La Lucania o Basilicata è la terra di mezzo tra la Puglia, la Campania e la Calabria. Una terra di mezzo fatta da territori diversificati, dunque complessa. E’ anche la terra di un tempo più lento, di lunghi silenzi, forse perché si compone di solamente 131 comuni di cui solo le due province Potenza e Matera raggiungono i 60 000 abitanti. Dunque la regione dai due nomi si caratterizza di tanti piccoli paesi. La dimensione del paese è una realtà che lascia poco spazio ai giovani. E’ quella realtà stretta che spezza il respiro, troppo apprensiva per capire la voglia di cambiamento che morde l’animo di un giovane adolescente. Così si cresce con un unico sogno di riscatto: andarsene. Una concezione, cresciuta e pasciuta negli animi dei giovani lucani perché si sono sempre sentiti ripetere: “qui non c’è niente”.
La città però lascia un senso di inquietudine a volte, soprattutto quelle grandi città fatte di palazzi e strade ed auto, certe volte provocano un non so che di disturbo. Il passo svelto che non permette neanche di osservare, capire i luoghi, ma si corre perché il tempo è dettato dalla tirannia di un orologio che è sempre troppo svelto rispetto al proprio di ritmo, lieve e pacato, al proprio di ritmo che sia dettato dalla propria volontà e mai da quella del flusso a cui necessariamente ci si deve adattare. Così si possono fare scelte contro corrente, per studiare non si sogna di andare in chissà quale grande città, ma restare in un luogo non troppo lontano così da poter ritornare quando la nostalgia chiama. Matera, in tempi decisamente non sospetti, era quella realtà non troppo lontana, una realtà che risultò una scoperta perché per i lucani del Sud era una realtà estranea, pur essendo della medesima terra. Matera, città strana nel bel mezzo di una terra arsa e brulla, che si affaccia su gole cupe, che se si è abituati a distese di larghe vallate, ci si sente chiusi in una claustrofobica realtà di un paesaggio estraneo. Matera era nell’immaginario una città pugliese e lo era soprattutto nei suoi colori, il tufo tanto diverso dalle pietre di fiume di cui sono fatte le case dei paesi a meridione. Ma un tratto comune pure lo si ritrovava, nella Matera di allora tutto era fermo e veramente non c’era molto. A passeggiare in un umida sera di febbraio di quell’ormai lontano 2010 non un’anima viva, non un locale aperto sino all’ora di dopo cena e non pareva molto diversa come realtà da quella di un paesino lucano sperduto sul Pollino.
Vivere a Matera per 8-9 anni ha significato vederla cambiare con i suoi abitanti arresi e ormai rassegnati, tifare per un nuovo spiraglio di futuro. Chi la città ha cercato di studiarla dalla facoltà di Architettura, la osservava e vedeva capovolgersi delle concezioni fino ad allora immutate: i Sassi e la loro vergogna che oggi sono il riscatto e i nuovi quartieri il riscatto di ieri che oggi sono le periferie lasciate a sé stesse, è un andare a passo di gambero che capovolge il progresso in regresso e il regresso in progresso?! Come la si voglia leggere o interpretare resta il fatto che all’indomani del titolo di Capitale Europea della Cultura qualcosa nell’aria è cambiato, le strade sono più affollate e pian piano, senza neanche accorgersene qualcosa è cambiato. Molti lo hanno creduto, tanto che il proliferare di negozietti ed attività è diventata una realtà così consolidata che l’apertura di un nuovo locale ormai non stupisce più nessuno. Un dato allarmante però resta, camminando per le sue strade sono più i canuti che gli sbarbati. Oggi, nell’anno di Matera Capitale Europea della Cultura però, una domanda dovremmo anche porcela per un futuro diverso: quali possibilità occupazionali, dunque di futuro, offre la città ai suoi giovani e nella fattispecie a quelli che ha formato?
Dunque se Matera non accoglie come dovrebbe, o meglio non trattiene come dovrebbe si ritorna alle origini, al piccolo paese di montagna vicino alla fine estrema della regione, si ritorna a Cersosimo. La scelta di ritornare è costosa, è faticosa e ha non poca rabbia dentro. Lo si ama il proprio paese natale, di un amore viscerale anche inspiegabile forse, ma si hanno anche alcune consapevolezze che non lasciano molto spazio all’ottimismo. Oggi si ritorna e gli amici di un tempo non ci sono più, tutti sparpagliati altrove, un altrove fatto di emigrazione. Ci si può opporre con ostinazione a rimandare questo triste giorno, ma il paese è lento poiché è popolato prevalentemente da anziani e i giovani sono una specie unica quanto rara! Così rispolverando certi ricordi, certe speranze, che ora acquistano un certo sapore di utopia se si lascia spazio alla consapevolezza di oggi e pur avendo ben chiaro nella mente le unicità della propria terra natale, una triste consapevolezza tiranneggia sulle proprie convinzioni: l’assenza di politiche atte a creare concrete possibilità di sostentamento, di miglioramento e di sviluppo.
