Lasciando l'ultima delle sue sette vite così, in punta dei piedi e per di più in esilio, Yasser Arafat ha fatto ancora una volta la cosa giusta per il popolo palestinese. La sua presenza nella prigione della Muqata a Ramallah aveva negli ultimi anni rappresentato, che lui lo volesse o no, un ostacolo per ogni tentativo di pace con Israele. E soprattutto aveva impedito l'emergere di una nuova classe dirigente palestinese: finché il raìs era ancora vivo, l'unico vero capo era lui. Gli uomini del suo entourage non nascondevano il disagio per questa situazione, ma poco potevano fare. Per il suo popolo, anche per i palestinesi schierati con leader e organizzazioni diverse dalle sue, lui era un'icona della causa tanto potente che definirlo mr. Palestine, come facevano gli anglosassoni, appariva quasi inadeguato al ruolo quasi sacrale che in sessanta dei suoi settantacinque anni di vita era riuscito a conquistarsi fra la sua gente e fra la gente dei paesi arabi, compresi quelli i cui governi non lo amavano, anzi lo temevano e lo pagavano senza troppe chiacchiere per tenerlo il più possibile lontano.
Arafat, non dimentichiamolo, è stato l'unico leader laico capace di conquistare uno Stato per il suo popolo: non sembra giusto che se ne vada senza avere avuto il bene di vederlo nascere compiutamente. E tuttavia se lo Stato di Palestina nascerà davvero, questo si dovrà in parte al fatto che lui non ci sia più, che la sua bandiera sia stata ammainata per sempre. Nel 2002, di fronte all'inviato del Washington Post, aveva recitato compunto la sua preghiera: «Per favore, Signore Dio, lasciami l'onore di essere uno dei martiri per la santa Gerusalemme». Allah non lo ha accontentato. Ma è giusto che il suo popolo lo consideri comunque un martire della causa palestinese perché in effetti questo è sempre stato, nel bene come nel male.
Non è un caso se il suo arcinemico israeliano, Sharon, non vuole che venga sepolto a Gerusalemme. Durante una polemica di molti anni fa, a chi sosteneva che egli era nato il 24 agosto del 1929 al Cairo, lui replicava con estremo vigore di essere nato proprio quel giorno lì, ma a Gerusalemme. Tutto ciò aveva molto senso per lui perché durante tutta la sua vita ha gridato che Gerusalemme doveva essere la capitale dello Stato palestinese, magari una capitale in condominio con gli israeliani, ma comunque la capitale. «Chiunque rinuncia ad un solo metro di Gerusalemme non è né un arabo né un musulmano», aveva tuonato ancora nel 1993, aumentando l'irritazione di Sharon e di tanti israeliani nei suoi confronti.
Dove che sia nato, Arafat viene -questo è accertato- da una cospicua famiglia di commercianti di Gerusalemme. A quattro anni perde la madre, a 15 il padre lo manda a studiare nel cuore della cultura araba, cioè al Cairo. Nella capitale egiziana a quei tempi emergevano molti fermenti, da quelli panarabi che in seguito Gamal Abdel Nasser avrebbe predicato con successo, ma anche dal nascente integralismo religioso incarnato allora dai «Fratelli musulmani». Arafat assorbe tutto, ma il suo pensiero dominante va alla Palestina. Dopo la nascita di Israele nel 1948, la sua famiglia aveva dovuto trovare rifugio a Gaza. Lui studia ingegneria (riuscirà anche a laurearsi) ma quando nel 1956 scoppia la crisi di Suez fa parte con le brigate palestinesi dell'esercito egiziano, col grado di sottotenente. Nello stesso anno fonda al Fatah, l'organizzazione che resterà «sua» per i molti anni a venire, comincia a svolgere azione clandestina, gli egiziani, per niente grati dei suoi trascorsi militari, lo mettono in galera. Ci resta poco, poi si trasferisce in Kuwait, dove trova il fantasma dell'Olp, un'organizzazione nelle mani dei paesi arabi e di vecchi militanti ormai a riposo. Lui e altri capi palestinesi più radicali di lui come Mayef Hawatmeh e George Habbash partecipano alla guerra dei sei giorni. Quella guerra fu persa, ma la sconfitta permise ad Abu Ammar -così si chiamava allora Arafat- e agli altri duri di prendersi l'Olp. Così Arafat ne diventa presidente nel '69, una carica che manterrà continuamente nel corso degli anni, nonostante il fatto che le sue scelte siano state spesso contestate, anche vivacemente, da una parte dei suoi seguaci. Lo hanno rimproverato i politici più maturi per l'adesione al terrorismo che lo accomuna agli altri due «giovani leoni».
Dal ‘67 in poi sono anni brutti. Israele occupa la Cigiordania palestinese e la striscia di Gaza, lasciando intendere che mai restituirà quei territori. Il ricorso al mitra, ai sequestri, ai dirottamenti aerei sembra a molti palestinesi inevitabile. Probabilmente per non venire scavalcato dalla sua sinistra Abu Ammar si associa a quella politica, ma non la condivide fino in fondo. Il passato terrorista gli resterà comunque incollato addosso per tutta la vita, e vanamente lui cercherà di scrollarselo dalle spalle. Nel 1970 proclama ancora una volta al Washington Post: «L'obbiettivo della nostra lotta è la fine di Israele, e su questo non possono esserci compromessi». Questa linea gli lascia aperti i rapporti con i paesi arabi, che nel 1974 a Rabat definiscono l'Olp come «unico rappresentante del popolo palestinese» ma lo fa apparire sotto una luce sinistra in Occidente. Arafat lo sa benissimo e lavora per portare a piccoli passi la sua organizzazione lontano da una tale sciagurata deriva. Pochi gli credono ma alla fine lui otterrà dalla sua gente che la clausola statutaria dell'Olp che prevedeva come prima cosa l'eliminazione dello stato ebraico venga ritirata e sostituita da un implicito riconoscimento di Israele. Da lì spiccherà il volo per un negoziato duro che passerà da Madrid e da Oslo per approdare a Washington nel '94 quando stringerà la mano di Yitzhak Rabin e di Shimon Peres, accomunati nello stesso anno dal Nobel per la Pace.
Ma mentre a livello politico si svolgono negoziati e intrallazzi, Arafat assume in qualche modo l'immagine del pastore dei suoi connazionali. Durante il famoso settembre nero del 1970, quando re Hussein di Giordania decide di chiudere i conti con gli esuli palestinesi divenuti troppo ingombranti prendendoli a cannonate, Arafat è con loro, fugge da Amman vestito da donna. La dirigenza dell'Olp si trasferisce temporaneamente a Tunisi. Implacabili come sempre i caccia israeliani andranno a bombardare anche quegli edifici, nella speranza di colpire in primo luogo Arafat. Ma l'uomo ha veramente sette vite, sopravvive, si trasferisce con la sua gente in Libano, dove i profughi palestinesi mettono in crisi il precario equilibrio politico del paese e vengono ricompensati nel 1976 col massacro di Tel at Zatar dove i falangisti (il braccio militare dei cristiani maroniti), con la complicità dei falsi amici siriani e perfino del gruppo dissidente palestinese di As Saiqa, sparano senza ritegno sui profughi, donne e bambini compresi. Arafat scampa a questo massacro come era scampato nel '73 ad una bomba esplosa nel suo ufficio che uccise tre dei suoi principali collaboratori. Quando i palestinesi cominciano ad allargarsi troppo nel Libano (e Arafat non li dissuade, anzi) Ariel Sharon trova nel 1982 il giusto pretesto per scavalcare le frontiere libanesi arrivando fino a Beirut ed oltre e macchiandosi, ancora con la complicità dei falangisti, degli orrendi massacri di Sabra e Shatila. Ma Sharon cerca lui, l'uomo diventato per il vecchio generale un'idea fissa. Si racconta che il 30 agosto uno dei tiratori scelti israeliani riesca ad inquadrare Arafat nel suo mirino. Sharon, chissà poi perché, non dà l'ordine di fare fuoco.
Certamente Allah, pur non essendo Arafat uno scaccino, ha per lui una certa simpatia. Come si spiega altrimenti che due attentati contro di lui falliscano, poi gli succeda di cappottare in macchina sulla via di Bagdad uscendone senza un graffio, sia addirittura l'unico superstite di un incidente che carbonizza il suo aereo. E quando nel 1994 ritorna in Palestina come capo dell'Autorità Nazionale palestinese, la sua vita si fa sempre più difficile. Ai tradizionali avversari come Mayef Hawatmeh o George Habbash si aggiungono i gruppi dissidenti di Abu Nidal e Ahmed Jibril, entrambi finanziati dalla Siria che non vede di buon occhio la nascita di uno stato palestinese organizzato democraticamente ai suoi confini. Poi ci sono gli integralisti di Hamas, coi quali Arafat riesce però a mantenere aperto un canale di comunicazione, e gli altri gruppi jihadisti che si votano al martirio kamikaze. Abu Ammar da una parte li tira per la giacchetta, dall'altra sfrutta politicamente con gli israeliani il terrore che essi provocano e del quale, va detto, lui non è responsabile. Di altre cose sono responsabili lui in prima persona e tutto il suo entourage. I soldi che continuano ad arrivare come sempre dai regimi arabi sotto botta vengono amministrati in maniera clientelare, molti militanti diventano imprenditori e affaristi, il raìs lascia fare convinto che tutto questo non conti poi molto. E invece conta soprattutto a Gaza, dove Hamas, oltre che spedire kamikaze in Israele, intraprende tutto un lavoro di bonifica sociale e di solidarietà che riluce in contrasto con le miserie dei territori amministrati esclusivamente dall'Autorità Nazionale.
E poi non mancano gli errori politici più evidenti, come l'appoggio dato a Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo, il Desert storm, quando contro il tiranno di Baghdad sono schierati non solo gli Stati Uniti ma anche qualcuno fra gli interlocutori privilegiati della diplomazia di Arafat come la Comunità europea e molti stati moderati. Il presidente palestinese non è contento dell'iniziativa irachena di invadere il Kuwait, visto che la violazione della sovranità territoriale è proprio quello di cui i dirigenti palestinesi accusano da sempre Israele,in più sa di essere inviso a Saddam al quale si deve fra l'altro l'uccisione di Abu Iyad, uno dei suoi principali collaboratori. Ma su ogni ragionamento politico prevale in lui il vecchio capopopolo, i campi profughi palestinesi sono pieni di ritratti di Saddam Hussein, le «sue» masse stanno tutte con l'uomo di Baghdad e Arafat non riesce a tirarsi indietro. Tutto questo gli costerà in termini di credibilità e di autorevolezza, ma Allah gli vuole bene, l'errore viene dimenticato presto, soffocato dai clamori dell'Intifada che Arafat sponsorizza quasi in pieno.
Come a riscattare il suo errore, un anno dopo Desert storm sposa una palestinese cristiana, Suha Tawil, e ne fa nascere la figlia a Parigi, fra i brontolii degli ulema. Gli stessi brontolii che hanno accompagnato la sua decisione di curarsi all'ospedale di Percy, dove è morto lontano dalla sua Palestina. E dopo aver vissuto sette vite spera che almeno gli consentano di riposare per sempre in un fazzoletto di terra piccolo, quanto basta a venire coperto dalla sua kefiah, un simbolo che per più di mezzo secolo ha saputo portare sempre con dignità e perfino con una qualche ironìa.
Sta per terminare l'anno di celebrazioni del ventesimo anniversario della scomparsa di Enrico Berlinguer, nel corso delle quali ha rifatto capolino l'ambigua categoria della modernità. Nello stesso tempo è apparso che quanto più sono grandi il rispetto e la venerazione dei cittadini italiani per la figura del grande leader scomparso, tanto più una ristretta storiografia memorialista, a partire curiosamente, ma non tanto, da quella dei massimi dirigenti dei Ds, si è dilettata in una revisione negativa comparata ad una rivalutazione di Craxi. I termini del paragone sono ancora una volta la contrapposizione tra modernità e conservazione.
In ogni uomo politico si possono mettere in evidenza le ombre e le luci. Tuttavia dinnanzi a quella sorta di revisionismo grossolano al quale abbiamo assistito negli ultimi tempi sento l'esigenza di mettere in discussione due capisaldi della critica nei confronti di Berlinguer: la scarsa modernità e il moralismo.
Una analisi attenta del pensiero politico del Nostro ci permette di ritornare sulla distinzione tra modernità e innovazione.
Non c'è dubbio che in Berlinguer ci fosse e si facesse sentire una visione critica dei processi di modernizzazione, mossa dalla consapevolezza che nel cammino stesso del progresso umano ci possono essere delle perdite secche, in termini di valori e acquisizioni del passato, che occorre recuperare. E non c'è nemmeno dubbio che, sotto questo profilo, fosse molto attento ai rischi che determinate forme di modernizzazione potessero travolgere tutto e tutti. Anche l'applicazione della più sofisticata tecnologia alla guerra è una forma di modernizzazione, alla quale non si deve necessariamente applaudire.
Un'altra prova di modernità é lo yuppismo, la spregiudicatezza negli affari e nella politica misurata con i valori del mercato, il cinismo che ha come unico metro di giudizio il risultato immediato, la competizione per la competizione, l'esaltazione acritica della potenza del danaro, in una parola la modernità del rampantismo.
Berlinguer aborriva quel tipo di rampantismo che all'epoca contraddistingueva, persino nei modi e negli atteggiamenti, Craxi e il gruppo di giovani leoni che ruotavano attorno a lui. E fu proprio questo tipo di avversione ad essere erroneamente scambiata, o meglio, contrabbandata, per antisocialismo viscerale. Naturalmente lui si contrapponeva a tutto quel brulicare di una modernità vacua e insieme prevaricatrice, prepotente, chiassosa e travolgente. Cercava di combatterla, a volte con strumenti inadeguati.
Tutto ciò, tuttavia, non gli precludeva la via della ricerca, l'interesse per l'inedito, una indubbia curiosità per le nuove domande che sorgevano dal mondo femminile e da quello giovanile. In sostanza era decisamente aperto all'innovazione.
Come negare che fu un innovatore?
Nella politica internazionale fu un europeista convinto, lanciò l'idea di un' Europa né antiamericana né antisovietica; si fece paladino dell'eurocomunismo, ponendo al centro di questa idea il tema della priorità assoluta della libertà come valore universale che doveva essere rispettato al di sopra delle decisioni a maggioranza della democrazia; arrivò ad invocare l'ombrello della Nato contro le tendenze aggressive dell'Urss; chiese la fine dei blocchi contrapposti e dichiarò, con il famoso strappo, la fine della spinta propulsiva della rivoluzione sovietica.
In sostanza, come ho altre volte detto, portò la cultura comunista fino al suo limite possibile, arrivò a lambire il confine più avanzato che sia mai stato avvicinato da un partito comunista, pur rimanendo all'interno della tradizione comunista, nella speranza, che si rivelerà sbagliata, della riformabilità dei cosiddetti paesi socialisti.
Certo, non andò oltre quel confine, che comportava una certa, per quanto critica, solidarietà di campo.
Ciò avverrà in seguito con la svolta: ma chi di noi avrebbe in quel periodo fatto la svolta?
Berlinguer tuttavia pose molte premesse importanti, che proprio grazie al loro carattere innovativo, richiedevano un successivo salto qualitativo. Lo reclamavano, pena la mortificazione di tutta l'innovazione precedente. E ciò indipendentemente dalle polemiche, a volte legittime a volte capziose, sui tempi e sui modi.
Voglio però ricordare che Berlinguer pensava, sia pure in astratto, alla necessità di cambiare nome. Ne parlammo, mi ricordo, quando - allora io ero segretario regionale del Pci siciliano - venne in Sicilia durante la campagna elettorale del referendum su divorzio. Mi disse chiaramente: quello che abbiamo fatto in Italia, i mutamenti che abbiamo introdotto nella nostra cultura politica, sono tali per cui dovremmo cambiare nome al partito. E ricordo anche la sua risposta a De Martino, il quale chiese a Berlinguer di fare con lui un nuovo grande partito unificato e Berlinguer non balzò sulla sedia scandalizzato. Rispose semplicemente: non posso farlo ora perché in Urss c'è Breznev e avremmo una frattura enorme in Italia; i sovietici organizzerebbero una fortissima scissione.
Questi miei ricordi, che risalgono al lontano 1975, dimostrano che le spie della Cia in casa Tato non hanno tanto rivelato l'autonomia critica di Berlinguer nei confronti di Mosca, cosa a noi nota da tempo, ma piuttosto, ed è grave che nessun commentatore l'abbia sottolineato con sufficiente forza, il fatto che l'Italia si trovasse in una situazione di sovranità limitata, al punto che una grande potenza straniera poteva permettersi di organizzare sul nostro territorio dei veri e propri crimini contro la privacy.
L'altro elemento di modernità nel senso dell'innovazione furono le posizioni di Berlinguer sull'austerità. Apriti cielo: quelle posizioni suscitarono un vero e proprio marasma in gran parte della intellettualità italiana che incominciò a gridare al moralismo in sintonia con il dileggio dei craxiani.
In realtà tutto quello starnazzare fu dettato, in parte, da un malinteso e, in parte, da una risibile e sconcertante miopia culturale.
A parte la considerazione che saranno poi necessari ben dieci anni per risanare le casse dello Stato dilapidate dai dileggiatori dell'austerità, se facciamo le somme dei risultati raggiunti da Craxi e le esigenze attuali delle nostre economie, chiediamoci: chi è stato più al passo con i tempi?
Sicuramente ci fu una visione dell'austerità che io stesso non condivisi. Ma se è vero che l'austerità fu presentata anche con alcune esemplificazioni di sapore moralistico ed accentuazioni, soprattutto per opera di alcuni zelanti interpreti, che potevano assomigliare alle politiche di risanamento che finivano per fare pagare i costi maggiori ai più poveri facendoli ricadere principalmente sulle spalle dei lavoratori, l'ispirazione generale dell'intuizione berlingueriana era ben altra cosa.
Berlinguer capì molti anni prima che sorgessero i movimenti no-global che il mondo si trovava sull'orlo di un abisso. Che se si credeva di esportare nel resto del mondo il modo di produrre - e di saccheggiare le risorse energetiche - dei paesi capitalisticamente sviluppati il pianeta poteva saltare in aria, e che nel rapporto sempre più problematico tra uomo e natura si annidava il rischio di una vera e propria catastrofe.
Di lì nacque la sua proposta di cambiare il modo di produrre e di consumare.
Adesso tutti parliamo di sviluppo sostenibile, anche se siamo ancora molto lontani dall'aver assunto il tema del rapporto uomo-natura e della qualità dello sviluppo come il fulcro di tutte le politiche sociali ed economiche.
Allora il “passatista” Berlinguer era, molto più di Craxi, in sintonia con alcuni grandi della socialdemocrazia europea quali la signora Brutdland, Otto Palme e Willy Brandt.
Il rampantismo dominante non solo irrideva a tutto questo, ma si scagliava con veemenza contro il preteso moralismo del segretario generale del Pci.
Non escludo che ci siano state in lui cadute moraliste che riguardavano fondamentalmente i suoi gusti e comportamenti personali. Ma tali atteggiamenti non possono, in alcun modo, fare aggio sulle posizioni politiche assunte a proposito della corruzione politica dilagante. Èstato un suo merito innegabile quello di aver anticipato di almeno quindici anni la stagione di “mani pulite”. Si può solo dire che se le forze politiche dell'epoca gli avessero dato retta avrebbe fatto strada, anziché la soluzione giudiziaria, quella politica.
Considero da un punto di vista strettamente storiografico molto stravagante associare la questione morale, sollevata da Berlinguer, alla mera esigenza della difesa della identità del proprio partito attraverso la diversità. Ci dovrebbe soccorrere il metodo delle analisi differenziate per cogliere insieme il rapporto e la differenza tra i due temi. Che l'affermazione del Pci come partito dalle mani pulite abbia rappresentato uno dei connotati fondamentali della non sempre felice proclamazione della propria diversità, è un dato indubbio, tuttavia non esaustivo dell'assoluta autonomia della questione morale dai problemi del partito. Si dimentica che la tematica relativa alla crisi fiscale degli Stati incominciava ad assumere una valenza internazionale strettamente legata alla corruzione della politica. E anche in questo Berlinguer era al passo con i tempi.
