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Bisogna riflettere su alcune caratteristiche peculiari dell'epoca in cui viviamo e pensare ai problemi che cominciano a porsi come decisivi per i prossimi due decenni fino e oltre il duemila; nel periodo cioè in cui vivranno e raggiungeranno la maturità i giovani di oggi. A questa soglia dello sviluppo storico si presentano problemi non solo del tutto nuovi, cosa che è accaduta in varie epoche del cammino dell'umanità, ma di portata tale da generare possibilità e pericoli straordinari e sin qui impensati e impensabili.

Dobbiamo innanzitutto al progresso continuo delle scienze sperimentali le possibilità davvero inaudite e straordinarie che si aprono per migliorare la vita del genere umano.

La nuova tappa della rivoluzione scientifica e tecnologica

La nuova tappa della rivoluzione scientifica e tecnologica è sotto i nostri occhi, fa già parte delle nostre esistenze e per i giovani di oggi costituisce, ormai, quasi una condizione naturale e scontata. Ma proprio perciò occorre riflettere bene intorno alle occasioni offerte dalla scienza per non smarrirne il significato e la portata, per cogliere bene quali prospettive positive possono essere aperte e quanto gravi siano, di contro, le limitazioni, le contraddizioni, i rischi generati dai vincoli sociali e politici e da un uso distorto delle scienze e delle tecniche. Mai come oggi la conoscenza della costituzione della materia inanimata e vivente è giunta sino ad individuare molti dei meccanismi più remoti del mondo fisico, dei processi chimici, degli svolgimenti biologici. La ricerca pura ha aperto il campo a progressi e a veri e propri salti di qualità nelle applicazioni tecnico-pratiche. Emergono sopra ogni altra, in questi anni, le possibilità offerte dalla elettronica - e poi dalla microelettronica - nel campo delle comunicazioni, delle informazioni, dell'organizzazione del lavoro nella fabbrica e nell'ufficio e nel campo stesso della vita individuale e della vita associata.

Nuove risorse d'energia sono state scoperte ed esse sono tali da poter annullare nel futuro l'incubo della fine delle risorse non riproducibili. Sono stati inventati modi nuovi di trarre energia da risorse riprodotte, a cominciare dall'energia solare.

Anche la disponibilità di altre materie prime e di alimenti può trovare nuove possibilità in ricerche in atto e in altre che potrebbero essere avviate per utilizzare pienamente e razionalmente le risorse del suolo, del sottosuolo, dei mari e degli spazi.

E' pienamente vero quello che è stato detto nella relazione di Fumagalli, e cioè che, vi sarebbero le condizioni, dal punto di vista delle conoscenze scientifiche e tecniche, per iniziare a passare dal regno della necessità a quello della libertà. Se volessimo davvero fare una gara sui temi di chi abbia avuto storicamente ragione, dovremmo dire che la storia ha dato proprio ragione a chi ha tenuto fede alla speranza indicata dal Manifesto dei comunisti, alla speranza - cioè - che avrebbe potuto venire un tempo in cui sarebbe stato possibile all'uomo di dominare la natura e «l'azione propria dell'uomo» invece di essere da questa sovrastato e soggiogato (Marx).

Ma non vi è soltanto il progresso tecnico-scientifico.

La storia di questo secolo

Se noi volgiamo lo sguardo alla storia di questo secolo - che conclude il secondo millennio della forma di incivilimento cui apparteniamo - scorgiamo straordinari progressi nella coscienza dei popoli e delle persone umane che li compongono. Vi è stato, innanzitutto, un risveglio da forme di soggezione secolare, di esclusione, di avvilimento della parte più grande del genere umano. Pensiamo a quello che era all'inizio del secolo la condizione dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina ma anche di tanta parte del proletariato e dei lavoratori nell'Europa e nell'America settentrionale, per avere l'idea del rivolgimento radicale che si è venuto attuando. Un rivolgimento peraltro, che non è stato il portato meccanico delle trasformazioni scientifiche e tecnologiche. Queste trasformazioni hanno generato condizioni nuove, ma vi sono state guerre, ci sono volute rivoluzioni, lotte, sofferenze e sacrifici inauditi per arrivare là dove siamo arrivati.

Il processo di liberazione dei popoli si è fondato sopra il risveglio delle coscienze individuali di centinaia di milioni, di miliardi di uomini. La partecipazione alla lotta non solo accende gli animi, ma li dispone alla conoscenza, rendendoli protagonisti attivi di un processo di mutazione. Non per caso la volontà dei conservatori e dei reazionari di ogni latitudine e di ogni stampo, è innanzitutto quella di tenere, o di rendere, passivi e conformisti le donne e gli uomini, ma innanzitutto le giovani generazioni.

Insieme alle conoscenze generate dalla presenza nel generale moto di innovazione e di lotta, a determinare una modificazione delle coscienze, non mai così estesa e così rapida, è venuto uno straordinario aumento della informazione che, pur dando vita anche a forme nuove e più sofisticate di manipolazione delle coscienze, ha spezzato isolamenti e chiusure talora antichissime e ha determinato per la prima volta nella storia del mondo un autentica contemporaneità degli eventi.

Ridiscussi i ruoli dell'uomo e della donna

Da tutto questo è derivata anche la possibilità di ripensare i fondamenti più profondi del nostro vivere in società, sino alla ridiscussione dei ruoli storicamente assegnati agli uomini e alle donne.

Siamo oggi, con lo svolgimento dei nuovi movimenti femminili e femministici, all'inizio - un inizio certo contrastato e pieno anche di intime contraddizioni - di un mutamento nelle coscienze delle donne destinato alle conseguenze più grandi. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che il ripensamento della condizione secolarmente fatta alle donne, lo sviluppo del loro movimento di liberazione e il superamento dei limiti della concezione puramente emancipatrice - che consisteva nel proporre alle donne l'imitazione del modello maschile - tutto questo porta con sé una riconsiderazione generale della società, dei modi stessi della sua trasformazione, e della politica.

Siamo dunque di fronte ad un balzo in avanti straordinariamente grande nella storia umana e al dischiudersi di potenzialità sin qui sconosciute o solo vagamente immaginate. Ma guai a non vedere che, nello stesso tempo, si aprono dinnanzi all'umanità potenzialità negative anch'esse mai prima esistite.

Il sorgere della questione ecologica

Il primo e più drammatico pericolo è costituito dalla possibilità di giungere ad una guerra di distruzione totale. Per quanto rovinose e sterminatrici siano state le guerre del passato, in particolare quelle di questo secolo, mai si era profilata la possibilità di un evento bellico tale da porre fine a ogni forma di sopravvivenza dell'uomo su questa terra.

Contemporaneamente, l'uso irragionevole delle nuove tecniche e uno sviluppo quantitativo imponente, ma incontrollato ha già determinato non solo la possibilità, ma la minaccia concreta di rovine ecologiche gravissime e irreparabili. L'allarme lanciato da alcuni tra i maggiori studiosi contemporanei avverte sull'esistenza di danni crescenti per le acque - i fiumi, i laghi, i mari - e per l'aria che respiriamo, per l'atmosfera e per la troposfera che circonda la Terra. E' già vi sono, purtroppo, i segni concreti e pratici di potenzialità distruttive inaudite in processi apparentemente innocui o protetti: qui, a pochi chilometri da Milano vi fu il caso di Seveso, dove la diossina fece deserto; altrove sono stati i difetti di centrali elettro-atomiche e in ogni parte si avvertono le conseguenze sulla natura e sugli uomini dell'inquinamento crescente.

Grava poi sulla umanità l'incubo della insufficienza delle risorse alimentari dinnanzi ad una espansione demografica senza precedenti, mentre immense risorse vengono dissennatamente dilapidate e mentre lo spreco dilaga nei Paesi ricchi. Cresce così il divario tra il Sud e il Nord del mondo: un divario intollerabile per ragioni di giustizia e foriero, se non avviato a essere superato, di esplosioni di imprevedibile portata.

La disoccupazione dato strutturale

E tuttavia anche nei paesi ricchi, anche negli Stati Uniti, la povertà, quella vecchia e quella nuova, non è stata vinta e la disoccupazione o la inoccupazione, e l'emarginazione, colpiscono una quota crescente di popolazione, innanzitutto di popolazione giovanile. Nei paesi della Comunità europea occidentale e negli Stati Uniti si sfioreranno questo anno i venti milioni di disoccupati. La inoccupazione giovanile è divenuta un fatto endemico e strutturale, con conseguenze umane gravissime: un frutto dovuto cioè non all'andamento del ciclo economico, che può solo ridurlo o aumentarlo di poco, ma alle caratteristiche di processi produttivi e di innovazioni tecnologiche guidati dalla legge del massimo profitto.

Si esercitano sulle nuove generazioni fino dalla prima adolescenza, sollecitazioni crescenti per il consumo, e in particolare per nuovi consumi individuali. Si aumenta costantemente il loro patrimonio di informazione, ma contemporaneamente non si riesce ad assicurare ai giovani un tempestivo ingresso nel mercato del lavoro. Di qui nasce una condizione che non è certo più quella, almeno nella maggior parte dei casi, dell'estrema indigenza, (com'era ancora nell'Italia che usciva dal fascismo), ma è sicuramente una condizione di frustrazione profonda, causa non certo unica, ma non ultima di tante forme di sbandamento.

Dinnanzi a minacce e pericoli non mancano e anzi sono ampie e forti le risposte positive tra le vecchie e le nuove generazioni. E tuttavia non si può mancar di vedere le forme molteplici di incattivimento di modelli di violenza, di sopraffazione, di arbitrio, sino alle forme degenerative estreme del terrorismo, della mafia, della camorra e dei regimi repressivi di massa in tanti paesi del mondo.

In difesa della democrazia

Vi è anche chi teorizza che fenomeni come quelli del dilagare crescente nel consumo della droga pesante oppure dell'estendersi della criminalità organizzata, sarebbero uno scotto inevitabile per sistemi democratici, dove sono garantite le libertà dei cittadini. Noi non lo crediamo. Noi pensiamo piuttosto che nel presentarsi di questi mali si manifesti non una inevitabile conseguenza dei sistemi democratici, ma piuttosto una loro degenerazione profonda: una degenerazione dovuta alla contraddizione sempre maggiore tra il carattere sociale della produzione e le forme della conduzione economica, tra le motivazioni egoistiche sostenute come molla della società capitalistica e il bisogno crescente di solidarietà e di reciproca comprensione umana, tra il permanere di zone vastissime di vecchia e nuova emarginazione e la sfacciata opulenza, tra le prediche moraleggianti e i pessimi esempi pratici dati proprio da molti di coloro che dovrebbero fornire il buon esempio.

Non è dunque il sistema delle libertà democratiche che determina i guasti e le contraddizioni della società in cui viviamo, ma la incapacità di saldare libertà, giustizia ed efficienza.

Per il futuro dell'umanità

Di fronte a questi problemi che caratterizzano la nostra epoca, sorgono dei quesiti urgenti. Quanti nel mondo - e come - pensano davvero a problemi di questa natura, muovendo da un'analisi oggettiva e da una visione che abbia al suo centro la preoccupazione per il futuro dell'umanità?

E che cosa si può e si deve fare perché prevalgano le alternative positive, quelle che vanno in direzione della difesa della vita e della pace e della affermazione della giustizia nei rapporti tra i popoli e all'interno delle nazioni?

Dobbiamo innanzitutto alla parte più umanamente sensibile del mondo scientifico italiano e internazionale non solo l'avvertenza dei pericoli gravi che l'umanità attraversa, ma anche i primi rilevanti tentativi di indicare ai popoli e agli Stati le possibili risposte.

Ma non sono molti nel mondo i dirigenti politici, dei Governi, dei partiti e di altri organismi sociali e politici che si sono dimostrati capaci di pensare a questi problemi in modo non troppo vincolato da puri e ristretti calcoli di Stato, di partito, di gruppo, di difesa o affermazione di ristretti interessi.

Ciò mi sembra vero particolarmente in Italia. Non c'è bisogno di ripetere per la ennesima volta che noi siamo rispettosi di tutte le forze politiche democratiche e che non vogliamo dare lezioni a nessuno: però non è possibile non avvertire in molti episodi della lotta politica interna alle forze del Governo una ristrettezza di orizzonte e, talora, un precipitare attorno a non nobili contese di interessa di parte, per le quali si infiammano gli animi e si misurano i muscoli e le cosiddette «grinte» (sulle quali ha scritto un bell'articolo il compagno De Martino).

Vi è insomma una preoccupante diminuzione del tasso di saggezza nei reggitori del nostro Paese e, per quanto si vede, nel mondo intero. Conforta, va però detto, che sta crescendo il numero di esponenti politici che cominciano a porsi e a porre alcuni dei problemi che ho ricordato in tutta la loro drammaticità. Basta pensare, per quanto riguarda il problema Nord-Sud, alle analisi e alle denuncie di Fidel Castro e di Willy Brandt.

Vi sono inoltre organismi internazionali, istituzioni e associazioni religiose (la Chiesa cattolica, le altre chiese cristiane) che hanno lanciato allarmi, rivolto moniti e in molti casi promosso iniziative.

Fra le forze che pensano ai massimi problemi cui ho accennato c'è il Partito comunista italiano. Abbiamo molti difetti, ma non quello di sfuggire all'analisi e al confronto con la realtà del mondo di oggi, di non sforzarci di comprenderla in tutta la sua portata e di non cercare di elaborare nostre proposte, di sviluppare iniziative, di stabilire contatti e intese con tutte le forze che possono e devono essere interessate a far marciare le cose nella direzione giusta.

Per un nuovo socialismo

Tutto ciò ha gettato i comunisti italiani in una impresa e in una lotta quanto mai ardua e tale da esporli a incomprensioni e polemiche, tanto da parte di correnti dogmatiche e conservatrici quanto da parte di correnti opportunistiche e di adagiamento. Impresa e lotta ardue, ma piene di fascino.

Non è cosa diversa o separabile da questa nostra ricerca la nostra iniziativa per una concezione e realtà del socialismo, quello che voi giovani comunisti avete chiamato giustamente un "socialismo nuovo".

L'esigenza di una concezione e di una strada originali non deriva unicamente dalla constatazione di insufficiente e limiti altrui (dei modelli di tipo sovietico e delle esperienze socialdemocratiche), ma anche e innanzitutto dai problemi posti dall'età che stiamo vivendo, dai processi di trasformazione materiale, dalla esistenza di contraddizioni profonde, non prima conosciute.

Noi riscopriamo proprio così l'esigenza del socialismo inteso come sforzo per una direzione consapevole e democratica dei procesi economici e sociali, fondata sulla difesa e la pienezza di tutte le libertà. Ci si risponde che il socialismo come lo pensiamo noi non esiste e che quindi si tratta di una parola vuota. Qunado iniziarono le prime rivoluzioni liberali le Costituzioni democratiche non esistevano, ma non per questo parole come Democrazia e Costituzione erano parole vuote.

Socialismo e democrazia

Se tutte le parole che esprimono nuovi bisogni per la società fossero state considerate superflue, la storia propriamente umana non sarebbe neppure cominciata. E' del resto del tutto falso che la parola socialismo non sia venuta già esprimendo valori universali, così come la parola democrazia. Nella idea socialista è compresa come essenziale la necessità di forme consapevoli di direzione del processo economico al fine di garantirne un equilibrato sviluppo e una maggiore giustizia sociale. Il fatto che molte esperienze siano state manchevoli od erronee non elimina il valore di queste esigenze. Non elimina cioè il fatto - già segnalato politicamente da Togliatti nel memoriale di Yalta - che la necessità di forme programmate di intervento pubblico nella economia non può più essere in nessuna parte del mondo negata, neppure nei sistemi capitalistici, così come non si può disconoscere il bisogno di una più ampia giustizia sociale. La discussione sarà ed è sul rapporto tra programmazione e mercato, tra spinta alla eguaglianza e bisogno di differenze: ma questa è già una discussione che implica l'idea della trasformazione sociale. Ecco perché noi non pensiamo che possa essere definito moderno chi mette in parentesi la parola socialismo oppure dichiara la santa crociata contro di essa. E' vero perfettamente il contrario: è vero cioè che l'idea socialista e comunista continua ad essere la giovinezza del mondo.

Ciò che si è venuto logorando sono molte delle esperienze concrete che dimostrano i limiti, non solo pratici, di concezioni, di posizioni maturate molto tempo fa, all'inizio del secolo. Per questo il nostro partito si sforza di ammonire contro un uso dogmatico dei maestri del pensiero, e dunque anche dei maestri del pensiero socialista.

Ciò non significa affatto sottovalutare i risultati straordinari che hanno avuto la prima predicazione socialista, e poi il passaggio dal desiderio e dal sogno di una società nuova sino allo studio scientifico, con Marx, della struttura capitalistica della società del suo tempo. E' da tutto questo che è emersa la prima rivoluzione socialista, quella dell'Ottobre russo, le cui idealità e il cui valore stanno scritti nella storia del nostro tempo. Quella prima rottura innescò un processo storico nuovo, un processo che per grande tempo fu portatore di grandi conquiste e di straordinarie conseguenze nell'aprire una fase nuova di lotte per l'emancipazione nazionale e sociale.

Una fase nuova

Oggi siamo in una fase nuova e diversa dello sviluppo della lotta per il socialismo. Non da ora, certo, i comunisti italiani hanno considerato superato il mito dei paesi di tipo sovietico, mito che pure si costruì non a caso e che aiutò altre generazioni comuniste a far fronte con onore ai propri doveri, mentre molti altri (anche se non tutti) crollavano. Tuttavia questo processo si è ora completato.

Quei modelli di società e di Stato non solo - e da tempo - li giudichiamo non trasferibili in paesi come il nostro. Si viene rivelando la necessità che anche in quei paesi siano attuate riforme economiche e politiche che invertano i processi di stagnazione e di involuzione in atto in diversi di essi, processi che non possono certo essere arrestati, con misure repressive gravi, come quelle adottate dai militari in Polonia. Noi non pensiamo che si possa giungere a realizzare e a difendere trasformazioni di tipo socialistico nelle società e negli stati senza difficoltà, senza fatiche, senza contrasti e lotte. Ma vi è solo una strada giusta per affrontare e superare ogni ostacolo: appoggiarsi sul consenso e sulla partecipazione della classe operaia, dei lavoratori e del popolo. La necessità del socialismo e di un movimento per il socialismo riprende dunque forza come espressione delle condizioni oggettive, materiali, del mondo di oggi e dei bisogni che l'uomo di oggi chiede siano soddisfatti.

Al tempo stesso questa esigenza nasce da una opzione etica.

Scegliere contro l'ingiustizia

Se non si vuole che la giustizia prevalga sull'ingiustizia, non si giunge alla scelta del socialismo, e di un socialismo nuovo. Chi si rassegna all'ingiustizia, o l'accetta, o peggio la vuole perché ne trae un vantaggio, compie altre scelte.

Questo non vuol dire, ovviamente, che solo chi sceglie l'obiettivo del socialismo può operare per la giustizia, per la pace, per la salvezza e il progresso dell'umanità. Non è così. Vi è anzi un'altra grande necessità che oggi riprende vigore: quella di un incontro e di una collaborazione tra tutte le forze che, muovendo dalle ispirazioni più diverse, sanno, vogliono, possono farsi interpreti di questi bisogni nuovi degli uomini di oggi, di un incontro e di una collaborazione che riconoscano, rispettino ed esaltino il contributo e i valori di cui ognuno è portatore, in uno sforzo incessante di reciproca comprensione e di comune arricchimento. Vi è qui l'altro dato di fondo, peculiare e insostenibile, della nostra concezione e della nostra politica.

Il problema che dobbiamo porre a noi stessi e a tutti è come si possono affrontare contraddizioni che rasentano ormai l'assurdità - tra abissi di miseria e culmini di ricchezza, tra spreco degli armamenti e bisogni elementari insoddisfatti, tra potenzialità del sapere e meschinità della conduzione politica senza porsi l'obiettivo di una trasformazione degli attuali sistemi di rapporti tra gli uomini e di una guida più razionale e più democratica dei processi economici e sociali sul piano nazionale, europeo e mondiale.

Quale lotta

Che cosa possiamo fare, come partito e come Fgci, per soddisfare queste esigenza ormai vitali per gli uomini e le donne che abitano il nostro Paese, il nostro continente e il nostro pianeta, sventando i pericoli di eventi catastrofici e di intollerabili dominazioni reazionarie? Per prima cosa bisogna avere delle idee-forza: la difesa della pace e il disarmo sono una di esse, così come lo è il "nuovo socialismo", così come lo è il nuovo ordine economico internazionale.

In secondo luogo dovremmo lavorare per prendere e dare consapevolezza piena delle contraddizioni nuove del tempo nostro. Far conoscere a tutti che cosa comporta la continuazione della corsa al riarmo, quali sarebbero le conseguenze di una guerra combattuta con le armi atomiche e nucleari. E diffondere i risultati degli studi più recenti sui problemi del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente e così via. Non è molto che scienziati, istituzioni e anche esponenti politici hanno cominciato a studiare questi temi tipici del nostro tempo e che domineranno i prossimi due decenni.

Si è cominciato, praticamente, a parlarne all'inizio degli anni '70: prima, e acnora per tutti gli anni '60, imperava il vacuo ottimiso del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso a tutta la popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni, nel corso dei quali la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo, un notevole patrimonio di studi si è già accumulato. Esso non è però ancora sufficientemente conosciuto e discusso da grandi masse.

A questo proposito avanzo una proposta concreta da realizzare in un tempo ragionevolmente breve: organizzare, come partito e come Fgci, un Congresso di fururologia, che si svolga sulla base di relazioni e comunicazioni di scienziati e di esponenti delle più varie discipline (scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, militari, economiche, sociali, informatiche, mediche, ecc.); e portare poi i risultati delle informazioni, valutazioni e proposte, che saranno fatte in tale Congresso alla conoscenza e alla discussione tra i giovani.

La terza cosa da fare, la più importante, è quella di proseguire nello sforzo già in atto per sviluppare tutti quei movimenti che si fondino sulle contraddizioni aperte, indichino soluzioni possibili, suggeriscano risultati concreti lungo una via di trasformazione e contribuiscano nel tempo stesso a migliorare e arricchire noi stessi nel nostro rapporto con gli altri.

Quando il movimento operaio muoveva i primi passi oltre un secolo fa, erano le minute rivendicazioni economiche che dovevano avere il primo posto. La grande battaglia unificante, che divenne internazionale, fu per le otto ore. Se non si fosse partiti di lì non si sarebbero certo potute costruire le leghe, i sindacati, il partito politico.

Oggi quel problema si ripresenta. E torna prepotentemente di attualità, se si vuole affrontare il tema della disoccupazione nei suoi aspetti strutturali, la esigenza di una grande battaglia internazionale per la riduzione dell'orario di lavoro. E' stato giusto che questo congresso abbia levato su questo tema una richiesta anche nei confronti dei sindacati.

La qualità dello sviluppo

La piaga della disoccupazione giovanile richiede grandi iniziative anche a livello europeo e una nuova politica nazionale che tenda a modificare la collocazione italiana nella divisione internazionale del lavoro. Ma - dunque - la battaglia per il lavoro chiede anch'essa specificazioni di qualità: riguardanti il tipo di sviluppo che è necessario e utile perseguire. Quanto sarà possibile sostenere una espansione fondata essenzialmente su produzioni, come dicono gli economisti, "mature" e cioè all'avanguardia, sul lavoro sommerso, sul permanere di una dipendenza fortissima nella ricerca e nei brevetti?

Ecco il bisogno economico di misurarsi con la qualità dello sviluppo. Contemporaneamente, si tratta di un bisogno non soltanto economico. La necessità di vivere in città meno alienanti e disumane, di salvare la natura e i beni culturali, di avere una vita culturale più ricca e piena, di andare ad una scuola il cui insegnamento sia qualificato; tutto questo viene diventando necessità primaria, come erano una volta, le necessità di sussistenza.

