta densità è che risparmia aree agricole, foreste, spazi aperti. Ma gli spazi aperti in campagna non sono una risorsa scarsa. Secondo il Natural Resources Conservation Service tutte le aree urbanizzate, sia in città che in campagna, occupano solo il 5% dei quarantotto stati. Secondo il censimento del 1990 le sole aree urbane sono appena il 2%.

Quello che manca sono gli spazi aperti urbani: parchi, campi da golf, agricoltura urbana, e anche gli ampi giardini privati normalmente usati e goduti dagli abitanti cittadini. La smart growth individua proprio questi spazi aperti urbani per la riurbanizzazione. Nell’area urbana di Portland, per esempio:

Nonostante queste misure, non esiste certezza che la smart growth proteggerà i grandi spazi rurali dalla frammentazione e dall’urbanizzazione. Se la smart growth porta a città congestionate e inquinate, molti residenti potrebbero scappare verso le zone rurali. Poche centinaia di abitazioni “esurbane” su proprietà da cinque a venti ettari, possono occupare spazio come migliaia di lotti suburbani da mille metri quadri.



Senso comunitario

Comunità è un concetto difficile da quantificare, ma almeno un sociologo urbano è convinto che l’alta densità urbana non produca maggior senso comunitario dei sobborghi a bassa densità Negli anni ’50 Herbert Gans visse due anni in un quartiere ad alta densità di Boston, e poi due anni a Levittown. Gans scoprì grandi quantità di coinvolgimento comunitario a Levittown, in particolare per quanto riguarda le decisioni di azzonamento e urbanistica. Gans non rilevò un senso comunitario più forte nel Boston West End. In realtà, conluse che i West Enders si sentivano leali rispetto al proprio gruppo etnico o sociale, ma “il West End come quartiere non era importante, per i suoi abitanti”.

In un lavoro successivo Gans contesta anche chi afferma che i sobborghi sono “senza vita”. Osserva che nei quartieri operai urbani “l’abitazione è riservata alla famiglia, in modo che la maggior parte della vita sociale avviene all’esterno ... La vita di strada, i piccoli negozi che tradizionalmente servono gruppi etnici e minoranze culturali, l’atmosfera esotica dell’area attirano visitatori e turisti”. Contemporaneamente, “nei sobborghi della middle-class non c’è vita di strada, perché tutte le attività sociali trovano posto dentro l’abitazione ... Questi quartieri appaiono monotoni, soprattutto al visitatore, e quindi possono sembrare meno vitali dei loro corrispondenti bohemien ed etnici. Ma la visibilità non è l’unica misura della vitalità, e zone poco interessanti per il visitatore possono egualmente essere vitali per la gente che ci abita”.



Obiettivi nascosti

Se la smart growth produce risultati così scarsi, perché trova sostegno? Un esame ravvicinato dei suoi sostenitori rivela che la maggior parte ha obiettivi diversi [ hidden agendas, n.d.T.]. I principali sostenitori sono funzionari delle grandi città preoccupati di recuperare o mantenere la rilevanza dei propri centri sui suburbi; oppure interessi della downtown che vogliono invertire il processo di declino dei propri affari rispetto a quelli dei centri commerciali suburbani; ancora, agenzie dei trasporti pubblici e imprese alla ricerca di bilanci più ricchi nonostante le quote di mercato in calo del pendolarismo e degli altri spostamenti urbani; i “ new urban planners” interessati a sperimentare le proprie teorie su varie città; gli ambientalisti urbani che si oppongono a nuove autostrade e all’automobile in genere; ditte di ingegneria e di costruzioni alla ricerca di fondi federali da spendere in opere pubbliche urbane, come le metropolitane leggere.

Tutti questi gruppi traggono beneficio dalla congestione suburbana. La congestione nei suburbi renderebbe le zone urbane e centrali meno repellenti. La congestione è usata anche per giustificare bilanci superiori dei trasporti pubblici, anche se le loro quote di mercato nella maggior parte delle città sono tanto piccole (tipicamente meno del 5% degli spostamenti urbani) da avere poche effetti sulla congestione. La congestione crescente porta alla domanda di pianificazione e nuovi lavori pubblici per risolvere il problema. Gli ambientalisti che non amano l’automobile sperano che la congestione porterà la gente a scegliere qualche altro mezzo di trasporto. Quindi la congestione è un obiettivo naturale della smart growth. Non dobbiamo stupirci se i suoi sostenitori fanno affermazioni come “la congestione è un segnale positivo di sviluppo urbano”.

La strategia del Governo Regionale

Nella maggior parte delle città americane la coalizione smart-growth descritta sopra ha poco potere sui suburbi. La maggior parte di questi ha una lunga storia di resistenza all’annessione o alla cooptazione entro autorità comuni con la città centrale. Per superare questa resistenza i sostenitori della smart growth promuovono agenzie di governo regionale con poteri sia sulla città centrale che sui suburbi.

Alcuni autori sono espliciti sul fatto che lo scopo del governo regionale è quello di prevenire la resistenza democratica alle proposte smart-growth. Douglas Porter dello Urban Land Institute scrive “della distanza fra il modo di vita quotidiano desiderato dalla maggior parte degli americani e il modo ritenuto desiderabile dalla maggior parte degli urbanisti e ingegneri del traffico”. Lo stesso autore sostiene “agenzie regionali [con] concreti poteri per influenzare le decisioni locali sulle questioni di uso dello spazio” e cita l’autorità metropolitana di Portland Metro come esempio di questo genere di agenzie. Metro fu istituita nel 1992 da una legge dal fuorviante titolo “limiti al governo regionale”. L’agenzia ha poteri decisionali vincolanti e definitivi riguardo all’uso del suolo e ai trasporti su ventiquattro città e tre contee. Ha usato di questa autorità per dare a città e contee obiettivi di popolazione da ottenersi modificando gli azzonamenti dei quartieri esistenti, verso densità più alte.

Nonostante non sia un sostenitore della smart-growth, l’economista Anthony Downs della Brookings Institution riconosce che un governo regionale composto di rappresentanti dei governi locali “può prendere posizioni difficili senza obbligare i propri singoli componenti ad impegnarsi verso queste posizioni”. “Ciascun membro può sostenere che “l’organizzazione” ha deciso, o dare la colpa a tutti gli altri membri”. La descrizione di Downs si adatta bene a quanto accaduto a Portland. È lapalissiano, in urbanistica, che la maggior parte del pubblico non sarà interessato sin quando non venga toccato direttamente il proprio quartiere. Metro è stata in grado di redigere il suo piano per l’area di Portland con poco o nessun coinvolgimento pubblico. Ma le città stanno incontrando formidabili opposizioni da parte dei quartieri che non vogliono farsi densificare. Le municipalità affermano che Metro le sta forzando a densificare. Metro risponde che non sta forzando le città a densificare alcuno specifico quartiere, ma solo ad adeguarsi ad alcuni obiettivi generali.

I residenti dei quartieri sono confusi e incerti su come fermare i cambi di destinazione d’uso. Gli elettori di un sobborgo hanno votato contro sindaco e consiglio, ma il nuovo consiglio uscito dalle elezioni deve ancora adeguarsi agli obiettivi fissati da Metro. Un altro suburbio ha votato di ignorare questi obiettivi, nonostante il voto non abbia effetti legali.

Nel 1992 il voto sull’istituzione di Metro vinse in parte perché i suoi sostenitori promettevano che un’agenzia di pianificazione regionale avrebbe evitato a Portland di diventare come Los Angeles, che è la città più congestionata d’America. Solo due anni dopo, gli urbanisti di Metro hanno comparato le cinquanta maggior città del paese per vedere quale si avvicinava di più ai loro obiettivi per Portland: alte densità con poco chilometraggio stradale pro capite. E hanno scoperto che Los Angeles è l’area urbanizzata più densa d’America, con il 30% più di New York (inclusi il New Jersey nord-orientale e il Connecticut sud-occidentale). In più, Los Angeles ha meno chilometri di autostrade per abitante: circa 80 chilometri ogni milione di persone, contro la media di 190 delle zone urbane degli Stati Uniti. Affollamento e sistema stradale inadeguato spiegano perché Los Angeles è tanto congestionata.

La Metro ha ammesso che “dalle discussioni pubbliche si è raccolta l’impressione generale che Los Angeles rappresenti un futuro da evitarsi”. Tuttavia “rispetto a densità e chilometraggio di strade pro capite mostra un quadro di investimenti che desideriamo replicare” a Portland. Metro ha approvato il suo piano per “replicare” Los Angeles a Portland. Ma la messa in pratica si sta rivelando difficile. Gli abitanti dei sobborghi non sono disposti ad accettare le restrizioni alla propria libertà chieste dalla smart growth.

Michael McCormick, autore della legislazione smart-growth recentemente approvata dallo stato di Washington, lamenta questa resistenza in una recente conferenza tenuta a Vancouver. “Mi piacciono gli abitanti della British Columbia canadese, per la loro voglia di essere governati” ammette. “Accettano le regole, e penso: non sarebbe grande, se potessimo far così anche a sud del confine?”.

La Environmental Protection Agency crede di avere il modo per superare la resistenza dei suburbi che non vogliono stare sotto il pugno di un governo regionale. Harriet Tregoning, direttore della divisione affari urbani dell’EPA, sostiene il governo regionale e aiuterà a fargli spuntare i denti trattenendo i finanziamenti federali per i trasporti ai governi locali che rifiutano di cooperare. Nel frattempo, i fondi per gli spazi aperti proposti dal Vice Presidente Gore saranno la carota, da dare solo alle comunità che adottano politiche smart-growth.



Conclusione

La smart growth è una minaccia alla libertà di scelta, ai diritti della proprietà privata, alla mobilità, al governo locale. Anche se le politiche smart-growth sembrano drastiche, si tratta solo della naturale estensione delle leggi di zoning adottate dalle città si dagli anni ’20. Queste leggi si sono fatte sempre più restrittive begli anni, e la smart growth le renderà anche più prescrittive. La smart growth è un chiaro esempio di strisciante regolamentazione sociale, se non di strisciante socialismo.

Nota: è scaricabile direttamente da Eddyburg il PDF col testo originale (e la bibliografia, che ho saltato per motivi ovvi di spazio). Per chi nonostante tutto volesse farsi un giro nel "socialismo reale" dell'urbanistica, questo è il link a Metro Regional Government. Il programma generale per il governo dello sviluppo di Metro Portland (con mappa) è disponibile in italiano su Eddyburg. Infine per chi fosse interessato all'argomento, il numero dell'autunno 2004 della Independent Review (che bisogna comprarsi) accusa di "socialismo" anche il famoso commissario ai parchi dello Stato di New York, Robert Moses. Che era tra l'altro un Repubblicano, ma evidentemente non abbastanza reazionario (fb)

In questa terza e conclusiva parte delle sue considerazioni sul rapporto fra sprawl e salute, Howard Frumkin si sofferma in particolare (almeno mi sembra) su aspetti di giustizia distributiva abbastanza intuibili: minoranze ceti deboli subiscono in modo molto maggiore degli altri le diseconomie dell’insediamento diffuso. E ancora una volta, l’appello non è minimamente moralistico, ma semplicemente scientifico e coerente ai fini della medicina, che non ha scritto da nessuna parte che il proprio obiettivo è di curare chi paga di più, trascurando gli altri. Ovvio, che questi argomenti suscitino le ire dei cosiddetti conservatori, vetero o neo che dir si voglia.

Ire di cui ho riportato una breve citazione in apertura della seconda parte, e che saranno certamente rinfocolate dai sempre più numerosi testi scritti sulla scia dei lavori di Frumkin: ultimi quelli del 2004 che legano soprattutto sprawl e obesità. Ho visto il modo in cui un sito web specializzato, Your Family Doctor , presentava uno di questi studi (coordinato dall’economista Roland Sturm nel 2004 per la Rand Corp.), e ho pensato che magari tra qualche anno i medici inizieranno a prescrivere ai bambini gracili una “vacanza in città” ...

Battute a parte, resta l’appello finale di questo articolo, al recupero della collaborazione fra professioni sanitarie e tecniche per la pianificazione del territorio e le politiche ambientali connesse. Un fatto che anche da solo appare positivo. (fb)

Titolo originale: Urban Sprawl and Public Health – traduzione di Fabrizio Bottini (Parte terza)

Gli aspetti sociali dello sprawl

Salute mentale

Una delle motivazioni originali della migrazione verso i suburbi è stata l’accesso alla natura. Alla gente piacciono gli alberi, gli uccelli, i fiori, queste cose sono più accessibili nei suburbi che nelle più dense aree urbane. In più, il contatto con la natura può offrire altri benefici oltre quelli puramente estetici; può far bene alla salute fisica e mentale. Si aggiunga che il senso di fuga dal turbinio della vita urbana, la sensazione di un calmo rifugio, può essere tranquillizzante e riposante per molte persone. Da questo punto di vista, gli stili di vita suburbani possono avere benefici per la salute.

D’altra parte, alcuni aspetti dello sprawl, come il pendolarismo, possono richiedere un prezzo in termini di salute mentale. Per un certo periodo, il pendolarismo automobilistico è stato fonte di interesse per gli psicologi come fonte di stress, di problemi di salute ad esso correlati, e anche di malattie fisiche. Ci sono dati che collegano il pendolarismo al mal di schiena, alle malattie cardiovascolari, e lo stress è testimoniato da molti. Dato che le persone passano sempre più tempo su strade sempre più affollate, ci si può aspettare un incremento in questi problemi per la salute.

Un possibile indicatore è la “furia da strada” [road rage], definita come “eventi nei quali un automobilista infuriato o spazientito tenta di uccidere o ferirne un altro dopo un diverbio per questioni di traffico”. Possono restarci coinvolti anche uomini di legge; un resoconto giornalistico descrive un avvocato in vista, ex deputato dello stato del Maryland, che ha fatto saltare con un pugno gli occhiali a una donna incinta, dopo che lei gli aveva temerariamente chiesto perché l’aveva tamponata con la sua Jeep.

I dati disponibili non chiariscono se la road rage sia in crescita. L’unico studio su un certo periodo di tempo, pubblicato dalla AAA Foundation for Traffic Safety nel 1997, riferisce di un incremento del 51% di incidenti di questo tipo nell’intervallo fra il 1990 e il 1996. La Foundation ha documentato 10.000 resoconti di questi incidenti, che hanno provocato 12.610 feriti e 218 morti. È stata usata una certa varietà di armi, che comprende pistole, coltelli, bastoni, o pugni e calci, e in molti casi lo stesso veicolo. Ad ogni modo, visto che le fonti dei dati sono i rapporti di polizia e i resoconti della stampa, è anche possibile che si tratti di incremento apparente, a riflettere invece una crescente consapevolezza e attenzione dei media, anziché un effettivo aumento di numero o percentuale di casi road rage.

La violenza stradale non è completamente compresa, e ci sono vari motivi per il suo verificarsi. Lo stress a casa o sul posto di lavoro può combinarsi con quello accumulato durante la guida, e generare rabbia. I dati dall’Australia e dall’Europa suggeriscono che possano essere fattori di rischio sia il volume di traffico che la distanza percorsa. Le lunghe code su strade affollate sono probabili fattori aggiuntivi.

Gli episodi di road rage possono riflettere sulla strada un accumulo di rabbia e frustrazione. In un’indagine telefonica condotta dalla Mississippi State University nel 1999 e 2001, un ampio numero degli intervistati ha riferito sia di essere stato protagonista di comportamenti aggressivi durante la guida, sia di esserne stato vittima. L’indagine non ha specificato se questi intervistati risiedessero o meno in località suburbane, anche se le risposte erano diverse in molti aspetti a seconda delle categorie geografiche utilizzate (zone rurali, piccoli centri, cittadine, grandi città), suggerendo un’influenza del fattore densità e di altri elementi legati al “fattore spazio costruito” nel determinare comportamenti di guida aggressivi. Nell’indagine NHTSA, le due principali ragioni di aggressività citate erano: a) essere di fretta o essere in ritardo (23% delle risposte); b) aumento del traffico o congestione (22%), ovvero esperienze comuni sulle affollate arterie delle città diffuse. In più, gli intervistati dell’indagine NHTSA ritenevano che la guida aggressiva (la loro e quella degli altri) stesse via via aumentando nel tempo, e solo il 4% pensava che fosse in diminuzione. Più di recente, Curbow e Griffin hanno compiuto un’indagine su 218 donne impiegate in una compagnia di telecomunicazioni. Si trattava di un campione professionalmente stabile, in cui il 67% aveva un titolo di studio di scuola superiore o oltre, il 76% aveva figli, e la cui media di anzianità nel lavoro era di 18 anni. Tra queste donne, il 56% ha riferito di aggressività nella guida, il 41% ammette di aver gridato o fatto gestacci verso contro altri automobilisti mentre si recava al lavoro, e il 25% ammette di sfogare la propria frustrazione da dietro il volante. Il comportamento aggressivo durante la guida sembra essere un problema diffuso.

Appare ragionevole ipotizzare che rabbia e frustrazione fra gli automobilisti non siano limitati all’abitacolo dell’auto. Quando una persona arrabbiata arriva a casa o al lavoro, quali sono le implicazioni per la vita familiare e professionale? Se il fenomeno noto come “stress da pendolarismo” mina il benessere e le relazioni sociali fuori e dentro la strada, e se questo insieme di problematiche si aggrava con l’allungarsi delle distanze e delle difficoltà di spostamento su strade intasate, allora lo sprawl può, in questo modo, minacciare la salute mentale.

Capitale sociale

Dalla fine della seconda guerra mondiale, i commentatori sociali hanno connesso alla vita suburbana un senso di isolamento e solitudine, nonostante queste affermazioni siano state di recente messe in discussione. “Non è una coincidenza – osserva Philip Langdon, professore di architettura a Yale – che nel momento in cui gli USA diventano una nazione prevalentemente suburbana, in tutto il paese si raccolga una amara messe di traumi individuali, disagio familiare, decadenza civica”. E in effetti, negli anni recenti è stata ampiamente notata e discussa un’erosione dell’impegno civico, della fiducia reciproca: una perdita di quanto si chiama “capitale sociale”. Alcuni autori hanno attribuito questo declino, in parte, alla suburbanizzazione e allo sprawl.