Sollevare la questione morale è stato e continua ad essere un merito che non ha nulla a che vedere con il moralismo e con il cosiddetto giustizialismo, in quanto coinvolge tutti gli aspetti fondamentali della vita economica e sociale del paese e investe gli interessi generali e particolari dei cittadini, di tutti i cittadini di una nazione. E' tema centrale della ricostruzione della democrazia, oggi sempre più manipolata e pilotata dalla corruzione. Nello stesso tempo chiama in causa la questione complessa e delicata della riforma della politica e dello stesso sistema politico, su cui, per la verità, Berlinguer si mostrò molto esitante.
Ma come si vede, nella valutazione complessiva del suo impegno politico e civile, il piatto della bilancia pende decisamente dalla parte dell'innovazione.
Ed è un vero peccato che proprio alcuni di coloro che avrebbero dovuto essere i suoi più stretti eredi abbiano, in questo ventennale, perso l'occasione di rendergli giustizia secondo verità.
Cominciamo con un'autocritica. Sapevamo da tempo che i repubblicani Usa avevano mobilitato al voto la destra religiosa fondamentalista; ma nel fervore preelettorale abbiamo finito per parlarne poco o niente. Siamo stati contagiati dalla speranza e dall'impegno delle campagne democratiche nelle ultime settimane prima del voto, mentre i repubblicani, previdenti e organizzati, la loro mobilitazione l'avevano fatta molto prima, quando i riflettori erano ancora meno focalizzati sulla campagna elettorale. E l'hanno fatta potendo contare soprattutto su strutture organizzate e ideologizzate come le chiese, su mezzi di comunicazione capillari e istituzioni educative ben finanziate, muovendosi sotto la soglia di attenzione nostra e dei media progressisti. Col senno di poi, è facile ricordarsi che una parte dell'astensionismo è legata a una religiosità «other-worldly», che si occupa solo dell'aldilà e ritiene che gli affari di questo mondo non la riguardino - fino a che qualcuno non li convince che negli affari del mondo sono in gioco anche articoli di fede. Avremmo dovuto parlarne prima. Una volta scoperto questo fatto, sui nostri media è apparsa subito una vulgata istantanea: a) le elezioni non si vincono sulle questioni materiali ma sui valori; b) per orientarci sui valori dovremmo ascoltare la destra. Credo che entrambi i punti siano sbagliati.
Fra i «valori» che hanno orientato il voto di maggioranza negli Stati uniti spiccano intolleranza sui gay, rifiuto del diritto di scelta delle donne, guerra e militarismo, armi da fuoco, pena di morte... Questi per me non sono valori, ma il loro contrario. Ma noi abbiamo delegato l'idea stessa di «valori» al cattolicesimo e alla destra, tanto non che ci riesce di dirlo, né di affermare valori altri, che vengono dalla storia della sinistra e della democrazia: giustizia sociale, uguaglianza, pace, non violenza, apertura culturale, accoglienza, l'internazionalismo, ambientalismo, una laicità rispettosa del diritto di tutti i credenti e non credenti. Sono valori capaci di accendere speranze, passioni, mobilitazioni. Ma invano li cercheremmo nelle piattaforme del nostro centrosinistra, o in quella di Kerry. L'unico che ha osato parlare di in pubblico di giustizia economica è stato Bruce Springsteen, che fa un altro mestiere.
E passiamo alla «autonomia» dei «valori forti» rispetto agli interessi materiali. Facciamo conto che gli elettori americani fossero posti davanti alla scelta fra votare contro l'aborto o a favore di qualcosa che gli cambia la vita, per esempio, il diritto alla salute; fra votare contro i gay o a favore di un buon contratto di lavoro, un salario adeguato e sicuro, una casa a un prezzo decente, trasporti pubblici accessibili, l'istruzione superiore per i propri figli... Siamo proprio sicuri che i «valori forti» avrebbero la meglio su questi interessi concreti? I democratici hanno governato per quarant'anni sulla base di un progetto socio-economico, il New Deal, che ha cambiato la vita di milioni di persone. Eppure, la destra religiosa esisteva anche allora. Io credo che molti votanti si concentrano sui «valori» immateriali sia perché nessuno gli propone niente di altrettanto significativo sul piano degli interessi materiali, tale da cambiargli la vita; sia perché, anzi, non credono più che qualcosa possa cambiare. Clinton vinse puntando su un interesse materiale, la riforma sanitaria e il diritto alla salute (che per me è anche un valore, ma lasciamo perdere) e gli elettori gli ridiedero fiducia anche dopo il disastro «etico» di Monica Lewinski. Ma poi la riforma sanitaria non si è riusciti a farla, e si è rinforzata l'idea che il sistema economico sia un destino immutabile, un dato irriformabile. Inutile starci a pensare, il mondo non cambierà mai se non in peggio; ragioniamo su altre cose su cui abbiamo opzioni più chiare.
Sul piano economico Kerry era sicuramente diverso da Bush - ma non abbastanza da generare speranze e spostare orientamenti. La sua descrizione dei fallimenti della politica economica di Bush era puntuale, ma le spiegazioni delle cause erano poco incisive e la proposte generiche e timide. Mi piaceva la sua idea di portare il salario minimo da 5 dollari e mezzo a 7; ma era appena un modo per non far crepare i più miserabili, non cambiava la vita di nessuno (e comunque, in un'elezione dove un'astensione del 42% è decantata come un trionfo democratico, sospetto che non fossero tanti i minimum wage workers che sono andati a votare - pure perché tanti di loro non ne hanno il diritto).
Insomma, l'alternativa non è fra valori e interessi materiali come tali, ma fra un discorso netto e forte sui valori e una proposta debole e generica sugli interessi. Infatti la destra possiede anche un discorso forte sugli interessi materiali. In televisione, Bertinotti ricordava che in Ohio si sono persi duecentomila posti di lavoro negli ultimi anni e implicitamente, come Kerry, ne attribuiva la responsabilità a Bush. Ma una parte del voto per Bush viene proprio da gente che ha perso il lavoro, gente alla quale la destra offre una spiegazione convincente e un capro espiatorio credibile: è colpa della concorrenza sleale del resto del mondo. Mi ricordo, a Youngstown, Ohio, la dolorosa, eloquente poesia di un operaio licenziato dell'auto, che finiva: «ma che ne sapete di tutto questo, voialtri intellettuali con le vostre macchine straniere?» Se i padroni americani ti licenziano, la colpa è degli intellettuali e degli stranieri. Né Kerry ha proposto qualcosa di molto alternativo - per esempio, una legislazione che renda meno facile licenziare, discriminare, ingaggiare crumiri, e che dia ai lavoratori una forza contrattuale paragonabile a quella che gli diede l'NRA negli anni '30. Sarà volgare, ma credo che, anziché una separazione, esista un nesso fra un certa lettura dei fatti socio-economici e una certa proposta di «valori». Se la colpa del declino economico dell'America popolare è degli stranieri, è logico rifugiarsi in un nazionalismo guerresco che illude di espandere il modello americano facendo la guerra agli stranieri e impadronendosi del loro petrolio; se la colpa è di quelle checche degli intellettuali, è naturale aggrapparsi ai «valori» virili delle armi da fuoco, della pena di morte, della discriminazione dei gay, del dominio sul corpo delle donne. In altre parole: in questa elezione, «valori» e interessi non sono stati tanto autonomi, quanto correlati. L'elettorato americano ha votato sui valori che meglio collimano con la percezione (sbagliata e ideologica, ma semplice e convincente) dei propri interessi.
Una cosa la possiamo imparare dalla destra americana: la pazienza e la lungimiranza. La travolgente egemonia di oggi è il risultato di un ripensamento cominciato dopo la sconfitta di Goldwater nel 1964. Allora, nel pieno di quella che sembrava l'avanzata inarrestabile dell'altra America, il partito repubblicano cominciò a cambiare pelle. Smise di puntare sul ceto medio-alto moderato; si spostò verso la destra radicale, religiosa e rurale; sviluppò una proposta di «valori» e una strategia di comunicazione capace di far cambiare schieramento a molti elettori tradizionalmente democratici. Più che con Nixon (normale alternativa bipartitica), questa strategia si affermò con Reagan, che fu l'esito e il rilancio di una profonda modificazione delle coscienze. Ci sono voluti quindici anni, ma dura da ventiquattro anni (l'intervallo Clinton fu reso possibile da Ross Perot) più i prossmi quattro, e non se ne vede la fine. Allora, cerchiamo pure tattiche e alleanze per togliere subito il governo a Berlusconi; ma se non ci mettiamo in testa di lavorare a lungo termine e in profondità su un insieme di proposte materiali e di principi morali correlati nostri e distinti, non ci libereremo mai del berlusconismo. E anche se vinciamo, lo vedremo tornare.
C'è un'altra ragione per l'egemonia repubblicana a lungo termine: l'inevitabile messa in discussione del modello di vita americano e occidentale. I limiti di sostenibilità del pianeta, le legittime richieste di vita migliore da parte delle maggioranze dell'umanità comportano un declino o una radicale revisione di uno stile di vita che dipende dall'accaparramento e dallo spreco di quote sproporzionate delle risorse limitate del mondo. In altre parole: è finita la frontiera; è finita un'idea di benessere e di democrazia fondati su un'espansione senza confini. Possiamo progettare un modo di vita diverso; o possiamo arroccarci a difesa esclusiva dei nostri privilegi attraverso il dominio economico e militare (creando una frontiera nuova che arriva fino all'Asia Centrale). Per i repubblicani americani, e non solo loro, lo standard di vita occidentale non si tocca, e se produce guerre e inquinamento, guerre e inquinamento sia. E siccome quelli che se ne stanno già accorgendo e pagando i prezzi non sono i ceti privilegiati, ma i lavoratori, i precari, i disoccupati, i più giovani, gli emarginati, è proprio in queste fasce che una strategia di difesa a oltranza dell'esistente contro ogni cambiamento trova consensi. Anche qui una strategia economica è correlata a indicazioni di «valori». Maggioranze preoccupate e insicure, tanto più dopo l'11 settembre, si convincono che i propri interessi economici si difendono chiudendosi nell'egoismo personale e nazionale, subordinando lo stato di diritto alla sicurezza, sospettando di chiunque non ti somiglia, perseguendo il dominio del più forte, disprezzando ogni vestigia di diritto internazionale come un'offesa alla propria sovranità (e ogni positiva azione dello stato come una violazione della propria libertà solitaria). La paura del declino economico e l'egoismo fondamentalista sono facce di una sola medaglia.
E per finire. L'unico referendum in cui ha prevalso un'opzione «progressista» è stato quello sulle cellule staminali in California. Un'amica americana l'aveva previsto: c'è sempre più gente in America, diceva, che ha un'età in cui non ha più bisogno dell'aborto ma ha paura dell'Alzheimer. Tra la «moralità» di Bush e l'interesse a cercare una cura, non hanno esitato. Ma non è tanto un segno di laicità e modernità, quanto di stanchezza e, ancora, di paura: l'America a cui volevamo bene, giovane e piena di speranze, è sempre più carica da paure, solitaria ed egoista, e più vecchia.
Debbo ringraziare Rossana Rossanda che polemizzando nel numero di novembre della rivista (1) con un mio articolo (2), ha riaperto la questione Berlinguer con una critica radicale e mi costringe, così, a ripensare cose antiche. È un esercizio non facile e un po' tormentoso. Ma, forse, può essere utile per capire meglio quel che succede oggi.
In quello scritto (dell'ottobre scorso) avevo replicato al giudizio del segretario dei Ds - Fassino - su Berlinguer, passatista e fallito, e su Craxi, modernizzatore e vincente 3. Quella sprezzante valutazione, spinta ai limiti della contumelia, riguardava il periodo ultimo della segreteria, e della vita, di Berlinguer: e solo su questo mi ero espresso. Rossanda ha esteso il discorso. E conclude: «… difendere la figura morale di Berlinguer dall'attacco volgare della destra socialista ed ex comunista non dovrebbe precludere il giudizio su quel che il berlinguerismo è stato.» Concordo pienamente. Avevo appunto fatto notare, in quell'articolo, che sono contrario a ogni visione acritica, per chiunque e in qualsiasi caso. Aggiungo che - se lo conoscevo bene - era questa anche la opinione di Berlinguer.
Proprio perciò non penso affatto quel che Rossanda mi fa dire e cioè che «se Berlinguer non fosse stato messo in difficoltà dalla morte di Aldo Moro e dalle manovre craxiane, la sorte del Pci sarebbe stata diversa». Non ho mai pensato e non ho scritto che «il declino e il dissolvimento del Pci» siano colpa di Craxi e della morte di Moro. Anzi se qualcuno sostenesse una tale tesi mi parrebbe uno sproposito e, riflettendo sulla fine del Pci 4 ho sostenuto tutt'altro, cercando di riandare, piuttosto, alla cultura costitutiva del vecchio Partito, piena di meriti, ma minata anche da contraddizioni divenute alla fine insuperabili.
Ma la mia argomentazione, dice Rossanda, «sembra suggerire» proprio quella tesi che io stesso giudicherei del tutto sbagliata. Il perché di quel «sembra suggerire» non viene dimostrato. Ma non importa. Su un «sembra», e cioè su una sensazione, è difficile ragionare. Mettiamo pure che la penna abbia tradito il pensiero. Dunque, ripeto. Ho replicato al giudizio di Fassino su Craxi e Berlinguer con tre argomenti. Il primo. La diversa eredità lasciata dai due dirigenti. Il secondo. La assurdità di definire «allo sbando», «senza bussola» eccetera un partito che, avendo visto il fallimento della sua politica (quella della solidarietà nazionale), se ne ritraeva e proponeva una nuova politica (quella dell'alternativa). Il terzo. La possibile fecondità della ricerca di fondamenti nuovi tentata da Berlinguer proprio in quell'ultimo periodo, dopo lo `strappo' con i sovietici.
Ma, obietta Rossanda, «il Berlinguer dal 1979 alla morte non è tutto Berlinguer, né quello storicamente più importante. Egli è l'uomo del compromesso storico». È certamente vero che la parte più lunga e più nota della segreteria Berlinguer è quella che prende il nome dal `compromesso storico', tradotto poi nei governi di solidarietà nazionale. Tuttavia, mi sentirei di discutere se la «parte più importante» nella vita di un politico (e di una persona) sia quella in cui segue una strada che si rivelerà infeconda o sbagliata o quella in cui riesce a criticare se stesso e a cercare una strada nuova. La cosa più difficile è correggersi. Tanto difficile che gli esempi sono rarissimi, da tutte le parti.
Che sia stato poco rilevante il tempo, successivo al '79, della autocorrezione o, come si dice, della `svolta', Rossanda lo pensa da sinistra ma non è la sola a pensarlo. Fassino definisce quella del compromesso storico «l'ultima strategia politica di Berlinguer degna di questo nome», ripetendo quello che hanno detto dirigenti del medesimo orientamento politico più anziani di lui. Molti esponenti del Pci ultrariformisti che poi diverranno fautori della democrazia dell'alternativa intesa come alternanza furono del tutto contrari - sebbene con la discrezione che si usava allora - alla rottura della solidarietà nazionale sostenuta da Berlinguer. E considerano gli anni successivi alla svolta, come accade a Rossanda, irrilevanti o peggio. Correggersi è veramente difficile.
Ma da dove veniva la politica cui Berlinguer darà il nome di `compromesso storico'? Chiarante (nel numero di dicembre 5) ha già posto in luce l'annuncio di quella politica nel Congresso (1972) che elesse Berlinguer segretario, ha ricordato la posizione anticipatrice di Chiaromonte sulla impossibilità di governare con il 51%, l'origine togliattiana della politica di `unità democratica'. Il dibattito nel gruppo dirigente del Pci da tempo non stava più soltanto - come ritiene Rossanda - tra Ingrao «più interrogato dai cambiamenti» e Amendola che «puntava alla unificazione con il Psi». Si era venuta formando un'altra posizione che convincerà alla fine la maggioranza del gruppo dirigente, una posizione nutrita fortemente della memoria dei governi unitari successivi alla Liberazione, troncati nel '47 dalla guerra fredda. La linea - non nuova - dell'incontro tra socialisti, comunisti e cattolici per `rinnovare e risanare' l'Italia fu ripresa in quegli anni e aggiornata con il contributo decisivo di due dirigenti poco citati, Agostino Novella e Paolo Bufalini, che ebbero allora un peso rilevante nella posizione di centro del Partito. Novella era stato il più rigoroso interprete - in polemica con Amendola - proprio della politica togliattiana di unità democratica nella Resistenza, aveva diretto la Cgil fino al distacco dall'organizzazione sindacale mondiale di osservanza sovietica e sarà poi uno dei promotori della segreteria Berlinguer. Come Bufalini, cresciuto alla scuola di Togliatti, che aveva dato la sua impronta al partito siciliano e romano e sarà uno dei più attenti, da una posizione pienamente laica, ai rapporti con la Chiesa.
Ma sulla linea dell'incontro con i cattolici non mancò il contributo dei dirigenti considerati più a sinistra, anche se essi sottolineavano in particolare misura le novità rappresentate dai cattolici di avanguardia e dalla sinistra democristiana e con questi si ponevano in relazione, piuttosto che con la ufficialità vaticana. Fecero epoca i dibattiti di Ingrao con gli esponenti dei `basisti' che venivano allargando il loro spazio nella direzione della Dc. Fu dunque lunga la preparazione di quella nuova politica `unitaria', piena di ambiguità. Da un lato veniva concepita in contrapposizione con le suggestioni - soprattutto esterne - di `alternativa di sinistra' considerate irrealistiche e quasi pericolose. Ma c'era anche l'idea di un nuovo `blocco storico' trasformatore, di cui la base cattolica doveva essere parte.
Non fu, però, cosa da poco, nel linguaggio criptico e nella liturgia di allora, l'aggiunta dell'aggettivo `storico' da parte di Berlinguer alla parola `compromesso', la cui necessità era ben presente nella tradizione comunista internazionale e interna (da Brest Litovsk in poi 6). Quell'aggettivo nasceva dall'idea non solo che il `risanamento e rinnovamento' del Paese avesse bisogno di una concordia nazionale ma che l'attenuazione del contrasto di classe «per evitare la comune rovina delle classi in lotta» dovesse accompagnarsi a forme di mutamento nei rapporti tra lavoro e capitale di cui lo statuto dei diritti era stato una premessa considerata insufficiente e dovesse comportare un inizio di modificazione nel tipo di sviluppo attraverso un più forte sostegno ai consumi pubblici rispetto a quelli privati.
Berlinguer rifiutò sempre, fino alla fine, di considerare i governi di solidarietà nazionale come la traduzione del compromesso storico. Vi era, in questo, un po' del carattere della persona, fatto anche di timidezza e di ostinazione, e dunque una difficoltà reale di vedere la connessione tra le premesse e le conseguenze, tra le intenzioni e la realtà. Ma vi era anche qualcosa di vero, nel senso che non fu certo una libera scelta, una libera applicazione del compromesso storico quella che portò a governi composti solo da democristiani, sostenuti dall'esterno da tutta la sinistra (giunta ad essere il 50 per cento del Parlamento). Ed era vero che la traduzione concreta in termini di linea governativa, anche da parte dei dirigenti comunisti più integrati - sebbene dall'esterno - in quella esperienza, fu dettata da una linea scarsamente o per nulla distinguibile dal passato. Si vide alla fine il `risanamento' ma solo dei conti pubblici e, come sempre, essenzialmente a spese del lavoro. Di `rinnovamento' non vi fu traccia neppure per timidi cenni. Dal punto di vista di una forza anche solo progressista fu un fallimento indubbio.
Ma Rossanda non giudica quel tanto di distanza che ci fu tra progetto e concreto svolgimento della vicenda dei governi detti di solidarietà nazionale, sebbene è sul fallimento della esperienza di governo che si valuta il fallimento del progetto. Sicché ricade su Berlinguer anche la responsabilità che fu di altri e comunque dell'insieme. Non è un metodo giusto quello di trascurare le condizioni in cui si svolge un certo fatto per poterlo giudicare. Uno storico stimato come Paul Ginzborg - il quale pure dava un giudizio negativo sulla nascita dei governi di solidarietà nazionale - è venuto, poi, alla conclusione che era difficile fare diversamente nelle condizioni date.
