Le aree metropolitane continuano ad espandersi in superficie e popolazione, e si aggregano a comporre entità uniche dal punto di vista economico, politico, e anche sociale, note come “conurbazioni” e per cui è usato anche il termine di “megalopoli”
Una delle più grandi conurbazioni del mondo si trova sulla Costa Orientale degli Stati Uniti, chiamata Atlantic Seaboard Conurbation. ASC si estende su oltre 1.000 chilometri a comprendere poli economici politici e culturali quali Boston, Massachusetts; New York, stato di New York; Filadelfia in Pennsylvania; Baltimora in Maryland; Washington, District of Columbia.
La foto dallo spazio comprende tutte le aree metropolitane di ASC tranne quella di Boston (fuori dallo scatto verso nord-est). L’immagine evidenzia posizione e dimensioni delle regioni metropolitane grazie all’illuminazione. Nascita e crescita delle conurbazioni si devono alle reti di trasporto – ferrovie, autostrade, rotte aeree – per spostare materie prime, prodotti, persone fra le varie città.
Ci sono altre due aree metropolitane comprese nello scatto — quella di Norfolk e di Richmond, Virginia, nella parte inferiore — che non vengono però considerate parte di ASC.
Le città sono sempre più grandi. E nel 2050 quelle con oltre 10 milioni di abitanti saranno 27
di Federico Rampini
Chongqing e Chennai, Karachi e Lagos, Dhaka e Kinshasa: è ora di cominciare a imparare questi nomi, a situarli sul mappamondo, a fissarli nella gerarchia geopolitica delle nostre notizie. Il pianeta è avviato verso una nuova rivoluzione: il trionfo delle mega-metropoli. Entro i prossimi quarant´anni ci saranno almeno 27 super-concentrazioni urbane, avviate alla soglia dei 20 milioni di abitanti, alcune delle quali oltre i 30 milioni. E´ una trasformazione che avrà ripercussioni in ogni campo: dagli stili di vita ai consumi culturali, dall´energia all´ambiente, fino agli equilibri politici e ai sistemi di governo. Uno studio che sta per uscire negli Stati Uniti, "The World in 2050" dello scienziato Laurence C. Smith, geografo della University of California Los Angeles, getta una nuova luce sulle conseguenze di questa profonda trasformazione.
"The World in 2050", fondato su proiezioni demografiche ormai ad alto livello di precisione, disegna un pianeta dove «non soltanto il baricentro di ricchezza e potere si sposta da Occidente verso Oriente, ma emerge di prepotenza anche il Sud», con l´America latina e una sorprendente Africa. «Cambiano drasticamente la natura e il ruolo dei flussi migratori». E la lotta per le risorse naturali si spingerà verso frontiere sempre più distanti: «La conquista del Nuovo Nord» (per le riserve d´acqua contenute nei ghiacci dell´Artide, e i giacimenti di gas-petrolio sotto la calotta polare) o la sfida per la colonizzazione dello spazio.
In parte tutto questo è già iniziato, avviene sotto i nostri occhi. Nel 1950 c´erano solo due aree metropolitane oltre la soglia dei dieci milioni, New York e Tokyo. Già oggi quella soglia è superata da decine di altre mega-città, molte delle quali nei paesi emergenti. Il 2010 è stato infatti l´anno del sorpasso storico città-campagna, è la prima volta dalle origini della civiltà umana che gli abitanti delle zone urbane hanno superato i contadini e gli altri residenti rurali. Ma il mutamento verrà accelerato nei prossimi anni, con ripercussioni ben più sconvolgenti sul mondo in cui vivranno i nostri figli e nipoti. Per esempio, "metropoli" è un termine di origine greca e che noi associamo a un modello di vita affermatosi in Occidente: il Rinascimento vide il fiorire delle città-Stato in Italia, nel Settecento Napoli era una delle capitali più popolose d´Europa, l´Ottocento e il Novecento sono segnati dai grandi progetti urbani delle capitali imperiali come Vienna e Parigi, Londra e Berlino. E oggi uno dei trend che spingono verso la megalopoli è nato ancora in Occidente: è il ritorno in città delle nuove generazioni di americani.
La confluenza tra crisi economica, nuovi modelli di consumo, immigrazione, ribaltano l´American Way of Life. Nel mezzo secolo precedente le città americane si erano svuotate di abitanti: la middle class si era spostata verso i "suburbs" con le villette a schiera, i quartieri residenziali delle periferie, mentre i centri urbani erano zone di uffici la cui popolazione scompariva la sera. Ora è in atto il movimento inverso: i vincoli energetici, l´alto costo dei trasporti, ma anche l´attrazione dei giovani per i consumi culturali (musei, teatri, cinema) hanno innescato un grande esodo di segno opposto. Rafforzato dagli immigrati che tendono anch´essi ad affluire verso i centri urbani.
L´area metropolitana New York-Newark vede risalire la popolazione e avrà anch´essa sorpassato la soglia dei 20 milioni nell´orizzonte 2050. La sua unica rivale del 1950, Tokyo, farà ancora meglio: è avviata ai 36 milioni di abitanti nei prossimi 40 anni. Tra le città storiche anche Londra e Parigi sono nel club destinato agli oltre 10 milioni. Ma il revival delle metropoli nei paesi di vecchia industrializzazione è solo un pezzetto della storia, e non il più importante. Il boom delle mega-metropoli è trainato soprattutto dai paesi emergenti. Il binomio sviluppo-urbanizzazione torna a funzionare perfettamente, solo che il centro della crescita economica è altrove. La Cina di "The World in 2050" avrà un Pil di 44.500 miliardi di dollari, nettamente superiore a quello degli Stati Uniti (35.000 miliardi). Subito dietro l´America sarà incalzata dal prossimo inseguitore, l´India con 27.800 miliardi di dollari di Pil. In quinta posizione il Brasile pronto al sorpasso sul Giappone mentre nessun paese europeo si piazzerà nel quintetto dei leader.
Demografia ed economia andranno a braccetto, perciò non stupisce ritrovare così tante mega-metropoli del futuro in India: Mumbai con 26 milioni, Delhi con 22,5 milioni, Calcutta venti, e Chennai (ex Madras) oltre i dieci. In Cina le misurazioni del geografo Smith sono già superate dalla realtà. Pechino ad esempio, sulla carta si vede attribuire "solo" 14,5 milioni di cittadini ma in realtà sfiora già i venti perché la sua popolazione è "esondata" oltre il sesto anello del raccordo anulare e la capitale cinese si è annessa di fatto numerose municipalità limitrofe. Per la stessa ragione non compare negli schermi radar del Dipartimento Geografia di Ucla la mega-metropoli che è già oggi la numero uno mondiale, Chongqing sul fiume Yangzé: 30 milioni. Ma i geografi di Los Angeles catturano perfettamente il nuovo trend che porta all´esplosione urbana in Africa - con Kinshasa, Lagos e il Cairo tutte ai vertici mondiali - e in America latina dove San Paolo e Città del Messico sono proiettate oltre la soglia dei 20 milioni. In tutto, su 9,2 miliardi di abitanti della terra nel 2050, ben 6,4 miliardi vivranno nelle città.
Il balzo più prodigioso lo farà proprio l´Africa: con 1,2 miliardi di residenti nelle sue metropoli, il continente nero concentrerà quasi un quinto di tutta la popolazione urbana del pianeta. Mentre oggi sono appena il 38% gli africani che vivono in città. Sorprendenti, o sconcertanti, anche le mutazioni negli equilibri generazionali. Paesi che oggi associamo a una popolazione molto giovane, conosceranno un invecchiamento rapido: nei prossimi 40 anni l´età media in Messico e in Iran aumenterà di 15 anni, in India di 14 anni, in Cina di 10 anni. Tra i meno esposti all´invecchiamento ci saranno gli Stati Uniti a causa dell´immigrazione: nel 2050 l´età media degli americani sarà aumentata solo di 4 anni. Notevole, per le stesse ragioni, l´exploit del Canada: «Una crescita delle popolazione sei volte più veloce della Cina».
Proprio per questo Laurence Smith prevede che «la competizione per attirare gli immigranti globali sarà un elemento chiave nel successo o nel declino delle nazioni». Il bacino mondiale a cui attingere per rinnovare la propria forza lavoro, si farà meno abbondante via via che gli stessi paesi emergenti diventano più ricchi e meno giovani. Nelle società avanzate le mega-metropoli sono la soluzione di gran lunga più efficiente per un uso razionale delle risorse (il consumo pro capite di energia e di acqua è inferiore al modello dei sobborghi-diffusi), però "The World in 2050" invita a non farsi illusioni: «Le fonti rinnovabili come l´energia eolica e solare per quanto in forte crescita non basteranno a soddisfare quei bisogni energetici». I poli demografici ed economici delle mega-metropoli saranno i nuovi protagonisti nella competizione mondiale per l´approvvigionamento di petrolio, gas, acqua potabile. «Di qui la corsa tra le potenze per imprimere il proprio dominio sovrano sul Nuovo Nord, l´Artico, poi su altri pianeti», prevede il geografo californiano.
Infine un interrogativo politico: «Un mondo dove la popolazione sarà concentrata nelle mega-metropoli vedrà prevalere il modello di Singapore o il modello di Lagos?». Ovvero: simili concentrazioni di abitanti potranno essere governate socialmente solo da sistemi paternalistico-autoritari? O prevarrà invece uno sviluppo caotico, gravido d´instabilità politica, come in molte nazioni africane? In un mondo avviato verso quel tipo di migrazioni di massa dalle campagne verso le città, il modello autoritario cinese eserciterà il suo fascino anche su altri continenti. Inoltre l´immigrazione in Occidente sarà sempre più di origine asiatica, visto che su 100 persone che nasceranno da qui al 2050, ben 57 saranno asiatiche.
"Quanti rischi per la salute in quei mostri di cemento"
intervista a Cesare De Seta, di Valeria Fraschetti
«Finché continuerà a mancare la cultura della pianificazione tra coloro che le governano, le megalopoli resteranno luoghi inconciliabili con la sostenibilità ambientale e dove la nostra salute sarà sempre più minacciata». Cesare De Seta, scrittore ed esperto di architettura contemporanea, non appare affatto ottimista di fronte allo tsunami urbano in corso sul pianeta, dove già oggi la metà della popolazione vive nelle città.
Professore, è possibile prevedere un´inversione di tendenza?
«Temo di no. Il mestiere del vivere continua ad apparire più facile in città. Nonostante condizioni di vita spesso infernali, i grandi centri urbani non smetteranno di essere dei magneti economici per coloro che vogliono fuggire dalla miseria. Queste spaventose spinte migratorie sono incontrollate e stanno creando delle metastasi urbane. È un fenomeno che va assolutamente controllato»
Come?
«Bisogna creare dei sistemi capaci di accogliere queste masse di cittadini. Ad esempio pianificando una rete di città-satellite, come fecero gli inglesi dopo la seconda guerra mondiale. Grazie alla loro cultura di "planning", acquisita con l´esperimento delle "new towns", crearono una rete urbana che ha evitato di trasformare Londra in una megalopoli sconfinata»
E oggi non vede esempi promettenti nel mondo?
«Purtroppo no. C´è un totale disinteresse da parte dei governi urbani dove, tra l´altro, la cultura della pianificazione è generalmente assente. Basta appunto vedere quello che accade in città, tipo Città del Messico e San Paolo, dove nessuna istituzione si preoccupa di pensare al futuro».
A Vancouver hanno lanciato un progetto di "densificazione urbana" nella convinzione che con più abitanti in città si ridurranno gli spostamenti in auto e quindi le emissioni di CO2. Può funzionare, secondo lei?
«Dipende. Se il traffico in città non verrà né governato né arginato, anche attraverso la creazione di una rete funzionale di trasporti, allora tutto sarà inutile».
Quali sono le conseguenze a livello sociale di quelle che lei chiama "metastasi urbane"?
«Un esempio drammatico è quanto accade a Parigi, che pure è una città ben governata, ma circondata da un anello di miserabili banlieues, dove la marginalizzazione razziale e economica crea insofferenza che periodicamente sfocia in disordini».
La realizzazione di un aeroporto è sempre una ghiotta occasione per i proprietari di terra, le imprese di costruzione ed i cosiddetti pubblici amministratori. Non a caso alcuni vecchi scandali aeroportuali sono associati al nome di un sindaco, Ciancimino/ Palermo, Favaretto Fisca /Venezia.
Se l’operazione che è stata avviata attorno all’aeroporto di Venezia Tessera può essere accomunata a queste vicende, delle quali condivide la “filosofia” di rapina delle risorse pubbliche e di speculazione su aree agricole, essa contiene però alcuni elementi nuovi che sarebbe opportuno non ignorare, perchè incideranno pesantemente, e non solo per la gigantesca dimensione degli interventi previsti, sulla organizzazione del territorio e sul suo governo.
Tra i dogmi dell’urbanistica postmoderna c’è quello secondo il quale gli aeroporti determineranno la localizzazione degli affari e lo sviluppo urbano del ventunesimo secolo, “così come le autostrade hanno fatto nel ventesimo, le ferrovie ed i canali navigabili nel diciannovesimo, i porti nel diciottesimo”. Partendo da questa sintetica ricostruzione del legame tra infrastrutture di trasporto e città, e dalla constatazione che il traffico aereo è ormai solo una minima parte, e non la più vantaggiosa, delle attività di un aeroporto, l’economista John Kasarda ha elaborato lo schema della nuova forma urbana, denominata Aerotropolis, che sta emergendo attorno agli aeroporti.
L’invenzione urbanistica dell’economista Kasarda
Secondo Kasarda, non si tratta più di attrezzature aeroportuali esistenti che si ingrandiscono per ospitare altre funzioni - alberghi, ristoranti, centri commerciali, cliniche, musei, campi da golf – fino a diventare una sorta di piccola città, ma di vere e proprie nuove metropoli progettate attorno all’aeroporto.
Mentre la tradizionale metropolis consiste in “un centro degli affari ed alcuni anelli di sobborghi di pendolari, il centro di aerotropolis è l’aeroporto” da cui partono una serie di corridoi sui quali, per circa 30 chilometri, si innervano nuclei di uffici e residenze.
Inoltre, e soprattutto, mentre le metropoli sono cresciute disordinatamente, lo sviluppo di aerotropolis non è spontaneo, ma deve essere accuratamente pianificato per poter generare i profitti che il mercato si aspetta. Kasarda e i suoi seguaci, che hanno fondato una apposita rivista Global Airport Cities per documentare e promuovere il diffondersi di aerotropolis in diverse parti del mondo, riconoscono che ogni situazione presenta specifiche peculiarità, ma ritengono alcune precondizioni indispensabili per il successo. Tra queste, irrinunciabili sono la disponibilità di aree libere (greenfields), una gestione privata degli aeroporti, un ingente investimento pubblico che garantisca mezzi di trasporto “dedicati” (airtrain – airbus), ed una sinergia di intenti tra i diversi soggetti decisori per attirare gli investitori.
Non stupisce, quindi, che gli esempi additati a modello siano alcune città asiatiche dove governi “forti hanno potuto decidere con pochi vincoli sociali e ambientali” (Cina), stanno rapidamente privatizzando gli aeroporti (India), o hanno integrato la pianificazione di aerotropolis con quella delle free economic zones (Corea).
Un giudizio positivo viene elargito anche alle città che, grazie a incentivi finanziari brillantemente definiti “tax holidays”, hanno saputo attirare funzioni e attività diverse, dalle cittadelle della moda ai distretti del gioco d’azzardo, dai parchi tematici ai centri congressi.
Torniamo a Venezia
Il che ci fa tornare a Venezia, dove, filtrata attraverso l’ottica di aerotropolis, l’operazione Quadrante Tessera assume un significato più preoccupante di quello di una normale speculazione immobiliare e, quindi, non dovrebbe essere affrontata con la riduttiva speranza di contrattare una qualche riduzione delle cubature progettate.
Venezia ha/è già un parco tematico, i progetti per il gioco d’azzardo e i congressi non mancano, uno dei candidati alla carica di sindaco è il presidente della società che gestisce l’aeroporto e che si è accaparrata un vasto patrimonio fondiario, e l’altro si è dichiarato comunque favorevole ad un grande waterfront. Se il futuro di aerotropolis a Venezia è in buone mani, non altrettanto si può dire di quello di chi ci vive e lavora.
Chiunque può riprendere questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it
Anche se piuttosto datato, il testo che segue mantiene un notevole interesse, se non altro perché – come molti altri già proposti in questa sezione – offre un punto di vista non convenzionale. Non convenzionale almeno per chi di solito vede solo alcuni aspetti del problema: il territorio, l’ambiente, la società locale, le abitudini consolidate ecc.
Dei parchi tematici ci siamo già occupati secondo vari aspetti: questo è quello più direttamente economico, e probabilmente più “onesto” nel presentare scenari, che invariabilmente vedono trionfare la concentrazione di capitali, l’omologazione di comportamenti e stili di vita, la ricchezza sociale ridotta a folklore da vendere nei chioschi all’ombra di qualche pupazzone.
Al limite dell’inquietante, la digressione finale (che secondo me anticipa con eleganza concetti del genere “liberismo compassionevole”) dove i parchi tematici diventano paladini della conservazione dell’ambiente, della società locale, delle tradizioni e di non si sa bene cos’altro. Al limite dell’inquietante, ma presumibilmente molto “venduta”, visto che poi rivediamo concetti del genere sbucare sempre dai comunicati ufficiali delle amministrazioni locali, sempre ammantati di “identità”, “tutela”, “occupazione”.
Pure, questo è il mondo con cui abbiamo a che fare, e dobbiamo tenercelo. Direi, meglio se per il collo, quando possibile. (fb)
Titolo originale The Future Role of Theme Parks in Internazional Tourism, Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini
Introduzione
Il parco a tema ha molti precedenti storici, compresi i parchi divertimenti “a giostre” in America all’inizio del ventesimo secolo, e le attrazioni installate nei giardini pubblici d’Europa.
Ad ogni modo, la nascita del parco a tema moderno è generalmente individuata nell’apertura di Disneyland, circa trent’anni fa.
La Economic Research Associates (ERA), nel corso degli anni ha portato a termine molti studi per la Walt Disney Company e, dai tempi di Disneyland, i parchi a tema si sono moltiplicati per tutto il mondo. Tutti hanno le seguenti caratteristiche base:
Recentemente, ci sono state variazioni nella formula. Esse comprendono parchi a tema rivolti particolarmente a un ambito o a un mercato, come quelli per bambini o quelli acquatici. Una seconda articolazione rispetto al parco a tema tradizionale, è quello in spazi chiusi, combinato con un centro commerciale. I più grossi esempi di questo tipo sono West Edmonton Mall in Canada, Lotte World a Seul, e Mall of America a Minneapolis.
Stato dell’arte
L’industria dei parchi a tema ha visto un’espansione internazionale piuttosto rapida negli anni recenti. La crescita si è concentrata per la maggior parte in Europa e Giappone. È piuttosto significativa la comparazione degli sviluppi negli USA con quelli degli altri mercati.
L’attività negli Stati Uniti è cresciuta per trent’anni, sino all’attuale maturità. Si caratterizza per un periodo iniziale, con Disney a fare da pioniere alla fine degli anni Cinquanta e primi Sessanta, una rapida crescita nei Settanta, e la maturità negli Ottanta. L’Europa e il Nord Asia sono al momento attuale nella fase di crescita rapida della propria attività nei parchi a tema. I paesi in via di sviluppo sono agli inizi. Anche se l’esperienza USA non può essere trasposta direttamente nei mercati esteri, si può essere ragionevolmente certi che l’Europa e il Nord Asia continueranno ad avere una forte crescita nei prossimi dieci anni, circa, e ci vorranno cinque anni o più prima di vedere qualunque crescita significativa nei paesi in via di sviluppo.
Europa
L’Europa ha già un certo numero di parchi. L’attività si è espansa in Europa occidentale con una grossa concentrazione in Germania, Francia, Benelux, e Regno Unito. Ora sta avendo luogo una espansione nell’area sud del continente, con parecchi parchi progettati o in corso di realizzazione in Spagna, Italia, Turchia e Grecia. C’è anche un certo numero di proposte per il Nord Africa e il Medio Oriente.
Al momento attuale, l’industria dei parchi tematici in Europa consiste di 19 principali centri, con un flusso annuale di oltre un milione di visitatori, e 45 centri di dimensioni minori con presenze fra 500.000 e 1.000.000 l’anno. I parchi d’Europa complessivamente generano 70 milioni di visite, con introiti di circa 1,5 miliardi di dollari. In termini di incassi, l’attività in Europa è circa 1/3 di quella degli USA.
Il mercato europeo sta cambiando, naturalmente, dopo la recente apertura del progetto EuroDisney.
Ora le chiavi di lettura del contesto europeo sono PREVISIONE, RIPOSIZIONAMENTO, ESPANSIONE, CONCENTRAZIONE.
Previsione
Ovunque i parchi tematici Disney entrino in nuovi mercati, generano significativi mutamenti strutturali nelle attività simili locali. Negli USA la prima attrazione, Disneyland, ha inaugurato questo tipo di attività. In Florida, ha trasformato una sconosciuta palude nella destinazione turistica principale d’America, e in un mercato attrattivo, e in Giappone, Disneyland Tokyo ha stimolato la crescita dell’industria locale di parchi tematici. Riteniamo che Disney avrà un significativo impatto sull’attività turistica, in Francia e in tutta Europa. Questo avverrà in sei settori chiave:
a) EuroDisney espanderà in generale l’attività dei parchi tematici in Europa, e la focalizzerà su Parigi creando un sistema di attrazione multi-parco.
b) Disney educherà il mercato riguardo al prodotto parco tematico, alla qualità dell’esperienza nel parco a tema, alla validità del sistema di ingresso a tariffa unica per un giorno di intrattenimento ad alta qualità.
c) Disney avrà la leadership del mercato riguardo ai prezzi. Questo farà si che gli altri si allineino ai livelli di Disney.
d) EuroDisney creerà una consapevolezza nei mercati. I suoi solidi e creativi programmi di mercato creeranno consapevolezza e indicheranno anche ai concorrenti metodi efficaci di marketing.
e) EuroDisney migliorerà la capacità di gestione dei parchi europei. EDL (EuroDisneyLand) creerà e formerà un bacino di managers specializzati nei parchi a tema, che in futuro potrà contribuire al miglioramento dell’efficienza del sistema europeo nel suo insieme.
f)Infine, EDL genererà un bisogno di complementarità, di prodotti in posizioni diverse nel mercato. Varie strategie di marketing e posizionamento si sono dimostrate valide altrove, in contesti condivisi coi parchi Disney.
Riposizionamento
Molti dei parchi europei si sono ampliati e riposizionati con nuova enfasi sull’investimento e sul marketing. Molte delle attrazioni europee hanno subito programmi di espansione aumentando la capacità di rides e spettacoli, aumentando i servizi come ristoranti e commercio (aree dove i parchi europei sono tradizionalmente arretrati rispetto agli USA). Sono stati attuati importanti programmi di crescita a Alton Towers in Inghilterra, De Efteling in Olanda, Gardaland in Italia, Parc Asterix in Francia, Walibi in Belgio, e in altri centri europei.
Parecchi si sono riposizionati nel mercato. Nel passato, i parchi contavano su un flusso stabile e ripetuto dall’area locale. Questo mercato rispondeva ai prezzi di ingresso bassi, alle aree da pic-nic, all’ambiente relativamente passivo, che offriva un’esperienza quasi da parco pubblico tradizionale. Attraverso i più recenti programmi di investimento, questi parchi tematici si sono riposizionati come attrazioni commerciali, con prezzi di ingresso più elevati, attirando visitatori da mercati più vasti.
Espansione
L’industria europea dei parchi tematici è stata segnata negli anni recenti da una nuova attività costruttiva. Negli ultimi quattro anni, questo sviluppo si è concentrato principalmente in Francia. EuroDisney ha aperto nel 1992, ma era stata preceduta (forse non molto saggiamente) da quattro altre nuove attrazioni: Asterix, Smurf Park, Mirapolis e Zygofolis. Disney deve ancora essere pienamente accettato dal mercato francese, anche se sta andando abbastanza bene coi turisti stranieri. Gli altri nuovi parchi francesi hanno avuto difficoltà finanziarie, a causa di errori di progetto, realizzazione e gestione. Due (Mirapolis e Zygopolis) sono falliti, diminuendo di molto l’entusiasmo di investitori e azionisti. Busch sta portando avanti il suo parco a Tarragona, Spagna, e vengono proposti altri progetti per il Sud Europa. Anche Legoland si sta espandendo verso nuovi mercati.
Concentrazione
Per ultima, c’è la tendenza alla concentrazione delle attività europee in parchi tematici, in alcuni gruppi chiave. Accade a queste attività nella fase matura, ed è stata questa la tendenza negli USA. In Europa, il processo è iniziato con l’acquisizione di molte attrazioni. Nel 1990, Madame Trussaud compra Alton Towers (Madame Trussaud possiede molti piccoli parchi in tutto il Continente, e Rock Circus a Londra). La compagnia Walibi acquista Smurf Park (ora Walibi Smurf), aumentando le proprietà nel settore a quattro parchi. Infine Accor, il maggiore operatore alberghiero in Francia, prende il controllo di Parc Asterix. Con l’unificazione d’Europa e la continua maturazione nell’attività dei parchi a tema, questa tendenza continuerà.
[...]
Parchi tematici e turismo
Veniamo ora alle correlazioni fra parchi a tema e turismo. Si tratta di relazioni complesse, che dipendono in larga parte dalla dimensione del parco, dalla sua qualità, dalla sua singolarità.
Normalmente i residenti nell’area (in un raggio da 1,5 a 2 ore) rappresentano l’80 per cento delle visite in un parco a tema tradizionale. Anche i visitatori/turisti spesso sono nella zona per altri motivi (come ad esempio la visita ad amici o parenti). Così, il fatto di avere un parco a tema non assicura di per sé automaticamente un flusso turistico. Invece, per generare un movimento di tipo turistico, un parco deve:
Posto che questi criteri siano parte del programma turistico del parco a tema, i risultati possono essere eccezionali, con un solido ritorno economico. Per esempio, a Walt Disney World il turismo è aumentato da 2,8 milioni di visitatori nel 1970 a oltre 35 milioni nel 1992. L’incremento nel numero di visitatori, solo per quanto riguardo gli spostamenti aerei, è stato di 20 milioni. Questo aumento di visitatori (in particolare di chi pernotta) ha stimolato la realizzazione di oltre 50.000 stanze d’albergo, creando impiego diretto per oltre 250.000 persone. Una storia di successo, senza dubbio, per quella che era solo una palude infestata di zanzare, comprata a un prezzo medio di 500 dollari l’ettaro. Anche strutture di dimensione più piccola, come il Polynesian Cultural Center nelle Hawaii, hanno costruito un giro d’affari stabile di circa un milione di visitatori l’anno, e una forte penetrazione nel mercato turistico.
Tendenze di sviluppo
Avvicinandoci al 2000, ci chiediamo in che modo si evolveranno i parchi a tema come elemento componente del turismo internazionale. Non si seguirà ciecamente il modello USA, ma si evolveranno nuove forme di parchi, in cui il turismo sia una importante fonte collaterale. Dal nostro punto di vista di analisi delle tendenze di sviluppo e delle nuove proposte, individuiamo i seguenti cambiamenti:
Tematizzazione nazionale/regionale – I nuovi parchi avranno una più forte tematizzazione legata alla nazione o regione che li ospita. I parchi tematici stano diventando sempre più un simbolo e vetrina per l’identità regionale, la cultura, i traguardi tecnologici. Il pericolo qui, naturalmente, è che essendo troppo seri rispetto all’aspetto culturale i parchi smettano di essere divertenti. Dobbiamo ricordare sempre ai nostri clienti che il primo obiettivo di un parco tematico è il divertimento. È questo lo “zucchero” che fa andar giù anche la pillola della cultura e dell’apprendimento.
Parte di un più ampio programma di utilizzazioni miste – Nel contesto urbano/suburbano, vediamo ora i parchi tematici e le attrazioni di grande scala progettati entro complessi commerciali regionali, insediamenti costieri a usi misti, e anche complessi con usi terziari. In ambienti meno urbanizzati, le componenti addizionali spesso comprendono strutture per la villeggiatura, parchi di bungalows, villaggi con ristoranti e strutture commerciali, centri per eventi speciali ed esposizioni.
Maggior partecipazione e interazione dei visitatori – Le nuove attrazioni sono progettate per offrire maggior controllo e partecipazione, e incoraggiare un rapporto attivo fra il visitatore e l’ambiente. Questo è un portato naturale sia delle nuove tecnologie disponibili, sia della dimostrata attrattività di questo coinvolgimento in casi come il San Francisco Exploratorium. Vengono offerti nuovi percorsi emozionanti in cui si può controllare individualmente l’intensità dell’esperienza. Altri concetti tematici saranno in futuro ancora più basati su attività di partecipazione (sport, musica) rivolte al pubblico, anziché su caratterizzazioni da personaggi dei fumetti.
Uso di esperienze simulate e realtà virtuali – Probabilmente una delle aree più eccitanti di sviluppo è quella della simulazione. Gli avanzamenti tecnologici hanno consentito ai progettisti di attrazioni di replicare realisticamente e virtualmente qualunque esperienza naturale o da effetti speciali. Combinando una qualità visuale delle immagini estremamente alta, con sedili programmati per muoversi insieme all’azione, i visitatori possono gustare in modo realistico esperienze prima impensabili in un parco a tema. Il primo esempio altamente popolare di queste tecnologie è lo Star Tours di Disneyland. Comunque, queste nuove simulazioni comprendono la discesa delle rapide in Nuova Zelanda, la corsa in macchina sulle Alpi italiane, e le gare spaziali intergalattiche. Queste simulazioni vengono prodotte ad una frazione del costo di quelle tradizionali. La tecnologia è anche più flessibile (si può cambiare esperienza semplicemente cambiando software (il film proiettato) anziché cambiare struttura). Una sfida importante, ad ogni modo, sarà quella di sfondare dal punto di vista tecnologico, mantenendo intatta l’emozione e spontaneità del rischio personale percepito e dell’interazione di gruppo.