Ecco perché il movimento ecologico, nei suoi differenziati aspetti, la volontà di impegno culturale, lo stesso desiderio di partecipazione attiva al miglioramento della scuola hanno acquistato un rilievo così grande. Si esprime anche in questo modo una coscienza critica verso la società in cui viviamo.

Ed ecco perché noi non possiamo pensare di chiamare i giovani alla politica secondo vecchi contenuti e vecchie forme. Come portare la grande maggioranza dei giovani alla consapevoleza piena della realtà e alla possibilità di affrontarla alla luce della ragione. La ideologia della fine delle ideologie è essa stessa una forma di falsa coscienza e cioè una ideologia nel senso marxianamente peggiore della parola. Vi è una pressione forte per un allontanamento di giovani dalla politica.

Giovani generazioni e politica

La prima, essenziale, semplice verità che va ricordata a tutti i giovani è che se la politica non la faranno loro, essa rimarrà appanaggio degli altri, mentre sono loro, i giovani, i quali hanno l'interesse fondamentale a costruire il proprio futuro e innanzitutto a garantire che un futuro vi sia.

Non è mai stato facile essere comunisti. L'assassinio di compagni Pio La Torre e Rosario Di Salvo sono la prova più recente che non è neppure mai finito il tempo in cui bisogna testimoniare persino con il sacrificio estremo la propria fedeltà alle grandi idee per cui tanti dei nostri compagni sono caduti. Ma vi sono oggi difficoltà anche meno aspre e più impalpabili, date dal fatto che i problemi si presentano in forma diversa e più complessa che per il passato, perché le contraddizioni medesime della società tendono ad essere non più solo quantitative ma a riguardare la qualità dello sviluppo, della vita, del modo di esser donne e uomini, del rapporto tra individuo e individuo, tra individuo e società.

Alla crisi delle vecchie forme della politica già corrisponde, se sappiamo vederlo, il nascere di forme nuove di impegno. E queste nuove forme non derivano soltanto dal fatto che molti partiti siano in crisi e altri, compreso il nostro, sentano difficoltà, ma derica dal fatto che avanzano, assieme a questioni nuove, nuove sensibilità.

Vi è, per esempio, un bisogno più grande che per il passato di veder pienamente utilizzato il proprio tempo e il proprio contributo. Non possiamo perciò rammaricarci se tanta attività dei partiti, effettivamente ripetitiva, non viene seguita. Ma vi è anche più informazione, più spirito critico, più avvertita vigilanza contro i luoghi comuni, e le frasi fatte. Ecco perché certo vecchio modo di fare politica oramai respinge nel mentre si sviluppa una spinta grande all'associazionismo, a forme nuove di aggregazione, a nuovi interessi. Nella ripresa di tante forme di associazionismo cattolico non vi è soltanto, il bisogno di certezze che una fede può dare, vi è anche un grande e attivo impegno operativo intorno a tante cause positive. Le Chiese sospingono all'impegno nella società e da ciò deriva una religiosità che non è fuga dal mondo, ma opere e fatti.

Di qui sono venuti e possono venire contributi di notevole rilievo: innanzitutto al movimento per la pace. Talora, ciò si accompagna a spinte integraliste ma, quali che ne siano le motivazioni, bisogna essere attenti alle finalità concrete che vengono perseguite e vedere quali sono i possibili obiettivi consumi. Occorre non confondere mai la necessaria lotta contro il sistema di potere democristiano - sistema di potere che, con buona pace dell'attuale segretario della Dc, continua ad essere una pesante realtà e non una invenzione dei comunisti - e la necessità di intendere la complessità delle spinte presenti nell'area cattolica.

Noi non ci lasceremo impressionare dalla campagna pretestuosa in base alla quale ogni attenzione nostra verso la realtà cattolica viene presentata come ricerca di una intesa tra Dc e Pci. Si tratta di propaganda. Al tempo della solidarietà nazionale noi fummo sempre con i compagni socialisti dapprima nell'astensionismo, poi nel breve periodo della maggioranza. Non siamo certamente noi che abiamo praticato la linea della divisione a sinistra e della intesa separata con la Dc.

Abbiamo dichiarato e ripetiamo, comunque, che quell'esperienza politica è per noi conclusa.

La nostra prospettiva è quella di un'alternativa democratica al sistema di potere dominato dalla Dc. E' ed è in questo quadro che si colloca la nostra ricerca di uno sviluppo del rapporto unitario prima di tutto con il Psi.

Ma guai se, per timore di una propaganda malevola, noi dismettessimo la nostra attenzione verso il mondo cattolico. Proprio la piena conquista di una laicità storicamente costruita ci consente questa capacità continua di distinzione: volta a cercare di interpretare, nel campo che è proprio del partito politico, i bisogni del tempo, da chiunque essi vengono espressi. Non ci sfugge, quindi, che viene anche dal campo cattolico un bisogno di fare, di agire che corrisponde alla necessità effettiva di vedere almeno alleviati molti dei problemi assillanti di tanta parte della popolazione. E' ciò che si chiama il «volontariato». Il volontariato non è soltanto cattolico. Alle radici stesse del movimento operaio c'è il moto della solidarietà reciproca; l'originario costituirsi (prima delle leghe, prima del partito) di associazioni di mutuo aiuto, di reciproco sostegno.

In molte organizzazioni del volontariato, in ogni campo, credenti e non credenti lavorano insieme e anche quando le organizzazioni sono distinte e le aspirazioni ideali diverse, sovente le finalità di solidarietà umana comuni. E abbiamo visto proprio nei giorni scorsi, in una riunione nazionale, quante e quanto valide siano le forze nostre impegnate nelle associazioni volontarie.

Lo sviluppo nuovo e impetuoso di queste antiche e nuove forme di aggregazione ci insegna tante cose: non certo che si può fare a meno delle lotte (fra le quali oggi hanno portata decisiva quella per respingere l'offensiva della Confindustria). Né si può fare a meno dello Stato o della mano pubblica - come qualche teorico, anche di parte cattolica, suggerisce - ma certo che bisogna prendere posizione contro lo statalismo burocratico, che bisogna essere capaci di vedere le risorse autonome della società e saperle valorizzare in un dialogo continuo tra istituzioni democratiche e sollecitazioni che vengono direttamente dalla società.

Lo sviluppo dell'associazionismo e del volontariato indica che non basta partecipare, bisogna poter contare veramente, bisogna fare, bisogna contribuire a risolvere questioni reali. «Democrazia» deve congiungersi con efficienza e «libertà», deve divenire responsabilità e liberazione...

Fonte:

http://utenti.lycos.it/nostalgici/berlinguer.htm

Si capisce perché non c´è posto per Enrico Berlinguer nell´imminente Partito democratico. E tanto vale cacciarsi subito il dente: non c´è posto per Berlinguer, perché nessuno più di lui ne rappresenta la cattiva coscienza.

Con qualche ragionevole ribalderia si può anche dire che Berlinguer resta fuori dal Pd per la semplice, ma indicibile ragione che mette in luce la lunga e folta coda di paglia di tanti dirigenti diessini. Ma se l´immagine disturba, o suona azzardata, o immotivata, si potrebbe pure cercare di dimostrare che la figura di Berlinguer non entra nel «nuovo» partito perché è ancora oggi egli incarna delle virtù che non solo nel campo della sinistra post-comunista si sono ormai quasi definitivamente estinte.

La questione va ben al di là di quella gettonatissima entità ectoplasmica che nel discorso pubblico comincia a essere questo «Pantheon». Di sicuro non sarebbe andato a genio a Berlinguer. «Non amo le semplificazioni» ripeteva spesso; e anche: «Non faccio profezie». Non per caso lo chiamavano «il Sardomuto». Berlinguer non faceva battute in televisione, tantomeno le commentava. Era difficilissimo farlo sedere sui trespoli degli studi televisivi, figurarsi se si sarebbe permesso di affrontare una questione politica solleticando la suspence del pubblico con una frasetta tipo: «Guardi cosa arrivo a dire»; né sarebbe mai scivolato nell´intimismo con quell´inciso un po´ teatrale: «E mi costa molto!». Berlinguer non salutava a pugno chiuso, riteneva quel gesto «un segno di ostilità». E´ lecito quindi ipotizzare che mai avrebbe concluso, come il risoluto Bersani: «Punto e basta».

Oggi invece ci si può tranquillamente esprimere in quel modo, anzi forse si deve. Infatti «funziona». O nessuno ci fa più caso. E comunque pazienza. Ma se la battuta di Bersani fa un po´ di notizia; se si parla ancora una volta di Berlinguer è proprio perché il personaggio non si adattava per niente a «funzionare». Era quasi impossibile «fargli dire» questo o quel giudizio, magari schiacciandolo sulle modalità espressive del presente; le rare volte che qualche giornalista ci riusciva, per quanto dotato di fascino mediatico, quell´uomo dai capelli un po´ dritti e dalle giacche lente restava comunque immerso in un presente tutto suo. «Non ha nemmeno la televisione a colori» disse una volta Craxi. Ora, sarebbe di cattivo gusto evocare campionati di popolarità e rispetto post-mortem. Ma certo quella vecchia televisione in bianco e nero nel tinello di casa Berlinguer, più che una metafora di grigio modernariato politico sembra oggi la «prova regina» - come diceva lui con spiccato accento sassarese - di una mutazione genetica che certo non fa onore all´attuale ceto politico, o politicistico, o politicante, o peggio.

Il punto è che questa trasformazione antropologica, che riguarda l´intera classe politica italiana, rischia di apparire ancora più evidente nel campo che fu suo. Lo si vorrebbe qui dire nel modo meno animoso, come pura e piatta constatazione. Ma di nuovo: Berlinguer è divenuto scomodo perché è tutto quello che i dirigenti diessini hanno smarrito: il silenzio, la compostezza, la sobrietà, la serietà, lo spirito di servizio, il senso della propria dignitosa e decorosa funzione, il disdegno dell´omaggio e della «comunella» con gli avversari, la concezione alta non solo della politica, ma anche del potere. In un´intervista a Giovanni Minoli, che gli chiese cosa pensava del potere, se gli piaceva, Berlinguer, senza muovere un muscolo del volto, ma con un´intensità niente affatto minacciosa, rispose che il potere gli poteva anche piacere, «ma come possibilità di far avanzare gli ideali in cui crediamo io e i miei compagni».

Si noti la formulazione. In questo senso, pare addirittura di scorgere una qualche proporzione matematica. Ai suoi tempi Berlinguer era il «noi» nella misura in cui i dirigenti post-comunisti sono oggi un´accolita di «ego» per lo più arroventati e quindi sempre disposti a farsi del male l´uno con l´altro. E tutto questo non significa che egli sia da considerare il Padre Pio del comunismo italiano, ma certo conosceva e praticava doti che oggi non sembrano molto in voga dalle parti di via Nazionale, o nelle fondazioni limitrofe. La prima delle quali doti potrebbe essere, ad esempio, l´umiltà. E la seconda, sempre almanaccando, la tenuta psicologica. E la terza, se è consentito divagare dai massimi sistemi, la gentilezza, il garbo, il tratto umano.

Poi sì, certo, si capisce, c´è la politica, c´è la morale, c´è la guerra fredda. Su sulla «storia», sulle scelte di Berlinguer, sui suoi ritardi, sui suoi errori, sulla rigidità, la doppiezza, gli attuali oligarchi del Botteghino potrebbero utilmente intrattenere quel resta di un antico partito. Il compromesso, l´austerità, lo strappo, la musata sulla scala mobile, la diversità. Ma lui era diverso davvero, anche come stile, anche come dirigente, anche come uomo. E su questo i capi diessini non dicono molto. Anzi, a metterla giù dura, l´impressione è che oggi Enrico Berlinguer è diventato ingombrante perché sta lì a ricordargli, e nel modo meno simpatico, le ragioni originarie del loro stesso impegno politico. Ragioni che - via, lo ammettano! - si sono, come dire, un po´ indebolite. Ragioni che si sono attenuate, «modernizzate», «laicizzate». E anche vero rientra nel novere delle cose che possono e a volte devono accadere. Ma al tempo stesso, modernizzandosi e laicizzandosi, quell´impulso primigenio, quella voglia tutta giovanile di battersi per la povera gente - il Berlinguer partecipò giovanissimo ai «moti del pane», guidando la mobilitazione di gente che aveva fame - ecco, morto lui, in tanti e tanti ex giovani quadri del Pci quelle ragioni si sono aperte a tante e tante altre cose non proprio berlingueriane.

Berlinguer è morto nel 1984, e nel corso di questi 23 anni è stato tirato da una parte e dall´altra, tagliato a fettine, esposto sulle bancarelle congressuali; e poi pubblicato postumo, soggetto di libri scritti da futuri ministri, sindaci e presidenti a loro immagine e somiglianza, ma a loro uso e consumo. Troppo commemorato e insieme dimenticato a forza, difeso dai parenti, lodato dagli avversari (Andreotti, Romiti, Montanelli). Ma in fondo per comprendere Berlinguer - e quel che un tempo si chiamava popolo c´è riuscito meglio di tanti esponenti del suo ex gruppo dirigente - bastano quelle ultime immagine sul palco di Padova. Le parole smozzicate, il fazzoletto sul volto, e lui che voleva continuare. Un ricordo che non si riesce proprio a scartare. Anzi, forse stai a vedere che è proprio in questa memoria stralunata, ma piena di poesia che non c´è posto per il Partito democratico.

A Enrico Berlinguer è dedicata in eddyburg una cartella di scritti suoi e su di lui

«Siano avvertiti il Partito e l’Università di Padova». Così si leggeva su un biglietto che i familiari trovarono indosso a Concetto Marchesi nel momento della sua morte, a Roma, il 12 febbraio 1957, cinquant’anni fa. Quel biglietto, Marchesi lo portava con sé da alcuni giorni, in previsione dell’unico viaggio per il quale (diceva) non si sarebbe recato alla stazione con un quarto d’ora d’anticipo.

Il commiato dalla vita del grande umanista - nativo di Catania, ha appena compiuto settantanove anni - avviene in un quadro a suo modo sontuoso. Vi partecipano, appunto, l’ateneo padovano in cui ha insegnato per trent’anni, e soprattutto il Pci, nel quale ha militato dal 1921. L’Unità gli dedica quattro fitte pagine, con firme molto note, da Ranuccio Bianchi Bandinelli a Francesco Flora, da Vincenzo Arangio Ruiz a Gabriele Pepe. Di fronte alla salma, la scrittrice Sibilla Aleramo sprofonda nel lirismo: «Giuro che avrei voluto essere io in sua vece, stesa in tanto limpido riposo». È piena di confronti con De Sanctis e Gramsci l’orazione pronunciata da Togliatti. A "coprire" la cronaca provvede Gianni Rodari. Secondo il quale, uscendo dal suo appartamento in via Cristoforo Colombo per raggiungere la clinica Sanatrix, Marchesi avrebbe detto, in greco, a un suo discepolo: «Oichomai», me ne vado. Nell’articolo di Luigi Russo, celebre italianista anche lui siciliano, si trova un ritratto dell’amico: «Piccolo, snodato, aveva un’aria d’un bambino, o d’un "angelone", come quelli che ricorrono nei nostri paesi nelle cerimonie cattoliche».

Di conversione, nessuno parlò. Marchesi non era il tipo, benché in una delle sue ultime opere, L’Antologia della letteratura latina per i licei, avesse curato con particolare amore la parte relativa agli scrittori del primo cristianesimo, Arnobio, Tertulliano, Prudenzio. Dichiarando poi: «Noi comunisti ci inchiniamo davanti a tutte le fedi», anche a quella «degli apologisti e dei padri della Chiesa». Ecco un modo di ribadire che la sua Chiesa era un’altra. E anche di rispondere in anticipo a una diffusa perplessità, come quella espressa, proprio nel febbraio ‘57, dal Corriere della sera: come si spiega (s’è chiesto il giornale) una ispida «passionalità di accenti» politici in «un uomo che ha studiato con penetrazione alcune delle più serene figure del mondo classico», Marziale, Seneca, Petronio, Fedro, Orazio, Apuleio?

Di fatto, convivevano in Marchesi un filologo e un uomo politico. Impetuoso, quest’ultimo. Beffardo. Incurante di apparire settario. Così egli era stato fin da adolescente. Sulle sue origini aleggiava un precedente suggestivo. Si voleva che egli discendesse da lombi aristocratici, i nobili d’Angiò. Un sacerdote, suo antenato, essendogli nato un figlio naturale, lo aveva dato ad allevare a una coppia di contadini: e il cognome Marchese, diventato poi Marchesi, alludeva a quella origine patrizia. In politica, la precocità di Concetto si manifestò in forme prorompenti, "sovversive". Lucifero, un giornale catanese che egli fondò nel 1894, a sedici anni, venne subito sequestrato per aver osannato al «furore ideologico» che conduceva al patibolo gli anarchici di Parigi. Condannato a un mese di reclusione per apologia di reato, si risparmiò al direttore la prigione: era un ragazzo.

Ma nel ‘96, appena Concetto ebbe compiuti i diciotto anni, la sentenza divenne esecutiva ed egli fu arrestato nella sede dell’Università di Catania: vi si era recato per ascoltare una lezione di Remigio Sabatini (il professore del quale sarebbe restato "discepolo a vita" sposandone la figlia Ada). Dopo il primo mese di carcere, gliene inflissero un secondo per aver commesso «oltraggio a pubblico ufficiale», dando del «rospo» a una guardia.

Su simili episodi Marchesi s’intrattiene nei volumi di memorie Il cane di terracotta, Il letto di Procuste e Il libro di Tersite. S’intitolava Battaglie un libretto di poesie a sua firma uscito nel ‘96 a Catania: egli avvertì che lo aveva scritto «con la rabbia di chi ha una vendetta da compiere e la fede di chi ha un ideale da raggiungere». L’autore avrebbe poi sconfessato quei versi giovanili, ma lo spirito che li connotava gli sarebbe rimasto inalterato lungo un’intera carriera di cattedratico - a Messina e poi a Padova - e di «militante».

Il ventennio fascista coincise con la sua piena maturità. Non era iscritto al fascio, ma adempì nel 1931 all’obbligo, per i professori, di giurare fedeltà al regime. Nei giorni della morte fu Ludovico Geymonat a rimproverargli quel gesto, mentre Cesare Musatti lo difese (e poi Giorgio Amendola nelle sue memorie rivelò che era stato Togliatti ad autorizzare il giuramento). Gli amici di Marchesi andarono a cercare nel suo capolavoro, la geniale Storia della letteratura latina (1927), certi giudizi interpretabili in chiave di critica al fascismo. A partire da quello su Giulio Cesare: «Quest’uomo, giunto al sommo dell’umano potere, lasciò che tutti parlassero, perché le bocche si chiudono quando si è servi della ventura e non signori della storia». Ezio Franceschini, suo biografo, ricorda che nel 1942 Marchesi, rievocando a Perugia Cornelio Tacito, inserì nel discorso acuti sapori antitedeschi. Quello di guardare alla storia come eterno presente era un vezzo del professore catanese. Sedici anni più tardi, nel 1956, all’VIII Congresso del Pci, il nome del massimo storico del Principato gli sarebbe tornato sulle labbra in un contesto sarcastico, contro la demolizione della personalità di Stalin: «Tiberio uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma», egli ricordò, «trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Kruscev». Aveva così rassicurato il partito in merito alla sua fedeltà. Compiacendo Togliatti. Al quale, anni prima, aveva rilasciato una patente di umanista. Si può parlare - s’era chiesto - della «cultura classica» del segretario del Pci? «Certo», era stata la risposta, «se per classico s’intende "di prima classe"».

Il partito ricambiava. Con stupore ammirativo veniva ricordato il coraggio mostrato dal latinista nei tardi anni del regime, i più duri. Di quando, per esempio, clandestino a Milano, si faceva passare per l’avvocato Antonio Mancinelli. Lui stesso usava spesso commemorare la notte di Natale del ‘43, allorché nella casa in cui si nascondeva piombarono «come lupi affamati» i compagni di partito Scoccimarro e Li Causi. «Tutti e due insieme!», esclamava il professore. «Sarebbe stata una bella festa se ci avessero presi». Nel maggio di quell’anno, a Padova, Marchesi aveva conosciuto Giorgio Amendola che, pur molto ammirandolo, trovò i suoi argomenti politici «settari e anche ingenui».

Un’accentuata freddezza mostrerà poi nei suoi riguardi Luigi Longo, imputandogli di aver accettato la carica di Rettore, a Padova, nei mesi di Salò. Ma a riportarlo nella "linea" del partito valsero le dimissioni da quella carica, accompagnate, il 1. dicembre 1943, da un vigoroso appello agli studenti di Padova perché si unissero alla Resistenza, a «questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo».

Febbraio ‘44: Marchesi si rifugia in Svizzera. In settembre eccolo nell’Ossola, nelle file della Resistenza. C’è stato, ai primi dell’anno, un altro colpo di scena a sua firma. Commentando un articolo di Giovanni Gentile sul Corriere della sera, nel quale si invocava la concordia nazionale, Marchesi così aveva reagito: «Concordia è unità di cuori, è congiunzione di fede e di opere: non è residenza inerte e fangosa di delitti e di smemorataggine». E più avanti: «Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l’assassino». Questa Lettera aperta a Gentile venne stampata nel giornale «La Lotta» del gennaio 1944. In marzo, essa venne ripubblicata nella rivista clandestina del Pci «La nostra lotta». Era scomparsa la firma. Sotto un nuovo titolo - Sentenza di morte - era stata aggiunta una frase finale: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!». Si sarebbe saputo più tardi che a rimaneggiare il testo aveva provveduto Girolamo Li Causi.

Il 15 aprile 1944 Giovanni Gentile viene assassinato a Firenze. E fra gli enigmi connessi al delitto se ne profila uno con al centro, appunto, la figura di Marchesi. Per tentare di decifrarlo, lo storico dell’antichità Luciano Canfora scriverà assai più tardi, nel 1985, edito da Sellerio, un libro affascinante, una sorta di noir dal vero. S’intitola La sentenza. L’autore percorre l’intero arco delle ipotesi che accompagnano la morte di Gentile (se alla base dell’attentato ci sia un ordine emanato dal Pci, se si debba invece pensare a un’iniziativa "dal basso", e così via). Ma Canfora esamina soprattutto il ruolo che svolse, all’interno del «caso», Concetto Marchesi. Ne ripercorre la carriera di militante comunista. Ricorda le roventi accuse che egli rivolse a Gentile. Esclude che quella variante finale, in cui si parla esplicitamente di morte, apposta da Li Causi al testo di Marchesi, possa essere passata senza la sua approvazione.

Canfora definiva comunque quell’attentato un «fotogramma sfocato». Tale forse è destinato a rimanere. Offuscando, di scorcio, la biografia - che si vorrebbe luminosa - d’un grande umanista.

Sigmund Freud (si pronuncia Froid) era un medico nato nel 1856 e vissuto quasi sempre a Vienna. Si occupava di persone con certe malattie che si dicono nervose, e scoprì un metodo per curarle. Il metodo non consisteva nel prescrivere medicine, ma nello scoprire determinati pensieri che questi ammalati avevano dentro di sé. Erano strani pensieri: conservati nella mente, senza che gli stessi ammalati sapessero che c'erano. Che sia possibile avere dentro di sé idee e desideri, aspirazioni e timori, senza saperlo, sembra certamente assai curioso; e ai tempi di Freud molti non credevano a questa teoria. Essa permetteva di curare facendo ritrovare e ricordare queste cose dimenticate, ed eliminando in tal modo il loro effetto dannoso. Anche con i bambini il metodo poté essere applicato. Il primo bambino curato con questo sistema era il piccolo Hans. Senza alcuna ragione si spaventava di fronte a grossi cavalli da trasporto, anche se veduti soltanto da lontano; stava perciò tappato in casa per il terrore di incontrarli. La paura era dovuta a idee che Hans si era messo in mente quando era ancora molto piccino, e che aveva del tutto dimenticate. Quando Hans ritrovò, con l'aiuto del metodo di Freud, queste idee, ogni paura scomparve.