Tuttavia il giudizio di fatto, che dovrebbe guardare alle condizioni concrete, non elimina la valutazione di principio. Ed è su questo soprattutto che Rossanda interviene: quella idea di compromesso storico del 1973 fu motivata dalla falsa previsione di involuzioni fascistiche che non vi furono, volle essere un accantonamento della lotta di classe da parte dei comunisti in cambio della rinuncia della Dc ad alleanze a destra e nella speranza di un rinnovamento democristiano che non vi fu, fu un brutto episodio di `autonomia del politico' contro i movimenti e le lotte sociali, fu la interpretazione del primato della politica come «primato degli accordi ed equilibri sulla scena politica» rispetto alla politica intesa «come governo della costituzione materiale del Paese», andò addirittura contro non solo le lotte nelle fabbriche ma «contro la Cgil di Lama dei primi anni '70». In più Berlinguer quando si dichiarò più sicuro sotto l'ombrello della Nato o aveva - sempre secondo Rossanda - ancora il timore di un «pericolo sovietico sempre più improbabile» oppure voleva esprimere «il riconoscimento che il capitalismo aveva vinto e doveva vincere». Il che costituisce, secondo Rossana, anche il filo di continuità fra la vicenda di Berlinguer e quella dei Ds.
Personalmente, negli anni della solidarietà nazionale, cercai di fare quel che potevo - forse perché ero il responsabile delle politiche per la cultura - perché ci si accorgesse e si dialogasse con i movimenti e poi per aiutare Berlinguer a portare fuori il Pci dalla esperienza della solidarietà nazionale. Sono ovviamente responsabile come tutti gli altri delle scelte della direzione di allora. Ma come si vedrà poi, e fino a oggi, il mio orientamento personale non era uguale a quello di altri. Dunque, non mi considero in alcun modo un difensore del compromesso storico. Ma l'argomentazione di Rossanda mi pare che vada decisamente oltre il segno. Se fosse compiutamente fondata la sua analisi sulla negazione della lotta di classe, della lotta sindacale, e persino della Cgil di Lama, Berlinguer non avrebbe voluto e promosso la rottura davanti alla manifesta impossibilità di risultati innovativi. Se fosse stato convinto di una linea di abbandono del conflitto sociale, che pure esisteva nel Pci, mai egli sarebbe andato - per citare un fatto che volle essere emblematico - davanti ai cancelli della Fiat. Ma Rossanda anche su questo non si impietosisce: quando ci va è ormai tardi. Più che un'analisi, si rischia la requisitoria. Come nel romanzo popolare ottocentesco dove l'implacabile commissario perseguita, in nome della legge, il povero galeotto ormai redento e dedito alle opere di bene.
A me pare che scegliendo una visione parziale non si fa giustizia alla persona ma soprattutto non si legge la realtà. Berlinguer non è solo quello dell'ultima fase della sua segreteria, ma non è neppure solo quello della prima fase: dal punto di vista del tempo (7 anni e 5 anni) ma soprattutto per l'importanza dell'impresa. Il vero gesto di rottura della tradizione - che infatti la parte più conservatrice del Pci non gli ha mai perdonato da vivo come da morto - è proprio il rigetto della solidarietà nazionale o, se si vuole dire così, l'abbandono del compromesso storico. Esso era l'ultima propaggine di quella linea della grande unità che derivava dal rifiuto di abbandonare la `diversità' dei comunisti italiani in termini di collocazione internazionale (che faceva cadere su di loro l'interdizione al governo). Ma derivava anche dall'idea che solo con un `fronte largo', anzi larghissimo, si potesse avviare qualche riforma consistente. Solo una ormai scarsa conoscenza della realtà poteva - però - far supporre che si potesse ricominciare sulla stessa linea di trent'anni prima.
Ha ragione Rossanda che c'è una continuità tra la linea dell'unità democratica e i Ds: per esempio, nel tentativo di D'Alema per il mai nato governo Maccanico di unità nazionale e poi nel progetto fallito della Bicamerale con Berlusconi, entrambi presentati come se fossero in continuità con la politica togliattiana. Ma questa presunta continuità senza la grande unità antifascista (e senza l'Urss) si ripresentava stralunata e spaesata, fuori dal tempo e dallo spazio, come una scadente imitazione rapidamente messa fuori commercio. Bisogna però ricordare che per produrre questa imitazione si era dovuto provvedere, appunto, a ignorare, a irridere, a considerare poco importante la svolta che Berlinguer operò chiudendo con tutta la lunga tradizione che aveva avuto nella Resistenza il suo punto più alto.
La rottura con la tradizione unitaria avviene assieme con lo strappo definitivo dall'Urss. Ma anche questo era in ritardo e non abbastanza forte, secondo Rossanda. Dopo la morte di Togliatti - «che arrivò a votar contro la proposta di Conferenza internazionale degli 81 partiti comunisti» - il Pci si ferma sulla strada indicata nel memoriale di Yalta, che «prendeva le distanze» dall'Urss. Anzi Berlinguer «continuò a ricevere dall'Urss finanziamenti più compromettenti che decisivi per il bilancio del partito». E lasciò il partito ancora forte ma per poco, perché lo lasciò disarmato rispetto al crollo dell'89.
Spiace doverlo constatare ma i fatti non sono questi. Il memoriale lasciato da Togliatti alla sua morte a Yalta era segreto, destinato ad una discussione interna con il gruppo dirigente sovietico. È Longo che decide di pubblicarlo, prendendo le distanze. È Longo che si oppone alla Conferenza dei partiti comunisti per anni e, quando i sovietici la convocano ad ogni costo, vi manda Berlinguer, vice segretario, con la decisione di non votare nessuno dei documenti presentati. E Berlinguer in quella sede dichiarò (eravamo nel '69) che i comunisti non potevano concepire socialismo senza pluralismo politico, sollevando un caso internazionale clamoroso.
È Berlinguer segretario, non altri - come ha testimoniato in un suo libro Cervetti 7, allora organizzatore e amministratore del Pci - che ruppe nel '75 con i finanziamenti sovietici. Ed è ancora Berlinguer che - prima della Polonia e dell'Afganistan e dello `strappo', che sarà nell'80 - va a Mosca (era il '77) a fare una sorta di scomunica alla rovescia, proclamando il «valore universale della democrazia». Fu di nuovo un caso mondiale. Ugo la Malfa ebbe a dichiarare che bisognava smettere di chiedere al Pci altre prove di democraticità.
Si poteva, si doveva fare ancora di più? Senz'altro. Fino alla fine si sperò nella riformabilità dell'Unione Sovietica, ma non per colpa di Berlinguer che aveva scritto che non è socialismo quello che non garantisce neppure il grano per il pane. Si sperò perché, dopo la morte di Berlinguer, vennero Gorbaciov, la perestroika, la glasnost. Troppo comodo, semmai, per i dirigenti comunisti che sono rimasti - tra cui io stesso - nascondersi dietro Berlinguer perché non comprendemmo che Gorbaciov non ce l'avrebbe fatta, che la riforma sarebbe fallita o che l'avrebbero fatta fallire.
Ma se è comprensibile che da destra si rimproveri a Berlinguer di non aver concepito la rottura con l'Urss come il salto pieno dentro la accettazione del sistema dato, non mi sembra né giusto né utile, da sinistra, rimuovere quello che fu secondo me - ma credo di non sbagliare - il suo vero assillo finale. Ricostruire le fondamenta autonome di una sinistra capace di critica del sistema e di proposta riformatrice atta al governo. Anche a questo sforzo finale per distinguere il proprio partito da un sistema politico marcio e da una sinistra che sbandava nel ministerialismo si deve il mantenimento della forza del Pci, che è andata oltre la sua scomparsa: perché è su quella eredità che ancora vivono in larga misura le sinistre di oggi.
Certo, ricostruire dalle fondamenta implica un percorso difficile che non mi pare che qualcuno abbia compiuto, e che è ancora tutto davanti a noi. Fu uno sforzo complicato, per chi era cresciuto per tutta la giovinezza a fianco di Togliatti, intendere le correnti nuove che percorrevano il mondo e che il movimento operaio comunista e socialista non aveva neppure immaginato: dal femminismo della differenza all'ecologismo, al nuovo pacifismo, ai temi proposti dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Sono questioni che è difficile ancora oggi, a sinistra, maneggiare consapevolmente. Certo che va riscoperto lo scontro di classe. Ma non ci si può illudere che basta riprendere il discorso interrotto da quelli che potettero essere gli errori del Pci negli anni settanta. Non ci sarà niente da fare se non leggeremo il contrasto tra le classi dentro la nuova composizione sociale in una realtà globalmente trasformata e in connessione con le contraddizioni, i bisogni, i desideri nuovi. La crisi non è solo da una parte. Se la sinistra moderata sbanda al centro, quella alternativa non riesce a ricomporre la propria diaspora, il che è più grave, perché nega le speranze.
Penso che una ricerca storicamente fondata sul passato - senza preconcetti e senza rimozioni - possa aiutare a capire che cosa abbia portato il nostro paese nelle mani di Berlusconi e la sinistra italiana ed europea sino al punto in cui siamo oggi, tra la deriva moderata e la fragilità degli alternativi.
Non ho scritto questo articolo per tessere le lodi di un compagno scomparso che ha fatto anch'egli i suoi errori assieme a tante cose giuste. Ma perché, per guardare avanti, mi sembra indispensabile sfuggire all'esercizio consolatorio di dare tutta la colpa a chi non c'è più, guardando un po' di più dentro noi stessi.
note:
1 Rossana Rossanda, Discutendo di Enrico Berlinguer, «la rivista del manifesto», n. 44, novembre 2003, pp. 60-62.
2 Aldo Tortorella, I nipotini di Padre Bettino, «la rivista del manifesto», n. 43, ottobre 2003, pp. 7-11.
3 Cfr. Piero Fassino, Per passione, Rizzoli 2003.
4 Appunti sulla fine del Pci, su «Critica Marxista», 1998, n.5.
5 Giuseppe Chiarante, Alle origini del compromesso storico, «la rivista del manifesto», n. 45, dicembre 2003, pp. 52-55.
6 Brest Litovsk è il nome del luogo ove fu sottoscritta dall'appena costituito governo sovietico, ai tempi di Lenin, l'armistizio e poi la pace separata nel 1918 con la Germania. In quel trattato la Russia cedeva molti territori alla Germania.
7 Gianni Cervetti, L'oro di Mosca, Baldini e Castoldi-Dalai 19992.
PADOVA La sera prima era a Genova. A Padova era arrivato a mezzogiorno e mezzo, in auto. Non ci veniva da dieci anni, l’ultimo comizio lo aveva fatto per il referendum sul divorzio. Specchio di un’epoca ormai sostituita da una mobilità frenetica. A Padova era atteso al casello dal segretario del Pci Flavio Zanonato; era andato all’hotel Plaza, stanza 421, una piccola camera senza pretese, per rinfrescarsi. Pranzo molto leggero, col fedelissimo Antonio Tatò che già brontolava per «il pesce di ieri sera che forse ti ha fatto male». Un riposino. Poi si era messo a scrivere il discorso. «Scriveva sempre personalmente i suoi discorsi, dalla prima all’ultima parola», sorride Zanonato.
«Discorsi tutti diversi - aggiunge Zanonato- sempre molto legati alle città in cui si trovava. Parlava poco, ma quando parlava , parlava sul serio: erano documenti».
Era cominciato così il 7 giugno 1984 di Enrico Berlinguer. Poi un incontro con gli operai della Galileo in crisi. Verso sera, una passeggiata a piedi verso piazza della Frutta, per il suo ultimo comizio. I padovani lo riconoscevano, lo fermavano, lo salutavano: non solo i comunisti. Un po’ piovigginava, un po’ no. La piazza era strapiena; un discorso di Berlinguer era un evento. Piena e allegra. Poi, «all'improvviso l'atmosfera è cambiata, è virata dal bianco al nero istantaneamente, come una foto quando la sviluppi», ricorda lo scultore Elio Armano, che allora stava sul palco in qualità di «sindaco rosso» - una mosca bianca - di un comune vicino. A tre quarti del discorso Berlinguer aveva cominciato a sentirsi male. Soffriva, faticava, le parole si inceppavano.
La gente, dalla piazza, se n'era accorta per prima vedendo il volto contratto proiettato su un maxischermo alle spalle del palco. Sul palco nessuno lo aveva capito: «Eravamo lì come dei baccalà», si rimprovera Armano retrospettivamente, «da giù qualcuno urlava "basta, basta!", Berlinguer continuava faticando, aggrappato alla tribunetta in multistrato, l'avevo disegnata proprio io». Era intervenuto Tatò: «Smettila!». E Berlinguer continuava. Pietro Folena, allora segretario cittadino, aveva fatto salire sul palco un medico che stava in prima fila, il professor Giuliano Lenci, primario pneumologo, trapiantato a Padova da Pisa.
Quella serata riempie da vent'anni i sogni di Lenci, ormai da tempo in pensione. «Salii. Smettila, gli sussurrai anch'io. Berlinguer mi disse, rapidamente: "Mi vien voglia di vomitare". O bischero, e vomita!, esplosi». Lo fece, appena un po’. Riprese a parlare, con uno sforzo supremo, tagliando le ultime pagine, arrivando al famoso invito finale ai compagni, «andate casa per casa, strada per strada. . .». Tatò, dietro, stringeva i pugni per l'ostinazione: «È un sardo, è un sardo. . .». Corsa in albergo. Visita accurata del professor Lenci, diagnosi istantanea, lesione cerebrale destra, una emorragia lenta e progressiva, trasferimento immediato a neurologia, poi nella vecchia rianimazione. La folla si spostava all'istante: dalla piazza all'hotel, dall'hotel all'ospedale, seguiva Enrico guidata dal passaparola, cupa e introversa.
L'ospedale di Padova divenne per i giorni di agonia il cuore d'Italia. La mattina dopo arrivò Sandro Pertini, il vecchio socialista presidente della Repubblica. Non volle più andarsene, «qua c'è un mio figlio». La moglie, naturalmente, i figli, il fratello Giovanni, e quasi tutti i dirigenti Pci, con Pecchioli, Angius e Pajetta che si sobbarcavano il grosso del lavoro; a Roma erano rimasti solo Natta e Occhetto, futuri segretari. «In ospedale ho visto Pecchioli e Ingrao, uno bassino, l'altro altissimo , abbracciarsi e scoppiare a piangere a dirotto», ricorda Pietro Folena. Il partito aveva un cuore, e lacrime da versare, non era quella grigia macchina di burocrati che tanti deridevano. Arrivavano tutti, i democristiani, i liberali, Cossiga e Scalfaro, Spadolini e Forlani, Biondi e De Mita. Venne Bisaglia: «In una pausa, mi confidò: “Ho paura del mare”, e poco dopo morì annegato», ghigna il professor Lenci, che faceva da anfitrione nel «suo» ospedale.
Si riproducevano in piccolo le tensioni nazionali. Arrivò, buon ultimo, il presidente del consiglio Bettino Craxi. Una settimana prima, al congresso socialista, Berlinguer era stato fischiato. A Padova il clima era glaciale. Nel piazzale dell'ospedale, sempre affollato, tirava brutta aria: «C'era un bel malumore tra i compagni. Dovette essere sedato», dice Lenci. Craxi fu accolto con gelida cortesia, anche dai dirigenti, e dagli stessi medici: «Ricordo che salì fino all'anticamera della Rianimazione, e lì si mise a parlare con qualcuno, e non si decideva mai a entrare. Giron, il primario, si infastidì. "Vagli a dì che venga, se vuol venire, che io ho da fare"».
C'era tensione anche tra Pertini e Nilde Jotti. Pertini s'era incavolato di brutto - come un genitore severo col figlio - perché la presidente della Camera era arrivata a Padova un giorno dopo lui. Non le parlava, la ignorava ostentatamente. Il servizio d'ordine aveva un bel daffare ad organizzare gli spostamenti evitando che i due si incontrassero. Ma queste sono storie da troppo affetto.
Il servizio d'ordine mobilitava tutto il partito, in ospedale e al Plaza. L'ospedale calamitava mezza regione. Passava la gente andando o tornando dal lavoro, si fermava a chiedere: «Come sta?». Non erano comunisti. In albergo dormivano i vertici del Pci . Là l'organizzazione era in mano a Folena e a Daniele Lorenzi dell'Arci. Daniele ricorda: «Chi dava più da fare era Angius. Timido, gentile, non lo conosceva nessuno, lo fermavano sempre, doveva cercarmi per passare. . .».
Lorenzi, la notte dell'ictus, aveva già avuto la sua rogna: l'operatore privato ingaggiato per riprendere il comizio, fiutato l'affare, era partito per Parigi, a vendere la cassetta: 90 milioni gli offrivano. Telefonate tempestose. Folena, alle due di notte, era riuscito a contattare a Roma il «responsabile comunicazione» del Pci, un tal Veltroni: «Riuscì a far intervenire la Rai. La Rai contrattò con l'avvocato dell'operatore, e acquistò lei la cassetta». Il contratto fu steso dentro un furgone, nel piazzale dell'ospedale.
E Berlinguer morì, l'11 giugno. Tanti parroci avevano invitato a pregare per lui nella messa domenicale. L'aereo presidenziale aspettava a Venezia. Padova, Mestre, erano impercorribili, le strade assiepate di gente. Pioveva. Si erano gremiti i ponti e i bordi dell'autostrada, fabbriche ferme, contadini venuti in trattore, camionisti in lacrime. Passava Enrico Berlinguer, «piccolo, timido, silenzioso, attento, caparbio, impregnato di moralità e di passione, e oggi no, non vedo nessun leader politico così carismatico, capace come lui di suscitare una tale emozione collettiva», dice Zanonato. Lenci, il professore, si aggrappa ad un ultimo flash: «Poco prima della morte, la signora Berlinguer mi consegnò un abito, per il marito. Io lo presi, cominciai a cincischiarlo distrattamente, come faccio sempre coi miei vestiti, lei si preoccupò: professore, per cortesia. . . sono andata a prenderlo a Roma, l'ho stirato io stanotte. . .»
Berlinguer ha lasciato senza dubbio un grande vuoto, politico e umano. Per le sue doti personali, che erano notevoli, e per la straordinaria capacità dell´intellighenzia comunista d´aureolare di carisma leader che meno sembravano adatti alla comunicativa - si pensi a Togliatti - era diventato un protagonista della vita politica. Meritava - più di tanti altri - d´esserlo: perché poteva commettere errori, mai disonestà o bassezze.
I suoi apologeti, spesso smodati, hanno fatto di lui una sorta di audace rinnovatore del comunismo. La verità è che Berlinguer aveva una mente aperta, ma all´interno degli schemi di partito: e che la sua conversione al nuovo fu graduale, attenta e sofferta: un adeguamento intelligente alle prospettive che la storia e la politica, in Italia e fuori d´Italia, imponevano, e che avevano costretto anche il coriaceo Marchais a molte concessioni.
Ecco perché un timido piaceva tanto alla gente , intervista di Antonio Gnoli
«Ho ancora viva l´immagine dell´uomo. Berlinguer è stato un caso raro, forse unico, di politico in grado di trasmettere un senso di fiducia e amorevolezza», Gillo Dorfles, studioso di estetica e di comportamenti legati al costume offre una lettura un particolare di Berlinguer.
«La sua postura, il suo modo di darsi in pubblico pur nella reticenza assoluta, suggerivano situazioni insolite per un politico. Innanzitutto la distanza. Dalla sua persona emanava qualcosa di remoto e intangibile. Se penso alle odierne risse televisive, al modo arruffato con cui la politica cerca l´autoaffermazione, non posso non rilevare quanto distante fosse la sua presenza. Distanza ma anche diversità. Ecco l´altro tratto sorprendente. Ci è difficile immaginare un politico altrettanto spoglio da ambizioni mediatiche, così sprovvisto di retorica e talmente scarno nell´oratoria da risultare quasi affetto da mutismo. Le sue parole erano avvolte dal silenzio. Niente a che vedere con le studiate pause craxiane, con quel parlare lento e calcolato. Quelle parole sembravano al contrario scaturire da una immensa timidezza».
«Tutto questo ha finito con il creare il più involontario degli esercizi carismatici: la distanza si è trasformata in un´aura potente, la differenza in un valore al quale riferirsi, la timidezza in una forma di aristocratica innocenza. Nessuno, nell´Italia degli anni Settanta, è stato come lui: un punto di attrazione per i più diversi strati sociali. Un operaio poteva vedere in lui la moralità al potere, il borghese quel senso aristocratico che gli derivava dalle sue radici».