Maggior orientamento al tema acqua – Si sta verificando un maggiore uso delle attività, attrazioni e ambienti legati all’acqua. Numerosi parchi (Ocean Park a Hong Kong; Dreamland in Australia; Walibi in Belgio) combinano un parco a tema acquatico con attrazioni e divertimenti di tipo tradizionale. Parchi con spettacoli come Sea World sono ancora popolari ma l’espansione futura sarà limitata dalle restrizioni sulla cattura e l’esibizione di mammiferi acquatici. Assistiamo ad una crescente accettazione di acquari di tipo nuovo, ad alta tecnologia, che usano tunnels in acrilico a combinare l’esperienza del panorama marino di un’immersione con quella di una “ ride” tradizionale. Alcuni saranno realizzati in oceano aperto.
Progetti per un uso con qualunque tempo/ambienti artificiali – I nuovi parchi a tema sono progettati per aver più attrazioni al coperto, percorsi a clima controllato, zone di riposo. Questo consente un più rapido ammortamento degli alti costi di investimento in strutture fisse. I nuovi parchi sono progettati con più spazi coperti per fornire una attività più prolungata oltre la stagione estiva, e più ore di apertura al giorno.
Se si guarda al futuro, e al maggior numero di turisti che si prevede viaggeranno verso nuove destinazioni (in particolare Asia-Regione del Pacifico) si prevede una crescente pressione sulle risorse ambientali e sociali delle varie destinazioni. Sta emergendo un nuovo ruolo per i parchi a tema. Per loro natura, essi sono progettati ad accogliere grandi numeri di persone entro uno spazio controllato, con impatti gestibili. Nel futuro, essi avranno una nuova funzione educativa da svolgere, nell’introdurre, guidare, sensibilizzare il turista straniero all’ambiente ospite, ai suoi valori. I parchi a tema possono diventare la nuova soglia dell’ospitalità turistica nazionale. Anziché essere visti come attrazione isolata, essi diverranno parte di un equilibrato prodotto fatto di tempo libero e inserito nel sistema turistico, che contribuirà allo sviluppo economico, all’occupazione, e alla conservazione delle risorse di un’intera regione.
Nota: forse potrà avere qualche interesse in più, ora, la rilettura del pezzo su Mediapolis Canavese, e relativi links. (fb)
A Dharavi, cuore della circoscrizione Mumbai sud-centro, la questione che più muove gli elettori è un controverso progetto di «riqualificazione» urbana. La parola stessa, redevelopment, evoca speculazione edilizia, e si capisce bene perché: questo slum esteso su 175 ettari, circa un milione di abitanti, una città nella città, si trova ormai in una zona centralissima di Mumbai - in un triangolo formato dalle due grandi linee ferroviarie metropolitane, a vista dei grattacieli di appartamenti chic che stanno ridisegnando la skyline della città. Più che un singolo slum è una serie di insediamenti contigui, cresciuti in modo disordinato e «spontaneo» dai primi del '900 senza precisa pianificazione ai bordi di quella che allora era la città, una stratificazione umana che rispecchia le ondate migratorie che hanno costruito la metropoli e le sue fortune economiche.
Nel bastione del Congress
Col tempo parte delle baracche sono divenute case di muratura, le botteghe artigiane sono diventate fabbrichette. Più tardi la municipalità ha aperto due grandi viali che tagliano lo slum, anche se nella parte centrale resta l'ammasso di baracche e vicoli di terra. Perché di «risviluppare» Dharavi si parla da tempo: il primo progetto fu voluto da Rajiv Gandhi nel 1991, e sono comparsi allora i primi edifici di parecchi piani (oltre alle prime opere idriche e fognature) nelle zone periferiche dello slum: case popolari ad affitti bloccati ma pur sempre più cari delle casupole precedenti, così che a ogni «riqualificazione» qualcuno resta fuori e lo slum si perpetua. Ora il governo municipale progetta di abbattere altre 100mila vecchie baracche e costruirvi al posto nuovi complessi di case popolari, un progetto da 150 miliardi di rupie, oltre 2 miliardi di euro.
Questa dunque è diventata la principale preoccupazione per gli elettori, che qui hanno votato ben più numerosi che in molte zone borghesi della città: la municipalità ha propagandato il suo piano offrendo nuovi alloggi di 21 metriquadri per famiglia, ma gran parte delle vecchie case sono più spaziose, anche perché spesso sono pure il luogo di lavoro: dalle botteghe dei vasari nella zona chiamata potter's colony, alle officine di meccanici, alle mini-fabbriche di dolci e snacks che poi sono venduti nei negozietti lungo le arterie principali dello slum oppure in città: Dharavi sopravvive e prospera perché ha un'alta concentrazione di «self made» imprenditori. Di fronte alle opposizioni, il governo municipale (del Congress) ha rivisto i piani, dice che i nuovi alloggi saranno di 28 mq per famiglia. Il candidato sfidante, del partito fascistoide Shiv Sena, offre 37mq.
Dharavi è da sempre un bastione elettorale del Congress, che qui ha ricandidato Eknath Gaikwad, deputato uscente di questo stesso collegio: è un dalit (fuoricasta, una volta chiamati intoccabili) come molti abitanti di qui, l'unico dalit tra i deputati del Congress eletti a Bombay. «E' una persona stimata, uno che è rimasto avvicinabile anche quando è andato in parlamento, risponde agli elettori», dice Kalpana Sharma, giornalista e autrice del miglior libro su questo famoso slum (Rediscovering Dharavi, Penguin India, 2000). Il voto di Dharavi è essenziale: oltre il 60% degli elettori del collegio Mumbai sud-centro vivono in slum, e oltre la metà sono qui. Lo slum è misto, quanto a gruppi sociali: ci sono i tamil (dell'India meridionale), i nuovi arrivati dal Bihar o dal Bengala occidentale, gente di tutta l'India; ci sono alcune moschee, una chiesa cristiana e parecchi templi dedicati a numerose divinità hindu (diverse comunità hanno diversi dèi). «Dharavi ha conosciuto un solo momento di scontro intercomunitario, nel 1992-93, ed è stato istigato da bande del Shiv Sena venute da fuori lo slum», spiega Sharma. Quelle violenze sono ricordate semplicemente come «i riots» di Bombay, quando intere zone popolari sono state teatro di un pogrom contro i musulmani con centinaia di morti.
I musulmani svantaggiati
Mumbai ha conosciuto altre esplosioni di violenza dopo quei riots, dalle bombe alla Borsa nel 1993 (la «vendetta» di gruppi estremisti musulmani indiani legati al sottobosco della mafia della città, si disse), alle esplosioni sui treni metropolitani nel luglio del 2006: eventi sempre in qualche modo legati a dinamiche politiche interne all'India (a differenza dell'attacco subìto dalla città il 26 novembre scorso). Dharavi però non ha visto ripetersi gli scontri «comunalisti» del '92-'93, anche grazie al lavoro di dialogo condotto da alcune leader delle comunità che vi abitano. Tanto che anche un partito sciovinista come il Shiv Sena, riconosciuto come il principale istigatore di quei riots (e di altre violenze), qui ha schierato un candidato noto per moderazione, che ha fatto grandi sforzi per corteggiare gli elettori musulmani.
Già, i musulmani. Sono la minoranza più consistente di questa nazione multiculturale, multietnica e multireligiosa: quasi il 14% degli indiani al censimento del 2001, circa 140 milioni di persone. A Mumbai città superano il 36%. E i musulmani sono una minoranza «svantaggiata» dal punto di vista sociale ed economico, ha documentato una commissione d'indagine voluta dal governo centrale, nota come Commissione Sachar: nel rapporto presentato al parlamento indiano nel 2006 ha mostrato che gli indiani musulmani sono meno alfabetizzati della media nazionale, sono sottorappresentati negli impieghi pubblici, ricevono meno welfare e hanno meno accesso al credito, possiedono meno terra, mentre sono sovra rappresentati nelle statistiche sulla povertà.
Le violenze comunaliste
Rappresentano un bel numero di voti, però: così in questi giorni molti candidati qui a Mumbai come in tutta l'India promettono di applicare le raccomandazioni della Commissione Sachar. Il Nationalist Congress Party, partito del Mahrashtra alleato del Congresso a livello nazionale, ha promesso di riservare quote negli impieghi pubblici ai più poveri delle comunità svantaggiate, inclusi i musulmani (il Congresso «nazionalista» è nato una decina di anni dalla scissione di un boss regionale del Congresso, il potente Sharad Pawar, che rifiutava la «straniera» Sonia Gandhi come leader del partito).
Ma queste promesse potrebbero non bastare: «I musulmani sono stufi di essere usati come "banca di voti"», mi dice Meena Menon, giornalista della redazione di Mumbai del quotidiano The Hindu: «E hanno la memoria lunga. Le violenze comunaliste, e l'insabbiamento del rapporto Srikrishna sui riots del 1992-93, hanno lasciato il segno». Sì, perché dopo quei pogrom anti-musulmani lo stato centrale aveva affidato a una commissione d'inchiesta presieduta da un magistrato, Srikrishna, il compito di accertare fatti e responsabilità. Il suo rapporto era un forte atto d'accusa verso il Shiv Sena e verso le forze dell'ordine, che avevano chiuso entrambi gli occhi limitandosi a intervenire spesso solo a incendi e uccisioni avvenute. Ma a Mumbai il Shiv Sena era al governo, il rapporto Srikrishna finì in un cassetto, la commissione sciolta. Solo in anni recenti il governo del Maharashtra (ora guidato dal Congress) ha istituito tribunali per giudicare quei fatti, e ancora nessun caso è arrivato a una sentenza - 16 anni dopo.
«Il Congress si è sempre presentato come il partito inclusivo che rappresenta le minoranze», dice Meena Menon: «Ma l'offerta elettorale si è ampliata, altri partiti hanno schierato candidati musulmani sperando di intercettare il loro voto». Così si divide il voto della Mumbai popolare, tra slum come Dharavi e quartieri operai insidiati dalla speculazione edilizia: guardando un po' alle appartenenze («qui si vota per casta e per religione», ci aveva detto un simpatizzante del Shiv Sena davanti a un seggio elettorale), un po' alle questioni di «pane e burro»: la casa, il lavoro, i piani di risanamento, i palazzinari in agguato.
Seoul, distretto di Yongsan, poco dopo l'alba di un mese fa. Una quarantina di persone occupa il tetto di un edificio dismesso per opporsi a un piano di riqualificazione urbana che toglierebbe loro casa e attività commerciali senza adeguate compensazioni. Con sé i cittadini in protesta hanno molotov e materiale infiammabile. La polizia lo sa, ma interviene lo stesso calando sul tetto, tramite una gru, i suoi uomini in tenuta antisommossa dentro un container. Lo scontro è immediato, volano manganellate, gli squatter si difendono con bombolette di pittura spray, qualcuno appicca il fuoco, le fiamme divampano e scoppia l'inferno. Sei i morti, cinque squatter e un poliziotto. E' il bilancio più tragico che si ricordi negli ultimi anni a Seoul in uno scontro tra polizia e manifestanti. Nemmeno nell'ondata di manifestazioni di piazza del luglio scorso, quando i sudcoreani scesero per le strade in centinaia di migliaia contro il presidente Lee Myung-bak e la sua decisione di riprendere le importazioni di carne americana, c'era scappato il morto.
L'episodio ha riportato a galla le critiche alla polizia per i suoi metodi brutali e all'atteggiamento "da imperatore", come dicono i suoi detrattori, del presidente Lee nella gestione del potere. Un mese dopo "la tragedia di Yongsan", come ormai tutti chiamano il drammatico episodio del 20 gennaio scorso, le polemiche continuano. Le accuse contro le forze dell'ordine sono volate subito, sia da parte dei pariti dell'opposizione che da parte delle organizzazioni di cittadini, che fin dal giorno dopo gli scontri hanno cominciato a organizzare marce e fiaccolate per chiedere chiarezza e giustizia, a cominciare dalla testa del capo della polizia di Seoul.
Ad autorizzare l'azione di "sgombero" degli squatter che occupavano l'edificio è stato infatti Kim Seok-ki, capo della polizia della capitale sudcoreana ma anche fresco di nomina a capo della polizia nazionale.
Il presidente Lee, appena due giorni prima, aveva presentato con orgoglio il nuovo ufficiale, chiamato a sostituire quello precedente cacciato proprio perché sotto accusa per i metodi brutali usati dai suoi uomini contro i manifestanti nel luglio scorso. Una storia che si ripete, perfettamente in linea con la politica della "tolleranza zero" sbandierata da Lee.
Ci sono volute tre settimane prima che Kim, strenuamente difeso dal governo nonostante fosse ormai al centro di una vera e propria bufera, lasciasse il suo posto e rinunciasse anche al nuovo incarico. Alla fine il presidente Lee ha sacrificato il capro espiatorio, sperando così di sopire la rabbia dell'opinione pubblica.
"Me ne vado assumendomi la responsabilità morale di ciò che è accaduto", ha fatto sapere Kim annunciando le sue dimissioni. Un gesto "per evitare di alimentare ulteriormente le polemiche a danno del governo, alle prese con la crisi economica". Ma, ha aggiunto, non ha nulla da recriminare contro i suoi uomini, che hanno agito correttamente.
Era il massimo che potevano sperare i familiari delle vittime e le migliaia di persone che con loro scendono quasi ogni giorno in piazza in segno di protesta. Dovranno accontentarsi, dato che i risultati dell'indagine condotta nel frattempo dalla procura, pur giudicando "eccessivi" i metodi della polizia, hanno sollevato in toto le forze dell'ordine da qualsiasi responsabilità legale, e incriminato una decina di cittadini sopravvissuti al rogo come colpevoli per aver provocato l'incendio.
Un verdetto che ha lasciato scioccata e incredula l'opinione pubblica, non solo perché l'intervento della polizia aveva delle premesse dubbie - come il fatto, per esempio, che gli uomini in tenuta antisommossa sono entrati in azione appena 24 ore dopo l'inizio del sit-in, senza lasciare alcuno spazio al dialogo e ai tentativi di concertazione con gli squatter-, ma anche perché sembra che gli investigatori abbiano trascurato una serie di elementi importanti. A cominciare dalla presenza di guardie di sicurezza private, ingaggiate dalla polizia per supportare l'operazione, le quali, secondo alcuni testimoni, avrebbero appiccato il fuoco al terzo piano dell'edificio per riempire di fumo il tetto.
Le forze dell'ordine, che inizialmente avevano negato di aver armato contractors, smascherate dalle intercettazioni telefoniche hanno dovuto infine ammettere che sì, le guardie private c'erano ed erano state chiamate appositamente. Gli investigatori, invece, pur avendo condannato alcune di queste guardie private per attività illegali, hanno negato che vi fosse un legame tra loro e la polizia. La loro presenza nelle aree soggette a piani di riqualificazione come Yongsan, del resto, non è nuova.
E' noto che le compagnie di demolizione e quelle dei costruttori assoldano "scagnozzi" privati per minacciare gli abitanti e i negozianti che non vogliono andarsene.
Per la maggior parte di loro significa lasciare le proprie attività commerciali a fronte di risarcimenti poco più che simbolici, pari a tre mesi di guadagno, come vuole la regolamentazione nazionale in proposito. E' il caso, per esempio, dei quaranta asserragliati in cima all'edificio. Molti di loro sono negozianti della zona che, una volta costretti a chiudere bottega e a trasferirsi, rischiano di rimanere senza lavoro. Parecchie sono le denunce di intimidazioni, a volte anche violente, a carico dei contractors.
Ma i dubbi sulla validità delle indagini sono sorti ancor prima che queste iniziassero, quando Lee ha rilasciato dichiarazioni che già preventivamente assolvevano l'operato della polizia, quasi a suggerire agli investigatori una direzione da seguire. I partiti dell'opposizione - che per la prima volta dopo 22 anni hanno creato un fronte anti-governativo insieme alle associazioni di cittadini, era dall'87 che non accadeva - chiedono che sia aperta un'inchiesta indipendente.
Il governo sperava che il sacrificio di Kim sarebbe stato sufficiente a far considerare l'episodio archiviato, ma oggi si trova invece a fare i conti con la goffaggine dei suoi funzionari. Nei giorni scorsi un parlamentare del partito democratico ha reso pubblico un messaggio di posta elettronica spedito da un membro dell'ufficio delle relazioni pubbliche del governo all'Agenzia nazionale di polizia. Nel messaggio c'era un consiglio, o meglio, una direttiva precisa: utilizzare il caso di un presunto serial killer arrestato nella provincia di Gyeonggi per deviare l'attenzione dell'opinione pubblica e dei mezzi d'informazione dalla bufera che si è scatenata dopo i fatti di Yongsan.
Detto, fatto: la polizia, in barba ai diritti umani del presunto omicida, che avrebbe ucciso una donna e sua figlia, ne ha mostrato il volto ai fotografi, dando in pasto il mostro alla stampa. Naturalmente il governo ha subito rigettato le accuse "infamanti", salvo poi dover ammettere che la direttiva è effettivamente partita dall'ufficio governativo, ma "si è trattato di un'iniziativa privata di un funzionario".
Un tentativo disperato, quello del presidente Lee e della sua amministrazione, di risollevare la reputazione e il consenso, ormai in discesa inarrestabile mentre la crisi avanza e l'occupazione è in caduta libera, a colpi di diecimila posti di lavoro in meno al mese.
Norman Myers, ecologo di fama internazionale, insegna alla Scuola del XXI secolo dell'Università di Oxford, e da anni si occupa della natura sempre meno sostenibile dello sviluppo delle megalopoli.
Professor Myers, cosa c'è che non va nelle città?
"Le città occupano il 3 per cento della superficie terrestre ma ospitano la metà esatta dell'umanità, oggi pari a 3,4 miliardi di persone, e sono responsabili del 70 per cento delle emissioni di gas serra. La cosiddetta 'impronta ecologica' delle città è ormai insostenibile, e la situazione sociale e sanitaria della popolazione urbanizzata è critica: di quei 3,4 miliardi di persone più di un miliardo vive in miseria e in malattia".
Qual è la criticità più dannosa?
"La mobilità. All'inizio del '900, quando i londinesi si muovevano a cavallo, la velocità media in città era di 15 chilometri all'ora. Oggi, con l'automobile, è sempre di 15 chilometri all'ora".
Soluzioni?
"Fare come a Curitiba, in Brasile, dove il traffico automobilistico è stato vietato in tutto il centro, e dove i mezzi pubblici sono in grado di trasportate tre quarti dei due milioni di abitanti della città.
O fare come a Berlino, dove la diffusione capillare del car-sharing ha abbattuto del 75 per cento la proprietà delle auto e del 90 per cento il pendolarismo con auto private. O come a Londra e Stoccolma, dove la 'congestion charge' ha ridotto di un terzo il traffico nella zone centrale".
Lei sostiene che il benessere di una nazione non si valuta col prodotto interno lordo. Perché?
"Il Pil è una misura economica assurda, che esprime in termini di ricchezza qualsiasi attività, sia positiva che negativa. Se adottassimo un parametro che io ho definito Genuine Progress Indicator (Gpi), sottraendo i costi negativi di questo tipo a quelli socialmente positivi, avremmo un quadro reale del benessere socio-economico di una nazione".
Titolo originale: Urban Environmental Accords - Green Cities Declaration; Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
RICONOSCENDO che per la prima volta nella storia, la maggioranza della popolazione mondiale vive nelle città, e che la continua urbanizzazione fa migrare verso le città un milione di persone la settimana, creando così una nuova serie di sfide e possibilità ambientali;
RITENENDO che in quanto sindaci delle città di tutto il pianeta, abbiamo la possibilità unica di offrire la guida per sviluppare centri urbani realmente sostenibili in base ad azioni locali adeguate, culturalmente ed economicamente;
RICORDANDO che nel 1945 i leaders di 50 nazioni si riunirono a San Francisco per stendere e sottoscrivere la Carta delle Nazioni Unite;
SOTTOSCRIVENDO l’importanza dell’impegno e spirito della Conferenza di Stoccolma del 1972 sull’Ambiente Umano, dello Earth Summit (UNCED) di Rio del 1992, della Conferenza di Istambul sugli Insediamenti Umani del 1996, i Millennium Development Goals del 2000, e il Summit Mondiale di Johannesburg del 2002 sullo Sviluppo Sostenibile, vediamo gli Accordi Ambientali Urbani descritti di seguito come estensione e sinergia degli sforzi per il progresso verso la sostenibilità, la promozione di economie vivaci, dell’equità sociale, la protezione dei sistemi naturali del pianeta.
DI CONSEGUENZA, DECIDIAMO, oggi nella Giornata Mondiale dell’Ambiente qui a San Francisco, noi Sindaci firmatari ci siamo riuniti per scrivere unnuovo capitolo nella storia della cooperazione globale. Noi ci impegnamo a promuovere questa piattaforma collaborativa, e a costruire un futuro ecologicamente sostenibile, economicamente dinamico, socialmente equo per gli abitanti delle noste città;
DECIDIAMO INOLTRE di chiamare all’azione i nostri colleghi Sindaci di tutto il mondo, perché firmino gli Accordi Ambientali Mondiali e collaborino con noi a metterli in pratica;
DECIDIAMO INOLTRE che sottoscrivendo questi Accordi Ambientali Urbani, ci impegnamo a portare le questioni vitali della sostenibilità in cima alle agende legislative. Attuando gli Accordi Ambientali Urbani, miriamo a realizzare il diritto ad un ambiente sano, pulito e sicuro per tutti i membri della nostra società.
Le Questioni:
Energia – Energie Rinnovabili| Efficienza Energetica| Mutamento Climatico
Riduzione dei Rifiuti – Zero Rifiuti| Responsabilità della Produzione| Responsabilità del Consumatore
Progettazione Urbana – Edifici Verdi| Pianificazione Urbanistica| Quartieri Degradati
La Natura in Città - Parchi| Ripristino dell’Habitat | Flora e Fauna Selvatiche
Trasporti – Trasporti Pubblici| Veicoli Ecologici| Ridurre la Congestione
Salute Ambientale – Riduzione delle Sostanze Velenose| Sistemi Alimentari Sani| Aria Pulita
Acqua – Accesso all’Acqua ed Efficienza| Conservazione delle Fonti Idriche| Riduzione degli Sprechi d’Acqua
Energia
Azione 1 – Adottare e attuare politiche tese all’incremento nell’uso di energie rinnovabili, per rispondere al 10% del massimo bisogno energetico urbano entro sette anni.
Azione 2 - Adottare e attuare politiche per ridurre il massimo bisogno energetico urbano del 10% entro sette anni, governando i momenti di massima domanda, e attraverso misure di contenimento.
Azione 3 – Adottare un piano urbano di riduzione dei gas serra che riduca le emissioni entro la circoscrizione amministrativa del 25% entro il 2030, e che comprenda un metodo di calcolo e verifica delle emissioni.
Riduzione dei Rifiuti
Azione 4 – Mettere in atto politiche per ridurre a zero lo smaltimento in discarica e inceneritore entro il 2040.
Azione 5 – Adottare una norma cittadina che riduca l’uso di categorie di prodotti di categorie eliminabili velenosi o non rinnovabili di almeno il 50% entro sette anni.
Azione 6 – Attuare un riciclaggio “ user-friendly” e programmi di compostaggio, con l’obiettivo di ridurre del 20% pro capite i rifiuti solidi smaltiti in discarica e inceneritore entro sette anni.
Progettazione Urbana
Azione 7 – Adottare politiche per un sistema edilizio verde applicato a tutti gli edifici municipali.
Azione 8 – Adottare principi e pratiche di pianificazione urbanistica che favoriscano densità maggiori, funzioni miste, quartieri accessibili a piedi, in bicicletta, ai disabili, con un coordinamento fra usi dello spazio e sistemi di trasporto, con sistemi di spazi aperti per il tempo libero e le attività nell’ambiente.
Azione 9 – Adottare politiche o attuare programmi che creino posti di lavoro ambientalmente orientati nei quartieri degradati o in quelli a basso reddito.
La Natura in Città
Azione 10 – Fare in modo che esista un parco pubblico o altro tipo di spazio aperto ricreativo ad una distanza di mezzo chilometro da qualunque abitante della città entro il 2015.
Azione 11 – Costruire un censimento della copertura arborea sulla città; successivamente, dopo aver fissato un obiettivo in base a considerazioni ecologiche e sociali, piantumare e mantenere un sistema di copertura che comprenda non meno del cinquanta per cento degli spazi disponibili sui marciapiedi.
Azione 12 – Approvare norme che tutelino i corridoi ecologici e altri habitat (p. es. corpi d’acqua, piante di cui gli animali si cibano, rifugi per la fauna, uso delle specie indigene ecc.) da tipi di insediamento non sostenibili.
Trasporti
Azione 13 – Definire e attuare politiche che estendano i trasporti pubblici a prezzi accessibili a disposizione entro mezzo chilometro a tutti i residenti della città, entro dieci anni.
Azione 14 – Approvare norme o attuare programmi tali da eliminare il piombo dalle benzine (dove ancora usato); abbassare gradualmente i livelli di zolfo nei carburanti diesel e benzina, e insieme utilizzare sistemi avanzati di controllo delle emissioni su tutti gli autobus, taxi, parchi di veicoli pubblici, in particolare per ridurre i particolati e le emissioni che creano smog da questi gruppi, almeno del 50% in sette anni.
Azione 15 – Attuare politiche per ridurre la percentuale di spostamenti pendolari su auto con un solo occupante del 10% in sette anni.
Salute Ambientale
Azione 16 – Ogni anno, individuare un prodotto, chimico o meno, utilizzato nella città e che rappresenta un grosso rischio per la salute umana, e adottare norme e incentivi per ridurne o eliminarne l’uso da parte dell’amministrazione municipale.
Azione 17 – Promuovere salute pubblica e miglioramenti ambientali attraverso il sostegno a cibi biologici prodotti localmente. Fare in modo che il 20% di tutte le strutture della città (come le scuole) servano cibi biologici e prodotti localmente entro sette anni.
Azione 18 – Fissare un Indice di Qualità dell’Aria ( Air Quality Index / AQI) per misurare il livello di inquinamento atmosferico e fissare l’obiettivo di riduzione del 10% in sette anni dei giorni classificati dallo AQI come “dannosi” o “rischiosi”.
Acqua
Azione 19 – Sviluppare politiche tese ad aumentare un adeguato accesso ad acqua potabile sicura, mirando ad un accessibilità generalizzata entro il 2015. per le città con consumi di acqua potabile superiori a 100 litri a testa al giorno, adottare e attuare politiche di riduzione dei consumi del 10% entro il 2015.
Azione 20 – Proteggere l’integrità ecologica delle principali fonti di acqua potabile urbane (falde, fiumi, laghi, zone umide, ed ecosistemi connessi).
Azione 21 – Adottare linee guida municipali per la gestione delle acque di deflusso e ridurre i volumi di quelle non depurate del 10% in sette anni, tramite l’uso estensivo delle acque riciclate e l’attuazione di un piano di bacino idrico che comprenda la partecipazione di tutte le comunità interessate e sia basato su saldi principi economici, sociali e ambientali.
Visione e Attuazione
Le 21 AZIONI che compongono gli Accordi Ambientali Urbani sono organizzate secondo tematiche omogenee. Sono dimostrabili primi passi verso la sostenibilità ambientale. Ma per raggiungere una sostenibilità di lungo termine le città dovranno progressivamente migliorare la propria efficienza entro tutte le aree tematiche.
L’attuazione degli Accordi richiederà un dialogo aperto, trasparente, partecipato fra governi, gruppi comunitari, gruppi economici, istituzioni accademiche, e altri soggetti importanti. La messa in pratica degli Accordi sarà di beneficio quando le decisioni saranno prese sulla base di un’attenta valutazione delle alternative disponibili, utilizzando i migliori strumenti scientifici a disposizione.
L’invito all’azione contenuto negli Accordi si tradurrà nella maggior parte dei casi in risparmi, a causa del minore consumo di risorse e miglioramento nella salute e benessere generale dei cittadini.
L’attuazione degli Accordi può aumentare il potere d’acquisto di una città nel promuovere o anche pretendere da parte dei venditori pratiche responsabili rispetto all’ambiente, al lavoro, ai diritti umani.
A partire da ora, sino alla Giornata Mondiale dell’Ambiente 2012, le città opereranno per mettere in pratica la maggior quantità possibile delle 21 Azioni. La capacità delle amministrazioni di approvare norme ambientali locali e attuare politiche varia notevolmente. Ma il successo degli Accordi verrà valutato sulla base delle azioni intraprese. Dunque, gli Accordi possono essere attuati attraverso programmi e attività, anche quando alle città mancano i poteri decisionali necessari per adottare alcune norme.