Molte fobie che spesso qualche bambino prova per animali inoffensivi, ma anche altre paure, come ad esempio quella del buio, hanno simile origine e possono essere curate con questo sistema, che si chiama psicoanalisi.

Il metodo si usa però, soprattutto, con persone adulte, tormentate da fissazioni, paure, incapacità di affrontare certi lavori, difficoltà a stare in mezzo alla gente, o a costituirsi una famiglia, oppure sofferenti per dolori in varie parti del corpo, senza che vi sia nulla di malato nel loro organismo.

Spesso, incidenti che passano inosservati, impressioni provate quando si era piccini, e poi dimenticate, preoccupazioni sentite in modo esagerato, ma a cui si è cercato di non pensare più, rimangono dentro di noi e provocano disturbi, che sembrano del tutto incomprensibili e privi di senso. Molte di queste impressioni nascoste in noi risalgono all'infanzia.

I grandi avevano una volta l'abitudine di raccontare un sacco di frottole ai loro figli, a proposito di problemi che interessano molto i bambini, e che gli adulti considerano argomenti proibiti. Ad esempio, di fronte alla curiosità infantile sulle diversità tra il corpo maschile e quello femminile, su come vengono al mondo i neonati, o su quel che fanno tra loro i genitori nel lettone, non venivano fornite spiegazioni chiare, anzi questi argomenti venivano circondati di mistero. Ne derivavano nei bambini angosce, fantasie del tutto lontane dalla realtà, e sentimenti di colpa per la propria persistente curiosità: anche queste impressioni, successivamente dimenticate, potevano essere causa di futuri disturbi.

Se oggi si è più franchi con i bambini, questo è dovuto in gran parte alla diffusione delle idee di Freud. Ma il suo merito principale è quello di avere scoperto come si possa vedere dentro di noi, anche le cose che in noi sono coperte e dimenticate. Per giungere a questo obiettivo, Freud e gli psicoanalisti che ne hanno seguito la lezione, osservano tutti i minimi gesti, il modo di comportarsi e di parlare, e anche i sogni che a ciascuno capita di fare durante la notte. E questo non perché i sogni annuncino direttamente qualche cosa che deve accadere, o che si deve temere (come credono i superstiziosi), ma perché attraverso i sogni si manifestano proprio quei pensieri segreti che sono in noi e di cui non sappiamo nulla.

La psicoanalisi è un metodo complicato e richiede molto studio per poter essere adoperato in maniera efficace e corretta; del resto non serve soltanto per curare le persone malate o disturbate, ma più in generale per comprendere meglio gli altri e il loro modo di agire. Perciò l'importanza dell'opera di Freud non riguarda soltanto la medicina, dell'uomo.

Sigmund Freud ora è famoso e ricordato con riconoscenza, ma durante la sua vita subì molte persecuzioni, come accade spesso a coloro che annunciano al mondo idee nuove; inoltre, in quanto ebreo, era mal visto da certa gente stupida e cattiva, che giudica le persone non per il loro valore, ma per la loro diversa razza o religione. Quando le armate tedesche dei nazisti occuparono nel 1938 l'Austria, poco prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, Freud fu costretto a lasciare Vienna e a rifugiarsi a Londra, dove morì nel 1939.

Credevo non sarebbe mai morto, non lui. Gianni Pellicani sembrava a me e a molti altri compagni, fatto di una materia insensibile al tempo e alla corrosione, come nemmeno una statua, come, invece, riuscivano a essere alcuni dei «quadri» che il vecchio Pci sfornava. Forte, intelligente molto, capace di decidere, di convincere, pragmatico, rapido, capace di sbagliare e di ammetterlo: un uomo di governo, togliattiano - se queste categorie hanno ancora valore - nella abilità di trovare sorprendenti vie d’uscita ai problemi senza contraddire il suo telaio morale. Ma non solo, perché Gianni non era semplicemente il pezzo ottimamente funzionale di un ingranaggio messo a punto in quella grande officina della politica che è stato il Partito comunista. A fragoroso dispetto delle apparenze era persona dolce - lo so, qualcuno si sorprenderà ma è tutta la verità - dotato di un humour densissimo spesso solo bisbigliato, affascinato dalle manifestazioni di intelligenza e di fantasia che persino le istituzioni - e Gianni è vissuto di politica e istituzioni, lo sanno bene i suoi adorati famigliari - di tanto in tanto si lasciano sfuggire.

Era nato in Puglia, settantre anni fa, ma la sua vita è trascorsa a Venezia, tra un «centro storico» che Edoardo Salzano - allora assessore all’Urbanistica - s’ingegnava a restaurare davanti a una platea vasta quanto la terra e una Terraferma (Mestre) dove abitava volentieri e alla quale ha dedicato ben più di un pensiero. Se il cuore di Mestre non è oggi il sottoscala di una periferia ma il sorprendente soggiorno di una città «inventata» nell’arco di una generazione scarsa, lo si deve soprattutto a Gianni Pellicani, il «vicesindaco».

Non se la prenda Mario Rigo, il sindaco socialista di allora, ma Gianni Pellicani non è mai stato il suo vice senza che per questo tra i due amministratori ci sia mai stata tensione o nervosismo. Merito di tutti e due, una bella lezione di stile. Eravamo nella seconda metà degli anni Settanta, confinati nell’angolo rosso (Venezia) di un Veneto bianco come un lenzuolo e Pellicani - con una formazione da commercialista mitigata da un ventaglio amplissimo di interessi culturali - si accingeva, in nome di una giunta di sinistra, a promuovere vitalità e sviluppo compatibile in uno degli angoli più pregiati e delicati d’Italia.

Ricordo solo un paio di appuntamenti: il risanamento del centro storico e la salvaguardia di Venezia e della sua laguna. Materie complicatissime, paludose, tutt’ora molto aperte. Pellicani, nella sala del Consiglio, trascinava il convoglio con una forza costante riuscendo intanto a bloccare la speculazione nel centro storico, acquisendo tra gli strumenti di governo quella cultura ambientalista avanzata che solo più avanti si sarebbe identificata in uno specifico soggetto politico. Messa così, pare si stia parlando di un sant’uomo. Gianni non lo era, era un lottatore duro, implacabile ma leale. Così in laguna come a Roma dove per cinque legislature si è impegnato, per il Pci e per i Ds poi, nei banchi della Camera. Ai tempi di Natta e di Occhetto ha anche fatto parte della segreteria nazionale del Pci con uno spirito di servizio e un rigore che hanno sempre riscosso stima e rispetto anche da chi non lo amava. Un pezzo forte e indimenticabile della nostra storia.

Per oltre un trentennio Gianni Pellicani è stato senza dubbio l’uomo politico più rappresentativo della sinistra veneziana. Forse proprio perché era un politico «sui generis», refrattario al mestiere del burocrate e del funzionario, anche se sempre perfettamente consapevole della necessità che per fare davvero politica è necessaria una forte e capillare organizzazione. La politica per lui era vocazione vera, fatta di competenza, passione e impegno civile. Competenza anzitutto sui temi economici e finanziari, e impegno di tutta una vita per far nascere una grande e unitaria forza democratica e riformista sul modello delle grandi socialdemocrazie europee. Troppo intelligente e disincantato, troppo lontano da ogni frase ad effetto e da ogni demagogia per baloccarsi con i «nuovismi», con le nuove Terze o Quarte vie, ma troppo buon politico insieme per non volere e cercare innovazioni realistiche e per non capire che le trasformazioni necessarie, quando riconosciute tali, devono essere fatte rapidamente e coerentemente, cioè con la massima decisione.

Così Gianni Pellicani affrontò i momenti di svolta del suo partito, del movimento operaio italiano, della sinistra. Fu quello, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, il momento forse più difficile e insieme felice per lui, nel quale si spese tutto, prima come coordinatore del governo ombra accanto a quella che era e rimase la sua «stella fissa», Giorgio Napolitano.

Poi per la nascita del Partito democratico della Sinistra, affinché in Italia si aprisse davvero una fase costituente, culturalmente e politicamente, per l’intera sinistra. Credo si debba anche dire che la sua delusione su come poi andarono le cose sia stata cocente.

Ma malgrado questo, mai in Gianni Pellicani venne meno quel legame di fedeltà al proprio partito, che era l’opposto dell’obbedienza o dell’inerzia, ma che significava per lui senso di responsabilità, di solidarietà umana e di grande, mai spenta, speranza.

E’ quasi superfluo a questo punto e sulle pagine di un giornale della città, ricordare il ruolo che vi ebbe Gianni Pellicani. Non vi è un provvedimento, non vi è un legge, non vi è un atto amministrativo riguardante Mestre e Venezia che abbiano avuto per noi un significato positivo, che non porti, direttamente o indirettamente, la sua firma. Non solo, ma gli stessi funzionari dirigenti del nostro Comune si sono formati alla sua scuola.

E quel bene, poco o tanto che sia, che riescono e riusciamo a esprimere nell’amministrazione di questa città a lui in grandissima parte ancora lo dobbiamo.

A ottant’anni dalla morte Piero Gobetti rimane, nell’Italia di oggi, figura inquieta. Certamente non conciliata, né conciliante. Nonostante l’approdo di pressoché tutte le culture politiche del nostro paese a una formale adesione al liberalismo, il «liberale» Gobetti non è stato unanimemente accolto, come forse superficialmente ci si sarebbe potuto aspettare, nel novero dei «padri della patria» ma continua, come ogni buon «eretico» che si rispetti, a ricevere - accanto a minoritarie ma convinte adesioni - scomuniche e anatemi.

Nonostante il suo liberalismo. O forse proprio a causa del suo (particolare) liberalismo.

Che tipo di «liberale» era dunque Gobetti? Forse per comprenderlo la via più breve, e sintetica, è la lettura della densa serie di scritti che pubblicò sulla sua rivista di battaglia, Rivoluzione liberale nel 1922, a ridosso della marcia su Roma, nel momento drammatico e intensissimo in cui, potremmo dire, Gobetti diventò Gobetti, e nel naufragio del vecchio mondo definì il senso della propria azione politica e culturale: «Abbiamo sempre saputo - scriveva, ad esempio, in un articolo del 23 novembre, intitolato “La Tirannide” - di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione». «La nostra - aggiungeva nello stesso numero, in una nota dedicata a “Questioni di tattica” - è un’antitesi di stile. Noi non combattiamo specificamente il ministero Mussolini, ma l’altra Italia». E precisava nella pagina accanto, sotto il titolo definitivo, “Elogio della ghigliottina”: «Il fascismo vuol guarire gli italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l’appello nominale dei cittadini, tutti abbiano dichiarato di credere alla patria, come se nel professare delle convinzioni si limitasse tutta la praxis sociale. Si può valorizzare il regime, si può cercare di ottenerne tutti i frutti: [Noi] chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro». Considerando il fascismo «autobiografia della nazione» - la prova provata e il frutto delle nostre «tare storiche», della fragilità del nostro Risorgimento e della nostra coscienza politica -, affidava la possibilità di emendarsene a una rottura netta nella continuità delle classi dirigenti - a una «rivoluzione», appunto - e offriva se stesso e il proprio gruppo in consapevole «sacrificio».

Questo era dunque il liberalismo di Gobetti. Un liberalismo non accademico, lontano anni luce dall’estenuata cultura notabilare dei liberali del suo tempo, forgiato nel fuoco di uno scontro politico mortale con la dittatura incipiente e proprio per questo attento più ai valori dell’autonomia, alle pratiche della liberazione, alla dimensione antropologica ed etica che non a quella giuridica e istituzionale. L’unico tipo di liberalismo capace di far fronte al vitalismo selvaggio del fascismo sorgente. Certo esso si nutriva più del culto einaudiano per il libero e aperto confronto (diciamolo pure: per lo scontro) tra le classi sociali - dell’idea del valore salvifico del «conflitto» per una sana cultura civile - , che non della problematica anglosassone della separazione dei poteri e della ingegneria costituzionale. E declinava l’idea di libertà in una chiave apertamente attivistica, come capacità («dovere») di ognuna delle parti in campo di perseguire con chiarezza e con nettezza il proprio progetto, di «mantenere le posizioni» con intransigenza (come «libertà positiva», libertà «di»), più che come passiva tolleranza e indifferenza (come «libertà negativa», libertà «da»). Con una visione che può anche definirsi «elitistica»: affidata a minoranze virtuose. Venata persino di una non taciuta vocazione «pedagogica». E tuttavia, per un paese cui era mancata, storicamente la propria «rivoluzione», che non aveva mai vissuto una vera rottura col passato, giudicata necessaria per conquistare la propria tardiva modernità.

Si spiega così - con questo nucleo sostanzialmente etico del liberalismo gobettiano - il sospetto, quando non l’aperta antipatia nei suoi confronti da parte dei tardivi neo-liberali di fine secolo. Domenico Settembrini e Lucio Colletti, alla domanda sulla sua attualità, in occasione della riedizione de La rivoluzione liberale nel 1995, avevano risposto rispettivamente: «Nessuna» e «Quel libro serve solo a D’Alema», mentre Cofrancesco la commentava sul Corriere della Sera sotto il titolo “La rivoluzione inattuale”, e la rivista Liberal apriva il fuoco con Giuseppe Bedeschi. Il suo veniva incluso tra i «linguaggi non secolarizzati», tipico più di un riformatore religioso che di un politico pragmatico; la sua visione giudicata obsoleta perché «il conflitto non verteva su consistenti interessi mondani, ma su impegnative concezioni del mondo». Ernesto Galli della Loggia, infine, ne contesterà l’asimmetria nel giudizio su fascismo e comunismo, e soprattutto l’eticizzazione del liberalismo gobettiano, come forma paradossalmente interna all’«ideologia italiana».

Né quest’ostilità stupisce. Il liberalismo etico di Gobetti era infatti incompatibile con ogni «cerchiobottismo», con ogni vocazione bi-partisan, con ogni pratica di accomodamento e di neutralizzazione di cui - aldilà della retorica «polarizzante» del maggioritario - era avida la nascente seconda repubblica.

Esso rompeva con ogni cultura del compiacimento e dell’autocompiacimento nazionale. Praticava una sobria ed esigente cultura del disagio: un’impietosa denuncia dei propri vizi e delle proprie insufficienze. Era «anti-italiana» nella sua sostanza programmatica. Non poteva che entrare in conflitto con l’Italia avida di unanimismo, bisognosa di riconciliazione, che apriva le porte a ogni proprio passato tenera con i propri tanti vizi, aspra con le poche virtù: l’Italia desiderosa di continuità e assoluzione delle proprie classi dirigenti entrata finalmente nell’epoca del liberalismo edonistico e del cittadino-consumatore.

L'immagine è un disegno di Felice Casorati

Chi è Piero Gobetti

«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio...

...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.

Fonte

http://www.ilbolerodiravel.org/kattivi_maestri/q_morale.htm

Sul finire degli Anni Quaranta era già ad Harvard per studiare con Joseph Schumpeter, uno dei pilastri della storia del pensiero economico. In America viveva nello stesso cottage di Gaetano Salvemini, che lì insegnava storia: dal vecchio maestro – raccontò – ho imparato che la chiarezza nello scrivere e nel parlare è lo specchio dell’integrità morale. Conobbe Franco Modigliani, futuro premio Nobel emigrato negli Usa per le leggi razziali: con lui strinse un sodalizio che, come quello con Giorgio Fuà, sarebbe continuato per sempre. Nel 1960, appena quarantenne, frequentò Piero Sraffa, economista amico di Gramsci e Keynes: «Ma quando esce questo libro? Sono anni e anni che lo aspettiamo», gli chiese con un po’ di faccia tosta ma con grande pertinenza. Singolarmente quelle 99 pagine che cambiarono il corso della teoria economica, Produzione di merci a mezzo di merci, di lì a poco – dopo una meditazione trentennale – furono stampate.

Incardinato nella storia del pensiero economico del Novecento Paolo Sylos Labini ne è stato un grande protagonista. Il più cosmopolita degli italiani, in grado di guardare con eguale interesse ed impegno alle meraviglie dell’innovazione d’Oltreoceano e all’orrore della miseria del Terzo mondo. Ed è proprio questa la cifra del suo pensiero e della sua instancabile ricerca: progresso tecnico e sviluppo economico.

Da giovane voleva fare l’ingegnere perché era attratto dalle tecnologie e dalle invenzioni: erano tempi difficili e dovette rinunciare; ripiegò su giurisprudenza, ma la sua tesi di laurea fu già una scelta di campo ben precisa: si intitolava Gli effetti economici delle invenzioni sull’organizzazione industriale. Nel 1956 la sua "opera prima", che John Kenneth Galbraith volle far tradurre negli Usa: Oligopolio e progresso tecnico.

Questa sua passione per l’innovazione tecnologica lo fece considerare un "eretico". «Forse tra cinquant’anni quando sarò appollaiato su una nuvoletta, mi daranno ragione, per ora vengo ritenuto un anomalo, un eterodosso», osservava con divertito rammarico Sylos Labini. Per molti, invece, avrebbe meritato il Nobel.

Paradossalmente, infatti, nell’era segnata dal protagonismo della scienza, dall’informatica alla biotecnologia, la teoria che oggi domina in economia, cioè il "paradigma neoclassico" – da Paul Samuelson, che ha inondato le università di mezzo mondo con tre milioni di copie del suo manuale, a Solow a Robertson – trascura il progresso tecnico. Non considera che le innovazioni entrano inevitabilmente e progressivamente nella vita delle imprese e riducono i costi. Non è un aspetto marginale perché, se non si punta sulla ricerca e sulle nuove tecnologie, l’unica strada per ridurre i costi resta quella di tagliare i salari o licenziare.

Invece per Sylos Labini le innovazioni contano. Eccome! Anzi il «"cuore" dell’economia», «l’Amleto», «il principale personaggio del dramma» è la produttività del lavoro che delle innovazioni è il risultato. Se si guardano le cose da questo punto di vista la prospettiva muta radicalmente, l’economia cessa di essere un esercizio astratto e si manifesta in un concreto umanesimo. Così la produttività diventa la radice della politica dei redditi che, sul finire degli Anni Sessanta, l’economista scomparso illustrò nel celebre Salari, inflazione, produttività, scritto come sempre per Laterza. La tesi è che i salari devono aumentare proporzionalmente alla produttività, con l’effetto di far crescere la domanda e di contenere il costo del lavoro. Il che, notava Sylos Labini, conviene a imprenditori ed operai.

Lo avevano ben capito gli economisti classici, che vissero tra la fine del Settecento e l’Ottocento, agli albori della rivoluzione industriale. Lo aveva capito soprattutto Adam Smith («Lo considero un mio amico», indugiava Sylos Labini) ma ne era consapevole anche David Ricardo. Sulla base delle analisi dei classici, in una sorta di nuova sintesi, Sylos Labini aveva costruito la propria equazione della produttività, basata su divisione del lavoro e nuove macchine. Con i piedi nel passato e lo sguardo rivolto al futuro.

Per andare dove? L’obiettivo è lo stesso per cui Smith aveva scritto la Ricchezza delle nazioni: sradicare la miseria e accrescere lo sviluppo civile. Qui il messaggio si fa nitido ai più ed emerge il punto di contatto con gli illuministi milanesi e la loro percezione dell’economia come "incivilimento", e poi con Carlo Cattaneo. Un itinerario che incrocia l’insegnamento di Ernesto Rossi e sul quale Paolo Sylos Labini ha sviluppato la sua testimonianza etica e scientifica.

Io considero l’avvento di Berlusconi una sciagura nazionale. Proprio quando l’Italia cessava di essere il terreno di scontro, combattuto senza esclusione di colpi fra comunisti e anticomunisti, col sostegno anche finanziario delle due superpotenze, e poteva avviarsi sul cammino della civiltà, si è invece affermata Forza Italia.

Siamo ancora un paese anormale. Tre reti televisive nazionali ufficiali, più due ufficiose, più due giornali, più due case editrici del peso della Mondadori e dell’Einaudi e vasti organismi pubblicitari, danno a chi li controlla, cioè a Berlusconi, un potere enorme di condizionamento dell’opinione pubblica. Lo stesso Berlusconi riconobbe questo fatto e nominò una commissione di tre saggi per trovare un rimedio, ossia il blind trust. Ma un rimedio di quel genere che consiste nell’affidare il proprio patrimonio a fiduciari che lo gestiscono autonomamente e senza informare il titolare, che può essere ipotizzato nel caso di un patrimonio composto da titoli o da beni interscambiabili, non è neppure concepibile nel caso di reti televisive la cui attività è tutt’altro che "cieca". L’Economist, che prima delle elezioni del maggio 2001 dedicò un lungo articolo a Berlusconi, scrisse che «in qualunque paese normale gli elettori - e forse la legge - non avrebbero concesso a Berlusconi l’opportunità di presentarsi alle elezioni senza prima obbligarlo a spogliarsi di molti suoi beni e delle sue vaste attività imprenditoriali». Con l’ascesa al potere di Berlusconi e dei suoi soci la situazione diventa ancora più grave, giacché l’uomo controlla anche le reti televisive pubbliche e in tal modo diventa il monopolista dell’intero sistema televisivo.

Uno storico come Denis Mack Smith, nell’ultimo capitolo della sua Storia d’Italia dal 1961 al 1997, afferma che Berlusconi dopo il 1994 aveva «urgente bisogno di riconquistare il potere politico per conservare il monopolio della televisione commerciale» e per «controllare la magistratura». Fu brutalmente esplicito col giornalista Curzio Maltese il principale collaboratore dell’azienda di Berlusconi, Fedele Confalonieri, quando gli disse: «Io ero contrario che facesse politica senza vendere le sue aziende, come si fa in democrazia. Ma se non l’avesse fatto oggi saremmo sotto un ponte con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento per il lodo Mondadori». L’intervista è stata pubblicata da la Repubblica il 25 giugno del 2000 e non è stata mai smentita.

Il giudizio di Mack Smith e l’affermazione di Confalonieri spiegano perché divento nervoso quando mi dicono che la Casa delle libertà rappresenta la destra o il centro-destra: il capo è un ricco personaggio che pensa principalmente alla sua azienda e ai suoi problemi giudiziari. Che diavolo c’entra la destra?

Il riferimento di Confalonieri alla mafia è agghiacciante. Basta leggere il libro L’odore dei soldi di Elio Veltri e Marco Travaglio per valutare, ad esempio, il significato dei rapporti tenuti da Berlusconi con un personaggio che si rivelerà un mafioso acclarato come il celebre "fattore" di Arcore Vittorio Mangano.

Il brano è ripreso da la Repubblica dell'8 dicembre 2005

Innegabile è la fortuna di alcune formule gramsciane nel linguaggio politico contemporaneo. Da "egemonia" a "nazional-popolare", da "riforma morale" a "guerra di posizione", il lessico di Antonio Gramsci rimbalza talvolta deturpato in tribuni insospettabili, frequentatori di Arcore o paladini del mito padano. Eppure questo grande classico - l´autore che Benedetto Croce acclamò come "patrimonio di tutti, anche di chi è di altro o opposto partito", una bibliografia internazionale che conta oltre diecimila titoli in una vasta varietà di lingue da Afrikaans a Turkish - in Italia appare oggi oscurato dal crollo del comunismo, come se la sua elaborazione intellettuale possa estinguersi insieme a quell´esperienza storica.