«Non è irrilevante dove e come si nasce. Berlinguer apparteneva a quella ristretta cerchia di famiglie sarde, aristocratiche e colte, dalle quali sono usciti personaggi di primo piano, come Pintor o Cossiga. È ovvio che da solo questo non sarebbe bastato. E non so se oggi un uomo del genere avrebbe avuto quella presa che ebbe allora. Mi permetto di dubitare. Di lui, a me che non mi sono mai occupato di politica, resta la sua rara essenzialità antropologica. Il suo corpo erano i suoi pensieri. Dopotutto quest´uomo apparentemente fragile e dimesso è stato quello che ha persuaso milioni di persone, anche fuori dal suo partito, sull´efficacia e la bontà di un certo progetto politico. Non giudico se un tale progetto fosse giusto o sbagliato, non spetta a me dirlo. Quello che posso notare in conclusione è che esteticamente fu il contrario del kitsch: un personaggio tragico».
Enrico Berlinguer è stato davvero l´ultimo Segretario Generale. E non soltanto del più grande partito della sinistra. Parlo anche degli altri grandi partiti italiani. Oggi guidati da leader a volti capaci, a volte no. Ma tutti troppo arrendevoli ai media e sempre alla ricerca della visibilità.
Per apprezzare la siderale alterità di Berlinguer, bisogna raccontare come si arrivava a intervistarlo. Ossia attraverso quale rito religioso occorreva passare, prima di raccogliere il verbo che lui aveva deciso di affidarti.
L´officiante del rito era Antonio Tatò. Il suo assistente? Il suo portavoce? Il suo segretario? Macchè, Tonino era ben di più. L´angelo custode. L´eminenza grigia del berlinguerismo. O suor Pasqualino, come l´aveva battezzato Alberto Ronchey, per paragonarlo alla monaca occhiuta che governava Pio XII. Era bello Tonino. Alto. Prestante. Voce bene impostata. Mix perfetto di alterigia e di cordialità. Splendido profilo tra il centurione e il barbiere di lusso. Chioma nera, imbrillantinata, taglio anni Quaranta, da attore nei film dei telefoni bianchi.
Era lui a stabilire il trattamento da riservare ai giornali. Un´intervista vera, faccia a faccia con il Segretario Generale. Oppure soltanto risposte scritte, da Tonino ovviamente. La volta della Nato e di Dubcek, era il giugno 1976, vigilia elettorale, a me toccò l´intervista vera. Quella precotta se la beccò Gaetano Scardocchia, allora capo dell´ufficio romano della Stampa. Gaetano protestò per un´ora, ma non ci fu nulla da fare. Tonino gli spiegò che non era per disistima verso di lui, ma per il padrone del giornale, Umberto Agnelli, candidato della Dc al Senato. In quel tempo, il Dottore e i suoi uomini non erano amati a Botteghe Oscure. E Fortebraccio, il sarcastico corsivista dell´Unità, li bollava così: «Arriva Umberto Agnelli scortato da Luca Cordero di Montezemolo, che non è un incrociatore».
Berlinguer era l´opposto di suor Pasqualino. Prima di tutto nell´aspetto fisico. Una figura smilza, quasi fragile, da adolescente che non ha mai giocato a pallone ed è invecchiato di colpo, le spallucce un po´ incassate, la schiena già curva. In quel 1976, aveva 54 anni, uno in meno del D´Alema di oggi. Però il viso era più vecchio, il volto di un uomo che non si risparmiava, che aveva consegnato se stesso alla politica e al partito. Un pallore grigio da fatica. Occhiaie. Rughe ben nette. Capelli come aghi di un´istrice. Barba di fine giornata quasi bianca. Il vestito, poi, gli conferiva un´apparenza da funzionario di federazione. Il solito abito carta da zucchero, un po´ informe. La cravatta rossiccia annodata alla meglio. Una camicia bianca qualsiasi.
Eppure guai a lasciarsi ingannare dall´apparenza. L´insieme che ho descritto, invece di trasmettere una sensazione di fiacchezza, ti scagliava addosso una forza insospettabile in quel piccolo uomo. Un´energia contenuta, ma grandissima. Compressa come una molla pronta a scattare. Trave portante di un carattere ferreo, da super testardo, anche capace di molte asprezze. Il carattere di un uomo abituato a nascondere il fuoco interno, la passione politica e la fede in una missione sotto una coltre fredda, dimessa. Quella che faceva sembrare un monarca rosso soltanto un suddito del partito. E un leader comunista indiscusso appena una formica paziente della lotta di classe.
Questo scudo consentiva a Berlinguer di dissimulare un´altra dote che sperimentai subito, a mie spese, nei preliminari di quella e di altre, successive interviste. Il Segretario Generale aveva un tratto da antico aristocratico che, nel ricevere un borghese che non conosce, lo fa parlare. Per capire quali siano le sue intenzioni. O per prepararsi a scansarne le pretese quando gli sembrino eccessive. Me ne resi conto dopo: Berlinguer era il contrario dei politici verbosi che oggi danno aria ai denti da tutte le tivù, indefessi dichiaratori del nulla. Parlando pochissimo, sapeva ottenere lunghe risposte.
Mentre tu cadevi nella rete, lui ti ascoltava senza batter ciglio, senza mai scoprirsi, senza concedere che qualche rara briciola di se stesso. Condita da un sorriso stento, ma sempre con una punta di malizia. Che il Segretario ti regalava tormentandosi l´orecchio destro, un tic che emergeva quando non fumava una delle tante Turmac. O quando non beveva un dito di whisky allungato con molta acqua. Un piccolo vizio da praticare con lentezza, a sorsi misurati con parsimonia, l´aria curiosamente rassegnata di chi prende una medicina.
Intervistarlo, soprattutto in momenti cruciali per il partitone rosso, richiedeva all´interrogante un´intensità pari alla sua. E fargli domande equivaleva a inoltrare quesiti scomodi a un santo assiso sotto il baldacchino. Tu all´esterno di quel riparo invisibile, ma esistente. Lui protetto e attento, chiuso nella lontananza dei propri doveri di leader e, insieme, teso a non sbagliare, per ottenere il meglio da quel lavoro a due.
Mi ha sempre colpito in Berlinguer l´estrema cura che metteva nel rispondere. Aveva già studiato l´elenco delle domande, che suor Pasqualino gli aveva consegnato almeno un´ora prima. E davanti al tuo quaderno ancora bianco, aspettava da te la prima mossa.
Quella d´avvio di una partita a scacchi di cui soltanto lui conosceva l´esito. In tanti anni, non sono mai riuscito a sorprendere Berlinguer con domande-tranello. Se aveva accettato i quesiti che Tatò voleva bocciare, significava che intendeva fare del nostro colloquio un atto politico destinato a restare. Però a deciderne il modo e il livello era affar suo. Dopo l´intervista sulla Nato, Giancarlo Pajetta parlò di una «forzatura giornalistica». Eppure doveva ben sapere che era un´eventualità inesistente con il Segretario Generale. E per il rito consumato nella piccola stanza, al secondo piano delle Botteghe Oscure: una scrivania coperta di carte, uno scaffale di libri, una fotografia di Gramsci alla parete.
Tre ore di colloquio alla presenza di un Tonino teso più del suo capo. E a volte ansioso di suggerirgli le risposte. Quarantadue pagine di appunti. Il giorno successivo, la revisione del testo, sempre per opera del santo sotto il baldacchino. Armato di una biro nera, Berlinguer procedeva pensieroso, la fronte aggrottata, con una lentezza sfiancante. Propria di chi sa di avere, dentro il partito, tanti fucili spianati a suo danno. E ha imparato che ogni parola può nascondere un´insidia, e quindi va soppesata, valutata, in tutti i suoi pro e i suoi contro.
Il Segretario Generale rileggeva ad alta voce le risposte che mi aveva dato. Se la prova non lo convinceva, la biro calava sul foglio per l´inevitabile correzione. «Lei corregge troppo!» protestavo. E lui, con un sorriso magro, replicava: «Non correggo: miglioro». Aveva una grafia minuta, ben disegnata, tutta spigoli, inclinata sulla destra, con certe lettere un po´ uncinate. Adesso che la guardo dopo tanti anni, mi vien da dire: ecco una grafia d´acciaio, infrangibile come la struttura umana di re Enrico.
Sto cadendo nel vezzo di mitizzare Berlinguer? Penso di no. Mi sono ben chiari i suoi errori, gli integralismi, le lentezze nel procedere verso un traguardo che sarà raggiunto, ma non da lui, soltanto nel fatale Ottantanove. Era anche un leader altero. Troppo orgoglioso della propria diversità. Sicuro all´eccesso di essere nel giusto. Moraleggiante. Un po´ cupo. Fustigatore dei peccati del mondo.
Ma come si fa a non rendergli onore? L´onore che spetta a un uomo che ha lottato per la propria causa in modo chiaro e leale. Dentro un´epoca sempre più marchiata dalla disonestà, dal trasformismo e dalla viltà.
Giovanni Berlinguer è il fratello di Enrico. Di due anni più giovane. Lo ha seguito durante tutta la sua vita politica, ed è sempre stato un militante e un dirigente del Pci, anche se a differenza del fratello non ha scelto la militanza a tempo pieno ma ha svolto la sua professione di scienziato, medico, e professore universitario. Nel 2001 Giovanni Berlinguer ha accettato di essere il candidato della corrente di sinistra dei Ds alla segreteria del partito. Ora è presidente di “Aprile”.
Com’era Enrico Berlinguer da ragazzo?
Come può essere un ragazzo di buona famiglia. Studioso quanto basta, molto appassionato di mare, gentile, pochi amici ma di solido legame. Aveva un carattere forte. Forse era segnato dalla morte della madre. Fu un fatto che pesò molto su di noi, anche su di me, che ero più piccolo di due anni.
Quando morì vostra madre?
Morì nel ’36, ma era malata da molto tempo. Morì quando Enrico aveva 14 anni e io 12. Il ricordo che ho io di mia madre è di una donna sempre malata, debole. Una donna molto affettuosa, ma spesso assente. Per noi è stata una esperienza molto dolorosa…
A scuola Enrico era bravo?
Sì era bravo, ma non eccellente. Anch’io ero bravo e neanch’io eccellevo. Fummo rimandati a ottobre un paio di volte. Eravamo molto legati. La differenza d’età era piccola e non creava un distacco, anche perché c’erano amicizie comuni, molti cugini. I cugini erano più piccoli di noi, ma erano associati ai giochi, alle attività collettive, e soprattutto alla vita di mare. D’estate a Stintino eravamo uno stuolo di coetanei. Enrico faceva il capobanda.
A quell’epoca non era timido e un po’ triste come lo abbiamo conosciuto?
No, non era timido, non è mai stato timido e non è mai stato triste. Era riservato ed è sempre stato riservato. La leggenda sulla sua tristezza era quella che lo faceva maggiormente arrabbiare. Enrico era allegro, gli piaceva vivere, gli piaceva divertirsi.
Voi due eravate molto uniti?
Con la crescita, verso i 15 anni, i nostri interessi iniziarono a divergere, io mi sentivo attratto dalle scienze, lui maturava una passione per la filosofia. Io sognavo di diventare chirurgo, lui non so cosa sognasse: leggeva libri per me difficilissimi. Anche nel tempo libero prendevamo vie diverse. Insieme facevamo la vela e giocavamo al pallone, per il resto ci dividevamo: io mi specializzai nel biliardo, nella carambola. Ero molto forte. A lui piaceva giocare a carte. Andava al bar Rubattu, a via Roma e lì ore a tressette o a mariglia, che è un gioco di carte sassarese, una specie di bridge dei poveri, si fa con quaranta carte. Poi spesso faceva quella che noi chiamavamo la seconda ora. Cioè, quando la notte il bar chiudeva, lui restava lì dentro, con un po’ di amici e giocava a poker…
Allora è vero che giocava a poker, come dice Fassino?
Sì, però non è vero che perdeva. Enrico vinceva quasi sempre a poker. E coi soldi si comprava i libri di filosofia. E la filosofia credo che fu l’anticamera della politica.
Quando iniziò a occuparsi di politica?
Non so dire una data esatta. La politica in casa nostra c’è sempre stata. Mio padre era nettamente schierato con l’antifascismo, era stato deputato nell’ultima legislatura semilibera, quella dal ‘24 al ’26. Faceva parte del gruppo liberal-costituzionale di Giovanni Amendola. Durante il periodo fascista lui aderì al partito d’azione, subito, appena fu fondato dai Rosselli.
E a casa vostra si parlava molto di politica?
Sì, era un’assemblea permanente. Vivevamo in una villetta, dopo la morte di mia madre, che era divisa in due appartamenti. In uno dei due appartamenti viveva la zia Lidia col marito Andrea, che era un funzionario di banca; poi venne, quando fu pensionato e ritornò a Sassari da Roma, anche il nostro nonno materno, Giovanni Loriga, un medico igienista. Nelle riunioni serali esplodeva lo scontro politico: papà democratico, mio nonno socialista di impronta positivista, come molti scienziati di quella generazione, poi c’era lo zio Andrea, anarchico, e noi due ragazzi che propendevamo per idee più moderne e avanzate. Queste si precisarono poi, quando Enrico entrò in contatto con gruppi di lavoratori che erano stati comunisti.
Quando successe?
Negli anni tra il ’40 e il ’42. Noi eravamo influenzati anche da zio Ettore, che era il più giovane degli otto fratelli di mio padre, faceva il giornalista alla Nuova Sardegna finché i fascisti non la chiusero. Lui aveva una piccola biblioteca di libri proibiti. Naturalmente c’era “Il Manifesto” di Carlo Marx (edizioni Laterza) e poi c’erano gli scritti di un pensatore anarchico della fine dell’Ottocento, Max Nordau. Ricordo che leggemmo un suo libro che ci colpì molto. Si chiamava, “Le menzogne convenzionali della nostra civiltà”. C’era un bel catalogo di menzogne: patria, famiglia, religione…Noi eravamo molto legati allo zio Ettorino perché lui era della generazione di mezzo, faceva un po’ da ponte tra noi e quelli dell’età di mio padre. Anche con lui c’erano continue discussioni: di politica, di filosofia, di letteratura.
Tu una volta mi hai detto che tuo fratello era un kantiano.
Si, in filosofia era un kantiano. Aveva letto la “Critica della ragion pura”, la “Critica della ragion pratica” e la “Critica del giudizio”. Non conosceva ancora gli scritti politici di Kant, perché allora in Italia circolavano poco. Aveva una immensa ammirazione per la costruzione intellettuale di Kant e soprattutto per la dimensione morale della sua opera. Però leggeva anche molti altri autori. Soprattutto leggeva Hegel, Schopenhauer, e amava molto la “Storia del liberalismo europeo” di Guido De Ruggiero.
Quando succede che tutto questo si tramuta in politica-politica?
La politica - ti dicevo - c’era sempre stata. Negli anni 40 esplode. Un po’ per la nostra passione e la nostra curiosità di capire quello che succedeva. Un po’ anche per l’influenza di nostro padre.
Voi eravate interessati all’aspetto pubblico della vita di vostro padre?
Sì, soprattutto ai suoi racconti sul fascismo e sull’antifascismo, e alle implicazioni politiche di quel che faceva come avvocato penalista. Mi ricordo in particolare un episodio che fu anche drammatico. Nel ‘37 ci fu a Sassari un duplice omicidio. Alcuni uomini della milizia, dopo una lite, uccisero due venditori ambulanti di torrone. Mio padre, insieme all’avvocato Andrea Cugiolu, fece la parte civile per incarico dei parenti delle vittime. Il clima in città divenne accesissimo. I fascisti erano scatenati. Minacce, scritte sui muri, telefonate anonime, cortei. Mi ricordo gli slogan scritti con la vernice vicino casa, e i manifesti affissi per la città: “Chi tocca la milizia avrà del piombo”. Una vera campagna intimidatoria. L’aula della Corte d’Assise era stracolma il giorno che iniziò il processo. Sia perché il fatto aveva creato molto scalpore, sia perché nel processo erano impegnati due avvocati “di grido”, i più noti di Sassari. A difendere gli imputati della milizia fu chiamato l’avvocato Siniscalchi, che veniva da Napoli, e a Napoli era il capo del fascio, cioè il federale. Iniziò subito la polemica tra difesa e parte civile. A un certo punto Siniscalchi gridò contro mio padre: “voi state facendo speculazione politica sopra due cadaveri!”. Mio padre si alzò dal suo banco, attraversò l’aula, si avvicinò al banco di Siniscalchi, in silenzio, e gli assestò due schiaffoni in faccia. Successe il finimondo. Mio padre era così. Cugiolu si arrabbiò e gli disse: “Mario, il processo è finito qui…”.In effetti il processo fu sospeso e rinviato a Viterbo. “Legittima suspicione”. Poi a Viterbo i fascisti furono assolti. Ma l’episodio dello schiaffo ebbe un seguito. Si scoprì che ambedue gli avvocati, Siniscalchi e mio padre, erano ufficiali in congedo, e si vide anche che il codice d’onore degli ufficiali in congedo, in questi casi, imponeva il duello. Era una situazione strana. La legge, formalmente, proibiva il duello. Ma il codice d’onore lo esigeva. Si decise di farlo. Si stabilì la data. Si stabilì l’arma: spada. A noi, nostro padre non disse niente. Però ci comunicò che lui, per distrarsi, riprendeva le lezioni di scherma. Si allenava tutti i giorni. A noi sembrava strano, lui aveva quasi cinquant’anni. Il duello si fece. In campagna, vicino a Sassari, all’alba. Fu un duello in piena regola: coi padrini, i medici, il pubblico e tutto. E un cordone di carabinieri per evitare invasioni e garantire la regolarità. Mio padre da giovane aveva fatto molta scherma. Ai primi assalti ferì subito Siniscalchi al braccio destro, i medici si affrettarono a dire che Siniscalchi non poteva continuare. Duello vinto. Mio padre tornò a casa alle sette, ci svegliò per mandarci a scuola e ci raccontò tutto, ed era eccitatissimo e molto felice.
Questa strana vicenda ha anche una coda recente. Qualche anno fa ho sentito che si presentava alle elezioni per il Senato un avvocato di Napoli di nome Siniscalchi, nelle liste dell’Ulivo. Per curiosità ho chiesto chi era. Mi hanno detto che era di una nota famiglia di avvocati napoletani e che suo padre era stato anche il capo del fascio. Vedi come cambiano le cose? Del resto devo dire che poi, negli anni successivi al duello, mio padre ci parlò sempre bene di Siniscalchi, che incontrò più volte in Cassazione. Disse che era una brava persona. In effetti era un uomo potente e se voleva vendicarsi di mio padre poteva farlo. Invece non fece niente …
Quando è che voi diventaste comunisti?
Prima della liberazione, nel ’43, si era costituito a Sassari un gruppo di comunisti, in gran parte anziani. E appena possibile fu costituita la sezione del Pcdi . Non era arrivata in Sardegna la notizia che il nome era cambiato e che si chiamava Pci. Enrico diventò segretario dei giovani comunisti di Sassari. Ci furono subito molti iscritti. Proletari, sottoproletari, studenti. Io diventai comunista più tardi, nella primavera del ’44, quando Enrico uscì di prigione dove lo avevano rinchiuso per la rivolta del pane. Enrico aveva molto ascendente sui ragazzi, faceva delle lezioni, spiegava Marx, le teorie comuniste e tutto il resto. In Sardegna la fine del fascismo fu salutata con grandi manifestazioni. Nel settembre del ’43, dopo l’armistizio, ci fu anche il tentativo degli antifascisti di spingere l’esercito italiano a disarmare la divisione tedesca che era di stanza nell’isola. Sarebbe stato possibile, perché i soldati tedeschi erano sparsi nel territorio, quindi vulnerabili. Però il comandante delle forze armate italiane respinse questa idea. Permise che i tedeschi si raggruppassero e sloggiassero rapidamente dalla Sardegna che loro consideravano indifendibile. I tedeschi salirono al nord, passarono in Corsica e poi sbarcarono in Francia. La Sardegna fu libera già dal settembre del ’43. Non ha conosciuto la guerra guerreggiata. E’ stata, forse insieme alla Puglia, l’unica Regione italiana che non l’ha conosciuta. Ha vissuto solo i bombardamenti devastanti prima del settembre ‘43, soprattutto a Cagliari, dove c’era un porto importante che fu sottoposto a moltissimi attacchi dagli aerei alleati. E il porto di Cagliari è proprio dentro la città. A Sassari, invece, ci furono solo un paio di bombardamenti senza vittime.
Cosa successe dopo l’8 settembre?