Una discussione esaustiva sulla complessa sociologia della vita suburbana, va oltre gli scopi di questo articolo. Ma alcuni fatti meritano menzione. In primo luogo, come sostiene Robert Putnam in Bowling Alone (Simon & Schuster, 2000), il semplice fatto di guidare per più tempo significa meno spazio per la famiglia o gli amici, e meno tempo da dedicare ad attività comunitarie, dal barbecue coi vicini alle riunioni del comitato genitori-insegnanti. Putnam valuta che ogni dieci minuti in più di guida provocano un 10% di diminuzione del coinvolgimento civico. In secondo luogo, gli schemi insediativi suburbani spesso implicano una considerevole stratificazione economica. Molti quartieri sono realizzati per specifici ambiti di prezzo, in modo tale che gli acquirenti case da 250.000 dollari sono di fatto segregati rispetto a quelli delle case da 500.000 dollari (con esclusione completa di quelli sul gradino economico più basso). Questo schema crea omogeneità economica nei quartieri, ma può intensificare la diseguaglianza fra aree di reddito nell’area metropolitana. In terzo luogo, sia i sondaggi che i risultati elettorali hanno dimostrato che i residenti suburbani preferiscono soluzioni più individualizzate, meno collettive ai problemi sociali, di quanto non facciano gli elettori delle zone urbane, di villaggio o rurali, con la possibile eccezione dei problemi scolastici. E per finire, i quartieri suburbani con abitazioni e giardini privati di grandi dimensioni, offrono poche scelte agli adulti anziani, una volta che i loro figli sono cresciuti e se ne sono andati da casa. Gli abitanti di questi “nidi vuoti” abitualmente devono cambiare quartiere se vogliono trovare case più piccole, che costino meno in manutenzione. L’impossibilità di restare nello stesso quartiere per tutto il ciclo della vita può anche minare la coesione interna alla comunità. Considerate complessivamente, queste tendenze suggeriscono che alcune caratteristiche dello sprawl spingono ad una maggiore stratificazione, e alla diminuzione del capitale sociale.

Una vasta letteratura ha esplorato le correlazione fra rapporti sociali e salute, soffermandosi sia a livello individuale (le relazioni personali), sia collettivo (capitale sociale). In generale, una più elevata quantità e qualità di relazioni sociali è associata a benefici per la salute. Al contrario, la stratificazione sociale, in particolare la diseguaglianza economica, è associata ad una più alta mortalità generale, maggior mortalità infantile, più alta mortalità per varie cause specifiche, indipendentemente dal livello di reddito o povertà, secondo i dati censuari di USA e Gran Bretagna. Esistono prove che questo effetto sia mediato, almeno in parte, dal capitale sociale. Dunque, visto che lo sprawl si associa alla stratificazione sociale e perdita di capitale sociale, e che questi fenomeni sono a loro volta associati ad una maggiore morbilità e mortalità, lo sprawl può avere impatti sanitari negativi a questa ampia scala.

Considerazioni di giustizia ambientale

Le ricerche degli ultimi 15 anni suggeriscono che poveri e membri di minoranze sono sproporzionatamente esposti a rischi ambientali. Potrebbe, qualcuna delle conseguenze sanitarie negative dello sprawl, avere effetti sproporzionati sulle stesse popolazioni?

In generale, il sistema di sviluppo urbano di cui lo sprawl fa parte può sottrarre ai poveri opportunità economiche. Mentre posti di lavoro, negozi, buone scuole e altre risorse migrano verso l’esterno del nucleo urbano, la povertà si concentra nei quartieri lasciati alle spalle. Un esame completo sull’impatto della povertà rispetto alla salute va oltre i limiti di questo articolo, ma esiste una vasta letteratura sul tema. Se lo sprawl aggrava gli effetti della povertà, può contribuire anche al peso di malattie e mortalità.

Più specificamente, esistono prove che parecchi dei rischi sanitari correlati allo sprawl interessano in modo sproporzionato la popolazione delle minoranze. Un esempio è l’inquinamento atmosferico. Poveri e popolazione di colore sono molto più colpiti dall’aria inquinata per almeno due ragioni: maggior esposizione e maggior presenza di malattie che aumentano la sensibilità. I membri delle minoranze sono più esposti all’inquinamento dei bianchi, indipendentemente dal reddito e dal tipo di insediamento. I dati della Environment Protection Agency mostrano che neri e ispanici tendono relativamente più dei bianchi a vivere in aree dove non si rispettano i requisiti ambientali standard. Aumenta in generale l’incidenza dell’asma, e resta più alta la sua presenza e mortalità fra le minoranze che fra i bianchi. Questa presenza è di 122 per mille fra i neri e 104 per mille fra i bianchi, e la mortalità è grosso modo tre volte superiore fra i neri che fra i bianchi. Nello stesso modo, la presenza di asma fra i bambini portoricani è tre volte più alta che fra bambini non ispanici. Fra i pazienti Medicaid, i bambini neri hanno il 93%, e gli ispanici il 34% in più dei bambini bianchi, di ospedalizzazioni multiple per asma. Nonostante una parte di queste percentuali sia dovuta alla povertà, la maggior quota rimane anche quando le analisi vengono condotte rispetto al reddito. La presenza e mortalità dell’asma è particolarmente alta, e in ascesa, nelle inner cities, dove si concentrano le minoranze. Sia l’esposizione all’inquinamento atmosferico e la sensibilità ai suoi effetti appaiono sproporzionatamente concentrate fra i poveri e la popolazione di colore. Con lo sprawl a contribuire all’inquinamento atmosferico nelle aree metropolitane, queste persone possono essere sproporzionatamente colpite.

La morbilità e mortalità connesse al riscaldamento interessano pure in modo sproporzionato i poveri e i membri delle minoranze. Nel 1995 l’ondata di caldo a Chicago ha provocato fra i residenti neri un tasso di mortalità superiore del 50% a quello degli abitanti bianchi. Risultati simili emergono per le ondate di caldo del Texas, di Memphis, St. Louis e Kansas City, e si rispecchiano nelle statistiche nazionali. Di particolare interesse nel contesto dello sprawl urbano, uno studio su un’ondata di caldo ha preso in considerazione il trasporto come fattore di rischio, rilevando che l’accesso limitato ai mezzi di trasporto (legato alla povertà, e all’essere o meno bianchi) si associava ad un tasso di mortalità per caldo più alto del 70%.

Ci sono significative differenze razziali/etniche nelle statistiche sugli incidenti stradali mortali. I risultati di una ricerca del National Health Interview Survey rivelano che i morti per incidente stradale sono 32,5 per centomila l’anno fra maschi neri, 10,2 fra maschi ispanici, 19,5 fra maschi bianchi, 11,6 tra donne nere, 9,1 per le ispaniche, 8,5 per le donne bianche. Molte di queste disparità si associano alla classe sociale. Ad ogni modo le differenze per quanto riguarda lo schema insediativo, la qualità stradale, la qualità dei veicoli, possono essere importanti, e devono essere comprese meglio.

Gli incidenti stradali che coinvolgono pedoni interessano in modo sproporzionato glia appartenenti alle minoranze e chi occupa l’ultimo gradino della scala economica. Ad Atlanta, per esempio, i tassi di mortalità per pedoni in incidente stradale fra il 1994 e il 1998 erano del 9.74 per centomila persone fra gli ispanici, 3,85 fra i neri, 1,64 per i bianchi. Nella suburbana Orange County, California, i latinoamericani rappresentano il 28% della popolazione, ma il 44% dei pedoni morti per incidente stradale. Nel suburbio di Washington nello stato della Virginia, gli ispanici sono l’8% della popolazione, ma rappresentano il 21% delle vittime da incidente. I motivi di questo impatto sproporzionato sono complessi, e possono essere legati alla probabilità di essere pedoni (forse legata al minore accesso alle automobili e ai trasporti pubblici), alla progettazione stradale nelle aree dove i membri delle minoranze camminano, e fattori culturali e comportamentali (come la scarsa abitudine al traffico veloce).

Questi esempi illustrano che gli effetti dello sprawl sulla salute possono essere diversi per diverse sub-popolazioni. In altri casi, ci sono meno prove dello squilibrio negli effetti sanitari connessi allo sprawl, o se ne esistono sembrano associate a fattori diversi dall’uso del suolo e dai trasporti. Questi casi comprendono l’attività fisica, gli aspetti sanitari connessi all’acqua, e i problemi di salute mentale.

Attività fisica e problemi di sovrappeso variano a seconda dei gruppi etnici e razziali. Le persone di colore hanno maggiore probabilità di essere sovrappeso, e di condurre vite sedentarie, di quanto non accada ai bianchi. Nel terzo National Health and Nutrition Exhamination Survey (NHANES-III) ad esempio, il 40% dei Messicano-Americani e il 35% dei neri non risultavano svolgere attività fisica nel tempo libero, contro il 18% dei bianchi. Nella stessa indagine, il medio Body Mass Index era di 29,2 per la popolazione nera, 28,6 per il Messicano-Americani, e il 26,3 per i bianchi. Le correlazioni fra i fattori di razza, etnia, genetici, di classe sociale, ambiente, dieta, attività fisica e peso corporeo sono complesse. Non c’è evidenza che lo sprawl condizioni in modo sproporzionato la popolazione di colore per quanto riguarda l’attività fisica. Nei fatti, le persone più povere hanno meno probabilità di possedere un’automobile e quindi maggior probabilità di camminare più delle persone con redditi superiori. Vista l’importanza per la salute collettiva del sovrappeso, obesità e condizioni sanitarie correlate, e il fatto che si è svolta relativamente poca ricerca sulle disparità ambientali provocate dallo sprawl, sono necessari dati ulteriori su questi aspetti.

Per contro, non esiste alcuna prova riguardo al rapporto fra sprawl e sproporzione degli effetti sulle minoranze della quantità e qualità d’acqua. Allo stesso modo, non c’è prova che le conseguenze dello sprawl sulla salute mentale, come la road rage, abbiano effetti diversi su gruppi etnici o razziali diversi. Nelle indagini sul comportamento dei guidatori citate sopra, non sono rilevate differenze di questo tipo nei comportamenti aggressivi. Nonostante per la popolazione di colore risultasse una percentuale leggermente più bassa di vittime di aggressione che per i bianchi o altri gruppi, non si trattava di una differenza statisticamente rilevante.

Riassumendo, alcune conseguenze dello sprawl sembrano avere effetti sproporzionati sui sub-gruppi di popolazione più vulnerabili, mentre per quanto riguarda altre questa tendenza non è dimostrata. In molti casi non abbiamo dati sufficienti per trarre solide conclusioni. Vista l’importanza degli effetti sulla salute coinvolti, l’imperativo morale di eliminare le disparità etniche e razziali in campo sanitario, e l’incremento continuo dello sprawl, queste correlazioni meritano un’attenzione pubblica costante.

Soluzioni

Come esposto sopra, sono necessarie ulteriori ricerche per chiarire le complesse correlazioni fra usi del suolo, modi di trasporto, e salute. Quali approcci alla pianificazione, progettazione e realizzazione urbana, sono i più adatti a ridurre l’inquinamento atmosferico, l’effetto isola termica, incoraggiare l’attività fisica, ridurre la morbilità e e mortalità connessa all’automobile, promuovere salute mentale e senso comunitario? Nonostante questo articolo si sia concentrato sulle conseguenze sanitarie dello sprawl, ci sono altre forme di ambiente costruito (città dense, aree rurali marginali, piccole cittadine) tutte dotate di vantaggi e svantaggi, che hanno necessità di essere valutati. È probabile che molti tipi di insediamento possano promuovere una migliore salute, e che un approccio ottimale possa prendere elementi dalla città, dal suburbio, dai piccoli centri.

Alcuni interventi possono essere relativamente semplici, come piantare più alberi o realizzare più marciapiedi. Altri sono più complessi e costosi da mettere in pratica, come i trasporti pubblici o le zone a usi misti. Per ciascuno di questi, alcuni metodi standard di ricerca sanitaria – dalle analisi cliniche all’osservazione epidemiologica – possono offrire indicazioni. Queste ricerche richiederanno collaborazioni innovative con altre professioni, come gli urbanisti, gli architetti, i costruttori.

È di importanza particolare per i ricercatori sanitari riconoscere e studiare gli “esperimenti naturali”. I modi di uso dello spazio urbanizzato stanno cambiando, con una migrazione di ritorno verso le aree interne urbane, con i limiti pianificati di espansione urbana [UGB, urban growth boundaries n.d.T.] che contengono lo sviluppo entro determinate zone, la nascita di quartieri a usi misti, innovazioni nel trasporto di massa, programmi per spazi verdi, e iniziative simili. Questi sforzi offrono ai ricercatori sanitari l’opportunità per studiarne gli effetti dal punto di vista della salute.

Visto che riconosciamo e comprendiamo i costi sanitari dello sprawl, possiamo cominciare a ipotizzare soluzioni. Molte di queste potenziali soluzioni si trovano nell’approccio urbanistico noto come “smart growth”, caratterizzato da maggiori densità, maggiore continuità nello sviluppo dell’urbanizzato, conservazione degli spazi verdi, usi misti del suolo e quartieri percorribili a piedi, quantità limitata di strade e alternative di trasporto pubblico, eterogeneità architettonica ed eterogeneità socioeconomica/etnica/razziale, equilibrio degli investimenti fra sviluppo del centro e della periferia, efficace e coordinata pianificazione di scala regionale. È importante il fatto che molti dei benefici per la salute che possono risultare da questo approccio (meno inquinamento atmosferico, più attività fisica, temperature più basse, meno incidenti stradali) possano portare anche benefici collaterali, come un ambiente più pulito, e quartieri più vivibili. Se le conseguenze sanitarie dello sprawl rappresentano una “sindemia” (combinazione di epidemie sinergiche che contribuiscono al carico di malattie della popolazione) anche le soluzioni possono operare in modo sinergico, migliorando di molto le condizioni sanitarie.

Le professioni della salute possono giocare un ruolo importante nel progettare e mettere in atto politiche di uso del suolo e dei trasporti. Nello stesso modo, chi ha tradizionalmente gestito questi aspetti (urbanisti, architetti, ingegneri, costruttori e altri) dovrebbe riconoscere le importanti implicazioni sanitarie delle proprie decisioni e cercare la collaborazione delle professioni legate alla salute.

Conclusioni

Lo sprawl urbano è un fenomeno di lungo periodo. È iniziato con l’espansione delle città verso le zone rurali, accelerando molto durante la seconda metà del XX secolo. Mentre comincia il XXI secolo, circa la metà degli americani vive nei sobborghi, e le caratteristiche dello sprawl (bassa densità, alta dipendenza dall’automobile per i trasporti, caduta delle opportunità per alcuni gruppi sociali, specie per quelli restati nelle inner cities) sono diffuse e familiari.

Questo articolo ha esposto le correlazioni fra sprawl e salute, basandosi su otto tipi di considerazioni: l’inquinamento atmosferico; il riscaldamento; i modi dell’attività fisica; gli incidenti stradali con feriti e morti anche fa i pedoni; quantità e qualità dell’acqua; salute mentale e capitale sociale. I dati mostrano sia i benefici che i costi per la salute. Come è vero per molti rischi sanitari collettivi, gli impatti dello sprawl non ricadono equamente sulla popolazione, e chi ne è maggiormente colpito merita particolare attenzione.

Dato che ci si occupa dello sprawl a vari livelli, dalle decisioni personali sulla mobilità alle ordinanze locali di azzonamento, dal trasporto pubblico a scala regionale alle decisioni federali e a quelle che modificano i modi d’uso del suolo, è essenziale incorporare considerazioni di tipo sanitario nella costruzione delle politiche. E dato che gli effetti sanitari dello sprawl sono distribuiti in modo ineguale tra la popolazione, è egualmente essenziale incorporare nelle politiche considerazioni di giustizia ed equità sociale.

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(traduzione di Fabrizio Bottini)

C’è qualche correlazione, fra il Movimento Slow Food e la diffusa preoccupazione delle persone per la perdita di qualità della vita connessa al rampante sviluppo edilizio, che minaccia il carattere delle loro città? Il movimento Slow Food è nato in Europa come reazione all’assalto delle grandi catene americane di fast-food che aprivano nei centri storici delle città e cittadine. Queste attività interrompevano la tradizione di ristoranti e caffè che lavorava entro una rete locale e regionale di produttori, dal mercato alla tavola.

Negli ultimi dieci anni la popolarità dello Slow Food si è molto sviluppata a livello internazionale, con “Convivi” – piccole sezioni – locali in tutto il mondo. La lumaca è il suo simbolo “di movimento lento, per ricordarci che essere veloci rende sconsiderati e sciocchi”.

Il Manifesto dello Slow Food Manifesto afferma:

“Siamo resi schiavi dalla velocità, e abbimao tutti ceduto allo stesso insidioso virus: la Vita Veloce, che distrugge le nostre abitudini, invade la privacy delle nostre case e ci obbliga a mangiare fast-food. In nome della produttività, la Vita Veloce ha cambiato il nostro modo di essere, e minaccia il nostro ambiente e i nostri paesaggi. In questo momento, Slow Food è l’unica, vera risposta avanzata”.

Se nasce un convivio per incoraggiare il lento piacere del cibo, non potrebbe un movimento del genere abbracciare altri aspetti di qualità della vita? In Italia si è già formata una rete di “Slow Cities”. Nelle regioni degli U.S.A. dove si sono affermati i principi smart growth, esiste un crescente interesse anche a rallentare uno sviluppo rampante.