L’obiettivo è che le città decidano di intraprendere tre azioni ogni anno. Per valutare i progressi delle amministrazioni nell’attuazione degli Accordi, sarà attivato un Programma di Stelle Verdi per le Città. Alla fine dei sette anni una Città che ha attuato:
Da 19 a 21 Azioni sarà riconosciuta come Città ☻ ☻ ☻ ☻
Da 15 a 18 Azioni sarà riconosciuta come Città ☻ ☻ ☻
Da 12 a 17 Azioni sarà riconosciuta come Città ☻ ☻
Da 8 a 11 Azioni sarà riconosciuta come Città ☻
Nota: il documento originale UNEP è scaricabile anche (insieme ad altri testi connessi) dal sito Euractiv ; su Eddyburg una cronaca giornalistica delle giornate dei sindaci a San Francisco (f.b.)
Los Angeles A più di dieci giorni dall'inizio degli incendi che hanno bruciato 1000 km2 di California i bollettini meteorologici, consigliano ancora «cautela» per anziani a bambini esortando chi soffre di asma a rimanere in casa. La cappa opprimente che ha avviluppato una regione di 300km per 100 (in cui abitano 15 milioni di persone) compresa fra Ventura e il confine messicano, ha provocato la chiusura di molte scuole, altre hanno rinunciato all'ora di ricreazione e di ginnastica a causa della qualità dell'aria. Ma mentre il fumo comincia infine a dissiparsi gli incendi hanno lasciato uno strascico di polemiche assai familiari.
Nella gerarchia naturale delle psicosi californiane, gli incendi sono quelli che hanno forse il maggiore impatto psicologico proprio perché interessano uno dei paesaggi più metaforici dello stato: suburbia, manifestazione tangibile di quella crescita costante che è sacramento fondativo della mentalità di frontiera, specie nel west. I terremoti sono democratici nell'imprevedibiltà dei loro epicentri e scadenze, i fuochi invece sono una certezza che avviene con regolarità matematica essendo parte integrante e necessaria di quest'ecosistema a macchia mediterranea. Una zona in cui un numero eccezionalmente alto di piante sono adattate a provocare periodici incendi per sviluppare una conseguente rifioritura e la distribuzione dei semi sul territorio, oltre che per la fertilizzazione naturale del terreno. È un fenomeno talmente integrato nei cicli naturali che l'università di Riverside a est di Los Angeles offre anche un corso in «ecologia del fuoco». L'analisi della stratificazione geologica conferma che da sempre i venti caldi del deserto che soffiano ogni anno soprattutto nei mesi autunnali, hanno provocato incendi boschivi naturali nei canyon e nella macchia riarsa dalla siccità. Un ciclo di rinnovamento naturale c'è sempre stato, la grande differenza è che ora nella natura ci sono case, a centinaia di migliaia. Accanto all'«ecologia del fuoco» è cresciuta smodatamente una geografia del consumo
Il fordismo edile
La crescita suburbana costituisce il dato costante dello sviluppo urbano americano degli ultimi 60 anni, con radici nel dopoguerra quando per accomodare i reduci protagonisti del boom economico e demografico, emerge un nuovo fenomeno di «fordismo edile» con la costruzione di megacomprensori che applica il sistema della catena di montaggio. Periferie istantanee come Lakewood in California e Levittown a New York, comunità «pianificate» fatte di decine di migliaia di case monofamigliari progettate serialmente grazie alla standardizzazione di metodi e materiali. Sono le sitcom suburbs che fungono anche da contenitori modulari per un conformismo consumista dell'effimero.
Emerge così un nuovo paesaggio, un'inedita geografia della coabitazione che non può più definirsi urbana ma è suburbana. Le periferie diventano il fulcro del nuovo sviluppo contemporaneamente al declino delle città. Una dinamica che si accelera con la sovrapposizione delle tensioni sociali causate dal movimento dei diritti civili: dagli anni '60 in poi la trasmigrazione interna verso le periferie è quella della popolazione bianca in fuga dai centri cittadini fatiscenti lasciati in mano a neri (le inner cities). Il white flight è la dinamica sociale predominante nello sviluppo orizzontale delle città americane per 50 anni, un fenomeno che in California, patria dello sprawl, è accentuato dalla fortissima crescita demografica ed economica capace di creare ex novo intere regioni «suburbanizzate» come la San Fernando Valley, dove risiedono 2 milioni di persone in gran parte etnicamente omogenee. È un fenomeno inestricabilmente legato all'emergenza di un «complesso edile-industriale», una lobby di forti interessi economici che perpetua un modello scarsamente sostenibile (ma altamente commerciabile, soprattutto grazie alle agevolazioni governative ai mutui bancari che si dagli ani '50 sono una sovvenzione ai profitti privati dei costruttori).
Gli interessi immobiliari fanno della casa un oggetto consumabile e uno status symbol dando luogo alla nuova geografia post-urbana che è ormai il paesaggio americano prevalente: periferie prive di centro in cui case individuali coprono vaste zone a bassa densità attorno a posti di lavoro decentrati, raggiungibili unicamente in automobile lungo vettori autostradali. Una suburbanizzazione «regionale» dove la vita sociale si raggruma attorno a franchising di fast food, multisala, tangenziali e centri commerciali.
Già dalla fine dello scorso decennio è questo il paesaggio che definisce l'esperienza americana contemporanea: sono più numerosi gli americani che vivono in zone periferiche «para-urbane» che quelli che risiedono nelle campagne e nelle città messi assieme. L'industria immobiliare, sovvenzionata dallo stato ha cooptato i temi mitici della narrativa nazionale - indipendenza, individualità e frontiera - arrivando a produrre una mappa tangibile del libero mercato, un urbanesimo della speculazione capitalista che ha soppiantato la città.
L'espansione infinita
Un fenomeno che in California è assolutamente prevalente e che spinge oggi lo sviluppo suburbano sempre più addentro a un territorio agricolo e «selvatico» sotto l'impulso di una crescita demografica irresistibile che si attesta attorno ai 600.000 nuovi abitanti ogni anno; la previsione è che in 50 anni la popolazione californiana passerà dagli attuali 35 a 60 milioni. È l'incontro fatale dell'«ecosistema del fuoco» con questa «geografia dell'ipersviluppo» che fa degli incendi naturali della regione un periodico e prevedibile «olocausto suburbano». Ogni anno la stagione dei fuochi torna a minacciare le propaggini più recenti ed estreme della suburbia - quella exurbia che si inerpica per i canyon e nella macchia delle colline californiane, verso il deserto e sulle montagne dell'hinterland - le San Gabriel, San Bernardino, Palomar - la natura che delimita un bacino in cui risiedono 17 milioni di persone.
Alcune di queste «edge cities», come quelle nelle contee di San Bernardino e Riverside, sono abitate in prevalenza da gente che non può permettersi il costo esorbitante dei quartieri piu «desiderabili» in prossimità del Pacifico, questa è una lumpen-suburbia in cui vive un proletariato bianco ( e recentemente anche ispanico) spesso in abitazioni a costo minimo come le mobile homes, case «impermanenti», acquistate come prefabbricati e «posate» su un lotto in affitto. Ma molta exurbia è abitata invece da una facoltosa middle class bianca, i consumatori target dei comprensori che a un ritmo impressionate ricoprono le campagne fra Los Angeles e San Diego con ville a schiera il cui costo medio ha raggiunto il mezzo milione di dollari. Visto che nel modello americano i servizi pubblici vengono finanziati in gran parte dalle imposte sulla casa, queste comunità recintate godono di buone scuole e servizi che attraggono una demografia bianca e facoltosa vero le cosiddete «McMansion» , le ville serializzate, sfornate come i panini tutti uguali di Mcdonalds. Con la loro media di sei stanze (nel 1945 la media era 3), 300 mq, doppio garage e giardinetto di ordinanza sono l'attuale incarnazione dello status symbol imprescindibile del sogno americano: la casa propria. Sono questi luoghi, dunque, l'epicentro dei cataclismici incendi che un anno sì, un anno no, devastano la California. I fuochi, insomma, ci sono sempre stati: se però vent'anni fa i focolai della scorsa settimana avrebbero bruciato perlopiù la sterpaglia secca dei canyon, ora le stesse zone sono piene di case. E non c'è nulla che renda l'idea di «impermanenza» come le rovine fumanti di una McMansion divorata dal fuoco. I materiali di costruzione in serie, legno e cartongesso, vengono annientatai dalle fiamme. Tutto ciò che rimane delle megaville bruciate a Rancho Bernardo o Santiago Canyon sulle colline di Orange County sono i camini in mattone, i frigoriferi, i barbeque e i mobili da giardino in ferro battuto attorno alle piscine annerite. Un tableaux mort del sogno suburbano che ricorda una scultura di Keinholtz, un'archeologia infernale del terziario postindustriale che prevale oggi da Malibu a Silicon Valley.
Negli ultimi venti anni la contea di San Diego, la più duramente colpita dalle fiamme, ha perso il 60% della propria campagna mentre le zone suburbane sono aumentate del 39%. Nella vicina Riverside il tasso di crescita è stato ancora maggiore con 25.000 nuove case costruite ogni anno in grappoli di villette a schiera che si intravedono dalle autostrade e che sorgono sulle colline spianate di fresco dai bulldozer precedute dai grandi cartelloni che ne publicizzano la vendita. Paesaggi di alienante uniformità dove cresce una generazione che non ha mai visto un marciapiede, per cui è incomprensibile il concetto di uno spazio pubblico, di un negozio che non sia il franchise di una catena commerciale.
Da New Orleans a San Diego
La fame insaziabile di spazio in California spinge questo paesaggio ex-urbano sempre più addentro al territorio soggetto ai periodici incendi, dove una fiamma spinta da raffiche di vento caldo (il Santa Ana del deserto) a 100km e alimentata dalle resine combustibili delle piante native, può divorare un canyon in pochi minuti.
Questo è il luogo del «disastro dei benestanti» dove lo sviluppo si ostina a spingersi e dove si pretende che un esercito di pompieri con la sua aeronautica antincendi fermi le fiamme e protegga le case a un costo enorme sostenuto dai contribuenti. Per questo George Bush si è precipitato a San Diego per promettere la ricostruzione dopo aver abbandonato la città di Katrina: New Orleans è povera e nera ma ancora più a suo svantaggio, è una vera, vecchia, città e come tale di scarsa utilità immobiliare per l'industria suburbana.
Gli ultimi incendi sono seguiti ora dall'ormai consueto dibattito sulla necessità di modificare i modelli di sviluppo verso criteri più razionali e sostenibili: smettere ad esempio di costruire ville di plastica sulle colline combustibili. Ma la possibilità che le riforme vengano effettivamente varate sono minime. I limiti alla crescita sono anatema al sacramento del progresso impugnato da un' industria edile dagli enormi interessi finanziari... quindi per il prevedibile futuro almeno, la California continuerà a bruciare.
Nota: superfluo ricordare al lettore che sia su Eddyburg che su Eddyburg_Mall ci sono intere cartelle dedicate ai problemi sfiorati da Luca Celada nella sua ampia rassegna. Il riferimento specifico qui può essere invece al sostanziale fallimento delle politiche energetiche di Arnold Schwarzenegger (il quale se non altro ci ha provato, a differenza del nostro centrodestra), proprio di fronte all’intreccio di interessi che produce e si alimenta dello sprawl; gli stessi interessi che speculano pesantemente anche sull'emergenza, in un quadro inquietante militar-economico tratteggiato da Naomi Klein sull'ultimo numero di The Nation, proposto in italiano da Mall (f.b.)
Titolo originale: Riotous Real Estate – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Lo scorso febbraio urlavano le sirene a Hollywood, mentre le forze del Los Angeles Police Department convergevano verso l’isolato 5600 su La Mirada Avenue. Mentre un capitano di polizia abbaiava ordini da un megafono, una folla inferocita di 3000 persone rispondeva gridando insulti. Chi passava da lì avrebbe potuto scambiare il confronto per una grossa ripresa cinematografica, o anche l’inizio della prossima grande rivolta di L.A..
A dire il vero, come ha raccontato poi il capitano Michael Downing del LAPD ai giornalisti “C’erano persone molto disperate con un atteggiamento di rivolta. Era come se stessero tentando di afferrare l’ultimo pezzo di pane”.
L’allusione alla rivolta del pane è giusta, anche se quella folla stava reclamando le ultime briciole di case a prezzi controllati in una città dove affitti e mutui sono lievitati a livelli stratosferici. In gioco, c’erano 56 appartamenti ancora da terminare, realizzati da un’impresa no-profit. I costruttori si erano aspettati una presenza, al massimo, di qualche centinaio di persone. Quando invece sono arrivati migliaia di aspiranti assegnatari disperati, la cosa è girata al brutto ed è intervenuta la polizia.
Poche settimane dopo questo teso confronto di Hollywood, un’altra folla ansiosa – stavolta composta da persone più agiate, in cerca di casa – si è accodata per ore a fare offerte vergognose per l’acquisto di una casa in rovina, con le fondazioni crepate, in un sobborgo vicino rinomato per le ottime scuole. “Quella folla brulicante – ha scritto l’editorialista del Los Angeles Times Steve Lopez – non è stata una sorpresa, visto che è dimostrato come la scuola pubblica della California sia una fabbrica di emarginati”.
Le scuole di Los Angele, sottofinanziate, sovraffollate, violente, secondo un recente rapporto di un gruppo di ricerca di Harvard, al momento non riescono a far concludere gli studi alla maggioranza degli studenti neri e latini, e a un terzo dei bianchi. Come conseguenza, i genitori sono disposti a straordinari sacrifici per spostare i propri figli verso sobborghi dotati di strutture educative efficienti. Questo dà un nuovo impulso al vecchio detto immobiliarista “la posizione è tutto”: le case nella California meridionale sono universalmente pubblicizzate e qualificate dal prestigio dei distretti scolastici locali.
Naturalmente la crisi delle abitazioni in Sud California ha anche un lato solare. Negli ultimi cinque anni i valori medi dell’edilizia residenziale si sono incrementati del 118% a Los Angeles, e di un eccezionale 137% nella vicina San Diego. Di conseguenza, le case sono diventate una specie di bancomat, offrendo ai proprietari magici flussi di denaro non guadagnato, con cui acquistare nuovi fuoristrada, pagare gli interessi delle case di vacanza, finanziare la sempre più costosa istruzione dei figli nei colleges privati. I mutui per seconde case e i rifinanziamenti per l’edilizia residenziale, secondo uno studio della Wharton Business School, hanno generato a partire dal 2000 l’incredibile somma di 1,6 trilioni in consumi aggiuntivi.
La grande bolla della casa in America, come i sui obesi corrispondenti in Olanda, Spagna, Australia, è un classico gioco a somma zero. Senza generare un solo atomo di nuova ricchezza, l’inflazione dei suoli ridistribuisce senza pietà le risorse dalla domanda all’offerta, approfondendo le divisioni dentro e fra classi sociali. Un giovane insegnante di San Diego che prende in affitto un appartamento, per esempio, ora deve affrontare un costo annuale della casa (24.000 dollari per due stanze in zona centrale) che è l’equivalente di due terzi del suo reddito. Per contro, un più anziano autista di bus scolastici che possiede una modesta casa nello stesso quartiere, può aver “guadagnato” dall’inflazione residenziale l’equivalente della sua paga sindacale.
L’attuale bolla della casa è figlia bastarda della bolla azionaria di metà anni ’90. I prezzi delle case, specialmente sulla costa occidentale e nel corridoio orientale Boston-Washington, hanno iniziato a schizzare verso l’alto nella seconda metà del 1995, quando i profitti delle imprese dot-com si sono riversati sul mercato immobiliare. Questo boom è stato sostenuto da tassi di interesse incredibilmente bassi, grazie soprattutto all’interesse della Cina ad acquisire grandi quantità di titoli del Tesoro USA, nonostante i redditi bassi o addirittura le perdite. Pechino ha volontariamente finanziato i contrattori di mutui americani per tenere aperta la porta all’export cinese.
In modo simile, i mercati interni più caldi – California meridionale, Las Vegas, New York, Miami, e Washington, D.C. – hanno attirato le voraci colonne di termiti degli speculatori puri, a comprare e vendere case azzardando che i prezzi avrebbero continuato a salire. Lo speculatore con più successo è stato, naturalmente, George W. Bush. I valori immobiliari in crescita hanno sollevato un’economia stagnante, e smorzato le critiche a quella che era una politica economica disastrosa.
I Democratici da parte loro non hanno affrontato seriamente la crisi di milioni di famiglie tagliate fuori dalla proprietà della casa. In una città-bolla come San Diego, ad esempio, meno del 15% della popolazione guadagna abbastanza per finanziare la costruzione di una nuova casa di prezzo medio.
Certamente, se alla base della vittoria di Bush lo scorso novembre ci sono stati dei “valori”, si trattava di valori immobiliari, e non di principi morali o pregiudizi religiosi. Di fronte a questa perversa bolla immobiliare la campagna elettorale di Kerry, come sui costi delle assicurazioni sanitarie o la perdita di posti di lavoro, girava semplicemente a vuoto. Non offriva alternative serie allo status quo. Ma i Repubblicani hanno cose più serie di cui preoccuparsi che non i Democratici. Quando la bolla immobiliare raggiungerà il suo vertice, George Bush potrebbe scoprire di aver cavalcato uno tsunami, e che si avvicina un’alta scogliera.
La bolla è già scoppiata a San Francisco, e il titolo apparso sul numero dell’11 aprile di Business Week esprime timore che una generale deflazione – magari di dimensioni internazionali – sia prossima. Come sarà la vita negli Stati Uniti (o in Gran Bretagna, o Irlanda) quando chiuderà il bancomat immobiliare?
La stampa economica, come al solito, tranquillizza i passeggeri: sarà un atterraggio morbido, un rallentamento anziché un disastro, ma anche un sussulto di media importanza può bastare a fermare l’attuale anemica ripresa, e gettare tutte le economie legate al dollaro in depressione. Più minacciosi, alcuni eminenti e rispettati economisti di Wall Street, come Stephen Roach della Morgan Stanley, avvertono sul pericoloso anello di retroazione negativo fra le bolle immobiliari alimentate dall’estero e l’enorme deficit commerciale USA. (quello che sta solo aspettando di succedere, ha scritto è “ The funding of America”).
Alla fin fine, l’egemonia militare americana non è più sostenuta da un’equivalente supremazie economica globale. La bolla del problema casa, come l’esplosione delle imprese dot-com prima, ha mascherato provvisoriamente questo pasticcio di contraddizioni economiche. Di conseguenza, il secondo mandato di George W. Bush può riservarci grandi sorprese, degne di Shakespeare.
Nota: qui il testo originale (con introduzione) al sito Tom Dispatch; il giorno successivo alla pubblicazione di questo testo su Eddyburg sul quotidiano il manifesto ne è apparsa una traduzione - certo meno frettolosa - di Marina Impallomeni col titolo "La bolla californiana" (f.b.)
Titolo originale: The world goes to town – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Che pensiate che la storia umana inizi nei giardini di Mesopotamia chiamati Eden, o più prosaicamente nelle attuali savane dell’Africa orientale, è chiaro che l’ Homo sapiens non ha iniziato la sua esistenza come creatura urbana. L’ habitat umano delle origini era dominato dalla necessità di trovare cibo, e caccia e raccolta sono cose da spazi aperti. Non fu sino alla fine dell’ultima era glaciale, circa 11.000 anni fa, che iniziammo a costruire qualcosa che si potrebbe definire un villaggio, e a quell’epoca l’uomo esisteva già da 120.000 anni. Ce ne vollero altri seimila per arrivare all’epoca classica, e alle città per svilupparsi fino a raggiungere i 100.000 abitanti e oltre. Ancora nel 1800 c’era solo il 3% della popolazione mondiale a vivere in città. In un qualche momento dei prossimi mesi, però, quella quota supererà la soglia del 50%, se non è già successo. Con saggezza o meno, l’ Homo sapiens è diventato Homo urbanus.
In termini di storia umana, questo potrebbe apparire uno sviluppo positivo. Certo sarebbe molto discutibile affermare che dalla campagna nono è mai venuto niente di buono. Presumibilmente, la ruota è un’invenzione dell’ambiente rurale. E anche gli abitanti delle città hanno bisogno del panem, oltre che dei circenses. Se il Dottor Johnson e Shelley erano nel giusto quando affermavano che i veri legislatori dell’umanità sono i poeti, allora bisogna di sicuro dare merito a colline, laghi e altre delizie rurali per averli ispirati.
Ma i contributi della campagna al progresso umano sembrano poca cosa, se paragonati a quelli urbani. Sviluppo della città è sinonimo di sviluppo umano. Coi primi villaggi è emersa l’agricoltura, l’addomesticamento degli animali: non si doveva più vagare per la caccia e la raccolta, ma si poteva invece riunirsi negli insediamenti, consentendo ad alcuni di sviluppare abilità particolari, e a tutti di vivere più sicuri dai predatori. Dopo un certo periodo i contadini riuscirono a produrre più di quanto si consumava, almeno nelle annate buone, e i vari prodotti dei villaggi- cereali, carne, stoffe, terraglie – si potevano scambiare. Attorno al 2000 a.C. si iniziarono a produrre gettoni di metallo, antenati delle monete, a titolo di ricevuta per le quantità di cereali depositate nei granai. Contemporaneamente, le città iniziavano a prendere forma.
Lo fecero a partire dalla Mezzaluna Fertile, striscia di terre produttive fra gli attuali Iraq, Siria, Giordania e Palestina, da cui emergeranno Gerico, Ur, Ninive e Babilonia. Col tempo vennero altre città in altri luoghi: Harappa e Mohenjodaro nella valle dell’Indo, Menfi e Tebe in Egitto, Yin e Shang in Cina, Micene in Grecia, Cnosso a Creta, Ugarit in Siria e, la più spettacolare, Roma, prima grande metropoli, che poteva vantare, al suo culmine nel III secolo a.C., una popolazione di oltre un milione di abitanti.
Abitare insieme significava sicurezza. Ma le persone si radunavano anche per via dei vantaggi pratici di stare tutti nel medesimo posto: vicino a un fiume o a una sorgente, su un’altura o penisole difendibile, vicino a un estuario o a una fonte di cibo. Era anche importante, ci insegnano gli storici, la capacità di un insediamento di attirare le persone in quanto luogo di incontro, spesso a scopi spirituali o sacri. Tombe, boschetti, anche caverne, potevano diventare luoghi sacri per cerimonie o rituali, verso cui la gente si dirigeva in pellegrinaggi. L’uomo non vive di solo pane.
Comunque il pane, in senso lato, era importante. Le persone arrivavano in città a pregare, ma anche per scambiare – il tempio era spesso anche il mercato – e i beni portati e venduti non erano solo prodotti dei campi, ma anche il frutto dell’opera di artigiani urbani e altri lavoratori qualificati. La città divenne centro di scambio, sia dei prodotti che delle idee, e quindi centro di apprendimento, innovazione, sofisticazione.
Non solo nella Mezzaluna Fertile, ma nei secoli anche a Alessandria e Amsterdam, Cambay e Costantinopoli, Londra e Lisbona, Teotihuacán e Tenochtitlán. É nelle città che l’uomo si libera dalla tirannia della terra, e riesce a sviluppare capacità, a imparare dagli altri, a studiare, insegnare, costruire le capacità sociali che poi fanno sembrare i campagnoli degli zotici. L’homo urbanus non è solo un uomo che vive nella città: è la città stessa.
Le città sono state naturalmente molto più di tutto questo, e non erano tutte uguali. Nel corso del loro sviluppo, alcune si distinguevano per il ruolo religioso (la Roma del secondo periodo), come il centro di un impero (Costantinopoli, Vijayanagara), nuclei amministrativi (Pechino), laboratori politici (Firenze), luoghi dell’apprendimento (Bologna, Fez), del commercio (Amburgo) o di lavorazioni particolari (Toledo). Alcune fiorirono, altre tramontarono, la longevità dipendente da vari fattori come conquiste, epidemie, malgoverno, collasso economico.
La tecnica si dimostra imparziale
Qualunque sia il contesto particolare in cui si sviluppa una città, comunque, il suo vigore molto probabilmente sarà influenzato dall’evoluzione tecnologica. Nello stesso modo in cui è la sovraproduzione agricola a rendere possibili i primi insediamenti stabili, sono le innovazioni nei trasporti a indurre lo sviluppo degli scambi da cui dipende la ricchezza di tante città. Ci sono altri sviluppi tecnologici che rendono possibile la sopravvivenza urbana. I romani, ad esempio, costruiscono gli acquedotti per portare acqua pulita in città, e fogne per renderla più salubre.
Ma se ne avvantaggiano solo i ricchi. La maggioranza dei romani, e degli abitanti delle città nel corso della storia, vivono nello squallore, molti ne muoiono. Le città sono affollate e malsane; le persone malnutrite; la malattia si diffonde rapidamente. Le città crescono in dimensioni e numero di abitanti per lunghi periodi, ma possono declinare e scomparire. Tra l’anno 1000 e il 1300 la popolazione urbana d’Europa si raddoppia, fino a raggiungere circa i 70 milioni (grazie anche in parte a un nuovo sistema di rotazione delle colture, reso possibile da nuovi attrezzi). Poi, con la Morte Nera, si riduce a un quarto. Muore anche la gente di campagna, a sono I cittadini ad essere particolarmente vulnerabili. La loro salute dipende soprattutto da acqua pulita e impianti sanitari, che pochi possiedono, e da sapone e medicine a buon mercato, che devono ancora essere inventati.
Non sorprende che il successivo grande sviluppo urbano derive ancora da un salto tecnologico: l’invenzione dei motori e delle macchine per la produzione. La Rivoluzione Industriale in un primo tempo fa assai poco per rendere migliore la vita urbana, ma offre posti di lavoro: parecchi posti di lavoro. Dalle fabbriche dell’era industriale iniziata alla fine del XVIII secolo nasce un’epoca urbana interamente nuova. I contadini abbandonano le terre a moltitudini per spostarsi nelle città, prima nel nord dell’Inghilterra, poi in tutta l’Europa e in nord America. Nel 1900, il 13% di tutta la popolazione mondiale era diventata urbana.
L’ultimo salto, da quel 13% al 50% in soli 107 anni, deve ancora qualcosa alla scienza e alla tecnologia: avanzamenti della medicina, insieme alle conoscenze sui modi di evitare le malattie, consentono a sempre più persone di abitare insieme senza soccombere, come accadeva un tempo, per la diarrea, la tubercolosi, il colera e altre epidemie. Ma i medesimi sviluppi, hanno allungato la vita anche nelle campagne, portando a enormi incrementi della popolazione rurale. L’ingegno umano non è riuscito a produrre nelle campagne una ricchezza corrispondente a tale crescita. Di conseguenza, molti abitanti di villaggi sono andati a cercare una vita migliore in città.
Le sole proporzioni e velocità dell’attuale espansione urbana, rendono improbabile qualunque grande cambiamento, del tipo di quelli che hanno segnato sinora la storia urbana. Si tratta soprattutto di poveri migranti, in quantità che non hanno precedenti, che producono bambini pure a ritmi senza precedenti. Si tratta dunque in gran parte di un fenomeno dei paesi poveri o poco ricchi; il mondo sviluppato si è lasciato alle spalle gran parte della sua urbanizzazione.
Ma nei paesi poveri si tratta di una tendenza che continuerà. Le Nazioni Unite prevedono che l’attuale popolazione urbana, di 3,2 miliardi di persone, aumenterà sino a quasi 5 miliardi entro il 2030, quando tre persone su cinque vivranno nelle città. L’incremento sarà particolarmente drammatico nelle regioni più povere e meno urbanizzate, in Asia e in Africa. Si tratta delle zone meno in grado di misurarsi col problema. C’è già il 90% della popolazione urbana di Etiopia, Malawi e Uganda, tre dei paesi più rurali del mondo, che vive negli slum.
Nel giro di dieci anni al mondo ci saranno quasi 500 città con oltre un milione di abitanti. Gran parte di questi nuovi cittadini sarà assorbita da metropoli di oltre 5 milioni. E alcuni staranno anche nelle megacittà, ovvero quelle da 10 milioni e oltre di abitanti. Nel 1950 solo New York e Tokyo potevano dire di essere così grandi, ma nel 2020, dice l’ONU, ci saranno nove città - Delhi, Dacca, Giacarta, Lagos, Città del Messico, Mumbai, New York, San Paolo e Tokyo – con oltre 20 milioni di persone. L’area metropolitana di Tokyo già ne contiene 35 milioni, più dell’intera popolazione del Canada.
La Megalopoli del mondo antico stava in Arcadia, parte della Grecia cantata da Virgilio come modello di semplice e lieta vita rurale. Le città che indica ora quel generico nome sono tuttaltro che arcadiche. Per quanto riusciti questi luoghi possano essere, se il successo si misura in termini di crescita di popolazione. Ma la gran parte si trova in paesi poveri, e molti degli abitanti, quando non la maggioranza, abita nello slum.
Invece nel mondo ricco la città sta attraversando cambiamenti di genere molto diverso. Molti dei nuovi centri fioriti nel corso della Rivoluzione Industriale e dell’epoca della manifattura ad essa seguita hanno perso popolazione. Anche New York, tanto a lungo epitome di sofisticazione urbana, ha attraversato un brutto momento negli anni ‘70. Alcune città mantengono un proprio ruolo come centri amministrativi, grazie alle condizioni politiche. Alcune sono ancora centri di scambio, grazie alla posizione geografica. Alcune tengono semplicemente perché hanno raggiunto un certo equilibrio. Altre però sono in difficoltà.
Fra i motivi tradizionali del vivere in città, molti (la presenza del luogo sacro, la vicinanza del cibo) hanno perso importanza. Alcune delle cose un tempo offerte dalla città (fabbriche, negozi) ora si possono trovare nei centri commerciali o zone industriali suburbane. La sicurezza, un tempo fra i motivi principali della concentrazione umana, spesso è questione sfuggente, più nelle vie della droga della metropoli che nell’ambiente dell’esurbio. La tecnologia, che storicamente ha favorito il progresso urbano, ora consente alle persone di lavorare nell’idillio rurale grazie al computer domestico. Nessuna meraviglia che molte città per continuare a prosperare debbano reinventarsi.