La situazione politica restò per molti mesi immobile. Ci fu continuità con il fascismo. Non c’erano più il partito fascista e le milizia, ma le prefetture, le questure, tutti i gangli dell’amministrazione erano nelle mani degli stessi di prima . Nessun cambiamento. E la situazione economica peggiorava. Durante la guerra c’erano state sofferenze, ma la Sardegna aveva un certo grado di autosufficienza alimentare. Pastorizia e agricoltura. Dopo l’otto settembre le cose peggiorarono, c’era la crisi vera. Arrivò la fame. C’era anche il divieto di costituire partiti politici, tanto che nostro padre fu arrestato per avere contravvenuto a questo divieto, organizzando il partito d’azione. Fu una vicenda curiosa l’arresto di mio padre. Lui era un personaggio, in città. Conosceva tutti, specialmente a Palazzo di giustizia. Così, quando fu spiccato il mandato di cattura, qualcuno lo avvertì e lui cercò di non essere arrestato. Legò insieme qualche lenzuolo per calarsi dal balcone sul retro, e poi mise un catenaccio al cancello di casa, in modo di avere il tempo per fuggire. Quando arrivarono i carabinieri lui se ne accorse, andò nel balcone sul retro, prese in mano il lenzuolo e si calò in giardino. Però nostro padre era coraggioso quanto distratto. Così nella fretta si era dimenticato di legare il lenzuolo all’inferriata, e quando scavalcò il parapetto aggrappato al lenzuolo volò a terra col lenzuolo in mano e fu una scena drammaticissima e anche un po’ comica. Io ero in casa e mi spaventai molto. Corsi all’ospedale a chiamare soccorsi. Lui finì piantonato in corsia.
E l’arresto di Enrico quando avvenne?
Più tardi. Mio padre era stato già liberato. A Sassari, all’inizio del ’44, ci fu una rivolta spontanea degli affamati. Saccheggiarono i forni, ci furono grandi manifestazioni in piazza d’Italia, e fu invasa anche la prefettura. Scattò subito la repressione e colpì selettivamente quelli che erano accusati di essere i fomentatori, cioè i giovani comunisti. Molti giovani comunisti stavano effettivamente tra la gente. Ma non erano stati loro a organizzare la rivolta, non potevano essere stati i promotori di un movimento così grande. Era un movimento grande e anche disperato, perché era mosso dalla fame, dalla fame vera. Enrico fu arrestato insieme a una trentina di ragazzi comunisti. Fu accusato di devastazione, saccheggio, insurrezione armata. Imputazioni gravissime. Comportavano la pena di morte. Per diversi mesi furono tenuti segregati al carcere di San Sebastiano, che si trovava proprio di fronte allo studio legale di Mario e Aldo Berlinguer. Erano isolati, senza la possibilità di comunicare tra loro, né con le famiglie, né con gli avvocati. I giudici e la polizia lavorarono per costruire prove false che servissero a dimostrare che Enrico era il capo della rivolta. E qualche giovane comunista, forse per paura, forse perché ebbe delle promesse, finì per convalidare queste accuse.
Voi eravate preoccupati. Poteva finire male…
Si noi eravamo molto preoccupati. Però sapevamo che il castello di accuse non avrebbe retto al processo. E contavamo sul mutamento del clima politico e morale che stava maturando nella parte continentale dell’Italia già liberata. Eravamo convinti che la liberazione avrebbe avuto conseguenze positive anche sul processo. Quando mio padre fu incluso nella delegazione dell’antifascismo sardo, per il primo congresso nazionale degli antifascisti, che si tenne a Bari, lui non voleva andare, per restare a Sassari e occuparsi di Enrico. Ma Enrico riuscì a fare uscire dal carcere una lettera nella quale insisteva, diceva al padre che doveva assolutamente andare a Bari. La prigionia di Enrico fu molto serena, per stato d’animo, per comportamento. In teoria loro erano isolatissimi, ma siccome mio padre era di casa a San Sebastiano, e conosceva tutti i secondini, nel giro di pochi giorni si organizzò una rete di contatti clandestini, attraverso i messaggi scritti che i secondini facevano filtrare. Servirono molto a organizzare la difesa contro accuse manipolate e perfino stravaganti. L’episodio più incredibile è stato il ripescaggio, da parte dell’accusa, del verbale redatto contro Berlinguer Enrico dalla milizia fascista, che aveva fermato e perquisito lui e altri tre “complici”, trovati nelle vicinanze di un manifesto sovversivo intitolato “Sorgere e Risorgere”, e firmato dalla nota formazione clandestina Giustizia e Libertà. La cosa più strana è che il verbale era stato compilato dall’Ufficio politico investigativo della 177esima Legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale “l’anno millenovecentotrenta, addì 28 del mese di ottobre”, cioè quando Enrico aveva otto anni..
Il processo a Enrico credo che è stato quello più impegnativo della lunga vita professionale di mio padre. Anche se non si concluse mai. Il clima politico cambiò ed Enrico fu prosciolto in istruttoria e scarcerato. Quattro mesi di carcere. Uscì dimagrito, impallidito, ma probabilmente rafforzato. Credo che fu in quei mesi che decise di dedicare la sua vita alla politica. Aveva 21 anni, aveva quasi finito gli esami all’università, stava scrivendo la tesi di filosofia del diritto. La politica lo travolse, non si laureò mai.
Ci sono delle lettere di Berlinguer dalla prigione?
Si, ci sono le lettere che ci mandava attraverso i secondini amici. Sono scritte a matita, perché non aveva penne, e sono scritte su pezzetti di carta di ogni tipo, da pacchi, o sui margini bianchi della carta di giornale. In quelle lettere dimostra una forza di carattere eccezionale. Rifiutava qualunque agevolazione che non fosse per tutti. Tendeva continuamente a tranquillizzare noi sul suo stato d’animo, raccontava le letture, commentava i libri. Un giorno scrisse che aveva imparato a memoria l’Amleto in inglese, e che l’Amleto esprimeva in modo perfetto i dilemmi di ogni essere umano. Sono molto interessanti queste lettere. Erano poi straordinarie, sul piano affettivo, le lettere di nostro padre a lui. Gli scriveva quasi ogni giorno. Lettere lunghe. Nella prima parte metteva il racconto degli atti istruttori, notizie sullo svolgimento delle indagini, consigli legali eccetera; poi nella seconda parte parlava della guerra e della politica italiana, oppure faceva il resoconto del congresso di Bari, del suo ritrovare amici e compagni di lotta dei quali si erano perdute le tracce. In tutte queste lettere c’era un gigantesco amore paterno….
Cosa fa Enrico quando esce dalla prigione?
Compie un viaggio con mio padre a Salerno dove c’è la sede del governo, e lì conosce Togliatti: glielo fa conoscere mio padre. Poi, subito dopo la liberazione dell’Italia va a Roma. Per la verità andiamo a Roma insieme. Prendiamo casa con nostro padre in un appartamentino a via Boccanegra, dietro piazza Bologna. Tra noi in quel periodo c’è un rapporto molto intenso di comunicazione e di scambio, non di frequenza perché ci vediamo poco. Lui viaggia, io studio medicina. Enrico è diventato un dirigente del movimento giovanile comunista, diretto da Giulio Spallone e poi da Giuliano Paletta. C’è anche Carlo Lizzani. Sta poco a Roma. Il partito lo spedisce a Milano a fare esperienza. A Milano c’è il “Fronte della Gioventù”, quello fondato da Eugenio Curiel, che è stato ucciso nel 1945 dai nazisti. Il “Fronte” è una organizzazione unitaria, non solo di comunisti. Poco dopo si costituisce la federazione giovanile comunista, e lui diventa il segretario nazionale.
Com’era il tuo rapporto politico con lui?
Sono stato un seguace di Berlinguer. Un adepto. Ma nel corso degli anni ho avuto anche varie discussioni, vari dissensi. Non frequenti ma li ho avuti. Per esempio negli anni quaranta, quando la prospettiva dell’Italia era di andare verso la normalizzazione, non ero d’accordo, ero irrequieto, io non credevo molto alla possibilità di una azione sul terreno democratico. Enrico si mostrò molto più ragionevole di me, e naturalmente aveva ragione.
Tu eri un po’ “secchiano”, forse, nel senso di simpatizzante per Pietro Secchia?
No, questo no. Non ho mai avuto simpatia per Pietro Secchia.
Sulla linea politica del “compromesso storico”, negli anni ’70, eri d’accordo?
Pensavo che fosse una giusta strategia ma fui turbato di fronte al suo divenire semplice accordo di governo. Un accordo che poi significò subalternità. Su questo discutemmo molto con lui. Enrico diceva che era un passaggio obbligato. E d’altra parte la validità della strategia ebbe una straordinaria conferma nelle elezioni del ’75 e del ’76. Il Pci guadagnò moltissimi voti.
Perché fu abbandonato il compromesso storico?
Per molte ragioni. La più importante credo sia che l’interpretazione prevalente che si ebbe di quella idea politica fu in termini di negoziati di vertice e di cedimenti. E poi perché a un certo punto ci furono dei cambiamenti sostanziali nel quadro politico: mutarono le coordinate in cui si era mossa quella strategia. I cambiamenti principali furono due. Uno fu che sul piano internazionale vinsero la Thatcher nel 1979 e Reagan nel 1980. Cioè prevalse alla guida dell’occidente una linea di capitalismo aggressivo, rivoluzionario, espansivo. Che dette avvio alla globalizzazione neoliberista nella quale oggi viviamo e della quale vediamo chiari i guasti e le ingiustizie che ha creato. E l’altro mutamento fu interno. Cambiò il nostro panorama politico: con la morte di Moro prevalse nella DC una linea che era assolutamente contraria al compromesso storico e aveva in testa un futuro molto diverso per l’Italia. Il compromesso storico si basava molto su quelle due personalità straordinarie: quella di Berlinguer e quella di Moro. La morte di Moro fu un colpo micidiale per l’Italia. E poi ci fu un altro fattore ancora: ci fu un ricambio nei gruppi dirigenti dell’economia italiana. Vinsero le correnti più conservatrici, e queste correnti decisero un contrattacco: vollero porre un freno alle riforme, riassorbirle e iniziare una vera e propria inversione di marcia sul piano politico e sul piano sociale…
Gli anni settanta, che sono quelli durante i quali si realizza la strategia del compromesso storico, sono ricchi di riforme. Riforma sanitaria, equo canone, aborto e moltissime altre. Riforme che modificarono la struttura economica e lo spirito pubblico dell’Italia.
Si, il contrattacco fu proprio contro queste riforme. Una parte dei gruppi dirigenti politici ed economici decisero che bisognava invertire rotta. Sbarrarono il compromesso storico.
A quel punto nella politica di Berlinguer c’è una rottura e un ripensamento. Nasce così la linea dell’alternativa democratica, e poi la teoria della diversità e l’apertura della questione morale?
Lui sente che c’è un tarlo nel sistema politico. E che i partiti di governo non sono più animati da alcuno slancio ideale. Stanno perdendo il rapporto tra la politica e le cose che contano, cioè l’ interesse dei cittadini, le aspirazioni della gente, le esigenze di solidarietà. E soprattutto sente che l’accordo tra Dc e socialisti è un accordo di basso profilo. Non ha le basi politiche e ideali che aveva avuto la nascita del primo centrosinistra. E’ una alleanza insufficiente a garantire la guida democratica del paese. Allora Enrico cerca strade nuove. Secondo me quegli anni, e cioè i primi anni ’80, non sono gli anni dell’isolamento - della ricerca dell’isolamento e dell’identità, uno contro tutti - come qualcuno ha scritto. Sono gli anni in cui lui si rende conto, non sempre in modo del tutto nitido ed evidente, che il mondo è entrato in una fase nuova. E oltre a proporre una politica di alternativa democratica, ai partiti e all’opinione pubblica, tenta di definire e ridefinire i metodi della politica, gli scopi, la fisionomia. E così propone da un lato la questione morale, dall’altra la linea dell’alternativa. La questione morale non è certo una questione giudiziaria. Enrico non si pone l’obiettivo di mandare qualcuno in prigione, ha un obiettivo molto più ambizioso: quello di rinnovare i partiti, il costume, i rapporti coi cittadini. In sostanza si pone il problema della riforma della democrazia e del potere. E’ questa la questione morale. E l’alternativa è un insieme di progetti e di temi che allora furono scarsamente capiti dal suo stesso partito, e soprattutto dal gruppo dirigente del suo partito, ma che erano incredibilmente moderni, erano proiettati nel futuro. Oggi sono di straordinaria attualità, costituiscono l’agenda politica reale. Sono il tema dello scontro che è aperto tra le diverse concezioni politiche del mondo e del suo futuro.
Quali erano questi temi?
Il tema dell’austerità, per esempio. Che è un tema gigantesco, per niente conservatore , anzi tutto costruito su un’idea nuova di “domani”. Sollevava le seguenti esigenze: revisione dei rapporti tra Nord e Sud del mondo; valorizzazione di nuove risorse, lotta contro gli sprechi dell’occidente, redistribuzione della ricchezza, salvaguardia dell’ambiente. Non sono le questioni che oggi abbiamo davanti e che ancora non ci decidiamo a prendere di petto? Mi ricordo di quando preparava la relazione al XVI congresso. Un giorno mi disse: “Al prossimo congresso lancerò un altra idea. Quella del governo mondiale”. Eravamo nei primi anni ottanta, nel reaganismo e nel breznevismo, Gorbaciov non era ancora alle viste, il muro sembrava eterno, la corsa agli armamenti galoppava. E lui lanciava l’idea di un governo mondiale? Rimasi molto sorpreso. Pensai che non lo avrebbe fatto. Invece lo fece, e spiegò cosa intendeva per governo mondiale e perché era necessario ed era l’unica via d’uscita. Mi convinse. Capii che era effettivamente la direzione giusta. Non so quanto realistica, ma giusta. E lui mi suggerì di rileggere gli scritti politici di Kant, dove questa idea era specificata. Era delineato un nuovo rapporto tra popoli e governi non come soluzione parziale per impedire questa o quella guerra, bensì come modo per stabilire relazioni diverse tra popoli e potere e per assicurare la convivenza nel mondo.
Per Berlinguer il pacifismo fu importante?
Si il pacifismo fu importante. Il pacifismo negli anni ottanta entra in una fase nuova. Non assomiglia al pacifismo dei decenni precedenti. Diventa indipendente, autonomo. Nel dopoguerra i movimenti pacifisti erano sempre stati molto influenzati dalla divisione del mondo in blocchi. In quei movimenti c’era una specie di adesione a uno dei due blocchi. Negli anni ottanta cambia tutto. E Enrico cambia la politica del Pci. Vedi, io credo che ci siano due momenti importantissimi di svolta nella sua politica. Uno è la famosa intervista a Giampaolo Pansa nella quale Enrico riconosce la Nato e dice di sentirsi più tranquillo con l’Italia sotto il suo ombrello. E’ un vero e proprio rovesciamento della politica estera. Il secondo momento è la lotta contro gli euromissili, nei primi anni ottanta. Non solo contro i missili americani ma anche contro i missili sovietici. Enrico fu tra i pochi uomini politici italiani che iniziò a prendere in considerazione un mondo non più diviso in blocchi, e iniziò a pensare la politica fuori dei blocchi.
Tu dici che la sua non era una posizione difensiva e di conservazione e rilancio dell’identità. Dici che era una posizione che guardava più al futuro che al presente. E’ così?
Si, è così. C’è in quegli anni un’altra intervista importante. Una lunga intervista all’Unità, a Ferdinando Adornato, che allora era un giornalista dell’Unità, e l’intervista fu pubblicata in un numero speciale che prendeva spunto dall’anno 1984 (visto che 1984 è il titolo di un famoso libro di Charles Orwell sul futuro). In quell’intervista Enrico mostrava di avere capito molto di quello che stava per succedere, e della rivoluzione tecnologica che era alle porte. Lanciò una proposta, quella di un grande convegno internazionale sulla futurologia, che suscitò scarsissimo interesse nel partito e nell’intellettualità. Egli era molto interessato a un tema che era stato tra noi, fin da ragazzi, oggetto di discussioni infinite: la priorità della filosofia o della scienza e i loro rapporti nella dinamica della storia e del pensiero umano. Era interessato all’innovazione, al ruolo delle nuove scoperte scientifiche e soprattutto al peso che tutto questo avrebbe avuto sulla politica e sui rapporti tra la politica e il genere umano.
Si rendeva conto che questi rapporti non potevano essere garantiti solo dalle vecchie strutture dei partiti. Non stava forse pensando anche al superamento di quella forma di partito?
Sì , credo che stesse pensando a questo. Ma il suo pensiero non era ancora abbastanza delineato. C’è una conversazione di cui ha dato conto Francesco De Martino. Egli suggerì a Enrico di cambiare il nome del Pci. Sembra che Enrico abbia risposto che un passo del genere non sarebbe stato capito dal suo stesso partito. Ma di questo non posso dare alcuna testimonianza perché con me non ne parlò mai.
Quello che mi pare si possa dire in linea generale -forse su questo tema potremo tornare- è che ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell'est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d'inizio nella rivoluzione socialista d'ottobre, il più grande evento
Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude, e per ottenere che anche il socialismo che si è realizzato nei paesi dell'est possa conoscere una nuova era di rinnovamento e di sviluppo democratico, sono necessarie due cose fondamentali: prima di tutto è necessario che prosegua il processo della distensione, perché è chiaro che l'inasprimento della tensione internazionale, la corsa agli armamenti portano all'irrigidimento dei vari regimi, compresi quei regimi; inoltre, è necessario che avanzi un nuovo socialismo nell'ovest dell'Europa, nell'Europa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato sui valori e sui principi di libertà e di democrazia. Si tratta, in sostanza, della politica, della strategia, dell'ispirazione fondamentale del nostro partito, che ricevono da quei fatti una nuova conferma.
Turone: Non le sembra in questa risposta di avvertire l'eco quasi storica di una felice eresia, a mio giudizio? Lei dice che la capacità di propulsione e di rinnovamento delle società dell'est europeo si è andata esaurendo; si chiude un ciclo. Ora, io vorrei sapere perché si chiude questo ciclo. Solo perché ci sono stati errori o anche perché forse c'è qualcosa che non funzionava nell'ideologia? Mi sembra di ricordare che nel documento già citato ci fosse una frase, quella sulla necessaria indissolubilità fra democrazia e socialismo, richiamata adesso da lei, che, sotto il profilo dell'ortodossia leninista, è veramente, felicemente eretica. Possiamo dedurne che il PCI, il quale è all'avanguardia nella coraggiosa opera di revisione in corso in campo comunista, ha finalmente messo in soffitta accanto a zio Stalin anche babbo Lenin?
Noi pensiamo che gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservino una loro validità, e che vi sia poi, d'altra parte, tutto un patrimonio e tutta una parte di questo insegnamento che sono ormai caduti, che debbono essere abbandonati con gli sviluppi nuovi che abbiamo dato alla nostra elaborazione, che si concentra su un tema che non era il tema centrale dell'opera di Lenin.
Il tema su cui noi ci concentriamo è quello della via al socialismo e dei modi e delle forme della costruzione socialista in società economicamente sviluppate e con tradizioni democratiche quali sono le società dell'occidente europeo. È chiaro che l'esplorazione di vie verso il socialismo, in questa parte dell'Europa e del mondo, richiede soluzioni del tutto originali, rispetto a quelle che si sono attuate nell'Unione Sovietica e che poi si sono via via attuate negli altri paesi dell'est, sia europeo sia asiatico.
Da questo punto di vista, noi consideriamo l'esperienza storica del movimento socialista, nel suo complesso, nelle sue due fasi fondamentali: quella socialdemocratica e quella dei paesi dove il socialismo è stato avviato sotto la direzione di partiti comunisti nell'est europeo. Ognuna di queste esperienze ha dato i suoi frutti all'avanzata del movimento operaio, ma entrambe vanno considerate criticamente con nuove formule, con nuove soluzioni, con quella, cioè, che noi chiamiamo terza via, la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell'est europeo. Si tratta di una ricerca nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia, dove questo stesso tema viene discusso e approfondito.
Nichols: Vorrei parlare della crisi polacca, però allargando un pochettino le cose per parlare della crisi più generale che abbiamo in Europa. Il papa sta facendo, come sappiamo, molti passi e molti interventi sempre interessanti in questo campo. Lo ha fatto per molto tempo, lo sta facendo adesso. Nel campo della pace -diciamo- e nel campo dell'unità dell'Europa orientale e occidentale. Dànno fastidio questi passi ai comunisti, o sono ben visti da voi?
