loader
menu
© 2024 Eddyburg

"Le scissioni (o le guerre) hanno spesso motivazioni immediate che appaiono irrazionali, al di sotto dell’evento catastrofico che determinano", scrive ieri Peppino Caldarola su Lettera 43 ("Con Renzi il Pd diventerà una Margherita dimezzata".

Una considerazione non ipocrita, finalmente, nel coro dei commentatori a tempo pieno, intenti a simulare stupore/sconcerto/disappunto di fronte ad una scissione che sembra, a loro dire, consumarsi nel maggiore partito italiano per una mera e banale questione di date.

Il fatto è che la questione di date banale non è - dal momento che proprio su quella la sedicente (e comunque assai tiepida) disponibilità di Matteo Renzi a prodigarsi per conservare di quel partito l'unità incontra un ostacolo insormontabile e inderogabile: dead end. Non dovrebbe meravigliare che il che-cosa-viene-prima-e-cosa-dopo polarizzi prepotentemente la libido di un politico che ha sostituito la velocità all'eguaglianza nel quadro dei valori fondativi della sinistra.

Ma anche trascurando la storia delle date, quel che fingono di non comprendere i commentatori, dileggianti gli scissionisti "impiccati al calendario", è che quella sorta di disintegrazione del nucleo, in cui si trasforma di giorno in giorno sotto i nostri occhi la scissione del Pd, è da ascriversi in larghissima parte, esattamente all'insaziabile libido dominandi proprio del segretario uscente.

Dopo l'avventurosa sfida referendaria del 4 dicembre, mostra tuttora, anche nell'estremo presunto (e dovuto) appello ad evitare la scissione, come al di là delle tante stra-parole autoaccusatorie, di non aver ancora capito che cosa il 4 dicembre è stato sconfitto:

"Milioni di italiani chiedono una politica che non sia solo contro qualcuno. Che non sia solo contestazione, ma sia fatta di proposte. Io ci sono e sono in campo. Con umiltà e tranquillità. Ma anche con coraggio e determinazione. Siamo in tanti. Milioni di persone. Non sufficienti a vincere un referendum, d'accordo. Ma in grado di cambiare tante cose. E non rinunceremo a farlo" (Intervista a Matto Renzi di Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 17 febbraio 2017, corsivo mio)

Chi si illuda che con ciò si aprano "nuove fasi" è servito: ci sono tutti gli elementi per capire che, nel Renzi-pensiero, si riparte esattamente dal punto in cui si è lasciato il giorno prima del referendum. E specie per un punto: la "sua" leadership, vera invariante di qualsiasi "discussione aperta", "conferenza programmatica", "convenzione congressuale" e compagnia

Lo si è visto nel vuoto di analisi e di proposta che ha esibito in apertura/chiusura dell'ultima Direzione nazionale, veicolando come unico contenuto intellegibile la necessità che ogni scelta parlamentare o di governo sulle regole (legge elettorale) o sulle grandi questioni (manovra aggiuntiva), come ogni scelta che riguarda il partito (congresso, elezioni, persino il sostegno al governo Gentiloni, che si è vergognosamente rifiutato, tramite lo stridulo Orfini, anche solo di mettere ai voti...) sia in ogni caso modellata sulle sue proprie esigenze/opportunità contingenti o immediatamente a venire.

"L'innovazione... produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l'incarico più gravoso di tutti", scriveva Renzi nel 2014 a commento della nuova edizione di Destra e sinistra di Bobbio, proponendo di sostituire alla polarità distintiva eguaglianza/diseguaglianza quella, più aggiornata, innovazione/conservazione.

Quel testo è stato per molti versi profetico - oltre che programmatico, subito interpretato come "manifesto" di governo - di ciò che dalla leadership del nostro ci si poteva/doveva aspettare...

Molti, dentro il Pd - spesso per quel mix di acquiescenza ed opportunismo di sapore vagamente feudale che Fausto Anderlini descrive in Alea iacta est , che vi invito a leggere, - hanno sorvolato sulle implicazioni della nuova polarità, seguendo il capo come leali vassalli nella sua corsa all'innovazione sans phrase.

Quando è la velocità il massimo valore, meglio sgombrare il campo da ogni tediosa perdita di tempo, come per esempio fermarsi a pensare. Si potrebbe diventare rapidamente sospetti...

E molti, nella c.d.minoranza interna, hanno inghiottito rospi, non facendo nulla a lungo per frenare quella corsa. Hanno subìto - anche per colpa loro - accuse di codardia e tradimento dalla base per ogni fiducia votata in Parlamento, dal job acts alla buona scuola, fino al riscatto, almeno, sulla riforma costituzionale.

Ma quella corsa era destinata a continuare solo fino a quando fosse stato lui, Renzi, a indurre nell'ambiente il cambiamento, non il contrario.

E oggi è proprio lui a mostrarsi incapace di percepire i mutamenti dell'ambiente, e del tutto restio, per usare le sue parole, a "cambiare se stesso".

Ed è proprio questo il fattore Sarajevo, per cui il vaso, da tempo colmo e in precario equilibrio, trabocca. Ancora una volta, la determinazione a occupare a qualsiasi prezzo, sconfitte politiche comprese, un posto che ritiene sia di diritto suo...

Un politico non può dire "ce ne andiamo perchè il segretario è fuori controllo" - anche se molti in questi giorni hanno provato a lasciarlo intendere tra le righe: perchè è un bambino ingenuo e innocente che si alza, nella favola, per gridare a tutti gli altri che il Re è nudo...

Il Messaggero veneto ha pubblicato, il 7 febbraio, lna lettera (“La lettera di Michele che si è ucciso a 30 anni”) che la rete dei social network ha ampiamente...(segue)


Il Messaggero veneto ha pubblicato, il 7 febbraio, luna lettera (“La lettera di Michele che si è ucciso a 30 anni”) che la rete dei social network ha ampiamente ripreso. È alla lettera di Michele che mi riferisco in questa riflessione.

Ci sono immagini che restano scolpite nella pietra. Sono immagini di realtà che, prima ancora, sono state incise per sempre nella carne e nelle ossa di chi le ha viste in faccia, e ne ha lasciato memoria. Una di queste è la topografia assoluta di Primo Levi de I sommersi e i salvati. Una realtà definitivamente e per sempre tripartita, i sommersi, i salvati; in mezzo, con i suoi contorni nebbiosi, la “zona grigia”.

Se il lager è, come suggeriscono alcuni forse non a torto, la metafora più pregnante del mondo in cui viviamo – allo stesso modo in cui si era detto che il carcere fosse la metafora par excellence degli Anni ’70 -, non è difficile oggi, in Europa, sapere chi siano i “sommersi”, qui, nei paesi che si protendono sul grande pietoso cimitero che è diventato il Mediterraneo. Sepolti nelle profondità marine perché la loro fuga non è andata a buon fine. Altri “sommersi”, che apparentemente ce l’hanno fatta perché ancora viventi, abitano i sotterranei e le friches delle nostre città, e a volte muoiono durante le rigide notti d’inverno.