Per comprenderne tutta la vitalità di "classico" soccorre una preziosa monografia scritta da Antonio A. Santucci, lo studioso recentemente scomparso che insieme al suo maestro Valentino Gerratana ha più contribuito all´edizione critica dell´opera di Gramsci. «Il maggiore esperto di studi gramsciani», lo definisce Eric J. Hobsbawm nella Premessa al volume postumo che Sellerio pubblica col titolo (a cura di Lelio La Porta, con una nota introduttiva di Joseph Buttigieg, pagg. 192, euro 12,00: ne parleranno oggi alle 18 a Roma, nella Libreria Mondadori di via Appia Nuova 51, Alberto Burgio e Buttigieg, che insegna letteratura alla Notre Dame University dell´Indiana e ha curato l´edizione americana dei Quaderni).

Santucci scrisse questo ritratto politico e intellettuale del grande sardo per la collana Libri di Base diretta da Tullio De Mauro: da qui lo stile nitido e sobrio, non sprovvisto di ironia, che rende la lettura adatta anche a un pubblico di liceali. C´è il Gramsci giornalista (magistrale nello stile sapido) e il teorico della cultura, il promotore del primo gruppo dirigente del Pcd´I e l´analista economico, lo storico e il militante dell´Internazionale. «La via migliore per accostarsi all´eredità intellettuale di Gramsci», la giudica tuttora De Mauro. L´idea di fondo - che attraversa queste pagine, arricchite da un più recente intervento su Gramsci dopo il 1989 - è che dialogare con l´autore dei Quaderni sia ancora possibile. Santucci si propone come brillante e scrupoloso interprete, senza mai "sollecitare i testi", ossia far loro dire più di quel che realmente dicano. Inclinazione, questa, che Gramsci giudicava tra le più "deprecabili" e di cui ancora oggi continua a esser vittima

Era sera, rientrava dal lavoro come tutte le sere e si sedette nel primo posto che trovò. Non era uno di quelli «riservati» ai neri, le ultime quattro file in fondo al bus. Ma non c'era tanta gente. Di fianco a lei, un uomo, anche lui di colore, guardava fuori dal finestrino. Altre due donne, nere, stavano sedute in una fila vicina. Salirono dei bianchi e l'autista ordinò al «quartetto» di alzarsi per fare posto (il mondo, allora a Montgomery, Alabama, andava così: il bianco pigliava tutto). Rosa, chiusa nel suo cappotto e quasi nascosta sotto il suo cappellino, lentamente ruotò il bacino e piegò le gambe per lasciar passare il suo vicino ma restò come inchiodata al sedile. Subito dopo, le altre due «intruse» oltre il corridoio si alzarono per lasciar sedere l'unico bianco che era rimasto in piedi. Lei, invece, no.

Fu così che Rosa Louise McCauley maritata Parks, 42 anni, figlia di Leona e James, due contadini di Tuskegee, Alabama (insegnante lei, falegname lui), moglie innamorata di Raymond, barbiere, e lavoratrice instancabile (faceva la rammendatrice ai grandi magazzini di Montgomery e per questo portava un paio di severi occhiali con la montatura di metallo) divenne un simbolo della lotta per i diritti civili.

Era il 1˚dicembre 1955. Rosa aspettò paziente l'arrivo degli agenti che la portarono in prigione per violazione delle leggi segregazioniste (reato che comportava dieci dollari di multa e quattro di spese processuali).

Non era la prima volta che una persona di colore finiva in carcere per quel motivo. E anche in quel caso tutto si svolse, almeno in quelle prime ore, in modo pacifico, ordinato. Poi la Storia, inopinatamente, decise di dare uno strappo. E per farlo «sequestrò» una signora timida e minuta e l'autobus su cui viaggiava (oggi parcheggiato allo Henry Ford Museum) e li trasformò in bandiere del movimento per i diritti civili.

Nel giro di pochi giorni, attorno al caso di Rosa si mobilitò l'intera comunità afroamericana di Montgomery, arringata, fra gli altri, anche da un giovane e semisconosciuto reverendo, Martin Luther King Jr. Dai pulpiti delle chiese (quelle dei neri), sulle prime pagine dei giornali (il Montgomery Adviser,

anch'esso «black»), su migliaia di volantini, fu stampato un annuncio che invitava a non prendere più gli autobus. Per 381 giorni, l'intera comunità si arrangiò altrimenti, con i pochi taxisti neri della città che mettevano a disposizione le proprie macchine per dieci cents (il prezzo di un biglietto di autobus), e la maggior parte dei pendolari (40 mila persone, pari a circa il 70 per cento degli utenti di mezzi pubblici) che andavano al lavoro a piedi, chi anche per decine di chilometri (ma con un danno non indifferente per la locale compagnia di trasporti). Furono giorni durissimi, con arresti, pestaggi e bombe nelle chiese. Il caso divenne nazionale e il 13 novembre 1956 la Corte Suprema americana dichiarò che la segregazione sugli autobus era illegale. Una vittoria storica, un primo, fondamentale, passo nella lotta per il riconoscimento dei diritti civili ai neri. Ma Rosa perse il lavoro e suo marito pure. Alla fine, dopo aver ricevuto ripetute minacce di morte, fu costretta a lasciare Montgomery per Detroit, dove è stata a lungo assistente di un deputato democratico di colore e dove è morta lunedì notte a 92 anni.

All'epoca dei fatti ne aveva 50 in meno e, cosa rarissima per il suo tempo, aveva un diploma di scuola superiore che il marito, attivista politico, l'aveva convinta a prendersi. Da qualche tempo, pure lei lavorava, a titolo volontario, come segretaria di E.D. Nixon, presidente della sezione locale dell'NAACP, una delle più antiche e importanti organizzazioni dei diritti civili americani.

L'autista che le aveva ordinato di alzarsi non la conosceva. Ma lei sì. Si chiamava James F. Blake, e un'altra volta, dodici anni prima, l'aveva già costretta a scendere dal «suo» autobus perché lei si era rifiutata, dopo aver pagato il biglietto, di scendere e rientrare dalla porta posteriore, come imponeva la versione locale delle famigerate Jim Crow laws (le leggi sulla segregazione razziale che prendevano il nome da un personaggio di una canzonetta sudista su un contadino nero, «naturalmente» straccione e ignorante).

Quella volta, Rosa decise di restare dov'era. «Dissero che ero stanca — raccontò nella sua biografia —. Ma io non ero stanca, non in quel senso. Ero solo stanca di arrendermi». Come ha ricordato ieri il reverendo Jackson, «Rosa restò seduta perché tutti noi potessimo levarci in piedi».

«Pensai al nonno e al suo carretto e non mi mossi»

L'autista voleva che ci alzassimo, tutti e quattro.

All'inizio non ci muovemmo, ma lui disse: «Liberate questi posti». E gli altri tre si spostarono. Io, no.

Ripensai a quando me ne stavo alzata tutta la notte senza riuscire a prendere sonno e mio nonno teneva la pistola vicino al camino o a quando lui andava in giro con il suo carretto tirato da un cavallo e nascondeva una pistola nel retro del carro. Arrivò un poliziotto, chiamato dall'autista, e mi arrestò. Ricordo che gli chiesi: «Ma perché fate i prepotenti con noi?». E l'agente rispose: «Non lo so, ma la legge è legge, e tu sei in arresto».

Ementremi arrestavano pensai che quella era davvero l'ultima volta che sarei stata umiliata in quel modo. La gente racconta che io non mollai il mio posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca, non fisicamente almeno.

E comunque non più di quanto lo fossi sempre alla fine di una giornata di lavoro. Non ero vecchia, anche se un sacco di gente ha un'immagine di me come se io fossi già stata vecchia allora. Avevo quarantadue anni.

No, l'unica cosa di cui ero stanca era di arrendermi».

(il brano è tratto dall'autobiografia di Rosa Parks «My Story», 1992)

Fu politico e artista: eppure hanno fatto di lui il simbolo della doppiezza

«I l fine giustifica i mezzi». Non sono le idee a muovere la storia, o la muovono solo a certe condizioni: «I profeti armati vinsero, quelli disarmati rovinarono», le idee vincono se hanno o si procurano le armi per vincere. Nella politica si conta se si vince; e si vince usando le arti della volpe (astuzia, simulazione, dissimulazione) e le arti del leone (la forza, l'aperta violenza). I nemici vanno spenti (se si può) o vezzeggiati (se non si può o fin quando non si può eliminarli). Da tutto ciò una massima famosa: «Con l'arte e con l'inganno / si vive mezzo l'anno. / Con l'inganno e con l'arte / si vive l'altra parte».

Questa è solo una piccola antologia dei luoghi comuni correnti su Machiavelli e le sue dottrine. Nessuno gli nega acutezza e profondità di pensiero, ma gli si imputa una sostanziale indifferenza alle ragioni della morale rispetto alla politica, e non parliamo di spirito religioso, poiché ne sono noti il mordace anticlericalismo e la visione della religione come instrumentum regni, strumento della politica anche per le chiese di tutte le religioni.

Perfino nel linguaggio corrente, per dire di un espediente astuto, di un raggiro sottile, si dice che è «un machiavello». E «machiavellismo, machiavellico, machiavelleria» sono termini diffusissimi, e non positivi.

È utile, perciò, ribadire che l'immagine «machiavellica» di Machiavelli riflette poco una personalità e una riflessione fra le più geniali del pensiero europeo. Lo conferma la rilettura delle sue Opere, ora esemplarmente ripubblicate (in tre volumi, edizioni Einaudi-Gallimard, con un ricco e illuminante corredo di introduzioni, note e indici) da Corrado Vivanti.

Naturalmente, se la fama di Machiavelli è quella che è, non può essere tutto e solo effetto di incomprensione o di volontaria adulterazione e diffamazione.

Se ne può, anzi, scorgere la radice nel senso profondo della sua maggiore conquista intellettuale.

Una conquista ardua e aspra, che rivendica alla politica un'autonomia sostanziale e incoercibile rispetto agli altri settori della vita umana e sociale, e in specie rispetto alla morale e alla religione: autonomia di valori e di criteri, di strumenti e di procedure. Era facile, su questa base, vedere in Machiavelli solo esaltazione della ragion di Stato e insensibilità ai valori morali e religiosi. Un vero scialo accusatorio tanto per spiriti etici e religiosi quanto per farisei, gran sacerdoti, zelanti, fanatici e fondamentalisti di tutte le morali e di tutte le religioni.

Non senza qualche ragione, però. Machiavelli dà, infatti, la dovuta evidenza all'autonomia della politica, ma non anche a ciò che lega la politica ad altre esigenze umane e sociali, e che non ne fa un orto chiuso in se stesso, né solo un esercizio da volpi e da leoni. Tuttavia, quella «scoperta della politica» resta una grande liberazione della mente e dello spirito e fa capire più a fondo l'agire umano in società, di cui la politica è una componente-principe. Se lo si dimentica, i risultati non sono buoni. Si ha, tra l'altro, quella ricorrente confusione tra religione e politica, con l'invasione di campo della prima nella seconda, dei cui danni si hanno ieri e oggi tante riprove. A patto, è ovvio, di non farsi poi una religione della politica, con un'invasione di campo di segno opposto, ma di uguale, se non peggiore, danno.

Del resto che di Machiavelli non si potesse fare a meno lo dimostrò la stessa condanna del suo pensiero nell'Europa delle lotte di religione. Dovendo ormai accettarli, si fingeva di prendere da altri (ad esempio, da Tacito) i principi e i modelli di una concezione moderna della politica. Su Machiavelli, invece, riprovazione fierissima. Perfino Federico II di Prussia, un campione della più fredda ragion di Stato, si sentì in dovere di scrivere un Antimachiavel.

E pensare che nel serrato discorso machiavelliano si sono potute ben cogliere note di ingenuità, utopia, perfino provincialismo, oltre che riserve morali, più o meno trasparenti nello smaliziato edificio logico del «puro politico» che vi si costruisce.

Ma Machiavelli ha anche voluto dire Italia, la grande Italia dell'Umanesimo e del Rinascimento. Ne aveva profondamente assorbito la cultura, di cui fu egli stesso un'alta espressione. Dal concludersi della storia dei Comuni e delle Signorie e dal triste destino degli Stati italiani nel momento della verità, ossia nelle guerre europee di allora, la sua nativa intelligenza storica e politica trasse spinte e suggestioni di pensiero decisive, così come, del resto, da tutta l'esperienza europea del tempo. Quell'Italia rinascimentale segnò, peraltro, anche l'origine o il consolidamento dei luoghi comuni più negativi sugli italiani e il loro Paese. Era, quindi, quasi fatale identificare l'Italia come patria di Machiavelli e gli italiani come suoi modelli e allievi.

Una pessima sorte per lui, implacabile analista dei vizi italiani, che aveva auspicato un forte riscatto «nazionale», indicando «le possibilità — nota Vivanti — di un rinnovamento e la forza della riflessione politica ai fini di una profonda rigenerazione morale». E ciò in pagine avvincenti, tali da far credere che rimirarsi un po' di più nello specchio di Machiavelli farebbe agli italiani un gran bene.

Pagine memorabili anche per le virtù di scrittore che fanno di lui uno dei vertici della prosa italiana: con poco di tradizione classicheggiante, una prosa asciutta, nervosa, dal periodare breve ed essenziale, moderna anche nelle immagini e metafore, nell'analisi psicologica problematica e inquietante con cui legge l'uomo e le sue parti nelle tragedie e commedie del mondo (e per la vita quotidiana, oltre che per la grande storia: la sua Mandragola èla cosa migliore del teatro italiano prima di Goldoni).

Insomma, un letterato-artista, che non cede di molto al ben più famoso politico.

I libri: le opere complete di Niccolò Machiavelli, edite in Italia da Einaudi e in Francia da Gallimard a cura di Corrado Vivanti, sono così suddivise: «Opere I: I primi scritti politici» (pp. CXLIV-1243, e 61,97), «Opere II: Lettere, legazioni, commissarie» (pp. XXX-2006, e 67,14), «Opere III» (pp. XLVI-1280, e 85)

L’immagine: Niccolò Machiavelli in un dipinto di Santi di Tito (Archivio iconografico Corbis)

Per oltre mezzo secolo, da quella domenica di fine agosto del 1950 in cui Cesare Pavese si tolse la vita al terzo piano dell´Albergo Roma di Torino, il foglietto dalla grafia di colore violetto, annotato a matita sul retro di una comune scheda di prestito bibliotecario, non è mai stato divulgato. E in tutto questo tempo è stato custodito gelosamente da Maria, la sorella dello scrittore scomparsa qualche anno fa, e in seguito da Franco Vaccaneo, direttore fin dall´inizio del Centro studi pavesiano di Santo Stefano Belbo.

Maria glielo aveva regalato nel 1980, in segno di stima, di amicizia e d´incoraggiamento nei confronti di quel ragazzo, fresco di laurea, che stava cercando di mettere insieme carte e manoscritti, affinché Santo Stefano, «il più bello di tutti i paesi», onorasse dopo troppo oblio la memoria del suo concittadino più illustre.

Ora, a pochi giorni dall´anniversario della morte dell´autore de La luna e i falò, con il consenso degli eredi, le nipoti Cesarina e Maria Luisa, le figlie di Maria Pavese, lo studioso langarolo ha deciso di far conoscere un documento che può essere considerato, sia pure nella sua brevità, «un vero testamento umano, spirituale e letterario», risalente con ogni probabilità ai giorni precedenti il suicidio. Venne ritrovato la sera del 27 agosto di cinquantacinque anni fa nella camera dell´hotel torinese di piazza Carlo Felice, in cui Pavese si suicidò con i sonniferi. Fu rinvenuto sul comodino a fianco del letto, fra le pagine dei Dialoghi con Leucò su cui Pavese scrisse le sue ormai celeberrime parole d´addio: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

Il cartellino di prestito è della Biblioteca Nazionale di Torino, porta la data del 16 gennaio 1950 e il numero progressivo 2920. Sul retro Pavese vi appuntò tre frasi. Nella prima, tratta proprio dai Dialoghi con Leucò, esattamente da quello intitolato Le streghe, si legge: «L´uomo mortale, Leucò, non ha che questo d´immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia». La seconda è una citazione dal diario, cioè da Il mestiere di vivere, e venne scritta qualche giorno prima della sua fine drammatica: «Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti». La terza frase, che secondo Vaccaneo potrebbe essere stata pensata e messa sulla carta da Pavese nelle ore estreme della sua esistenza, è lapidaria: «Ho cercato me stesso».

Ma perché soltanto adesso riemerge il biglietto-testamento? Spiega Vaccaneo: «A pochi giorni dall´anniversario di Pavese ho ripensato a Maria, la sorella che aveva accudito Cesare fino all´ultimo come una mamma, e poi a quel foglietto che mi aveva donato tanto tempo fa, quando la nostra conoscenza si era fatta di grande confidenza. Il rapporto con Maria si era consolidato dopo che, nel giugno del 1980, avevamo organizzato a Bucarest, in Romania, una mostra di carte originali pavesiane, che riscosse un notevole successo. Quella fu anche la prima e l´unica volta in cui i manoscritti di Pavese, che successivamente furono consegnati all´Università di Torino, uscirono dall´Italia». Di quel passo d´addio, delle tre frasi emblematiche, continua, «non ne avevo mai parlato, pur sapendo quanto fosse importante, perché lo ritenevo strettamente privato, sigillo dell´amicizia che era nata fra un giovane come me e un´anziana signora, una donna assolutamente fuori dal comune, di grande generosità, come era Maria. È stato il suo ricordo, vivissimo, che mi ha indotto a staccare il foglietto dalla cornice in cui lo conservo da allora».

Appartenente con più che verosimile certezza al periodo conclusivo della tormentata vita dello scrittore nato a Santo Stefano nel 1908, il documento finora inedito, dice Vaccaneo, «potrebbe essere stato vergato il giorno stesso della morte, sebbene, a differenza delle parole estreme appuntate con una stilografica sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, questo sia invece stato scritto con una matita. Ma, a ogni modo, le tre frasi riassumono in pieno il bilancio della sua vita. Sono una sorta di testamento. È un messaggio più che profetico per un uomo che sta per uccidersi. Il fatto, inoltre, che Pavese lo avesse messo nella copia dei Dialoghi, il libro che aveva portato con sé nella stanza dell´Albergo Roma, è molto significativo. E lo è in ogni caso. Può essere, insomma, che il cartellino della Biblioteca Nazionale sia stato infilato da Pavese nel libro qualche tempo prima di decidere di togliersi la vita, però non credo per sbaglio. Oppure la scelta di riunire quelle citazioni, non casuali, dai Dialoghi e dal Mestiere di vivere, oltre a quel "ho cercato me stesso", forse risale alle ore precedenti la morte: un´ipotesi, questa, che non può essere esclusa, nonostante l´uso di una semplice matita dalla punta viola anziché della penna stilografica. In ogni caso, il valore resta immutato».

Potranno essere gli esperti, aggiunge Vaccaneo, «ad esaminare con maggiore attenzione il biglietto di Pavese. Adesso è giusto che venga conosciuto da tutti coloro che hanno letto e amato i suoi romanzi, i suoi racconti, i suoi saggi e le sue poesie».

Il foglietto ritrovato, per il direttore del Centro studi, non ha soltanto un valore affettivo, ma ha anche rappresentato una specie di viatico della speranza, un´esortazione a «non mollare», nei giorni neri del novembre del 1994, durante la terribile alluvione che sconvolse il Piemonte e le Langhe. «L´allora sede del nostro centro - conclude Vaccaneo - venne investita dalla furia del Belbo, il torrente cantato da Pavese. E nel fango finirono libri, carte, quadri, fino alla copia dei Dialoghi con Leucò ritrovata nella camera dell´Albergo Roma. In quelle sere, tornando a casa, ripensando a quel biglietto regalatomi da Maria, e a quelle parole di un viola sbiadito dal tempo, recuperavo la forza per non arrendermi e per tentare di ricostruire quanto l´alluvione aveva danneggiato o portato via. Anche per questa ragione, oggi ho sentito il bisogno di spezzare il silenzio che ha circondato quel breve testamento di Cesare Pavese».

La meglio gioventù

Sono contento che ti sia molto piaciuto . Non ho ancora avuto l'occasione di vederlo ma da quando ho percepito il senso del film mi sono ripromesso che devo vederlo perché credo che possa essere il mio film.

Quando ho visto in un trailer parte della scena dei camion militari a Firenze vicino agli Uffizi nel novembre del '66, ho avvertito un brivido: non ero a Firenze allora, andai poi a Grosseto da miei nonni e lìvidi la rotta dell'Ombrone vicino all'Aurelia dopo il ponte Mussolini. Però feci apposta sega a scuola coscientemente (ero appena entrato in quarta ginnasio) poi con l'autorizzazione dei miei, per andare per 4/5 giorni di seguito dalla mattina alla sera, a pulire i libri che portavano a camionate dalla biblioteca nazionale di Firenze. Eravamo a centinaia di ragazzi e ragazze in uno edificio all'Eur. Si era in saloni immensi, impregnati di umido, odore di muffa e di gasolio, ad adagiare su banchi di legno migliaia di libri manoscritti corredati di splendide miniature; si sollevava con massima cura e cautela ogni pagina, servendoci di pinzette, cercando di separarle senza romperle o strapparle. Dentro c'era di tutto: fango, piscio, benzina, sigarette, pezzetti di vetro, schifezze di ogni genere. Si puliva con attenzione ogni pagina usando piccole spugne morbide imbevute di acqua, poi ogni pagina veniva asciugata con fogli di carta assorbente. Il lavoro veniva svolto a coppie; io quattordicenne facevo coppia con una bellissima ragazza del primo anno di lettere (una donna per me: me ne invaghii). Ogni volta che si finiva di pulirne uno, la sala scoppiava in un applauso. Non so se ti rendi conto del significato emblematico dell'applauso: applausi così non li ho mai più sentiti né con le orecchie né col cuore. Era molto toccante e commovente: giorni intensi e indimenticabili.

Chissà se oggi da parte delle giovani generazioni ci sarebbe lo stesso slancio, analogo senso di responsabilità e di generosità nel capire che bisogna curare lo scrigno della nostra cultura nazionale, del nostro Paese. Ho più che qualche dubbio. Forse la scuola di allora, nonostante tutto, nonostante i sette in condotta, nonostante la giusta severità, nonostante le espulsioni se facevi il cretino (e io lo feci), nonostante fosse la scuola autoritaria dei padroni, anche questo era riuscita a farci capire: il rispetto della cultura nazionale. Purtroppo questo capitava solo in alcune scuole e solo per un parte della cultura nazionale, quella repubblicana e anti-fascista essendo al più e al meglio trattata alla fine dell'anno scolastico e in fretta facendo cenni di Levi, Calvino, Fenoglio e sempre che si avesse la fortuna di trovare un docente colto e sensibile, ma era già qualche cosa rispetto al vuoto di oggi. Magari proprio quella scuola autoritariadei padroni, oltre alla solida scuola di famiglia, mi ha insegnato a capire il senso dell'appartenenza alla res-pubblica. Io non so quanti di noi ragazzi riflettevano pulendo quei libri, ma molti ci si buttarono con slancio, con semplice idealità, senza chiedersi tanto il perché. Ci sentivamo che si doveva farlo, forse perché dentro, in fondo, si pensava semplicemente che fosse un nostro dovere civico e morale. Cominciò così, dal pulire quel fango fetente, quella lunga marcia che mai sarà compiuta da noi; così cominciò a prendere forma quella meglio gioventù che oggi, in parte, costituisce una fetta importante di quello che viene definito in maniera cretina, inadeguata e un po’ offensiva il "ceto medio riflessivo". Quei giovani uomini e donne che hanno gettato se stessi talvolta, che hanno comunque scelto di stare dalla parte dello Stato, a servizio di una collettività nazionale e che non si vergognano dell'idea di essere italiani, ma che anzi di questo modo di essere cittadini italiani sono fieri. Ed è questa quella Bella Italia che molti oltre il Brennero osservano con stupore e ammirano. E noi lo sappiamo e vorremmo che fosse così lo stile italiano di sempre. Altro che l'urlo assordante una volta ogni qualche anno intorno ad un pallone bianco tra i piedi di undici uomini vestiti in azzurro Savoia !