Tutt'altro. Io penso che le parole che soprattutto in questi ultimi tempi il papa ha pronunciato in modo chiaro per condannare la corsa agli armamenti e, in particolare, la corsa verso nuove armi atomiche, siano delle parole giuste, che dànno ascolto ed espressione alla volontà di milioni e milioni di credenti che hanno manifestato insieme a noi, o in forme autonome, nel corso di questi ultimi mesi, in Italia e in altri paesi europei.
Valuto soprattutto in modo positivo la più recente iniziativa presa dal papa, che non è più soltanto un appello alla pace. Il papa, come è noto, ha inviato suoi rappresentanti, scelti tra i membri della Pontificia Accademia delle Scienze, per illustrare ai rappresentanti delle massime potenze -Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Inghilterra- uno studio compiuto dalla stessa Pontificia Accademia delle Scienze sulle conseguenze di un conflitto atomico, affinché tutti ricavino, da questo studio e dai terribili disastri addirittura di proprozioni catastrofiche per tutta l'umanità che ne deriverebbero, le dovute conseguenze.
Non soltanto occorre subito arrestare ogni passo nuovo verso la corsa agli armamenti, ma occorre lavorare per la messa al bando delle armi atomiche. Questa è anche la nostra posizione e la posizione di numerosi Stati. È la stessa posizione che si è espressa potentemente nei movimenti della pace che si sono avuti in questo ultimo periodo quasi in contemporaneità, ed è un fatto nuovo di estrema importanza, in numerose capitali europee.
Noi pensiamo che si tratti di un movimento che coinvolge un insieme di forze: Stati, governi, movimenti popolari, Chiesa cattolica e altre chiese, e che premerà in questo senso. Ci sarà effettivamente la prospettiva di porre un termine a questa corsa che non posso giudicare altro che una follia.
Nichols: E sull'Europa orientale?
Il papa ha espresso un concetto che, dal punto di vista generale, è valido: l'Europa ha una sua unità, una sua civiltà comune. I popoli europei, indipendentemente dai loro regimi sociali e politici, debbono avvicinarsi, debbono comunicare maggiormente fra loro, debbono comprendersi. Anche questo è un concetto che non ci è estraneo, anche se noi lo esprimiamo e lo manifestiamo in forme e con iniziative diverse.
Fonte:
http://www.ilbolerodiravel.org/kattivi_maestri/strappo.htm
Da quando morì Enrico mi sono sempre astenuto dal commentare i giudizi politici e personali, anche i più aspri, espressi sul suo operato. A questo mi ha indotto, forse più che l’ovvio riserbo, il percepire che ci sono tuttora verso di lui (anche da parte dei giovani) stima e affetto diffusi, non scalfiti dalle critiche e dal passare del tempo.
Mi sono anche astenuto dall’intervenire sui nodi più discussi del suo impegno alla guida del Pci, come il passaggio del compromesso storico da strategia nazionale ad accordo di governo con la Dc, come la rottura coraggiosa ma incompiuta con il comunismo, come le aspre polemiche che hanno diviso il Pci dal Psi di Craxi: temi che suscitano interrogativi importanti per la storia come pure per le nostre prospettive odierne.
Non riesco a tacere, tuttavia, il senso di dolore personale e più ancora di sconcerto politico che mi è venuto dalla lettura di alcune pagine-chiave del libro di Piero Fassino "Per passione", che è un'autobiografia dignitosa e stimolante e un'utile fonte di analisi sociale e politica di Torino e dell'Italia.
Anch'io ho passione, e cito perciò una sua metafora che mi ha fatto rabbrividire. Il contesto è così descritto nel libro (pp. 156-161): da un lato Craxi, il quale "interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia" e quindi "una gran voglia di modernizzazione", e dall'altra un Pci "che di fronte alle difficoltà del presente non sa opporsi ai richiami del passato e si esilia in una malinconica e solitaria navigazione senza bussola". La sorte, evidentemente, è segnata, e Fassino sprigiona così la sua fantasia descrittiva: "Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita: la partita dura ormai da molte ore; sta giungendo alle battute finali e guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l'avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l'altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l'impatto con la crisi della sua strategia politica".
Un uomo fortunato, quindi, per quel che gli è accaduto tempestivamente a Padova. Non commento il carattere lugubre e macabro della metafora, poiché ciò spetta ai lettori, forse meno di me emotivamente coinvolti. Sul piano politico, però, unendo passione e ragione (e concordando ovviamente sul carattere negativo della rottura avvenuta allora nella sinistra e sulle reciproche responsabilità), è doveroso porsi due domande.
Una riguarda la partita in gioco: è proprio vero che lo scacco matto era imminente, e che non c'era altra via di uscita? La mia impressione è che, sebbene Craxi segnò punti a favore subito dopo la scomparsa di Enrico, come il referendum sulla scala mobile (avviato, come riconosce Fassino, tra molte esitazioni dei nostri dirigenti), negli anni successivi cominciò il declino della sua politica, che si concluse poi drammaticamente con il danno maggiore: la scomparsa del Psi. In quegli anni furono avviate invece, con grande travaglio, le successive trasformazioni del nostro partito, che pur con perdite e affanni mantiene un ruolo sostanziale nella sinistra italiana. Forse, ciò è accaduto anche perché nei decenni precedenti non abbiamo compiuto soltanto "la traversata del deserto", ma anche una costruzione democratica di rapporti sociali diffusi, e perché continuità e discontinuità (quando dalle due abbiamo scelto il meglio!) hanno contribuito entrambe a salvare e trasformare (in modo ancora insufficiente) questo partito.
L'altra domanda coinvolge giudizi politici su quel tempo, e ancor più sulle scelte che si stanno compiendo oggi: è proprio vero che Craxi era modernizzante e Berlinguer passatista? E come collocarsi ora, quando le coordinate degli anni ottanta e novanta risultano in gran parte superate?
Nel Psi, intuizioni e intenzioni moderniste ci furono certamente, come la Conferenza programmatica del 1982 che nelle idee di Martelli volle coniugare "meriti e bisogni". Nei Congressi del Psi l'arredamento diventò avveniristico, il "made in Italy" fu propagandato nel mondo, soprattutto nel campo della moda, e le televisioni moltiplicate e accaparrate. Ma scienza e scuola ristagnarono e l'innovazione tecnologica progredì scarsamente. Le istituzioni più che riformate furono occupate, poste al servizio di gruppi e partiti e spesso corrotte. Non sta a me ricordare, per contro, che come risultato di un confronto politico asperrimo Enrico percepiva e soffriva il rischio di un isolamento (anche interno) e più ancora di una stagnazione delle idee. Dopo aver sollevato la questione morale, intesa non nel senso giudiziario bensì come riforma dei partiti e della politica (1981) e dopo lo strappo con il sistema sovietico (1982) Enrico negli ultimi anni ha riproposto con slancio il tema dello sviluppo sostenibile e del governo mondiale, il ruolo della scienza e della tecnologia, la questione dell'etica pubblica.
Tali questioni hanno assunto con la crisi del neoliberismo, dell'assetto culturale caratterizzato dal "pensiero unico" e ora del dominio di un solo paese, una priorità programmatica pregnante e urgente. Nel nostro passato, più che in altre esperienze che si vorrebbero riproporre come modelli, ci sono tracce da seguire, e nel nostro futuro ci deve essere più coraggio e più innovazione. Anch'io ripeterei volentieri la formula fassiniana "modernizzazione più diritti", se cercassimo insieme di darle qualche contenuto unitario, costruttivo e mobilitante.
Nell' ultimo quarto di secolo agirono sulla scena politica due personaggi di rilievo, Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer. Sarebbe stato un bene per la sinistra se fossero andati d' accordo. Invece si fecero la guerra. Di chi la colpa ? Scrive Piero Fassino, segretario dei Ds, nel libro autobiografico Per passione uscito in questi giorni, e di cui già si è occupata Repubblica: «A ben vedere la sinistra, lungo tutto il Novecento, è stata minata da un "male oscuro": la pretesa di ciascuno dei suoi due massimi partiti di volerla da solo rappresentare tutta, scommettendo sulla sconfitta e sulla sparizione dell' altro. Una maledizione che segna il conflitto Berlinguer-Craxi. Nel ' 75-76 è il Pci, forte di una straordinaria avanzata elettorale, a scommettere su una bipolarizzazione del sistema politico che gli assegni la rappresentanza della sinistra, relegando il Psi a forza residuale. Una scommessa perduta, come si incaricheranno di dimostrare gli eventi successivi». Colpa di Berlinguer, dunque, che in quella fase non seppe istituire una collaborazione efficace coi socialisti? Così è stato interpretato il giudizio di Fassino. Ma in questo suo giudizio manca, a mio avviso, un anello essenziale. Craxi gode in questi giorni di buona stampa. Se la merita? Certo colpì la fantasia di tante persone, come leader del partito, perché era, in una fauna politica piuttosto addomesticata, l' unico animale da preda: dotato di una personalità forte, coraggioso e spregiudicato, capace di decidere. Quanto alle sue singole azioni di governo, ve ne furono di buone e di cattive. Giusto l' intervento sulla scala mobile; criticabili le simpatie per gli argentini nello scontro per le Maldive; discutibile Sigonella, l' episodio in cui mostrò indipendenza di fronte agli americani, ma permise la fuga di un terrorista. Si dice di lui che capì la necessità di "modernizzare" l' Italia, sebbene fosse contrario alle privatizzazioni. Se tuttavia è giusto giudicare un uomo politico, pragmaticamente, dal risultato finale, il suo risultato fu pessimo: prese in mano il partito socialista e lo distrusse. Ma non è questa la sede per giudicare il personaggio. Il tema è un altro: la collaborazione fra socialisti e comunisti, il rapporto con Berlinguer. E qui si dimentica troppo spesso un ostacolo decisivo: la questione morale. Il partito socialista, come si è poi ampiamente dimostrato, era un partito corrotto, e non mi riferisco solo ai finanziamenti illeciti, di cui erano colpevoli, quale più quale meno, anche gli altri partiti. Ricordo di avere incontrato per caso Flaminio Piccoli, in piazza Montecitorio, ai primi tempi del centrosinistra. Piccoli era un uomo schietto. «Anche noi - mi disse, e si riferiva ai democristiani - avremo le nostre colpe, non lo nego; ma questi altri - e si riferiva ai socialisti - da quando si sono avvicinati al potere, hanno una fame, una fame~». Era scandalizzato, perfino lui. In Italia si è riluttanti, pudicamente, a parlare di certe cose, ma non possiamo dimenticare che Bettino Craxi, il grande modernizzatore della repubblica, affidava a questo o a quello, per esempio al proprietario di un bar di Portofino, miliardi e miliardi, come risulta da documenti giudiziari, con l' incarico di trafugarli all' estero e di cancellare in modo assoluto la loro provenienza. Berlinguer era fatto di un' altra pasta. Fece della questione morale una bandiera del suo partito, e ci credeva. Parlava della "diversità" dei comunisti, e si riferiva anche a faccende di questo genere. Ma la modesta sensibilità etica di questo nostro paese non dà grande importanza all' onestà, che è considerata una variabile indipendente, una questione privata: se c' è tanto meglio, se non c' è pazienza. Fassino, che aveva con Berlinguer grande familiarità, non menziona questo aspetto del problema; ma io sono convinto che la questione morale (più semplicemente l' onestà, se preferite) fu uno degli elementi che indussero Berlinguer a evitare ogni tentativo di collaborazione profonda con quel partito socialista. Di Berlinguer uomo politico si possono dire tante cose, gli si possono rivolgere molte critiche. Il suo distacco dall' Unione sovietica fu forse troppo lento, troppo timido. La sua proposta del compromesso storico fallì, e comunque, se avesse avuto successo, non avrebbe giovato al paese. Anche se capiva il valore della libertà, non si staccò mai del tutto, intellettualmente, dal comunismo inteso come teoria; forse può essere paragonato, sotto questo aspetto, a Gorbaciov, che a sua volta non cessò mai di essere comunista nel profondo dell' animo, e quindi anticapitalista; è probabile che fallirono anche per questo, l' uno e l' altro. Resta da vedere se le circostanze avrebbero permesso, all' uno e all' altro, una politica diversa. Ma è pur sempre vero che in materia di onestà personale Enrico Berlinguer aveva le idee chiare. E per questa ragione mi è rimasto, nel ricordo, molto simpatico.
Ho notizia che nei prossimi giorni, per iniziativa della Fondazione «Italiani e Europei» presieduta da Massimo D'Alema e da Giuliano Amato, si svolgerà un convegno sul craxismo al quale interverranno Stefania Craxi, Rino Formica, Gianni De Michelis, lo storico Sabatucci, oltre agli esponenti della predetta Fondazione e al segretario dei Ds, Piero Fassino. L'obiettivo del convegno, se ho capito bene, è una rivalutazione dell'opera politica di Bettino Craxi e di quelli che all'epoca furono i suoi principali collaboratori politici.
Implicitamente, ma abbastanza chiaramente, un siffatto intendimento porterà ad una critica della politica di Enrico Berlinguer e quindi di tutto il gruppo dirigente dell'allora Pci, del resto già anticipato nel libro autobiografico recentemente pubblicato da Fassino.
Considero radicalmente sbagliata un'iniziativa del genere. E Lei
?
GIOVANNI MOLTENI Milano
Debbo pensare, gentile signor Molteni, che la domanda con cui lei conclude la sua lettera sia, come si dice, retorica, nel senso che lei conosce già la risposta se legge abitualmente . In effetti io penso che un dibattito sul craxismo sia del tutto inutile poiché è ininterrottamente, ampiamente e liberamente avvenuto a partire dai primi anni Ottanta fino ad oggi. C'è ancora da scoprire qualcosa di nuovo in punto di fatto? Non direi.
Allora a che cosa serve? Forse a un'operazione battezzata magari come revisionistica ma in realtà di pura marca trasformista? Ho fondate ragioni per rispondere affermativamente a questa domanda, e mi spiego.
Bettino Craxi sostenne, nel corso della sua attività politica, parecchie tesi ampiamente condivisibili. Per esempio, e fin dai tempi in cui militava nella corrente nenniana del Psi, si batté per l'autonomia del Psi dal Pci dopo la fase del frontismo e della compromissione filosovietica del partito di Nenni. Si batté per la modernizzazione dell'economia. Si batté per la riforma di alcuni punti importanti della Costituzione riguardanti la forma di governo e la sua stabilità. Si batté per costruire una posizione socialista che non fosse necessariamente a rimorchio del Pci o della Dc.
Si batté. Ne ebbe, diciamo così, la visione strategica. Ma poi bisognava trovare i mezzi acconci - da lui ritenuti acconci - per realizzare i suddetti fini. E i mezzi furono l'esercizio sempre più spregiudicato del potere e l'occupazione delle istituzioni piegate a strumenti per conservare e accrescere il potere.
Ma poiché il potere è pur sempre insidiabile e insidiato e dunque precario e reversibile per definizione, specie in regimi di democrazia liberale, la sana ricerca della stabílità si deforma molto spesso in tendenza all'autoritarismo.
Così avvenne almeno in parte per il craxismo, il quale cominciò a pretendere che sia i capi dei grandi enti pubblici, sia i dirigenti della Pubblica amministrazione, sia i banchieri, sia gli imprenditori privati inalberassero una bandiera di appartenenza e riconoscimento.
La Dc e gli altri partiti della costellazione di governo non avevano certo bisogno di lezioni per muoversi sul terreno del potere, ma non c'è dubbio che la spregiudicatezza craxiana servì di giustificazione e di esempio emulativo; le pratiche già presenti negli anni Settanta, negli Ottanta divennero canone ed entrarono a far parte d'una sorta di costituzione materiale dell'illecito.
Il Partito socialista smarrì la strategia dei fini e eresse a strategia quella che era stata la tattica dei mezzi. I mezzi cioè diventarono fini con lo stesso processo degenerativo che nella Dc aveva portato al vertice del partito la corrente dorotea. Il famigerato Caf (Craxi Andreotti Forlani) fu il coronamento finale del sistema prima dell'esplosione dei referendum e di Tangentopoli.
Quando Enrico Berlinguer parlava con accenti di autentica disperazione di una sorta di mutazione genetica che si era prodotta nel Partito socialista, aveva sotto gli occhi questa fenomenologia che qualcuno con molta ipocrisia chiamò modernizzazione ma che nella realtà fu corruttela omertosa. Purtroppo, nella parte finale della gestione berlingueriana e dopo di essa, quell'omertà coinvolse in qualche misura anche il Pci.
Queste, signor Molteni, non sono opinioni ma fatti e percorsi accertati nella loro fattispecie concreta. E sono anche altrettanti corpi di reato provati dinanzi a tutti i gradi della giurisdizione.
Aggiungo ancora che l'impero mediatico di Berlusconi e il gigantesco suo conflitto di interessi nacquero da una costola dei craxismo e del doroteismo, dai quali hanno ereditato i metodi e anche i voti.
Immagino che D'Alema e Fassino abbiamo ben presenti questi fatti. Tanto più inspiegabili risultano dunque le iniziative prese per rivalutare un periodo e un gruppo politico al quale si deve in notevole misura non solo ciò che accadde allora ma anche ciò che è accaduto dopo e che tuttora incombe sulle sorti del Paese e sul suo livello di moralità pubblica.
La politica dell’ultimo Berlinguer (il Berlinguer dell’alternativa democratica della questione morale, del rinnovamento dei partiti e della politica per costruire la prospettiva di un diverso sviluppo imperniato sull’austerità e sulla collaborazione fra i popoli del Nord e del Sud del mondo) non nasce dalla presa di coscienza dell’esito deludente – ed anzi decisamente fallimentare dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro – della politica prima del compromesso e poi della solidarietà nazionale praticata durante gli anni settanta. Certo, anche quella presa di coscienza esercitò il suo peso: pesò in particolare l’avvertimento che , mentre la ricerca di un’intesa con le forze migliori del mondo cattolico aveva portato il PCI ai successi elettorali del ’75 e del ’76, la successiva politica di astensione verso il governo monocolore presieduto da Andreotti aveva deluso profondamente la domanda di riforme e di cambiamenti che si esprimeva in quei successi.
Il passaggio alla politica dell’alternativa, dopo il ritorno all’opposizione nel gennaio 1979, non derivò però soltanto dalla delusione per l’esperienza della solidarietà nazionale e dal desiderio di consolidare un radicamento sociale in qualche misura incrinato. Ciò che spinse Enrico Berlinguer fu un’acuta sensibilità – che in lui fu chiara prima che in tanti altri dirigenti del suo stesso partito – per la grave svolta regressiva che sul finire degli anni settanta cominciava a realizzarsi, così sul piano strutturale e istituzionale come negli orientamenti culturali e di fondo, tanto in Italia come negli altri paesi dell’Occidente. A distanza di più di vent’anni appare oggi più chiaro che è quello il momento in cui l’economia capitalistica, dopo la crisi e l’incertezza degli anni settanta, dà avvio a un processo di ristrutturazione e di rilancio che si fonda sulle possibilità aperte dalla rivoluzione informatica e dalla crescente mondializzazione dei processi produttivi e che si avvale di queste possibilità per mettere in discussione i diritti conquistati dai lavoratori con lo stato sociale e per tornare ad affermare un uso flessibile del lavoro come strumento di produzione. A questa svolta in campo economico si accompagna una linea politico-istituzionale che punta sulla restrizione e non più sull’allargamento della partecipazione e della democrazia, sull’affermazione di forme di governo di tipo decisionistico, sulla riduzione della spesa sociale e sulla compressione dei livelli salariali (l’attacco di Craxi alla scala mobile), sull’intreccio sempre più palese fra interessi economici anche personali e uso spregiudicato dei poteri di governo.
Berlinguer comprese con chiarezza che l’indirizzo così prescelto non rispondeva a una generica istanza di “modernizzazione” (come molti dissero anche a sinistra, allora e soprattutto dopo): ma comportava pericoli gravi per una democrazia concepita come effettiva partecipazione dei cittadini alle decisioni, apriva la strada a un sistema di malgoverno fondato sul dilagare della corruzione e del clientelismo, portava a un inasprimento delle ingiustizie e delle disuguaglianze così all’interno di un singolo paese quale l’Italia come fra il Nord e il Sud del mondo. In questo Berlinguer aveva pienamente ragione: di qui la sua battaglia per un’alternativa fondata su un rinnovamento della politica inteso come apertura alla società e soprattutto alle istanze dei nuovi movimenti; sulla centralità assegnata alla questione sociale come preminenza nel governo della cosa pubblica dell’interesse generale sugli interessi di parte; sulla difesa dello stato sociale, sulla lotta per la pace e contro la corsa agli armamenti, sulla ricerca di un’intesa con la parte migliore della sinistra europea (Brandt, Palme) per costruire un rapporto di cooperazione fra Europa e Sud del mondo. Di qui la sua prospettiva di un diverso sviluppo imperniato sul principio dell’austerità, da lui già affermato nel 1977, nel pieno della crisi economica degli anni settanta: cioè uno sviluppo basato su un uso sobrio e razionale delle risorse e sulla lotta alle mille forme di dissipazione e di spreco, al fine di difendere la spesa sociale e i diritti salariali, di rispettare la natura e l’ambiente, di stabilire equi supporti così fra tutti i popoli come fra le donne e gli uomini di tutto il mondo.