Si può pensare che, per simmetria, “salvati” siano quanti semplicemente non sono finiti in fondo al mare – ma non è così semplice.

Si diceva dei giovani in fuga dall’Italia, lunga è la polemica sui cosiddetti “cervelli in fuga”, grandi sono i sacrifici e le aspettative che la nostra generazione di genitori ha investito sul buon esito di quella fuga. Perché quei figli siano, alla fine, i “salvati” dalle minacce del mondo. Un mondo che non c’è più la speranza di poter cambiare nell’arco di tempo della singola esistenza, un mondo in cui cercare luoghi al riparo.Dove stava Michele, che si è tolto la vita?, il ragazzo che ha lasciato quella lunga lettera che pesa come come un lucido, potente, ineludibile atto di accusa, in particolare, scrive, “un’accusa di alto tradimento”. Un atto d’accusa circostanziato, esploso nei dettagli.

Dove stava Michele, che ha scelto lucidamente la parte dei “sommersi”, perché dei sommersi sentiva di condividere la frustrazione, l’impossibilità di vivere per sopravvivere, il destino del “minimo”?

«Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile.Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione»

Nel maneggiare la parola del ragazzo morto sorge un fastidioso spontaneo pudore - e tuttavia anche la convinzione che a quella parola, a quella lettera che ha curato - e che comunque ha saputo scrivere magistralmente, dall’altra parte del cielo malato della sgrammatica fastidiosa dei social -, a quelle ultime parole chiare cui ha affidato il suo pensare e sentire Michele tenesse, e tenesse anche al fatto che venisse letta.

Tutto si scrive perché, prima o poi, qualcun altro legga…

«Sono… stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi…»

Quello che appare in queste parole è un mondo dove “vincere” è divenuto nuovamente in modo strisciante un imperativo categorico – per un’intera generazione di giovani occidentali. Un mondo che impone di “vincere” può uccidere i propri figli in molti modi: Quello in cui è morto Michele è uno di questi.

Ma Michele - allo stesso modo dei corvi del SonderKommando, che hanno sepolto la loro storia dentro barattoli-stagni all’ombra delle betulle bianche di Birkenau -, Michele ha lasciato scritto, chi e come lo ha ucciso. Condannato nella “zona grigia” del “sopravvivere” al “minimo”, poiché niente di più avrebbe avuto chi come lui appartiene a una generazione perduta - consapevole tuttavia, e desiderante, del “massimo”, e stanco di “invidiare”, lui, che pure sopravvivere avrebbe potuto, ha scelto il reticolato.

«Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile».

Ci si chiede in giro che cosa avrebbe potuto fare ognuno di noi: la potenza della parola di Michele fa male, piega la parola, irride il dolore, cancella il senso.Ci si può chiedere però, al contrario, quanti di noi o dei nostri prossimi non siano in realtà già molto vicini, alle condizioni di Michele: non condizioni psichiche o fisiologiche o altro. «Condizioni oggettive». Perché quanto ci separa dall’abisso dei sommersi, anche qui, nel cuore dell’Occidente, può trovarsi ad essere solo un crosta sottile. Che può frantumarsi sotto i nostri piedi per un battito d’ali…

Riconoscere Michele in noi stessi - la sua frustrazione nella nostra, la sua delusione nella nostra, la sua miseria nella nostra, la privazione del suo diritto nella nostra, la sua sensibilità “sbeffeggiata” in quella di ciascuno di noi - questo può essere un modo per far qualcosa che forse avrebbe desiderato: cercare di capire…Fino a che quella crosta sottile non si frantumi anche sotto i nostri piedi…

Isabella Conti, la sindaca di San Lazzaro di Savena che si è opposta alla “colata di cemento” voluta da privati e cooperative, ha espresso, un po’ a sorpresa, una critica decisa, persino sdegnosa... (segue)

Isabella Conti, la sindaca di San Lazzaro di Savena che si è opposta alla “colata di cemento” voluta da privati e cooperative, ha espresso, un po’ a sorpresa, una critica decisa, persino sdegnosa, nei confronti di contenuti e relatori del convegno "Fino alla fine del suolo", organizzato il 3 febbraio a Bologna dai gruppi consiliari regionali del Movimento 5 Stelle e de L’Altra Emilia-Romagna.

Dice fra l'altro Conti: "Non tollero questo atteggiamento da filosofi in punta di penna o noi qui in trincea a trovare il meglio per i nostri territori...".

Le sfugge, forse, o forse non ricorda che per esempio Vezio De Lucia – uno dei relatori -, già dirigente dei Lavori pubblici, cacciato all'epoca dal ministro Giovanni Prandini, è stato fra le tante altre cose assessore all'Urbanistica del comune di Napoli... Già, perchè, amministratori o tecnici, siamo stati tutti quanti "in trincea", e alcuni di noi lo sono stati in situazioni e frangenti decisamente difficili...

Questo “vuoto di memoria”, diciamo così, dà qualche indizio eloquente sul retroterra reale di questa leva di amministratori e politici, che a tutti i costi e in ogni occasione rivendica la propria condizione di vaterlos, senza-padre. Questa “orfanità originaria”, rivendicata, esibita, sfidante, è tema ormai ricorrente nella politica italiana, da quando le interpretazioni “classiche” della psicanalisi – Freud, Sofocle, Edipo… - sono state pubblicamente messe in mora dal nostro (ex)-giovane ex-premier, a favore invece della costellazione propugnata dallo psych più à la page Massimo Recalcati: – Recalcati (appunto!), Omero, Telemaco… “Siamo la generazione di Telemaco”, ebbe a dire l’ex-giovane ex-premier…

Salvo poi, come ha notato con particolare e piacevolmente ironica profondità Alfredo Moranti sul suo blog "Il carteggio Aspern", salvo poi, non appena qualcuno tira in ballo l’eredità in termini di dobloni (il patrimonio dell’ex PCI, per capirci), rivelarsi molto diversi dall’adamantino virgineo figlio di Ulisse, per mostrare al contrario una meno nobile parentela con i Proci…

C’è un’altra fondamentale differenza: diversamente da chi mostra simili “vuoti di memoria”, Telemaco ricorda, per questo attende, per questo non cede. Per questo, infine, riconosce il padre, si riconosce non-orfano. Gli orfani originari rifiutano di ricordare – e specie se si tratta del passato di qualcun altro.

C’è spazio solo per il proprio presente – per la patetica nostalgia del proprio, luminoso, futuro…

"Ciò che hai ereditato dai padri, dice Goethe, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero". In questo caso, invece, all'eredità si rinuncia con decisione e ripulsa.

Senza nemmeno conoscere la sua consistenza, a prescindere. È sufficiente che faccia capolino un minimo di prestigio professionale o accademico della generazione di chi, anziché trovarsi in alto mare o tra le braccia di Circe, come ogni serio buon padre Ulisse dovrebbe, non solo torna, ma osa anche parlare, perchè la generazione dei senza-padre metta mano metaforicamente, come quel celebre Ministro della Cultura, "alla pistola". Perchè si deve impedire in ogni modo che chi è tornato metta le mani su quell’arco che, solo, è in grado di tendere…

Noi non siamo stati una "generazione Erasmus" - a parte l'arretratezza dell'integrazione europea (Erasmus era di là da venire) -, molti di noi hanno avuto l'ambizione di poter mettere le proprie piccole o grandi capacità al servizio di questo Paese.