La città di Huntersville, North Carolina, ha sostenuto una politica di smart growth —chiamata qui new urbanism — nell’ultima mezza dozzina di anni, per controllare la rapida espansione all’esterno di Charlotte. È seguendo il credo del new urbanism che si sono realizzati o restaurati quartieri compatti, a funzioni miste e buona percorribilità pedonale, che saranno le basi per una regione più vivibile. Queste strategie, credono molti, sono anche la chiave per rivitalizzare i nostri centri città, a aiutare a mitigare gli effetti dello sprawl suburbano,

Ma la gente di Huntersville non è molto contenta per il tipo di sviluppo ch è risultato, anche dall’apporccio new urbanist. Questo si deve forse al modo in cui è stato interpretato qui. Anche se i regolamenti urbanistici promuovono il new urbanism per le nuove realizzazioni, nei quartieri questo tipo di progettazione si ferma ai margini di ciascun insediamento. C’è poca cura per la forma del quartiere, compresi i rapporti fra le zone, o fra queste e il contesto circostante. In più, non c’è uno studio generale degli effetti dei nuovi quartieri sulle infrastrutture e il tessuto esistenti: da qui, il continuo incremento dei guai col traffico, la carenza di scuole, la diminuzione di qualità dell’acqua, ecc.

Per ogni “buon progetto” di quartiere ci sono dozzine di grosse lottizzazioni dove file di case a forma di fette di pane (che hanno pure portici sul fronte, anche se troppo piccoli per una sedia a dondolo) e case tradizionali da città (anche se hanno un vicolo sul retro per i garages, ma giardini privati mal definiti) stanno separate. La connettività è debole, e per la maggior parte affidata alla circolazione interna. Gli usi misti non esistono: le gente deve ancora guidare per chilometri solo per spendere qualche soldo. I marciapiedi finiscono bruscamente di fronte a strade ad alta velocità, di fronte a scuole in stile suburbano accessibili soltanto in macchina. Il trasporto pubblico non funziona, in questo tipo di ambiente artificioso.

Nel degrado crescente della qualità della vita, qualcuno dà la colpa al new urbanism. Ma il new urbanism non ha colpe. L’adozione dei suoi principi, anche se in piccola parte, ha aiutato a rallentare il degrado. Però fino a quando i principi new urbanism non saranno applicati alla città di Huntersville nel suo insieme, continueremo a vedere questo sviluppo “ new urbanist agli steroidi”: una specie di versione fast-food della smart growth.

Parte della regione di questo ibrido locale è che le benintenzionate revisioni all’ordinanza di zoning di Huntersville offrono troppa flessibilità, comprese categorie ibride di zone. I grossi costruttori si stanno avvantaggiando di queste categorie, seguendo solo alla lettera i requisiti minimi della normativa.

Per fortuna gli amministratori locali si stanno occupando del problema. È stata votata una moratoria di alcuni mesi per dare alla città il tempo di sviluppare norme più restrittive per arginare l’espandersi degli ibridi malriusciti.

Le nuove norme appena approvate per le zone rurali e di transizione, che focalizzano maggiormente i quartieri sul trasporto pubblico, sono un grosso passo nella giusta direzione. Ma basteranno da soli i limiti allo sviluppo dell’urbanizzato [ Urban Growth Boundaries/UGB, n.d.T. ] a migliorare tipo di insediamento e qualità della vita? Suvvia: c’è ancora, dentro quei confini, abbastanza spazio per scatenare la devastazione.

Ho iniziato a capire che forse l’unico approccio efficace potebbe essere che ciascuno rallentasse abbastanza per pensare al tipo di insediamento che stiamo cercando di costruire. In realtà, parecchi costruttori e pianificatori new urbanist di successo hanno scoperto con l’esperienza che c’è più profitto, e si fanno progetti migliori, andando più piano.

Allora, come sarebbe lo sviluppo di Huntersville se le attuali regole di zoning e politiche urbanistiche fossero modificate usando i criteri del trattamento Slow Food, e trasformando alcuni dei principi-guida in una versione rallentata di new urbanism, vale a dire lo slow urbanism?

Il manifesto dello slow urbanism potebbe suonare qualcosa del genere:

“Lo Slow Urbanism incoraggia le persone a creare quartieri integrati; a valorizzare le tradizioni edilizie locali; e a prendersi il tempo — questa è la parte importante (e divertente) — di godere la vita comunitaria, in famiglia e con gli amici”.

Il nostro motto sarà “Sbrigarsi lentamente”.

Fonderemo Convivi di Slow Urbanism (o Clubs, per i meno pretenziosi) composti da cittadini, architetti, paesaggisti, urbanisti, imprese edilizie, arredatori, artisti, giardinieri, progettisti, negozianti, musicisti, ambientalisti, promotori immobiliari, operatori di mercato, restauratori, e poi funzionari pubblici, politici, e (anche loro) i costruttori. La cosa più importante: i convivi comprenderanno anche la gente comune.

Ci incontreremo nei fine settimana nei vari quartieri — o sui siti dei futuri quartieri — a fare “attività sociale slow urbanism”.

Formeremo un sottocomitato per la eco-urbanistica che affermi, “Non si ha ecologia senza urbanistica, e urbanistica senza ecologia!”. E questo perché “se vuoi che una comunità cresca bene, hai bisogno di veri modelli locali di sostenibilità, basati sulla tradizione”.

Sosterremo le attività e i fornitori locali. Nello slow urbanism i piccoli costruttori e studi di progettazione saranno gli eroi. A differenza dell’urbanizzazione intesa come prodotto per il consumo di massa, gli insediamenti slow urbanism creeranno spazi create di raffinata qualità e varietà. Occorre costruire quartieri usando metodi tradizionali, a bassa tecnologia, mettendo al centro le tecniche costruttive locali.

Il nostro Convivio slow urbanism organizzerà viaggi di ricognizione a visitare grandi città e quartieri, per lo studio intellettuale, e anche per divertirsi un po’, lontano dalle zone invase dallo sprawl.

I nostri incontri si svolgeranno davanti a gradevoli cibi e bevande, su sedie a dondolo, nei bar del quartiere, nelle caffetterie, nei parchi, sui portici davanti alle case, nelle piazze.

Durante le riunioni faremo passeggiate oziose per le strade accoglienti per i pedoni, a conoscere i nostri vicini. Non ci saranno le insegne dei Jack-in-the-Box, Friday’s, Old Navies, o Wal-Mart a lampeggiare dai margini di un parcheggio.

Slow Urbanism sarà per la gente vera, che vuole vivere in quartieri dotati di senso. C’è un modo migliore, per fare professione politica, che vivere in un posto ben progettato, ben costruito, solidale?

Una riunione locale dello Slow Urbanism Convivium sembrerà un altro modo rispetto alle zone dello sprawl suburbano, o della boomtown ammucchiata. È anche possibile che qualcuno qui sperimenti una vita comunitaria per la prima volta in vita sua.

Lo slow urbanism sarà l’antitesi al “ new urbanism agli steroidi”. Sarà un vero piacere! Coltivare come idea centrale della missione slow urbanism una comunità autentica e piena di significati, renderà il movimento attraente per tutti.

C’è qualcuno interessato ad associarsi? Io sarò il primo a firmare!

Nota: qui il link al testo originale al sito Terrain.org che contiene tra l'altro alcuni divertenti disegni sul tema (fb)

Titolo originale: Why Planners are Ambivalent About Gated Communities - traduzione di Fabrizio Bottini

Le nuove città recintate

Durante il Medio Evo, molte città costruirono lunghe mura per proteggere i propri abitanti. Con il cambiamento delle tecnologie militari e l’espandersi delle alleanze politiche, le mura urbane gradualmente divennero inutili. Ma negli anni recenti, si è visto un risorgere delle comunità chiuse. I progetti gated contemporanei sono a volte città complete, come nel caso di Hidden Hill, California, o Alphaville, in Brasile. Più spesso, però, si tratta di lottizzazioni con case e qualche struttura per il tempo libero. In queste nuove comunità recintate, mura e cancelli promettono sicurezza, privacy, privilegi per chi vive all’interno.

Alcune stime indicano che ben 4 milioni di americani vivono in circa 30.000 insediamenti ad accesso controllato. Queste enclaves chiuse compaiono nei quartieri residenziali di tutti i continenti. Insieme al commercio big-box e alle aree di sviluppo agevolato, questi progetti rappresentano la città globale postindustriale.

Se le persone agiate di oggi sembrano ovunque condividere un interesse in questa nuova forma urbana, si riscontrano considerevoli variazioni regionali nelle caratteristiche delle enclaves chiuse. Questo ci porta a indagare sulle comunità chiuse del Canada, su cui è stato scritto poco.

Gated Communities in Canada

Abbiamo utilizzato la seguente definizione: “ Gated Communities sono insediamenti residenziali su strade private che sono chiusi al traffico pubblico tramite un cancello all’ingresso principale. Questi insediamenti possono essere circondati da recinzioni, muri o altre barriere naturali che limitano ulteriormente l’accesso pubblico”.

I nostri metodi di ricerca hanno preso in considerazione l’esame della letteratura scientifica, domande via e-mail ad urbanisti, analisi dei listini immobiliari su internet, casi studio in tre province. Abbiamo identificato 314 gated communities in sei province. Non si tratta di uno studio esaustivo: riteniamo che ci possano essere due o tre volte tanti insediamenti del genere in Canada. Il numero maggiore dei quartieri chiusi è nella British Columbia. Alcuni costruttori hanno creato un mercato di nicchia di un certo successo per questo tipo di quartieri. Ci sono concentrazioni di queste enclaves nella Okanagan Valley e nei sobborghi di Vancouver. I gated projects sono popolari fra le persone più anziane e si trovano comunemente in località abitate da pensionati. Circa un terzo dei progetti identificati si rivolge selettivamente a residenti anziani. Per la maggior parte, gli insediamenti canadesi hanno meno di 100 abitazioni. A differenza dei quartieri chiusi USA, pochi di quelli canadesi impiegano guardie o videosorveglianza.

Le risposte dell’urbanistica

Nell’indagine via e-mail, abbiamo contattato 123 urbanisti ottenendo risposte da 78 (il 63%). Solo nove delle amministrazioni municipali avevano politiche di piano o linee guida di progetto orientate specificamente alle gated communities. Nonostante alcuni orientamenti di piano scoraggiassero la chiusura (a Burnaby, Coquitlam, Nanaimo, Kelowna, Qualicum Beach, piano per la regione di Ottawa), erano rare le indicazioni che esplicitamente tentavano di prevenirla. Alcune regole che proibiscono i lotti a “fronte inverso”, o limitano l’altezza delle recinzioni possono diminuire l’impatto della chiusura, ma non impedirla. Politiche che richiedano l’accessibilità pubblica o incoraggino la connettività stradale possono avere effetti maggiori (come a Surrey, Burnaby, Orangeville). Molte città hanno adottato linee guida per il verde e regolamenti per recinzioni progettate in modo da diminuire l’impatto di vaste chiusure.

Gli urbanisti intervistati spesso esprimono un certo disagio verso le gated enclaves. La loro preoccupazione principale è l’effetto visivo di lunghe muraglie lungo strade di connessione, e l’interruzione della rete viaria. Alcuni hanno sollevato questioni sociali sul senso di segregare gruppi di persone dietro un muro. Tutti riconoscono però che quelle cancellate sono molto popolari fra gli acquirenti di case, costruttori e amministratori. Parecchi hanno affermato che i loro consigli municipali non erano interessati nelle restrizioni agli insediamenti chiusi.

Forse, l’opposizione più attiva al gating viene dai gruppi locali di vigili del fuoco, preoccupati dai tempi di intervento. Se i quartieri della British Columbia sembrano aver raggiunto accordi col personale di emergenza, in Nova Scotia il servizio antincendi è ancora contrario a strade private di qualsiasi genere.

Nella maggior parte delle città canadesi, i costruttori non hanno ancora realizzato quartieri chiusi. I cancelli compaiono in genere dove la crescita è più forte, e il mercato più segmentato. In parecchie città e cittadine prive di gated enclaves, gli urbanisti indicano di aver dissuaso i costruttori dal proporle. Per la maggior parte però gli stessi urbanisti non hanno esperienze con questi tipi di quartiere, e non si aspettano di ricevere proposte riguardo ad essi per l’immediato futuro. Quindi, non hanno necessità di sviluppare alcun tipo di politica di prevenzione.

Conflitto con gli obiettivi urbanistici

La letteratura accademica che si occupa del gating dà quasi universalmente giudizi negativi. Queste enclaves sono descritte come paesaggi di paura e privilegio. Sono criticate in quanto esclusive, reazionarie, e socialmente isolanti. La letteratura sembra suggerire che la chiusura contraddica i principi della professione urbanistica, di apertura, accessibilità, diversità, eguaglianza.

La letteratura promozionale delle gated communities, per contrasto, è notevolmente positiva. Che vende e compra case nelle gated communities vede paesaggi di privacy, sicurezza, ambiente amichevole, senso comunitario.

Gli urbanisti municipali che non hanno mai avuto a che fare con richieste relative a quartieri chiusi possono farsi un’opinione a riguardo in base a quanto hanno visto nella letteratura, o nei loro viaggi, o in parte in base a valutazioni professionali e sensibilità personale. Chi si occupa di gated communities all’interno della propria circoscrizione può trovare molto più difficile lo sviluppo di un’opinione a riguardo. Se esaminiamo i valori urbanistici associati a questi quartieri, vediamo i motivi di questa ambiguità.

In qualche modo, il gating ha caratteristiche coerenti ad alcuni valori base dell’urbanistica. Per esempio, questi quartieri sono spesso edificati in zone destinate alle abitazioni multifamiliari. Con una proprietà di tipo condominiale, le abitazioni sono su piccoli lotti e realizate con densità medie, facilitano lo sviluppo compatto e le strategie di aumento della densità locale. All’interno dei quartieri, uno spazio aperto di qualità forma ambienti pedonali a dimensione umana. Con il traffico limitato, le strade sono sicure e quiete. Linee di progetto unificate, insieme a chiari limiti e fuochi, creano un senso dello spazio. Molti di questi principi si sono inseriti stabilmente nell’urbanistica canadese attraverso l’influenza del new urbanism, e si sono concretizzati nelle gated communities.

I residenti di queste enclaves possono godere di un senso comunitario. Lavorano insieme nella gestione del proprio quartiere, attraverso le associazioni di abitanti, costruendo un potenziale capitale sociale. Condividono i servizi comuni e gli spazi per il tempo libero, si vedono l’un l’altro mentre camminano nella zona. Sono disponibili all’aiuto reciproco. Dato che trasferirsi in una comunità recintata è una scelta di stile di vita, i residenti abitualmente hanno interessi personali e caratteristiche simili.

I fattori che rendono forti queste comunità – l’omogeneità economica e quella sociale – costituiscono una sfida ai valori dell’urbanistica contemporanea. Uno dei suoi principi chiave è l’idea di diversità. Le città devono contenere un ampia gamma di persone e possibilità. Gli urbanisti hanno tradotto tendenzialmente questo obiettivo nella pianificazione a usi misti, tipi di residenze e di famiglie all’interno della città I quartieri gated non seguono questo criterio, perché segregano usi, classi, e spesso anche età.

Dato che le loro strade non sono collegate alla più vasta rete urbana, le enclaves aumentano le dimensioni delle cellule della trama insediativa, obbligando pedoni e auto a circumnavigarle. Poche sono ben servite dai trasporti pubblici. Se i piani di oggi spesso auspicano una rete di forte connessione stradale, percorsi verdi e pedonali, le gated communities interrompono questo tessuto.

Anche se esistono pure parchi di case mobili recintati, la maggior parte dei quartieri chiusi sono enclaves di alto reddito. La chiusura presenta un’altra sfida all’obiettivo di assicurare una ampia scelta residenziale anche a prezzi accessibili, nei nuovi quartieri. Qualunque guadagno ottenuto costruendo a densità più elevate più essere vanificato dai costi aggiuntivi di costruzione e manutenzione di mura e cancelli.

Alcuni sostengono che anziché far diminuire il tasso di criminalità, le gated enclaves aumentano il timore dei crimini. La presenza di recinzioni, cancelli, videosorveglianza e guardie rivela la crescente insicurezza della società moderna. Allo stesso tempo, visto che gli urbanisti lavorano per collaborare a piani di città che siano vivaci, sicure, accoglienti e adattabili, la tendenza che vediamo nei sobborghi ci dice che non tutti credono alla città aperta.

Dobbiamo riconoscere anche che gli urbanisti lavorano entro limiti politici e fiscali, che rendono difficile resistere alla pressione per quartieri chiusi. In molte parti del paese, le strade private sono comuni nei nuovi suburbi. I consigli municipali approvano vie private per facilitare il trasferimento dei costi a costruttori e consumatori. Il problema è che le strade private sono la facile premessa ai cancelli.

I costruttori che cercano di dare un senso identitario ai nuovi quartieri vedono ingressi e mura come abbellimenti. Chiudere una strada può attirare abitanti preoccupati per la manutenzione stradale e la sicurezza. In alcune zone, i residenti fanno addirittura pressione per chiudere strade pubbliche, a impedire scorciatoie al traffico e limitare i fastidi. I cancelli sono diventati popolari nell’ambito del mercato: un tipo di estensione del concetto di cul-de-sac su larga scala. L’ enclave chiusa offre un ambito sicuro e avvolgente. Per la maggior parte questi quartieri offrono vicinati di buona qualità, invisibili ai passanti, e aumentano i valori delle proprietà immobiliari della zona. Dato che hanno ingressi poco vistosi sulle strade locali, e recinzioni gradevoli con ottimo arredo a verde, pochi le notano per lamentarsene. Anche gli urbanisti comunali possono non conoscerne l’esistenza, dato che i cancelli possono essere stati aggiunti dopo l’approvazione dei piani attuativi.

Chiudere gli occhi?

Visto che otto su dieci nuovi insediamenti negli USA sono di tipo chiuso, potremmo desumere che gli urbanisti americani stiano attivamente esplorando le implicazioni dei gated developments. Un’occhiata veloce al programma della recente conferenza dell’American Planning Association a Washington, dell’aprile 2004, chiarisce la questione. In un programma con parecchie centinaia di presentazioni – oltre 80 sui vari aspetti del new urbanism, della smart growth, degli spazi orientati al trasporto pubblico; oltre 50 sui GIS e le applicazioni dei computers – non c’era una sola sessione o presentazione sugli insediamenti chiusi. Nonostante molte relazioni sottolineassero l’importanza della connettività stradale negli insediamenti new urbanist, nessuna discuteva le conseguenza spaziali delle gated enclaves. Il problema rimaneva invisibile, e i partecipanti alla conferenza ignoravano le contraddizioni della pratica quotidiana a favore di una conferma dei principi operativi urbanistici in voga.