Chiedi: “Chissà se oggi da parte delle giovani generazioni ci sarebbe lo stesso slancio, analogo senso di responsabilità e di generosità nel capire che bisogna curare lo scrigno della nostra cultura nazionale, del nostro Paese”. Ho paura di rispondere alla tua domanda, Stefano. Perché se la risposta è no, la colpa è anche nostra.(e.s.)

L’Italia, com’era

Edoardo ho una certezza. Che non si avrebbe oggi la stessa risposta, con la stessa forza. Io non mi sento affatto in colpa se le giovani generazioni di oggi non risultano così reattive e sensibili ai richiami del senso del dovere, della giustizia, dell'equità, del senso di appartenenza alla comunità nazionale e se a questo antepongono, nei comportamenti quotidiani e per la maggior parte di loro - da che mi pare di cogliere - spesso anti-valori. Forse voi all'università avete qualche cosa da chiedervi e lo sai. Non mi sento in colpa se il 51% degli italiani hanno votato Berlusconi.

Certo io ho avuto la grande fortuna di avere un padre che si è fatto colto e intellettuale; che da una famiglia di proletari semianalfabeti (nonno Modesto classe 1891 manovale delle FFSS e prima palafreniere a un soldo al giorno al deposito equino del Reale Esercito Italiano coi cavalli maremmani in mezzo alla malaria della piana del marais tra mare e Grosseto; nonna Maria contadina casalinga) già a sedici anni scriveva cose splendide, che era amico carissimo di Luciano Bianciardi, che da socialista combattè contro i fascisti prima della guerra, durante la guerra e nella lotta partigiana affianco ai contadini del Monte Amiata e della sua Maremma. Studiò alla facoltà di magistero a Roma, lavorando come un povero cristo, perché Modesto non aveva i soldi. Poi lo chiamarono alla guerra. Alla fine si fece il culo per lavorare.

Con mia madre andarono a lavorare per l'UNRA-CASAS alla Martella (ti dice nulla ?) assieme ai loro due piccoli figlioli. In quel borgo di contadini e contadine ignoranti organizzarono i capifamiglia ad occupare le terre. E fummo buttati fuori da li con il foglio di via dei Carabinieri. Papà fu cacciato dalla Rai dopo aver fatto bellissimi documentari sulla vita dei camionisti, sulle scuole inglesi e sull'inaugurazione dell'autostrada Milano-Bologna, perché non volle prendere la tessera della DC. Io ho fatto e faccio la mia parte e mio fratello pure (è stato anche in galera, seppure perpoco– assieme ad un altro ragazzo e ad un operaio edile furono incolpatidi blocco stardale e di resistenza a pubblico ufficiale: protestavano assieme ai genitori di una scuola media inferiore di una borgata di Roma per i tripli turni: quella gente voleva semplicemente avere servizi pubblici rispettosi dei loro diritti - e pure quando mio padre lavorava a Regina Coeli. Papà per estremo senso della giustizia non lo volle neppure vedere: non perché se ne vergognasse, ma solo perché voleva che avesse lo stesso identico trattamento degli altri cittadini carcerati.).

Mia madre è di altra origine: la piccola borghesia veneziana catto-fascista. Lasua famiglia di Venezia-Cannaregio è piena di medaglie di guerra, pure d'oro. Mio padre solo d'argento ma per la guerra di liberazione contro i nazi-fascisti. Mamma Elettra è stata sottotenente delle ausiliare della Repubblica di Salò; comandante di un reparto di repubblichine ad Alessandria venne imprigionata e come POW (Prisoner Of War) internata per un bel po’ in un campo di prigionia americano a Lucca. La guerra aveva fregato anche lei: era al primo anno di fisica quando si convinse che il basco repubblichino in testa era un gran cosa. Poi, dopo, comprese tutto e divenne mia madre: severa, onestissima, attaccata al dovere peggio di una vite saldata, grandissima lavoratrice, grandissima generosità sul lavoro, con Bollea al neuro-psichiatrico infantile e poi al tribunale dei minori con il fratello di Aldo Moro. La vedevo trascorre le ore di notte e le domeniche spessissimo a scrivere relazioni e relazioni. Era al quarto anno di psicologia quando morì atrocemente a 59 anni. Le mancavano due esami e la tesi.

Casa nostra era negli anni sessanta e settanta un porto di mare aperto a tutti e tutto. Gli studenti del CEPAS di Piazza Cavalieri di Malta, dove papà insegnò Storia dell'Assistenza Sociale in Europa per più di vent'anni, spesso erano la sera a cena da noi dopo riunioni interminabili con papà. C'era di tutto: eritrei, somali, campani, lucani, calabresi, siciliani. Poi c'erano gli Ossicini, i Lombardo-Radice, i Calogero, i Goffredo Fofi, i Cancrini, i compagni avvocati del Soccorso Rosso e tanti, tanti compagni di Lotta Continua, di Potere Operaio, del Manifesto, del PCI e del PSI. Io ero dentro quel porto, con mio fratello e i miei due maestri.

Non mi sento in colpa di nulla. Prenderei a calci nel culo quegli imbecilli di genitori, magari anche più giovani di me, che hanno prodotto figli così deboli; sparerei raffiche di mitra a quei ministri che hanno ridotto la scuola italiana a quella fogna oscena di ignoranza e inciviltà che è; attaccherei sai ben dove quei capi di governo che hanno ridotto la televisione pubblica così com'è. Non condivido il vizio di colpevolizzarsi di qualche cosa, sempre. Se Leopardi scrisse certe cose sugli italiani già il secolo scorso, scusa due secoli fa, pensi che ci siano ragioni per mutare quelle sue osservazioni ? Se mezza Italia ha votato per decenni per i fascisti, se ha votato per la DC per sessant'anni e poi per bananopoli, se gli italiani sono refrattari a mettersi la cintura di sicurezza in auto, se mezza Italia è abusiva, se ai giovani l'idea che accettare un comportamento illecito è giusto, di chi pensi che sia la responsabilità: della sinistra? Non abbiamo fatto abbastanza, immagino che tu dica. Di che mi devo sentire in colpa? Che Pinelli è stato ucciso, delle bombe di Stato, delle lotte sindacali per i diritti civili e sociali, che si era in migliaia in piazza, che si è fischiato all'università di Roma a Lama, che partecipavo alle riunioni dei Proletari in divisa quando facevo il militare, che le città italiane sono delle schifezze invivibili, che il mercato del lavoro è così com'è, che hanno sfasciato la sanità, che impediranno un futuro dignitosi agli anziani, che hanno rubato il domani ai giovani? Non scherziamo. Se colpa c'è a sinistra mi ci tiro fuori e non da ora perché la sinistra non ha fattosempre bene la sinistra. Se pensi che la colpa sia genericamente degli italiani adulti, non sono d'accordo. A mio padre rinfacciavo sempre che la colpa era di Togliatti, di loro in fondo, di non aver voluto fare quello che si doveva fare quando si poteva fare. Al termine della sua vita forse se ne stava convincendo

Italia oggiMercato del lavoro, flessibilità, controllo

E poi leggi ancora queste righe, le avevo scritte tempo addietro e avrei voluto inviartele quando è uscita la legge Biagi. Te le mando ora qui in appresso. È una storia a lieto fine e chi l'ha vissuta si è fatto il culo senza aiuti di papà e mammà.

Mi laureai nel marzo del 1980, un po’ in ritardo per vicende di ordinaria vita: prestai servizio militare e per gravi ragioni familiari: assistetti mia madre agonizzante, devastata dalle metastasi che le avevano mangiato ogni cosa. Per nove lunghi mesi ogni giorno in ospedale al Policlinico Gemelli, dalla mattina alle sette alla sera alle dieci. La mia pelle odorava di ospedale mentre mio padre e mio fratello si erano trasferiti in un altra città per il lavoro. Ci si passa tutti in quel tunnel senza fine; non so quanto bene faccia. A me non ha fatto bene.

Per caso in una di quelle uniche e strane circostanze della vita trovai lavoro. Trovai è il termine più appropriato, come quando uno trova cento lire per terra e le raccoglie. Il mio primo impiego pochi mesi dopo la laurea e proprio per la mia professione: una fortuna rara, unica.

Il comune era piccolo ma completamente distrutto, forse più ancora nell'animo delle persone rese aride e cattive dalla terribile vicenda. In verticale non c'era più nulla, solo una grande spianata bianca di calcinacci e polvere e qualche muro in piedi. Dall'altra parte un'altra spianata bianca ma densa di casette bianche tutte uguali.

Fu grande avere uno stipendio; potei iniziare a pensare a un futuro anche se il contratto era da precario, rinnovabile di anno in anno. Il lavoro era duro, impegnativo, concreto. Richiedeva flessibilità, adattamento, dedizione e cura particolare. La teoria, la disciplina erano lontano secoli dall’urgenza di fare e di fare bene. Fino ad allora la mia vita era stata un po’ caratterizzata da una certa mobilità territoriale. I luoghi nuovi non mi erano estranei, eppure in quel paesello non era facile avere i rapporti con le persone. Però mi piaceva il lavoro, era il mio, ci credevo e ci presi gusto ad essere utile per gli altri. Era bello vedere crescere le cose, dalle delibere, ai programmi, ai progetti, agli appalti, era un prendere corpo giorno dopo giorno. Ti sentivi responsabile. Molte sere restavo in comune per la giunta o il consiglio, senza straordinario retribuito ma solo per dedizione. Tornavo a casa a notte fonda contento dopo una pizza assieme alla giunta.

Mi ricorderò la sera di un consiglio comunale in cui per le piogge torrenziali chiusero il ponte sul grande fiume perché si era rovinata una campata; o quando nel nuovo municipio di tanto in tanto i vetri e le nuove strutture vibravano e oscillavano come fossero di plastica per lunghi secondi, come se la terra non fosse paga del disastro; o quando portai a braccia una signora, immobilizzata nelle gambe, nella nuova casa in costruzione perché potesse rendersi conto della larghezza delle porte, dello spazio nelle stanze, nel bagno, nella cucina, dell'altezza degli interruttori delle luci, delle maniglie delle porte e delle finestre, dello spazio attorno ai sanitari nel bagno; le feci fare la rampa dalla strada all'ingresso di casa perché potesse entrare da sola. Era contenta la signora ma non poche furono le difficoltà per farmi comprendere dal progettista, duro di testa, e dall'amministrazione comunale altrettanto insensibile. Le feci fare la rampa con una pendenza inferiore ai limiti massimi di legge e trovai la soluzione perché la spesa fosse garantita per intero dalla Regione. Strana attenzione dedicai a quella signora, neppure presagissi la malattia che mi avrebbe colpito poi. O quella volta che quell'anziano uomo, piccolo e tarchiato dal viso rubizzo, contadino socialista, vedovo e solo, uno dei pochi sopravvissuti ad una delle tante stragi in cui perirono centinaia di poveri uomini in divisa in mezzo al Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale: contento della nuova casa mi fece dono di un coniglio intero. Me lo appoggio sul banco dell'ufficio, appena ucciso, spellato, grondante di sangue tiepido. L'unico regalo in dieci anni trascorsi in quel comune. Non lo scorderò e mi sento fiero di questo. Ma fui costretto anche a chiamare i Carabinieri per effettuare lo sgombero dopo la procedura di occupazione di un suolo su quale c'era ... un pollaio: si spostò il pollaio vicino alla baracca e vissero tranquilli e contenti, galline e uomini, per un po’.

Dopo alcuni anni per stabilizzarci nell'impiego - molti di noi furono assunti con contratti a termine in quei comuni - decisero di farci fare un esame scritto. Partecipai con buona sicurezza, avevo lavorato sodo; con alcuni colleghi ci si trovava la sera dopo il lavoro per ripassare, approfondire, anche perché dalla teoria alla prassi del lavoro in quei comuni, così diversi perché straordinario era stato l'evento immane, la disciplina valeva molto poco: il lavoro quotidiano era un campo di sperimentazione continuo, spesso fuori dalle regole auree ordinarie.

Così feci l'esame: finalmente uscivo dal precariato. Capitò in quella occasione, come capita nella vita, di andare in tilt : mi prese l'ansia e sragionai. Fu un fiasco. Ma fu un dramma. Perdetti la possibilità di trovare un lavoro stabile e sicuro; mi ero sposato qualche tempo prima, mia moglie pure era precaria. La prospettiva di non riuscire a pagare l'affitto ci angosciava il giorno e la notte. Mi sentivo crollare il mondo addosso. In qualche brutto modo riuscii a campare, male, ma campammo, facendoci forza e prendendo quel che la vita passava.

Sperimentai in anni molto lontani i contratti di lavoro Co.Co.Co. Dodici, sei, tre mesi! Tre mesi: erano un lampo, da impazzire per la paura di restare senza soldi. Ci fu una volta in cui arrivai al giorno prima della scadenza del contratto senza che alcuno, né il sindaco né il segretario comunale, mi dicessero qualche cosa, cosa volevano fare di me: si erano dimenticati, quelli imbecilli; per fortuna deliberarono subito. Mia moglie non riusciva a mettersi in salvo sulla ciambella dello stipendio sicuro.

Niente più pensione, niente più ferie retribuite, niente più assenze per malattia pagate. Ogni cosa era diventata aleatoria e incerta. Poi qualche legislatore decise che a certi concorsi regionali potevano partecipare anche i laureati come me, cosa rara, da prendere al volo subito. Lo feci e riuscii bene agli esami con buone votazioni sia agli scritti che all'orale. Mi sentivo maturo e con esperienza pluriennale non mi detti pena neppure di studiare. Al concorso ci fu una selezione reale: da alcune decine iniziali, ne uscimmo in dieci. I posti erano tre. Il mio punteggio era elevato ... ma di un filo appena sotto il terzo in graduatoria. Abile ma non arruolato. Ancora un volta fuori dal giro.

Si diceva che avevano bisogno di gente come me in Regione, che entro la validità della graduatoria concorsuale avrebbero pescato altri. Nel frattempo bisognava sopravvivere e tirare avanti inventandosi qualche cosa e scoprendosi parte del popolo della partita IVA, della carta carburanti, dei versamenti trimestrali, del registro clienti, del registro acquisti, del registro fatture, ecc.

Il tempo passava e passò la validità della graduatoria e gli anni trascorrevano, si era vicini agli anta. Mia moglie ancora non riusciva ad aggrapparsi alla ciambella. Eravamo su un canottino minuscolo e sgonfio in mezzo ai marosi. L'affitto di casa saliva, l'equo canone sparì, il rinnovo del contratto di locazione comportò il raddoppio dell'affitto: una bomba. Si viveva alla giornata o poco più. I programmi erano un lusso non per noi. Ogni tanto osavamo per vedere solo uno spicchio di cielo: un quarantottore a Salisburgo, come essere militari in fuga. Un sabato pomeriggio a Treviso, una domenica a Venezia a ricordarsi e ritrovarsi ancora mano nella mano. Ma tutto con attenzione a non spendere una lira più del previsto perché domani chissà.

Poi uno spiraglio, forse quello buono, in Regione. Nuove funzioni, nuove figure professionali. Si ripesca nella graduatoria scaduta ma, ancora una volta, con contratto a termine, anche se biennale rinnovabile una volta sola per altri due anni: tanto poi si passa di ruolo, assicuravano. Mia moglie sempre precaria lontano dalla ciambella. Io ancora lì, in mezzo al guado: precario anche se con un lavoro e anche se mi dovevo svegliare alle cinque e mezza per prendere il treno alle sei e mezzo per andare a Trieste e se la sera prima delle otto non ero a casa.

A me andò bene: a quarant'anni entrai di ruolo. Poi anche mia moglie riuscì con un concorso a stabilizzarsi. Se mi fossi ammalato quando ero co.co.co., con pochi soldi e senza la rete della protezione sociale, sicuramente non ce l'avrei fatta a sopportare le grandi spese mediche che oggi sopporto perché lo stato sociale è uno sfascio. Meno male che la malattia mi ha colpito quando ero ormai dipendente di ruolo.

Ora lo stipendio è buono, il lavoro lo amo e credo di essere brevetto ma è troppo devastante quello che sta accadendo, c'è poco da essere fieri a dirsi italiani in questa Italia. E un po’ di stanchezza inizia a fare capolino superata la boa della metà del viaggio. In fondo quello che si vuole è essere un paese civile normale, che abbia rispetto di se e dei suoi cittadini, che sia giusto ed equilibrato. Non altro.

Ecco, anche questo è vivere con contratti di lavoro atipici, questa è la facile prospettiva di molti dei ragazzi di oggi ma anche di molti uomini e donne da rottamare, un pezzo oggi e un pezzo domani, magari insieme moglie e marito. Umiliazioni, barbarie, vessazioni, paure e angosce. Così si mercifica l'anima.

Due signori. Tutt’e due comunisti "aristocratici" (il personaggio che rievochiamo lo era di nascita e il nostro intervistato prima di accettare la tessera del Pci si chiese candidamente: «Come posso io che possiedo 200 cravatte?», sentendosi rispondere che poteva dal momento che il poeta Aragon ne possedeva il doppio). E grandi innovatori televisivi. Tre cose in comune tra Nanni Loy e Ugo Gregoretti. Un’altra è Fregene, cara ai cinematografari, dove il 21 agosto di dieci anni fa Loy fu colto da infarto e Gregoretti, con la compagna di Nanni Elvira, fu il primo a tentare invano di soccorrerlo. Ugo Gregoretti (classe 1930, cinque anni meno di Loy) ricorda l’amico cominciando dall’episodio che ne fece un personaggio popolarissimo. E svelando un altro punto di contatto

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Nanni Loy

«L’ho conosciuto dopo aver fatto il mio primo film nel ‘61, I nuovi angeli. Venni "scoperto" in virtù di una rubrica che tenevo in tv, Controfagotto. Sull’onda del suo successo e della novità che rappresentava il produttore Alfredo Bini mi propose di fare un film. Mi trovai così promosso regista di cinema, e conobbi Nanni. Di lì a poco Angelo Guglielmi reduce da Londra con sotto il braccio il "format" - si direbbe oggi - della candid camera propose a me Specchio segreto. Risposi che sarei stato troppo riconoscibile per via di Controfagotto, mentre la formula si fondava proprio sulla irriconoscibilità del "provocatore". Venne allora in mente a entrambi Nanni, che accettò circondandosi di collaboratori di talento come Giorgio Arlorio e Fernando Morandi».

Ha rivelato un retroscena...

«Non l’ho mai raccontato. Evidentemente però l’affinità elettiva tra noi due è rimasta tanto legata a quel fatto che ancora oggi, con mia frustrazione, c’è chi incontrandomi mi dice: lei ha fatto tante belle cose ma nessuna ha eguagliato quel cornetto intinto nel cappuccino degli altri. E, non vorrei apparire irriverente, quando Nanni morì e fu allestita la camera ardente in Campidoglio, mentre scendevo la scalinata incrociai una donnetta che mi disse a bruciapelo: ma come, lei non era morto?».

Avete entrambi riversato nella televisione lo spirito, la sensibilità della commedia cinematografica italiana.

«Lui certamente, veniva da quel cinema. Io ero un redattore, anzi un praticante del telegiornale che sognava di diventare regista di cinema e aveva un occhio di riguardo per la commedia all’italiana. Il mio Controfagotto conteneva materiali equivalenti. E perfino quando ho girato Apollon sull’occupazione di una tipografia gli operai romani che recitavano se stessi erano di scuola sordiana. In Nanni c’erano già molte esperienze, in me la contaminazione da giornalistino televisivo che applicava i moduli della commedia ai suoi "pezzi". Impostavo le interviste come se fossero sketch, parenti poveri di un film».

Il modello di Specchio segreto e la successiva evoluzione (o involuzione?) della formula candid camera nella tv italiana.

«Specchio segreto si avvalse subito di una componente non so se già presente nella sperimentazione anglosassone anteriore: autori e sceneggiatori che venivano dal cinema, Nanni per primo. E di una comicità, di un umorismo che andavano oltre l’invenzione di gag e rimandavano a uno spaccato antropologico e sociale. Uno spessore mai visto prima, né tantomeno dopo. Pensi ai livelli di stupidità di oggi e agli abissi di faciloneria provocatoria ma stolta, vacua. La forza e la classe di Nanni erano nel non essere mai offensivo pur essendo così pungente. Un meccanico autocontenimento faceva sì che quando si avvicinava troppo al confine della presa per il culo scattassero la pietas, la simpatia, l’indulgenza affettuosa verso il malcapitato. Tra i molti primati di Specchio segreto - oltre a quello cronologico e a quello qualitativo nel far tesoro sia del cinema civile e di denuncia che della commedia all’italiana, nel farsi ritratto di un paese con le sue contraddizioni e tic e con la sua straordinaria varietà umana - ce n’è anche un altro. Si scoprì lì la famosa "liberatoria": cioè, dopo aver "incastrato" le persone a loro insaputa, bisognava ottenere il permesso per andare in onda. E il bello è che i rifiuti furono pochissimi, la stragrande maggioranza si fidava e firmava al volo».

Va di moda rimpiangere la Rai di Bernabei. Ma è vero che quella tv così governativa, prudente, bacchettona, consentiva spazi anticonformisti come Specchio segreto.

«Più che "di Bernabei" parlerei di Rai monopolio. Sentivamo la responsabilità del nostro ruolo. Sia pure sotto il tallone di ferro della censura democristiana eravamo severamente invitati a fare le cose bene e a scoprire dove stesse di casa l’araba fenice dello specifico televisivo. Contribuirono pochi registi cinematografici che, come Mario Soldati, portarono la spregiudicatezza del cinema nell’inchiesta televisiva. Miei maestri sono stati i tecnici, sia i vecchi tecnici della radio che i nuovi che dal cinema erano passati alla tv optando per il posto fisso, e poi quel grande radiocronista che era Vittorio Veltroni: l’abilità era quella di costruire delle immagini sonore, ciò che ignorava la tradizione del documentario cinematografico italiano che disprezzava la tv. Inventammo le inchieste televisive aggiungendo con le voci lo spessore mancante al documentarismo "artistico". Le cose erano insomma più belle perché ogni dettaglio era teso a una qualità anche estetica. Con la fine del monopolio questo è finito. E dico che ha contribuito a renderci più perspicaci proprio la censura. Una ginnastica, una palestra. Studiare come assestare il cazzotto passando attraverso le sue maglie. Uno strumento pedagogico».

Ragionamento un po’ insidioso, non le pare?

«Io rimpiango la disciplina. So che oggi vediamo solo imbruttimento mentre allora c’era un’estetica. E la censura è stata come un’istitutrice, formativa. Nelle mani di chi ha il potere di scegliere, oggi del tutto incapace, potrebbe essere strumento di rieducazione: una bella censura a Maria De Filippi non sarebbe cosa sana?».

Chi è Nanni Loy

Una volta, anni fa, Cesare Cases mi disse che non amava il «Freund Hein», come i tedeschi chiamano scherzosamente e scaramanticamente la morte, forse perché il culto della morte — Viva la muerte — era intrinseco a quella cultura della decadenza e dell'irrazionale in cui egli, come il suo amato Thomas Mann, vedeva sfociare e degradarsi la grande civiltà borghese, in un imbarbarimento del mondo che egli, come Mann, cercava di esorcizzare e di combattere in nome di un umanesimo illuminista e marxista. Però quella volta aggiunse che — nella febbrile smania di fare, produrre, parlare e organizzare che stava prendendo il mondo, soffocando ogni pausa e ogni riflessione — la morte riacquistava valore e significato, perché era un limite umano e ricordava che, dopo tutto, pure il perverso e frenetico attivismo che ci possiede come un ballo di San Vito non può durare, grazie a Dio, in eterno, e si placa anch'esso nell'eterno riposo implorato nella preghiera per i defunti.