E qualcosa vorrà dire se, oggi, chi si trova in quella che fu la nostra condizione - i giovani, e soprattutto i giovani dotati di alta formazione -, opta decisamente e senza esitazione o rimpianti per la fuga dall'Italia - esplicitando la convinzione che, quali che siano le tue intenzioni o le tue capacità, per il Paese non c’è forse quasi più niente da fare..

La "trincea" resta allora appannaggio di chi programmaticamente non ha eredità nè memoria, di chi non avrebbe mai l'umiltà di ammettere che si trova nella necessità di "riconquistare" qualcosa - dal momento che detiene, e solo per la sua nascita, sotto il pastrano il bastone di maresciallo...

Purchè quell’arco di cui si diceva resti il più possibile fuori portata, sepolto nel “passato” che non è il caso di ricordare…


L’intervista a Isabella Conti, di Beppe Persichella, è su Il Corriere di Bologna, 5/2/2017, “Conti contro gli ambientalisti – “Sono filosofi, noi in trincea”

L’esito delle recenti elezioni regionali ha dimostrato (immagino, fra molte altre) almeno un paio di cose sulle quali, relativamente trascurate dai teatrini televisivi, può essere il caso di soffermarsi.

La prima: la generale e acquisita maturità dell’elettorato cattolico italiano, chè si è mostrato definitivamente emancipato e ‘adulto’ nei confronti di eventuali (auspicati?) imperativi a serrare i ranghi di una ‘confessionalità’ politicamente monodirezionale. La prepotente ondata emotiva (non banale, né marginale od effimera) che ha accompagnato la morte di Giovanni Paolo II non ha, in altre parole, dato luogo alle conseguenze che sessant’anni di avventura politica dei cattolici italiani ci avevano in qualche modo abituato, con una sorta di preventiva e rassegnata preoccupazione, ad aspettarci. E tale e tanta dev’essere stata la sorpresa, che qualcuno, tra le file della CdL, non è proprio riuscito a trettenersi, se è da attribuirsi all’esimio La Loggia l’affermazione secondo la quale le elezioni sono andate come sono andate in quanto ‘l’elettorato era distratto dalla morte del papa” – affermazione che ha subito sollevato l‘infuriata protesta dell’Osservatore Romano, scandalizzato dal fatto che qualcuno non solo si azzardi a pensare cose simili, ma abbia anche la spudoratezza di esternarle.

Se quell’ondata emotiva ha avuto conseguenze politiche, deve evidentemente trattarsi di altre conseguenze, inedite e non previste – che tocca ora ai supposti depositari dell’eredità di quello che fu voluto da De Gasperi e dalle coeve gerarchie vaticane come il ‘partito dei cattolici italiani’:

questo, al di là della misera cucina degli avanzi che discetta di voti di fiducia e/o rimpasti, è il filo del rasoio su cui il partito di Follini (ma anche di Buttiglione) è volente o nolente chiamato ad avventurarsi.

La seconda implicazione, decisamente rassicurante, è che queste elezioni hanno premiato il gioco di squadra e penalizzato i personalismi: linea da tempo attesa, in questo paese, da chiunque, ed alla quale anche un narcisista di lungo corso come Massimo d’Alema, che è al tempo stesso vero uomo politico, si è immmediatamente conformato, archiviando i bisticci preelettorali sulle primarie, e utilizzando al meglio la propria vis polemica per stringere all’angolo esattamente il narcisismo dell’avversario – il quale, umilmente (nozione aliena alla cultura narcisistica come al diavolo l’acqua santa), si è prestato ad un confronto televisivo pubblico e stranamente non si è nascosto, come è accaduto invece in altri frangenti.

Perché con la CdL è stato sconfitto – meglio (non siamo troppo ottimisti): si è cominciato a scalfire - anche uno dei pilastri della sua ideologia: il narcisismo cesaristico incarnato dal premier e la sua relativa efficacia carismatica, e, per converso, l’illusione mimetica che aveva sedotto milioni di italiani poveri e diseredati secondo l’improbabile imperativo del “diventa anche tu ciò che io sono, se è andata bene a me, che non sono altri che un italiano, non si vede perché non dovrebbe andar bene a tutti…”.

La smentita secca delle urne è oggi all’origine della ennesima verifica o resa dei conti all’interno del Polo – ma credo che abbia qualcosa da insegnare anche a sinistra. Se il narcisismo non paga più, se la sua cultura mostra la corda, ciò vale a maggior ragione per chi rispetto a quella cultura rivendica la propria alterità e differenza.

E in questo contesto rinnovato, in questo quadro grigio che lentamente riprende colore, stride con ancora maggior violenza la disputa che si consuma sul teatro politico veneziano: una disputa le cui ragioni mal si comprendono lontano dalla Laguna – e, probabilmente, anche a Murano o a Torcello, ma che mostra inequivocabili i segni residui, i ‘colpi di coda’, di un narcisismo che evidentemente stenta a farsi da parte, fatica ad essere razionalizzato, e inevitabilmente deborda in derive non controllate, certo destinate ad arenarsi miseramente, mostrando l’intera miseria del proprio fondo fangoso, ma non per questo persuase a rinunciare a ciò di cui il narcisismo sopra ogni altra cosa si nutre: dare spettacolo, fosse anche il peggiore spettacolo che si possa mostrare.

“E quando l’Agnello ebbe aperto il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per lo spazio di circa mezz’ora”. (Apocalisse, 8, 1).

E’ destino di questa misera umanità conoscere in frangenti sempre più rari, privati e preziosi, la liberazione del silenzio. Una parola inarrestabile e ininterrotta, una parola sempre più volatile e priva di peso, svalutata e abbrutita dal suo incoercibile continuare a parlare, voce rauca dall’obbedienza all’implacabile imperio che vuole che lo spettacolo comunque continui, uno spettacolo che parla mostrando la propria stessa nudità, il proprio stesso abissale non avere più niente da dire – questa parola che nel proprio eccesso non riesce più a farsi ascoltare – occupa d’autorità l’intera scena dell’attuale frangente della ‘commedia umana’.

Da questa parola – che parla senza ormai più dire – apparentemente non c’è, nella quotidianità del nostro occidente, via di fuga o strategia di salvezza.

Così, accade che l’agonia di Giovanni Paolo II – meglio, la parola che dice attorno a quell’agonia – invada di sé l’intero tempo di questi ultimi giorni, di queste ultime ore: una parola che pretende dire dell’agonia di chi, paradossalmente, si appresta a perdere la vita terrena quasi subito dopo aver perso la voce – dell’agonia di un uomo la cui parola, in qualunque contesto accepita, non poteva per definizione essere considerata se non pesante, densa di valore, destinata (in modo affatto inattuale) a lasciare segni.