Il Canadian Institute of Planners sembra più interessato a favorire una discussione. Sia l’anno scorso che questo, la nostra proposta per un gruppo di discussione sui quartieri recintati è stata accettata nel programma della conferenza. Questo offre l’opportunità di stimolare un dibattito fra urbanisti. Crediamo che questo argomento sia uno di quelli da affrontare da parte degli urbanisti a viso aperto, al fine di formare una “opinione professionale” che possa guidare gli operatori locali che si trovano di fronte una crescente richiesta di approvare gated developments. Anche se l’estensione del fenomeno in Canada resta limitata, nuovi interventi stanno aprendo la strada giorno dopo giorno. Se i timori per la sicurezza personale aumentano (come è possibile nell’era del terrorismo globale), allora molti canadesi potranno sperare di scappare dietro ai cancelli. In quanto urbanisti, come gli risponderemo?

Nota: questo è il link al sito del Canadian Institute of Planning ; dato che per motivi di spazio e tempo ho escluso da questa traduzione tabelle e bibliografia, allego di seguito il file PDF originale completo (fb)

Questo pezzo doveva, in origine, essere una recensione a un libro uscito qualche settimana fa. Poi ho pensato che probabilmente molti lettori di Eddyburg avevano già letto la recensione (un po’ modaiola ma esaustiva a modo suo) di Patricia Leigh Brown su La Repubblica/New York Times del 30 giugno scorso. E alla recensione si è sostituita questa proposta di estratti dalla prima parte “teorica” del volume, alla quale segue un dizionario illustrato (da magnifiche/tragiche foto aeree) dei neologismi da sprawl suburbano. E guardando certi panorami pedemontani o di frangia rappresentati nelle foto di Jim Wark, qualche segno anche all’osservatore europeo sembra familiare. Purtroppo. (fb)

Titolo originale del capitolo Decoding Everyday American Landscapes – estratti e traduzione di Fabrizio Bottini

Una guida pratica allo Sprawl?



Parole come città, suburbio e campagna, non colgono più la realtà dell’urbanizzazione negli Stati Uniti. La maggior parte degli americani abita paesaggi metropolitani complessi, stratificazioni di zone omogenee, strisce e centri commerciali, parchi industriali e terziari, autostrade.

La diffusa insoddisfazione per l’edilizia speculativa ha generato molte critiche, ma spesso mancano termini precisi per definire gli elementi fisici dello sprawl. Se gli storici dell’arte scrivono dizionari illustrati di architettura, e gli urbanisti definiscono gli usi del suolo con termini legali, i costruttori creano un gergo vivace per discutere i loro progetti. Il vocabolario essenziale per dibattere le questioni correnti dell’edilizia comprende non solo parole familiari, come lottizzazione, strada, parcheggio, ma anche i termini più esotici di growth machine [il meccanismo inesorabile della crescita quantitativa n.d.T.], ruburb [gioco di parole che sta per “suburbio rurale”], category killer [tipo di mega negozio specializzato discount], privatopia, duck [edificio che serve anche da insegna architettonica della funzione contenuta], tower farm [raggruppamento di ripetitori per telecomunicazioni].

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Lo spazio costruito esprime le priorità materiali e politiche di una società. Sparpagliate per il paesaggio, le forme di insediamento residenziali e commerciali tipicamente americane e auto-orientate sono spesso chiamate sprawl. Il Collegiate Dictionary Merriam-Webster decima edizione definisce sprawl un verbo transitivo: “causare il distendersi in modo casuale o disordinato”. È una buona definizione generale, perché si concentra sul processo. Lo sprawl è una crescita non regolata che si esprime come disordinato uso del suolo e di altre risorse, oltre che abbandono di aree edificate di vecchia data. Mentre gli analisti delle politiche dibattono la cause e conseguenza dello sprawl, molti pianificatori e ambientalisti usano correntemente definire il fenomeno come processo di urbanizzazione su larga scala che produce un edificato a bassa densità, sparso, discontinuo, dipendente dall’auto, abitualmente alla periferia di sobborghi di più vecchia data in declino, o centri città in riduzione.

Durante la seconda metà del ventesimo secolo, gli Stati Uniti sono divenuti prevalentemente suburbani: le autostrade interstatali hanno dominato l’intervento pubblico, mentre l’edilizia orientata all’uso dell’automobile e a quello dei parcheggi, con zone residenziali omogenee, grandi catene di ristorazione fast-food, zone a uffici, centri commerciali, domina quello privato. Nel 2004, le località di tipo suburbano hanno superato quelle urbane in numero di residenti, elettori, offerta di nuovi posti di lavoro. Lo sprawl produce paesaggi ad una scala più adatta alle automobili e ai camion che agli esseri umani, paesaggi caratterizzati da ampie strade, nastri commerciali senza fine, piccoli baccelli di insediamenti monouso (come lottizzazioni residenziali o centri commerciali) e poco spazio aperto pubblico. La storica Lizabeth Cohen ha delineato come gli Stati Uniti si siano sviluppati in una “repubblica di consumatori” nel periodo seguente la seconda guerra mondiale, una società basata sul consumo di massa di automobili, abitazioni, beni industriali, molti di questi progettati per una rapida obsolescenza. Lo spreco evidente è parte dello sprawl, come si può vedere nel cattivo uso della terra, con i cimiteri delle automobili, le discariche traboccanti, l’esportazione dei rifiuti. Il visibile deterioramento dell’ambiente è pure una parte essenziale dello sprawl, che appare in forma di antichi sobborghi in decadenza, edifici abbandonati, sistemi di trasporto collettivo in declino o abbandonati. Nonostante lo sprawl possa apparire abbastanza ovvio allo sguardo nelle periferie metropolitane, dove la nuova edilizia speculativa è comune, i centri città più vecchi pure rivelano gli effetti dello sprawl, perché in un’economia organizzata su nuove costruzioni e rapida obsolescenza, le zone urbanizzate sono spesso lasciate andare in pezzi.

Osservare lo sprawl come processo è un esercizio di comprensione dell’habitat. C’è bisogno di capacità di osservazione, e di ascolto. Come storica delle città, e architetto di formazione, per prima cosa ho imparato a individuare i segni dell’edificazione che arriva in spedizioni sul campo ai tempi dell’università. Una ruspa che scava buchi per un test di drenaggio in una zona residenziale indica che qualcuno sta chiedendo l’autorizzazione per un edificio o un quartiere. Mucche a pascolare vicino a cartelli che recitano “Lotto in vendita, Destinazione commerciale”, seguiti dai paletti da geometra tra l’erba, e dall’installazione di impianti illuminanti da autostrada lì vicino, significa cambio di destinazione da agricola a grande negozio discount o centro commerciale. Spesso la velocità delle demolizioni e delle costruzioni sorprende i miei vicini. Gli uffici urbanistici locali archiviano autorizzazioni e progetti, ma pochi residenti li studiano con diligenza. Quando compare la scritta “Chiusura per fallimento” su attività a gestioni familiare che hanno prosperato per decenni sulla piazza del villaggio o sulla via principale, di solito è troppo tardi perché i comuni cittadini possano intervenire.

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La Guerra dello Sprawl

La Real Estate Research Corporation pubblicò The Costs of Sprawl nel 1974, un monumentale rapporto sui problemi creati ad abitanti e governi locali dallo sviluppo non pianificato dell’urbanizzazione residenziale e commerciale a bassa densità. Nel 1998 The Costs of Sprawl-Revisited ampliava queste considerazioni. Ma la critica più acuta dello sprawl, negli anni ’70 fu la monografia di Mark Gottdiener, Planned Sprawl: Private and Public Interests in Suburbia, un’analisi dell’edificazione a Long Island. Gottdiener esaminava la speculazione nell’industria edilizia, concludendo che gli ambienti edificati che apparivano visivamente caotici erano spesso il risultato di deliberate strategie di impresa per massimizzare i profitti. Egli sosteneva che lo sprawl avesse radici profonde nella politica economica del capitalismo avanzato, dove la produzione di spazi vendibili o affittabili univa gli interessi delle banche, delle assicurazioni, dell’impresa edilizia.

Fra gli anni ’70 e ’90 molti gruppi si sono cimentati nella guerra allo sprawl, come il Sierra Club, il Lincoln Institute of Land Policy, il National Trust for Historic Preservation. Hanno difeso le frontiere della crescita in Oregon, salvato fattorie in Vermont, combattuto battaglie contro i negozi big-box nello Iowa. Il Natural Resources Defense Council ha scritto: “L’urbanizzazione a sprawl divora fattorie, pascoli e foreste, trasformandoli in nastri commerciali e lottizzazioni che servono più alle automobili che agli uomini”. Negli anni Novanta mentre la crescita economica alimentava uno sviluppo incontrollato sulle fasce esterne di tutte le maggiori aree metropolitane, gli ambientalisti hanno costruito sfide legislative allo sprawl, sostenute sia dai Democratici che dai Repubblicani a livello locale, statale e federale. Cento organizzazioni hanno formato una coalizione: Smart Growth America.

Mentre gli attivisti parlavano con fiducia di smart growth, di sprawl-busting, di sprawl-solving, le loro vittorie stimolavano i conservatori a riorganizzarsi, in particolare dopo l’elezione a Presidente di George W. Bush nel 2000. Molte lobbies economiche come la National Association of Realtors e la National Association of Home Builders si sono unite alle associazioni anti- sprawl per tentare di persuaderle ad adottare punti di vista più favorevoli al mondo degli affari. Allo stesso tempo, i think-tanks di destra, come Heritage Foundation e Reason Public Policy Institute, hanno orientato i propri sforzi alla difesa dei diritti di proprietà privata, e alla promozione di principi di “libero mercato”. Secondo loro, lo sprawl deve essere capito, come entusiastica suburbanizzazione. I conservatori sottolineano come, visto che tanti americani scelgono di vivere nei suburbi, lo sprawl deve essere popolare. Giustificano il fenomeno come effetto del libero lavorio delle forze di “libero mercato”, senza chiedersi come i sussidi federali ai costruttori e proprietari immobiliari abbiano alterato i meccanismi di mercato per più di mezzo secolo.

Il dibattito sullo sprawl si sta intensificando. I ricercatori conducono studi statistici per definirlo in termini quantitativi, analizzando densità di popolazione e distanze da aree consolidatamente urbanizzate. Allo stesso tempo, architetti, paesaggisti e urbanisti stanno sviluppando studi qualitativi per determinare le preferenze visive dei cittadini, in quanto parte della pratica di progetto per migliori quartieri. Molti progettisti enfatizzano il desiderio di molti abitanti per quartieri che siano simili alla cittadina tradizionale, con piazze verdi comuni da villaggio, ampi marciapiedi, stili edilizi tradizionali, alberature abbondanti. In Suburban Nation: the Rise of Sprawl and the Decline of the American Dream, lo studio di architettura di Miami di Andrés Duany, Elizabeth Plater-Zyberk e Jeff Speck, paragona la città americana a “una frittata non cucinata: uova, formaggio, verdure, un pizzico di sale, ma ognuno consumato crudo e a parte”. Si auspica la “creazione fisica di una società”, e la soluzione è “una miscela integrata di usi diversi dello spazio”, da realizzare attraverso la progettazione di quartieri tradizionali. Anche i californiani Peter Calthorpe e William Fulton sostengono il mixed-use nel loro Regional City, aggiungendo considerazioni più ampie sui trasporti metropolitani e la conservazione energetica. Tutti questi autori chiedono una pianificazione a scala regionale, coinvolgimento dei cittadini, iniziative pubbliche dimostrative utilizzando le proprietà immobiliari governative ai vari livelli.

Data l’enfasi sulle soluzioni in positivo, nella cultura architettonica e urbanistica, gli aspetti visivi della cultura dello sprawl hanno ricevuto troppa poca e continua attenzione. Gli architetti non hanno dissezionato in profondità le forze economiche che stanno alle spalle delle componenti costruite dello sprawl. A cominciare da God’s Own Junkyard: the Planned Deterioration of America’s Landscape di Peter Blake, pubblicato nel 1963, predominano le polemiche. Combattere lo sprawl non è solo un problema di contrastare una cattiva progettazione con una buona progettazione, creando di colpo una comunità. C’è bisogno di una più sostenuta critica economica e politica delle cause che sottostanno a quegli ambienti aridi e invivibili. La cultura visiva dello sprawl deve essere letta come rappresentazione materiale di una politica economica organizzata attorno ad un meccanismo di crescita insostenibile

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Nota: purtroppo per motivi di spazio e copyright le bellissime immagini dello sprawl dovrete vedervele direttamente sul libro (fb)

Solo due parole introduttive. Il testo che segue a ben vedere parte da critiche abbastanza ragionevoli ad alcune rigidezze del movimento ambientalista, diciamo ad alcune impostazioni “manualistiche”. Si sa come man mano le idee complesse si diffondono, ci sia anche una tendenza alla banalizzazione, che è facilissimo e fin doveroso attaccare. E qui finisce la parte buona, e del tutto secondaria, del testo che segue. Perché tutto il resto ruota attorno a luoghi comuni, semplificazioni, faziosità varie e sbandierate, cavalcando il disagio da sindrome di sicurezza.

La soluzione, anche se non viene indicata, sembra una sola: una casa, un giardino di un acro, un’automobile. E magari visto che ci sono in giro i terroristi anche un bel fucile nell’armadio. Mica come quei mollaccioni di Manhattan che stanno lì nei loro grattacieli a fare da bersaglio, o gli ambientalisti che suggeriscono di non consumare proprio tutto il territorio nazionale a giardini di un acro. La tesi è chiara: fanno il gioco dei terroristi.

Sono sciocchezze, naturalmente, ma tentano di assestare colpi al movimento che in un modo o nell’altro aveva cominciato a mettere in discussione la monocultura della villetta, dello shopping mall , della segregazione funzionale e socioeconomica, del provincialismo coatto. Ora questo mondo oltraggiato cerca la sua vendetta, e credo non vada nemmeno dimenticato in chiusura che il rapporto diretto tra sprawl e sicurezza militare non è un’invenzione recente: anche il programma delle New Towns britanniche si deve, dopo quarant’anni di tentativi falliti dei seguaci di Howard, proprio alla “urbanistica antiaerea” determinata dalla minaccia nucleare. (fb)

Titolo originale: Is Sprawl a Defense Against Terrorism?Traduzione di Fabrizio Bottini

A partire dallo choc dell’11 settembre, qualunque gruppo di interesse a livello nazionale sta dicendo la sua sugli attacchi terroristici. Gli oppositori dell’automobile, come Gar Smith o l’Earth Island Journal danno la colpa dell’attacco al consumo americano di petrolio, e auspicano che si rinunci del tutto a usarlo.

”Il sogno americano di una permanente utopia drive-in è morto l’11 settembre”, si entusiasma lo sfasciautomobili James Howard Kunstler. “Queste nuove circostanze devono obbligarci a vivere in modo più locale, a dipendere dall’auto meno di quanto facciamo ora, [e] a iniziare immediatamente a ricostruire una rete ferroviaria fra le città”. Con “vivere in modo più locale” Kunstler intende che dovremmo vivere in comunità e aree urbane più dense, compatte.

Chi odia l’automobile fa in fretta a dare la colpa alla dipendenza dell’America dal Medio Oriente per il petrolio, per quanto riguarda il terrorismo. Non importa se la maggior parte del petrolio che usiamo viene dall’emisfero occidentale. Non importa se i terroristi sembrano perlopiù motivati da questioni religiose, come la presenza di “infedeli” nella penisola arabica. Non importa se gli USA hanno fatto grossi sforzi per preservare la pace e la stabilità il luoghi senza petrolio come la Yugoslavia o l’Africa. Svezzare gli americani dall’automobile, in qualche modo farà andare via i terroristi.

Seguendo questa linea di pensiero, altri affermano che dovremmo costruire più metropolitane urbane e ferrovie inter-città. Gli USA “non possono dipendere da un solo mezzo di trasporto”, dice il sindaco di Meridian, John Robert Smith, che per caso è anche nello staff dirigente della compagnia ferroviaria Amtrak. Il Surface Transportation Policy Project dice che dovremmo spendere miliardi per il trasporto ferroviario, così da avere “un sistema di trasporti shock-resistent”.

Alcuni sindaci delle grandi città sperano anche che la recente tragedia possa dare ai residenti urbani un “senso comunitario” che li trattenga nelle città. Il sindaco di Pittsburgh, Thomas Murphy, pensa che installando metal detectors negli edifici pubblici e assumendo più poliziotti si creerà un’atmosfera urbana “sana e vivace”, così che i cittadini non scapperanno verso i sobborghi.

Gli ambientalisti impegnati per la smart growth sentono l’imperativo morale a sostenere centri città densi. “La principale preoccupazione ambientalista è che il centro città tenga”, dice Eric Goldstein, avvocato del Natural Resources Defense Council, a favore di un “forte nucleo centrale”. La suburbanizzazione, sostiene Goldstein, porterà ad aumentare la congestione, l’inquinamento atmosferico, spostamenti pendolari più lunghi, e perdita di spazi aperti. I lettori de L’Automobile che Scompare e altri Miti Urbani sanno che tutti queste affermazioni sono sbagliate.

Contrario a questi tentativi di strumentalizzazione, lo storico Stephen Ambrose indica che la vera lezione dell’attacco terroristico è “Non ammucchiatevi”. Mantenere “un forte nucleo centrale” serve solo ad offrire ai terroristi un bersaglio migliore.

”Non è più necessario stipare così tante persone e uffici in piccoli spazi come Lower Manhattan”, scrive Ambrose. “Si possono sparpagliare nelle regioni e stati circostanti, dove possono lavorare altrettanto efficientemente e in molto maggior sicurezza”. Anche il sostenitore della smart growth James Howard Kunstler ha concluso che “l’era dei grattacieli è giunta alla fine”. Come altri sostenitori della smart growth sottolineano, la loro visione del futuro è a media altezza e media densità: Brooklyn, non Lower Manhattan. “I grattacieli non sono parte necessaria della smart growth” afferma la leader ambientalista del Maryland, Harriet Tregoning. Ma anche l’alta densità della media altezza può essere troppo densa per il benessere di molte persone. “Abbiamo visto cosa significa la densità di popolazione in un’epoca di terrorismo, e non è una bella cosa”, dice il columnist del Detroit News, Thomas Bray. “E tanto basta, per l’idea secondo cui quello che questa nazione ha bisogno è la fine dello sprawl”.