La lotta condotta su queste basi (ricordo in particolare le grandi campagne sulla scala mobile, sulla questione morale, per l’occupazione, contro gli euromissili) segnarono un forte rilancio dell’iniziativa del PCI tanto da consentire, alle elezioni europee che si tennero subito dopo la morte di Berlinguer, la sua affermazione come primo partito superando anche la Democrazia cristiana. Ma l’improvvisa morte di Berlinguer troncò questo rilancio prima che fosse completata l’elaborazione di una piattaforma culturale e politica autonoma e compiuta. Il gruppo dirigente successivo, nonostante la buona volontà di Alessandro Natta e di molti dei suoi collaboratori, non fu all’altezza dei nuovi problemi che di conseguenza si posero. Ebbe così inizio un declino che la scelta di Occhetto nel 1989 era destinata a trasformare in una rotta per l’intera sinistra italiana.
http://www.arsinistra.it/documenti/indexberling.html
Non è una cosa facile, nel mondo di oggi, ritrovare le coordinate della figura di Enrico Berlinguer, ricostruire quanto avevano contato il suo carisma e la sua politica, quale spessore di amori e di odii aveva suscitato. E poi quale eredità ha lasciato, che cosa nella grande miniera di idee che aveva messo in campo soprattutto nell’ultima parte della sua vita può essere utile oggi.
Enrico Berlinguer è morto l’11 giugno dell’84, quasi vent’anni fa. Non è ancora storia, non è più cronaca. Ma molte delle vicende di cui è stato protagonista sono ancora aperte, molte intuizioni che aveva avuto, se le guardiamo con gli occhi di oggi, dimostrano la sua preveggenza, la sua capacità di cogliere alla radice i problemi drammatici del nostro tempo.
Credo che pochissimi, fra i politici italiani, abbiano avuto come Berlinguer la capacità di intuire in anticipo quel che stava succedendo, le linee direttrici del cambiamento. In un momento come quello attuale, con la pace messa in pericolo dalla volontà di comando dell’unica superpotenza rimasta, fa una certa impressione ripercorrere il Berlinguer dei primi anni ’80, che esprime una visione quasi avveniristica del futuro. Che si rende conto, ben prima della fine dell’impero sovietico, come ormai il cuore del conflitto non è più fra paesi capitalisti e paesi socialisti ma fra il Nord e il Sud del mondo: fra un occidente sempre più ricco ed arroccato a difesa dei suoi privilegi e le masse povere del terzo e del quarto mondo. In sintonia con lo svedese Olof Palme, che dopo non molto morirà in un attentato mai del tutto chiarito, Berlinguer era arrivato a prospettare un governo mondiale dell'’economia, inteso però come strumento di riequilibrio e di redistribuzione delle ricchezze.
Oggi ha poi un significato speciale ricordare che Berlinguer credeva profondamente nell’Europa. La vedeva come il laboratorio di una nuova sinistra possibile, da contrapporre sia al decrepito comunismo reale che a un neoliberismo d’oltreoceano, portatore di ingiustizie profonde. Proprio in quest’ottica credeva fosse importante difendere “l’anomalia europea”, la sua cultura e la forza antagonista dei suoi partiti, dei sindacati e dei movimenti, dai continui tentativi di omologazione che vedeva messi in atto da Ronald Reagan e dalla nuova destra americana. E anche se non poteva certo immaginare la deriva militar- autoritaria di quelle scelte, aveva colto subito le minacce della rivoluzione conservatrice che cominciava allora, con l’esaltazione del capitalismo selvaggio come cura ai mali dell’economia e dell’egoismo individuale come sostituto ad una società solidale.
Quando era segretario del Pci Berlinguer veniva spesso descritto dai giornali come un uomo chiuso, un po’ fuori dal mondo, un“sardo-muto”,l’opposto di un protagonista di quella politica-spettacolo che già allora stava prendendo piede. E invece Berlinguer aveva una capacità di comunicazione fortissima. I commentatori dell’epoca riconoscevano che pochi riuscivano come lui a “rompere” lo schermo della Tv, a parlare alla gente, molto al di là del suo stesso partito, che peraltro era un grande partito del 30 per cento. C’era una passione e una sincerità nel suo modo di esprimersi che l’aveva fatto diventare una specie di contraltare rispetto a tanti altri politici del suo tempo, e in particolare rispetto a Bettino Craxi. Berlinguer aveva capito molto presto che dietro l’etichetta della modernità, del rinnovamento, delle grandi riforme istituzionali, Craxi aveva obiettivi ben più concreti e inquietanti: far saltare il banco della politica italiana, annettersi il Pci e sdoganare il Msi, farla finita con la cultura dell’antifascismo e della Resistenza.
A completare il disegno, c’era la volontà di arrivare a un presidenzialismo di stampo populista, di mettere la mordacchia al “parco buoi”, come Craxi definiva graziosamente il Parlamento, trasformando la democrazia italiana in senso parzialmente autoritario. Contro questi pericoli, che sono poi quelli con cui oggi ci troviamo a fare i conti, Berlinguer si era battuto con tutte le sue forze, fino a quell’ultimo comizio sul palco di Padova, continuato eroicamente quando ormai era stato colpito dal malore, con frasi sempre più smozzicate sugli scandali, sulla loggia P2, sulla nostra democrazia malata.
Una delle prime volte che avevo visto di persona Enrico Berlinguer, (a cui poi avrei dedicato una biografia in due volumi, cominciata quasi subito dopo i suoi spettacolosi e indimenticabili funerali), era stato il 26 settembre 1980, ai cancelli della Fiat. Il colosso torinese, per superare un momento di grave crisi del mercato internazionale, aveva messo in cassa integrazione 28 mila operai. E poi, siccome si erano rotte le trattative con i sindacati, aveva spedito13 mila lettere di licenziamento, espellendo i quadri sindacali e buona parte delle donne, che erano entrate nella fase di espansione. Berlinguer era arrivato a portare la sua solidarietà dopo che la Flm aveva bloccato la Fiat, in un clima di grande scontro. Avevo seguito il suo giro ai vari cancelli, Mirafiori, Rivalta, Lancia di Chivasso, accolto dappertutto da una folla enorme. Anche se non era previsto un suo intervento, Enrico Berlinguer aveva accettato di parlare, su un palco improvvisato e senza microfono, fra donne e uomini che piangevano senza vergogna per la commozione.
Proprio in questi giorni - all'inizio del 2003 - in occasione della morte di Agnelli, vari programmi Tv hanno ricostruito quell’episodio, poi passato alla storia come esempio dell’estremismo di Berlinguer, che sarebbe andato ai cancelli per spingere gli operai all’occupazione (“Berlinguer incita alla rivolta”,avevano titolato vari giornali il giorno dopo). Abbiamo visto anche un filmato dove Gianni Agnelli, rispondendo a un giovane Bruno Vespa, sentenziava che “esce rafforzato il parere di quelli che hanno poca fiducia nelle possibilità del Pci di convivere in una società democratica”. Nella realtà però, come ricordo molto bene e come ha ricordato in questi giorni Piero Fassino, allora segretario del Pci torinese, le cose erano andate molto diversamente. Rispondendo alla domanda di un sindacalista della Fim che gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se gli operai avessero occupato la Fiat, Berlinguer aveva risposto che la decisione sulle forme di lotta spettava solo ai lavoratori. “Se si dovrà arrivare a questo per responsabilità della Fiat e del governo, i comunisti faranno la loro parte”, si era limitato a dire. “Ma credi di aver fatto bene?”gli aveva poi chiesto polemicamente Luciano Lama, il segretario della Cgil, con cui c’era una fase di grande dissenso. E Berlinguer aveva risposto:”E’ un momento in cui la cosa più importante è dare la prova ai lavoratori che siamo con loro”. E’ uno dei tanti episodi che mostra fuori da ogni retorica chi era Berlinguer, la sua umanità, la convinzione che, al dilà delle tattiche politiche, è importante stare comunque dalla parte dei più deboli,dei lavoratori. Una lezione insomma più che mai attuale.
http://www.arsinistra.it/documenti/indexberling.html
È noto che nella cultura politica del PCI la storia del Partito è stata sempre letta in termini di rinnovamento nella continuità. Si tratta di un’interpretazione sostanzialmente veritiera. Da questo punto di vista, il “compromesso storico” teorizzato da Berlinguer è emblematico: nonostante le “discontinuità” (Vacca) che pure presenta, esso per certi versi è il “catalizzatore” di una tendenza strategica di lunga durata.
Essa prende avvio già da Gramsci, che coglie l’importanza per la “rivoluzione italiana” di un “blocco storico” tra la classe operaia settentrionale di orientamento socialista e masse contadine, perlopiù meridionali e cattoliche. Ma è soprattutto con Togliatti – il Togliatti del “Partito nuovo”, dell’unità nazionale antifascista e della “democrazia progressiva” – che la politica delle alleanze trova la sua massima centralità.
Fin dalla Resistenza, Togliatti individua l’importanza di un’azione unitaria tra le forze socialcomuniste e forze cattoliche, rappresentate dalla DC. All’interno di quest’ultima si individua la compresenza di un’ala conservatrice, legata alla “borghesia possidente” e alla parte più retriva della Chiesa cattolica, e un’ala democratica, più radicata nelle masse popolari. Questa concezione della DC come partito “a due facce” rimarrà una costante nella cultura politica del PCI, che si porrà l’obiettivo di favorirne l’ala progressista, evitando così che la DC scivoli a destra, trascinando con sé l’intero quadro politico. L’alleanza tra le tre grandi forze di ispirazione popolare viene così vista come una “necessità storica e politica” (1946), o addirittura come “un aspetto della via italiana al socialismo” (1960).
In altri momenti, Togliatti si rivolgerà direttamente alle masse cattoliche, con gli appelli per la pace e la salvezza del genere umano, nel tentativo di acuire la contraddizione, ormai sempre più evidente, tra il gruppo dirigente conservatore della DC e masse cattoliche potenzialmente progressive. Morto Togliatti, a seguito del Concilio Vaticano II e dell’emergere di un diffuso “dissenso” cattolico, si valuterà anche la possibilità di rompere l’unità politica dei cattolici, ma al tempo stesso si accentuerà il dialogo con la sinistra democristiana, al fine di costruire quella “unità delle forze di sinistra laiche e cattoliche”, che consenta di andare oltre il centrosinistra.
La strategia di Berlinguer nasce su questo retroterra. Ma nasce anche dalla storia italiana (e mondiale) della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, allorché, sotto la spinta dei grandi movimenti di massa del 1968-69, matura quella grande avanzata del movimento operaio e democratico, a cui lo Stato italiano e l’alleato americano reagiscono innescando la strategia della tensione. In questo quadro, si collocano le stragi di piazza Fontana, di Gioia Tauro e della questura di Milano, il tentativo golpista di Borghese, l’attivismo del SID nello scongiurare un’evoluzione del quadro politico verso sinistra. Né è senza significato l’intesa tra DC e MSI sull’elezione di Leone a Capo dello Stato (1971). Dall’altra parte, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e della legge sul divorzio, la nascita delle Regioni, le grandi lotte operaie. Sul piano internazionale, alla situazione di grave crisi economica si affianca l’ulteriore avanzata dei movimenti di liberazione (Vietnam) e l’emergere di governi progressisti come quello di Allende in Cile.
Quest’ultimo, che si regge su un’unità delle sinistre con appoggio esterno democristiano, è rovesciato nel settembre 1973 dal colpo di Stato di Pinochet, sostenuto dalla CIA e da multinazionali come la ITT. Berlinguer commenta i fatti cileni con tre saggi su “Rinascita”, nei quali afferma che, in Italia come in Cile, non si può governare col 51%, ossia con un fronte di forze esclusivamente di sinistra; solo il consenso “della grande maggioranza della popolazione”, e dunque una “strategia delle alleanze” che sposti settori consistenti di ceto medio, è possibile scongiurare – o almeno rendere più difficile – colpi di mano autoritari e tragedie come quella cilena. Occorre quindi riprendere il processo di rinnovamento e di unità avviatosi con la Resistenza, attraverso un “compromesso storico” tra le maggiori forze popolari e il perseguimento di una “alternativa democratica” alla direzione del Paese.
Si tratta dunque della riproposizione e dell’aggiornamento della tradizionale politica unitaria del PCI, anche se Berlinguer allarga la sua visione delle alleanze fino a comprendervi i nuovi movimenti e le soggettività sociali, politiche e culturali emergenti. Nella sua proposta, dunque, c’è anche qualcosa di nuovo, che allude fin d’ora a quel “rinnovamento della politica” su cui si soffermerà negli anni ’80. Tuttavia, la DC di Fanfani è un interlocutore ben poco adatto: sulla questione del divorzio, il Segretario democristiano spinge per il referendum abrogativo, alleandosi ancora col MSI e puntando a ricostituire un fronte anticomunista. Ciò che avviene, al contrario, è l’aggregarsi di un ampio comitato di “Cattolici per il NO”, e la vittoria del NO con circa il 60% dei voti.
Due settimane dopo, la strage di piazza della Loggia: un altro segnale inequivocabile delle forze reazionarie. Berlinguer torna a chiedere un mutamento di linea e gruppo dirigente della DC, rilanciando la prospettiva di un governo “di svolta democratica”. La strategia della tensione, intanto, è in pieno sviluppo: in agosto c’è la strage dell’Italicus.
Al XIV congresso (1975), Berlinguer precisa che il compromesso storico è una strategia di ampio respiro, non riducibile alla richiesta di partecipazione comunista al governo; è “un più avanzato terreno di lotta” e “una sfida” alle altre forze democratiche. In sostanza, è una proposta volta a superare la conventio ad excludendum ai danni del PCI. Se la DC si rivela del tutto ostile alla proposta berlingueriana, non di meno lo sono le BR, che nella loro prima risoluzione strategica condannano il compromesso storico senza mezzi termini. Ma soprattutto sono ostili gli Stati Uniti, che con Kissinger ribadiscono il loro veto ad un’eventuale ingresso al governo del PCI, ormai plausibile dopo la grande avanzata elettorale delle Amministrative del ’75.
Nella DC, intanto, il gruppo dirigente è cambiato, e nuovo Segretario è Zaccagnini, più aperto ad un dialogo coi comunisti. Alla vigilia delle elezioni del 1976, Berlinguer rilancia la proposta di “un governo di unità democratica”, una sorta di Große Koalition che comprenda “tutti i partiti democratici e popolari compreso il PCI”, invitando l’elettorato ad indebolire la DC. Quest’ultima, dal canto suo, rispolvera il vecchio anticomunismo, chiamando a raccolta grande capitale e Chiesa. A pochi giorni dal voto, Berlinguer afferma che in Italia si deve costruire “il socialismo nella libertà”, ciò per cui si sente “più sicuro nel blocco occidentale e dunque nell’ambito della NATO” – un’affermazione piuttosto discutibile, che Berlinguer tempera aggiungendo che “di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero nemmeno lasciarci cominciare a farlo [il socialismo], anche nella libertà”.
Le elezioni però si concludono con “due vincitori”: il PCI, che giunge al 34.4%, e la DC, col 38.7%. Per la prima volta un comunista – Ingrao – è eletto presidente della Camera, e al PCI vanno anche le presidenze di varie commissioni parlamentari. Il governo, invece, è un monocolore democristiano guidato da Andreotti, che si regge sulle astensioni di PSI, PSDI, PRI, e su quella – determinante – del PCI: è il governo “della non sfiducia”. Cominci quindi l’esperienza della “solidarietà nazionale”. La DC, in questo modo, cerca di “guadagnar tempo concedendo il meno possibile” (Valentini). Per i comunisti, “è un accordo provvisorio suggerito dalla gravità della situazione” (Fiori).
L’Italia infatti è in balia della crisi economica, a cui il governo cerca di riparare con una serie di pesanti misure antinflazionistiche, che anche il PCI sostiene. Per Berlinguer, tuttavia, la soluzione sta in una politica di austerità, che sia al tempo stesso portatrice di “un nuovo tipo di sviluppo economico e sociale” e di un mutamento della direzione politica del Paese. Occorre – dice – “un nuovo meccanismo di sviluppo”, basato su lotta gli sprechi, programmazione economica, nuove politiche per scuola, trasporti e sanità, affinché migliori la qualità della vita e si inseriscano nella società “elementi di socialismo”. Al tema dell’austerità, il PCI dedica anche un importante convegno, concluso da Berlinguer, che ricollega la sua proposta di politica economica ad un quadro di rapporti internazionali che non possono più basarsi su quello sfruttamento delle risorse del Terzo mondo che consente l’iper-consumo dei paesi a capitalismo avanzato. Tuttavia, il sostegno del PCI alle misure antinflazionistiche comincia a ingenerare nei settori popolari notevoli perplessità, su cui fanno leva il PSI di Craxi, la UIL, la CISL, cavalcando strumentalmente anche le critiche dei gruppi extraparlamentari.
La rottura tra questi ultimi – e il movimento del ’77 – e la “sinistra storica” è sancita drammaticamente dagli scontri che avvengono tra studenti e servizio d’ordine della CGIL, allorché Lama tenta di tenere un comizio all’interno dell’Università di Roma occupata. Il PCI, dunque, è in difficoltà, in qualche modo “accerchiato”, senza una precisa collocazione, non più all’opposizione ma neanche al governo. Tuttavia – dirà Chiaromonte – la strada era quasi obbligata, cosicché si decide di andare avanti, verificando fino in fondo le possibilità esistenti. Si chiede agli altri partiti un “accordo programmatico”, ma si ottiene solo una mozione comune. Le resistenze istituzionali e politiche al cambiamento costituiscono dunque una sorta di “muro di gomma”.
A questo punto, mentre la situazione sociale si aggrava sempre di più e monta la protesta operaia, il PCI prende le distanze dal governo, che – perso anche l’appoggio del PRI – si dimette. Seguono due mesi – i primi del “terribile 1978” – di convulse trattative, incontri, contatti. Per due volte Berlinguer e Moro si incontrano segretamente. Il Segretario del PCI chiede a Moro di fare opera di mediazione come fece per il centrosinistra, per passare “dalla democrazia difficile alla democrazia compiuta”; il leader democristiano, infine, accetta di sostenere l’ingresso del PCI nella maggioranza governativa. Si va quindi all’incontro ufficiale tra i due partiti, ma alla fine la nuova lista dei ministri proposta da Andreotti è molto simile alla precedente, e non si accolgono le novità chieste dai comunisti. Il gruppo dirigente del PCI è incerto sul da farsi, ma il giorno stesso in cui il nuovo governo deve presentarsi alle Camere, Moro viene rapito dalle BR.
Il rapimento e la morte di Moro sono la “pietra tombale” del compromesso storico (Barbagallo). Esso, pur rappresentando “una strategia di transizione” (Vacca), finisce col trovare la sua unica espressione concreta in un’esperienza molto parziale, profondamente segnata dalla drammaticità della situazione. Nei mesi successivi, nonostante l’approvazione di alcune importanti riforme (legge 180, aborto, equo canone, servizio sanitario nazionale), il PCI si rende conto – come dice Amendola – di fare “la guardia a un bidone vuoto”, cosicché all’inizio del ’79 decide “il disimpegno” dalla maggioranza. È la fine della politica di solidarietà nazionale, ma anche un colpo mortale per la strategia del compromesso storico nel suo complesso, nonostante le trattative continuino ancora per tutto l’anno. Nel 1980, infatti, Berlinguer lancia la parola d’ordine dell’alternativa democratica, aprendo una nuova fase in cui i problemi della riforma della politica e della qualità dello sviluppo saranno al centro della sua riflessione.