Ironia della sorte – figura retorica laica; ma ironia forse del volere divino, agli occhi (alle orecchie?) del credente. E soprattutto quando si sa, dall’eccellente pierre Navarro Valls, ma non solo, che il combattitmento delle ultime ore del papa, la sua letterale agonia, usa le proprie ultime energie nel tentativo di accedere ancora alla parola, di comunicare: brandelli di frasi, dice Navarro Valls, che abbiamo ricostruito; biglietti dal letto di morte, secondo alcuni giornali.

Ma inesorabilmente – si senta o meno Karol Woitiła, come i patriarchi, non solo ‘vecchio’, ma anche “sazio di anni” -, inesorabilmente la sua voce pesante è destinata a tacere.

I giorni di nostra vita – ammonisce il salmo 90 – fanno in sé settanta anni, e se siamo robusti ottanta. E la tradizione vuole che il salmo 90 sia attribuito a Mosè – patriarca che senza dubbio morì vecchio, ma che al tempo stesso, non potendo godere i frutti dell’immensa impresa dell’esodo che aveva condotto per conto e con la stretta collaborazione di Dio, molto probabilmente non potè dirsi “sazio di anni”: qualcosa, e anzi la cosa principale, la conclusione della sua intera impresa, restava per volontà divina precluso ai suoi passi, raggiunta la terra di Canaan, Mosè non potè entrarvi. Per quanto vecchio fosse, la sua sazietà non avrebbe comunque potuto esser piena, la sua misura sarebbe rimasta non colma.

Ora, può essere che il papa avverta a sua volta una propria specifica mancanza di sazietà, e che questa riguardi proprio quella che potrebbe leggersi come estrema condanna al silenzio.

Per contro, la parola leggera e inesorabile che costituisce ormai il nostro ambiente di vita – un ambiente le cui peculiari condizioni di inquinamento e sostenibilità andrebbero infine silenziosamente esplorate – dilaga traboccando con dovizia alluvionale: feconda forse sottili strisce di terra, come si diceva del Nilo – ma per la più parte, come è proprio delle alluvioni, devasta, cancella, fa tabula rasa di tutto quanto sommerge.

E, in tutto questo, non tutto il male nuoce. Il diluvio di parole sul papa ha, almeno per una breve parentesi, costretto al silenzio altre chiassose e fin troppo consuete ‘corali’: il vociare sempre più stanco della politica, il reiterare onanistico di una campagna lettorale perenne – ma, per esempio, anche il vociare della domenica calcistica, con i suoi annessi sguaiati e urlati modello Simona Ventura. Anche su questa terra, anche prima dell’Apocalisse, non si può dire davvero che il silenzio sia necessariamente un male.

E il suggerimento che viene dal ‘cielo’ che contempla l’apertura dei sigilli - il suggerimento che viene dal silenzio del sabato della recente liturgia pasquale – è che perfino la parola più definitiva e pesante, perfino la parola ultima, perfino la parola di Dio, ha bisogno, proprio per lasciare segni, del contraltare altrettanto pesante del silenzio: un silenzio che sia capace di uscire dal ‘minuto’ canonico post mortem (li vediamo già, i nostri parlamentari, in piedi, mutamente commemoranti), per entrare nel tempo del prima – poiché non si dà musica senza pausa, e, credenti o meno che si sia, credo che un uomo come è stato questo papa non meriti di morire sommerso e imbrattato da tale e tanto rumore.

Nessun’altra parola può darci un indizio sui sentimenti che il distacco dalla vita e dalla terra, inevitabilmente visti come prossimi dal poeta anziano, ma forse ancora non “sazio di anni”, se non le sue stesse, nella meditazione sulla prima stazione della Via Crucis al Colosseo del 1999: quando scompare chi molto ha detto è scritto, è prima di tutto lui, che deve continuare a parlare:

Padre mio, mi sono affezionato alla terra

quanto non avrei creduto.

È bella e terribile la terra.

Io ci sono nato quasi di nascosto,

ci sono cresciuto e fatto adulto

in un suo angolo quieto

tra gente povera, amabile e esecrabile.

Mi sono affezionato alle sue strade,

mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,

le vigne, perfino i deserti.

È solo una stazione per il figlio Tuo la terra

ma ora mi addolora lasciarla

e perfino questi uomini e le loro occupazioni,

le loro case e i loro ricoveri

mi dà pena doverli abbandonare.

Il cuore umano è pieno di contraddizioni

ma neppure un istante mi sono allontanato da te.

Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi

o avessi dimenticato di essere stato.

La vita sulla terra è dolorosa,

ma è anche gioiosa: mi sovvengono

i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.

Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.

Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.

Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?

Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?

La nostalgia di te è stata continua e forte,

tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.

Padre, non giudicarlo

questo mio parlarti umano quasi delirante,

accoglilo come un desiderio d’amore,

non guardare alla sua insensatezza.

Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà

eppure talvolta l’ho discussa.

Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.

Quando saremo in cielo ricongiunti

sarà stata una prova grande

ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.

Ma da questo stato umano d’abiezione

vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.

Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,

ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.

Qui termina veramente il cammino.

Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.

Ma tu sai questo mistero. Tu solo.

Ma mi piace esprimere il dolore della perdita di Mario Luzi anche nelle parole intonate di un piccolo gruppo di lettura, che ci aiuta a ricordare il ‘ritratto’ del personaggio; sono quelle che seguono:

Mario Luzi proprio l’anno scorso ci aveva offerto una lettura magistrale di Tetrarca e altre cose.

Ne abbiamo prodotto un dvd in collaborazione con il Dipartimento di Italianistica. In un’intervista parallela con Sergio Cofferati, ospitata sul Domani a cura del nostro Andrea Severi, aveva parlato del ruolo civile della poesia.

Non aveva avuto la minima diffidenza a diventare subito amico di un piccolo gruppo come il nostro. Bastava una telefonata ed era a nostra disposizione, per leggere, per parlare, e bastava un saluto per essersi detti tutto.

Abbiamo imparato che i veri grandi sono naturalmente accessibili, non sono foderati di segreterie, non sono scostanti. Lui era un nostro amico.

Associazione "La Bottega dell'elefante", gruppo di lettura bolognese,
infoelefante@fastwebnet.it

Non ho conosciuto molto a fondo Renzo Imbeni: come spesso accade nei mondi della politica, è stata una conoscenza più ufficiale e superficiale, affidata alle occasioni rituali delle riunioni di direzione e dei congressi. Una piccola polemica, tra il serio e il faceto, ricorreva tra lui e me, come del resto tra lui e tutti i fumatori irriducibili, e immancabilmente, in tempi, si direbbe oggi, tabagisticamente non sospetti, ricordo la sua premura nel porre all’approvazione di qualsiasi consesso la regola, da me tollerata di malumore, che per l’appunto metteva al bando il fumo da tabacco dalla discussione.

Ma sono stata sua cittadina, per tutti i lunghi anni in cui è stato Sindaco; forse anche, indirettamente – ma sicuramente, per quei tempi, con qualche fondamento di verità – sono stata sua cittadina anche prima, quando era Segretario della Federazione del PCI di Bologna, e quando il rapporto Comune-Partito era di natura ben più pregnante di quanto non lo sia divenuto con il passare del tempo – per non parlare dell’oggi.