”La logica del decentramento non è mai stata tanto chiara” sostiene il columnist del San Jose Mirror, Dan Gillmor. “La sicurezza un tempo stava nei grandi numeri. Nel mondo di domani, ci sarà più sicurezza nello sparpagliarsi”.

La lezione dovrebbe essere chiara a chiunque abbia guardato quelle orribili immagini nelle ultime settimane. Il World Trade Center si adattava in modo compatto in soli 8 ettari, e i terroristi l’hanno distrutto insieme a parecchi edifici vicini con due aeroplani. Il Pentagono, che ha circa due terzi di spazio per uffici del WTC, si estende su una superficie di circa 300 ettari. Con un aeroplano i terroristi hanno demolito solo il 6% di quello spazio.

(Per inciso, adeguandosi all’inflazione, il World Trade Center ha costi di costruzione per unità di superficie uffici tre volte maggiori del Pentagono. Questo per quanto riguarda i “costi dello sprawl”).

Indipendentemente da quello che pensate a proposito di sprawl, molte imprese e individui prenderanno a cuore la lezione del “non ammucchiatevi”nei prossimi mesi e anni. “I calcoli dei dirigenti su dove alloggiare i propri impiegati stanno inserendo fra le variabili la necessità di non edificare qualcosa che un bombarolo suicida non sia tentato di buttare giù”, scrive Holman Jenkins Jr. sul Wall Street Journal. Molte ditte i cui uffici erano nel WTC, aggiunge Jenkins, stanno “correndo a firmare contratti d’affitto per immobili di qualunque tipo, fuori dalla città, in modi che non fanno pensare a programmi di ritorno”.

Naturalmente, questa è stata una grossa preoccupazione per il sindaco di New York Giuliani, fin dall’inizio. Senza dubbio il sindaco di Chicago Daley è preoccupato in modo simile riguardo al futuro della Sears Tower, e quello di San Francisco, Brown, per la Transamerica Tower o il Golden Gate Bridge.

Giuliani naturalmente vuole ricostruire i grattacieli del complesso di uffici, per mantenere le imprese entro la sua giurisdizione. I senatori di New York Clinton e Schumer hanno promesso fondi federali per farlo. Ma queste costruzioni saranno costose e difficilmente attireranno le imprese, che hanno imparato la lezione degli attacchi multipli al vecchio complesso di uffici.

Il sociologo californiano J. F. Scott sottolinea come l’idea che i distretti finanziari abbiano bisogno di torreggianti grattacieli, per attirare gli affaristi abbastanza vicino l’uno all’altro a svolgere le proprie attività, è messa in discussione dal distretto finanziario di Menlo Park, nella Silicon Valley. Questo distretto, osserva Scott, “consiste di edifici poco elevati (nessuno oltre i tre piani) con abbondanti parcheggi”.

L’economista Paul Krugman teme che l’attacco dell’11 settembre “danneggerà permanentemente la posizione di New York di capitale economica d’America”. Ma anche se afferma che “si tratta di una questione seria, che merita una risposta seria”, si tratta in realtà di una preoccupazione limitata ai proprietari immobiliari di Manhattan, e all’amministrazione cittadina di New York. Il resto d’America non è interessato a sapere se la nostra capitale economica sia New York, Menlo Park, o qualche posto nel cyberspazio (che è probabilmente il luogo più sicuro).

Contrariamente a quelli che pensano al World Trade Center come simbolo della libera impresa, a dire il vero è stata la Port Authority di New York a costruirlo, per rendere più grandiosa la città e arginare la marea delle imprese che si disperdevano nel suburbio o verso altre localizzazioni. L’idea del centro fu originalmente promossa dal banchiere David Rockefeller e sostenuta da suo fratello, Nelson Rockefeller, quando era governatore dello stato di New York.

Le torri del Trade Center furono un fallimento finanziario per ilprimo decennio, e richiesero sussidi dagli utenti degli aeroporti, ponti e altre strutture della Port Authority. Durante il recente boom economico, la Port Authoriy riuscì a convincere un costruttore, Larry Silverstein, ad affittare il tutto per 99 anni.

Silverstein dice che vuole ricostruire il centro, ma in forma di edifici da 50-60 piani anziché due strutture da 110 piani.Costruzioni più basse sarebbero un bersaglio più difficile, ma potrebbero non scoraggiare le imprese dal migrare verso are a densità minore.

La vera ragione per cui il terrorismo è tanto difficile da combattere, è che i terroristi rifiutano assolutamente di ammucchiarsi. Per quanto gli americani possano voler sconfiggere i terroristi, l’idea che dovremmo tutti dare sussidi per sostenere la posizione di New York “capitale economica d’America”, di fatto ammucchiandoci, è assurda.

In modo simile, non ha senso ammucchiare gente sulle linee ferroviarie. Le reti ad alta velocità possono costare decine o centinaia di miliardi di dollari in costruzione e gestione, senza speranza di coprire i costi con le tariffe. Come dimostrato dal sabotaggio dell’Amtrak Sunset Limited nel 1995 e dalla Southern Pacific City di san Francisco nel 1939, sarebbe facile per i terroristi prendere una linea ferroviaria e uccidere moltissime persone.

Se i terroristi distruggono un’autostrada, possiamo deviare il traffico verso numerose direttrici parallele. Nella maggior parte dei casi, la distruzione di una linea ferroviaria lascia molte poche facili alternative oltre alle strade: la cui costruzione, per inciso, è quasi interamente coperta dalle tasse sui carburanti e altre tariffe d’uso. I treni sono romantici, ma porre l’enfasi sulla mobilità ferroviaria diminuisce, anziché accrescere, la sicurezza d’America.

Senza tentare di approfittare ulteriormente della situazione, è possibile prevedere alcune probabili tendenze. In primo luogo, imprese e individui aumenteranno leggermente il movimento verso aree a minore densità. Naturalmente la tendenza alla suburbanizzazione è vecchia più di un secolo. Nonostante un piccolo incremento negli anni Novanta, la popolazione di Manhattan è scesa di più di un terzo dal 1910.

La recente ordinanza del sindaco Giuliani che proibisce le auto con un solo occupante a Manhattan in certe ore non sarà d’aiuto, visto che nel lungo periodo quelli che vogliono guidare quei veicoli semplicemente andranno altrove. Se Giuliani volesse davvero aiutare Manhattan, incoraggerebbe i costruttori a includere enormi garages parcheggi negli edifici che sostituiranno quelli demoliti l’11 settembre.

Secondo, le persone potrebbero volare un po’ meno se migliori misure di sicurezza aumentassero il costo o, in particolare, il tempo necessario a volare. Ma questo non significa che prenderebbero di più il treno. Invece, la gente guiderà sempre di più fra una città e l’altra. Il servizio aereo perderà quote di mercato soprattutto verso l’auto, per viaggi fino a 400 chilometri. Per spostamenti più lunghi, anche i treni ad alta velocità non sono competitivi rispetto al servizio aereo.

Terzo, il terrore renderà più difficile per gli oppositori dello sprawl sostenere che la gente deve ammucchiarsi in città compatte. Se il provinciale New York Times ha dato grande spazio alle pretese del Natural Resouces Defense Council, l’editoriale di Ambrose sul Wall Street Journal avrà un maggiore impatto a lungo termine, perché Ambrose è uno scrittore conosciuto, non identificabile come pro o anti sprawl.

Quarto, la Amtrak probabilmente userà l’aumentata domanda per i propri servizi a convincere il Congresso a sostenerla ancora parecchi anni. Ma a meno che ci siano altri dirottamenti, la ferrovia non guadagnerà altre significative quote di mercato sull’aereo o sull’auto. La Amtrak trasporta ad ogni modo una percentuale insignificante di passeggeri intercity per unità di distanza: meno di un quarto per cento nel 1998. Anche in Europa, un secolo di enormi sussidi ai treni ed enormi disincentivi all’uso dell’auto non hanno evitato alle quote di mercato ferroviarie di cadere sotto il 15 per cento, e di essere ancora in declino. I treni passeggeri sono graziosi, ma al di fuori del Corridoio Nord-ovest non sono certo una soluzione per i guai del trasporto americano.

Quinto, l’orgoglio locale, il desiderio di mantenere la supremazia economica, e i miliardi di aiuti federali, porteranno New York a trascurare le questioni economiche e della sicurezza, e a costruire nuovi grattacieli per rimpiazzare il World Trade Center. Se saranno alti 110 piani è ancora una questione aperta, ma senza dubbio si staglieranno alti sullo skyline di Manhattan.

Infine, i sostenitori della smart growth continueranno a distorcere i fatti per far apparire ragionevoli le loro folli idee. Ma anche se New York City è sciocca a sufficienza per costruire un altro bersaglio simbolico per i terroristi, il resto della nazione non correrà a sostenere le cosiddette misure di crescita sostenibile, che sprecano i dollari dei contribuenti, riducono la vivibilità urbana, e espongono più persone al terrorismo.

Nota: al sito del Thoreau Instituteil testo originale, e altri articoli sullo stesso tono per chi ama il genere (fb)

Titolo originale, Ten Principles for Reinventing America’s Suburban Business Districts– Traduzione di Fabrizio Bottini (parte II)

6 – Cogliere l’opportunità degli usi misti

Le utilizzazioni miste creano massa critica e senso dello spazio, mettendo a disposizione della comunità una ampia gamma di beni, servizi, esperienze in un solo luogo, incrementando l’interconnessione e la possibilità di scelta e quindi riducendo la necessità di spostamenti. La diversificazione degli usi all’interno dello stesso progetto argina il flusso di uscita delle risorse dal quartiere, e consente una appropriata ed equilibrata gestione dei rischi di investimento.

Non sorprende, che dopo mezzo secolo di utilizzazioni segregate, i consumatori siano sempre più selettivi riguardo agli ambienti entro cui vogliono vivere. Offrendo una vasta gamma di scelta, le utilizzazioni miste possono giocare un ruolo critico nella trasformazione dei distretti terziari suburbani. La maggior parte di essi trarranno beneficio dall’aggiunta di abitazioni multifamiliari, maggiori densità edilizie a sostegno delle infrastrutture di trasporto, l’edificazione a usi misti dei vuoti e dei piazzali parcheggio esterni, per creare ambienti più orientati ai pedoni.

Costruire e rafforzare un senso comunitario in un distretto terziario suburbano, richiede una massa critica di usi misti: una regola empirica consiglia un minimo di 20.000 metri quadri di usi commerciali, e 2.000 alloggi entro un raggio di dieci minuti a piedi. Le utilizzazioni per uffici alimentano quelle commerciali fornendo clientela a negozi e ristoranti sia durante la giornata che nel dopo lavoro. Gli usi commerciali a distanza pedonale dai luoghi di lavoro o residenza – ristoranti, librerie, negozi di abbigliamento, articoli regalo, caffetterie – rafforzano la piacevolezza dell’ambiente, che invita lavoratori e residenti a uscire a pranzo o per commissioni senza usare l’auto. L’aggiunta di teatri, musei, gallerie d’arte, librerie, uffici postali e comunali, adeguatamente integrati entro un distretto suburbano, attira notevole traffico pedonale, che può sostenere un’ampia gamma di altri usi.

Cogliere l’opportunità di usi misti implica:

7 - Valorizzare la scala umana creando spazi pedestrian-friendly

Realizzare un ambiente di vita-lavoro-shopping dotato di senso spaziale, è un bisogno e un’aspirazione della città. La costruzione di luoghi è l’essenza dell’attività edilizia. Quando le persone scelgono un luogo rispetto ad un altro, quello prescelto assume un più elevato valore, e si offre con qualità aggiunte. Luoghi desiderabili attirano tutti i sensi: vista, udito, olfatto, gusto, tatto. Sono una miscela ricca di attività locali, progettazione estetica, qualità, e prezzo. Una costruzione spaziale di successo significa andare incontro alle domande della comunità locale. Non è un prodotto edilizio realizzato secondo una formula o l’ultimo capriccio della moda. Dunque, i costruttori sono motivati ad operare secondo un alto livello di concettualizzazione e di adeguamento ai mercati, nelle proprie attività di place-making.

Oltre a consentire alla gente di svolgere alcune attività essenziali, come il proprio lavoro o lo shopping, gli spazi devono essere piacevoli, divertenti, formativi. La chiave del successo nella costruzione di luoghi sta nel configurare spazi e strutture, e le connessioni tra e fra di essi, in modo da incoraggiare e facilitare le attività e l’interazione umana: un ambiente di cui la gente voglia far parte perché è stato progettato, costruito e gestito allo scopo di soddisfare l’intero spettro dei bisogni e aspirazioni umane, da quelle materiali a quelle spirituali. Uno spazio di successo richiama i sensi, attraendo sia gli abitanti che i visitatori in un viaggio alla scoperta di visuali, suoni e profumi affascinanti.

Valorizzare la scala umana creando spazi pedestrian-friendly implica una forte focalizzazione sul miglioramento degli ambiti di proprietà pubblica, e la progettazione di attività nelle strade e nei luoghi collettivi, specificamente connessi a:

8 - Ragionare sul traffico – Ragionare sulla densità

Con la crescente consapevolezza pubblica sui costi della congestione da traffico, i distretti terziari suburbani che offrono varie opzioni e opportunità di trasporto, e un ambito di attività che va oltre l’orario di lavoro 9.00-17.00 –promuovendo così spostamenti anche a ore diverse da quelle di punta – godono di un vantaggio competitivo. Le agenzie di leasing immobiliare di tutti gli Stati Uniti riportano che i propri clienti vedono l’accesso al trasporto collettivo e la ricchezza delle attività culturali come i due elementi caratterizzanti le proprietà urbane, che non si trovano nei territori esterni. Cultura e trasporti aggiungono valore perché attraggono una forza lavoro giovane, richiesta dalle imprese.

Ricerche indipendenti sull’andamento del mercato di uffici negli ultimi 15 anni, hanno rilevato che una percentuale significativa degli affittuari pagherebbe una quota accessoria per uffici connessi al trasporto pubblico: un elemento che diventerà sempre più importante quando i datori di lavoro saranno obbligati a competere per un’offerta ridotta, che richiede più opzioni di mobilità. Con una densità edilizia aumentata, in particolare attorno alle stazioni del trasporto pubblico, un distretto terziario suburbano può diventare più compatto; lo spazio fra gli edifici sarà ridotto, con una migliore integrazione e connessione pedonale.

L’incremento di densità sostiene i costi di realizzazione di un più ampio sistema di trasporti. Ad ogni modo, un impegno ad aumentare la densità edilizia porta con sé una responsabilità in termini di eccellenza qualitativa che va ben oltre l’architettura dei singoli edifici, e che deve contribuire ai tessuti, alla connettività e attrattività complessiva dei componenti lo spazio. Si deve prestare speciale attenzione al progetto, per eliminare alcuni “legami deboli”, che servono solo a indebolire l’accettazione comune di una più alta densità edilizia. È la massa critica delle attività, portato della maggiore densità edilizia, ad offrire ai residenti opportunità, minor congestione, sicurezza dei valori immobiliari, e costituisce una solida base fiscale.

Con la disponibilità di opzioni quali muoversi a piedi, in bicicletta, con l’uso del trasporto pubblico, si riducono gli spostamenti in auto, la necessità di parcheggi, e insieme i livelli di inquinamento e congestione da traffico. Le abitazioni multifamiliari integrate nel distretto terziario suburbano promuovono ulteriormente le opzioni di trasporto. Una più equilibrata spesa pubblica aumenterà l’accessibilità delle unità immobiliari pubbliche e private esistenti anziché, come avviene oggi, favorire l’abbandono delle località congestionate per prati più verdi nella cintura metropolitana e oltre. I distretti terziari suburbani che non controbilanciano l’accesso automobilistico con una migliore accessibilità pedonale e tramite mezzi pubblici mettono a repentaglio la futura frequentazione, attrattività, valore capitale.

Ragionare sul traffico e la densità implica:

9 – Creare collaborazioni publico/privato

Nella maggior parte dei casi, la trasformazione con successo di un distretto terziario suburbano dipende dalla capacità dei settori pubblico e privato di cooperare in un quadro di accordi strutturato, che attivi il sostegno comunitario, minimizzi i rischi del progetto, e distribuisca i dividendi della trasformazione spaziale tra tutti i soggetti. Il dividendo di trasformazione spaziale appartiene sia ai costruttori che alla comunità. Dunque, è semplicemente corretto che entrambi investano nella sua costruzione attraverso una partnership solleciti l’impegno di entrambi.

I Business Improvement Districts (BID) o le agenzie di ristrutturazione urbanistica possono costituire le entità di gestione dell’accordo pubblico/privato, in grado di utilizzare i finanziamenti da incremento fiscale ( tax increment financing, TIF, n.d.t.) o da speciali prelievi per finanziare il costo capitale o le spese periodiche della trasformazione catalizzata di un distretto terziario suburbano. Le agenzie governative possono localizzare nei distretti strutture scolastiche, ospedali, biblioteche, dipendenti pubblici, centri comunitari, garages parcheggi, per rinforzarne il potere attrattivo e il senso del luogo.

Un distretto di questo tipo può usare finanziamenti TIF per spezzare le unità di superblocco e fornire migliore interconnettività pedonale al suo interno. Questo può dimostrarsi un fulcro del processo di trasformazione, ed è improbabile che si verifichi senza una collaborazione pubblico/privato. La realizzazione del piano strategico non può appoggiarsi unicamente sulle risorse di un costruttore, o su un processo di azzonamento e autorizzazioni che spesso lavora contro i processi di trasformazione. Per essere più efficace, il piano strategico per re-inventare il distretto terziario suburbano deve diventare il veicolo per il coordinamento delle politiche, dei programmi e delle priorità fiscali di ciascun livello di governo, così da poterlo trasformare in spazio di vita-lavoro-shopping.