Quasi tutti i centri dei paesi ricchi, che siano stabili o in declino, si preoccupano di trasporti, inquinamento, energia, sacche di povertà eccetera. Ed esistono problemi in abbondanza. Ma si tratta di problemi di ordine differente rispetto a quelli affrontati dalle città dei paesi poveri, di gran lunga più drammatici e a fronte di risorse molto più scarse. Se i centri ricchi si preoccupano per flussi in aumento o calo relativamente modesti di popolazione, quelli poveri si confrontano con vere ondate di marea di migranti.
Dunque la storia delle città è giunta a un bivio.
Nota: la conclusione piuttosto brusca del testo si deve al fatto che sono state tagliate le frasi conclusive, che introducevano il successivo articolo sul tema dell’urbanizzazione mondiale proposto dall’Economist una audio intervista a Johnny Grimmond, a cui ovviamente rinvio, oltre che alla versione originale di questo estratto su Mall_int e qui su Eddyburg agli articoli relativi al Rapporto WorldWatch 2007 (f.b.)
Titolo originale: Unsustainable – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Tondo, un settore della capitale delle Filippine, Manila (popolazione 11,3 milioni nel 2005), per quanto riguarda la presenza di lavoratori è simile a molte grandi metropoli. E pure Tondo, coi suoi circa 600.000 abitanti, rappresenta una situazione estrema per quanto riguarda densità, povertà, abitazioni inadeguate.
La densità di popolazione di Tondo è oltre dieci volte quella di Hong Kong. Un fatto particolarmente sconvolgente, visto che la forma dell’insediamento a slum è per edifici bassi, e non sviluppata in verticale.
Le condizioni della vita e dell’abitare a Tondo sono state riassunte da Simon Szreter dell’Università di Cambridge come le “4 D”: disgregazione, deprivazione, debilitazione, decomposizione. Purtroppo, si tratta di una situazione comune in molte città dei paesi in via di sviluppo che hanno sperimentato una rapida crescita urbana negli ultimi decenni, esattamente come accaduto i Europa e Nord America nel XIX secolo.
UN-Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, stima che l’attuale popolazione globale degli slum — un “Quarto Mondo” composto da chi è socialmente ed economicamente isolato dalla modernità e da un’accettabile qualità di vita— sia di oltre un miliardo. Se continuano le attuali modalità di crescita, questa popolazione dello slum globale raddoppierà entro il 2030.
La disperazione di Manila
Chi visita Tondo viene facilmente travolto dalla puzza, dallo squallore. Le “case” sono molto piccole, con pochissime attrezzature di base, costruite con qualunque materiale disponibile su qualunque superficie di terreno. Ciò spesso significa usare palafitte per edificare sopra acque inquinate e maleodoranti, o attorno a grandi tubature, sotto ponti o cavalcavia.
Egualmente spaventosa è l’assenza delle amministrazioni cittadina e centrale nell’assistere gli abitanti. Si possono vedere bambini malnutriti e malvestiti che frugano nelle grandi discariche alla ricerca di cibo o di qualunque cosa di valore da vendere. Gran parte delle famiglie no possono permettersi di mandarli a scuola. Ci si chiede se i cosiddetti tentativi di fare della sostenibilità abbiano alcun effetto su questa enorme parte della popolazione mondiale.
Nonostante le condizioni spaventose, molti conservano un senso di dignità, cosa che appare sporadicamente nelle piante e fiori fuori dalle abitazioni dello slum, a formare piccoli giardini urbani.
Ma ad ogni modo, sottoposto alla pressione demografica di queste masse impoverite, l’ambiente vacilla. Nel 2003, un’epidemia di colera e gastroenterite ha prodotto numerosi ricoveri in ospedale e decessi. Sono stati trovati colibatteri “E” nell’incostante sistema della fornitura d’acqua. Ironicamente, la rete è gestita da una compagnia pubblica che si vanta del proprio approccio alla sostenibilità ambientale, con iniziative e impegno di lungo periodo.
I bambini soffrono normalmente di disturbi respiratori, tubercolosi, diarrea. Il tasso di mortalità infantile è alto, anche per la media filippina. Dal punto di vista epidemiologico, Tondo è una bomba a orologeria.
E la sostenibilità?
É certo che l’impegno per la sostenibilità abbia portato negli ultimi vent’anni una grande evoluzione ideale all’interno dei governi – locali, regionali, nazionali – oltre a produrre miglioramenti sociali e ambientali in molte città.
Ma resta comunque aperta la questione di come i governi si confrontino coi processi di urbanizzazione e globalizzazione. Visti i molti aspetti diversi di carattere spaziale, istituzionale, economico assunti dai movimenti urbani contemporanei, possono contribuire, architetti e urbanisti, a superare il distacco culturale e materiale fra chi ha e chi non ha?
Ambienti urbani come Tondo dimostrano come i governi non riescano a rispondere alle sfide della globalizzazione, di un mondo che si urbanizza, nonostante abbiano adottato la retorica della sostenibilità.
Chi abita nelle regioni ricche lascia una enorme impronta ambientale per i propri elevati livelli di consumo, che superano nel lungo termine le possibilità di essere sostenuti, a scala globale se non locale. Invece là dove l’umanità è concentrata sul territorio in assenza di sviluppo, si eccede la sostenibilità in modo locale e immediato, anziché globale e sul lungo periodo.
Gli enormi bisogni di Tondo dovrebbero risvegliare l’interesse di chi si occupa di questioni urbane, della forma urbana. Le professioni coinvolte possono contribuire alla (ri)costruzione della città, alla tutela dell’ambiente, ad offrire condizioni di abitabilità a chi non può esprimere politicamente ed economicamente la propria voce, a chi è lasciato indietro dalla gobalizzazione e dalla rapida urbanizzazione. Il problema per noi non deve essere se c’è o meno sostenibilità, ma in che modo le nostre professioni mancano la sostenibilità urbana.
Problemi vecchi di un secolo
I problemi della città postindustriale sono compresi e affrontati da circa 175 anni. In realtà i problemi della città industriale Britannica vittoriana dopo la rivoluzione industriale erano i medesimi delle città nei paesi in via di sviluppo oggi.
Negli anni ’30 del XIX secolo, le autorità britanniche sapevano che abitare addensati negli slum accorciava la vita delle persone. Nel 1842, fu provato il legame fra l’ambiente di vita di un individuo e la sua salute. Al tempo stesso, le statistiche delle città industriali mostravano come i fattori della salute e della mortalità, evitabili, erano fra quelli che riducevano il potenziale economico della nazione, e uccidevano ogni anno più persone di qualunque guerra combattuta. L’aspettativa di vita era di 13 anni inferiore a quanto avrebbe potuto essere.
I vittoriani sapevano che l’ambiente materiale delle città era il prodotto della loro società, e le nuove città vittoriane producevano diverse dinamiche sociali e politiche. Centri legati economicamente ad altri tipi di insediamento, a formare un sistema socioeconomico interno e internazionale. In questo modo la città in Gran Bretagna fu al tempo stesso la causa e – attraverso le politiche – la parziale soluzione dei problemi delle classi lavoratrici.
La coscienza civile emergente del XIX secolo poneva in grande risalto il miglioramento sanitario e delle condizioni generali di vita. Raggiunse il suo apogeo prima del 1914 nel paradigma della Città Giardino, concetto sociale e ambientale simile al pensiero moderno sulla sostenibilità.
Riforme urbane
Il persistere e aumentare dei problemi urbani negli ultimi decenni, necessita una riconsiderazione delle modalità intellettuali di affrontare la città, riguardo ai bisogni, scopi, ambizioni. Dovremmo vederla nel quadro dell’offerta di un’adeguata assistenza, nel mondo attuale che si evolve, sia all’interno che all’esterno degli ambiti tecnocratici.
Si dovrebbero elaborare strategie di costruzione di motivazioni politiche, per una risposta più adeguata alle condizioni e risorse locali, usate come espressioni della modernità. Ciò contribuirà a influire in modo più positivo sulle esistenze quotidiane di chi è più povero di risorse urbane, salute, servizi.
In modo complementare, operando al di fuori del dominio tecnocratico, gli architetti e gli urbanisti, la cui professione è immersa nei processi culturali e politici, possono trovarsi in una posizione più favorevole per convincere le elites urbane del fatto che il mondo non sta combattendo soltanto contro il terrorismo, o per la sicurezza nazionale, ma esiste anche un conflitto con lo svantaggio, come dimostra il caso di Tondo.
Alla luce di tutto questo, i progettisti possono essere in grado di individuare meglio la città nei suoi termini sociali, dimostrando come la società urbana non sia soltanto una forma spaziale, ma un sistema in evoluzione di valori, norme, relazioni sociali.
É importante anche che i progettisti attraverso la propria attività, e riflettendo su come risolvono i problemi urbani, si rendano alla fine in grado di modificare valori sociali e punti di riferimento in modo accettabile per i governi. Valori modificati che possono manifestarsi sotto forma di leggi connesse allo sviluppo urbano e alle questioni associate.
Inoltre, ridefinendo regole e processi che ristrutturano spazi urbani e senso sociale, la comunità dei progettisti sarà in grado di condizionare di più possibilità e limiti dello sviluppo, sia alla dimensione locale che globale.
Forse in questo modo, lo sviluppo sostenibili potrà contribuire ad innalzare la qualità di vita a tutti I livelli, in particolare per quegli abitanti urbani lasciati indietro dai progressi economici e urbani, in zone metropolitane come quella di Tondo.
Ian Morley lavora con un contratto di post-dottorato al Dipartimento di Storia dell’Università Cinese di Hong Kong; è autore di numerosi testi sull’urbanizzazione e la progettazione urbana.
Un bravo a Richard Burdett che intende dedicare una parte della Biennale alle grandi città che punteggiano il nostro mondo. Una scelta che finalmente dilata l’orizzonte di questa manifestazione, fatto ancor più importante in un periodo in cui invece gli orizzonti della cultura vanno preoccupantemente restringendosi, all’università per esempio.
Un bravo perché la scelta non avrebbe potuto essere più tempestiva, visto che proprio quest’anno per la prima volta la popolazione del pianeta è diventata in maggioranza urbana. Un passaggio che alcuni definiscono epocale e che è avvenuto prima di tutto per la spinta all’urbanizzazione dei paesi del Sud del mondo. Infatti, tra le grandi città molte, moltissime, sono nei paesi in sviluppo di cui quelle presentate alla Biennale - Bogotá, Caracas, Città del Messico e San Paolo in America Latina, Johannesburg e il Cairo, Mumbai e Istanbul - costituiscono solo un - buon - campione.
Infine un bravo perché è una scelta coraggiosa. Si tratta in realtà di un tema non semplice da mettere in mostra, che è quello che la Biennale è tenuta a fare essendo appunto una rassegna di architettura. Una scelta difficile di per sé, dato che nel Sud del mondo, anche nelle grandi città, di interventi da mostrare non ce ne sono poi tanti: certo a Città del Messico o a Johannesburg si costruisce, ma in generale secondo uno stile internazionale che si ritrova un po’ dappertutto e su cui non vale particolarmente la pena soffermarsi. Ma è poi ancor più difficile dato che - di nuovo molto giustamente - Burdett vuole raccontare non solo il costruito delle città selezionate, ma le loro condizioni di vita, riconducendo "la struttura fisica delle città - gli edifici, gli spazi e le strade - e i progettisti - architetti, urbanisti e designer - alle dimensioni culturali ed economiche dell'esistenza urbana, sociale, culturale". Insomma, una Biennale che va al di là delle forme dell’architettura, per interrogarsi e interrogare sulle relazioni tra i processi della trasformazione sociale e quelli della trasformazione dello spazio, tra i caratteri dell’urbanistica e dell’architettura e le forme della società che le ospitano.
Detto questo, qualche perplessità l’impostazione di questa Biennale me la suscita. Non poche e non piccole.
Partiamo dagli elementi concettuali su cui si muove Burdett per costruire la mostra, come si possono desumere da Urban Age, il programma sul futuro delle città da lui diretto alla London School of Economics. I temi sono quelli dell’occupazione e dei luoghi del lavoro, della mobilità e i trasporti, della sfera pubblica e degli spazi urbani, della casa e dello spazio collettivo al fine di indagare le relazioni tra trasformazioni materiali della città e processi economici, sociali e politici che ne stanno alla base. Temi tutti, come è evidente, centrali per il futuro della città: investimenti e dunque opportunità di lavoro, identità sociale e architetture prive di specificità, neutrali, globalizzate, o ancora la questione di come il sistema dei trasporti e le forme della mobilità incidono sui modi di vivere la città, quella della segmentazione residenziale e della frammentazione dello spazio urbano.
Il dubbio profondo è che abbia senso prospettare l’idea che questi temi abbiano la stessa importanza a Londra e a Lagos, che se queste sono priorità a New York lo siano anche a Johannesburg, che ciò che sta avvenendo a Shanghai abbia qualcosa a che vedere con le trasformazioni di Città del Messico, o a Berlino. Siamo sicuri che le questioni centrali per l’equità e l’efficienza delle città del Sud del mondo si possano mettere in mostra come si mostrano Canary Wharf, il progetto per Ground Zero o anche quello della ristrutturazione della Fiera a Milano?
Se proviamo a mettere ordine in alcune delle priorità che a me sembra Caracas, il Cairo o Mumbai abbiano di fronte, allora il dubbio diventa inquietudine, forse anche irritazione, perché la Biennale rischia di sviare l’attenzione dai nodi veri e quindi di aggiungere guasti a quelli che urbanisti e architetti hanno prodotto e continuano a produrre in queste città.
Due questioni, tra le molte, moltissime altre.
Mumbai (come Lagos o Dacca o tante altre) cresce ogni anno di circa mezzo milione di abitanti, il che significa, per dare un’idea, di una Bologna più una Ferrara; Bogotá e Joannesburg solo di una Ferrara. Una Bologna e una Ferrara fatta quasi tutta di poveri, di gente che in larga parte non sa come arrivare a domani. Ogni anno, tutti gli anni da molti anni a questa parte e per molti anni a venire. Burdett questo lo sa benissimo e anche ce lo ricorda. Quello che però omette di segnalare è che per far fronte a questa crescita, nella maggior parte dei casi a disposizione dei governi c’è qualche euro l’anno per persona che, tolto quello che serve a far funzionare la città che c’è già, lascia pochi spiccioli per fare gli investimenti che sarebbero necessari. Dove va bene, come a Città del Messico o a San Paolo, l’ordine è di qualche euro. Certo, è impressionante il cambiamento avvenuto a Bogotá grazie a Transmilenio, il sistema di trasporto collettivo che, insieme a una serie di altri interventi sullo spazio pubblico, ha migliorato significativamente la qualità urbana nella capitale colombiana. Bravissimi i quattro sindaci che si sono susseguiti nel tempo e che per ormai quindici anni hanno tenuto fermo questo obiettivo. Però sono poche le città che come Bogotá, insieme a questa continuità politica, possono contare su una Compagnia dell’Elettricità da mettere in vendita per finanziare la quantità di investimenti pubblici che sono stati realizzati in questi anni.
A differenza di Burdett, io non penso affatto che "per architetti, urbanisti o i sindaci il problema sia quello di come pianificare le infrastrutture e lo sviluppo senza ostacolare la crescita e promuovendo allo stesso tempo i benefici economici e sociali della prossimità e della complessità in sistemi urbani compatti". Il problema, no, non il problema, il fatto è che le grandi città (ma non solo) del Sud del mondo crescono, come popolazione, attività, estensione, a velocità altre da quelle che hanno conosciuto Londra, New York o Milano quando ancora crescevano, con capacità istituzionali e tecniche spesso modeste. Per questo obiettivi e risultati non possono che essere altri da quelli che si propongono a Londra, New York o Milano.
Seconda considerazione. Le città del Sud del mondo, in misura diversa ma comunque sempre rilevante, vengono fatte – intendo materialmente – dagli abitanti. I numeri sono approssimati e approssimativi, ma si calcola che il numero di persone che oggi ha come sola alternativa un alloggio in uno slum è di un miliardo, un terzo della popolazione urbana del pianeta e che, ovviamente, quasi tutto questo miliardo sta in città dei paesi in sviluppo. Da qui al 2020, se tutto va bene, saranno diventate un miliardo e mezzo, altrimenti ben di più. Tutta gente che lavora e sempre più lavorerà facendo i mestieri improbabili, mal pagati e precari dell’informale, dove sempre più persone sono sospinte dalla globalizzazione e dalla competizione tra città.
In questo scenario davvero non capisco come si possa sostenere che a Città del Messico "gli alloggi dei quartieri poveri sono sovraffollati o mancano di aria e di luce perché non si seguono adeguati principi di progettazione", e non perché la gente non ha abbastanza soldi per permettersi alternative migliori. Come se gli abitanti di Città del Messico fossero incapaci o tonti, o entrambe le cose.
Davvero non capisco come si possa pensare che l’architettura abbia un ruolo significativo rispetto alle questioni cruciali che le città del Sud hanno di fronte, come una maggiore equità sociale e un più efficiente funzionamento, per riuscire in qualche modo a competere.
Sulla questione dell’inclusione sociale il Brasile di Lula ha seguito una politica chiara. L’inclusione sociale, il diritto alla città si garantiscono da un lato fornendo condizioni di vita decenti, cioè prima di tutto servizi igienici e acqua potabile, se necessario sovvenzionandoli per garantirli anche a chi non può "comprarli", a costo di scontrarsi con la Banca Mondiale e con le sue politiche liberiste; dall’altro promuovendo una effettiva partecipazione alle scelte. Il bilancio partecipativo o le due Conferências Nacionales das Cidades, con la partecipazione di istituzioni, associazioni, movimenti, non sono facili da mostrare, ma sono stati il motore della politica urbana nel Brasile di Lula.
Burdett ha probabilmente ragione quando afferma che con l’incremento dei valori fondiari e immobiliari che hanno prodotto a Londra, New York o Berlino, i grandi progetti sono andati a beneficio di tutta la città e non solo dei privati che li hanno promossi e realizzati. Anche se per gli abitanti di Bilbao il Guggenheim significa più tasse da pagare per un bel numero di anni e se, per poter dire che l’operazione ha davvero funzionato, occorrerebbe valutare quali altre alternative di allocazione delle risorse erano possibili. Ma quando si parla di città del Sud del mondo, la cautela deve essere molto ma molto maggiore. Meccanismi di distribuzione della rendita a Mumbai, Johannesburg o Città del Messico o non ci sono, o se ci sono nella maggior parte dei casi sono fortemente distorti, cioè non vanno affatto a beneficio della popolazione povera e delle parti di città dove questa vive.
C’è da chiedersi dunque quale "servizio" la Biennale in realtà fa alle grandi città del Sud del mondo attraverso il messaggio che manda, come si usa dire, al grande pubblico. Io credo quanto meno discutibile. Nelle città del Sud del mondo i grandi progetti architettonici e urbani, dove esistono, riguardano esclusivamente le élites urbane, quelle della globalizzazione. Operazioni come Lima Faria a San Paolo, Sandton a Johannesburg o Lomas de Santa Fé a Città del Messico non hanno fatto altro che frammentare ulteriormente lo spazio urbano, approfondendo la polarizzazione e l’esclusione sociale. La grandissima maggioranza degli abitanti di queste città continua a lottare per avere riconosciuto il proprio diritto a restare dove da anni si è costruita una casa per quanto precaria (la regolarizzazione fondiaria), per avere l’acqua potabile almeno qualche ora al giorno possibilmente a prezzi accessibili, per disporre di una latrina per famiglia, per un lavoro meno precario.
Per questo trovo quanto meno preoccupante l’idea di un "manifesto per le città del ventunesimo secolo", che suggerisce possibili scenari comuni tra le città del Sud e del Nord. Un’idea profondamente errata perchè oscura le differenze e delinea percorsi similari, (ri)prospettando per il progetto di architettura e per il disegno urbano un ruolo che la realtà delle cose, nelle città del Sud, da tempo ha mostrato non essere proponibile.
Titolo originale: Ten Noteworthy Trends of 2006– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
● Per la prima volta nel 2005 si sono rilevati più abitanti poveri nel suburbio che nelle aree urbane centrali.
● Il 6% della popolazione delle grandi aree metropolitane USA vive negli “esurbi”.
● Oltre un terzo della perdita di posti di lavoro nel settore industriale fra il 2000 e il 2005 si è verificata in sette stai della regione dei Grandi Laghi: Illinois, Indiana, Michigan, New York, Ohio, Pennsylvania, e Wisconsin.
● I sobborghi di prima fascia di più antica formazione contengono il 20% della popolazione nazionale, e sono più diversificati e con età media più avanzata del resto del paese.
● Il nucleo familiare USA medio spende il 19% del suo bilancio in trasporti, facendo così della posizione della casa un elemento fondamentale dei suoi costi.
● A livello nazionale, oltre 4,2 milioni di proprietari di casa a basso reddito pagano un interesse annuo superiore alla media per il mutuo.
● Le principali aree metropolitane destinazione di profughi e rifugiati sono cambiate, spostandosi dai tradizionali terminali di immigrazione come New York o Los Angeles, nel corso dei due scorsi decenni, a nuovi portali come Atlanta, Seattle, e Portland.
● Le aree metropolitane in più rapida crescita per quanto riguarda la popolazione delle minoranze dal 2000 al 2004, ora si stanno affiancando alle aree in più rapida crescita assoluta del paese.
● I quartieri a reddito medio, dal punto di vista della loro proporzione rispetto a tutte le zone metropolitane, sono diminuiti dal 58% del 1970 al 41% del 2000, scomparendo a velocità superiore a quella delle singole famiglie di ceto medio nelle stesse aree metropolitane.
● Sui 109 miliardi di fondi federali destinati a finanziare la Costa del Golfo nel primo anno dopo l’uragano Katrina, soltanto 35 miliardi circa, sono andati alla ripresa sul lungo periodo della regione.
Nota: alcuni dei temi citati sopra (le fasce interne, la povertà suburbana e l'immigrazione) sono stati ad esempio oggetto di una ricerca pubblicata dalla Brookings diversi mesi fa, e oggetto tra l'altro di una comunicazione - riportata su Mall - di Hillary Rodham Clinton ; un altro dei temi nuovi è la crescita dell'Esurbio, o suburbio esterno, morfologicamente semirurale ma a base economica pendolaristica di lunghissima percorrenza (f.b.)
Investita in pieno dalla «new wave» moralizzatrice generata dallo scontro al vertice del Partito a Pechino, la «Perla d'Oriente» resiste all'urto e rilancia con la spaventosa forza della sua economia. Progetti (e realizzazioni) sempre più faraonici, questa volta accompagnate persino da qualche correttivo di giustizia sociale
Non è finita. Shanghai lo sa e aspetta i colpi che la Commissione d'inchiesta sulla corruzione inviata da Pechino infliggerà ad altre teste autorevoli della politica e degli affari, dopo che a settembre è clamorosamente caduta quella del grande protettore, il segretario del Partito di Shanghai, Chen Liangyu. Chi ha la coscienza pulita scherza. «E' andato a prendere un caffè», si dice ridendo di chi sparisce perché è stato convocato da uno dei 100 ispettori installati da agosto a villa Moller, casa neogotica nel cuore della città vecchia che nel 1936 un amorevole padre svedese fece costruire per la figlia malata sulla base di una visione architettonica avuta dalla fanciulla in sogno. Nello stravagante edificio pseudo-Escher, da mesi si aggirano incubi più che sogni e chi è convocato parla a lingua sciolta. Mentre vengono allo scoperto e dilagano le chiacchiere sulle numerose amanti e il «decadente stile di vita» degli incriminati, ben conosciuti ai tempi d'oro ma oggi parte integrante della gogna sociale.
Le «confessioni» producono nuovi arresti, ognuno dei quali rende tardiva giustizia a qualcuno. L'ultimo provvedimento eccellente ha colpito il 6 dicembre scorso lo speculatore edilizio Zhou Zhengyi, accendendo le speranze degli abitanti del distretto di Jingan che già tre anni fa avevano accusato l'imprenditore, vicino alla cerchia del segretario del partito, di aver distribuito mazzette agli amministratori per avere in concessione, a prezzi di favore, i terreni dove si trovavano le abitazioni che i residenti erano stati costretti ad abbandonare in cambio di risarcimenti miserabili. Allora, in una tortuosa giravolta che doveva nascondere il marcio, l'imprenditore, già uno degli 11 uomini più ricchi di Cina, era finito dentro per manipolazione di titoli e falso in bilancio. Gli abitanti però non avevano avuto giustizia e il loro avvocato, Zheng Enchong, era persino finito agli arresti domiciliari.
Oggi si spera in qualcosa di più. L'aria è cambiata, questo è certo. Ma a Shanghai, e non solo, tutti sono sicuri che gli eventi in corso sono soltanto una resa di conti fra la fazione di Jiang Zemin e la nuova generazione guidata da Hu Jintao. Sulla volontà della leadership centrale di fare davvero piazza pulita della corruzione, parte integrante del sistema di scambio potere-denaro alla base del miracolo cinese, nessuno scommette, nonostante molti processi sulla gestione dei fondi pensione, cuore dello scandalo di Shanghai, siano in corso a livello nazionale. La rivelazione, il mese scorso, che 7,1 miliardi di yuan (700 milioni di euro) sono spariti in investimenti all'estero, speculazioni immobiliari , prestiti non autorizzati, e una buona parte non tornerà mai più nelle tasche dei lavoratori, ha in qualche modo messo in prospettiva il terremoto di Shanghai, «normalizzandolo», in una sorta di new wave moralizzatrice. Ma la memoria storica, e una pessimistica analisi dell'esistente, fanno da zavorra al decollo dell'ottimismo.
Tutti sotto inchiesta?
«Se il problema fosse davvero affrontato alla radice, dovrebbero mettere sotto inchiesta il 70-80% dei funzionari del Partito», osserva da Pechino l'avvocato Mo Shaoping. Difensore di leader operai, cyberdissidenti e giornalisti scomodi, l'avvocato è naturalmente poco portato all'indulgenza nei confronti di un potere repressivo che troppo spesso lo sconfigge con i suoi metodi brutali. Ma la sua analisi è vita vissuta nei labirinti di un sistema giudiziario ipotecato dal controllo immanente del Pc. In questa situazione di corruzione pervadente, gli arresti, secondo l'avvocato, «indicano un criterio di scelta preciso: l'attuale governo si vuole sbarazzare della generazione passata». Infatti, sottolinea, «sono anni che Chen Liangyu fa le stesse cose per le quali ora è stato incriminato ed è stato anche messo sotto accusa più di una volta»; ma «finché c'era Jiang Zemin a proteggerlo poteva continuare ad agire indisturbato. Nel momento in cui è entrato in carica Hu Jintao, che protegge altri, poiché Chen non fa parte della sua fazione non riceve lo stesso appoggio né la stessa benevolenza. Così è stato fatto esplodere il caso di Shanghai. Questo fa capire la parzialità e profonda ingiustizia del sistema».
L'avvocato Mo non si fa convincere neppure dalla portata delle indagini, che si sono allargate anche a Pechino, a Tianjin e in altre province, e hanno portato ad altri arresti. «In un modo o nell'altro», conclude, «gli indagati appartengono sempre, guarda caso, a una stessa generazione o corrente politica». E' anche alla luce di questi giudizi che appare ambivalente il provvedimento più recente di Pechino: rimuovere tutti i capi locali delle Commissioni per le ispezioni disciplinari - i castigamatti della corruzione - per nominare uomini scelti dal governo centrale,
Qualunque cosa sia in corso, un Armageddon o una miserabile lotta di fazioni, Shanghai l'insonne non dà mostra di esserne colpita a morte. Un piccolo incidente di percorso, uno sgambetto neanche troppo imprevisto sulla passerella splendente dove la rinata Perla d'Oriente marcia verso un visionario e radioso futuro. I cantieri a cielo aperto non smettono neppure per un minuto di spianare, rivoltare, costruire. E quel che si materializza sembra destinato anzitutto a stupire, in un parossismo di ovali, trapezi, torsioni barocche. Una sfida alla gravità dove si mescolano con audacia architettonica prossima all'arroganza le antiche forme cinesi e le concezioni più moderne. I più grandi architetti del mondo (ma purtroppo anche i mediocri) sembrano aver avuto carta bianca sul corpo di questa metropoli, e l'hanno riempito fino all'estremo come in preda all'horror vacui. Una frenesia da Prometeo paranoico che induce un senso di incertezza negli abitanti che, quando va bene, assistono allo stravolgimento del panorama circostante: ma assai più spesso subiscono lo sconvolgimento delle proprie vite deportate a chilometri di distanza, ai margini della foresta di pietra dove oggi sono conficcati oltre 500 grattacieli che superano i 100 metri di altezza.
La prossima tappa dichiarata è l'Expo 2010, che sta cambiando i connotati di un'area di oltre cinque km2, sulle due rive dello Huangpu a sud del vecchio Bund. Investimento minimo previsto, 10 miliardi di dollari: ma si sa che al conto finale si aggiungerà, per infrastrutture collegate, un ammontare ancora incerto ma collocabile fra i 15 e i 30 miliardi di dollari. Il futuro però ha in serbo anche altro.