I giovani del mio paese e più in generale del meridione sono dipinti in un modo che li denigra, li etichetta ma che non mette in evidenza la realtà difficile che si vive. Paradossalmente si hanno molti più mezzi, ma anche molte meno possibilità. Condannati eternamente ad essere “ragazzi”, cimentandosi al massimo in attività che vengono spacciate per volontariato ma che per il dispendio di impegno che necessitano meriterebbero il giusto riconoscimento e compenso. Una vita precaria e senza possibilità di programmazione alcuna, che nei piccoli centri è affiancata da altri aspetti: la solitudine, la mancanza di confronto e quindi la possibilità di crescita. Mai come in questo periodo storico, i giovani sono una minoranza e in quanto minoranza subisce le decisioni di una maggioranza che sceglie in base alle proprie di esigenze e che dunque hanno il respiro di un tempo limitato. Non vi è un’ottica di prospettiva a lungo termine tipica di una giovane età, ci si pone nella condizione di guardare all’oggi e mai a quello che potrebbe essere. Si è persa quella immaginazione che è salvifica soprattutto in territori dimenticati come i nostri piccoli centri.
Il dibattito dell’abbandono e dei paesi fantasma è comune a molti territori della nostra penisola. All’interno della strategia dello sviluppo delle aree interne si punta proprio a invertire questa tendenza. Gli approcci messi in campo, però, sono sempre gli stessi, restano invariati da almeno trent’anni. Non è dunque solamente parlandone con convegni e dibattiti, spesso anche auto-referenziali, che si può avere la presunzione di invertire la tendenza e risolvere uno dei grossi problemi del nostro secolo e cioè lo squilibrio di popolamento che c’è tra alcune aree del nostro pianeta. E’ pura demagogia questa? I territori periferici e più interni ne risultano notevolmente svantaggiati. Bisognerebbe partire da quello che potrebbe essere il vero problema di fondo e cioè l’assenza di scenari di futuro non sui territori, ma nella testa di chi li vive quei territori. Dunque chi è rimasto, conscio della propria sconfitta cerca di non reiterare l’errore e spinge i propri figli a non tornare, investendo per loro altrove. Le soluzioni per risolvere uno scenario desolante e così difficile non le si hanno in tasca, ma dicerto non le si possono ricercare solamente trovando un Caprio espiatorio rappresentato nella poca volontà dei giovani ad invertire la tendenza.
Se si parla di periferia urbana, bisognerebbe cominciare a parlare anche di periferia territoriale, soprattutto dove non si ha un territorio metropolitano a cui far riferimento. Volendo provare a non arrendersi al nichilismo ci si scontra con una triste realtà, che è matrigna, l’assenza di numeri cioè di utenza porta a rendere del tutto fallimentare qualsiasi iniziativa. Dunque quale potrebbe essere la strada per non arrendersi a un destino già segnato? Come si potrebbero ridisegnare nuovi scenari nella mente di cittadini arresi? Basterà veramente uno sporadico evento che vedrà uno di questi 131 comuni Capitale per un giorno a riportare ai suoi monti, alle sue vallate ed ai suoi fiumi la vita? In che modo si potrebbero esplorare nuove forme di residenza? Attenzione “residenza” e non “cittadini temporanei”, come piace al Dossier definire i turisti che momentaneamente si trovano, se si è fortunati a visitare i nostri territori. In che modo si possono metter su delle strategie politiche atte a fare in modo che questi territori ritornino in auge come un modello alternativo di vita che possa essere però al passo con i tempi? Non solo da Capitale Europea della Cultura, non solo perché è trendy, ma perché la Lucania, a partire da Matera, merita un futuro diverso, quello che non è mai stato concesso, fatto di una libertà che possa dare la possibilità di non diventare un grande luna pack, o un museo della civiltà contadina, un mero luogo pittoresco, oggi i paesi lucani sono vuoti e soffrono di tante vite assenti:
Come si può far riconoscere il valore e le potenzialità di un territorio, se non si ha conoscenza del proprio territorio? L’auspicio è che si possano spendere le molteplici professionalità che oggi i giovani lucani, in loco o fuori loco, hanno acquistato per indagare e poi costruire una visione di Basilicata. Ma per far questo non si può demandare tale compito a un sistema altro, ma è necessario partire dalla costruzione di un vero Sistema Culturale che riesca ad approfondire, fare ricerca e coinvolgere prima e poi riattivare i territori, nella propria lettura e poi nel far conoscere i tanti contenuti che una storia ricca come quella che caratterizza il territorio lucano. Non bisogna dimenticare la geografia dei luoghi e quella lucana è una geografia baricentrica che pone la regione al centro del bacino del Mediterraneo, dunque bisognerebbe riflettere sul ruolo geo-politico che una tale posizione investe sia sul suo contesto Nazionale che su quello internazionale. Il contatto con l’Europa che può passare sia in senso fisico solo se si creano adeguate infrastrutture, che in senso più immateriale, attraverso la ricostruzione di nessi e fili interrotti o logori della storia, soprattutto recente.
Una consapevolezza, però dovrebbe restare al centro come un perno per qualsivoglia strategia di sviluppo territoriale:
il futuro di un territorio è nelle possibilità che vengono date ai propri giovani di far progredire quel territorio, altrimenti si è già perso, ancor prima di cominciare.
Vedremo se questo anno da Capitale possa gettare le basi per una rinascita culturale all’insegna della ricerca delle radici di una terra unica e complessa come la Lucania.
La sera della cerimonia di apertura |