Creare una collaborazione pubblico/privato implica:

10 - Condivisione e gestione degli spazi a parcheggio

Ogni insediamento isolato deve provvedere al proprio parcheggio locale. Riservare larghe porzioni di un sito a piazzali parcheggio incoraggia i frequentatori a basarsi sull’automobile e, allo stesso tempo, impedisce uno sviluppo integrato favorendo una densità tanto bassa da escludere la realizzazione di trasporti pubblici a costo sostenibile. L’elemento trainante della forma e configurazione insediativa diventa il parcheggio. È quindi vitale, nella trasformazione dei distretti terziari suburbani, che siano i luoghi – non le strutture di parcheggio – a diventare le vere destinazioni.

In una città USA tipo, per ciascuna automobile ci sono di solito cinque spazi a parcheggio, il che significa che per sistemare un ipotetico incremento di popolazione di un milione nei prossimi vent’anni sarebbero necessari 685.000 spazi a parcheggio in più, vale a dire poco meno di 100 chilometri quadrati di superficie. In queste condizioni, diventa virtualmente impossibile andare da un edificio all’altro senza salire in macchina.

Una soluzione è quella di aumentare il numero delle strutture a parcheggio, e migliorare il progetto e la localizzazione, il che può ridurre l’area di suolo dedicata alla sosta e consentire agli edifici di stare più vicini e più integrati l’uno con l’altro. I servizi di parcheggio strutturati in genere diventano economicamente convenienti quando il prezzo del terreno per la costruzione raggiunge i 3 dollari per metro quadro; al di sotto di questo costo, il parcheggio di superficie è spesso più conveniente. Quindi, può essere necessario il coinvolgimento pubblico nella costruzione di garages, per raggiungere il dividendo ci costruzione spaziale.

La localizzazione strategica, il progetto, la programmazione delle strutture di parcheggio, possono anche contribuire a creare o migliorare attrattivi e comodi collegamenti pedonali, che riducono il bisogno di auto e conseguentemente di spazi a parcheggio. In più, l’uso del piano terreno delle strutture a parcheggio per attività di commercio o servizio può creare un migliore ambiente stradale e pedonale, incoraggiando ulteriormente gli spostamenti a piedi. I parcheggi a lato strada possono offrire sistemazioni attraenti e comode per le aree commerciali.

Un’altra soluzione è quella di consentire e pianificare un sistema a parcheggi condivisi all’interno delle zone a usi misti. Se gestito opportunamente, il parcheggio condiviso può ridurre il numero massimo di spazi a parcheggio richiesti, dato che diversi utenti possono parcheggiare nello stesso spazio in diversi momenti della giornata o della settimana, riducendo così gli effetti dei picchi di domanda degli spazi a un solo uso. Un ambiente a usi misti può anche far diminuire il bisogno di parcheggi aumentando gli spostamenti a piedi.

Per esempio, un ristorante/tavola calda a distanza pedonale dai luoghi di lavoro avrà bisogno di meno spazi a parcheggio di un ristorante che può essere raggiunto solo in macchina. Uffici localizzati ad una breve distanza pedonale da un albergo possono richiedere meno parcheggi per visitatori di altri uffici; gli ospiti per motivi d’affari dell’albergo potranno raggiungere gli uffici a piedi. Infine, la localizzazione strategica delle strutture di parcheggio condiviso può creare collegamenti pedonali molto frequentati, che possono essere fiancheggiati da negozi e attività civiche e culturali.

I parcheggi implicano un possibile costo, dato che occupano terreno potenzialmente edificabile. Anche così, il parcheggio libero o a basso prezzo probabilmente resterà una caratteristica dei distretti terziari suburbani. Per questa ragione, ci sarà spesso bisogno di finanziamenti o sottoscrizioni dell’amministrazione locale per coprire la differenza nei costi di realizzazione fra piazzali di superficie e garages parcheggio. A parte le tariffe nominali per aiutare a sostenere i costi, è anche possibile recuperare spese affittando il pianterreno dei garages a ristoranti e negozi. Le strutture commerciali allineate ai parcheggi creano un fronte strada di attività, come a Walnut Creek, California. Al Mizner Park di Boca Raton, Florida, la struttura di parcheggio è separata dalla strada da una striscia di case multifamiliari.

Una politica innovativa per i parcheggi, e una soluzione finanziaria, è quella delle città che hanno sviluppato strutture a parcheggio per la zona terziaria e poi, come parte del processo di autorizzazione, hanno richiesto a tutti i futuri costruttori di acquistare una quota di queste strutture, anziché offrire direttamente parcheggi di propria pertinenza. È essenziale non mettere a disposizione più parcheggi di quanto non sia necessario per la vitalità economica dell’insediamento, e chiedere l’inclusione dei provvedimenti di parcheggio condiviso all’interno del piano strategico, al posto delle previsioni di zoning e delle regole per la sosta. Dove possibile, gli affittuari dovrebbero farsi carico almeno di una quota nominale in modo che il parcheggio sia riconosciuto come un servizio, con relativo costo. La tariffa di affitto diventa la base per la gestione e valutazione delle strutture a parcheggio, come bene immobile potenzialmente tassabile.

Condividere e gestire gli spazi a parcheggio implica:

Carpe diem – Cogli l’attimo

Per realizzare il proprio potenziale, i distretti terziari suburbani devono essere re-inventati come luoghi più funzionali, più definiti, più interconnessi e pedestrian-friendly di quanto non siano oggi. Probabilmente saranno serviti da migliori strutture di trasporto pubblico, e si enfatizzerà un buon collegamento pedonale e alti standards di qualità dei luoghi, oltre l’ambito delle tradizionali regole di zoning. Probabilmente verranno coinvolte le agenzie pubbliche, per diventare a titolo pieno partners finanziari nella re-invenzione dei distretti terziari suburbani.

Allo stesso tempo, lungi dall’essere abbandonate come mezzo di trasporto, le automobili saranno considerate in una prospettiva corretta, per diventare una delle possibili scelte entro un’offerta equilibrata di opzioni di trasporto. La crescente opposizione alle spese pubbliche per l’espansione delle infrastrutture, e la proliferazione di programmi smart growth, ridimensioneranno decisamente l’abitudine di abbandonare aree urbanizzate per nuovi insediamenti su terreni inedificati nelle cinture esterne metropolitane. I datori di lavoro si troveranno di fronte ad un mercato ristretto, e dovranno competere per aggiudicarsi i migliori dipendenti offrendo una migliore qualità di vita a distinguere le zone attorno ai propri luoghi di lavoro.

La reinvenzione dei distretti terziari suburbani può avvenire efficacemente sono quando di sviluppa una forte collaborazione fra il settore pubblico e quello privato, focalizzata sulla messa in pratica di una nuova visione, per realizzare spazi significativi.

Andando incontro ai mutevoli bisogni ed aspirazioni degli Americani, il distretto terziari suburbano restituirà il frutto maturo di un dividendo di costruzione dello spazio: per la comunità (perché è uno spazio che la comunità possiede e ama), per le strutture di governo (come spazio che genera flussi fiscali), e per il settore privato (come spazio che attira visitatori, vendite, crescita delle quote di affitti, aumento di valori capitali). Il risultato sarà il meglio di quanto ha da offrire la smart growth. Si può ottenere attraverso una tempestiva, risoluta e intelligente applicazione dei dieci principi dello Urban Land Institute, per re-inventare i distretti terziari suburbani.

Torna alla prima parte

Nota: fra i vari testi su argomenti correlati presenti su Eddyburg, il riferimento più diretto di questo principi credo sia a quelli sui Business Improvement Districts, di Lorlene Hoyt, e del Massachusetts Department of Housing (fb)

Dalle Stelle (e Strisce)...

Smart Growth. Per dirla col sito dell’American Planners Association: “un modo di dire che sta dappertutto, in bella vista, dentro a conferenze, colonne di giornali, libri, legislazioni statali, piani regolatori e ordinanze di zoning.

Evoca forti emozioni, pro e contro, e tutti sembrano avere l’esclusiva riguardo al suo significato, da dove viene, se ne abbiamo bisogno, come bisogna praticarla. Non c’è comunque dubbio che, comunque intesa, significa un cambio di rotta nel modo di pianificare”.

Prima di entrare in qualunque dettaglio, una precisazione: questo tipo di approccio alla crescita, che ereticamente tradurrei in italiano con fatti furbo (torneremo poi sulla questione) vuole essere l’antitesi della onnivora crescita suburbana a sprawl, che a sua volta un po’ meno ereticamente tradurrei con spaparanzamento metropolitano. Siamo quindi nel cuore dei temi cari a questa sezione Megalopoli di Eddyburg.

L’APA dice che la smart growth cambia il modo di pianificare. E non solo, verrebbe da aggiungere pensando a quanto limitativa sia questa traduzione italiana dello sterminato to plan. Ma andiamo avanti, che si fa tardi.

Riassumendo e banalizzando al massimo, i principi fondativi di questa accattivante moda/parola d’ordine sono un aumento delle opportunità insediative per i residenti, in modo strettamente connesso coi servizi, il commercio, la mobilità, e tutto quello che si trascinano appresso in termini di compatibilità e sostenibilità ambientale. Dato che in un approccio sistemico una ciliegia ne tira sempre molte altre (insieme, spesso e ahimè, a grosse angurie), questi principi fondativi elementari si articolano in parecchi altri. Si potrebbero citare la sostenibilità anche economica dell’insieme di scelte, o la progettazione “integrata” di insediamenti residenziali che valorizzino la mobilità e accessibilità pedonale, lo stop alla iper-specializzazione nell’uso dello spazio, e il corrispondente incentivo a miscelare funzioni e destinazioni, così come a “miscelare” i decisori, favorendo la maggior possibile (ed effettivamente praticabile) partecipazione di tutti gli interessati ai processi insediativi che li riguardano. Regole di buon senso della nonna, verrebbe da pensare, salvo osservare poi come basta guardarsi attorno per essere certi che ci sia stata di recente una strage di nonne, e relativi buoni consigli.

Un capitolo importante dell’approccio smart growth riguarda abbastanza ovviamente la tutela degli spazi aperti, a tutte le scale ma in particolare a quella metropolitana/regionale, dei grandi “corridoi” agricoli e naturali che la crescita (a modo suo, altrettanto smart, proprio nel senso di furbetta) delle grandi reti infrastrutturali e della città diffusa mette in pericolo. Spazio aperto è infatti un termine che si può declinare in molti modi, tutti però ambientalmente e spesso fisicamente interdipendenti: spazi naturali dentro e attorno gli insediamenti abitati, che offrono un servizio anche quotidiano ai residenti, un habitat per specie vegetali e animali, occasioni per il tempo libero, occasioni importanti di lavoro e sviluppo economico in agricoltura, luoghi di pregio paesistico e zone ad altissimo valore ambientale (come le zone umide). È del tutto evidente – sempre, ovvio, se si ha avuto una nonna di buon senso – come questo rinvii a questioni economico-ecologiche più ampie, ma non per questo astratte o astruse, visto che fanno vivere e respirare il pianeta, e tutti i metri cubi di “sviluppo” che ci stanno appoggiati sopra. Finché dura.

Come accennavo citando in apertura le opinioni dell’APA, nemmeno alla smart growth mancano, puntualmente, nemici e critici feroci. Ne è un esempio l’articolo del consulente esperto di trasporti Wendell Cox, che a partire dalla lettura (assai semplificata) di uno dei concetti base dello anti-sprawl-movement, ovvero l’aumento della densità locale per salvaguardare il territorio vasto, calcola impatti ambientali mediamente superiori a quelli possibili mantenendo l’attuale schema di crescita, e sostanzialmente ininfluenti visto che la soluzione alle questioni ambientali sarebbe soprattutto tecnologico-organizzativa, e non legata alle forme dell’insediamento. Vale però, forse, la pena di citare una delle frasi conclusive di questo articolo, per chiarirne meglio lo spirito: il movimento per la smart growth “non ha identificato nessun vero rischio a sostegno delle sue draconiane proposte. Per dirla con Lone Mountain Compact [un nome che è tutto un programma n.d.T.], bisognerebbe lasciare la gente libera di vivere e lavorare dove e come vuole, se non esiste una tangibile minaccia per altri”. Verrebbe da rispondere al signor Cox, che la minaccia viene indicata come piuttosto “tangibile” da milioni di studiosi, indipendentemente dai panorami di Lone Mountain. Ma questo ci porterebbe troppo lontano dal piccolo orticello padano-megalopolitano, a cui doverosamente torniamo subito e di colpo.

... alle Stalle (nel senso buono, anzi ottimo!)

Traducevo ereticamente in apertura la smart growth a stelle e strisce con un vagamente (ma non troppo) sgangherato italico fatti furbo! Questo per due motivi: farla breve, perché di filologia si può anche morire di fame; farla tutta, o meglio per tutti. L’ha già detto l’American Planners Association, che sul termine si può discutere a lungo, figuriamoci poi discutere sulla sua declinazione locale. Ecco: quel fatti furbo almeno dice qualcosa che salta subito all’occhio, o al naso, e si ricorda. Per la filologia, si può aggiungere che “crescere” in questo senso è soprattutto “farsi”, e che anche la traduzione di smart può essere, appunto “furbo”. Basta così, per i sofismi da oratorio di oggi: facciamoci furbi.

Furbi in senso buono, come per esempio Giorgio Bocca, che nel pezzo per il Venerdì di Repubblica che abbiamo riportato su Eddyburg/Megalopoli ci raccontava con finta ingenuità da nonnino disorientato una gita “fuori porta” in quella che vorrei iniziare a chiamare la Milandia Orientale, ma dove lui da turista per caso vedeva ancora Melzo, Gorgonzola, Truccazzano, ecc. Per poi raccontarci un mondo di piazzole di sosta, centri commerciali e abitanti globalizzati, spazio-tempo confusi, fino all’agognato ritorno alla vetero-città, davanti al vetero-schermo televisivo, mangiando una vetero-scatoletta. Se invece ci facciamo esplicitamente furbi, e chiamiamo la Milandia Orientale col suo nome, ci troveremo molto di tutto e molto di più.

A partire dal concetto di “fuori porta”, che Bocca segnava simbolicamente a partire dai sottopassi della cintura ferroviaria. Senza citare i riferimenti colti di Boccioni o Sironi, che già agli albori del secolo scorso spostavano le porte della città di qualche chilometro, nei varchi fra le ciminiere e i primi covoni all’orizzonte, basta ricordare lo Stradon per andare all’Idroscalo, dove il vagabondo di Jannacci trascina le sue Scarp del Tennis, per capire che la nostra Janua Megalopolitana dovremo cercarcela parecchio più in là.

Ben oltre la tangenziale, l’aeroporto e i limiti comunali, non c’è bisogno di documenti di pianificazione o tabulati statistici per “vederla”, la città, a partire dall’uso corrente degli spazi: aperti, di enclave più o meno elegante o formalizzata, improvvisati come le già citate piazzole ghiaiose da cantiere, sosta per telefonata, pipì improrogabile del pupo, chiosco di patate fritte abusivo e via dicendo. Del resto anche il Parco dell’Idroscalo, recentemente semi-privatizzato da un assessore provinciale piazzista televisivo, o la grande ruota panoramica del vecchio Luna Park lì di fronte, sono pienamente ed esplicitamente urbani, nemmeno troppo periferici. Per trovare qualcosa di simile ad una porta, bisogna provare magari con l’architettura di Niemeyer (pure a noi, ci tocca, ma qui non è del tutto male), o meglio ancora più avanti, con il cavalcavia chiuso a panino fra la neo-cittadella in stile berlusconiano (ma almeno questa non è sua) di San Felice, e il sironiano ponte a campate sullo scalo ferroviario Ortica. Qui, dopo l’incrocio a due livelli e lungo una muraglia di precompressi che segna il confine nord, si inizia a respirare qualche refolo di spazio aperto.

Niente a che vedere con la campagna vera e propria, beninteso: siamo solo sulla soglia, e tutto è poco più che simbolico.

Come le episodiche zaffate di letame che in qualche stagione dell’anno si mescolano agli scarichi del traffico e ai fumi industriali, o alle spettacolari prospettive di verde della tenuta di Trenzanesio, che la statale attraversa per un lungo tratto, e che è significativamente di proprietà della famiglia Invernizzi. I proventi della campagna investiti in città, e solo concentrato simbolico di pianure ricche di vacche, stalle, e relative creme e cremone. Simbolo e basta, perché superato questo tratto l’orizzonte continua a chiudersi a intermittenza, secondo le scelte comunali e locali in termini di sviluppo “a nastro”, ovvero con gli insediamenti produttivi e commerciali a vanificare tutti gli investimenti in strade (a spese del contribuente), per usarle come pista di accelerazione-decelerazione per i fatti propri. Come ben sanno pendolari e week-enders da spese del sabato pomeriggio.

Bisogna superare la linea teorica, per ora, della nuova tangenziale esterna, per iniziare davvero a respirare un po’, a vedere i corsi d’acqua che tagliano perpendicolarmente la statale, fino a una cascina abbastanza verosimile, ma che per il viandante motorizzato si esibisce in un cubitale CASCINA ROSINA FORMAGGI, partecipando a suo modo al ribbon development. Poi, mentre il solito viandante si sta chiedendo se davvero siamo finalmente arrivati “fuori porta”, appaiono di colpo l’Adda, che qui segna il confine fra le province di Milano e Cremona, e un cartello che indica la nostra prima tappa volante: il Parco della Preistoria.

Variazioni: uno

Perché, vista l’impossibilità (e direi forse incapacità) di declinare davvero anche solo uno dei temi possibili declinati dalla smart growth, voglio limitarmi qui ad osservare in modo ribaltato un simbolo della città diffusa: il parco tematico. Ne abbiamo già parlato nella versione più nota, di grande astronave eterodiretta, che atterra schiacciando qualunque cosa sotto pupazzoni giganteschi, o soffocandola nelle sue spire di zucchero filato. Ora, appena fuori porta e dove dovrebbe iniziare la campagna (?), questo parco a tema rappresenta un contraltare in qualche modo positivo a tutto quanto della città diffusa visto sinora, cascine rosine incluse.