Sembra incredibile che dietro una simile frenesia ci siano anche uomini pacati e sorridenti come il professor Zheng Shiling, uno dei principali architetti cinesi, influente teorico della scienza urbanistica riconosciuto a livello mondiale. Oltre che dell'Accademia delle scienze cinesi, è anche membro dell'Académie d'Architecture de France nonché Honorary Fellow all' American Institute of Architects. Essendo anche «General Schemer» dell'Expo 2010 e occupando una posizione preminente nella Shanghai Urban Planning Commission e nel Comitato per la conservazione delle aree storiche, tutta la città passata, presente e futura sta nella sua testa. La racconta in un bell'italiano, appreso nei tre anni, dall'86 all'89, che ha trascorso come visiting scholar alla facoltà di Architettura dell'università di Firenze. Sui tovaglioli di uno Starbuck café schizza alcuni progetti, come quello, avveniristico, dell'Isola Verde di Chongming, alla foce dello Yangtze. La terza isola cinese, (1225 km quadrati), è destinata a diventare, entro il 2020, un piccolo paradiso terrestre dove gli uomini vivranno e produrranno in perfetta armonia con se stessi e la natura.
Ma c'è un qualche rapporto fra simili progetti e la realtà, inquinata e rumorosa, vissuta quotidianamente dai quasi 10 milioni di abitanti dell'area centrale metropolitana, al di là delle dichiarazioni martellanti sulla «Better City, Better Life» (slogan dell'Expo 2010)? Sì e no, par di capire dal professor Zheng. E' tutta questione di recuperare il tempo perduto. Il passato è stato selvaggio, dal punto di vista architettonico e sociale. Nella sua prima fase di sviluppo, all'inizio degli anni '90, la città è stata territorio di scorrerie per molti speculatori armati di buone protezioni. Il segretario del Pc licenziato probabilmente collaborava troppo con i capitalisti, per il reciproco profitto ma anche per guadagnare potere e prestigio. Molte fortune si sono costruite in poco tempo e oggi si è capito perché.
Il professor Zheng descrive un primo atto dello sviluppo di Shanghai in cui, per anni, il governo non ha prestato troppa attenzione alla vita della gente. Oltre due milioni di persone hanno dovuto lasciare il centro storico della città per essere ricollocate in una periferia disagiata. Ancora due anni fa il governo ha costruito 20 milioni di m2 di case popolari per ospitare altre 800mila famiglie: il progetto è stato da lui criticato non perché fosse contrario allo spostamento (le vecchie case del centro erano sovraffollate e malsane) ma perché nell'area di ricollocamento non c'erano scuole né ospedali e i trasporti pubblici erano pressoché inesistenti. Ci sono state forti opposizioni da parte di alcuni residenti, ma resistere agli sfratti è difficile perché il suolo è pubblico e il governo può riprenderselo quando vuole, in nome dell'interesse generale che dichiaratamente è quello di rivalutare le aree. Il marcio nasce dai meccanismi di passaggio poco trasparenti. Gli eccessi hanno portato oggi a provvedimenti di riequilibrio. Gli indennizzi per gli sfratti sono aumentati notevolmente e il governo centrale ha imposto un controllo più stretto sulla concessione del suolo pubblico.
Ragione e delirio
Che la ragione stia prendendo il sopravvento sul delirio si percepisce anche da altri segni. Dal 2002 una legge stabilisce la preservazione di 12 quartieri di interesse storico nel centro della città, 27 km 2 che sono diventati quasi intoccabili e chi vuole abitarci potrà intervenire solo sulla base di permessi speciali. Anche in periferia e nelle ormai lontane campagne, sono state identificate 32 aree storiche da salvaguardare. Più in generale, spiega Zheng Shiling, si cercherà di rendere le periferie più vivibili. In questo i trasporti sono essenziali. Oggi Shanghai ha 123 km di rete metropolitana. Per l'Expo dovrà arrivare a 400 km, entro il 2020 a 700. Un progetto gigantesco ma, dice il professore, il governo ha la forza per farlo. Quanto a lui, ha particolarmente a cuore la vita «creativa», artistica e culturale, di Shanghai e sta elaborando appositi progetti.
La Grande Trasformazione avviata negli anni '90 con la decisione di estendere la città oltre la riva orientale dello Huangpu e creare la zona speciale di Pudong non è finita, dunque. Ai quasi 500 milioni di m2 costruiti a partire dal 1985, si aggiungono ogni anno 30 milioni di m2. Vale a dire che ogni due anni viene ad aggiungersi una estensione urbana delle dimensioni che aveva Shanghai nel 1949. Davvero difficile resistere alle tentazioni, in un mercato così bollente. Il recente scandalo, par di capire, ha solo rallentato la corsa, che comunque era già stata in qualche modo frenata dal mercato che lascia invenduti ettari di costruzioni.
L'area di Pudong vedrà progetti ancor più grandiosi. La sagoma del World Financial Center, il grattacielo del developer giapponese Minoru Mori, destinato coi suoi 492 metri a essere il più alto della città, si alza giorno dopo giorno e presto la sua forma ad apribottiglia, con una grande fessura in cima (faticoso approdo di una serie di polemiche che hanno abbattuto il progetto originario di porre in cima un cerchio che troppo ricordava il Sol levante), dominerà il lungo fiume insieme alla Oriental Pearl Tower, che col suo splendore metallico e rosa shocking detiene il titolo di torre della televisione più alta (e più kitsch) dell'Asia. Sono intanto in piena edificazione tre nuove città satellite, Jiading, Songjiang, New Harbour, che ospiteranno tra 500mila e un milione di abitanti ciascuna e serviranno a razionalizzare il disegno urbanistico della metropoli.
Per una visione d'insieme del futuro di Shanghai bisogna salire al quarto piano dell'Urban Planning Exhibition center, nella piazza del Popolo, dove la città racconta se stessa. Lo stordimento è assicurato dall'immenso plastico dove ogni progetto è immortalato fino all'ultimo ponte, mentre per la vertigine bisogna accomodarsi nella saletta dove il filmato proiettato su uno schermo a 360 gradi vi sospingerà verso il 2010 a tutta velocità. Shanghai vuole essere tutto: un centro finanziario di dimensioni mondiali, la città più verde (15 m2 di vegetazione a testa nel 2010), la più pulita, biologica e sana del mondo, il paradiso del terziario e dell'alta tecnologia, il luogo dove le industrie più inquinanti del mondo (a cominciare dalla chimica e dalla siderurgia) diventeranno amiche dell'ambiente.
L'ebbrezza però dura il tempo di scendere le scale e uscire dal grande mausoleo che la città ha dedicato a se stessa. L'aria gelida e sferzante di pioggia è impregnata di fumi acri, la cima dei grattacieli scompare sistematicamente nello smog che la avvolge, a leggere i giornali locali (Shanghai Daily) solo l'1 per cento dell'acqua della città è potabile. Sotto le tettoie del Kentucky Fried Chicken affacciato sulla piazza del Popolo staziona in permanenza, giorno e notte, un gruppetto di homeless. Seduti su sdruciti divani che hanno visto tempi migliori, fissano la folla che passa, senza vederla. Coppie di ciechi si sostengono a vicenda mentre fanno accattonaggio. Madri con figli minuscoli attendono a tarda notte gli avventori di ristoranti e locali notturni per avere un po' di elemosina. Viene in mente l'ombra di Lu Xun, che la notte inghiotte e il giorno cancella, mentre vaga senza sapere se è il crepuscolo o l'alba, e dice «C'è qualcosa che non mi piace, nella vostra età dell'oro. Preferisco non andarci».
Nota: oltre a fare riferimento agli altri numerosi articoli sulle grandi metropoli cinesi del terzo millennio, sia su Eddyburg che su Mall (il motore di ricerca interno è uno strumento molto efficace, provando con varie parole chiave), propongo qui anche il recente articolo di Howard French sul New York Times, che racconta il caso della metropoli nata dal nulla, Shenzhen da cui è possibile anche visionare i filmati "A Chinese City Boom" (f.b.)
“ Arrivare in aereo in questa metropoli del deserto è ingannevole come un miraggio. Da 3.000 metri si vedono spazi vuoti in tutte le direzioni e si potrebbe giurare che lo sprawl suburbano possa proseguire tranquillamente senza alcun controllo. Si potrebbe giurare che non ci sono confini in vista alle lottizzazioni che si estendono per chilometri”. Inizia così, un articolo di John Ritter sulla regione di Las Vegas pubblicato lunedì scorso da USA Today, e prosegue raccontando come, una volta al suolo, chiunque inizi a rendersi conto (i costruttori di case e strade per primi) di come lo spazio sia letteralmente finito. La conclusione, molto pragmatica, è che bisogna cominciare, piaccia o meno ai pasdaran della villettopoli coi centri commerciali e affini, a diventare più città, stare un po’ più stretti e condividere gli spazi verdi, in definitiva a guadagnarci tutti in quanto a socialità, zone pedonali, varietà di ambienti. Il modello, come osservano urbanisti e investitori, è quello della città europea: compatta, a misura d’uomo, cresciuta quando ancora l’abuso di spostamenti automobilistici e grandi zone di “segregazione funzionale” non aveva iniziato a produrre quel blob indistinto.
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E noi qui in Europa, evidentemente ben consapevoli di tanta ricchezza, la ostentiamo in modo fresco, giovane, creativo: buttandola dalla finestra.
Ad esempio nell’enorme regione urbana dell’Italia settentrionale, cresciuta per quasi duemila anni secondo le grandi campiture disegnate dalla geografia: le linee degli sbocchi di valle alpini e appenninici, il serpentone del grande fiume, e di qua e di là i puntini degli insediamenti umani e le linee dei percorsi che li collegano. Con l’epoca industriale, della macchina, del vapore e dell’elettricità, i puntini si sono gonfiati e moltiplicati, le linee di connessione allargate e staccate dalle determinanti geografiche. Alle vie, e ferrovie, si sono sovrapposti e sovrimposti i “corridoi”, ahinoi!
Ahinoi, perché questi corridoi in sé sarebbero un bel concetto utile e moderno, se non venisse manipolato dai soliti sofisti a senso unico. L’idea di corridoio nasce a definire un’idea di mobilità elastica e complessa, di processo anziché di progetto. La sua interpretazione distorta diventa invece una fascia allargata tanti quanti sono gli appetiti da soddisfare, e una somma di opere varie sparpagliate dentro a questa fascia. Si evocano così i miti dei grandi spazi e delle nuove frontiere anche dove di spazi ce ne sono rimasti assai pochi, e semplicemente per saturarli di oggetti vari, di dubbia utilità e logica collocazione.
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È il caso, tra l’altro, della sedicente “città ideale” di VeMa, che come suggerisce il nome starebbe a cavallo fra le due province di Verona e Mantova. Presentata con un discreto clamore mediatico alla Biennale Architettura di quest’anno, è stata giudicata dalla stampa soprattutto per il suoi caratteri formali e storici. Anche le critiche meno passive, come quella di Maurizio Giufrè sul Manifesto, ne hanno indicato soprattutto una natura di “ anacronistico e sterile esercizio accademico”. Magari!
Esercizio accademico forse. Sterile proprio per niente, visto che su quel rettangolone dalle accattivanti forme architettoniche moderne si sono giù puntati gli interessati sguardi di banche e investitori. Ed era naturale, perché questa sedicente città ideale cala sul territorio come una vera e propria ciliegina sulla torta: la torta della “valorizzazione” a colpi di opere infrastrutturali, manco a dirlo nel contesto di almeno un paio di “corridoi”: l’ormai leggendario Lisbona-Kiev, e quello - minore ma mica tanto – che passa per il Brennero.
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E qui, nelle pianure a cavallo fra le due province, a est del Mincio, si intreccia una vicenda parallela a quella di altri nodi padani, più o meno noti e discussi. Ci sono le linee ad alta capacità (visto che la velocità ce la siamo persa per strada) ferroviaria, ci sono le grandi autostrade parallele e trasversali, e tutti i vari incroci attrezzati, stazioni, interscambi, annessi e connessi.
Del resto, come dicevo all’inizio, questo potenziale triangolo d’oro per i venditori di asfalto e precompressi non è più una steppa selvaggia almeno da duemila anni. Passava e ancora a lunghi tratti passa, l’antica Postumia romana, che sale dalle basse cremonesi, attraverso la piana di Goito, e attraverso Villafranca su fino a Verona, dove a Porta Borsari si ricongiunge alla linea pedemontana padana superiore. Non è più lastricata, naturalmente, né percorsa dai pesanti sandali delle legioni. Asfaltata, abbastanza allargata e percorsa dalle auto, salta ancora però agli occhi su qualunque cartina stradale per come taglia dritta dritta a 45° le piane di Gazoldo Ippoliti, fra Piadena e Goito. Lì a Gazoldo passa proprio davanti ai capannoni di una delle principali imprese del mantovano, e oltre: la Marcegaglia. Esattamente nel punto dove si prevede uno svincolo del futuro Ti-Bre (Tirreno-Brennero), tracciato autostradale verniciato in questo tratto su quello bimillenario della Postumia (coerenza tecnica), e che a est di Goito si curva verso Nogarole Rocca, a congiungersi con l’A22. Nel posto che hanno chiamato VeMa.
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Ma se guardate le suggestive immagini Google Earth di VeMa, non troverete traccia di tutto questo. Già: la città ideale discendente di Sabbioneta, Pienza, magari delle città di fondazione del ventennio nelle paludi redente, deve per statuto stare sospesa nell’aria, senza tempo e senza spazio.
Peccato che lo spazio lì attorno, immerso nel suo tempo, esista eccome. Naturalmente trattasi di territorio reale, non appeso alle grandi categorie dello spirito: campi, villette, nuclei storici, capannoni, macchie di bosco, fossi, strade, eccetera. Per darci un’occhiata un buon percorso è quello trasversale che comincia proprio a Goito, dove gli infiniti rettilinei della vecchia Postumia si interrompono sulla riva del Mincio, e dove superato il ponte della statale Brescia-Mantova (quella che scende dal futuro HUB/TAV di Montichiari) si entra nel territorio a est del fiume. C’è un’aria di campagna, e insieme di variante della città diffusa veneta, da queste parti, lungo la strada che taglia la pianura verso l’abitato di Roverbella e i confini provinciali. Poco più a nord, dopo la confluenza nel tracciato della Mantova-Villafranca-Verona e l’abitato di Mozzecane, un’altra trasversale attraversa dei bei campi coltivati a scatoloni precompressi, inoltrandosi a est fino all’abitato di Pradelle e al ponte sulla A22. È dall’alto del ponte, guardando verso sud che appoggiando la mano sulla spalla di un ipotetico architetto potremmo pronunciare il fatale “tutto questo un giorno sarà tuo”.
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Suo per modo di dire. Dato che fra strade, svincoli, autostrade, stazioni di interscambio e via di questo passo, la città ideale sarà disegnata secondo linee che vengono da ben altro tavolo di progettazione. Quel genere di espansione suburbana che gli storici dello sprawl ci raccontano da decenni, definito dalle decisioni della road-gang e in cui gli architetti si inseriscono firmando il trattamento a verde di un parco per uffici, o le ardite forme del nuovo factory outlet a cavallo delle otto corsie …
Pensare, che da anni i convegni più o meno affollati di accademici e pubblico risuonano della fiera intenzione di “riqualificare la città diffusa”. A prima vista, si direbbe che la riqualificazione consista nel riempire i pochi spazi rimasti disponibili, e lasciando quelli “diffusi” tali e quali al loro destino. Ci sarebbero centinaia di occasioni anche grosse di lavoro progettuale, da queste parti, ma ahimè bisognerebbe sporcarsi le mani con la città vera, con le distanze, le densità, i condizionamenti. Insomma bisognerebbe lavorare.
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Meglio, molto meglio, atterrare con la propria astronave concettuale Enterprise nel virtuale spazioporto disegnato dai corridoi intermodali, in quei terreni pronti a schizzare alle stelle in qualche piazza finanziaria, magari meno ben disegnata di quelle di VeMa, ma molto più vicina ai cuori degli investitori. Magari guardando giù dall’ Enterprise verso il mondo vero dei campi e dei capannoni, si può anche borbottare, coerentemente perplessi come il signor Spock: illogical!
E quando anche a est del Rio Mincio i gringos non troveranno più i prati con le vacche al pascolo, e da Mantova a Verona ci saranno soltanto metri cubi – griffatissimi, per carità - sparsi a profusione, potremo gemellarci con Las Vegas, la vera città ideale. Nel senso dei risultati finali, di spazio vitale tutto esaurito, si chiude: rien ne va plus.
Nota: l'articolo è stato scritto - con poche varianti - per il sito megachip.info, e quindi può contenere qualche ripetizione rispetto agli aspetti del tema trattadi da Eddyburg; faccio riferimento comunque almeno qui ai testi di: Giufré; Guerzoni; Salzano e ad una mia precisazione ; su Mall è disponibile l'articolo su Las Vegas citato in apertura di John Ritter ; altra "grande opera" non citata direttamente, ma che si intravede in una delle immagini allegate, è l'autostrada regionale Cremona-Mantova (f.b.)
Da “La città inclusiva. Argomenti per la città dei pvs”, a cura di Marcello Balbo, Franco Angeli, Milano 2002. Contributi di Jordi Borja, Rod Burgess, Fernando Carrion, Alain Durand-Lasserve, Caren Levy, Ricardo Montezuma, Annik Osmont, Laura Petrella, Carole Rakodi, Ronaldo Ramirez, Daniela Simioni, Franz Vanderschueren
La città produttiva
I testi di questo volume sono tutti attraversati da due fili conduttori.
Il primo è la crescente polarizzazione, frammentazione, esclusione che, sotto la spinta delle trasformazioni in corso nel sistema economico internazionale, investono le città dei pvs. La globalizzazione, che la si interpreti come fenomeno che ha radici lontano nel tempo, o che la si consideri invece un’innovazione specifica di questi ultimi anni, ha rilevanti conseguenze sull’or-ganizzazione e sul funzionamento economico, sociale, istituzionale e dello stesso spazio fisico della città. Liberalizzazione dei mercati e privatizzazione dei servizi, insieme alla spinta a ridurre la presenza dello Stato e la sua azione redistributiva, per quanto modesta, hanno provocato un’accentuazione degli squilibri interni alla città, l’aumento della povertà urbana, l’esclusione di un numero sempre maggiore di persone dalle opportunità offerte dalla città, il diffondersi della violenza.
All’inizio degli anni novanta si è fatta strada la consapevolezza che le città stanno al centro dello sviluppo economico: le economie urbane contribuiscono ovunque per il 60%, più spesso per il 70% o l’80%, alla produzione della ricchezza nazionale. Le città sono il motore della crescita, per questo è indispensabile che funzionino bene, che siano efficienti, che riducano gli sprechi per essere competitive sulla scena nazionale e internazionale (World Bank, 2001). Delle opportunità che la città offre (Getting the Best from Cities), la Banca Mondiale sottolinea innanzitutto, e sostanzialmente, il potenziale economico:
Le città sono fonte di produttività e innovazione. Industrie e servizi si sviluppano in città perché imprenditori e piccole imprese possono condividere mercati, infrastrutture, lavoro e informazioni. […] Le città promuovo la trasformazione della conoscenza, delle istituzioni e delle attività economiche. […] Per mantenere la promessa di migliori condizioni di vita, le città hanno bisogno di istituzioni più forti in grado di rendere più accessibili le risorse e di assicurare una più equilibrata distribuzione dei beni pubblici tra i diversi interessi” (World Bank, 2002).
La città viene vista dunque sempre più come un prodotto da vendere, ma di fatto lo è, come conseguenza della globalizzazione che obbliga a competere per catturare investitori e utilizzatori esterni, che nei pvs vuol dire sostanzialmente esteri.
Di fatto è il tema della competitività a dominare non solo le politiche urbane ma anche quelle urbanistiche, sempre più impostate intorno all’obiettivo di rendere la città attrattiva, vale a dire capace di attirare risorse da fuori. La recente “riscoperta” dei centri storici in America Latina, o nei paesi asiatici e africani, in particolare quelli del mediterraneo, nella cui cultura salvaguardia e conservazione non sono mai state particolarmente sentite, è significativa. Il recupero delle aree storiche risponde infatti prima di tutto all’esigenza di offrire qualcosa da “vendere”, nel senso ampio del termine, ma anche in quello stretto, dato che la vendita ai privati di più o meno grandi porzioni pubbliche dei centri storici è una strada che i governi locali tendono a imboccare sempre più spesso[1], nella speranza di attrarre investitori appunto, di avviare la riqualificazione di queste parti di città spesso degradate, e di ottenere qualche entrata con cui incrementare il bilancio[2].
Certo, il discorso è ammantato sempre di altri obiettivi, in particolare la salvaguardia e il recupero di un patrimonio che appartiene alla storia del luogo, ai valori culturali e all’identità stessa della città e dei suoi abitanti: obiettivi che si possono condividere e considerare del tutto legittimi, ma che appaiono secondari o comunque non disgiungibili da quelli della competizione economica[3].
Analoghe considerazioni si possono fare sul marketing urbano, diventato obbligatorio anche per le città dei pvs, ovviamente soprattutto per quelle di maggiori dimensioni. Indispensabile lo è sempre stato per quelle città che si vendevano sul mercato turistico, direttamente o ad emblema del paese, come Bangkok (Thailandia), Damasco (Siria), Dakar (Senegal) o Rio de Janeiro (Brasile), ma è diventato un terreno su cui le città sono costrette a presentarsi se non vogliono restare ai margini dei flussi finanziari e di investimento internazionali[4].
Con la globalizzazione, i meccanismi dell’integrazione diventano sempre più deboli, sia all’interno della città che rispetto al territorio che la circonda. La città produttiva approfondisce sempre più la separazione tra attività locali, informali ma non solo, in grado di sopravvivere solo perché situate in un luogo preciso e legate a un mercato altrettanto preciso, e attività che si svolgono nel mercato globale che possono benissimo fare a meno delle prime, dei loro luoghi e territori, con i quali hanno poco o nulla a che spartire.
Lo sviluppo delle tecnologie di informazione e comunicazione che sta alla base della globalizzazione, costituisce un ulteriore fattore di differenziazione. La possibilità di servirsi di queste tecnologie, teoricamente di facile diffusione, nelle città dei pvs riguarda in realtà una sparuta minoranza della popolazione, quella che dispone di una linea telefonica, che ha i soldi per comprarsi il computer, e che può permettersi di pagare la connessione a internet. Ma, di nuovo, per stare nella globalizzazione le città devono essere in grado di offrire buone infrastrutture di comunicazione: a Bangkok, paese dove il numero di linee telefoniche è superiore a quello dell’intero continente africano, vengono installate fibre ottiche lungo i “corridoi intelligenti” in modo da connettere con il centro città aree della periferia o qualche piccolo centro esterno, scavalcando tutto quello che c’è in mezzo; a San Paolo (Brasile) gli investimenti si concentrano sull’offerta di sistemi infrastrutturali estremamente avanzati per le fasce di popolazione a redito alto, mentre “la drastica riduzione dell’intervento pubblico per quanto riguarda acqua, luce e telecomunicazioni, insieme alle misure di riduzione delle sovvenzioni incrociate, mette il resto della popolazione in condizioni di svantaggio, o peggiori di un tempo” (Unchs, 2001).
L’esclusione urbana
Sotto certi aspetti, le città dei pvs sono sempre state luoghi dell’esclusione, a partire dalla colonizzazione, quando alcune di esse si sono consolidate e molte sono addirittura nate. La differenza è che oggi, nel contesto della globalizzazione, l’esclusione viene stabilita dal valore aggiunto che ognuno è in grado di apportare al prodotto città: la globalizzazione infatti esclude le persone, i territori e le attività, che non producono o non contengono valore, per lo meno quello di interesse all’economia globale.
La nozione di esclusione sociale viene spesso usata come sinonimo di povertà, anche se a volte criticata in quanto meno esplicita della seconda sulle conseguenze dei meccanismi dell’economia di mercato, della liberalizzazione, delle privatizzazioni.
Tuttavia, fare riferimento all’esclusione sociale consente di mettere in luce sia le cause della povertà e delle disuguaglianze nella città, sia le diverse conseguenze che la povertà può avere in termini di inclusione o di esclusione appunto, a seconda di variabili oltre che economiche, di classe, genere, età, appartenenza etnica o religiosa. La riflessione condotta in questi anni ha consentito di capire che la povertà è un grande problema fatto di tanti problemi diversi: sulla povertà influiscono fattori diversi, economici certo ma anche sociali e culturali, fortemente legati al contesto locale.
Per questo in città si può essere poveri senza essere esclusi, perché comunque si appartiene a un sistema di reti sociali e di meccanismi di solidarietà; viceversa si può essere esclusi senza essere poveri, anzi a volte l’essere parte dell’esclusione significa poter accedere a lavori che, per motivi diversi, altri gruppi rifiutano o, per ragioni sociali, non possono svolgere[5].
Il concetto di esclusione sociale consente anche di riflettere meglio sui legami tra fattori macroeconomici e fattori locali, quelli che si presentano al-l’interno della città, con caratteristiche specifiche in ogni città. Vi sono stretti legami tra l’esclusione legata a fattori nazionali e locali, e quella provocata dai meccanismi della globalizzazione; anzi, non di rado questa si innesta sui primi, servendosene e approfondendo disuguaglianze che già esistono (Beall, 2002).
Nella città dei pvs l’esclusione presenta essenzialmente tre dimensioni.
La popolazione esclusa da beni e servizi urbani di base come la casa, l’acqua, le fognature, i trasporti è molta: nell’Africa subsahariana due terzi della popolazione non è collegata alla rete idrica, in America Latina il fabbisogno abitativo alla fine del secolo era valutato tra i 17 e i 21 milioni di alloggi, a seconda dei criteri (Mac Donald, Simioni, 2000), mentre in Asia meno di quattro abitazioni su dieci disponevano di un qualche sistema fognario. Negli anni novanta spesso la situazione è andata peggiorando: quasi ovunque in Africa, nella maggior parte dei paesi dell’America Latina e in un numero non piccolo di quelli asiatici, compresi quelli del sudest del continente che fino alla crisi avevano visto per diverso tempo le proprie economie crescere a tassi di due cifre.
Invece, casa, infrastrutture e servizi sono componenti essenziali di quella “domanda di città” che occorre soddisfare perché sia riconosciuto davvero il “diritto alla città”, ma questa non è la condizione in cui si trova la maggior parte delle città dei pvs, in particolare quelle di grandi e medie dimensioni.
All’esclusione dai servizi urbani e da condizioni abitative adeguate[6] si accompagna la sempre maggiore difficoltà di avere un lavoro se non fisso almeno stabile, pagato adeguatamente e regolarmente, in condizioni dignitose. In qualsiasi città dei pvs è il settore informale a fornire un reddito a quote elevate della popolazione, non di rado per la maggioranza. Negli anni novanta, con la dismissione o la riduzione di molte delle attività del settore pubblico, imposte dai Programmi di aggiustamento strutturale, sono state le “microimprese” a fornire la quasi totalità di nuovi posti di lavoro: le attività informali oggi sono ormai la principale fonte di occupazione urbana nella maggior parte delle città.
La terza dimensione è quella dell’esclusione dalla rappresentanza politica e dalla presa di decisioni. Chi vive nei quartieri dell’irregolarità del suolo o della casa, in particolare quelli ai margini o fuori dalla città che spesso nemmeno appaiono nelle carte; o chi, ma non di rado si tratta delle stesse persone, lavora quando e come può nelle precarie attività dell’informale, meno instabili di quanto si sia portati a pensare ma comunque esposte ai rischi di una situazione anch’essa spesso di irregolarità, se non di illegalità: questi gruppi di popolazione difficilmente vengono riconosciuti come parte della società urbana e dunque non possono avanzare alcuna pretesa di far parte della città intesa come istituzione politica, di essere citoyens e non semplici citadins.
La città dell’esclusione
Il secondo filo conduttore è però che se la città esclude, ad escludere non è la città, ma il contesto di mercato globale in cui si collocano crescita e trasformazioni urbane.
In Argentina, dove più del 90% della popolazione è urbana, per la crisi conseguente alle politiche liberali “suggerite” dal Fondo Monetario Internazionale, nel primo semestre di quest’anno il pil è diminuito del 16%, con ovvie drammatiche conseguenze sull’occupazione e i redditi, prima di tutto quelli urbani. In Indonesia, la brusca fine del miracolo asiatico della metà degli anni novanta ha fatto diminuire il pil del 15%, ancora oggi non completamente recuperato: anche in questo caso, come in tutti gli altri paesi del sudest asiatico che hanno vissuto lo stesso processo, gli effetti sulle città sono stati devastanti, con il vero e proprio blocco di interi settori produttivi, primo fra tutti quello della costruzione, la drastica diminuzione dei consumi, l’aumento vertiginoso dei poveri urbani.
Progetti e investimenti per migliorare le condizioni di vita della popolazione urbana, in particolare quelle delle fasce più povere, dipendono in misura più o meno ampia dai flussi di risorse che vengono dall’estero: in alcuni casi si tratta dell’unica fonte su cui si può contare. Tuttavia, i programmi pubblici di aiuto allo sviluppo, finanziati dagli organismi multilaterali o dalle cooperazioni bilaterali, oltre che essere assai poca cosa[7], nella maggior parte dei casi sono instabili e imprevedibili, a volte con obiettivi discutibili. Quelli che più contano, sotto il profilo quantitativo, sono di gran lunga gli investimenti privati[8], la cui priorità è ovviamente la redditività degli investimenti, non certo la riduzione degli squilibri o una maggiore giustizia sociale.