E allora, durante tutti quegli anni, un attributo incombeva plubleo come il cielo da neve di oggi sulla città e sulla sua amministrazione: il grigiore – attributo giustificato probabilmente da molti fatti e contingenze, e inevitabilmente esteso alla persona del Sindaco, magari anche da molti dei con-dolenti di oggi. Io stessa non posso dire di condividere tutte le politiche comunali della stagione Imbeni, ed anzi ho preso posizione esplicitamente nei confronti di alcune scelte di gestione urbanistica e territoriale.

Ma con quel Sindaco che ci lascia – perché è sempre il Sindaco di Bologna che si continua a mostrare, anche dietro la Vicepresidenza di un parlamento Europeo frequentato, a differenza della massa degli eletti, con grande assiduità e rispetto istituzionale, anche dietro l’uomo amareggiato dalla sua ultima recente mancata candidatura: è sempre il Sindaco che si ricorda –, con lui sembra chiudersi in silenzio una pagina della vita di questa città che avrebbe forse molte altre cose da dire, che forse le dirà, che può darsi sarà interrogata – ma che per ora non sembra destare troppo interesse…

Ultimo Sindaco eletto col ‘vecchio rito’, ultimo della generazione che precede coloro che, a torto o a ragione, a partire dalle amministrative parziali del 1993, saranno detti ‘grandi Sindaci’, di un tratto del carattere e del modo di porsi credo che a Renzo Imbeni debba essere resa memoria grata: la scarsa propensione alla deriva narcisistica che avrebbe contagiato in breve i Sindaci ‘nuovi’, eletti direttamente, convincendo loro per primi, e spesso in modo durevole, di non essere tanto “Sindaci di grandi città”, quanto “Sindaci Grandi” – per poi restarlo, “Grandi”, ad libitum, qualunque altra cosa facessero, quasi fosse un titolo a vita.

Non che Renzo Imbeni dal narcisismo fosse del tutto alieno. Può anche avere infastidito, in tempi pre-prodiani, l’esibizione ciclistica o podistica di un uomo che restava comunque, anche nell’aspetto, un ex-atleta; può aver infastidito come antidoto irrilevante al ‘grigiore’, o, peggio ancora, come sua quasi demagogica conferma.

Ma la discrezione con cui Renzo Imbeni ha saputo convivere con il proprio male questi ultimi mesi e settimane, il riserbo assoluto, che ha dato alla notizia della sua morte un carattere tanto improvviso e dolorosamente inquietante, e proprio perché sono stati mesi e settimane in cui, questo sì, a livello di ruolo politico non aveva nascosto la propria amarezza per quella che pareva un’ingenerosa ‘messa da parte’ – il fatto che nessun argomento di carattere ‘privato’ sia intervenuto a colorire l’espressione pubblica del suo sentimento, credo che solo questo fatto autorizzi a supporre quanto poteva esservi, dietro l’apparente grigiore, quanta consapevolezza del senso della funzione, quanto spessore inconosciuto, dietro il suo sorriso pronto e la sua bonomia, persino nel suo puntiglio di ex-fumatore pentito. Con qualche rimpianto in più, per non averlo capito in tempo: per non aver capito che, forse, il grigiore, che a un certo punto gli fu affibbiato come maligna etichetta, era più colorato di quanto tanti allora hanno pensato.

risucchia in questi giorni gorghi d’intelligenza con molta probabilità degni di miglior causa - anche se di molti altri simboli, molto più banali e consueti, e tuttavia insinuanti, chissà perchè non discute nessuno. Ma stiamo al tema.

Nell’introduzione a Le querce di Monte Sole, volume dedicato da Luciano Gherardi alle comunità martiri vittime della strage nazista di Marzabotto, Giuseppe Dossetti sviluppa un ragionamento sulle stragi come delitti “castali”, la cui suggestione, ci dice, è nata nel corso dei suoi viaggi in India:

“Certo chi vada in India non può non rimanere impressionato lungo tutto il corso del Gange dalla moltitudine di templi con la svastica. La croce uncinata, che fin dai tempi preistorici si ritrova raffigurata su ceramiche funerarie o rituali e che fu assunta da un certo tempo in poi come simbolo solare, nel 1910 venne scelta come distintivo dei gruppi antisemiti tedeschi, e poi come simbolo del partito nazionalsocialista e infine del III Reich”.

Ora, è noto come non si trattasse affatto di coincidenza: l’urgenza di riconnettersi alle proprie remote radici indoeuropee ebbe la forza di distogliere, a conflitto mondiale dispiegato, uomini e mezzi facenti capo all’Ahnenerbe dagli obiettivi bellici, per spedirli invece ad approfondire le ricerche sulla propria ‘eredità ancestrale’ dalle parti del tetto del mondo. E’ noto anche – questo forse un po’ meno – che la svastica nazista cambia nel corso del tempo. Dapprima perpendicolari, i bracci della croce in seguito sono inclinati a 45°, mentre viene invertito l’orientamento dei ‘raggi’, dal senso antiorario al senso orario. Questa, definitiva, è la svastica che conosciamo (soprattutto dai film di guerra).

Ma naturalmente era impossibile – se non altro, dato l’enorme quantitativo di stoffa impiegata – che questa variazione sul tema desse luogo magicamente alla scomparsa di tutte le vecchie bandiere; così succede che, ancora oggi, scorrendo i vecchi filmati, si assista a parate in cui, per evidenti ragioni di economicità (solo per questo?), le diverse svastiche compaiono assieme – inducendo fatalmente, sia pure in modo subliminale, e sia pure attraverso la bionica lucidità dell’obiettivo di Leni Riefenstahl, un leggero senso di stonatura, la percezione laterale di una dissonanza.

Hitler manomise la svastica per quanto fosse – ed effettivamente era – ‘ancestrale’: ma se anche alle parate ufficiali la commistione dei simboli non faceva la differenza, prevalendo la ‘moltitudine’ su qualsiasi dettaglio, a maggior ragione noi, oggi, non dovremmo sottilizzare troppo, e limitarci ad ammettere che la svastica di Hitler era comunque la svastica indiana.

Ma se così è, e se anzi, come sempre ricorda Dossetti, Pio XI definì la croce uncinata “nemica della croce di Cristo”, dovremmo noi oggi risalire il corso del Gange provvedendo a cancellare una per una tutte le svastiche dagli antichi templi? (i Talebani che hanno fatto saltare il Budda di Bami-an potrebbero in ogni caso fornirci una consulenza).

La risposta è ovvia – ma le implicazioni meno; la svastica è scelta da Hitler non perché è bella, ma proprio perché è un simbolo ancestrale: e di certo anche per questa ragione, implicante neopaganesimo allo stato latente, Pio XI, che non vedrà gli orrori della guerra e l’Olocausto, la definisce “nemica della croce di Cristo”.