Si può tranquillamente citare, dal sito web: “Il Parco della Preistoria è un'area naturale costituita da un bosco secolare, resto dell'antica foresta planiziale padana, di oltre cento ettari sulla sponda sinistra del fiume Adda, a soli 25 chilometri da Milano”. Li abbiamo appena attraversati, quei soli venticinque chilometri, ma questo posto sembra un po’ meglio. Innanzitutto quello stare nel “resto dell’antica foresta planiziale”, e non sopra il resto di foresta, o invece del resto di foresta, è vero. Niente baracconi multipiano che sporgono da pochi ciuffi di alberi, ma una striscia di verde lungo il corso del fiume, che a modo suo (impermeabilizzazione parziale dell’accesso al fiume a parte) aiuta a conservare questo inizio del tratto pianeggiante dell’Adda, e prima parte del settore meridionale del parco fluviale. Non ci interessa tanto, qui, discutere sul senso profondo di collocare dinosauri di plastica a grandezza naturale sulle rive dell’Adda, ma verificare se e quanto l’insieme fa a pugni col sito e il resto dell’insediamento.

Non pare un disastro, se si esclude in parte la scelta dell’amministrazione comunale (forse obbligata) di collocare immediatamente a valle la nuova zona industriale: si salva così forse l’integrità del bel centro storico, un po’ discosto dal fiume, ma si isola eccessivamente il corso d’acqua per un lunghissimo tratto. Per il resto, siamo a mille miglia dalla solita logica dello scatolone postmoderno sul ciglio della statale, anzi il percorso d’accesso mima forse involontariamente certi santuari della pianura, col viale dei tigli fotocopia di quello del cimitero, che la domenica si intasa di auto, moto, biciclette e bambini a caccia di dinosauri di plastica. Unico vero neo, che accomuna il Parco della Preistoria alla logica antidiluviana dello sviluppo “a nastro” (anche se è piuttosto distante dalla statale), l’accesso totalmente deregolato, tramite una stradina che sembra un ingresso poderale o poco più, immediatamente dopo il ponte sul fiume.

Per il resto, sembra non ci sia niente che una buona riprogettazione leggera non possa correggere: ci sono rapporti col fiume, il centro storico, il sito in genere e l’ambiente circostante. E non c’è bisogno di un ciclo di convegni internazionali per spiegarlo al popolo. Quello che poi il popolo va a fare lì dentro, sia orda di bambini o pullmanata di curiosi in gita fuoriporta per i 100 ettari di bosco e mostri di plastica, sono fatti suoi. O no?

I fatti nostri invece si inoltrano più profondi nella Milandia Orientale, che qui a Rivolta d’Adda, forse per via del cambio di provincia sembra aver superato una seconda “soglia”, dall’anticamera della campagna alla campagna vera, per quanto di campagna megalopolitana si tratti. Le cascine sembrano un po’ meno rosine, e i cartelli che indicano i vari tagli nella linea continua del prato sul ciglio non sono più una caricatura delle insegne di supermercato, ma veri cartelli di quelli che piacerebbero all’Aldo Busi ex rappresentante di commercio, tipo vendita galline chilometri cinque. Per proseguire verso oriente e il punto più rarefatto tra le due aree metropolitane, milanese e bresciana, da Rivolta si possono scegliere due alternative di massima: quella ovvia e facile, o quella un po’ meno ovvia e facile.

Variazioni: due

Visto che non stiamo percorrendo la tundra, ma una pianura irrigua, asfaltata e illuminata bene, le alternative si possono percorrere tutte e due. Una per volta, naturalmente. La prima più facile è quella che prosegue sulla stessa statale, oltre la rotatoria di ingresso al centro storico di Rivolta, dritta come una freccia su un percorso circa parallelo alla linea delle Prealpi, ora ben visibili verso nord. Se qualcuno aveva pensato che la “soglia” oltre il ponte dell’Adda fosse qualcosa di serio, ora dovrebbe rapidamente cambiare idea: si replica quanto già visto, più o meno, nei “soli 25 chilometri da Milano” della pubblicità del Parco. Ovvero precompressi multicolori, multidestinazione, multiparassiti dell’asta stradale a spese del contribuente, e nei varchi prospettive aperte di campagna vera, soprattutto verso sud e la provincia di Cremona (qui stiamo invece viaggiando ai limiti meridionali di quella di Bergamo). Qualche chilometro più in là, il grande santuario di Caravaggio sembra sorgere solitario e maestoso dalla pianura, ma avvicinandosi si nota che l’effetto baraccone ha colpito anche qui, in questa sorta di parco a tema ante litteram, dove l’attrazione principale è la santificazione della geografia: il confine fra alta pianura asciutta e piana irrigua, segnato dalla sorgente sacra. Il resto, mi consentano credenti e storici dell’arte, non si discosta molto, a ben vedere, dalla passeggiata nel giurassico plastificato che ci siamo lasciati alle spalle.

Ma la religione, si sa, è luogo privilegiato del miracoloso, e qui nonostante i secoli di utenza affezionata (o forse grazie ai secoli eccetera) il parco a tema ha un buon rapporto col sito, o meglio costituisce un sito da solo, che si può ammirare soprattutto da qui, ovvero dal retro, anziché arrivarci dal viale prospettico alberato che scende dalla Padana Superiore.

Già, Padana Superiore, qui più o meno al chilometro 170 qualcosa, dalle scaturigini in Borgo Dora, a Torino. Il fatto è che la ex statale Rivoltana, uscita da Milano tre caselli di tangenziale più a sud della Padana (da Gobba-Palmanova a Forlanini), risale poi impercettibilmente, fino ad incrociarla di nuovo subito a est di Caravaggio: ed è un’altro, ennesimo “fuori porta”.

Una porta che ci conferma, se non l’avevamo ancora capito, di stare immersi fino al collo nella città diffusa, o dispersa che dir si voglia, con la finta campagna che inizia e poi finisce, tale e quale a un parco urbano, e i capannoni e le rotatorie, e magari la bellissima architettura di un antico casale o una cappella da ciglio strada a dare l’impressione di un ingresso in qualcosa di nuovo ... macché, ricomincia tutto daccapo. Un tutto che prosegue fino all’incrocio fra la Padana e la Soncinese, che sale dalle pianure cremonesi attraverso la piana asciutta di Romano, al pedemonte bergamasco.

Ovvero sbuca dal “percorso alternativo meno facile” che avevamo lasciato in sospeso.

Se invece di proseguire da Rivolta verso est, si circumnaviga il perimetro esterno del Parco della Preistoria e della contigua zona industriale, si sbuca a sud del centro storico, sull’ennesimo viale di tigli che dopo un po’ si trasforma in una strada di campagna intercomunale, dal percorso più o meno parallelo all’Adda. Questa strada finisce nel centro storico di Spino, dove si incrocia la nostra “alternativa”, ovvero la direttrice Pandino-Soncino, a mezza strada fra il percorso di alta pianura della Padana e quello medio della 235 Orzinuovi-Pavia. È qui, nella piana del Serio e degli altri infiniti corsi d’acqua piccoli e medi, che si nota di più la trasformazione strisciante nell’uso dello spazio ex rurale: lo spaparanzamento territoriale, perché sprawl a noi italici evoca altre cose, che si vedono soprattutto lungo la Padana, mica qui. Almeno non ancora, ma le tracce mi pare proprio di vederle già.

Qualche capannone, qualche fila di case, qualche lavoro in corso, insomma niente di vistoso, ma il ricordo di altri “crescendo” simili me lo fa già balenare davanti, l’effetto un po’ claustrofobico rue corridor, magari con i già visti e fuorvianti squarci di campagna, ventate di concime naturale, cartelli al neon di agriturismo vagamente country-western.

Raggiunta tra alti e bassi panoramici (qualitativi: l’orografia è come l’encefalogramma di una zucca) Soncino, si imbocca verso nord la 498 Soncinese, appunto, sulle orme dei pullmann che ogni estate portano i giovani cattolici delle campagne cremonesi agli spazi di preghiera e meditazione denominati ... Center Park Antegnate. Ovvero, trecento metri a sud dell’incrocio con la Padana Superiore dove avevamo virtualmente interrotto la traiettoria (A). I pellegrinaggi degli oratori cremonesi sono quelli, tradizionali d’estate, denominati “GrEst” (gruppo estivo), e si riassumono con pochissima preghiera, e un sacco di giochi, con o senza vincitori e premi. E il Center Park di Antegnate, a mezza strada fra l’abitato (a nord della Padana) e il comune di Fontanella, è decisamente il posto ideale per questo tipo di cose, e insieme per ogni genere di scampagnata di piccolo cabotaggio, basso impatto, pretesa nazionalpopolare, alto valore civico: una meraviglia, a modo suo.

Una decina di ettari, forse meno, di spazi alberati sul ciglio della statale (ma con i primi edifici bassi e molto arretrati), praticamente invisibile se non si guardano i cartelloni pubblicitari. Cito dalle pagine web: “Center Park offre diverse opportunità di divertimento e relax, con piscine, scivoli, giochi d’acqua, ma propone anche interessanti attrazioni, dalle più classiche come il minigolf, i video games, il parco giochi bambini, alle più emozionanti con la pista delle minimoto in un vero e proprio circuito omologato per gara. I servizi all’interno del parco sono garantiti da bar, paninoteche ed un grandissimo ristorante. Sdraio, ombrelloni e parcheggio sono gratuiti fino ad esaurimento. Il ristorante del parco, è particolarmente adatto per accogliere tutto l’anno, (su prenotazione), feste e banchetti, (fino a 500 coperti)”. Non è chiaro cosa significhi essere “particolarmente adatto per accogliere tutto l’anno”, ma il resto rassicura e conforta: un vero e proprio servizio territoriale, da rendere obbligatorio per tutti i comuni con popolazione superiore a due abitanti.

E anche qui, basta guardarsi attorno, senza bisogno di chiamare esperti, salvo per esempio quando i “video games” lasceranno il posto a diavolerie virtuali sofisticatissime. Che però in quanto virtuali non hanno bisogno di scatoloni aggettanti, e vertiginose curtain walls a specchio, a luccicare di metri cubi sulla padania. Certo, come tra i dinosauri dell’Adda si può far di meglio, ma per adesso teniamocelo stretto, il parco a tema acquatico di questo crocicchio della Milandia Orientale!

Tornando a casa

Dato che la gita fuori porta sembra essere andata meglio, sinora, di quella del finto nonnino Giorgio Bocca, è anche possibile sulla via del ritorno verificare se le impressioni dell’andata sono poi così generalizzabili, e la risposta è sì, senz’altro. Se si risale la Soncinese in direzione dell’aeroporto di Bergamo, il percorso con le ovvie varianti storico-geografiche replica le medesime immagini di nastri insediativi precompresso-illuminati (si fa sera), sempre più fitti man mano ci si avvicina al pedemonte e all’anello delle tangenziali orobiche. Anche l’asse della statale “Francesca”, che dal ponte sull’Oglio di Palazzolo scorre verso ovest fino a quello di Canonica-Vaprio sull’Adda, ripete nel paesaggio dell’alta pianura la stessa infilata di vivaisti, mobilieri e ammennicoli vari, che dai centri storici discosti dal tracciato si avvicina sempre più decisa e ingombrante, spesso a nascondere la vicinissima linea delle montagne.

E dopo l’area industriale Zingonia-Dalmine, siamo di nuovo nell’ intra moenia metropolitano, senza dubbio e senza fallo. Poco più a nord, il parco tematico Minitalia di Capriate non fa danni a nessuno, salvo stare fra il turista medio e il villaggio operaio ottocentesco Crespi d’Adda, che gli sta proprio dietro e che come si dice “il mondo ci invidia”. Chissà che un giorno o l’altro, ne facciano un parco a tema, dove i bambini possano sperimentare per finta il brivido del lavoro minorile sottopagato. Sperando naturalmente che i loro coetanei pachistani o mongoli possano venire a giocare con loro.

Ma questa è un’altra storia.

Qualche link:

Un sito della Smart Growth

L'articolo del feroce critico della smart growth

Il sito del Parco della Preistoria

E quello dell'acquatico Center Park di Antegnate

Senza dimenticare ovviamente gli altri testi sul tema in Eddyburg

Titolo originale The Traditional Neighborhood & Suburban Sprawl, traduzione di Fabrizio Bottini.

Nota: ho tradotto per tutto l’articolo il termine neighborhood con “quartiere”, dato che il più letterale “vicinato” mi sembrava improprio. In alcuni casi (come quando si dice che il quartiere dal solo in mezzo all’ambiente diventa villaggio) la cosa può sembrare vagamente fuorviante. Lo stesso, anche se in misura minore, vale per suburban sprawl , che è stato lasciato più o meno così, a significare (come credo volessero gli autori) un continuum senza fine piuttosto inquietante, ben diverso da qualunque idilliaca, per quanto imperfetta, ipotesi di decentramento. (fb)

Lo sviluppo suburbano frammentato, congestionato, insoddisfacente, e i centri urbani in disfacimento di oggi, non sono semplicemente prodotti del laissez-faire, né l’inevitabile risultato di una cieca avidità. Sono invece pianificati per essere quello che sono: diretto risultato dello zoning e delle ordinanze di lottizzazione zelantemente gestite dagli uffici urbanistici.

Se i risultati sono scoraggianti, è perché il modello di città riprodotto, è triste. Queste ordinanze dettano tre criteri per l’urbanizzazione: libero e rapido flusso di traffico, parcheggi in abbondanza, e rigorosa separazione degli usi edilizi. Il risultato di questi criteri, è che il traffico automobilistico e il suo paesaggio sono diventati l’esperienza centrale e inevitabile dello spazio collettivo.

Lo schema tradizionale del quartiere percorribile a piedi, a usi misti, è stato inconsapevolmente proibito dalle attuali ordinanze. Così, i progettisti si trovano nell’ironica situazione di vedersi impedire un’edificazione secondo le modalità dei nostri pur ammirati luoghi storici. Non si può proporre una nuova Annapolis, o Marble Head, o Key West, senza cercare variazioni alle norme vigenti.

Dunque ci sono due tipi di urbanizzazione disponibili. Il quartiere, che è stato il modello per il Nord America dalla prima colonizzazione alla Seconda Guerra Mondiale, e lo Sprawl Suburbano, che è stato il modello da quel momento in poi. Essi sono simili nella capacità iniziale di contenere le persone e le loro attività; la principale differenza è che lo sprawl suburbano contiene difetti ambientali, sociali ed economici tali da soffocare inevitabilmente una crescita continua.

Il quartiere ha le caratteristiche fisiche seguenti:

Lo sprawl suburbano ha caratteristiche fisiche piuttosto diverse:

Il quartiere ha molte conseguenze positive:

Lo sprawl suburbano ha parecchie conseguenze negative:

Le categorie di cittadini che soffrono particolarmente delle modalità dello sprawl suburbano, comprendono:

Lo sprawl suburbano di solito ospita un certo equilibrio di posti di lavoro, luoghi di vita, scuole, spazi aperti, in quella che sembra essere prossimità. Comunque prossimità non è abbastanza; è anche necessario un certo dettaglio negli spazi pubblici dedicato ai pedoni:

In un quartiere, le case popolari si inseriscono naturalmente e in modo altamente integrato. Ciò si realizza così:

Le normative correnti, vedono solo flussi di traffico, conto dei parcheggi, segregazione degli usi edilizi, e la tutela delle zone umide. Si dovrebbero scrivere nuove norme, che comprendano provvedimenti efficaci per il quartiere, che rappresenta un habitat umano in tutta la sua complessità.

Nota: come spesso accade, forse inconsapevolmente tutti gli scritti anti-suburbio riprendono i temi originari della neighborhood unit teorizzata proprio negli Stati Uniti negli anni Venti, e poi diluita in varie esperienze in tutto il mondo. Per un confronto, è disponibile online una mia traduzione italiana di ampi estratti dagli scritti fondativi di Clarence Perry sul tema, elaborati nell’ambito del Regional Plan of New York. (fb)

Questo nostro racconto megalopolitano, inizia sul tratto più occidentale della Padana Superiore. Per intenderci meglio, siamo verso il chilometro 50, sui 430 totali circa del percorso da Borgo Dora, Torino, a Piazzale Roma, Venezia. Insomma siamo sui margini orientali della conurbazione torinese, più o meno tra Chivasso e Santhià, dove la Padana per chi viene da oriente è appena sbucata dalle infinite piane a risaie del vercellese, che arrivano giù fino alla linea bluastra dei colli del Monferrato, e qui corre ai piedi delle prime alture che fanno da premessa alle Alpi. Si può scegliere fra due strade provinciali: la prima parte dalla periferia di Cigliano e sale regolarmente verso Ivrea, la seconda è più stretta e tortuosa, e inizia al crocicchio chiesa-bar sport di Borgo d’Ale, per caracollare su e giù, più o meno parallela all’altra, fino alle strettoie dell’abitato di Caravino, e poi finalmente scendere verso Albiano, alle porte di Ivrea.

Siamo di fronte a uno degli scenari che fanno capire a chiunque, compreso il sottoscritto, perché mai la regione si chiama Piemonte, ovvero al centro dall’Anfiteatro Morenico del Canavese, con il tipico e netto taglio della Serra, che secondo una linea quasi geometricamente regolare separa le valli di Ivrea e dell’Elvo verso il biellese.

I due percorsi delle strade provinciali entrano paralleli nella piana di Albiano, scavalcando il tracciato dell’autostrada su due ponti, distanti circa un chilometro l’uno dall’altro. Sotto i ponti, su un lato pioppeti, sull’altro un grande prato, che sale lievemente di livello verso nord, fino ad alcune cascine e al tracciato dell’ottocentesco Canale Cavour. In mezzo al prato, un vistoso cartellone colorato recita cubitale, rivolto verso l’Autostrada: MEDIAPOLIS. Nient’altro, per ora.