A questo si somma la minore presenza dello Stato e la conseguente diminuzione delle sue capacità di ridurre le disuguaglianze. Liberalizzazione e privatizzazione significano quanto meno recupero dei costi, più spesso ricerca, legittima, di un profitto. Realizzare questi obiettivi lasciando da parte meccanismi di compensazione tra gruppi sociali con capacità economiche fortemente diverse, significa escludere importanti quote di popolazione dall’accesso alla casa, all’acqua, ai trasporti, al mercato del lavoro formale, cioè dal “diritto alla città”.
Le strategie urbane, e urbanistiche, costituiscono a loro volta fattore di esclusione. Gli insediamenti informali sono il risultato di politiche errate, conseguenti alla volontà di rispondere alla domanda di alloggi a basso costo attraverso l’intervento pubblico, secondo un modello consolidato nei paesi del Nord, ma del tutto inadatto a fornire un’offerta abitativa sufficiente nei pvs. La città “irregolare” è la risposta all’assenza di alternative praticabili, non la volontà o il desiderio di irregolarità dei suoi abitanti. Allo stesso modo, l’assenza o l’insufficienza di infrastrutture e servizi in molte parti della città derivano dall’adozione di standard e soluzioni tecniche incompatibili con le risorse, pubbliche e private, disponibili (Balbo, 1999).
Le attività informali per lungo tempo sono state osteggiate, pur rappresentando non solo la parte più dinamica dell’economia ma, in quanto meccanismo di redistribuzione delle risorse, anche il principale fattore di integrazione sociale e di contenimento della conflittualità. Esattamente come nel caso degli insediamenti irregolari, il problema sta nell’assenza di alternative. Nessuno ambisce a un’occupazione precaria, mal pagata, svolta in condizioni ambientali spesso al di là dell’accettabile, con il continuo rischio di essere cacciati o, se va bene, multati per i motivi più diversi.
Ad escludere non è dunque la città, ma i meccanismi del mercato globale rispetto ai quali liberalizzazione e privatizzazione sono scelte quasi obbligate che amministrazioni e attori locali hanno poche possibilità di contrastare, ammesso che lo vogliano, pur trattandosi di scelte che aggravano ulteriormente gli squilibri di una crescita urbana non poggiata su una concomitante crescita economica e dei redditi.
L’idea della città produttiva è andata sempre più prevalendo su quella della città come luogo di incontro, di mediazione e di integrazione sociale, e amministrazioni e attori locali hanno poche o nulle possibilità di contrastare tali meccanismi
Per una città più inclusiva
È indispensabile invece che la città sia, o torni a essere, “inclusiva”.
“La ‘città inclusiva’ è il luogo dove a chiunque, indipendentemente dalla condizione economica, dal genere, dall’età, dalla razza o dalla religione, è permesso partecipare produttivamente e positivamente alle opportunità che la città ha da offrire.” (Unchs, 2000).
Città produttiva e città inclusiva sono due modi di essere non facilmente conciliabili. Con il decentramento, il compito di combattere gli effetti di esclusione, è affidato ai governi locali, ma per mettere in atto strategie inclusive occorre stabilire a quale inclusione si pensa, in che termini, a vantaggio e nell’interesse di chi: alla nozione di città inclusiva si possono dare infatti significati molto diversi, traendone strategie altrettanto differenti.
L’inclusione non può ridursi all’integrazione degli insediamenti irregolari e delle attività informali nei meccanismi del mercato formale della casa, dei suoli, del lavoro. Questo significherebbe disconoscere le differenze, non ammettere che le città e le società urbane dei pvs si sviluppano in contesti istituzionali, seguendo norme sociali e secondo sistemi di valori specifici, non sempre riconducibili alla logica del mercato ormai dominante.
La lotta all’esclusione e il rafforzamento dell’inclusione richiedono politiche urbane, economiche e sociali all’interno delle quali sia chiaramente posta la questione del diritto alla città: politiche integrate in cui i temi della povertà, delle condizioni insediative, delle opportunità di reddito siano affrontati congiuntamente, come si usa dire, in maniera integrata.
Per questo occorre che i meccanismi decisionali siano anch’essi “inclusivi”. Governance e pianificazione strategica sono strumenti indispensabili di una strategia di inclusione, che non possono però essere utilizzati in un’ottica di competizione e di marketing.
L’esclusione, la frammentazione della società e dello spazio urbano sono la risposta di alcuni segmenti della popolazione di fronte all’incapacità o all’impossibilità dei governi di gestire la crescita della città e le sue trasformazioni. Gli insediamenti irregolari possono essere visti come la risposta “dal basso” all’insufficiente offerta di case a basso costo, così come la raccolta e il riciclaggio dei rifiuti possono essere considerati l’alternativa alla mancanza di un servizio pubblico, o alla sua privatizzazione.
Ma la città inclusiva non può fondarsi sulla frammentazione delle sue parti, su condizioni e funzionamenti così profondamente diversi. Per restare il luogo dell’incontro, della mescolanza e dell’integrazione delle differenze, l’unica strada percorribile sono politiche che promuovano una più equa distribuzione delle risorse, e gli attori primi di queste politiche oggi sono inevitabilmente i governi locali.
Nelle città dei pvs, dove senso di appartenenza, coesione sociale e concetto di cittadinanza risultano sempre più deboli, l’inclusività appare ogni giorno più difficile da ricostituire con gli strumenti di governo tradizionali.
Non esistono risposte univoche, ma la costruzione di un Progetto di città, che parta dalla ridefinizione dei modi della rappresentanza di gruppi e dei singoli individui sembra aprire uno spiraglio per contrastare le tendenze all’esclusione. Governance significa partecipazione e partenariato, dunque prima di tutto riconoscimento di tutti e delle differenti capacità, possibilità e aspirazioni. Urban governance significa assumere l’ipotesi della città come soggetto sociale e politico complessivo, insieme di soggetti diversi che, partecipando alla costruzione di un Progetto di città, si misurano intorno a un’idea attorno alla quale i differenti interessi si organizzano, i gruppi sociali si confrontano e si incontrano arrivando, forse, a mobilitarsi per cercare di realizzarla.
Rispetto a un’inclusione nel e di mercato, la differenza è dunque sostanziale. Governare la città e i suoi processi non può limitarsi a garantire quante più condizioni possibili per un buon funzionamento dei meccanismi dell’economia. Si tratta invece di ricomporre gli interessi dei singoli intorno a una nuova identità urbana collettiva, a un ricostituito senso di appartenenza, a una ristabilita convergenza su, e a partire da, un territorio.
Nel quadro della competizione tra città cui si trovano assoggettate anche, e forse prima di tutto, quelle dei pvs, le alternative che si danno sono ben poche: o si riesce a far parte della globalizzazione, o se ne sta fuori. Stare fuori è assai facile, spesso lo si è già. Complicato è entrarci, o semplicemente restarci, perché i posti disponibili sono pochi. È una competizione che può non piacere, ma è certo che è meglio parteciparvi che essere semplici spettatori. Nella città dei paesi in sviluppo non è possibile mobilitare le risorse necessarie (forse non sufficienti) per stare dentro alla globalizzazione, senza trovare un punto di incontro tra i diversi interessi da cui muovere per la costruzione di una città inclusiva.
Se è vero che chi vive nei quartieri irregolari o lavora nell’informale contribuisce in misura sostanziale a far funzionare la città, è tempo che la città contribuisca altrettanto sostanzialmente a migliorare le condizioni di questa popolazione, riconoscendo il suo diritto alla città e alla cittadinanza.
Il testo del capitolo, completo di bibliografia, è scaricabile cluccando qui sotto in formato .pdf
[1] Il ruolo assunto da Carlos Slim, il proprietario della più importante catena di televisione messicana e una delle persone più facoltose dell’America Latina, nel recupero del centro storico di Città del Messico, è forse il caso più emblematico.
[2] Non a caso il recupero dei centri storici si traduce prima di tutto nella loro trasformazione in vetrine di negozi, ristoranti e caffè piacevolmente disseminati nei palazzi, nelle corti e nelle strade stesse.
[3] Del resto lo affermava esplicitamente il Prefeito di Salvador de Bahia, Magalhaes, cosciente del fatto che di spiagge come quelle che circondano la città, bellissime, in Brasile ve ne sono migliaia di chilometri, mentre di centri storici come il Pelourinho ve ne è uno solo, che occorreva dunque riqualificare e “risanare” dai suoi abitanti, per poterlo vendere.
[4] Vi sono ormai manifestazioni internazionali organizzate appositamente per il marketing urbano, con annessa vendita, come l’annuale Marché International des Professionnels de l’Immobilier (Mipim) di Cannes.
[5] Come la raccolta dei rifiuti, o comunque di lavori socialmente stigmatizzati, da sempre svolti da, e riservati a, particolari gruppi sociali o etnici.
[6] Questa la formula, volutamente indefinita, adottata a Istanbul nel 1996 dalla Conferenza Habitat II e da allora usata nelle sedi internazionali.
[7] L’impegno di destinare all’aiuto allo sviluppo lo 0,7% del pil è stato sempre disatteso: attualmente l’Italia destina poco più dello 0,1%, gli Stati Uniti ancora meno.
[8] Nel 1998 il rapporto tra finanziamenti pubblici per lo sviluppo e investimenti privati è stato di uno a due per i paesi a basso reddito; di uno a otto in quelli a reddito medio (World Bank, 2001).
In queste settimane (fino al 19 novembre) l’Arsenale di Venezia e i Giardini della Biennale, ospitano l’esposizione «Città, architettura e società». Un percorso denso di contenuti, questioni e problemi aperti, attorno ad un fatto inedito nella storia dell’umanità: da qui a pochi anni, il 75% della popolazione mondiale abiterà nelle città (molti in metropoli o città regione che dir si voglia). Questo è il principale elemento problematico che scatena l’onda di dati, immagini, progetti e simulazioni che si dispiegano nelle corderie dell’Arsenale (dove l’esposizione affronta «forma e vita di 16 città/regione» del pianeta) e poi, in modo più metaforico (per usare un delicato eufemismo), ai Giardini, dove sono rappresentati 50 Paesi e oltre 100 città.
Se si prova a dedurre la conseguenza esplicita dell’affermazione problematica alla base della 10.a Biennale di Architettura, logica dice che la parte minoritaria dalla popolazione mondiale - il 25% appunto – da qui a pochi anni vivrà in uno sterminato territorio (cioè la grandissima parte del suolo terrestre) semi abbandonato, nel quale il paesaggio rurale e naturale sono il terreno di risulta sul quale poggiano le infrastrutture che portano linfa ai nodi vitali – le città regioni/regine – e dal quale è facile immaginare scomparirà ogni segno storico e sociale della «produzione primaria».
Su questo impianto la tesi che sembra uscire dai curatori della mostra campeggia in un titolo - quasi intimidatorio - a grandi caratteri, tra le prime sezioni: «la forma urbana determina il futuro del Pianeta». In altri termini, è la città, quella «iper e super», densa e compatta, con i suoi segni e con i suoi contenuti che produrrà la direzione di marcia per la società di questo secolo. Ed è su di essa che l’architetto – di nuovo demiurgo! – grazie ad operazioni orientate soprattutto all’intensificazione e alla densificazione di queste ipercittà, potrà imprimere un segno fisico capace di sferzare lo sviluppo degli uomini verso orizzonti di «sostenibilità, inclusione, uguaglianza sociale, tolleranza...».
Ecco spiegato lo slogan «salire anziché uscire» nella sezione dedicata a Londra. Dove si dice – in sostanza – che siccome la capitale del Regno Unito ha una bassa densità, l’edificazione di grattacieli è la giusta prospettiva per scongiurare la «suburbanizzazione» e la «dispersione insediativa», e per concretizzare gli obiettivi di solidarietà e sostenibilità appena ricordati.
Per Milano poi l’elogio del grattacielo si fa addirittura enfatico (e forse ironico): «dopo anni di scarsa attività del mercato, a Milano si sta iniziando nuovamente a costruire (..) creando una nuova tipologia ad alta densità che sortirà effetti radicali sull’immagine e sul paesaggio urbano».
L’Italia contribuisce al ragionamento su «Città, architettura e società» con «invito a VEMA», la nuova città di fondazione che secondo Franco Purini – il suo ideatore – dovrebbe sorgere nei pressi di Nogarole Rocca, tra le province di Mantova e Verona, in un luogo ritenuto strategico perché attraversato da due corridoi della rete europea dei trasporti. Una città utopica per 30 mila abitanti, dove rifondare i valori della vita urbana, da opporre alla patologica dispersione insediativa, che affligge, con i suoi alti costi collettivi, la bassa padana. Così il gesto dell’architetto traccia il solco nel vergine suolo agricolo, tra le terre del formaggio Grana e quelle del riso Vialone Nano, e disegna un rettangolo aurico entro il quale si accenderà la fiamma della vita sociale. Provocazione o seria intenzione? Non è chiaro. Gli sponsor del progetto sono però tutt’altro che incerti: tra gli altri l’Associazione degli Industriali, il Collegio dei Costruttori, e la Banca Agricola Mantovana.
E’ comunicata fino all’esasperazione la parola chiave di questa Biennale: «forma». La forma, il disegno, il tracciato, l’architettura, l’edificio, sono ad un tempo ineluttabile destino e matrici di nuove e magnifiche sorti per il genere umano. Siamo costretti a vivere in città, alcuni anche in megalopoli, perciò è lì che si deve concentrare la ricerca per una vita migliore. Lì che l’architetto progetta un nuovo ordine etico. E il territorio? E il conflitto che ha generato questa ineluttabile tendenza all’inurbamento globale? E i governi - l’espressione democratica della volontà dei cittadini - che sono tra i principali attori di questi fenomeni? E l’ipotesi di costruire reti e sistemi policentrici, per riconquistare equilibrio tra urbano e rurale, sostenuta addirittura dall’Unione Europea nemmeno due lustri fa? E l’emergente cultura del recupero e della manutenzione (del paesaggio, della città, dei sistemi locali, ecc.)? Dove stanno le riflessioni a proposito di questi temi? Non sono forma, ma sostanza. Questa può essere una prima risposta ad una pesante assenza. E la sostanza si fatica a mettere in mostra.
L’urbanistica e il governo del territorio, quelle attività fatte soprattutto da un sistema al cui centro stanno i cittadini e i loro rappresentanti, e al cui margine stanno gli architetti, sono processi tutt’altro che estetici; sono faticose costruzioni collettive, che disegnano prospettive per il futuro non sempre tradotte in opere (grandi o piccole) ma in flussi, dialettiche, comportamenti, stili di vita, tendenze; o meglio in «politiche». Politiche che sono – per loro natura - lontane dal glamour che accompagna i progettisti alla moda.
Non che il progetto e le sue forme siano poco importanti per le città. Edifici e attrezzature, infrastrutture e spazi pubblici, hanno bisogno di buoni progetti, capaci di cogliere a pieno la contemporaneità e i mille volti della complessità. Ma esse non sono lo strumento che modifica «la vita». Sembra infatti pericolosamente semplicistico sostenere che da un gesto architettonico si possa conseguire un effetto diretto sugli stili di vita, per esempio, di una comunità.
Esemplare, in questo senso, è il caso di Napoli. La sezione Metrò-Polis della Biennale si concentra sui progetti e sulle realizzazioni delle stazioni della metropolitana: spesso splendide architetture che portano la firma dei nomi più prestigiosi dello star system internazionale, da Fuksas a Siza, da Rogers a Botta. Inafferrabile o addirittura assente è invece l’imponente lavoro che da oltre due lustri il Comune di Napoli sta portando avanti, nella progettazione integrata di un complesso sistema di trasporti pubblici con le previsioni urbanistiche del Piano Regolatore: operazione - questa sì - che muterà sensibilmente non solo il volto della città ma anche la vita dei suoi cittadini. I quali godranno, oltretutto, di stazioni e fermate bellissime. Oltretutto, appunto.
E’ condivisibile quindi l’accento che i curatori della Biennale pongono sulla necessità di limitare il consumo di suolo vergine, stabilendo dei limiti all’invadenza patologica dell’urbanizzazione a bassa densità. Come pure è condivisibile il tentativo di affrontare l’inurbamento epocale verso il quale ci stiamo dirigendo, invocando giustamente termini quali inclusione, mobilità sostenibile, uguaglianza sociale, tolleranza, disponibilità di spazi pubblici. Ma se si vuole andare oltre le provocazioni e le allegorie proposte dalla decima Biennale di Architettura, bisogna forse che architetti e progettisti facciano un passo indietro. Bisogna che si riconosca che è solo da un processo dialettico, olistico e di lungo periodo, che le città potranno trovare una via più equilibrata allo sviluppo; si deve dire con chiarezza che nessuna forma, alta o bassa, di pietra o d’acciaio, può ordinare la vita di una collettività; e, infine, bisogna riconoscere il territorio nel suo insieme come campo di studio, di progetto e di verifica, per comprendere e delineare il futuro delle società, prima che delle città.
Città. Architettura e società è il bellicoso titolo prescelto dal direttore Richard Burdett per la X Biennale di Architettura di Venezia: un manifesto contro le archistar e l’estetismo imperante nella disciplina, è stato detto, un monito a dare priorità al contesto fisico e sociale degli edifici progettati rispetto all’ossessione di lasciare un “segno” tangibile del proprio genio in ogni centro abitato.
Tanto è bastato, in un contesto come quello italiano, per scatenare la piccata reazione di quanti rivendicano il primato dell’estetico e la potenza simbolica dei grandi oggetti architettonici. Massimiliano Fuksas, peraltro presente con un saggio nel catalogo, ha immediatamente dichiarato che musei, memoriali, biblioteche, teatri, stadi, grattacieli e palazzi monumentali sono catalizzatori della rinascita urbana di incomparabile efficacia di fronte allo squallore degli interventi di edilizia popolare e alla piattezza degli strumenti urbanistici.
Per afferrare pienamente il carattere grottesco di questa polemica basta mettere piede nelle Corderie dell’Arsenale, dove è allestita la mostra di Burdett sulle sedici megalopoli globali in trasformazione (San Paolo, Caracas, Bogotà, Città del Messico, Los Angeles, New York, Cairo, Istanbul, Johannesburg, Milano-Torino, Barcellona, Berlino, Londra, Mumbai, Tokyo, Shanghai): tutti i timori e le aspettative riguardo a un’esposizione che si preannunciava pesante, dura, ad altissima densità di contenuti, si dissolvono nello spazio di un momento. La presenza dei dati, delle statistiche, dei grafici che avrebbero dovuto condensare anni di ricerche condotte dallo stesso Burdett con Saskia Sassen, Richard Sennet e altri alla London School of Economics è ridotta al minimo, come supporto ai grandi slogan formulati per ogni città, mentre una messe di fotografie, video e proiezioni comunica senza soluzione di continuità una sola idea: la città è bella.
Il “mostro” indigeribile, destinato con l’autorevolezza della scienza a imporre una svolta concettuale al sempre più hollywoodiano mondo dell’architettura, si rivela a sua volta un trionfo dell’estetica, un lunghissimo spot sulle “magnifiche sorti e progressive” delle metropoli contemporanee. Nulla a che vedere, tuttavia, con le scenografie barocche di Italo Rota in Good N.E.W.S. alla Triennale, o con la visualizzazione “sporca” dei designer nordeuropei: le splendide immagini – quasi tutte a volo d’uccello o addirittura fotopiani, rese più seducenti da luci dorate o biancori diffusi o morbidi bianchi e neri – allignano ordinate in un allestimento quasi inesistente, limitato alla composizione di grossi pannelli parietali. È una mostra ampiamente didascalica, in cui a fare la parte del leone è la grafica chiara ed elegante dell’art director Mario Trimarchi, a capo dello studio Fragile.
Il primo obbiettivo di Burdett è quello di ribaltare l’aura negativa associata al dato della popolazione urbana mondiale, cresciuta nello spazio di un secolo dal 10 al 50% e destinata a raggiungere il 75% entro il 2050. Gli scenari catastrofici comunemente evocati da queste cifre – espansione ad infinitum degli agglomerati urbani, traffico ingovernabile, emissioni, consumo energetico, barriere sempre più alte tra ricchi e poveri – non incrinano minimamente la ferrea convinzione che le città globali offrano soprattutto un «enorme potenziale democratico», e addirittura che «la loro forma può determinare il futuro del pianeta».
Un ottimismo fondato sul presupposto che l’intensificazione dei flussi globali di persone, merci e capitali che attraversano le grandi metropoli sia sempre e comunque una risorsa, che può e deve poi essere “gestita”, se non dominata, per mezzo di politiche locali sostenibili.
In questa ottica Londra, che grazie alla densificazione dei tessuti urbani compresi all’interno della green belt potrà accogliere 700000 nuovi abitanti stranieri nei prossimi dieci anni, è accomunata a Bogotà, che in dieci anni di buongoverno locale – partecipazione, nuove scuole, il miracoloso sistema di autobus e navette pubblici Transmilenio, le oramai notissime piste ciclabili – ha più che dimezzato il tasso di criminalità e sensibilmente migliorato la qualità di vita degli abitanti. Tokyo, la più grande megalopoli del mondo (35 milioni di abitanti) ad alta densità, è riuscita con una politica lungimirante a ottenere che l’80% della popolazione usi i mezzi pubblici, mentre a New York, dove vige la “maggioranza delle minoranze” (i bianchi non ispanici ammontano solo al 30%) dopo più di vent’anni si ricomincia a costruire case popolari.
L’entusiasmo per questi modelli di sostenibilità cede il passo a un senso di inquietudine quando l’ennesimo progetto di metropolitana o di realizzazione di scuole e palestre viene trionfalmente annunciato per città disperse come Los Angeles o per i barrios di Caracas, oppure quando Mumbai, con i suoi milioni di lavoratori informali, viene definita “Porto di opportunità?” e il Cairo “Caos e armonia”. A un tratto la percezione confusa individua con certezza l’oggetto della propria insofferenza: la totale rimozione del conflitto operata da Burdett.
Qua e là compaiono un grafico estemporaneo sulla criminalità o l’abusivismo a Città del Messico o una didascalia sull’urbanistica della segregazione a Johannesburg, ma la loro presenza non interferisce con l’incredibile equazione stabilita dal curatore tra crescita economica e sostenibilità urbana e sociale, tra le forze della globalizzazione e le politiche democratiche del welfare. Nel mondo dipinto da Burdett l’eterna contrapposizione tra interessi pubblici e privati, e tra i modelli urbani che ne discendono, viene completamente cancellata. Gli attori dell’economia globale, del tutto alieni da quelle meschine logiche speculative che determinavano in passato un atteggiamento di vorace appropriazione di beni e servizi della collettività, contribuiscono zelanti ai programmi di sviluppo delle amministrazioni locali, elaborando con architetti e sociologi le migliori strategie per creare spazi pubblici, trasporti pubblici, istituzioni e manifestazioni culturali e favorire il più alto tasso di coesione e giustizia sociale.
Fin dall’enorme fotografia di uno svincolo di Shanghai (Site Specific, 2004,di Olivo Barbieri) stampata sull’intera facciata del Padiglione Italia ai Giardini, colonne comprese, appare chiaro che la seconda parte della mostra, affidata a una dozzina di prestigiosissimi centri di ricerca internazionali, è organizzata secondo criteri di frammentarietà, problematicità e densità completamente estranei alla sezione delle Corderie.
Alcune delle ricerche trattano argomenti perfettamente complementari alla mostra di Burdett, dedicata alle sole città in crescita: come Shrinking Cities, un progetto coordinato da Philipp Oswalt sulle numerosissime città (alcune decine nella sola Italia) interessate da un processo di spopolamento e contrazione, oppure Fiction Pyongyang, di Domus, che si interroga sul destino di una città comunista concepita dai sogni deliranti del dittatore Kim Il Sung, oppure una riflessione sulle città del golfo arabo, di OMA (Office for Metropolitan Architecture, di Rem Koolhaas). Tre progetti di cui è facile riconoscere la comune matrice culturale grazie alla natura incalzante dei quesiti che pongono e al rilievo geopolitico delle trasformazioni urbane e territoriali che analizzano: l’evoluzione (solo in parte dissoluzione) dei paesi postcomunisti, il surreale uso dello spazio in un regime totalitario per molti aspetti misterioso, le reazioni dell’Occidente di fronte all’atteggiamento misto di emulazione e disprezzo per la cultura architettonica modernista manifestato dai ricchissimi paesi arabi a Dubai.
Il padiglione irlandese, infine, è l’unico che pone il problema del consumo di suolo, mettendo l’accento su una questione fondamentale: con ogni probabilità non c’è niente di più futile che affidare le sorti del mondo a una rete, seppure popolosa, di venti città. Il territorio è di gran lunga più importante.
John Ochieng ha perso il conto delle persone che bussano alla porta della sua baracca di una stanza nello slum di Kibera, nella capitale kenyana Nairobi, cercando un posto dove stare. Attirati dal sogno di una vita migliore, centinaia arrivano ogni mese in questo ammasso di baracche dai tetti di lamiera che già ospita 600mila persone in un corridoio di tre chilometri, probabilmente il più grande slum africano. «A volte quattro persone in una sola settimana bussano alla mia porta chiedendo se ho spazio o se so di qualche altro posto», dice Ochieng, 26 anni, macellaio, che in quella baracca vive con la moglie e quattro figli. Ogni giorno nuove persone arrivano portando i propri averi, traversano rigagnoli di fogna e montagne di spazzatura e si sistemano in qualche modo. Molti resteranno senza elettricità, dovranno pagare per qualche secchio d'acqua e useranno buche straripanti come latrine. Slums come Kibera solo il volto orribile dell'urbanizzazione dell'Africa, le cui città sono sopraffatte dalla crisi degli alloggi, dalla criminalità, e da infrastrutture inadeguate alla crescita tumultuosa di questi anni. «Negli anni '70 Nairobi era una città verde. Era tranquilla, andare in giro era sicuro, non c'erano buche per strada né mercati selvaggi», spiega un libraio che si presenta come Chan.
La pianificazione urbana sarà al centro di un vertice di 5 giorni, la settimana prossima a Nairobi: « Africities», organizzato dall'unione Panafricana dei governi locali in collaborazione con il governo del Kenya, metterà a confronto enti locali, imprenditoria pubblica e privata, forze sociali, Ong, università, sui problemi delle grandi città del continente. Anche perché il trend di crescita continua. Mentre alcune grandi città hanno visto l'immigrazione stabilizzarsi, molte continuano a ricevere ondate di persone che abbandonano la tradizionale agricoltura di sussistenza a causa di conflitti, o degrado ambientale, o per il collasso delle strutture familiari provocato dall'Aids. Secondo le Nazioni unite l'Africa subsahariana, dove il 72% della popolazione urbana vive in slums (baraccopoli, bidonvilles), ha il più alto tasso di crescita urbana al mondo. A questo ritmo si calcola che nel 2030 oltre metà degli africani vivranno in città - una popolazione urbana superiore a quella di tutta Europa.
Lagos, la metropoli nigeriana, con una popolazione stimata di 17 milioni di abitanti, è la più grande città africana e continua a crescere tra il 6 e l'8 percento annuo: ovvero, 600mila persone ogni anno si aggiungono alla popolazione urbana, provenienti da un po' tutta la Nigeria e dall'intera Africa occidentale. Ma la sordida realtà della città fa beffe del motto ufficiale di Lagos, «terra di acquatico splendore». L'intera città ha appena 67 camion funzionanti per la raccolta della spazzatura. Poliziotti e gangster gestiscono checkpoints dove estorcono soldi ai passanti, e la vista di cadaveri scaricati in pubblico è frequente. Milioni di abitanti di Lagos cucinano su fuochi di legna, non hanno acqua corrente e trascorrono le serate nell'oscurità in mancanza di luce elettrica. Circa due terzi degli abitanti della città vivono in estrema povertà in un centinaio di slum, ma anche gli alloggi per i benestanti sono scarsi, non tengono dietro alla domanda. Così i danarosi expat arrivano a pagare 60mila dollari all'anno per un appartamento di tre stanze nelle zone residenziali del centro.
Anche Algeri, capitale di un relativamente ricco paese produttore di petrolio, ha penuria di spazio, con i suoi oltre tre milioni di persone e un milione di automobili; anni di conflitto in terno nelle zone rurali e suburbane hanno spinto milioni di persone a emigrare nelle città sulla costa. «Nessuno può essere orgoglioso di Algeri», dice il ministro dell'interno Noureddine Yazid Zerhouni, lamentando il declino della città famosa per i suoi edifici bianchissimi sulla collina, una vista che conserva ancora un po' del suo antico fascino. «Con i problemi dell'acqua, la nettezza urbana, i trasporti, l'insicurezza... con tutto questo, non possiamo dirci una delle capitali mondiali». Certo, ci sono in vista investimenti che potrebbero migliorare le cose. Ad Algeri alcune società straniere hanno firmato contratti per costruire una linea di tram e la prima metropolitana. All'altro capo del continente la capitale angolana Luanda, costruita per una popolazione di circa 400mila persone, ora conta 5 milioni di abitanti, in gran parte arrivati dalle regioni rurali a causa della guerra civile durata 27 anni e finita solo nel 2002. «A Luanda pochissimi sono tornati indietro nelle campagne (alla fine della guerra), e pochissimi lo faranno», dice l'architetto Allan Cain.
Nota: per chi fosse interessato, qui di seguito anche scaricabili direttamente il programma e il fascicolo stampa di Africities (f.b.)
La Biennale di Architettura di Venezia promette nel titolo (Città, architettura e società) e nelle interviste al suo coordinatore, di occuparsi in modo temerario del serissimo problema della grande città.
Metropoli, megalopoli, città mondiali, città regione. Non si tratta solo del fatto che più del 50% della popolazione del globo è oggi insediata nelle città; una quota sempre più rilevante si va concentrando in complessi urbani sempre più vasti o in sistemi urbani composti da più insediamenti connessi da campagne urbanizzate sempre più ampie.