Cesare Cases è non solo un grande germanista, bensì anche un protagonista della cultura italiana dell'ultimo mezzo secolo, che — per ironia, intelligenza troppo acuta, randagia autosufficienza ebraica — ha scelto una posizione laterale, seppure ben profilata, nella parata permanente della società culturale. È impossibile, nell'emozione che la notizia della sua morte provoca in chi gli è amico da più di quarant'anni, tracciare un bilancio adeguato della sua personalità e della sua opera, di rilevanza fondamentale nella storia culturale, letteraria e politica del nostro Paese. La sua appartenenza a una famiglia ebraica — che non lo ha mai condizionato né ristretto in alcuna identità sottolineata e difensiva, ma è stata da lui vissuta semplicemente, affettuosamente e liberamente come una componente importante, ma non determinante — gli ha fatto conoscere presto, con le leggi razziali fasciste, il groviglio di barbarie che si annida nella nostra società, come rivela la sua splendida e frammentaria autobiografia. Marxista convinto e lucido, Cases ha vissuto con passione, e insieme con distacco, tutta l'avventura del marxismo italiano e delle forze che lottavano per un'altra Italia e un altro assetto del mondo, ma ha anche colto con straordinaria precocità l'involuzione e l'autonegazione del socialismo reale ed è stato uno dei primi a denunciare, in un memorabile saggio di cinquant'anni fa, l'anchilosata tirannide della Repubblica democratica tedesca, Paese — egli scriveva allora — in cui metà degli abitanti è occupata a spiare l'altra metà (e che dunque si capisce debba andare in malora).

A Cases si deve la penetrazione della grande cultura e letteratura tedesca, soprattutto hegeliana e marxista, in Italia, ma anche la sua anticipata critica, come indicano tanti suoi eccellenti saggi su Lukács, Brecht, Benjamin e altri. In questo senso ha avuto un ruolo centrale nell'opera della casa editrice Einaudi, che oggi è costume sbeffeggiare, ma che è stata una o la colonna portante della cultura italiana per tanti decenni. Come ogni cultura realmente egemone e dominante, la casa editrice Einaudi ha avuto i suoi grandissimi meriti storici che nessun livore può diminuire, le sue colpe e prepotenze aristocratiche che vanno spregiudicatamente criticate, ma senza il risentimento plebeo di chi non si dà pace di essere stato escluso, in quei grandi anni, da quel cantiere in cui, fra tante geniali e ardite scoperte e alcuni anche pesanti errori, si creava la cultura italiana, così come, in un altro senso, ma in un'analoga simbiosi di meriti e chiusure, l'aveva creata La Critica di Benedetto Croce. Naturalmente è più facile riconoscere tutto questo per chi è stato a suo tempo fraternamente accolto, magari giovanissimo, in quei mercoledì einaudiani in cui nascevano tante cose, che non per chi, magari ingiustamente, è stato bocciato agli esami d'ammissione.

Cases era un lievito di quegli incontri, di quel crogiuolo culturale. Se la sua visione del mondo era segnata dalle filosofie della totalità — Hegel, Marx — il suo acutissimo senso della crisi moderna, della sua stessa indole (sorniona, a volte pigra e assonnata, ma sempre vigile e fulminea nei giudizi) lo portava al frammento, al saggio breve piuttosto che al libro esaustivo (non ne ha scritti mai), all'introduzione piuttosto che alla monografia. C'era in lui una forte tensione intellettuale fra un marxismo classico, che voleva farsi superatore ma soprattutto erede della tradizione grande borghese e avversava dunque le stridule fratture trasgressive delle avanguardie, e una saltuaria fascinazione per quelle rotture culturali e politiche, che negavano tale tradizioni. Tutto ciò si riflette nei suoi saggi — di letteratura tedesca, di politica, di patrie lettere — come nelle oscillazioni delle sue simpatie politiche fra comunismo e sinistra extraparlamentare. La sua cultura più vera resta comunque quella classica, il sogno di saldare grande civiltà borghese e marxismo, come il suo Mann, di cui è stato un grande interprete. Il suo epistolario con Sebastiano Timpanaro, grande dialogo di due marxisti in cui Cases difende le ragioni della «decadenza», è, come ha scritto Maria Fancelli, il documento di un'altra Italia, di una cultura oggi obsoleta, in cui, come in ogni vera cultura, sono in gioco le cose ultime.

Beffardo e caustico, talora oltre la giusta misura, non era esente, nel suo sarcasmo, da alcune cadute in una sgradevole volgarità intellettuale, ma si riscattava in un'ironia illuminista che celava una pudica intensità di affetti. Fortini lo vedeva come un Mefistofele geniale e canzonatorio; a me ogni tanto sembrava uno di quegli ebrei orientali sballottati dalla storia, dovunque fuori posto e dovunque a casa nel mondo, perplessi fra il desiderio di cambiare quest'ultimo e una rassegnazione spinoziana alla necessità del tutto

Postilla



Alcuni lustri fa, ho avuto il privilegio di assistere ad alcune lezioni di Cesare Cases, per curiosità nei confronti del personaggio, più che per affinità di interessi: ma Cases si ascoltava e si leggeva "a prescindere", perchè come solo i grandissimi sanno fare, riusciva a parlare dei grandi temi politici ed intellettuali dell'oggi e di sempre a partire magari da una pagina di Teophil Spoerri. "Testimone secondario" come amava definirsi, un 'non allineato' per eccellenza, feroce fino al sarcasmo contro le mode culturali (gli strutturalisti francesi, fra gli altri), di ironia leggendaria, ma spietato soprattutto verso se stesso. In quelle lezioni ne ho ammirato, soprattutto, lo sfolgorio intellettuale espresso in aforismi fulminanti (come non accostargli, immediatamente, gli amatissimi Adorno e Karl Kraus) e una sorta di disincanto malinconico nei confronti dei nostri tempi che nulla di senile aveva in sè e che, a distanza di anni, suona piuttosto come monito precorritore.

In un'intervista per i suoi 80 anni, ad Antonio Gnoli che lo interrogava sulla diversità fra 'destra' e 'sinistra' rispondeva:

"chiedersi oggi se esiste un pensiero di destra o di sinistra, mi pare impresa vana. Se non altro perchè dubito che ci sia un pensiero." (m.p.g.)

Studenti dell'Università di Padova!

Sono rimasto a capo della Vostra Università finche speravo di mantenerla immune dall'offesa fascista e dalla minaccia germanica; fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio ed al segreto. Tale proposito mi ha fatto resistere, contro il malessere che sempre più mi invadeva nel restare a un posto che ai lontani e agli estranei poteva apparire di pacifica convivenza mentre era un posto di ininterrotto combattimento.

Oggi il dovere mi chiama altrove.

Oggi non è più possibile sperare che l'Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l'ordine di un governo che - per la defezione di un vecchio complice - ardisce chiamarsi repubblicano, vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori. Nel giorno inaugurale dell'anno accademico avete veduto un manipolo di questi sciagurati, violatori dell'Aula Magna, travolti sotto l’immensa ondata del vostro irrefrenabile sdegno. Ed io, o giovani studenti, ho atteso questo giorno in cui avreste riconsacrato il vostro tempio per più di venti anni profanato; e benedico il destino di avermi dato la gioia di una così solenne comunione con l'anima vostra. Ma quelli che per un ventennio hanno vilipeso ogni onorevole cosa e mentito e calunniato, hanno tramutato in vanteria la disfatta e nei loro annunci mendaci hanno soffocato il loro grido e si sono appropriata la vostra parola.

Studenti: non posso lasciare l'ufficio di Rettore dell'Università di Padova senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria. Traditi dalla frode, dalle violenza, dall'ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell'Italia e costruire il popolo italiano.

Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c'è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto e ha coperto con il silenzio e la codarda rassegnazione; c'è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina.

Studenti, mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta assieme combattuta. Per la fede che vi illumina; per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l'Italia dalla schiavitù e dall'ignoranza, aggiungete al labaro della Vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo.

Il Rettore: Prof. Concetto Marchesi

Anita si è spenta nella notte tra sabato e domenica. Suo marito, Claudio Tonel, l'ha accompagnata per sempre nella notte tra domenica e lunedì lasciandosi scivolare nelle acque di Barcola, Trieste. Un biglietto d'addio, e il resto è cronaca. Cronaca di un grande amore. E di grandi amori. Del resto l'aveva scritto: «Per il resto e nonostante tutto, Anita sta vivendo una splendida maturità, giovane e bella, di una bellezza diversa per la sua età, mantiene una invidiabile silhouette e se non pensa al male sa essere dinamica, allegra, simpatica, mettendo ad entrambi la voglia di vivere. Quando guardo i suoi occhi che tante volte mi hanno fatto e mi fanno sognare, in un grande desiderio di lei, mi viene da concludere: Anita, scusami, ma spero che il tuo sorriso sia l'ultima cosa che vedrò di questo mondo» ( Da Vidali in qua. La storia e la politica, la cronaca e l'amore di Claudio Tonel, edizioni Italo Svevo, 2004).

Claudio Tonel, è stato segretario della Federazione autonoma triestina del Pci negli anni tra i più difficili del partito, storico e politico di altissimo spessore culturale, vice-presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia dall' '83 all'88, presidente dell'Associazione consiglieri regionali e dell'Associazione culturale regionale «Enrico Berlinguer».

A settantasette anni Tonel ha scelto di morire per amore, in un tempo in cui la morte è l'unico argomento di giornali e telegiornali. In un tempo in cui con la morte i conti si devono fare e tutti se la vedono sbattere in faccia in tridimensionale, tra persone che non hanno nemmeno diritto a un'iniezione letale, la povera Terri Schiavo, e potenti monitorati da telecamere fino all'ultimo imbalsamato istante. Ma i conti con «nostra Signora» si fanno anche nel momento in cui ti viene a mancare quell'altra parte di te, quella simbiosi che, forse, è tutto ciò che è rimasto di un mondo alla deriva.

Claudio Tonel ha consegnato alla scrittura tutte le sue memorie storiche, vissute da protagonista, mai da comprimario. Personaggio scomodissimo, padre e padrone nel Pci, grillo parlante nei DS. Da Comunisti a Trieste, prefazione di Natta per Editori Riuniti nell' '83, a Da Vidali in qua, prefazione di Folena, 2004 è stato il più scomodo testimone che il revisionismo storico di sinistra abbia mai avuto in seno. Ma parlare con lui o con Anita era la stessa cosa: rimangono nell'immaginario come Giorgio Amendola e sua moglie Germaine. Due che si sono fatti uno, un sogno tanto possibile quanto doloroso nel suo finale.

Nessuno s'è sottratto alla prefazione di libri scomodissimi (Giorgio Napolitano, Adalberto Minucci, Nilde Jotti, Paolo Rumiz) a cui Tonel ha consegnato la memoria della controversa storia della Venezia Giulia, non senza affrontare temi «intoccabili» quali l'esodo di 22.000 giuliani verso l'Australia con la fine del Governo Militare Alleato, le lacerazioni seguite in terre sicuramente filoslave dopo lo strappo Stalin-Tito, Goli Otok, l'Isola Calva dove Tito sigillava l'opposizione interna, il neofascismo che dagli ultimi repubblichini collaborazionisti dei nazisti risorgeva dalla sua città per devastare con le bombe un intero paese.

«Era il 1981 e fu lo stesso Enrico Berlinguer che mi disse di andare avanti quando denunciai, come segretario del Pci di Trieste, la morte di innocenti nelle foibe...altro che silenzi del Pci!» dichiarò nel 2004 al in qualità di segretario del Pci dal novembre `79 all'ottobre `83, commentando le «libere» ultimissime dichiarazioni di Fassino. «Che fine ha fatto la relazione conclusiva della commissione bilaterale intergovernativa di storici italiani e sloveni che dal 1993 al 2000 hanno lavorato alla puntigliosa ricostruzione della storia di queste terre superando le barriere imposte dalla vecchia storiografia jugoslava? Quel lavoro doveva servire come base per i libri di storia di entrambi i paesi, perché la memoria non si difende con la strumentalizzazione politica ma con lo studio. La memoria si difende a partire dalla scuola e dall'insegnamento della storia!».

Passione forte, sempre e fino alla fine. Passione. La stessa che condivideva con e per Anita. L'unica che sapeva incapace di tradimento. Così è bastata una notte, un biglietto agli amici e l'idea di non perdersi per sempre. Ai compagni della sezione dei Ds di San Giacomo, popoloso e popolare rione di Trieste dove era segretario, toccherà il compito di portare avanti anche la memoria di una storia che verrà oltraggiata e manipolata anche in futuro, perché troppo passionale e scomoda. Perché troppo amata. Si può morir d'amor (dalla Tosca).

John Huston, il regista che tentò di tradurre per il cinema la sceneggiatura dei Misfits e fare finalmente di Marilyn Monroe una grande attrice drammatica, ricordava nelle sue memorie: «Una sera, alla fine delle riprese nel mezzo di un deserto, vidi un uomo seduto da solo ai bordi della strada, al quale nessuno aveva dato un passaggio. Marilyn, Clark (Gable), Montgomery (Clift) se ne erano già andati via insieme e tutti si erano dimenticati di lui. Rallentai la macchina e vidi chi era quell´uomo. Era Arthur Miller, l´autore, il marito di Marilyn. Nessuno si era ricordato di caricarlo, neppure Marilyn». Quell´uomo solo, dimenticato nel mezzo di una nazione che per lui era ormai diventata un deserto, è morto ieri a quasi 90 anni, di cancro, portando via un tempo, un´epoca, un´America che ormai lo aveva lasciato a piedi.

Miller era un gigante. Realmente. Alto due metri, con mani enormi come pale e l´incedere sempre lievemente curvo delle persone molto alte circondate da uomini e donne più piccoli, come lo ricordano all´Actors´ Studio di Manhattan dove spesso parlava agli aspiranti attori, si muoveva con quella timidezza gentile del più grosso che i newyorkesi, come lui era, spesso nascondono dietro la scontrosità e la ruvidezza.

Era nato da una famiglia di immigrati ebrei in una guerra, la Grande Guerra, ed era cresciuto nella guerra sociale della Depressione, quando l´esplosione di un´altra bolla di Borsa aveva spazzato via la bottega di abbigliamento femminile del padre, Isidore Miller.

Apparentemente, nulla nella sua infanzia e nella sua adolescenza aveva segnalato in quello spilungone costretto a fare sport al liceo dalla statura un futuro da intellettuale engaged, impegnato, come si sarebbe detto molti anni dopo. «Le mie letture erano i giornali di Hearst», ricordava, quella yellow press, la stampa scandalistica e chiassosa da tabloid che lo accompagnava ogni mattina nei trasferimenti in treno dalla casetta di Brooklyn dove la famiglia aveva dovuto rinchiudersi dopo il fallimento, verso il grossista di ricambi per auto, dove lavorava. Ma tra i fogli della spazzatura giornalistica di Hearst, si insinuò un libro, I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Gli venne voglia di scrivere.

Andò a studiare lontano da New York, nell´Università del Michigan. Giornalismo, all´inizio, la solita scorciatoia degli aspiranti scrittori. Merito di Dostevskij o del talento naturale insospettato, Arthur scoprì di saper scrivere bene, talmente bene da vincere il primo premio in una competizione nazionale di scrittura fra gli studenti, vinto anche da un certo Tennessee Williams, il futuro autore di Un tram chiamato desiderio e La gatta sul tetto che scotta. Come si dice per tagliar corto, aveva trovato la sua vocazione, il teatro, ma la sua vocazione ancora non aveva trovato lui. La prima opera rappresentata, L´uomo che aveva tutte le fortune, aprì a Broadway una sera di primavera del 1944. E chiuse la sera dopo.

Avrebbe dovuto aspettare cinque anni, e altri due mezzi fiaschi teatrali consolati dai complimenti della critica, per scrivere e mettere in scena, il lavoro che avrebbe per sempre, nel sempre della letteratura e della cultura, inciso il suo nome fra i giganti, non più soltanto fisici. Il 1949 fu l´anno di Willy Loman, il protagonista di quella Morte di un commesso viaggiatore che gli studenti di cose americane e gli esploratori di questa nazione dovrebbero leggere come guida indispensabile all´America.

La storia del piazzista di successo, che da un giorno all´altro si trova senza lavoro dunque senza più la propria ragione di essere, e finisce nel suicidio per permettere alla moglie di incassare la polizza per la vita e continuare a vivere il sogno americano, resta la parabola essenziale di una nazione che è, prima di essere ogni altra cosa, una nazione di instancabili venditori di cose, di immagini e di sogni, riassunto nella frase del presidente Calvin Coolidge, «the business of America is business», gli affari dell´America sono gli affari.

Il successo del Commesso viaggiatore, maturato nel clima di una cultura post depressione impregnata di «realismo», «esistenzialismo», «rooseveltismo» che stava producendo i film di Elia Kazan, il teatro di Williams, di O´Neill e la generazione di attori «ribelli senza una causa» alla Brando e James Dean, spinse «l´uomo più fortunato del mondo» inesorabilmente in quel crogiolo di politica, di fama, di antipatie e di rancori ideologici che avrebbe preso il nome di Mccarthysmo. Miller fu accusato di essere un «compagno di viaggio», un utile idiota, un comunista e come tale fu trascinato davanti al patetico e feroce Torquemada dell´inquisizione anti-rossi. Dovette confessare la colpa atroce di avere partecipato a qualche riunione di intellettuali sponsorizzate - pubblicamente - dal partito comunista americano e di avere firmato appelli per la pace.

Gli fu tolto il passaporto e non poté partire per Bruxelles, dove sarebbe stato rappresentato il suo dramma Il crogiolo, ricostruzione volutamente allegorica dei processi e delle impiccagioni di streghe nella Salem del 1692 e dei fenomeni di isteria collettiva. Quando rifiutò di fare nomi di altri «comunisti» come lui davanti all´Inquisitore, fu condannato per «oltraggio al Parlamento», una condanna che i tribunali ordinari annullarono nel 1958, restituendogli il passaporto.

Ma non la pace, che la vita, i fiaschi, i trionfi, i processi e i successi gli avevano consumato per sempre.

Proprio negli anni della persecuzione maccarthysta, nel 1956, «l´uomo più fortunato del mondo» aveva sposato, in seconde nozze, la donna che tutti gli uomini del mondo meno fortunati avrebbero voluto sposare, Norma Jean, una Marilyn Monroe trentenne, fresca del divorzio da Joe Di Maggio e non ancora devastata dalla propria insicurezza, dall´alcol e dalle pillole. La relazione tra «il gufo e la gattina», come fu prevedibilmente battezzata quell´unione tra l´allampanato scrittore newyorkese ormai perennemente nascosto dietro i suoi enormi occhiali e la succulenta bionda californiana (Marilyn era nata a Los Angeles, il primo giugno del 1926) fu inevitabilmente la materia per ogni tipo di elucubrazione psicoanalitica, di interpretazioni metaforiche, di facili simbolismi. Ma se il matrimonio era costituzionalmente destinato a fallire, come accadde infatti nel 1961 in uno squallido divorzio messicano, nessuna biografia o memoria ha mai stabilito se questi due esseri umani si fossero amati davvero, oltre all´attrazione fra opposti.

Marilyn cercava in lui quel visto di uscita dalla gabbia dei bamboleggiamenti sexy, di mutandine esposte da sbuffi di aria, di stupidità bionda da copione che gli studios le imponevano. Arthur, che per lei scrisse la sceneggiatura del pessimo Misfits (Gli spostati, 1961), chiedeva vita, corpo, carnosità per un´esistenza che rischiava di evaporare nell´intellettualismo. Ma se era Miller a nutrire i sogni di emancipazione di Marilyn, era Marilyn a nutrire il portafogli di Miller. Pagava lei, per esempio, gli alimenti alla prima moglie di Arthur Miller.

La loro «story» andò a intercettare, e ad alimentare, un tempo che produceva miti indimenticati e crudeli, i Kennedy, l´alba della rivolta di una nuova generazione di baby boomers inquieti e destinati al Vietnam, l´integrazione razziale, la noia della prosperità post bellica, il confronto sempre più scottante con l´Urss, verso i missili di Cuba. La vita di Arthur Miller non finì con il divorzio da Marilyn, come invece finì la vita di lei, suicida appena un anno dopo, nel 1962, ma nella sua produzione artistica, il periodo «post Marilyn» non tornò mai allo splendore del periodo «pre Marilyn». Dovette trascorrere quasi un decennio, dal matrimonio del ´56, perché tornasse in teatro con Dopo la caduta, un lavoro ovviamente ispirato, nella protagonista che si autodistrugge, alla vita della ex moglie, ma le opere degli anni Novanta passarono accolte dal rispetto, ma non dal successo, riservato al mito, più che alla realtà.

«Il teatro probabilmente non è morto» disse in quegli anni «ma la televisione, con le cifre che paga ad attori bravi o cattivi, lo sta dissanguando di talenti». Ci fu, e ancora continua, una piccola resurrezione teatrale, con il ritorno alla scene dei vecchi classici, dell´immortale Commesso viaggiatore, del Crogiolo, rinverdito dalla nuova isteria repressiva da terrore attizzata dai politicanti in cerca di voti, ma l´attualità dei simboli stride contro il tramonto di un tempo americano che l´ultimo dei suoi grandi cantori ha portato via con sé, ieri.

Novella Sansoni è scomparsa qualche giorno fa, dopo una dura malattia. Il suo nome, molto probabilmente, non dirà nulla ai nostri giovani e, purtroppo, anche a molti non giovani. La memoria, si sa, non è un terreno coltivato, di questi tempi, nella sinistra. Eppure, la figura di Novella è stata molto importante per almeno un ventennio, nell'ambito politico e culturale, a Milano e non solo. Tra l'altro, il suo è stato, credo, un caso unico nel panorama del mondo politico italiano. Esaurito il suo mandato di presidente della Provincia di Milano, decise di ritirarsi, nonostante le fosse stata proposta la candidatura al parlamento. Scrisse anni dopo: «sono contenta di avere preso questa decisione da sola, in piena autonomia... la decisione di considerare chiusa la mia attività pubblica e di tornare al mio lavoro professionale di architetto». Perché lo fece?

Aveva cominciato a lavorare nel collettivo di architettura che si era costituito a Milano negli anni Cinquanta. Era anche stata la prima donna ad essere nominata alla segreteria di una sezione del Pci di questa città e poi fu eletta nel comitato centrale. Come professionista si era dedicata in particolare all'edilizia scolastica: aveva progettato scuole «aperte», con pareti mobili all'interno e nessun muro o cancello «di protezione» all'esterno. Perché vi fosse un'osmosi continua tra scuola e società e dentro la scuola.

Mi raccontò, molti anni più tardi, che però le scuole erano state presto «riadeguate» con aule separate e involucri esterni. Ciascuno amava delimitare il proprio territorio. Nel 1964 fu eletta in Consiglio provinciale, dopo il successo del Pci nel 1975 divenne assessore alla cultura e nell'83 assunse l'incarico di presidente.

Era una donna bella, elegante e anche allegra e ricca di fantasia: ma ciò che la distingueva era soprattutto il rigore assoluto con il quale conduceva il suo lavoro, in qualsiasi campo. Tuttora per molti versi, la città e la provincia di Milano sono segnate dalle sue iniziative culturali spesso duramente contrastate non solo dagli avversari.

Il cinquantesimo anniversario della morte di Alcide De Gasperi - avvenuta il19 agosto 1954 a Sella Val Sugana, il piccolo paese di montagna dove era solito trascorrere le ferie estive – è stata per la destra italiana l’occasione per una campagna di stampa volta a collocare lo statista trentino, in quanto paladino dell’anticomunismo, nel quadro della più rigida tradizione conservatrice, e quindi per presentare l’attuale maggioranza di governo come la sua naturale erede.