Sul significato del compromesso storico – e in particolare della “solidarietà nazionale” – ha scritto G. Chiaromonte: “Cercammo di portare al più alto livello di coerenza e concretizzazione la grande svolta avviata, nel 1944, da Togliatti, nel senso di uno sviluppo del PCI da partito di denuncia, di propaganda, di testimonianza, a partito che fa politica, che lotta per avviare a soluzione i problemi delle masse e del paese, a partito di governo. Non potevamo tirarci indietro”. D’altra parte, quella della “solidarietà nazionale” fu “un’esperienza drammatica e alla fine perdente”.
Essa scontò una serie di limiti non secondari: in primo luogo il gruppo dirigente comunista peccò di verticismo e politicismo, nel senso che ridusse quella che era una strategia di portata “storica” – e che richiedeva un forte e costante protagonismo di massa – a una serie di incontri, contatti, trattative, che finirono per sfiancare il PCI e logorarlo proprio sul piano dei rapporti di massa, anche a causa delle eccessive mediazioni cui il Partito si sottopose. In questo, i comunisti – e Berlinguer in particolare – peccarono anche di ingenuità nei confronti della DC, cosa che essi stessi riconosceranno.
È chiaro però che vi sono anche limiti più profondi. La strategia di incontro con le masse cattoliche – così come era stata impostata da Gramsci e Togliatti – implicava comunque un costante esercizio di egemonia (Vacca); al contrario, nell’esperienza della “solidarietà nazionale” è riscontrabile una notevole carenza di egemonia, sul piano politico, ideale, programmatico. Inoltre l’incontro prefigurato da Togliatti è quello con le masse cattoliche: se nell’immediato dopoguerra questo significava tout court fare i conti con la DC, negli anni ’70 – dopo l’emergere del “dissenso cattolico”, le prese di posizione delle ACLI ecc. – la situazione era ben più ricca e complessa. Al contrario, legittimare la DC come unico rappresentante del mondo cattolico, mirando a una transazione con essa, anziché alla conquista diretta – sul piano politico e ideale – della masse cattoliche, costituì un altro pesante limite. Il voto del 1965-76, peraltro, era stato un voto contro la DC: di qui la delusione di molti e il riflusso successivo, abilmente “cavalcato” dal PSI craxiano e dai vari gruppi estremisti.
L’analisi della DC come partito “a più facce” fu inoltre almeno in parte inadeguata: quello democristiano – cosa che pure in vari momenti si era detta – era il partito della conservazione, nonostante la presenza di una sinistra interna – probabilmente sopravvalutata – ed era il partito che difendeva al meglio gli interessi della borghesia, nonostante la base in parte popolare.
Ma accanto a quelli soggettivi, vi furono anche forti limiti oggettivi: i caratteri e la forza del sistema di potere democristiano, il ruolo negativo di PSI, estremisti e BR, le trame dei servizi, le resistenze dello Stato al cambiamento. La stessa morte di Moro tolse alla strategia berlingueriana il suo interlocutore, il che in qualche modo le impedì di esplicarsi completamente.
Infine, il contesto internazionale. Nel mondo diviso in blocchi, la sovranità limitata non esisteva solo in Cecoslovacchia; e non a caso il PCI lottava per il superamento dei blocchi stessi.
Contro questo muro – e quello delle resistenze conservatrici e reazionarie, dell’anticomunismo eversivo – si infranse il compromesso storico, e cioè l’ultima espressione di quella strategia che ha caratterizzato – nel bene e nel male – gran parte della vicenda dei comunisti italiani.
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Caro Giovanni,
[…].
Mi sono avvicinato alla sinistra comunista 45 anni fa: quando molti intellettuali se ne allontanavano. Gli eventi del 1956 mi sollecitarono a una riflessione profonda, dialettica, nella quale compresi l’inevitabile necessità delle durezze della storia. La mia amicizia con Franco Rodano e i suoi amici (da Filippo Sacconi a Tonino Tatò, da Claudio Napoleoni a Giuliana Gioggi, da Mario Melloni a Ugo Baduel, da Vittorio Tranquilli a Giancarlo Paietta, da Marisa Rodano a Giuseppe Chiarante) mi aiutarono a comprendere quanto fosse stretto il legame tra il dramma e la speranza. Compresi allora perché la prima realizzazione statuale del movimento proletario avesse radici così deboli, e perché la prima rottura rivoluzionaria pretendesse (una volta scongiurata, a Stalingrado, la tragedia dell’annientamento finale dell’umanità) uno sviluppo e un salto di qualità nell’Occidente europeo: compresi allora, di conseguenza, quanto fossero grandi le responsabilità della sinistra europea e, in essa, dei comunisti italiani.
Misurai allora, con i miei occhi, quando il comunismo italiano – pur incapace di svolgere pienamente, da solo, un ruolo internazionale all’altezza delle necessità del mondo – avesse contribuito e contribuisse a rendere la società italiana più giusta, più moderna, più ricca, più democratica. Quanto esso (per la presenza di figure come Palmiro Togliatti, e per la sintonia di civiltà che lo legava a figure delle altre sponde) contribuisse a radicare nel paese il senso dello stato, dell’interesse comune, della democrazia. E anche per questa convinzione entrai nel Partito comunista, prima come “indipendente” nelle sue liste poi, scaduto il mandato, come iscritto.
Ho sempre lavorato nel Partito come un membro di un collettivo: un gregario, anzi. Mettendo il mio specifico sapere e saper fare a disposizione di un disegno che condividevo. Solo in casi eccezionali mi è toccato svolgere una funzione di direzione politica: all’inizio degli anni Novanta. In quegli anni ho condiviso la svolta che ci ha portato ad abbandonare le antiche insegne: era una svolta inevitabile, poiché gli errori e i ritardi della sinistra europea avevano permesso che il lascito della Rivoluzione d’ottobre, confinato “in un paese solo”, si disgregasse e l’edificio dell’URSS e del comunismo internazionale tragicamente crollasse.
A mano a mano che la nuova formazione politica si sviluppava mi rendevo conto che il crollo di Berlino, mettendo la parola fine alle speranze nate con la Rivoluzione d’ottobre, rivelava un crollo inaspettato nella struttura stessa della sinistra italiana. Anche noi eravamo stati contagiati dalle malattie che avevamo criticato prima nella DC, poi nel PSI. Una parte molto larga del nostro quadro dalla DC aveva assunto quello che definirei il doroteismo: il privilegio del successo rispetto alla verità, del potere rispetto alla finalità, delle facilità dell’oggi rispetto alle difficoltà del futuro. Del PSI ci ha contagiato (certo marginalmente) la spregiudicatezza nell’asservire a fini di parte interessi comuni, e quella particolare forma di corruzione che in quegli anni esplose.
Furono queste le ragioni sostanziali (in aggiunta al concludersi della mia attività di amministratore locale, e alle particolari inettitudini che dimostrava la sinistra veneziana) che, qualche anno fa, mi hanno indotto a non rinnovare la tessera.
Scusami questa premessa certamente troppo lunga. Ma è la prima occasione che ho di ripensare a un percorso. Essa chiarisce però – mi sembra – le ragioni per cui, come ti dicevo, sono felice della tua candidatura. Mi sembra che essa significhi che è possibile la ripresa di alcune delle speranze smarrite.
La speranza di un ruolo internazionale della sinistra italiana, che si faccia carico in modo costruttivo, “politico”, delle tragedie del nuovo mondo che stiamo scoprendo tra noi e nei continenti (quello in bilico tra distruzione e disperazione), e delle potenzialità del vecchio mondo (un mondo che, con tutti i suoi errori e limiti, abbiamo contribuito a costruire). La speranza di una politica che torni a parlare alle cittadine e ai cittadini, ma a partire dagli ideali, dai principi, dai futuri da costruire insieme, e non dalla vellicazione degli interessi spiccioli. La speranza di un partito che riacquisti le doti della coerenza dei programmi e delle azioni, del rispetto degli altri, del disinteresse personale, e perda la smisurata fiducia nell’immagine che buca lo schermo e nelle parole d’ordine accattivanti (“modernizzazione” è una di queste) ma prive di senso. La speranza di una formazione nella quale la politica e gli altri saperi sappiano dialogare, rispettarsi, alimentarsi a vicenda, senza che la scienza strumentalizzi la politica né ne venga strumentalizzata.
E’ inutile che ti dica quali sono le tue qualità che mi sembrano renderti idoneo al ruolo che in cuor mio ti assegno. Voglio dirti però che il tuo cognome è tra queste, perché è simbolo di una continuità sostanziale con stagioni altissime della nostra storia. […]
Don Enrico Berlinguer
( May 25, 1922 - June 11, 1984), was an italian noble and politician.
Berlinguer was an important leader of the Italian Communist Party ( Partito Comunista Italiano or PCI) and its national secretary from 1972 to 1984.
Early Career
The son of Don Mario Berlinguer and Maria Loriga, Enrico was born in Sassari, Italy to a noble and important Sardinian family, in a notable cultural context and with familiar and political relationships that would have heavily influenced his life and his career.
He was the first cousin of Francesco Cossiga (who was a leader of Democrazia Cristiana and later became a President of the Italian Republic), and both were relatives of Antonio Segni, leader of Democrazia Cristiana and a President of the Italian Republic). Enrico's grandfather, Enrico Berlinguer Sr., was the founder of La Nuova Sardegna, a very important Sardinian newspaper, and a personal friend of Giuseppe Garibaldi and Giuseppe Mazzini, whom he had helped in his parliamentary work on the sad conditions of the island.
In 1937 Enrico Berlinguer had his first contacts with Sardinian anti-Fascists, and in 1943 formally entered the Italian Communist Party, soon becoming the secretary of Sassari's section. The following year a violent riot exploded in the town; he was involved in the disorders and was arrested, but was discharged after 3 months of prison. Immediately after his detention ended, his father brought him to Salerno, the town in which the Royal family and the government had taken refuge after the armistice. In Salermo his father introduced him to Palmiro Togliatti, the most important leader of the Communist Party and a schoolfellow of Don Mario.
Togliatti sent Enrico back to Sardinia to prepare for his political career. At the end of 1944, Togliatti appointed Berlinguer to the national secretariat of the Communist Organisation for Youth; he was soon sent to Milan, and in 1945 he was appointed to the Central Committee as a member.
In 1946 Togliatti became the national secretary (the highest political role) of the Party, and called Berlinguer to Rome, where his talents let him enter the national direction only two years after (at the age of 26, one of the youngest members ever admitted); in 1949 he was named national secretary of FGCI ( Federazione Giovanile Comunista Italiana - the communist movement for youth), a charge that he left in 1956. The year after he was named president of the world federation of democratic youth. In 1957 Berlinguer, as a member of the central school of the PCI, abolished the obligatory visit to Russia, which included political training, that was until then necessary for admission to the highest positions in PCI.
Berlinguer's career was obviously directed towards the highest positions of the party. After having held the most important ones, in 1968 he was elected a deputy for the first time in the electoral collegium of Rome. The following year he was elected the national vice-secretary of the party (the secretary being Luigi Longo); in this role he took part in the international conference of the communist and labour parties in Moscow, where his delegation didn't agree with the "official" political line, and refused to vote on the final document. It was absolutely the strongest speech by a Communist leader ever heard in Russia; he refused to "excommunicate" Chinese communists, and directly told Leonid Breznev that the tragedy in Prague (Czech invasion by Russian tanks) had put into clear evidence the diversity of concepts about fundamental themes like national sovereignty, socialist democracy, and the freedom of culture.
In 1970, memorably, he opened a relationship with the world of industry, and generally speaking with the conservative forces, publicly declaring that the PCI would have looked with favour on an eventual reprise of the industrial production and for a new model of development, concepts that were part of the program of the industrialists. Already the principal leader of the party, Berlinguer became formally the national secretary in 1972 (due to Longo's sudden illness).
In 1973, having been hospitalized after a car accident during a visit to Bulgaria, he wrote three famous articles ("Reflections on Italy after the facts of Chile" - after the golpe) for the intellectual weekly magazine of the party ( Rinascita), presenting the strategy of the so-called Compromesso Storico, a hypothesis of coalition between PCI and Democrazia Cristiana meant to grant Italy a period of political stability, in a moment of heavy economical crisis amd in a contest in which some forces were manoeuvring for a golpe.
The following year in Belgrad he met Yugoslavian president Josip Broz Tito, starting his intense foreign relationships with the major Communist parties of Europe, Asia and Africa.
In 1976, in Moscow again, Berlinguer confirmed the autonomous position of PCI from the Russian communist party. Berlinguer, in front of 5,000 Communist delegates, started talking of a "pluralistic system" (translated by the interpreter as "multiform"), described PCI's intentions to build "a socialism that we believe necessary and possible only in Italy", invoking "distension". When he finally declared the PCI's condemnation for any kind of "interference", the fracture was quite complete, since Italy was indicated by Russians as suffering the interference of NATO, so the only interference that Italian Communists could not suffer (they concluded) was the Russian one. In an interview with Corriere della Sera he declared that he felt "more, more safe under NATO's umbrella".
In 1977, in Madrid with Santiago Carrillo and George Marchais the fundamental lines of Eurocommunism were laid out. A few months later he was again in Moscow, for another speech that Russians didn't appreciate and that was published by Pravda only after relevant censorship. Berlinguer, with a political progression by little steps, was enforcing the structure and the consensus around the party by getting closer to the other components of society. After the surprising opening of 1970 toward conservatives, and the still discussed proposal of the Compromesso Storico, he published a correspondence with Monsignor Luigi Bettazzi, the Bishop of Ivrea; it was an event that sounded quite astonishing since Pope Pius XII had excommunicated the communists soon after World War II (and this measure had not been removed), and the hypothesis of any relationship between communists and Catholics seemed very unlikely. The act was also compensating on another field a terrible equation, commonly and popularly expressed, by which PCI was at least protecting leftist terrorists, in the years of maximum violence and cruelty of Italian terrorism. In this contest PCI opened its doors to many Catholics, and a debate started about the possibility of contact. Notably, Berlinguer's strictly Catholic family was not brought out of its usual, severely respected privacy.
In Italy a government called of national solidarity was ruling, but Berlinguer claimed an emergency government, a strong and powerful cabinet to solve a crisis of exceptional seriousness. On March 16, 1978Aldo Moro, president of DC, was kidnapped by Red Brigades, the day that the new government was going to swear in front of parliament. During the agony of Moro, Berlinguer adhered to the so-called Front of firmness, refusing to treat with terrorists (that had proposed the exchange the freedom of the politician with the freedom of some terrorists in prison).
After the death of Moro (one of DC's leaders more in favour of Berlinguer's Compromesso Storico, if not the most) and after the following adjustments, PCI remained more isolated. In June a campaign against President Giovanni Leone, accused of minor bribery, was progressively approved and finally supported by PCI, and resulted in the President's resignation. The election of the following President Sandro Pertini (socialist) was also emphatically supported by Berlinguer, but didn't produce the effects that PCI probably expected, at least in the immediate acts. Pertini was in fact a socialist and an anti-fascist partisan, imprisonned and sent to confinement by the regime. In Italy, after a new president is elected, the government respectfully resigns, in order to consent a new definition of the political assets. Communists, given his history and his figure (so far from moderate or conservative positions), expected Pertini to use his influence in favour of the leftist parties. But the president was at the time more influenced by minor political leaders like Giovanni Spadolini (republican party) or Bettino Craxi (socialist party), and PCI remained out of the governmental area.
After a few months Berlinguer took part into a meeting with the secretaries of the five parties in the government coalition and declared them that the age of the governments of national solidarity had came to an end.
It has to be recalled that it is during these years that PCI obtained the administrative government of many Italian regions, sometimes more than a half of them. Notably, the regional government of Emilia-Romagna and Tuscany (among the many others) should have been a concrete proof of PCI's governmental capabilities, at the time necessary for propaganda purposes. Berlinguer turned then his attention toward the enforcement of the local power, in the aim of showing that "trains could be in time" under the "reds" too. Throughout the nation, Berlinguer personally followed the electoral campaigns for many other minor institutions like the provinces and the local councils (while other parties used to send only local leaders), consenting the party to win in - sometimes - a relevant majority of them.
In other fields, through the cultural organisation named ARCI, and by the massive occupation of all the most important related public charges, PCI was trying (since perhaps the birth of the Republic) to establish a sort of monopoly of the Italian culture. At this time, musicians, writers, journalists, poets, painters, film directors, teachers, phylosopers and especially historians, intellectuals and artists had somehow to express some sort of coherence with communist positions, had to take part into the political life as external commenters, had to support the communist ideological campaigns and in some cases run for political elections providing the party with the weight of their popularity. The "Festa dell'Unità", popular meetings for ordinary PCI militants, were turned into cultural events, with memorable important political discussions, intellectual debates and conventions, ofter enriched by pop-music concerts. Very few names in said fields remained far from this general tendence.
Following his strong action on PCI's propaganda, Berlinguer worked also to enforce Luciano Lama's popularity in the field of Trade unions. The communist CGIL, Lama's union, became then the most important competitor of the government, de facto quite a dubbed labour party, leading the association with the other two unions (CISL and UIL), while the conservative trade union (CISNAL) was excluded by the most important decisions.
In 1980 PCI publicly condemned the Russian invasion of Afghanistan; Moscow then immediately sent the French "colleague" Marchais to Rome, to try to bring Berlinguer into a milder position toward Russia, but Marchais was received with a notable coldness. The distance with Russia became very far when (in the end of that year) PCI didn't participate in the international conference of communist parties held in Paris. Soon, instead, Berlinguer made an official visit to China. In november of the same year, once again in Salerno, Berlinguer declared that the idea of an eventual Compromesso Storico has been definitively put aside; it would have been substituted with the idea of the democratic alternative.
In 1981, in a television interview he surprisingly declared that, in his personal opinion (and therefore in the political opinion of PCI), "the propulsive push of the October Revolution had been exhausted". The direction of the party criticised the "normalisation" of Poland and very soon the detachement from the Russian communist party became definitive and official, followed by a long polemic at distance between Pravda and L'Unità (the official newspaper of PCI), not made any milder after the meeting with Fidel Castro at Havana, Cuba.
On an internal side, Berlinguer's last principal claim is for the solidarity among the leftist parties ( Unità delle Sinistre).
Berlinguer suddenly abandoned the scene during a speech in a comizio (public meeting) in Padua; he was hit by a brainhaemorrhage while speaking and died three days after.
The figure of Berlinguer has been defined in many ways, but he was generally recognised for a political coherence and a certain courage, together with a rare personal and political intelligence. A severe figure, a serious man (the anecdote with Roberto Benigni was perhaps the most cheerful moment of all his public life), he was sincerely respected and deeply esteemed by opposition figures too and his three days' agony was followed with great participation by the general population. His corpse, exposed at Botteghe Oscure (the head office of the party) was honoured by all of his political opposition, even by those from which he was divided by violent polemics (this fact surprised many foreign observers, starting with François Mitterrand). His funeral was followed by a large number of people, perhaps among the highest ever seen in Rome.
The most important political act of his career in PCI is undoubtedly the dramatic break with Russian Communism, the so-called strappo, together with the creation of Eurocommunism. And together with his substantial work tending to an opening towards possibilities of contact with the conservative half of the country.
The major difficulties that PCI encountered in Italy (in PCI's point of view), was like what other leftist parties encountered in other European countries, and consisted of the quite absolute refusal of contact from conservatives, since PCI hadn't broken its relationships with Russia and hadn't abandoned the classical schematic vision that usually leftist parties used to show regarding the social positions and relationships among social classes. In this sense, Berlinguer's work brought to a better legitimation of the party, even if the strappo is not unanimously considered as a mere manoeuvre of internal politics.
Berlinguer was, quite obviously, strongly fought by many sides. An internal opposition inside the PCI stressed that (in a rough synthesis) he had turned what was born as a workers' party into a sort of bourgeois revisionist club. External opposition figures noted that strappo took several years to be completed; this perhaps as an alleged evidence of not definitive decision on the point (it has to be recalled that previous leader Luigi Longo had already had contrasts with Russia at the time of Czech invasion).
The acceptance of the Atlantic Pact is however generally seen as a notable evidence of the autonomous PCI's position, following the supposed "diversity" of this party that Togliatti, Berlinguer's true maestro, used to describe "strange as a giraffe".
All the work of Berlinguer, nevertheless, even if supported by a notably correct communist local administration of some regions (as said), wasn't able to bring PCI into the government and the last idea of the leader, the democratic alternative, is yet to be translated into something of clear today.
He died Padua.
Fonte
http://www.wikipedia.org/wiki/Enrico_Berlinguer