Ora, la falce e martello può essere equiparata alla svastica nel suo essere ‘simbolo’ – ma certamente non nella sua connotazione ancestrale: la mano che disegna la falce e martello è quella di una mitopoiesi laica, post-illuminista, post-baconiana: se di simbolo si tratta, trova le proprie corrispondenze in regioni terrene, terricole (la falce!), lontane dall’astrale onnipotenza del sole dai raggi uncinati. Paradossalmente, si tratta di un simbolo ‘debole’, che mostra la propria debolezza nell’obsolescenza degli stessi segni che esibisce (quanti mai hanno visto o toccato dal vivo una ‘falce’?: ma se ne possono trovare ai mercatini dell’antiquariato…). Il fatto che in hoc signo si siano compiute efferatezze non è argomento dotato di spessore, e proprio avendo davanti agli occhi della memoria la croce cristiana, e ciò che nel suo segno l’uomo ha fatto.

Non è il permanere – dove?, sui vessilli?, sui manifesti, sui volantini, sulle T-shirt? – di simboli come questo che ci dovrebbe preoccupare (né occupare del tutto, veramente): di nessun interesse per i cassintegrati FIAT come per i padroncini del nord-est come per le vittime attuali e future della riforma fiscale né a quelle annunciate della campagna per la salute né per i ferrovieri né per i pendolari – questi però costretti, se non altro da misericordiosi ritardi, ad appassionarsi per forza alle opinioni di chi è di turno (!).

C’è un intero universo di microsimboli che sono oggi la falce e martello (quelli concreti: gli atomi, non i bit) quotidiani di chi lavora: un intero linguaggio, un universo semantico dotato di derive magiche e misteriche né più né meno di quanto lo siano le sette religiose; vanno formandosi inavvertitamente cerchie di adoratori dell’icona, del proliferare dell’icona, della sua onnipotenza. Questo è il terreno, oggi, non nel 1930, del neopaganesimo strisciante: quello della presunta ‘intelligenza globalizzata’.

Al di sotto, sotto il pelo dell’acqua del falso egualitarismo che nell’icona si ‘visualizza’, sta il popolo di quanti non l’adorano, ma la subiscono; spesso, anche per meno di 5 Euro all’ora.

Il dibattito sul ddl Lupi si dipana dall’estate 2003 sino ad oggi; in questo lasso di tempo, sul ceppo originario sono connfluiti diversi ddl, di maggioranza e di minoranza; la minoranza non ha ritenuto di presentare una mozione a sostegno di una propria distinta proposta di legge; la VIII Commissione della Camera ha licenziato il 2 febbraio 2005 un “testo unificato” in modo sostanzialmente unanime, salvo ripromettersi – da parte di taluni esponenti di minoranza – di approfondire e meglio discutere in aula alcuni passaggi e/o emendamenti che non avevano a loro giudizio trovato esito soddisfacente in Commissione.

In apertura della discussione sul ddl si fa riferimento da una parte alla riforma costituzionale del 2001 – dall’altra a quella in corso di elaborazione – che come è noto ha portato all’approvazione in seconda lettura da parte della Camera del ddl C 4862 il 15 ottobre 2004.

Anche nel caso del dibattito sulla legge costituzionale, la minoranza parlamentare ha, giustamente, operato per verificare i margini per possibili intese: il Parlamento esiste, e va fatto funzionare; qualsiasi seduzione che spiri dall’Aventino porta con sé una cattiva memoria.

Tuttavia nel corso del dibattito sulla nuova Costituzione, ad un certo punto di quel dibattito, la minoranza ha ritenuto di avere a che fare con un testo ormai inemendabile, di trovarsi di fronte ad un oggetto giuridico non migliorabile attraverso la mediazione del gioco parlamentare.

Ed il dibattito sulla legge costituzionale è solo uno tra i tanti fatti che sono accaduti fra l’estate del 2003 e il primo inverno del 2005 – ivi inclusa anche un’ampia consultazione elettorale; un altro importante appuntamento elettorale è alle porte: si può a giusta ragione ritenere di essere – e sarà così fino al 2006 almeno – nel corso di una campagna elettorale continua.

Benchè abbia poca risonanza mediatica – di gran lunga inferiore a quella di materie quali la bioetica, certo ‘universali’ sul piano dei principi, ma che interessano direttamente un numero ben più limitato di cittadini – il tema del governo del territorio è tema generale, anzi, per usare proprio le parole dell’articolo 42 della Costituzione, tema che può, in determinate condizioni, essere latore diretto dell’ “interesse generale” , né più né meno che l’ordinamento della Repubblica o i diritti e i doveri dei cittadini.

Resta da spiegare perché alla ‘presa di coscienza’ che ha caratterizzato il comportamento delle minoranze parlamentari nel caso della riforma della Costituzione non abbia fatto riscontro nulla di simile nel caso invece della legge per il governo del territorio: e resta da capire (o semplicemente da stare a vedere) quale sarà il comportamento che queste forze politiche assumeranno nella discussione in aula.

Ai cittadini piacerebbe sapere per chi votano, magari non solo guardando i talk show.

Il prossimo 27 gennaio si celebra la giornata della Memoria dell’Olocausto – e ogni anno, di questi tempi, si sprecano commossi e compiti appelli al ‘non dimenticare’ (Retequattro ha scelto lo slogan: “noi siamo ciò che ricordiamo”). Ma al di sotto di questa valanga di commemorazione, noi ‘ricordiamo’ veramente?, e che cosa, precisamente, ricordiamo?

Subito dopo la fine della guerra, Lord Russel di Liverpool, meglio conosciuto come Bertrand Russel, scrisse “Il flagello della svastica”, un testo che, se allora aveva a disposizione una documentazione infinitamente minore di quella oggi disponibile, ha ancora, credo, qualcosa da insegnare. Ci insegna per esempio – in primis a noi cittadini di quest’Europa sempre più allargata – che lo sterminio non fu destino esclusivo del popolo ebraico – per quanto quest’ultimo, in quanto comunità etnico-religiosa, fu effettivamente spazzato via dal territorio d’Europa. Ai sei milioni di ebrei ne corrispondono almeno altrettanti – il numero complessivo è stimato, anche da ricerche recenti, tra i dodici e i quattordici milioni – che non erano ebrei, ma che erano comunque untermenschen. In primo luogo i prigionieri russi – i costruttori materiali del lager di Auschwitz II – Birkenau, nonché le vittime-cavie del primo esperimento con il gas Zyklon B, nella camera a gas di Auschwitz I: si deve ricordare che i prigionieri russi non sono mai stati considerati come gli americani o gli inglesi, per loro nessuna ‘fuga per la vittoria’, ma campi di raccolta all’aperto, senza cibo né acqua, a morire in piedi al freddo. Niente ispezioni della croce rossa, per loro. I russi e gli slavi in genere – compresi gli sciagurati collaborazionisti, ucraini, polacchi, croati – sarebbero stati, a guerra vinta, le vittime successive. Gli stessi Einsatzgruppen che seguivano la prima linea nach Ost, con il compito di effettuare i cosiddetti ‘sterminii caotici’, avevano il mandato di liquidare ebrei e commissari politici (la famosa circolare sui commissari). Poi, come è più noto, gli zingari, gli omosessuali, i sacerdoti cattolici che avevano seguito alcune coraggiose prese di posizione dell’episcopato tedesco, non favorite né sostenute da Roma.