Più prudenti, naturalmente, sono stati gli storici di professione. Ma non a caso proprio nei giorni del cinquantenario da più parti si è tornati a parlare, ai margini del meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, di “unità politica dei cattolici”, naturalmente da realizzarsi nell’ambito dello schieramento di centro-destra e come articolazione del Partito Popolare europeo. In particolare lo stesso Presidente del Consiglio, non contento di rivendicare in ogni occasione la sua personale amicizia con Bettino Craxi, si è riproposto in più di un caso come il vero continuatore dell’opera di De Gasperi, soprattutto nella costruzione della “diga” diretta a sbarrare la strada alla sempre perdurante minaccia del comunismo.

Chi ha vissuto i difficili anni, ormai lontani, dell’avvio della costruzione della democrazia postfascista e della promozione di un più moderno e avanzato sviluppo della società italiana ( e tanto più chi, come è il mio caso, ha avuto occasione di un diretto rapporto con De Gasperi) non può che respingere il volgare strumentalismo di questo rovesciamento della realtà dei fatti. Non si tratta – sia chiaro – di presentare De Gasperi come un uomo di sinistra (cosa che certamente egli non era), né di nascondere la sua avversione al comunismo, che era senza dubbio netta e dichiarata. Ma non si può dimenticare che il leader democristiano non solo fu, nell’immediato dopoguerra, il Presidente del Consiglio di un governo di unità antifascista in cui erano largamente rappresentati socialisti e comunisti; ma che dell’esperienza della lotta contro il fascismo e il nazismo e dei valori condivisi maturati negli anni della Resistenza egli trasse la convinzione che tutte le grandi forze popolari che avevano combattuto la dittatura dovevano essere protagoniste di un impegno comune per la definizione di un nuovo ordinamento istituzionale dello Stato.

Per questo operò – come del resto fecero, dall’altra parte dello schieramento politico Togliatti e Nenni – in modo che anche dopo la rottura del cosiddetto governo “tripartito” nella primavera del ‘47 e nonostante l’asprezza dello scontro che si determinò cosí nelle questioni interne come su quelle internazionali, continuasse però nell’Assemblea costituente la collaborazione fra i cattolici democratici (con un articolare impegno del gruppo di giovani intellettuali riuniti attorno a Dossetti) e le forze della sinistra di derivazione marxista, cosí da giungere al varo di una Costituzione concordemente accettata. Nacque cosí la Carta Costituzionale del 1948: che proprio per il modo in cui fu elaborata e per i valori cui si ispirava (una visione democratica e solidaristica, che era il punto di compromesso fra i cattolici democratici e i partiti della sinistra) ha rappresentato il quadro entro il quale è avvenuta la crescita democratica del paese e si è realizzato quel tanto di “Stato sociale” che è stato decisivo per un effettivo ammodernamento e per il progresso civile dell’Italia .

Ma c’è un secondo momento (generalmente meno ricordato, ma per molti aspetti anch’esso determinante) nel quale la scelta di De Gasperi fu fondamentale per respingere i rischi di una grave repressione della democrazia italiana. Fu, precisamente, nel 1952: quando, prendendo occasione dalla crescita nelle elezioni amministrative della destra monarchica e fascista, alimentata dalla protesta dei ceti più retrivi contro le misure sia pure parziali di riforma agraria e contro gli altri interventi dello Stato nell’economia, ripresero fiato quei settori del mondo cattolico e delle gerarchie vaticane che non avevano mai accettato con troppa convinzione una scelta democratica e soprattutto reclamavano – nello spirito della scomunica del ‘49 – più rigide misure anticomuniste.

L’occasione per questa offensiva di destra fu, in vista delle elezioni comunali a Roma che dovevano svolgersi nel ‘52, il timore che l’amministrazione della “Città eterna” passasse sotto il controllo di una maggioranza di sinistra. Fu perciò lanciata la proposta (la cosiddetta “operazione Sturzo”) di una lista di unità nazionale che includesse assieme alla DC e agli altri partiti di centro, anche monarchici, neofascisti, altri esponenti di destra. Era, chiaramente, un banco di prova per un ipotesi più generale di svolta a destra nelle elezioni politiche del 1953. L’ostilità di De Gasperi fece cadere la proposta per Roma; e creò uno sbarramento a destra (sia pure al prezzo, come dirò più avanti, dell’adozione di una legge maggioritaria) anche per le successive elezioni politiche. L’esperienza centrista era però alla fine: e quella vicenda di conseguenza segnò, per lo statista trentino, l’avvio di un declino personale, sanzionato dalla sconfitta della “legge truffa” nel voto del 7 giugno ‘53. Ma sul piano politico generale il risultato fu la sconfitta del tentativo di spostare a destra l’equilibrio complessivo del paese, e quindi un consolidamento della giovane democrazia italiana.

E’ su quest’ultima fase della parabola del centrismo che ho la possibilità di fornire, personalmente, qualche testimonianza diretta a proposito del dibattito interno alla DC (e in particolare sull’opera di De Gasperi): e ciò a causa del ruolo che dal 1953 ebbi occasione di svolgere fra i dirigenti in campo nazionale della sinistra giovanile democristiana. Mi riferisco, in questa testimonianza, soprattutto al rapporto con De Gasperi e al giudizio sulla sua politica. Ed è proprio dai problemi posti dalla sua scomparsa che mi pare opportuno partire.

La notizia della morte di De Gasperi mi giunse il 19 agosto 1954 a Roma proprio mentre stavo per partire per il Trentino dove, su suo invito, mi recavo per incontrarlo. L’invito mi era stato rivolto (come spiegherò meglio in seguito) nel corso di una breve conversazione svoltasi il 16 luglio, al termine della riunione di insediamento del nuovo Consiglio nazionale della DC, eletto 15 giorni prima dal Congresso del partito che si era svolto a Napoli alla fine di giugno. Di quell’organismo anch’io – benché giovanissimo: non avevo infatti 25 anni – ero stato eletto a far parte, in rappresentanza sia della nuova corrente della “sinistra di base”, da poco costituita, sia dell’ala sinistra del Movimento dei giovani democristiani.[1]

Al Congresso di Napoli del 1954 De Gasperi giungeva – come ho già accennato – nella condizione di chi ancora godeva di grandissima autorevolezza e prestigio, ma era, politicamente, un uomo sconfitto. L’esperimento centrista, al quale il leader democristiano aveva legato il suo nome, si era andato infatti progressivamente esaurendo nel corso del quinquennio fra il ‘48 e il ‘53, nonostante lo straordinario successo nelle elezioni del 18 aprile che avevano dato alla DC più del 48 per cento dei voti e la maggioranza assoluta in Parlamento. La maggioranza di centro era stata via via logorata da un lato dall’emergere, soprattutto nel Sud, di una consistente opposizione di destra che si raccoglieva attorno al partito monarchico e a quello neofascista; dall’altro lato (e anzi soprattutto) dalla ripresa della sinistra socialista e ancor più di quella comunista, che avevano saputo reagire con vigore alla sconfitta del ‘48, allargando l’iniziativa e consolidando la presa elettorale.

Appariva chiaro, in sostanza, che da una parte c’era una vecchia Italia, retriva e nostalgica, che si ribellava alle sia pur modeste riforme economiche (in particolare la riforma agraria stralcio) poste in atto dai governi di centro, e più in generale al nuovo costume democratico; e che, d’altronde, il cauto riformismo centrista e lo stesso sviluppo economico che pure si andava avviando non erano sufficienti a porre in difficoltà l’opposizione di sinistra, che anzi traeva nuova forza dalle acute tensioni sociali del momento e dalla capacità del PCI, sotto la direzione di Togliatti, di interpretare incisivamente le istanze di rinnovamento della società italiana.

Alla crisi della formula centrista, che si andava perciò delineando, De Gasperi aveva dapprima cercato di reagire respingendo con successo l’offensiva della destra integralista cattolica, guidata da Luigi Gedda[2], che proponeva (ho già parlato dell’“operazione Sturzo” per le elezioni comunali a Roma nella primavera del 1952) la formazione di un blocco nazionale anticomunista aperto a monarchici e neofascisti. Poi si era proposto di consolidare e rendere in qualche modo permanente l’alleanza tra dc, socialdemocratici, liberali e repubblicani attraverso l’adozione per le successive elezioni politiche di una legge maggioritaria – la famosa “legge truffa” – che avrebbe dato il 65 per cento dei seggi alla Camera ai “partiti apparentati” che avessero raggiunto il 50,01 per cento dei voti.

Quel tentativo fu però sconfitto nelle elezioni del 7 giugno 1953. Sia pure per poche decine di migliaia di voti, l’alleanza di centro rimase infatti al di sotto della maggioranza assoluta; e ciò non solo per il buon risultato ottenuto dalle opposizioni sia di destra che di sinistra, ma anche per il dissenso espresso – per ragioni di correttezza democratica – da gruppi qualificati di esponenti repubblicani o socialdemocratici (Parri, Calamandrei) e liberali (Corbino) che diedero vita a liste che furono definite “di disturbo” ma che raccolsero diverse centinaia di migliaia di voti.

Apro a questo proposito una parentesi. Vi e’ chi anche di recente ha messo in dubbio (fra gli altri lo stesso Presidente del Senato Marcello Pera) che De Gasperi all’indomani del 7 giugno abbia fatto bene a lasciare che fosse subito proclamato l’esito del voto, dando così per scontato che la nuova legge elettorale non era passata. Vi erano invece 900.000 voti contestati; si poteva perciò insistere per un nuovo conteggio, che avrebbe potuto portare allo “scatto della legge”, evitando così che si tornasse a un “proporzionalismo esagerato”. Chi sostiene (anche solo in forma dubitativa, come e’ il caso di Pera) questa posizione, non si rende ben conto dei pericoli che – nel clima di aspra tensione sociale e politica che si era determinato – un’eventuale contestazione del risultato del voto popolare avrebbe provocato. Allora fu opinione pressoché generale che De Gasperi si era al contrario attenuto a una regola di buona correttezza democratica. Nessuno, del resto, aveva dubitato che questo sarebbe stato il suo comportamento. Nel clima politico di oggi e’ forse giusto, invece, dargli atto di aver operato, in quella situazione, con molta prudenza e saggezza.

In ogni caso, il voto del 7 giugno 1953 segnò di fatto la fine dell’era degasperiana. Il governo che aveva portato alle elezioni ovviamente si dimise e il presidente Einaudi incaricò De Gasperi, come leader del maggior partito, di tentare la formazione di un nuovo governo. Considerando esaurita la formula centrista (pur avendo i quattro partiti di centro, a causa dei meccanismi elettorali, un’esigua maggioranza in Parlamento) De Gasperi si presentò alle Camere con un monocolore democristiano, cercando di raccogliere sul programma una maggioranza non precostituita; ma il tentativo fu battuto. DeGasperi lasciò allora definitivamente la Presidenza del Consiglio (il suo posto fu preso da Pella, con un governo palesemente aperto a destra) e di lí a poco fu rieletto segretario nazionale della DC.[3]

Ma anche nel partito la situazione era ormai avviata verso un radicale ricambio. La sconfitta del 7 giugno sollecitava la cosiddetta “seconda generazione” democristiana (costituita da quadri che si erano formati negli anni del fascismo e si erano affacciati alla politica nella Resistenza o subito dopo la Liberazione) a cercare strade nuove, per rinnovare il partito e dare ad esso una diversa prospettiva politica e di governo. Era una generazione che, ormai, aveva un ruolo dirigente nella maggioranza delle organizzazioni provinciali della DC; e che aveva il suo punto di riferimento nella corrente di “Iniziativa democratica”, che si era organizzata già sul finire del 1951 sulla base dell’incontro fra la maggioranza dei dossettiani, che non avevano seguito il loro leader nel ritiro dalla politica e nella scelta culturale e religiosa, e larga parte della corrente di centro – soprattutto i più giovani – che aveva sempre sostenuto De Gasperi ma avvertiva l’esigenza di un cambiamento. Non a caso i due massimi esponenti della nuova corrente erano Amintore Fanfani, cioè l’ex dossettiano che con il suo accordo con De Gasperi nella crisi di governo dell’estate ‘51 era stato una delle cause del ritiro di Dossetti[4]; e Mariano Rumor, un esponente della maggioranza degasperiana che però proveniva da un’esperienza aclista ed era apprezzato per la sua “sensibilità sociale”.

Perciò, mentre a livello governativo dopo il ritiro di De Gasperi di susseguivano il monocolore Pella, chiaramente orientato a destra, e il governo centrista di Scelba, sostenuto dalla ristrettissima maggioranza di centro presente alla Camera, nel partito sin dai primi mesi del 1954 si avviava la preparazione del nuovo Congresso nazionale – il quinto nella storia della DC – che avrebbe formalmente sancito l’ascesa al potere di una nuova classe dirigente.

Ho ritenuto opportuno richiamare in modo sintetico questa vicenda – per quanto generalmente ben conosciuta – allo scopo di ricostruire il clima politico in cui si aprì il Congresso che si svolse a Napoli, al Teatro San Carlo, dal 26 al 30 giugno 1954.

L’esito del Congresso era scontato: si sapeva ormai da qualche mese che esso avrebbe segnato l’affermazione di “Iniziativa democratica” e che alla segreteria sarebbe stato eletto Fanfani, col consenso (per la verità non troppo entusiasta) dello stesso De Gasperi. In questo ambito l’assise congressuale era praticamente chiamata a precisare solo due punti: quale sarebbe stata la maggioranza con cui la nuova corrente egemone avrebbe guidato il partito; e quale orientamento sarebbe prevalso fra le posizioni, non sempre e non del tutto concordi, che convivevano dentro “Iniziativa democratica”.

Per quel che mi riguarda non ero, a Napoli, al mio primo congresso nazionale. Avevo già infatti partecipato, pur avendo appena compiuto 23 anni, al precedente Congresso, quello che si era tenuto a Roma nell’autunno 1952. Ma, allora, ero un delegato alle prime armi, eletto dal Congresso provinciale di Bergamo – la città in cui vivevo – dove il gruppo che si qualificava come ex-dossettiano era nettamente in maggioranza. Al Congresso di Napoli giungevo, invece, avendo già compiuto un’esperienza politica nazionale. Innanzitutto da diversi mesi ero entrato a far parte, in rappresentanza della sinistra, del gruppo dirigente ristretto del Movimento nazionale dei giovani democristiani, e dagli inizi del 1954 mi ero perciò trasferito a Roma. Inoltre sin dalla formazione avevo aderito (assieme ad altri esponenti di sinistra della DC bergamasca, come Lucio Magri, Luigi Granelli, Carlo Leidi, Piero Asperti, per ricordare solo i nomi più noti) alla nuova corrente della “sinistra di base”, formata nell’autunno del’53 dall’incontro fra un gruppo di ex-dossettiani, delusi dal pragmatismo tatticistico e compromissorio di “Iniziativa democratica”, e numerosi quadri di base, prevalentemente lombardi e piemontesi, che provenivano dall’ancora vicina esperienza partigiana. Nella nuova corrente ero anzi divenuto uno dei dirigenti più attivi, assieme a Giovanni Galloni, a Lucio Magri, a Luigi Granelli e ad Alberto Marcora.

Il principale problema che in vista del Congresso di Napoli si poneva per la “sinistra di base” (che sin dall’inizio si era pronunciata per l’”apertura a sinistra”, innanzitutto verso il PSI ma senza escludere un diverso rapporto anche con i comunisti) era quello di cercar di condizionare efficacemente, sia pure partendo da una posizione indiscutibilmente minoritaria, il gruppo già considerato vincente di “Iniziativa democratica”. Per questo la proposta per il Congresso, ampiamente illustrata sin dalla primavera del ‘54 in diversi editoriali pubblicati da Giovanni Galloni sul quindicinale “La Base”, era quella di dar vita a una maggioranza congressuale che comprendesse tutte le sinistre: ossia, oltre ad “Iniziativa democratica” e alla stessa “Base”, anche il gruppo che faceva capo a Gronchi, quello dei sindacalisti che avevano come riferimento la CISL e le ACLI, la sinistra giovanile che era in netta maggioranza fra i giovani dc. Il metodo maggioritario che era in vigore per l’elezione del Consiglio nazionale (17 posti su 21 alla lista vincente, sia fra i parlamentari sia fra i non parlamentari) avrebbe dato all’insieme delle sinistre una nettissima maggioranza, ma nell’ambito della sinistra avrebbe assicurato un ruolo non marginale ai gruppi più avanzati.

La proposta non andò però a buon termine non solo per le resistenze “esclusiviste” di “Iniziativa democratica”, ma perché Gronchi, che già pensava alle ormai prossime elezioni presidenziali, preferiva mantenere un buon rapporto con i notabili del centro-destra della DC (la cosiddetta “Concentrazione”) e considerava invece Fanfani un suo avversario; e perché la pattuglia dei sindacalisti considerava più conveniente limitarsi a un ruolo di “gruppo di pressione”, conquistando la minoranza. Per la “sinistra di base” – che si era costituita da poco, aveva una base consistente quasi solo in Lombardia e si poneva l’obiettivo di affermare in congresso un proprio ruolo nazionale – era quindi una strada pressoché obbligata quella di un’intesa con “Iniziativa democratica”: facendo pesare, in tale intesa, il fatto che il suo apporto, benché minoritario, sarebbe stato probabilmente determinante – come in effetti fu – per respingere la proposta, annunciata da Gronchi, di una pregiudiziale per modificare in senso proporzionalista il metodo di elezione del nuovo Consiglio Nazionale. Pesava inoltre, in questa scelta, un disaccordo di sostanza fra la “base”, che in coerenza con le origini dossettiane intendeva qualificarsi come “sinistra politica”, e il carattere di “sinistra sociale” che era invece sottolineato sia da Gronchi sia dai sindacalisti.

L’accordo congressuale con “Iniziativa democratica” fu siglato definitivamente a Napoli, a Congresso già aperto,in un incontro abbastanza ristretto (nel corso di un pranzo, fra la seduta del mattino e quella del pomeriggio) al quale per la “sinistra di base” partecipai anch’io, insieme con Galloni, Marcora e Ripamonti, mentre per “Iniziativa democratica” c’erano Fanfani, Rumor, Colombo e altri esponenti del vertice della corrente. Era presente, come massimo responsabile dei Gruppi giovanili, anche Franco Maria Malfatti. Fu concordata una lista comune, nella quale fui incluso. Come risultato di quell’intesa, la “sinistra di base” riuscì a far eleggere nel nuovo Consiglio nazionale quattro suoi esponenti, ossia Galloni, Ripamonti ed io, più Leandro Rampa che fu eletto quale rappresentante dei delegati della Lombardia. Nelle votazioni ottenni un buon risultato, giungendo, in base alle preferenze, al nono posto fra i 21 non parlamentari eletti. Si trattava, per me, di un piccolo successo personale: era infatti la prima volta che un giovane con meno di 25 anni veniva eletto nel Consiglio Nazionale della DC, che era allora un organo di vertice, con poco più di 60 membri.

Dell’andamento del Congresso di Napoli, e in particolare del ruolo che vi svolse De Gasperi, ricordo bene l’impressione che mi fece la sua relazione di apertura:un’impressione sostanzialmente negativa, come fu quella della gran parte dei delegati di sinistra. Era il discorso che fu detto “dei notabiliari”: nel quale De Gasperi si dilungò in un’analisi dell’articolazione della società italiana, nella quale sottolineava il ruolo che avevano e l’influenza che esercitavano molteplici figure “notabili” (medici, farmacisti, avvocati, ingegneri e geometri, giornalisti, maestri e professori, sacerdoti, ceti imprenditoriali ecc.) nonché le organizzazioni economiche, culturali, sociali sia del mondo cattolico sia d’altro orientamento. Il corollario di questa analisi era che le decisioni politiche spettavano, certamente, agli organi di partito: ma che nell’elaborazione degli indirizzi e delle proposte conveniva “consultare anche l’esperienza, la tecnica, la cultura” e prendere contatto con “le rappresentanze degli interessi generali o locali”.

Parve a me, come a molti altri, un discorso proiettato verso il passato: che sollecitava a dedicare particolare attenzione agli interessi corporativi o categoriali e agli orientamenti di un vecchio mondo che era invece da superare. Solo più tardi mi resi conto che il significato politico dell’impostazione data da De Gasperi alla sua relazione era assai più complesso. Certo, l’orientamento era conservatore: ma il segno fondamentale era la preoccupazione, che in quel discorso De Gasperi esprimeva, per la tendenza di Fanfani e del gruppo dirigente di “Iniziativa democratica” (ad eccezione di pochi, fra i quali Moro) di concepire come scopo fondamentale del loro impegno politico il rafforzamento dell’organizzazione del partito e, a questo fine, l’occupazione di posizioni di potere nello Stato, nel sottogoverno, nella società.

Era in sostanza un richiamo – contro l’efficientismo totalizzante di Fanfani – all’esigenza di una più prudente linea di mediazione verso i molteplici aspetti della realtà sociale: e in questo era inclusa anche la sollecitazione a tener conto dell’esistenza, nel complesso della società italiana, di una pluralità di orientamenti ideali e politici, che non erano semplicemente assorbibili o contrastabili.

Questo punto, da noi sottovalutato, non sfuggì invece a Togliatti, che lo rimarcò anche successivamente nel suo ampio saggio “Per un giudizio equanime sull’opera di Alcide De Gasperi” pubblicato in più puntate su “Rinascita”, fra l’ottobre 1955 e il giugno ‘56[5]. Al leader comunista, tuttavia, non solo sembrò di ispirazione conservatrice il richiamo al ruolo fondamentale dei “notabili”; ma gli parve che vi fosse una “contraddizione non risolta” fra l’aspirazione a rappresentare nella sua interezza il “mondo” o il “blocco” dei cattolici, e l’ammonimento al partito di “non ridursi” a tale blocco. Questa contraddizione, in effetti, era intrinseca al centrismo degasperiano e contava molto nel determinare lo sbocco moderato della sua politica.

A parte la relazione di De Gasperi, il Congresso di Napoli ebbe come momento saliente il dibattito e il voto sulla pregiudiziale di Gronchi a favore della proporzionale nell’elezione degli organismi dirigenti. La pregiudiziale fu battuta, ma con uno scarto di voti (594.000 contro e 534.000 a favore) abbastanza ristretto. Risultò così confermato che “Iniziativa democratica” disponeva di una considerevole maggioranza relativa: ma che per raggiungere la maggioranza assoluta erano necessari i voti della “sinistra di base” e della sinistra giovanile. Ciò diede alla “sinistra di base” e alla parte più avanzata del Movimento giovanile una indubbia autorevolezza politica: come fu confermato, nelle votazioni, dal primo posto fra i non parlamentari ottenuto dal delegato giovanile nazionale Malfatti (per altro sempre più orientato verso un accorso anche sostanziale con Fanfani) e dal terzo posto di Giovanni Galloni, nonché della mia elezione al nono posto, di Camillo Ripamonti al tredicesimo e di Leandro Rampa come rappresentante della Lombardia. Ma il risultato politico fu che “Iniziativa democratica” poté, in questo modo,assicurarsi una netta maggioranza politica nel nuovo Consiglio Nazionale: e ciò favorì il prevalere della linea decisionistica e della tendenza all’occupazione del potere tipica di Fanfani. Il che portò molto presto la nuova sinistra (e in particolare la sua parte più avanzata, della quale io facevo parte) a scontrarsi duramente con la nuova segreteria.