E un fenomeno fatale, logico ed inarrestabile o solo una fase dello sviluppo? La nozione di città, che risale a più di 5000 anni, in questi casi è per esse ancora utilizzabile? Perché la fine della città nella dispersione promessa dalle comunicazioni immateriali ed annunciata più di trent´anni or sono si è invece ribaltata nel gigantismo o nelle città infinite assai di più che nelle megalopoli in quanto sistemi urbani vasti e complessi preannunciati dagli studi di Gottman ormai mezzo secolo fa? Perché invece le città medie (specie quelle europee) perdono progressivamente popolazione residente ed identità e si trasformano in meccanismi di servizio di «city users» o in «entertainment city»? Le ragioni, è ovvio, sono assai diverse, anche se sovente sovrapposte in diversa misura, nelle distinte aree del globo e la bibliografia intorno ad esse di varie discipline, dalla sociologia all´antropologia dall´ecologia ambientale alla politica urbanistica è vastissima ma in gran parte constatativa piuttosto che propositiva; se non nelle forme dell´utopia architettonica tecnologica o fumettistica.
La povertà poi espelle cittadini dai centri urbani e ne attira dalla campagna nelle periferie disperse o concentrate quantità rilevanti: rilevantissime e sovente incalcolate nei paesi del Terzo Mondo. L´estensione delle periferie ha quasi ovunque travolto in termini di dimensioni quella della città consolidata.
La globalizzazione seleziona e concentra in poche città (le «global cities» descritte da Saskia Sassen) il potere decisionale e finanziario, cioè oggi economico che decide sugli stessi spostamenti localizzativi della produzione ormai deterritorializzata, cioè scissa dall´area urbana di origine.
Peraltro Max Weber scriveva in La Città più di ottant´anni or sono: «Oggi più che mai percentuali preponderanti degli utili delle imprese circolano in luoghi diversi rispetto al luogo di origine dell´impresa che li realizza».
Ma occuparsi della città significa anche tentare di capire il ruolo delle architetture che la costruiscono e ne formano l´assetto visibile abitabile con le proprie articolazioni identificabili ma anche cercare di correggere la centralità dell´estetica dell´oggetto che ha occupato purtroppo negli ultimi anni la cultura architettonica a dispetto della costituzione di un disegno urbano.
Anche se nessuno parla più di «grandeur conforme», anche se il demone dell´espansione infinita ha travolto ogni riflessione sulla scala e sui limiti ragionevoli delle città e sulla sua distinzione dalla campagna, resta, messa in evidenza proprio dalle grandissime città, la questione della forma urbana e del ruolo delle architetture dentro di essa, e che da essa dovrebbero prendere senso.
La città dura assai di più delle motivazioni che hanno prodotto le sue parti e quindi la sua forma dovrebbe fondarne il significato nel tempo. Forse perché l´incessante è diventato un valore che ha messo in questione quello della durata, il disegno urbano è diventato un´attività tanto dimenticata quanto ideologicamente avversata: al massimo si pratica come una mimesi della transitorietà, della rapidità dello sviluppo che nega ogni principio di stratificazione, una somma di oggetti di design ingranditi e concorrenziali che sembrano opporsi volontariamente ad ogni decifrabilità per chi ne percorra gli spazi pubblici aperti, concepiti ormai come spazi residuali. Ma proprio l´estensione quantitativa della grande città, il moltiplicarsi infinito dell´eccezione come la ripetizione meccanica della pura produzione edilizia impediscono la riconoscibilità delle cose: se si costruiscono, come a Shanghai, 4500 grattacieli in pochissimi anni, ogni variazione del tipo edilizio diventa irrilevante come l´edificio nell´estensione deregolata dello «sprawl» delle periferie esterne o il rumore indistinto dell´uniformità monofunzionale dei quartieri residenziali della prima periferia.
Sia la moltiplicazione meccanica del prodotto edilizia che la ripetizione capricciosa delle differenze sono sospese nel vuoto della mancanza di ogni principio insediativo che le fondi e le organizzi in modo necessario verso una forma urbana e le sue regole. La regola insediativa è il contrario dell´uniformità e ciò che permette al ritmo della città, alle sequenze ed alla gerarchia delle parti ed alla varietà di istituirsi; è ciò che rende visibile l´identità del sito, che permette all´immagine sociale di espandersi.
Tutto questo è messo da parte: non se ne trova traccia nello stato attuale dello sviluppo delle grandi città; nessuna istituzione è riuscita a dare risposte all´impeto dell´ammassamento, all´aumento vertiginosamente quantitativo delle iniziative, alla religione dello sviluppo (quasi sempre a vantaggio di pochi). Di principi capaci di organizzare in modo comprensibile i nuovi materiali delle città se ne trovano solo tracce velleitarie o elisioni totali proprio anche nella cultura architettonica che ne dovrebbe avere la responsabilità, una cultura che non è stata in grado di produrre risposte convincenti e non nominalistiche intorno alla forma urbana del presente.
Nel 1960 Lloyd Rodwin insieme a Kevin Lynch raccolse in un libro dal titolo “Il futuro della metropoli” una serie di contributi di diverse discipline intorno al tema che, anche se essenzialmente volte alla cultura degli Stati Uniti, hanno costituito per molti anni un punto di riferimento. A distanza di quasi mezzo secolo, è quindi importante confrontarsi con i nuovi dati a disposizione e cercare di riflettere sul vasto, globale cammino percorso dalle cose e su quello breve delle idee dell´architettura della forma urbana.
Mi auguro quindi che la prossima Biennale di Architettura, che promette nel titolo di lasciare da parte i vuoti formalismi delle ultime due o tre edizioni tutte concentrate sulle bizzarrie estetiche dell´oggetto-edificio, non dimentichi le questioni della forma della città e delle sue parti, questioni che in quanto architetti ci competono pur con tutto il peso delle contraddizioni del presente ma che sono cruciali per il senso stesso della cultura architettonica.
Titolo originale: Advantageous Fragmentation? Reimagining Metropolitan Governance and Spatial Planning in Rhine-Main – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini
INTRODUZIONE
La regione Rhine-Main rappresenta in qualche modo un paradosso tra le sei agglomerazioni urbane definite come “Regioni Metropolitane Europee” nella politica spaziale strategica tedesca a metà anni ‘90. In quanto città-regione più collegata globalmente centrata sull’altamente visibile Francoforte (Freytag e altri, 2006), è probabilmente l’agglomerazione coi confini esterni più indefiniti (Hoyler 2005) e un’identità regionale relativamente debole (Blatter 2005). Le relazione fra la città di Francoforte dominante la regione e le municipalità circostanti vedono una prolungata storia di competizione locale e cooperazione regionale, che ha prodotto una modifica dell’organizzazione istituzionale e una pletora di ipotesi per la riforma del governo metropolitano (Scheller 1998, Freund 2003).
In questo studio, rileggiamo l’ultimo ciclo di tentativi per istituire un nuovo tipo di governance metropolitana nella regione urbana policentrica del Reno-Meno. Per prima cosa, delineiamo il contesto nazionale delle politiche e della pianificazione spaziale discutendone i recenti orientamenti strategici, che si allontanano dalla tradizionale concentrazione sull’equilibrio interregionale, ponendo maggior enfasi sul rafforzamento di alcune regioni metropolitane chiave. Secondo, mostriamo come gli attori politici ed economici nella frammentazione amministrativa della regione policentrica abbiano prodotto varie discutibili e geograficamente divergenti regionalizzazioni del Rhine-Main. Conflitti e tensioni sottese sono stati ampiamente riferiti (Bördlein 1999, 2000; Esser 2001; Falger 2001); qui indaghiamo come diversità funzionale e molteplicità delle prospettive nella regione Reno-Meno siano state ripensate come aspetti positivi negli ultimi documenti e iniziative di strategia regionale. Concludiamo con una valutazione critica sullo stato della pianificazione spaziale nel Rhine-Main.
IL NUOVO DISCORSO METROPOLITANO NELLO SPATIAL PLANNING STRATEGICO TEDESCO
La pianificazione spaziale del dopoguerra in Germania è stata per lungo tempo guidata dalla premessa di un equilibrato sviluppo economico, per assicurare condizioni di vita equivalenti in tutto il territorio nazionale. Fissata dalla Legge sulla Pianificazione del 1965, l’idea di “equilibrio spaziale a scala nazionale” (Brenner 2000, p. 323), perseguita attraverso una trama regolare di città a seguire la teoria delle località centrali di Christaller, ha dominato il dibattito sulla pianificazione territoriale in Germania sino alla fine degli anni ‘80. Dalla riunificazione tedesca del 1990, con l’accelerazione del dibattito interno ed europeo sui modi per assicurare competitività in un’economia globalizzata, si è reso evidente un “graduale mutamento di paradigma” (Blotevogel and Schmitt 2005) nella pianificazione spaziale strategica. Neil Brenner ha sostenuto che il mutamento alla base delle politiche costituisce un passaggio “da una sistema di politiche per alleviare uno sviluppo geografico ineguale, a un quadro che attivamente lo intensifica promuovendo la continua polarizzazione della crescita entro regioni urbane centrali specializzate” (Brenner 2000, 332). Centrale in questa nuova cornice è l’assunto secondo cui siano le grandi aree metropolitane anziché le singole città, o l’economia nazionale come un tutto, ad agire come “motori per lo sviluppo delle imprese, economico, sociale e culturale” (BBR 2005, p. 188) e che dunque meritino particolare attenzione (BBR 2005, p. 174). Questo punto di vista è stato sviluppato per la prima volta autorevolmente in due fondamentali documenti strategici della Conferenza Permanente dei Ministri Statali e Federali responsabile della Pianificazione Spaziale ( Ministerkonferenz für Raumordnung, MKRO), lo Raumordnungspolitischer Orientierungsrahmen (1993) e il Raumordnungspolitischer Handlungsrahmen (1995). Il secondo individua le sei agglomerazioni urbane di Berlino/Brandeburgo, Amburgo, Monaco, Rhine-Main, Rhine-Ruhr e Stoccarda come “Regioni Metropolitane Europee” (EMR) con intense correlazioni internazionali attraverso i confini. Questo elenco fu ufficialmente adottato nel 1997, aggiungendo la EMR “ Sachsendreieck” (Triangolo Sassone: Chemnitz, Dresda, Halle, Lipsia, Zwickau), e nel 2005 è stato conferito stato di EMR a Brema/Oldenburg, Hanover-Brunswick-Göttingen, Norimberga e Rhine-Neckar (MKRO 2005).
La trasformazione retorica evidente nelle linee guida nazionali per la pianificazione e indicazioni spaziali, è stata accompagnata da un rinnovato dibattito sulle forme più appropriate di governo metropolitano entro le EMR individuate. L’ultimo rapporto federale sullo spatial planning ripete i primi auspici per la creazione di un nuovo forte livello di governo regionale nelle aree metropolitane per aumentare la competitività internazionale (BBR 2005, p. 188), argomento che segue in qualche modo i discorsi dominanti e in qualche modo neoliberisti sulla globalizzazione e la competizione spaziale che hanno informato tante delle discussioni sulle politiche metropolitane dell’Europa occidentale negli anni recenti (Brenner 2003, p. 18). Ad ogni modo, la realizzazione di strutture efficaci di pianificazione e governo entro le specifiche agglomerazioni varia notevolmente fra le regioni metropolitane tedesche (Blatter 2005, Fürst 2005, Hesse 2005), dato che l’attuazione di queste riforme dipende dalla cooperazione di una molteplicità di attori politici ed economici all’interno dei vari contesti istituzionali. La diversità delle forme di governance regionale si deve in parte ai contrastanti percorsi storici e strutture socioeconomiche delle regioni metropolitane, e all’organizzazione del sistema federale tedesco, costruito sui principi di sussidiarietà e forte autonomia regionale ( Länder) e municipale. Ciò trova espressione, ad esempio, in un sistema di pianificazione a livelli multipli in cui lo stato federale offre solo una legislazione quadro e linee guida per la pianificazione regionale (Kunzmann 2001).
Ciascuno dei Länder esercita autorità sulla pianificazione spaziale nel proprio territorio e redige linee guida di pianificazione regionale, i cosiddetti piani di sviluppo ( Landesentwicklungsplan). Le leggi sulla pianificazione spaziale del Länder suddividono il territorio in regioni di piano ( Planungsregionen), entro ciascuna delle quali i raggruppamenti di pianificazione regionale preparano un piano ( Regionalplan). Le municipalità costituenti tali raggruppamenti partecipano allo sviluppo del piano regionale attraverso un’assemblea. A livello delle singole municipalità, la pianificazione dello spazio diventa concreta e legalmente vincolante attraverso l’attuazione dei piani urbanistici ( Flächennutzungsplan) comunali o intercomunali ( Regionaler Flächennutzungsplan). In genere, le municipalità hanno diritti di pianificazione in esclusiva sul proprio territorio, il che significa che la redazione di un piano urbanistico non può essere influenzata direttamente da una autorità superiore, ma è tenuta ad aderire alle sue linee guida generali. Questo sistema multilivello di pianificazione spaziale, basato sul principio dell’influenza reciproca dei differenti ambiti ( Gegenstromprinzip) si affianca alla pianificazione di settore con effetti spaziali stimolata da vari ministeri federali e di Länder, la quale si aggiunge alla complessità dei processi di piano in Germania (Figura 1).
Se la cooperazione fra le varie grandi città tedesche e le municipalità circostanti ha una lunga storia in termini di pianificazione regionale collaborativa e altre forme specifiche di associazione per scopi particolari ( Zweckverband; ad esempio per i trasporti pubblici o la gestione dei rifiuti), la forte autonomia costituzionalmente garantita del governo locale ha spesso rallentato lo sviluppo di modalità unificate di governo metropolitano (Fürst 2005). In più, la frammentazione territoriale delle entità regionali e la competizione a livello statale nel sistema federale pone questioni specifiche per le regioni metropolitane che si estendono oltre confini statali, il che è particolarmente rilevante nel caso della Rhine-Main.
UNA FRAMMENTAZIONE MULTIPLA: PIANIFICAZIONE SPAZIALE E GOVERNO METROPOLITANO NELLA RHINE-MAIN
In quanto seconda agglomerazione urbana dopo quella del Reno-Ruhr, la Reno-Meno è politicamente suddivisa fra i tre stati di Assia (che copre la maggior parte della regione), Renania-Palatinato e Baviera. Deve ancora emergere una specifica consapevolezza regionale, in un’area le cui fedeltà sono conformate da una lunga storia territoriale di frammentazione politica e amministrativa, di localismo competitivo (Bördlein e Schickhoff 1998). Di conseguenza, esistono varie regionalizzazioni “Rhine-Main” – con Francoforte sempre al centro – che coprono zone diverse di un’ampia regione. La definizione geografica più comprensiva della Reno-Meno in quanto una delle EMR tedesche comprende un’area di oltre 13.000 chilometri quadrati con una popolazione di 5,3 milioni di abitanti (Planungsverband 2005) (Figura 2). Questa regione transfrontaliera coincide più o meno con i confini scelti dagli attori economici rappresentati dal Forum delle Camere di Commercio e Ufficio Sviluppo Economico di Francoforte Rhine-Main. Contiene una larga parte di distretti rurali, non compresi nelle delimitazioni funzionali basate sul pendolarismo quotidiano verso i centri urbani principali della regione: Francoforte, Offenbach, Wiesbaden, Mainz, Darmstadt, Hanau and Aschaffenburg. Un’altra definizione di regioni urbane funzionali contigue che formano la “mega-città-regione” Reno-Meno (Interreg IIIb progetto “Polynet”: Fischer e altri 2005a, Freytag e altri 2006) comprende un’area di circa 8.000 chilometri quadrati e 4,2 milioni di abitanti (Figura 2). Comunque, nessuna di queste due concettualizzazioni trans-confini costituisce l’agglomerazione metropolitana unificata in quanto organismo politico o amministrativo. Nonostante occasionali iniziative di cooperazione intergovernativa, i dibattiti sulle riforme istituzionali si sono generalmente concentrati sulla parte della Rhine-Main dell’Assia, e in particolare sulla relazione fra la città di Francoforte e le municipalità circostanti.
Nuove istituzioni nel cuore della regione
Il dibattito attuale sulla pianificazione spaziale e il governo metropolitano in Rhine-Main nasce da una lunga storia di tentativi di riformare il quadro istituzionale delle relazione città-regione di Francoforte e dei comuni vicini (Scheller 1998, Freund 2003). L’ultimo ciclo di modifiche istituzionali fu iniziato nel 1999 dall’allora appena eletto governo statale conservatore dell’Assia, attraverso leggi per la propria parte dell’agglomerazione, Ballungsraumgesetz (BallrG 2000). Creò un raggruppamento di pianificazione per la conurbazione di Francoforte nel 2001, il Planungsverband Ballungsraum Frankfurt/Rhein-Main, come successore ufficiale dello Umlandverband Frankfurt, associazione obbligatoria multiscopo istituita dal un governo socialdemocratico nel 1975, per Francoforte e 42 comuni circostanti. Geograficamente più vasto ma con meno competenze il nuovo Planungsverband integra – per la prima volta in Germania – i due livelli di pianificazione regionale (insieme al Regionalversammlung Südhessen) e la pianificazione urbanistica in 75 municipalità al centro della zona di competenza dell’Assia della regione Rhine-Main (Figura 3). Un Rat der Region (Consiglio della Regione) con rappresentanti delle città maggiori (oltre 50.000 abitanti) e distretti amministrativi ( Landkreise) venne istituita insieme al Planungsverband a coordinare la cooperazione inter-municipale (Langhagen-Rohrbach 2004). Nonostante le responsabilità di piano geograficamente estese, la nuova Planungsverband è solo una delle numerose autorità a questo scopo che coprono la regione Rhine-Main funzionalmente definita. Soprattutto, non esiste nessun organismo che si estenda oltre i confini statali. I Länder Assia, Renania-Palatinato e Baviera hanno tutti una propria politica di piano e relative istituzioni per le loro parti della regione Rhine-Main e aree adiacenti.
Parallelamente all’istituzione del Rat der Region, fu iniziato un quadro di cooperazione politica volontaria per la pianificazione regionale dal sindaco conservatore di Francoforte nel 2000, non ultimo nel tentativo di compensare la carenza di cooperazione fra Planungsverband (dominato da Socialdemocratici e Verdi) e Rat der Region (maggioranza conservatrice) (Blatter 2005, p. 146). La Regionalkonferenz RheinMain, incontro regolare di sindaci a elezione diretta e capi di distretto, copre un’area equivalente alla definizione economica territoriale più ampia (transfrontaliera) di Rhine-Main (Figura 2). Mira a stimolare la cooperazione municipale e alla consultazione su questioni settoriali come lo sviluppo economico, cultura, turismo, trasporti. Comunque, per conseguire questi obiettivi, la Regionalkonferenzha difficoltà simili a quelle del Rat der Region, ad esempio istituzionalizzazione debole, mancanza di legittimazione democratica diretta, dissensi politici e competizione fra le varie municipalità, che facilmente superano i fini di cooperazione (Blatter 2005).
Il ristretto ambito di responsabilità della nuova associazione di piano politicamente indebolita, lascia molta della cooperazione tra Francoforte e i comuni confinanti ad accordi intermunicipali, che non restano confinati all’ambito amministrativo del Ballungsraum. Sono stati lenti a svilupparsi e i critici temono che le conseguenze della nuova legislazione possano essere di de-solidarizzazione regionale, anziché di rafforzamento (Schultheis 2003). Al contrario, lo stato dell’Assia può forzare le municipalità della conurbazione a collaborare entro associazioni obbligatorie per scopi particolari, se non riescono a stringere accordi volontari nei campi seguenti (BallrG 2000): gestione e riciclo dei rifiuti, fornitura d’acqua, gestione degli scarichi fognari, strutture sportive e per il tempo libero di scala regionale, infrastrutture culturali, sviluppo economico e promozione di mercato, tutela degli spazi aperti verdi, pianificazione dei trasporti e gestione del traffico a scala regionale. Con varie dimensioni territoriali e partecipazioni, si sono sinora formate nuove strutture inter-municipali, come: “FrankfurtRheinMain GmbH – Promozione Internazionale della Regione”, ente a responsabilità limitata per la promozione localizzativa e la pubblicizzazione delle opportunità a scala internazionale del Rhine-Main; “Kulturregion Rhein-Main-GmbH”, fondata nel dicembre 2005 da 20 municipalità e distretti (comprese due città bavaresi) per organizzare e proporre eventi culturali di importanza regionale e internazionale. Ulteriori collaborazioni sono cominciate per la gestione del traffico regionale (‘ivm GmbH': Integriertes Verkehrsmanagement Region Frankfurt RheinMain) da parte di parecchie città e distretti, e gli stati di Assia e Renania-Palatinato (ma senza la partecipazione bavarese). Un certo numero di città e distretti dell’Assia ha sviluppato e collegato spazi aperti verdi della regione entro vari progetti uniti nel “Regionalpark RheinMain”. Il quadro che emerge è di riduzione delle responsabilità politiche dal livello regionale a quello municipale. E la creazione piuttosto riluttante di accordi cooperativi specifici a scopi singoli con partecipazioni variabili e territori solo in parte coincidenti.
Iniziative regionali nella Grande Rhine-Main
Dagli anni ‘90, vari reti intensive e flessibili composte da vari attori politi ed economici hanno giocato un ruolo chiave nell’attivare forme volontarie di cooperazione nella regione vasta, oltre i confini statali (Figura 4). Nel 1991, il IHK-Forum Rhein-Main (Forum delle Camere di Commercio) è stato istituito come alleanza regionale per rivolgersi principalmente a bisogni e interessi delle piccole e medie imprese. Oltre 200 municipalità e parecchie camere di commercio locali, istituti di istruzione superiore e società di infrastrutture, collaborano nel Wirtschaftsförderung Region Frankfurt/Rhein-Main e.V. (Consiglio per lo Sviluppo Economico Francoforte/ Rhine-Main), fondato nel 1995 per attirare investimenti e informare sulle disponibilità di spazi e immobili industriali e per uffici nella regione. La mancanza di un’immagine regionale unica è stato uno degli incentivi perché i grandi attori economici del Rhine-Main istituissero nel 1996 la Wirtschaftsinitiative Frankfurt RheinMain, iniziativa promozionale che comprende al momento oltre 150 imprese. La Wirtschaftsinitiativemira a costruire una identità regionale comune, sostiene progetti di prestigio e alta visibilità, migliorare l’immagine pubblica della regione Reno-Meno per promuoverla a livello nazionale e internazionale. È un fattore di grande peso nello sviluppo di una “politica estera regionale” (Fichter 2002, 315) per il Rhine-Main. Alla Wirtschaftsinitiative si è aggiunta nel 2003 un’altra iniziativa con scopi simili, Metropolitana. Questa organizzazione era stata fondata un anno prima da cinque grosse imprese mondiali, gli uffici regionali per l’Assia della Deutsche Bundesbank, la Wirtschaftsinitiative, l’associazione per i trasporti pubblici della Rhine-Main e Messe Frankfurt, per iniziare progetti regionali innovativi (Blatter 2005, p. 147). Anche se i progetti previsti non si sono realizzati a causa del mancato sostegno finanziario da parte delle imprese partecipanti a Metropolitana (Blatter 2005, p. 148), la rafforzata Wirtschaftsinitiative si è recentemente impegnata nella “costruzione della regione dal basso” lanciando il primo Regionalwerkstatt nel 2004, laboratorio regionale che raccoglie diversi attori politici ed economici e il pubblico per sviluppare collettivamente idee sul futuro di Rhine-Main. Il primo incontro, con parecchi laboratori organizzati tematici ha trovato una forte risonanza nella regione, attirando oltre 600 partecipanti, ma il successivo sviluppo dei progetti da parte di esperti è stato lento, e in gran parte nascosto alla pubblica opinione (Langhagen-Rohrbach e Fischer 2005). Resta da vedere se il secondo Regionalwerkstatt, previsto nel marzo 2006 per discutere i risultati di queste idee, otterrà un riconoscimento ed entusiasmo pubblico simile al primo, e se si tradurrà in qualche azione concreta.
Questi recenti tentativi da parte di iniziative pubbliche e private di superare i confini amministrativi territoriali e rafforzare una regionalizzazione funzionale e le relazioni interne di varie reti, sono stati fortemente sostenuti da molti attori economici della Rhine-Main (Fischer e altri 2005b). Le imprese regionali più piccole si impegnano in questo processo sia attivamente in progetti specifici, sia come membri delle organizzazioni imprenditoriali locali e regionali. Le grandi compagnie internazionali giocano un ruolo importante nell’iniziare e sostenere Leuchtturmprojekte a visibiità internazionale e campagne di immagine, sia per interessi propri che come parte delle proprie strategie di partecipazione . L’idea di una regione metropolitana Rhine-Main funzionalmente integrata corrisponde alle prospettive ed esperienze dei decisori economici che operano in spazi flessibili, strutturati su flussi che attraversano i confini, e su reti di relazioni di impresa (Fischer e altri 2005b). Comunque, una delle questioni chiave resta sino a che punto la spesso breve esistenza dei progetti e la loro principale prospettiva di tipo economico rappresenti la vasta popolazione della regione. Processi partecipativi come il Regionalwerkstatt potrebbero sviluppare una prospettiva di maggiore inclusione per un più ampio Rhine-Main.
PROSPETTIVE POLICENTRICHE? LA VISIONE STRATEGICA “FRANKFURT/RHEIN-MAIN 2020”
Mentre le idee iniziali del Regionalwerkstatt continuano ad essere elaborate, nel 2005 è stato pubblicato un documento politico, la “Visione Strategica per un Piano Territoriale Regionale e Regionalplan Südhessen”, per l’area del Ballungsraum e la regione di piano più vasta del sud-Assia (Planungsverband e Regierungspräsidium 2005). Si estende più a sud delle comuni delimitazioni del Rhine-Main ma, a causa delle competenze limitate dal punto di vista dell’autorità urbanistica, è confinato allo stato dell’Assia, anche se si riconoscono (brevemente) ampie relazioni funzionali oltre i confini. In quanto altra iniziativa in cui attori chiave pubblici e privati del Rhine-Main si sono messi insieme, la Visione Strategica mira allo sviluppo di una grossa parte della regione nei prossimi 15 anni rispetto a un’ampia gamma di tematiche. Come “visione ideale” collettiva di chi è impegnato nella costruzione regionale dal punto di vista istituzionale e delle reti, offre un punto di riferimento chiave per lo sviluppo futuro del Rhine-Main, ma al tempo stesso rivela le tensioni interne fra la logica territoriale della pianificazione spaziale e il dibattito su base economica dei legami trans-confine.
Lo sviluppo di una visione
In quanto linea guida di lunga prospettiva per i piani urbanistici normativi attualmente in corso di sviluppo per l’Assia meridionale e la conurbazione di Francoforte, la Visione Strategica è il risultato di una cooperazione fra le due istituzioni responsabili della pianificazione spaziale regionale, Planungsverband Ballungsraum Frankfurt/Rhein-Main, e Regierungspräsidium Darmstadt. Non si tratta in alcun modo di una prospettiva imposta solo dalle autorità di piano, ma redatta dopo un’ampia consultazione, di circa 280 attori regionali provenienti dai campi della politica, degli affari, amministrazioni municipali, cultura, istruzione superiore. Nonostante si stato invitato a partecipare anche il vasto pubblico, attraverso una piattaforma internet, la risposta (109 partecipanti attivi; Salz e altri 2004, p. 7) è stata meno significativa che nella prima fase del Regionalwerkstatt; un esempio per le spesso innovative ma non sempre coordinate iniziative regionali in Rhine-Main (Langhagen-Rohrbach e Fischer 2005, p. 79). La Visione Strategica è stata approvata nel 2004 come linea guida per la futura pianificazione spaziale della regione, da parte dell’organismo decisionale Planungsverband e dall’Assemblea Regionale del sud-Assia, che ne rappresenta città e distretti.
Promuovere il policentrismo?
Centrale per la Visione Strategica è il tentativo di promuovere diversificazione e specializzazione funzionale urbana in Rhine-Main come fatto positivo anziché ostacolo alla comunicazione e al successo economico regionale (vedi Box 1). Molteplicità, complementarità and sinergia sono le parole ricorrenti del documento che in modo esplicito collega competitività e strutture regionale policentrica. La Visione Strategica riconosce la complementarità funzionale dei vari centri urbani della regione - Francoforte “centro della vita economica e culturale della regione”, Darmstadt “principale centro di ricerca”, Hanau “città delle scienze applicate”, Offenbach “città del design”, Wiesbaden “capitale del Land Assia” – ed esplicitamente incoraggia le municipalità a sviluppare e rafforzare il proprio singolo profilo economico per coinvolgerle in “concorrenza produttiva” (Planungsverband e Regierungspräsidium 2005, p. 11). L’equilibrio fra concorrenza e cooperazione è visto come di potenziale beneficio per la regione. In più, il documento sottolinea le potenziali sinergie di città organizzate in rete densa su varie dimensioni: sia all’interno della regione che dei sistemi transnazionali europei. Vista questa retorica, è ironica nel documento l’assenza di un’autentica visione policentrica per Rhine-Main : le funzionalmente connesse ma amministrativamente separate città di Mainz (Renania-Palatinato) e Aschaffenburg (Baviera) (Freytag e altri 2006, Fischer e altri 2005c) non compaiono per niente in una Visione Strategica che non può uscire dalla propria logica territoriale istituzionale. Se la Visiona ha adottato il dibattito sulla competizione economica globale, le mani dei suoi estensori sono vincolate ai confini amministrativi che tagliano le relazioni funzionali sottolineate come elementi chiave nel documento.