Tutto ciò non per togliere nulla allo squarcio della Shoà come ferita inguaribile del popolo ebraico – cancellazione di intere comunità e di un’intera cultura plurisecolare, quella dello shtetl, il villaggio ebraico dell’Europa orientale, di cui restano memorie non riproducibili come le pagine di Roth e di Singer. Ma, al contrario, per farci sentire la stessa Shoà come problema anche nostro: qualunque gruppo (e non necessariamente minoranza) può trovarsi in determinate condizioni a vivere la situazione di untermenschen: e forse anche a questo alludeva Primo Levi quando ha scritto “se è accaduto una volta, può accadere di nuovo”.

Ancora una volta agli ebrei?, secoli di persecuzioni – e gli stessi sinistri rigurgiti di antisemitismo cui accenna oggi Elie Wiesel dalle pagine di Repubblica sterebbero a dire che qualche probabilità esiste. Ma non è detto affatto che si tratti di loro; o solo di loro. Non mi sento di seguire Elie Wiesel – che pure merita un infinito rispetto – nell’accomunare a questo atteggiamento chi manifesta per le strade contro la politica di Busch e di Sharon dipingendoli come nuovi Hitler: del resto, dovrebbero bastare le immagini di Abu Graib a sollevare qualche dubbio.

Il fatto che il 70 % degli ebrei americani si sia espresso alle presidenziali di novembre a favore non di Busch, ma di Kerry, il fatto che nello stesso Israele esista un problema di obiezione di coscienza a livelli medi e alti delle forze armate, sono altrettanti segnali del fatto che dissentire dalla politica di Sharon non è tutt’uno con l’essere antisemiti.

Ma proprio in occasione della Giornata della Memoria, e proprio ricordando, accanto e assieme agli ebrei d’Europa, le altre vittime, credo si possa cominciare a riflettere anche su un terreno laico di quel loro essere “nostri fratelli maggiori” evocato da Giovanni Paolo II in occasione della sua visita alla Sinagoga di Roma: in questo caso, nel caso dello sterminio, la primogenitura credo vada ricercata in un richiamo forte alla tolleranza, forse il più alto, assieme all’eguaglianza di cui è parente prossimo, fra i valori della cultura laica prodotta da quest’Europa e dalla sua filiazione americana nel secolo delle rivoluzioni.

E si tratta di un valore prezioso anche, se non soprattutto, da un punto di vista religioso: se e in che misura pace è possibile anche nel regno di questo mondo – e teoricamente le tre grandi religioni del Libro dovrebbero concordare su questo – essa è affidata alla conservazione di questo principio. Un principio sempre più spesso minacciato – anche da intromissioni ‘pacifiche’ di istituzioni religiose, come nel caso della Chiesa di Roma e delle ‘radici’ da attribuire all’Europa.

Anche l’Inquisitore di Dostojevskij sapeva commemorare; si può dire anzi che fosse un professionista, circonfuso nella luce dei suoi barocchi paludamenti. Ma al prigioniero-Cristo fece capire senza mezzi termini che era senz’altro preferibile dimenticare, dimenticare persino la sua faccia…

Solo il TG3, e solo timidamente, in coda a un servizio sul blocco della circolazione auto nelle grandi città, ha suggerito l’analogia tra il fumo (quello delle sigarette) e la concentrazione omicida di polveri sottili nell’atmosfera (le famigerate PM10), facendo ricorso allo slogan ormai divenuto eufemismo, a fronte per esempio de “il fumo uccide”, con cui i disgraziati fumatori sono costretti a convivere quasi avessero sottoscritto la regola dei carmelitani scalzi.

Ed è il caso di parlarne proprio nel giorno dello sciopero indetto dai macchinisti dei treni dopo il disastro di Crevalcore, per diverse ragioni. Come ha detto con splendida umiltà istituzionale, sfilandosi dalla disgustosa passerella di ‘autorità’ et similia, il Sindaco di quel comune, Valeria Rimondi, in quella parte del territorio non è possibile che i cittadini abbiano paura di andare in treno: la nebbia, la nebbia assurda che in questi giorni nasconde buona parte della nazione a se stessa, in quella parte del territorio è una compagna abituale, non eccezione meteorologica, ma protagonista di buona parte dell’inverno, di tutti gli inverni, e spesso anche delle altre stagioni. Ci sono dunque ottime ragioni per non usare l’auto – per adottare quel comportamento ‘civile’ che molti pianificatori/trasportisti/ambientalisti auspicano divenga fatto diffuso – che gli stessi provvedimenti di blocco della circolazione auto implicitamente prevedono: fare uso delle reti di trasporto pubblico, e specialmente di quelle in sede propria. Ma la rete ferroviaria italiana è quella che mostra di essere: non è storia degli ultimi anni, ma storia di un capitalismo che ha ritenuto – ancor prima della guerra – di favorire nella produzione auto (nella Fiat) uno dei propri punti di eccellenza: la privatizzazione di FS (la pseudoprivatizzazione, come ogni altra simile che abbia avuto luogo nel nostro paese) ha dato solo il colpo di grazia. Ma, mentre l’obsolescenza dilagava come una muffa nociva, nascosta dal luccichio degli appalti per l’alta velocità, ecco che l’auto italiana, ancorchè protetta in modo quasi indecente dalle politiche economiche ed infrastrutturali di intere generazioni di governi, si è allontanata sempre di più dall’eccellenza, e la stessa Fiat è divenuta ostaggio dell’unica cosa che pare funzionare nel paese: la rendita, in questo caso quella finanziaria. Il decorso dei due fenomeni paralleli non è durato un giorno – ma diversi decenni – nel corso dei quali il capitalismo italiano faceva del suo meglio per perdere altre posizioni di eccellenza (l’informatica, la chimica, l’alimentare), di nuovo, se non per dolo conclamato, per il prevalere di logiche finanziarie su quelle produttive.

Anziché interrogarsi oziosamente sull’attualità o meno di comode astrazioni come la ‘socialdemocrazia’ o il ‘comunismo’, le forze di centro sinistra in questo davvero ‘sinistro’ frangente della vicenda economica nazionale dovrebbero forse per prima cosa tornare a riflettere su che cosa sia, oggi, in Italia, ciò che sbrigativamente si chiama ‘mercato’ – ciò che una volta, più seriamente, si chiamava il sistema capitalistico: solo a quel punto potrà essere credibile ragionare di quale debba essere il rapporto fra questo ‘mercato’ e lo Stato – socialdemocrazia e welfare compresi. Perché non cominciare, per esempio, proprio dagli esiti delle decantate ‘privatizzazioni’?, perché non cominciare la riflessione da quelli che sono stati i ‘nostri’ errori?, che cosa abbiamo da rispondere, allo sciopero dei macchinisti?, abbiamo qualche idea nuova, che ci prometta di poter viaggiare in sicurezza?