La Relazione al Piano Territoriale provinciale ci racconta tra l’altro che questo prato, come buona parte delle piane intermoreniche nelle adiacenze di Ivrea, formate dalle alluvioni della Dora Baltea, è un’ottima area agricola grazie alla “risalita capillare di una falda freatica molto prossima al piano campagna”. Sempre dal Piano Provinciale, scopriamo che Albiano d’Ivrea, il cui abitato inizia subito dopo il ponte sul canale e si arrampica in parte sulla collina, occupa una superficie di 1162 ettari, di terreno ottimo per la vite, ci stanno 1696 abitanti al censimento del 2001, suddivisi fra 849 famiglie, e 718 abitazioni occupate (le rimanenti 25 non sono occupate). Questi quasi 1700 abitanti sono serviti da 23 negozi al dettaglio, una scuola materna, una scuola elementare, un ambulatorio. Il territorio di Albiano, il cui centro sta a circa sette chilometri da Ivrea, è tagliato da 7 km di autostrada (la “bretella” A4-A5 che connette la Milano-Torino a quella verso la Francia), da 12 km di strade provinciali, e da 31 km di altre strade varie. Non ci sono ferrovie, o nessun altro tipo di binari. Il casello e relativo svincolo di Albiano della A4-5, stanno in un angolo del nostro prato con cartellone, e sbucano sulla strada per Borgo d’Ale, di fianco a un distributore di benzina dotato di servizio bar, su cui campeggia l’insegna “Freeway”.

Già: Freeway. Un nome abbastanza incongruo su una stradina che inizia a un crocicchio con semaforo, fiancheggiata da case vecchiotte piene di scritte (d’epoca) fasciste, e che dopo il ponte sull’autostrada si infila stretta su per le colline nel centro storico di Caravino. Ma siamo in epoca di realtà virtuali, e anche di quelle bisogna tener conto. E infatti, tornando al cartellone che campeggia in mezzo al prato, basta digitare quella parola su internet per trovare il sito http://www.grupppomediapolis.com, e scoprire che questi posti possono corrispondere anche a descrizioni abbastanza diverse. A partire proprio dal prato, che è quasi esattamente rettangolare: un chilometro lungo l’autostrada, e mezzo in profondità verso nord, ovvero una superficie di 500.000 metri quadri ad “alta visibilità sull’asse autostradale della A4-A5, in posizione baricentrica tra Torino e Milano sulle grandi arterie di comunicazione del Nord-Ovest d’Italia”. Abbiamo così fatto un bel salto concettuale: non siamo più un quarto d’ora di macchina a nord del crocicchio chiesa-bar sport di Borgo d’Ale, ma in un punto strategico della megalopoli padana, e anche in un angolo dove “non sono presenti competitor con le caratteristiche di Mixed-Use development”. Un angolo al centro di un “vasto bacino d’utenza – 4 milioni di persone nell’ora di percorrenza, 12 milioni nelle 2 ore e 20 milioni nelle 3 ore, con una previsione di circa 12 milioni di visitatori/anno”. Ed ecco riassunta un’idea di territorio buona come un’altra. Perché come sappiamo o possiamo immaginare esistono il territorio del pianificatore, quello dell’amministratore, quello dello studioso, e infine quello del mercato: un territorio/contenitore di gonzi da spennare, ordinatamente schierati per reddito, capacità e orientamenti di spesa, linee di isocrona da cui spiccare il volo verso il luogo prescelto di spiumatura. Nel nostro caso, il prato affacciato per un chilometro sulla A4-5. A cui per il momento mancano però le attrezzature adatte alla bisogna. Bisogna provvedere, e occorre farlo al più presto, nell’interesse (e ti pareva) del “territorio”.

Il portatore di questo legittimo punto di vista è, appunto, la spettabile ditta Mediapolis, di cui al già citato cartellone. Sul ricchissimo sito, e come confermato dalla stampa, scopriamo che Mediapolis è un gruppo con sede a Ivrea, posseduto a maggioranza (81%) da una finanziaria lussemburghese, per una quota del 9% dalla holding olandese Breakline, e per il 10% da una vecchissima conoscenza dello sviluppo territoriale locale, la Olivetti, che in questo caso fa di secondo nome “Multiservices S.p.a.”. Il gruppo si costituisce nel 1998 (proprio l’anno successivo a quello della grande crisi di Olivetti e conseguentemente del territorio canavesano), le sue attività “si concentrano sulla promozione e lo sviluppo di iniziative immobiliari che, per il loro contenuto innovativo e per la loro dimensione, richiedano capacità di organizzazione e gestione di competenze multidisciplinari”. Al momento tutte le poderose capacità di organizzazione e gestione “sono essenzialmente focalizzate su un unico progetto (MEDIAPOLIS)”. Ed ecco infine spiegato almeno il cartellone, con tanto di block capitals.

Ma il prato attorno al cartellone, e il paese, e i paesi intorno, e Ivrea ... ? Non a caso si citava Olivetti, e la storia del ruolo dell’impresa per tutto il corso del Novecento, nel determinare (si dice, da parte di quasi tutti, nel bene) la crescita del comprensorio e il suo ruolo di punta in Italia e oltre: industriale, culturale, sociale e politico. Apparentemente, qui Olivetti entra solo come ex proprietaria della striscia di terreno di fianco all’autostrada, ma si sa che la storia non può essere messa da parte troppo facilmente. Così l’antico cenacolo intellettuale interdisciplinare olivettiano degli anni Trenta-Cinquanta, sembra transustanziarsi nella sua versione postmoderna di “Patto territoriale” per lo sviluppo locale, entro cui dovrebbero ricomporsi in un quadro di sussidiarietà gli interessi del grande, del piccolo, dell’impresa, dell’ambiente, del cittadino, del locale, del globale. Almeno, questo è l’auspicio, e a quanto pare anche una necessità, vista la crisi che insieme all’Olivetti sembra far traballare gran parte delle consolidate aspettative di crescita dell’area. Scopo centrale di un patto territoriale, sembra di capire per esempio da un intervento del presidente degli industriali canavesani a questo proposito, è la crescita comprensoriale a partire da quella dei posti di lavoro, e anche un parco giochi come Mediapolis si può inserire in questa logica. Perché di parco divertimenti si tratta, e attorno al suo cuore di giostra postmoderna ruotano le “multidisciplinarità” del commercio, dello sport, del collegamento più o meno virtuoso con altre attività dell’area, di tipo turistico, produttivo, terziario. Ma, per usare le parole del presidente degli industriali, parlare genericamente di sinergie territoriali forse non è sufficiente: Mediapolis è un’idea innovativa, ma è solo una parte di un tutto, “l’iniziativa fa’ emergere una ulteriore possibilità di diversificazione delle nostre attività economiche attuali. Ma tutto il comparto del tempo libero, della cultura e dei servizi proprio perché è sostanzialmente nuovo deve essere seguito con attenzione. Occorre sviluppare in Canavese una più elevata cultura dell’accoglienza, far crescere le competenze linguistiche e quelle tecniche”. Insomma, non basta riempire cinquecentomila metri quadrati di prato con attrazioni turistico-commerciali, per quanto innovative e diversificate, per parlare di sviluppo integrato. E pure, nel quadro del Patto Territoriale del Canavese, Mediapolis è il principale investitore privato, col valore aggiunto del ruolo di “vetrina dell’innovazione” che dichiara di voler svolgere rispetto alle imprese locali, e coi non trascurabili mille posti di lavoro offerti (sulla carta e nei convegni). I due terzi di tutta la popolazione di Albiano.

Mediapolis, discussioni sullo sviluppo “integrato” a parte, è un parco a tema. Proprio tipo Disney, anche se ovviamente declinato a suo modo. In quel mezzo milione di metri quadri del rettangolo lungo l’autostrada dovrebbero entrare attrazioni tematiche di tipo tecnologico e legate al mondo della comunicazione (da cui il nome), attrazioni per il tempo libero anche all’aperto di tipo vario e diversificato, servizi di tipo alberghiero e congressuale, strutture commerciali. Anche se cifre e quantità cambiano nel corso del tempo e nelle correzioni determinate da vari fattori, si può citare dal comunicato dell’ANSA sulla presentazione dell’iniziativa: “L’offerta per il tempo libero sarà molto ampia, con un edificio coperto di 15.000 mq, aperto tutto l’anno, destinato a ospitare eventi e attrazioni basate sulle più moderne tecnologie audiovisive, e un’area esterna stagionale (160.000 mq) con attrazioni più tradizionali, un centro commerciale di 36.000 mq e un albergo di 200 stanze”. Continuando a citare, ma stavolta dai comunicati dell’impresa “l’insieme degli elementi che compongono il progetto, il loro dimensionamento e la logica del loro inserimento in un unico complesso urbanistico fortemente integrato, sono il risultato di due anni di investimenti in ricerca e sviluppo di prodotto”.

“Prodotto”: non lo diciamo noi, ma il sito di Mediapolis. Un prodotto non è un processo, e non è detto che questo prodotto ne inneschi uno, di processo. Eppure, è proprio in termini di processo che si sviluppa tutta la discussione sul Patto Territoriale e relativo Progetto Integrato, che come abbiamo detto vede al centro, come principale investitore privato (oltre che come fatto simbolico e di immagine) proprio il parco a tema. È la crisi industriale e occupazionale della Olivetti a spingere, alla fine degli anni Novanta, l’amministrazione comunale di Ivrea a promuovere il Patto. L’idea è quella di coinvolgere il maggior numero possibile di soggetti in un’azione concertata finalizzata allo sviluppo locale, secondo un’idea che, come leggiamo dalla relazione, ricorda da vicino i programmi complessi di tipo urbanistico: “promuovere la definizione di una “Società di Trasformazioni Territoriale” (parafrasando la “Società di Trasformazioni Urbana” come riferimento procedurale), rendendo il Piano Integrato di Area un “processo di azione integrata” initinere piuttosto che considerarlo un “piano di azione integrata”. Ora forse è più chiaro, il perché della contrapposizione iniziale fra l’idea di processo e quella di prodotto, dopo aver sottolineato che il Parco a Tema è un prodotto, che vende se stesso e solo in seconda o terza battuta “vende”, o “valorizza”, il territorio nel suo insieme. Un prodotto con 170 milioni di Euro investiti, che intende attirare milioni di visitatori l’anno, che si presenta come vetrina dell’innovazione nei campi tecnologicamente più avanzati, che promette di creare direttamente mille posti di lavoro. Ma pur sempre un prodotto “calato” bell’e pronto dal team multidisciplinare, coi disegni irresistibili dello studio di architettura internazionale incaricato, con l’idea di consumo globalizzato che si porta appresso. Leggiamo anche, che “la Regione si impegna nei confronti degli enti locali e di tutti gli altri soggetti coinvolti a promuovere la concertazione necessaria per garantire che la realizzazione del progetto avvenga in maniera del tutto compatibile con il contesto locale, sia per quanto riguarda le necessità di tipo infrastrutturale che le problematiche legate al corretto inserimento ambientale”. Ma basterà, questo, a garantire una replica postmoderna (così si accenna anche esplicitamente nei documenti ufficiali) del modello di intervento che ha reso famoso Adriano Olivetti, con le sue idee di Comunità, le sue citazioni dall’Appalachian Trail di Mackaye, o dalla Tennessee Valley Authority? E poi, Olivetti operava da una posizione di forza, almeno relativa, sul mercato nazionale ed oltre così come sul territorio locale. Si può dire lo stesso, anche solo in potenza, di questa futuribile “Società di Trasformazioni Territoriale”?

Ne sembrano decisamente convinti i Sindaci di un gruppo di comuni, che in un appello ai presidenti di Regione e Province interessate (Torino e Biella) sottoscritto il 21 luglio 2001, e pubblicato sul sito dell’amministrazione di Ivrea, si dicono preoccupati soprattutto – e significativamente, aggiungerei – del rischio che il progetto Mediapolis possa rivelarsi effimero: non per la debolezza della proposta, si badi bene, ma per le possibili carenze o lentezze dell’intervento istituzionale nella predisposizione delle infrastrutture necessarie, e nel coordinamento d’area vasta indispensabile.

“Il Risveglio Popolare”, settimanale canavesano, riferisce di una posizione sostanzialmente favorevole dei Democratici di Sinistra, che vedono positivamente la possibilità di uno sviluppo che ruoti attorno al turismo anziché all’industria, purché nel quadro di un sistema economico locale “integrato”, e di una risposta organizzativa al dilemma: “turismo di qualità o turismo di massa?”. Il riferimento al progetto Mediapolis è chiaro. Un po’ meno, la risposta, che nel documento conclusivo del partito sulla questione, votato a stragrande maggioranza nel dicembre 2002, chiede che “il progetto Mediapolis non solo si inserisca organicamente in un più ampio processo di consolidamento di un nuovo tessuto economico canavesano, ma ne possa rappresentare la vetrina e uno dei più robusti catalizzatori”.

Ma c’è anche chi, in un modo o nell’altro, sembra meno incline a vedere solo la parte mezzo piena del bicchiere. A partire dalla Commissione Tecnica Urbanistica regionale, che chiamata nel 2002 ad esprimere un parere (non vincolante e non obbligatorio) sulla variante al piano regolatore di Albiano, indispensabile primo passo per Mediapolis, dichiara serafica: quell’area non è idonea, perché a rischio di esondazione. A questa asciutta critica, si sommano naturalmente quelle più complesse dell’opposizione ambientalista, che puntano sulla incompatibilità di un oggetto/prodotto tanto ingombrante, con il quadro naturalistico dell’Anfiteatro Morenico, nonché dell’impatto a medio e lungo termine (sempre che ce ne siano, di medi e lunghi termini, verrebbe da dire) delle infrastrutture, anche indotte. Critiche ben riassunte in questo estratto dall’interrogazione presentata dal gruppo Comunisti italiani in Regione nel febbraio 2002: oltre all’impatto negativo sul paesaggio, sulle attività agricole, sui rischi di localizzazione in un’area di esondazione della Dora, “una inevitabile congestione di traffico sia durante la lunga fase di cantierizzazione, sia a maggior ragione durante l’esercizio ... la Regione Piemonte e gli altri Enti Locali saranno costretti a destinare copiose risorse pubbliche per adeguare quantomeno le infrastrutture di viabilità e trasporto ai nuovi flussi e alle nuove esigenze indotte dall’iniziativa”.

L’associazione Pro Natura, dopo che il parere negativo della Commissione regionale è stato di fatto aggirato, osserva come si sia trattato di una forzatura: Mediapolis è stata equiparata ad opera di rilevante pubblica utilità, consentendo l’uso di un’area non idonea dal punto di vista della sicurezza idraulica. Sventolare posti di lavoro e promesse di sviluppo nel dorato modo dei parchi a tema, riesce anche a questo? Le montagne russe, quando si ribattezzano roller coaster, fanno anche questi miracoli? Sul numero di Pro Natura del dicembre 2003, dopo che la variante al piano regolatore di Albiano è stata approvata dalla Regione (26 giugno) si sostiene che lo svolgersi dell’intera vicenda “è la prova efficace di quale è il rapporto di subordinazione degli stessi cittadini, delle comunità e dei territori ai signori del “business”. Sia chiaro che secondo questo principio chi investe pianifica anche i territori. E allora a che servono le istituzioni pubbliche, a pagare i costi delle infrastrutture e i danni quando la natura “matrigna” colpisce?”.

Significativo, il parallelo fra questa osservazione di Pro Natura, l’idea di “Società di Trasformazione Territoriale” sul modello dei programmi urbanistici complessi proposta dal Patto Territoriale, e le critiche di parte della cultura urbanistica proprio a questo modello, in cui sembra perdersi di vista qualunque idea di “sviluppo” diversa da quella proposta dall’ubiquo “mercato”.

Resta, per ora, quel cartellone in mezzo al prato, di fianco alla piazzola di sosta dell’autostrada e di fronte al pioppeto. Restano, per ora e finora, l’insieme delle riflessioni dei vari protagonisti della vicenda, e delle modifiche che via via si sono introdotte nel progetto originario (a partire dal nome, inizialmente di “Millennium Park”). Negli allegati alla delibera che approva il Piano particolareggiato e relativa variante allo strumento urbanistico generale del comune di Albiano d’Ivrea, area Guadolungo, leggiamo l’intenzione di “localizzare attrazioni multimediali, simulatori di situazioni, strumenti di educazione, di approccio divulgativo alle discipline storiche e geografiche” (BUR Piemonte n. 27 del 3 luglio 2003).

Resta, per ora solo su internet, descritta dai comunicatori del sito Mediapolis: “Una cittá del tempo libero, ambientata in un contesto architettonico/paesaggistico di grande suggestione, dove un equilibrato mix di loisir, servizi, ricettivitá e commercio specializzato, contribuiscono ad estendere il target di riferimento di un leisure-park di genere più tradizionale.”.

Resta anche la relativa confusione di chi, soprattutto giovane, abitante nella zona, nei dintorni, o semplicemente interessato ai vari aspetti del problema, è letteralmente bombardato di informazioni, antitetiche nella sostanza se non nella forma. Così sul forum dedicato a Mediapolis si legge di tutto: dalle solite oneste, sempliciotte opinioni positive perchè “sono convinto che questa sia una grande opportunità per tutti noi soprattutto per l’area del Canavese, che è ormai zona depressa per ciò che riguarda il lavoro”, a vere e proprie filippiche contro gli ambientalisti rompicoglioni “che se si facesse un referendum sarebbero al massimo l'uno per cento... perciò li invito a non ostacolare...” ( http://www.damasio,it/forum). Più rari, molto più rari, e forse ha ragione chi li colloca “al massimo l’uno per cento”, i critici.

Del resto la crisi non è acqua fresca. Ma siamo poi sicuri che valga la pena di strappare inopinatamente all’agricoltura quei cinquecentomila metri di terreno esondabile dalla Dora? Non c’è, per esempio, un altro posto, anche se su terreno non ex Olivetti?

Al momento, non mi viene in mente altro. Speriamo che i canavesani siano un po’ più svegli di me. Anzi, ne sono sicuro.

Nota: non ho utilizzato in questo testo altre immagini se non le pochissime foto mie scattate a Albiano e Caravino, e una mappa tratta dal Piano Provinciale. Ci sono una quantità di mappe e disegni - protetti da copyright ma liberamente visibili – sul ricco sito di Mediapolis, insieme a tabelle e altre informazioni che qui ho dovuto schematizzare o escludere.

Altre immagini e informazioni varie sulle fasi del progetto, da Millennium a Mediapolis, su http://digilander.libero.it/idste/millenniumpark.html

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