Box 1: Il policentrismo come fattore di competitività: Rhine-Main nella Visione Strategica 2020 (Planungsverband e Regierungspräsidium 2005)
La particolare forza della regione Francoforte/Rhine-Main sta nella molteplicità di centri urbani e municipalità […]. Intendiamo utilizzare questa straordinaria qualità in una regione metropolitana sviluppando i vari particolari punti di forza e potenziali delle varie cittadine e zone rurali. Intendiamo assicurare lo sviluppo dei centri urbani, fare un uso ottimale delle zone urbanizzate esistenti e, in casi specifici, predisporne di nuove. (p. 5)
La regione Francoforte/Rhine-Main deve perseguire due scopi fondamentali. Primo, deve presentare al mondo un’immagine di sé stessa, creando un profilo in quanto regione con buone strutture educative, posti di lavoro attraenti, e alta qualità della vita: una regione dove è gradevole abitare e lavorare. Secondo, le singole municipalità devono, come parte del ruolo di governo locale, sviluppare i propri fattori di forza. Senza rinunciare agli effetti positivi delle sinergie con altri centri e municipalità. In questo modo devono sviluppare una concorrenza produttiva che sia di beneficio alla regione, e giocare il proprio ruolo nel crearne un profilo. (p. 11)
Nessuno è un’isola, e oggi, il mondo è più vicino e connesso che mai. Ciò rappresenta sia una sfida che un’occasione. Per questo motivo, comunicazione e scambio di informazioni rappresentano la base del successo regionale. Un singolo organismo o centro urbano non può, da solo, rispondere alle varie domande che gli vengono poste. Ma la regione, in quanto cooperazione fra un vasto numero di diversi agenti, può assicurare che ciascuno tragga profitto dalla, e partecipi alla, rete generale.
Questo vantaggio competitivo è di beneficio sia ai singoli che alla regione nel suo insieme. In tendiamo collaborare più strettamente con altre regioni metropolitane livello nazionale ed europeo per aumentare l’efficienza e rappresentare in modo congiunto i nostri interessi in Europa. […]
La regione Francoforte/Rhine-Main è già uno dei principali punti nodali nelle reti finanziarie, di trasporto e informative, sia a livello nazionale che internazionale. Intendiamo consolidare questa posizione e svilupparla ulteriormente. […]
La struttura insediativa della regione può essere vista come una rete di ambienti urbani in cui le diverse municipalità, coi diversi punti di forza, sono complementari l’una all’altra ma, allo stesso tempo, dipendono l’una dall’altra. (p. 12)
In assenza di qualunque affermazione netta su questioni controverse per la regione, come l’ampliamento aeroportuale, l’individuazione di nuove aree industriali o l’integrazione delle popolazioni immigrate, si può supporre che la Visione Strategica sia poco più che un esercizio di promozione e costruzione di immagine regionale, guidata da un percorso imprenditoriale che l’ha conformata secondo i propri obiettivi. La pubblicazione contemporanea di entrambe le versioni, in tedesco e inglese, sembra confermare la supposizione che si tratti di un documento rivolto a un uditorio esterno (Figura 5). Una visione del genere, comunque, sottovaluta il potenziale valore di coesione di una prospettiva regionale condivisa, in una regione tradizionalmente divisa. La Visione Strategica è tanto un tentativo di ricomporre gli interessi delle élites regionali, spesso confliggenti – almeno nel cuore della regione appartenente all’Assia – quanto di proporre un’immagine coerente al mondo esterno.
[...]
Nota: la Bibliografia (e un breve Abstract e altrettanto breve Conclusione) nella versione inglese); questa traduzione è disponibile anche in file PDF scaricabile, dove forse le immagini appaiono più chiare (f.b.)
Titolo originale: Mapled Crusaders – Traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini
Oltre un gruppo di portali in granito a Rumford, Maine, c’è una città perduta fra aceri argentati e querce, appena oltre il fiume di fronte a una grossa cartiera.
Si chiama Strathglass Park, e rappresenta le vestigia di un esperimento di benevolenza aziendale. Progettato nel 1904 dal famoso architetto Cass Gilbert, più tardi autore del Woolworth Building a Manhattan e della Corte Suprema a Washington, questo gruppo di regali case in mattoni e pensioni per lavoratori fu costruito da un magnate delle cartiere per 266 lavoratori e le loro famiglie.
Il complesso propone uno sguardo su un passato degno del Mago di Oz, quando la foresta significava ricchezza. Gli impianti di lavorazione del New England erano lontani avamposti di un impero economico: pulsanti di attività, sfavillanti di luci nella notte, che riversavano denaro sulle comunità circostanti come nobili ubriachi.
C’era bisogno di operai delle cartiere, e venivano pagati magnificamente. I taglialegna conducevano una vita comoda. Alcune imprese offrivano ai dipendenti prestiti a tassi agevolati, si costruivano biblioteche e altre opere pubbliche, si fondavano società di mutuo soccorso per aiutare i bisognosi. Sino agli anni ’60 e ‘70, normalmente i lavoratori delle cartiere possedevano seconde case estive sulla sponda del lago, costruite su lotti affittati per cifre irrisorie dai datori di lavoro.
Quell’epoca è passata. Oggi, gli impianti più vecchi chiudono a causa della forte concorrenza di strutture più moderne ed efficienti all’estero, specialmente in paesi dove ci sono poche norme ambientali. Intanto anche i lavori nel bosco si sono fatti più meccanizzati e con uso meno intenso di manodopera: se il prodotto del bosco è rimasto quasi costante, l’occupazione è precipitata.
Fra il 1997 e il 2002 in Maine, il lavoro nel settore forestale è diminuito del 23%, con perdita di oltre 5.000 posti di lavoro. La prognosi per le contee più remote del New England, che un tempo si alimentavano del succo di foresta, non è favorevole: un abitante su quattro della Somerset County in Maine e uno su cinque della Washington County ora vivono in povertà. Le comunità ai margini delle zone di raccolta legname del New England sono distrutte.
Quello che conta di più, in tutta la regione i terreni sono lottizzati e venduti, una cosa vista da molti come un colpo la cuore della vecchia economia. Gruppi di investimento e famiglie facoltose si sono comprati il proprio feudo – qui li chiamano “quelli che si comprano un regno” – e i vecchi operatori del settore del legno stanno abbandonando le attività. Un ettaro su quattro nel Maine ha cambiato di mano negli ultimi dieci anni. A livello nazionale, circa 12 milioni di ettari, ovvero metà delle foreste private per usi industriali, sono stati venduti a partire dal 1996.
Ma dove va a finire, l’economia del legname? Sempre più, le comunità reclamano a sé i propri boschi, con gli abitanti e le amministrazioni che si mettono insieme per acquistare appezzamenti a due scopi: proteggere il territorio e stimolare l’economia locale. In alcuni casi, le terre sono lasciate disponibile specificamente per gli abitanti a basso reddito. Per dirla col promotore delle foreste sostenibili David Brynn, “In New England sta succedendo qualcosa di interessante”.
Questa terra è la nostra terra
Quando sono stati messi in vendita 50 ettari di bosco sul fianco di una collina nelle zone rurali del Vermont occidentale lo scorso anno, si sono presentati 60 potenziali acquirenti in tre differenti occasioni per riuscire ad averne un pezzetto. Tutto questo clamore per l’area non sorprende: quegli appezzamenti, sulla Little Hogback Mountain, sono pieni di magnifiche querce rosse, faggi, aceri, con un sentiero che serpeggia fino a una cima rocciosa con panorama sulla valle. Ed è entrato sul mercato nel mezzo di una piccola corsa alle terre, coi prezzi localmente in lievitazione, come del resto anche in New England.
Quello che sorprende nel caso particolare è questo: gli interessati stavano esaminando la possibilità di acquistare insieme ad altri. Se tutto va come previsto, non una ma 16 persone saranno proprietarie di tutto. Non singoli lotti per seconde case, ma una foresta comune, da mantenere indivisa e inedificata. Gli acquirenti, ciascuno dei quali pagherà una quota di 3.000 dollari, avranno accesso ai terreni per legna da ardere e tempo libero. Ogni 10-15 sarà effettuato un taglio a usi commerciali, i cui proventi sosterranno la gestione del bosco e le tasse sulla proprietà.
”Il metodo democratico di suddividere i terreni in piccoli appezzamenti così che chiunque potesse permettersene un po’, non funzionava” dice Deb Brighton. Abitante dell’area ed ex funzionaria dello stato per la conservazione, ha collaborato con un piccolo gruppo – che comprende Vermont Land Trust e Vermont Family Forests, gruppo senza fini di lucro dedicato al mantenimento delle condizioni attuali e di salute dei boschi da legname – per gestire la questione. “Era meglio organizzare il tutto come un’unica cosa, e metterla nelle mani di membri della comunità vivono e lavorano qui, ma che hanno sempre meno possibilità di possedere terre”.
Nel suo periodo allo Housing and Conservation Board del Vermont, la Brighton ha visto come vasti tratti di foreste nello stato fossero sempre più suddivisi, mentre i residenti di lunga data a basso reddito non potevano permettersi di acquistare terreni e mantenerli ad uso produttivo. A questo scopo, metà delle quote del progetto Hogback sono riservate a chi ha un reddito familiare inferiore a quello medio della contea di 59.000 dollari l’anno; le persone di questa categoria sono anche abilitate a un prestito agevolato che copre metà del prezzo d’acquisto. Il resto dei lotti viene ceduto a chi ha meno del doppio del reddito medio: in altre parole, non possono fare richiesta “quelli che si comprano un regno”.
La Brighton e i suoi colleghi ora stanno aspettando una decisione dell’ufficio imposte che fissi quanto saranno tassati i partecipanti, prima di concludere il progetto. Ma la zona, ora di proprietà del Vermont Land Trust, sta già dando il suo contributo alla comunità. La scorsa estate sono stati tagliati da operatori locali circa 6.300 board feet [misura di volume del legname di complicatissima conversione n.d.T.] di legname, poi lavorato negli impianti di Vermont e Quebec. Ora se ne stanno preparando altri 40.000, tra questa e altre zone vicine. I bancali riportano il marchio Vermont Family Forests, così chi acquista sa che si tratta di prodotto locale, da un bosco certificatamente gestito in modo sostenibile.
Il caso Hogback è solo un esempio di una tendenza in crescita. Negli ultimi tempi il progetto più grosso nella regione è stato l’acquisto nel maggio 2005 di 10.000 ettari di bosco comunitario da parte del Downeast Lakes Land Trust, che esiste da cinque anni, insieme alla New England Forestry Foundation. La zona è a ovest del remoto villaggio di Grand Lake Stream, e gli acquirenti hanno richiesto una certificazione del Forest Stewardship Council. Nel bosco è stata individuata una riserva ecologica di 1.500 ettari, e altri 120.000 saranno tutelati tramite procedura di conservation easement.Centinaia di chilometri di sponde a bosco saranno gestite per usi di tempo libero, con l’obiettivo di portare qui turisti a sostenere attività locali, come una serie di rifugi storici. Il bosco è visto come motore economico per mantenere vitale la comunità.
Altre acquisizioni comprendono l’acquisto da parte di Randolph, N.H., di una superficie a bosco di 4.000 ettari di cui si temeva l’edificazione. E lo scorso anno, è stata comprata la 13 Mile Woods, una foresta comunitaria di 2.500 ettari, da parte della cittadina di Errol, N.H., con l’assistenza del Trust for Public Land. Le aree rurali del New England, di fatto, sono diventate un laboratorio per grandi esperimenti di costruzione di un rapporto fra la foresta e le sue comunità.
Da cosa nasce cosa
”Il movimento per le foreste comuni sta crescendo rapidamente a livello nazionale” dice Jeffrey Campbell, a capo della Community Forestry Initiative della Fondazione Ford. “Le persone capiscono che questo offre un’occasione di sviluppo sociale ed economico”.
Il termine “ Community forestry” è una definizione pigliatutto. Significa una cosa in Messico, un’altra in Svizzera, un’altra ancora in Nepal. Negli Stati Uniti, cambia da una costa all’altra, e in tutti i territori che ci stanno in mezzo. Nel nord-ovest del Pacifico, dove il governo federale possiede circa la metà dei terreni, la definizione riguarda un processo all’interno del quale chi taglia il legname, ambientalisti e altri si mettono insieme per costruire un’idea di gestione dei terreni di proprietà pubblica.
Nei sei stati del New England, che messi tutti insieme potrebbero essere contenuti in quello di Washington, solo il 5% dei terreni sono di proprietà del governo federale. Proprietari privati di tipo industriale, investment trusts, scuole, amministrazioni locali, e stati, possiedono e gestiscono il resto. Quindi forestazione comunitaria significa qualcosa di diverso, in questa scacchiera ineguale di proprietà, e gli approcci sono vari tanto quanto gli ecosistemi e le comunità da cui nascono.
In Vermont, per esempio, si calcola che 120 delle 251 municipalità possiedano in totale 140 foreste. Questi “boschi della città” sono una tradizione del New England: all’inizio del XX secolo, tutti e sei gli stati hanno approvato leggi di istituzione di queste foreste, acquisite attraverso donazioni, comprate, o sequestrate quando non venivano pagate le imposte. La maggior parte sono state riservate a una miscela di raccolta legname e tempo libero.
Pochi hanno prestato attenzione a queste sacche di spazio per oltre cinquant’anni: semplicemente, lo sfruttamento locale è andato fuori uso. Ma le cose gradualmente sono cambiate, grazie sia all’interesse crescente per le potenzialità economiche, che – nel caso del Vermont – al the Vermont Town Forest Project, un’idea emersa due anni fa da un convegno di gruppi ambientalisti.
Jad Daley, responsabile della campgna per la Northern Forest Alliance, è a capo del progetto per i boschi comunitari e spera che la cosa produca una “impollinazione incrociata”: dimostrando come le comunità possano trarre benefici dai boschi, e incoraggiando chi non ne ha ad acquisirli.
Daley cita la piccola Goshen, Vermont, come esempio. La cittadina possiede 400 ettari di bosco da vent’anni, e ha contrattato coi taglialegna locali una raccolta selettiva. Sinora, la foresta ha prodotto oltre un quarto di milione di dollari di reddito, utilizzati per finanziare lavori stradali, tra l’altro. La cosa, a sua volta, contribuisce a ridurre la pressione delle tasse sugli immobili (e negli anni ha anche offerto vari benefici diversi come una piccola quantità di sciroppo d’acero regalata da un produttore a ciascun abitante in cambio dell’uso del bosco).
Altre comunità, come Stowe, Vermont, hanno deciso che i propri boschi sono più adatti ad essere gestiti per il tempo libero, ad attirare i dollari dei turisti. Altre ancora hanno preferito un approccio multiplo. Un comitato di abitanti di Lincoln, Vermont, dopo aver esaminato varie opzioni, ha deciso di raccogliere il legname in uno dei due boschi della cittadina, e destinare l’altro a riserva ecologica.
Daley afferma che il dibattito su cosa fare dei pezzi di terreno spesso è altrettanto importante del risultato finale: “Alla fin fine, i progetti diversi sono tanti quanti le 251 cittadine del Vermont”.
Ma tutti condividono un’unica idea forte. “Una foresta comunitaria significa in linea generale [un posto] dove le persone si mettono insieme, unite dal territorio di appartenenza o dagli interessi, e vengono coinvolte nel modo in cui gli alberi vengono gestiti per il bene di tutti” dice Ajit Krishnaswamy, direttore della rete nazionale di operatori forestali National Community Forestry Center. “E non si tratta necessariamente di aspetti economici; può riguardare anche benefici culturali e sociali”.
”Proprio come con le comunità, non esistono due boschi identici: è diversa la storia, sono diversi i terreni” dice Shanna Ratner, ex esponente di NCFC ora presidente della Yellow Wood Associates, che offre consulenza alle comunità rurali per lo sviluppo economico. “Man mano le persone si avvicinano a vedere la verità – ovvero quanto è possibile trarre dal bosco senza danneggiarlo – vedono anche che ci sono moltissime possibilità”.
Il tesoro delle colline
In una prospettiva ambientalista, città e colline della vecchia economia dei boschi ricordano più il regno di Mordor che quello di Oz. La raccolta di legname su larga scala ha sfruttato ed estirpato i boschi per alimentare gli impianti; la foresta è caduta preda dell’erosione e delle monocolture. Le cartiere hanno lasciato i fiumi incrostati di scorie e sempre più poveri di vita. Negli anni, a molti di quei danni è stato rimediato. Ma l’atteggiamento che hanno creato è più lento da cambiare.
Brynn, anche direttore di Green Forestry Education Initiative all’università del Vermont, ha fondato Vermont Family Forests. Racconta che l’organizzazione tenta di ribaltare un paradigma superato. Il vecchio approccio era di trarre dal bosco prodotti del legno, trovare un mercato, e preoccuparsi della foresta, eventualmente, solo dopo. “Quello che stiamo tentando di fare è rendere consapevoli le persone innanzitutto del benessere del bosco” dice Brynn. “Senza una sana ecologia del bosco, non c’è foresta sana, né economia sana. Significa vendere più di quanto possa offrire”.
I sostenitori delle foreste comunitarie lavorano per aumentare il valore di quel legname, e per assicurare che il valore resti alle comunità. Nel 2000, Vermont Family Forests ha collaborato col Middlebury College ad offrire legname a denominazione di origine locale certificata per un progetto edilizio da 47 milioni di dollari. Gli architetti opponevano resistenza, perché quanto offerto dai boschi locali non era perfetto quanto desideravano. Ma alla fine i progettisti hanno adottato i materiali locali e le loro imperfezioni.
Più a sud, la New England Forestry Foundation spera di contribuire a rinvigorire le stanceh economie del Massachusetts centro-settentrionale sostenendo il progetto North Quabbin Woods, che sta tentando di mettere insieme nove comunità dell’area e i proprietari (circa il 60% delle superfici è privato) per la sostenibilità dei boschi. Il programma comprende la formazione di guide per le attività all’aperto e la gestione di una linea commerciale che esiste da due anni a Orange, Massachusetts, dove una ventina di artigiani e artisti offrono prodotti ricavati dal bosco, come articoli per la casa e ornamentali.
Sono stati lanciati altri negozi che promuovono i prodotti dei boschi locali, da parte di gruppi non-profit a Farmington, Maine, e Stowe, Vermont. È un utile primo passo per evidenziare il rapporto di dipendenza fra città e albero, per dimostrare come gli abitanti del posto possano trarre beneficio dal controllo dei boschi. “La questione non è quanti tronchi possiamo cavare dalla foresta, ma quanti dollari si guadagnano da ciascun tronco” ha sottolineato Spencer Phillips della The Wilderness Society a un convegno dello scorso anno in Maine sulle foreste comunitarie.
Le community forests probabilmente non basteranno a costruire un utopico paradiso dei lavoratori. E le iniziative in corso – come lo sviluppo del mercato per il legname locale – non si evolvono tanto velocemente come vorrebbero molti. Ma non bisogna mai sottostimare un’idea potente. Qualcuno all’interno del movimento paragona i boschi comunitari alle produzioni agricole locali. Dopo anni di prepotenze, il pubblico sta lentamente ma costantemente prestando sempre più attenzione alla provenienza di quello che mangia. I fans delle foreste comunitarie dicono che può succedere la medesima cosa col legno.
”Il messaggio funziona in sede locale” dice Brynn. “È l’idea complessiva di avere un prodotto che viene da un posto che si conosce, che si conosce chi lo fa. È un altro modo per coltivare un senso del luogo a scala umana”.
Titolo originale: As Israeli barrier goes up, views harden on all sides – Traduzione di Fabrizio Bottini
GERUSALEMME – Appena a nord della città, si può salire su un promontorio che guarda su parte della scura barriera di cemento che serpeggia verso nord lungo la West Bank.
Per ora, si interrompe bruscamente in una nebulosa di polvere a un improvvisato posto di blocco a qualche centinaio di metri da qui. Ma al crepuscolo, il suo percorso futuro è segnato da una collana di luci. Seguendo le strade percorse dagli israeliani, le luci voltano verso est, a tracciare i contorni di spoglie colline prima di arrotolarsi strettamente attorno all’insediamento di Kochav Yaakov. Il territorio circostante, abitato da palestinesi, è avvolto dall’oscurità.
Per chi si era immaginato la nuova barriera di sicurezza di Israele come una semplice linea su una mappa, l’immagine è illuminante.
Per certi aspetti, la progettata barriera di 725 chilometri è un modello di pianificazione ridotto ai termini più primitivi: il desiderio di distinguere il bianco dal nero, noi da loro. Concepita nel 2002 per proteggere Israele dai terroristi, è stata presentata come strumento necessario di autotutela. È stata anche attaccata in quanto formula di ghettizzazione e simbolo di colonialismo.
Ma su un piano fondamentale, è anche un oggetto di architettura. E la sua costruzione ha generato un dibattito architettonico acceso come qualunque altro in ambito politico.
Questo dibattito ha posto gli strateghi, che considerano le teorie architettoniche di sinistra degli anni ’60 come idee per la guerriglia urbana contemporanea, contro gli architetti che vedono la barriera come una perversione di quelle idee, insieme alle visioni utopiche del Modernismo che credeva di risolvere i problemi della società attraverso il cemento, l’acciaio e il vetro. Non si sta svolgendo solo nelle sale dell’accademia, ma nei circoli militari di Israele e America. E presenta un’immagine del muro come sistema complesso di spazi interrelati – alcuni materiali, altri invisibili – che è lontano dalla nostra normale percezione di confine internazionale.
Al centro di questo dibattito sta Eyal Weizman, architetto israeliano e attivista, figura discussa in madrepatria dal 2002, quando ha pubblicato un rapporto per un’organizzazione locale sui diritti umani, che essenzialmente accusa gli architetti di Israele di collaborare alla colonizzazione della West Bank.
Costruire non è mai un gesto neutro, ovviamente, e Weizman, 35 anni, non distingue fra architettura e politica. Per decenni, sottolinea, gli architetti di Israele si sono guadagnati da vivere in gran parte progettando gli insediamenti nei territori occupati. Molti ritenevano che il proprio lavoro fosse quello di realizzare spazi più funzionali, umani, esteticamente piacevoli. Ma così facendo, sostiene Weizman, essi rendevano tollerabile l’intollerabile, stendendo su una politica oppressiva un sottile strato di buon gusto.
”Abbiamo mostrato come il crimine sta nel tracciare la linea – nello stesso disegno – e non solo nel principio della realizzazione di un insediamento” dice Weizman.
Questo punto di vista ha toccato un nervo scoperto fra gli architetti, ma il suo vero obiettivo è la barriera: specialmente gli enormi lastroni di cemento che serpeggiano attraverso i densi quartieri urbani.
Snodandosi lungo un percorso che la Corte Suprema di Israele ha ordinato di ridisegnare molte volte, il muro è solo un elemento di un sistema elaborato di controllo che comprende tecniche avanzate di sorveglianza, a terra e nell’aria.
Weizman, che ora lavora a Londra, definisce la barriera “troppo pazzesca per funzionare: alla fine, cadrà sotto il suo stesso peso”.
Fra le risposte più provocatorie all’analisi di Weizman c’è quella di Shimon Navez, brigadiere generale in pensione dell’esercito israeliano. Navez, che si esprime compiaciuto nel tipo di gergo che si sente negli studi di architettura, dirige lo Operational Theory Research Institute della difesa israeliana, che addestra gli ufficiali superiori in tattiche di guerra innovative.
”Stavamo cercando nuove forme di pensiero che fossero adatte alle strategie militari” dice. “Gli americani cercavano soluzioni tecnologiche; noi volevamo capire il problema in profondità. Ci ha colpito il fatto che l’architettura potesse essere una metafora molto utile”.
Navez ha poca fiducia nella barriera, che definisce “troppo semplicistica, troppo banale” per riuscire allo scopo. “È una tragica regressione in termini di strategia” osserva. “Discende da una necessità, ma nel lungo periodo creerà molti danni: molto antagonismo. È una enorme violazione di spazio che sarà difficile da rimuovere”.
Navez parla di spazi “striati” e “levigati”: di un mondo formato da pareti solide e di un altro più fluido virtualmente privo di barriere. Nella sua visione, la West Bank è un esempio di spazio levigato.
È segregata in zone chiaramente definite, alcune di esse controllate dai militari israeliani e altre in modo congiunto con l’Autorità palestinese. Sorveglianza aerea e satellitare sono diventate ubique.
E una impresa israeliana sta sviluppando uno strumento di rilevazione termica portatile che consentirà ai soldati di individuare figure umane attraverso il cemento.
Navez non dirige la politica militare israeliana. Ma le sue opinioni hanno esercitato una certa influenza su un piccolo gruppo di generali che lui chiama i suoi “discepoli”.
Si è anche incontrato con funzionari del Pentagono e di ricerca per l’esercito americano, gruppi come la Rand, per discutere di guerriglia urbana in Medio Oriente, dove “sciamare” – il concetto dei soldati che si infiltrano nello spazio nemico come “nuvole” in gruppi piccoli a coordinamento variabile – è diventato uno slogan. In uno scenario del genere, la struttura di comando tradizionale non si applica. I soldati urbani comunicano direttamente l’uno con l’altro in un ambiente fluido e amorfo, liberi di reagire a qualunque situazione si presenti.
Se paragonata a questa visione distopica, una barriera di cemento eretta a separare israeliani da palestinesi appare come un’apparizione dall’antichità, una replica della barriera di legno grezzo costruita da Traiano per tener fuori le tribù bellicose: a separare la civiltà dalla barbarie.
E pure, secondo Weizman, si tratta semplicemente di due forme dello stesso male. Navez, dice, “sta semplicemente tentando di sostituire una forma di controllo con un’altra meno visibile”.
Il cosiddetto spazio levigato che compone la visione militare di Navez contrasta vivamente con l’esperienza dell’israeliano o palestinese medio. Nel quartiere di Abu Dis a Gerusalemme Est, per esempio, la vecchia strada per Gerico ora termina su una sezione di muro dipinta a bombolette con graffiti anti-israeliani e anti-americani. Lungo la barriera scorre una strada asfaltata di fresco che porta a un insediamento israeliano.
Sull’altro lato, lungo quello che era un tempo un oliveto si ammucchia la spazzatura. La disparità fra il lato palestinese e quello israeliano è rafforzata dal forte investimento pubblico in servizi nella parte israeliana, dalle fogne alle strade ben illuminate.
La segregazione forzata di due mondi che erano sino a tempi recenti intrecciati, ha prodotto alcune bizzarre soluzioni di progetto. Vicino a Betlemme, una sezione del muro devia bruscamente a seguire il lato di una strada che collega il territorio israeliano alla Tomba di Rachele, dove si dice sia sepolta la matriarca biblica. Alla fine, il muro devia ancora sino a seguire l’altro lato della strada, un tempo attiva striscia commerciale per turisti: ora la zona su entrambi i lati di questo corridoio è una città fantasma.
Gli israeliani che guidano da Gerusalemme a Betlemme ora utilizzano due gallerie e un ponte per passare attraverso l’ énclave palestinese di Beit Jala.
Sopra i tunnel, i militari stanno costruendo una barriera di cemento che divida Beit Jala in due, tagliando fuori molti coltivatori palestinesi dai propri campi.
”Se si accettano le premesse della separazione” dice Meron Benvenisti, ex vicesindaco di Gerusalemme “emergono idee che alla gente normale sembrano folli, ma qui cominciano ad apparire logiche”.
Nemmeno la Città Vecchia è esente da queste contorte strategie di pianificazione urbana. Per secoli, lo Haram al Sharif, o Monte dei Templi, è stato sacro ai musulmani come luogo della Cupola nella Roccia e della Moschea di Al Aksa, e agli ebrei come luogo dove un tempo sorgevano i loro antichi templi Primo e Secondo. Nel 2000, il Presidente Bill Clinton suggerì al Primo Ministro Ehud Barak che Israele potesse controllare l’area “sotto” Haram al Sharif, così che gli israeliani potessero scavare le rovine dell’ex Tempio di Salomone, mentre i palestinesi assumevano sovranità sulla superficie e il complesso delle moschee.
Il piano fu respinto, ma la logica che gli sta dietro – ovvero che Gerusalemme possa essere affettata per strati orizzontali – è molto viva. E minaccia di fare a pezzi la città.
Recentemente, i pianificatori israeliani hanno suggerito che fossero creati spazi pubblici per rimediare al sovraffollamento de quartiere musulmano nella Città Vecchia. Ma l’idea ha sollevato la preoccupazione che potesse trattarsi del primo passo verso la demolizione di alcuni dei vecchi edifici residenziali: un’eco della distruzione delle case musulmane dopo la ripresa del quartiere ebraico da parte di Israele nel 1967.
Alcuni critici sostengono che l’abbellimento della Città Vecchia fa parte di una strategia per mandar via i palestinesi da Gerusalemme. Certamente, comporterà la rimozione di parte delle caratteristiche architettoniche, cancellando strati della sua storia.
Ma forse la vittima più inattesa della barriera sarà lo spirito cosmopolita che da’ a Gerusalemme il suo senso più profondo, di luogo intermedio dove si realizza il dialogo quotidiano.
Le conseguenze vanno oltre la ghettizzazione di israeliani e palestinesi. Il muro distrugge lo spazio un tempo occupato dagli ambiti intermedi: chi rifiuta di dividere il mondo fra buoni e cattivi, civiltà e barbarie. Minaccia di tagliare i fili, già deboli, che potrebbero un giorno intrecciarsi in un’immagine più tollerante di coesistenza.