Per il momento, è assodato che sui treni non si fuma: diminuiscono (di quanto?) le probabilità che l’esposizione al fumo passivo induca sul nostro organismo i suoi effetti nefasti. In compenso si deraglia e ci si scontra: di qualche morte bisogna pur morire…

E l’attento e consapevole e medico e responsabile ministro Sirchia non ha una parola sulle polveri sottili, non una sul fatto che l’80 % delle merci movimentate su gomma - non tanto la mamma che va in macchina a portare i bambini a scuola - sia tra i principali responsabili dell’avvelenamento dell’aria, della nuvola nera che si addensa sul cielo padano e vaga, spinta dal vento, da una città all’altra, dal groviglio delle autostrade alle nostre misere e ottocentesche ferrovie.

In attesa di un nuovo banco di nebbia che si addensi a nascondere altri disastri, senza però riuscire a nascondere del tutto la nazione a se stessa – e questo anche grazie agli scioperi come quello di oggi.

Il 26 dicembre 2004 una nostra giovane e graziosa collega, Simona Landi, è stata travolta dall’onda Tsunami mentre si trovava in vacanza in Tahilandia, e si è salvata – è tornata quasi illesa, ed è già rientrata al lavoro – nel modo che di seguito racconta brevemente, grazie al suo sangue freddo e ad una sorprendente forza di volontà. Ha ancora qualche incubo, ma pensa di riprendersi presto.

Simona, che ha ancora degli amici sul posto del disastro, ci chiede di diffondere una mail, da lei ricevuta, che fornisce un’utile “controinformazione” nei confronti del torrenziale sproloquio mediatico cui in queste settimane abbiamo assistito. Il dato più inquietante è la connessione tra “notizia Tsunami” e aumento dell’audience – dato che senza dubbio è stato tempestivamente valutato dai responsabili dei palinsesti – per quasi il 90 per cento dell’emittenza italiana, Confalonieri e Cattaneo.

Questo mi ha suggerito la parafrasi del titolo La Svizzera, l’oro e i morti, il libro-scandalo di Jean Ziegler sui beni delle vittime dell’olocausto custoditi nei caveau delle banche svizzere, e sulla decisa resistenza opposta da queste ultime alle richieste di restituzione.

Di seguito, riposto per intero i due messaggi. Non credo che ci sia molto altro da dire.

Ciao

scusate se vi porto via qualche minuto

Molti di voi sanno chi sono e della mia disavventura il giorno di Santo Stefano a Phi Phi Island in Tailandia

Volevo ringraziare tutti di cuore per l'affetto sincero dimostrato nei miei confronti. Grazie per la vostra presenza al mio rientro in Italia e grazie per gli abbracci e gli sguardi commossi al mio rientro in ufficio.

Vi allego di seguito una lettera che ho ricevuto in questi giorni da un volontario italiano conosciuto all'ospedale di Phuket, credo sia importante sentire testimonianze vere da chi vive sul posto.

Vi dico anche che cercherò di "sfruttare" quello che mi è capitato per fare un po' di bene a chi ogni giorno lotta non solo per una casa, ma per un po' d'acqua potabile e il mio pensiero corre soprattutto agli abitanti dello Sri Lanka che avevo avuto modo di conoscere anni fa in un precedente viaggio. Ho atteso i soccorsi per quattordici lunghe ore e in quel breve lasso di tempo avere poca acqua da bere e il rischio di rimanerne sprovvisti mi preoccupava molto. Queste persone il mio timore lo hanno costantemente, ogni singolo giorno ed è terribile. So che siete già stati molto generosi, ma per chi non lo avesse ancora fatto e volesse contribuire, sto raccogliendo fondi da mandare a chi pur non avendo più nulla con noi superstiti è stato molto molto generoso.

Grazie a tutti, è bello potervi riabbracciare!!!

Simona

Simona Landi

Sett. Pianificazione Territoriale e Trasporti

Uff. Supporto alla Direzione

Via Zamboni 13 - 40126 Bologna

tel +39 051 6598018

fax +39 051 6598524

Cara Simona,

qui - fortunatamente - va tutto assai meglio di come appare dai telegiornali italiani. Come sempre accade in occasioni simili, vi sono due realtà: quella dei fatti e quella giornalistica. Le quali si somigliano solo di lontano. Sono quotidianamente informato su toni e contenuti dei notiziari trasmessi da RAI International, che mi lasciano alquanto perplesso. Un nostro amico è incaricato di accompagnare la troupe della RAI in giro per l' isola, in peregrinazioni che se nei primi giorni erano plausibili, ora sono sempre più.....sospette: nel senso che, per quello che c' è di nuovo, potrebbero essersene tornati a casa da un pezzo.

E invece no, stanno lì (strapagati dai contribuenti italiani), a rivoltare notizie già vecchie e ad inventarne di nuove.....che non ci sono, solo perchè Roma ha riscontrato sull' argomento un aumento dell' "audience". Che schifo.

No, Phuket sta bene, è viva e vitale come prima, anche se ha - anche lei - qualche ferita da ricucire. Da più parti ci si augura che questo disastro possa trasformarsi in una occasione per adottare modelli di sviluppo più rispettosi dell' ambiente. E francamente, a questo punto, credo sia l' unica cosa sensata a cui pensare.

Chi ha capito qualcosa, adesso, sta invitando amici e conoscenti che avevano in programma viaggi in Thailandia a confermarli senza timore, anche in questa zona stessa. La rapidità di ripresa di questa gente è impressionante, abbiamo sotto gli occhi esempi che hanno dell' incredibile. Uno dei ristoranti preferiti da me ed Ann e dai nostri amici italiani, sulle rocce di Nay-Harn, era stato completamente spazzato via, non era rimasto in piedi un solo mattone. Bene, dodici giorni dopo siamo tornati a pranzo lì. In dodici giorni è stato completamente ricostruito - e non stiamo parlando di una capannuccia ma di una struttura in muratura di rispettabili dimensioni - più bello di prima, riammobiliato, rimesso in funzione completamente.

In questo momento si trovano prezzi buoni, poco affollamento, spiagge allo stato di 30 anni fa (non so quanto potranno durare...), il tutto in un' atmosfera vagamente "retrò" che ha, credimi, un suo fascino.

Non è, quindi, il momento di fare del terrorismo su Phuket, nè sulla Thailandia in generale. Questo è un Paese con buone risorse e ottima capacità di reazione. Non necessita, fortunatamente, nè di quarantene né di elemosine. Il vero aiuto che gli si può dare, in primo luogo attraverso un'informazione responsabile, è promuovere la pronta ripresa del turismo.

Essendo (non te lo avevo ancor detto) anche corrispondente di un quotidiano ravennate, ho già ampiamente pubblicato considerazioni di questo tenore sullo stesso e su un altro della mia città. Se ti è possibile, ti chiederei di diffondere questa mia lettera attraverso tutti i mezzi che tu possa ritenere idonei, allo scopo di dare un piccolo contributo alla ripresa di questa gente.

© 2024 Eddyburg