Il 16 luglio 1954 si riuniva a Roma per la prima volta, a Piazza del Gesù, il nuovo Consiglio nazionale della DC che era stato eletto dal Congresso di Napoli. Con quel Congresso si era chiusa anche formalmente – come ho detto - l’era degasperiana. Era perciò scontato che il Consiglio avrebbe eletto Fanfani alla segreteria del partito (con Mariano Rumor come vice-segretario); mentre a De Gasperi sarebbe stato affidato l’incarico – prestigioso, ma privo di poteri effettivi – di Presidente.

Anch’io – come ho detto – ero stato eletto nel nuovo Consiglio nazionale, che era un organo molto ristretto, di poco più di 60 membri. Mi ero iscritto alla DC nel 1950: provenivo da posizioni di sinistra cattolica e dopo molte incertezze mi ero deciso a optare per un impegno di partito soprattutto per il richiamo esercitato dalle posizioni di Dossetti e della sua corrente, che avevo conosciuto principalmente attraverso la lettura di “Cronache sociali”. Dopo il ritiro di Dossetti dalla politica, avvenuto alla fine dell’estate del 1951, mi ero impegnato nella sinistra del Movimento giovanile dc; ma avevo anche aderito sin dall’inizio alla nuova corrente della “sinistra di base”, che si era costituito col convegno di Belgirate dell’autunno 1953.

La differenza di linea politica tra la “sinistra di base” e “Iniziativa democratica” era sostanziale. Un punto era comune, ossia il ripudio dell’apertura a destra, verso monarchici e neofascisti, che la destra cattolica aveva cercato di imporre (la già ricordata “operazione Sturzo”) in occasione delle elezioni comunali a Roma della primavera 1952. Ma “Iniziativa” pensava di reagire alla crisi del centrismo, diventata palese con le elezioni del 7 giugno 1953, soprattutto rafforzando l’organizzazione di partito e allargando la sua influenza nella società tramite l’occupazione di posizioni di potere. La “Base” riteneva invece necessaria una soluzione politica, ossia “l’apertura a sinistra”, da realizzarsi attraverso un’intesa di governo con il Partito socialista e riaprendo il dialogo anche con il PCI (i due partiti, del resto, erano allora legati, ancora, dal patto di unità d’azione).

Quando si riunì il Consiglio nazionale del 16 luglio, non avevo ancora avuto l’occasione di conoscere personalmente De Gasperi. Lo avevo infatti solo incontrato in riunioni di partito piuttosto affollate. Il 16 luglio, nel palazzo di Piazza del Gesù, presi posto in una delle prime file della sala delle riunioni. Ero vestito – poiché eravamo in piena estate – non in giacca e cravatta come pressoché tutti gli altri consiglieri, ma in una tenuta estiva più giovanile, con pantaloni beige e una camicia azzurra. Fosse anche per questo abbigliamento, poco consueto per quella sede, De Gasperi – che era seduto alla presidenza in quanto segretario uscente – notò subito la mia presenza e fu particolarmente colpito dalla mia giovane età. Chiese perciò a Mariano Rumor, che stava al suo fianco e che mi riferì la cosa durante un intervallo della riunione, chi fossi, quanti anni avessi, da quale parte politica fossi stato eletto membro del Consiglio. L’intero episodio fu poi raccontato più estesamente da Corrado Corghi, membro del Consiglio come rappresentante dell’Emilia, in un saggio intitolato “Nel tramonto di De Gasperi”, pubblicato sul numero di settembre-ottobre 1981 della rivista “Vita sociale”.[6]

Al termine della riunione del Consiglio nazionale l’anziano leader, che era molto affaticato, volle parlarmi brevemente, per conoscermi personalmente e per rivolgermi in modo diretto l’invito ad andarlo a trovare in Val Sugana, in modo da avere un colloquio più disteso e approfondito. Restammo d’accordo che mi sarei recato a Sella nell’ultima decade d’agosto. Debbo dire che l’invito non mi sorprese e neppure mi parve il segno di quel comportamento paternalistico che molto spesso gli uomini famosi, giunti all’età senile, amano assumere nei confronti dei più giovani. Sapevo infatti – ne avevamo anzi specificamente discusso negli organi dirigenti del Movimento giovanile, per le conseguenze politiche che quell’orientamento poteva avere – che dopo la sconfitta del 7 giugno e la caduta del suo ultimo governo, De Gasperi aveva in più occasioni sottolineato, tornando a dirigere la segreteria del partito, il suo interesse per i nuovi orientamenti che venivano emergendo fra i giovani democristiani: sia quelli che continuavano ad operare nei Gruppi giovanili della DC, sia quelli che – come Bartolo Ciccardini e Gianni Baget Bozzo – si erano collegati al gruppo di Felice Balbo per dar vita a una rivista con più spiccate ambizioni culturali (ma con esiti in verità piuttosto inconcludenti ed anche sconcertanti) come “Terza Generazione”.

In particolare De Gasperi (che era stato fortemente sostenuto da “Per l’Azione”, la rivista dei giovani dc, già nel suo scontro del 1952 con Gedda e con la destra cattolica) dopo il suo ritorno alla segreteria della DC, aveva affermato la necessità di dare ai giovani “maggiore respiro nel partito, cosa che Gonella non aveva capito ne’ attuato”[7]. Anche per questo aveva voluto, già prima del Congresso di Napoli, l’elezione di Franco Maria Malfatti nella segreteria del partito; e sostenne anche con un contributo finanziario personale, fino alla morte, la rivista “Terza Generazione”, della quale leggeva e annotava ogni numero, non mancando di esprimere qualche riserva sul linguaggio troppo astruso e quasi da iniziati, ma apprezzando l’impegno di studio e di ricerca.

Era, in sostanza, come se, dopo l’esaurimento del centrismo, lo statista trentino avvertisse che un capitolo di storia si era chiuso; e che, ancor prima di ricercare un ricambio con nuove alleanza di governo, occorresse approfondire l’analisi della realtà e non chiudere la porte – di qui l’attenzione per i giovani – verso nuovi orizzonti. Anche per questo ero curioso di vedere su quali basi avrebbe impostato l’incontro al quale mi aveva invitato a Sella di Val Sugana. Tanto più fui perciò colpito dall’improvvisa notizia della morte. Mi parve come un segno premonitore: l’annuncio del venir meno di un punto di equilibrio rispetto alla segreteria Fanfani e quindi un’anticipazione delle crescenti difficoltà che avrebbero incontrato, per proseguire il loro impegno all’interno della Democrazia cristiana, quei giovani che – come me – erano impegnati su una linea di ricerca per un sostanziale rinnovamento – in collaborazione con altre forze e in particolare con socialisti e comunisti – dello Stato e della società italiana.

Il 20 agosto, all’indomani della morte di De Gasperi, mi telefonò Mariano Rumor – che in quanto vicesegretario aveva anche assunto la direzione del settimanale ufficiale del partito, “La Discussione” – per chiedermi di scrivere a tamburo battente un articolo di sintesi che tracciasse un bilancio del ruolo svolto dallo statista trentino sia come dirigente politico sia come responsabile del governo. Sarebbe stato, mi disse, l’articolo che avrebbe qualificato quel numero della rivista: ed infatti così fu, perché venne pubblicato al centro della pria pagina col titolo “Nella storia d’Italia”. In pratica, fu quello il primo e ultimo gesto di fiducia nei miei confronti compiuto dalla nuova segreteria dc.

Ho riletto nei giorni passati quel mio lontano articolo, ricavandone un’impressione abbastanza soddisfacente: soprattutto perché gli altri interventi – assai numerosi – raccolti in quel numero del settimanale avevano in generale un carattere puramente agiografico o insistevano tutt’al più sul ruolo che le politiche di De Gasperi svolto avevano come barriera contro la minaccia del comunismo. Invece nel mio articolo l’accento era posto, in particolare, sul contributo che lo statista trentino aveva dato, prima, alla costruzione della nuova Italia democratica e al varo della Costituzione, avviando verso questo sbocco, con l’alleanza tripartita, “l’ondata resistenziale; e poi, dopo la rottura del’47 e la vittoria del 18 aprile, “alla sopravvivenza e allo sviluppo della democrazia italiana”, opponendosi alla costituzione di un indistinto “blocco anticomunista” e impedendo così “che lo Stato italiano tornasse a configurarsi come Stato reazionario di classe”. Sottolineavo, anche, che l’ormai avviata “disgregazione delle forze di destra monarchica e fascista” confermava le solide fondamenta che la politica di De Gasperi aveva gettato nel paese, facendo della “formula dell’unita’ politica dei cattolici” una “formula di sostegno dell’ordinamento democratico”; e concludevo che solo difendendo e consolidando “il patrimonio democratico che “De Gasperi ha fissato nel nuovo ordinamento repubblicano dello Stato, solo salvaguardando gli istituti di libertà e democrazia e’ possibile avviare su una linea di organico sviluppo la società italiana”.

In sostanza, le argomentazioni che sviluppavo in quel primo articolo di bilancio dell’opera di De Gasperi pubblicato su “La discussione”, riprendevano l’analisi che il Movimento giovanile democristiano era venuto elaborando nella sua stagione politicamente più felice, ossia fra il ‘52 e il ‘54: quando la rivista “Per l’Azione” – sia pure con molte ingenuità giovanili – divenne in qualche modo l’erede, dopo il ritiro di Dossetti, delle speranze alimentate dal dossettismo e al tempo stesso fu il canale attraverso il quale circolò, nel mondo dei giovani dc, il pensiero di Franco Rodano, conosciuto tramite gli articoli che apparivano sulla rivista “Lo Spettatore italiano”. Intrecciando queste due linee di tendenza, “Per l’Azione” fu, soprattutto a cavallo del 1953, una rivista particolarmente vivace. In sostanza essa analizzava e sottolineava, sulla scia dell’insegnamento di Dossetti, la grave crisi morale e sociale del paese (e in particolare della cattolicità italiana), che richiedeva un profondo impegno di rinnovamento a partire dal piano culturale e ideale; al tempo stesso sosteneva con fermezza (e al riguardo acquistava rilievo l’influsso di Franco Rodano) che condizione indispensabile per quest’opera di rinnovamento era comunque la difesa risoluta delle istituzioni democratiche dall’insidia dell’integralismo e dell’eversione di destra. A tal fine occorreva, contro l’insidia che veniva dalla destra cattolica, appoggiare con decisione – questa era la linea della rivista – la politica di De Gasperi ed operare per riaprire un positivo confronto, nel comune obiettivo di evitare uno spostamento a destra, con socialisti e comunisti. Queste tesi furono esposte da “Per l’Azione” in articoli il cui titolo era di per sé illuminante, come “Alcide De Gasperi o dello Stato in Italia”, oppure “Difendere lo Stato per la rivoluzione”.

In effetti, sia pure con molta enfasi e qualche forzatura, si trattava di una linea interpretativa che coglieva aspetti essenziali (anche se non i soli, come hanno messo in luce le ricerche storiografiche più recenti) della politica di De Gasperi: ossia il suo impegno per ancorare i cattolici italiani, attraverso la formula dell’unita’ dei cattolici e la costituzione di un partito quale la Democrazia cristiana, a una scelta politica democratica, sia pure di stampo moderato. Era la linea che il leader dc aveva sostenuto già nel ‘44-’45, riuscendo a farla prevalere rispetto alle suggestioni che spingevano autorevoli ambienti vaticani a preferire un più indistinto blocco conservatore non caratterizzato esplicitamente per l’ispirazione cristiana (nel quale, ovviamente, avrebbero trovato spazio anche forze di destra nostalgiche di vecchi assetti politici e sociali); e che aveva poi difeso nei primi anni cinquanta, contro l’offensiva culminata nell’ “operazione Sturzo”. Sottolineare questi aspetti dell’opera di De Gasperi non significava, ovviamente, presentarlo – del tutto impropriamente – come un uomo di sinistra: ma piuttosto mettere in evidenza che il prevalere di un linea liberal-democratica, quale quella da lui sostenuta, non era affatto scontato, e che non era scontato, soprattutto, il rapporto di “convivenza conflittuale” che si era stabilita con la sinistra socialista e comunista e che costituiva l’asse portante del nuovo ordinamento democratico del Paese.

Nell’articolo sulla “Discussione” non affrontavo, invece, il problema di un giudizio sulla politica economica e sociale che aveva caratterizzato il ciclo degasperiano. Su questo terreno, infatti, il giudizio mio e della “sinistra di base”, come quello a suo tempo espresso da Dossetti, era del tutto negativo: ci sembrava infatti che il consenso necessario per il varo della Costituzione e per il consolidamento delle istituzioni democratiche fosse stato bilanciato da De Gasperi con un appoggio ai “poteri forti” della destra economica e quindi con una politica di sostanziale immobilismo sociale, solo qua e là attenuata da un più che timido riformismo. Ci parevano invece necessarie, per aprire al paese un nuovo sviluppo, riforme economiche e sociali ben più incisive. Era questo il punto che ci separava, del resto, anche dalla segreteria Fanfani: proprio su questi temi, oltre che quelli della pace e de riarmo, sarei presto giunto – assieme agli altri esponenti giovanili che condividevano queste valutazioni, come Magri, Baduel, Leidi, Boiardi, per citare solo i nomi più noti – a un duro scontro con il nuovo gruppo dirigente del partito, sino a uscire dalla DC già nel 1955, per dar vita all’esperienza della rivista “Il dibattito politico”.

In effetti, che De Gasperi fosse, sul terreno economico e sociale, orientato in senso moderato, e’ assolutamente fuori di dubbio. Ma è proprio vero che la sua politica si qualificasse su questo terreno essenzialmente come “immobilistica” , secondo il giudizio allora dato così dalla sinistra interna della DC come dalla sinistra socialista e comunista?

Se si considerano le cose a distanza, ormai, di diversi decenni, vi sono due aspetti che vanno, a me pare, nettamente distinti. Da un lato è indubbio che la scelta da lui compiuta nel ‘47 per il “quarto partito”(cioè per le forze dell’economia, il cui appoggio egli considerava indispensabile per la ricostruzione e lo sviluppo del paese) significò un’opzione per l’ordinamento capitalistico, confermata del resto anche della collocazione e dalle alleanze internazionale. Ma questa scelta significò affatto totale adesione a una politica liberistica e privatista: al contrario gli strumenti dell’intervento pubblico (anche col concorso delle idee e degli uomini della corrente dossettiana) furono ampiamente utilizzati da De Gasperi: sia per misure di temperamento delle contraddizioni sociali e di vera e propria riforma (la riforma agraria stralcio, l’azione degli enti riforma) sia per dare basi più robuste e autonome per lo sviluppo dell’economia italiana (l’ammodernamento dell’industria siderurgica, la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, il ruolo svolto per la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, l’appoggio dato a Mattei per il rilancio dell’AGIP, la concessione del monopolio per la ricerca del gas in Val Padana, l’istituzione dell’ENI).

In sostanza De Gasperi fu tutt’altro che un rigido liberista[8] e un privatista: e tanto più dopo i guasti prodotti, negli ultimi anni, dall’adozione di una politica di sfrenato liberismo e d’indiscriminate privatizzazioni (guasti che oggi si pagano col preoccupante regresso economico dell’Italia) è giusto riconoscere che la politica di intervento pubblico nell’economia praticata dai governi presieduti dallo statista trentino ebbe un ruolo di rilievo nell’ammodernamento delle strutture economiche del paese e nell’avvio di quel processo di ristrutturazione e di sviluppo che già nella seconda metà degli anni cinquanta avrebbe portato al cosiddetto “miracolo italiano”. Certo, quella politica ebbe un chiaro segno di classe, a favore dell’impresa e della borghesia imprenditrice, e comportò parecchi costi, almeno per tutto il decennio, a carico dei ceti popolari, soprattutto del Sud. Fu, infatti, l’epoca della grande emigrazione, verso il Nord e verso l’estero. Ma la sinistra commise un grave errore di valutazione (dovuto a un limite ideologico che il marxismo novecentesco non ha mai superato: ossia a convinzione che il capitalismo, per i suoi vizi intrinseci, non avesse la possibilità di promuovere il pieno sviluppo delle forze produttive) interpretando quel che stava accadendo come restaurazione e immobilismo e non vedendo la dinamica che, invece, si era posta in atto. Di qui il brusco risveglio, dopo il 1955, di fronte alle sconfitte sindacali nelle fabbriche determinate, il larga misura, dai processi di ristrutturazione o di riorganizzazione produttiva.

Ma questo è un discorso che va molto al di là di quel che qui mi proponevo. Ossia sottolineare che l’intervento pubblico in campo sociale ed economico - sia a fini di temperamento dei conflitti sociali sia allo scopo, soprattutto, di creare le condizioni per lo sviluppo – fu una caratteristica essenziale della politica dei governi presieduti da De Gasperi. Anche questo fatto differenzia sostanzialmente quella politica da quelle, del tutto regressiva, posta in atto dall’attuale governo di centro-destra.

[1] Alcune delle informazioni, particolarmente quelle di carattere più strettamente biografiche, contenute in questo scritto, sono state parzialmente anticipate, in forma più succinta, in due articoli pubblicati sul Manifesto del 12 maggio e sull’Unità del 18 agosto scorsi.

[2] Va ricordato che Gedda era allora particolarmente forte non solo perché disponeva di autorevoli appoggi in Vaticano (in certa misura dello stesso Pontefice), ma perché aveva guidato i Comitati Civici, che avevano avuto un peso determinante nella campagna elettorale del 18 aprile ’48 e perché era Presidente dell’Azione Cattolica, che aveva allora molti più iscritti della democrazia cristiana.

[3] Il ritorno d De Gasperi alla segreteria della DC, in sostituzione di Gonella, avvenne nel Consiglio nazionale del 26-29 settembre 1953. E’ da notare che in quell’occasione, mentre Gonella espresse un pieno appoggio a Pella, De Gasperi manifestò non poche riserve verso le scelte sia di politica interna sia di politica internazionale (la questione di Trieste, in particolare) del nuovo Presidente del Consiglio.

[4] In occasione di quella crisi Dossetti, che era vicesegretario del partito, cercò di forzare la situazione chiedendo una svolta nella politica economica del governo, e a tale scopo la sostituzione di Pella, che era deciso fautore di una politica di stampo liberista, con un ministro della corrente di “Cronache Sociale”. Ma mentre questo scontro politico era in corso, Fanfani avviò una trattativa riservata con De Gasperi, in base alla quale entrarono ne governo sia lui sia Vanoni, ma restava anche Pella e non veniva data alcuna seria garanzia di nuove scelte in materia economica. Dossetti vide in quella vicenda una conferma della convinzione, che era in lui maturata, circa l’impossibilità di ottenere dalla DC una politica più avanzata e riformatrice. Ciò lo indusse ad accelerare la decisione del ritiro dalla politica, che fu da lui annunciato in due convegni tenuti al castello di Rossena, sull’Appennino emiliano, fra l’agosto e il settembre 1951.

[5] Palmiro Togliatti – Per un giudizio equanime sull’opera di Alcide De Gasperi in “Rinascita” num. 10, 11, 12 del 1955 e num. 3, 5, 6 del 1956. Questo lungo saggio di Togliatti non riscosse particolare interesse né all’epoca né dopo. Ciò dipese probabilmente per due fattori: per il suo carattere eminentemente dottrinario, poco accattivante; e perché ormai venivano alla ribalta altri avvenimenti. Fra l’altro è degli inizi del ’56 il famoso rapporto Krusciov all’VIII Congresso del PCUS sugli errori e sui crimini di Stalin. Riletto a distanza di quasi 50 anni quel saggio presenta invece notevole interesse. Non solo per l’analisi minuziosa che Togliatti compie sia degli scritti di De Gasperi intorno al pensiero sociale cattolico sia delle sue fonti. Ma anche per le valutazioni più strettamente politiche. Al riguardo, pur esprimendo un giudizio nettamente negativo sull’anticomunismo di De Gasperi e sulle conseguenze antipopolari della sua politica (fra i due uomini, fra l’altro, c’era un’evidente antipatia) Togliatti sottolinea a più riprese il sincero antifascismo del leader democristiano: e gli dà atto, anche, di aver dimostrato “di voler restar fedele alle regole democratiche” respingendo in più di un’occasione la proposta di misure eccezionali anticomuniste. Più pesante è il giudizio nella politica economica di De Gasperi: accettando la logica dei due tempi (prima il risanamento e poi le riforme) avrebbe in sostanza giustificato e teorizzato una scelta di immobilismo.

[6]Racconta infatti Corghi “De Gasperi mi aveva invitato a costituire col più giovane consigliere Giuseppe Chiarante e col rappresentante della Valle d’Aosta il seggio elettorale per l’elezione dei membri della Direzione. Mentre si scrutinavano le schede …. De Gasperi dopo avermi fatto notare la giovane età di Chiarante (che portava una maglietta estiva distinguendosi nettamente anche per l’abbigliamento dagli altri consiglieri) mi chiede: Che ne pensi se incontrassi questi giovani consiglieri? … Vedi penso sia cosa utile che il vecchio presidente racconti la sua storia, ma non qui, a Roma: a Sella sotto i pini. Bisogna parlare insieme, perché la storia continua, giovani e vecchi come me, insieme”. Più sinteticamente, la sorpresa di De Gasperi perché “parecchi consiglieri, giovanissimi, gli erano sconosciuti” e la sua decisione di conoscerli individualmente dopo un periodo di riposo estivo, sono ricordati anche da Giulio Andreotti nel libro “De Gasperi e il suo tempo”, edito da Mondatori nel 1974.

[7] Corrado Corghi, ibidem

[8] Anche Togliatti, nel saggio già citato, sottolinea che a differenza di Sturzo, che rientrava dall’esilio negli Stati Uniti riportando “dal nuovo continente un orientamento nettamente liberistico e di piena fiducia nel regime capitalistico”, De Gasperi si presenta sulla scena politica, nel ’44-45, con posizioni che non escludono “misure di socializzazione”. Più limpida e più avanzata gli pare però la posizione di Dossetti e del gruppo di “Cronache Sociali”.

Una biografia di De Gasperi

Ovunque venga sepolto al momento del trapasso, verrà il giorno in cui i suoi resti saranno trasferiti da un governo palestinese libero nei luoghi sacri di Gerusalemme. Yasser Arafat fa parte della generazione dei grandi leader sorti dopo la seconda guerra mondiale.

La statura di un leader non è determinata semplicemente dalle dimensioni dei risultati raggiunti, ma anche dalle dimensioni degli ostacoli che ha dovuto superare. Sotto questo aspetto, Arafat non ha rivali al mondo: nessun altro leader della nostra generazione è stato chiamato ad affrontare delle prove così crudeli, e a lottare contro tali avversità.

Quando apparve sul palcoscenico della storia, alla fine degli anni `50, il suo popolo era prossimo ad essere dimenticato. Il nome Palestina era stato sradicato dalla carta geografica. Israele, la Giordania e l'Egitto si erano divisi il paese tra di loro. Il mondo aveva deciso che non c'era nessuna entità nazionale palestinese, che il popolo palestinese aveva cessato di esistere come le nazioni degli indiani d'America - ammesso che fosse esistito davvero.

La palla tra i regimi arabi

All'interno del mondo arabo la «causa palestinese» veniva ancora citata, ma serviva solo come palla da rimpallare tra i regimi arabi. Ciascuno di essi cercava di appropriarsene per i suoi interessi egoistici soffocando brutalmente, allo stesso tempo, qualsiasi iniziativa palestinese indipendente. Quasi tutti i palestinesi vivevano sotto delle dittature e, nella maggior parte dei casi, in circostanze umilianti.

Quando Yasser Arafat, all'epoca un giovane ingegnere in Kuwait, fondò il «Movimento per la liberazione della Palestina» (le cui iniziali alla rovescia formavano il nome Fatah), egli intendeva prima di tutto la liberazione dai vari leader arabi, così da mettere in grado il popolo palestinese di parlare e agire autonomamente. Questa fu la prima rivoluzione dell'uomo che, nel corso della sua vita, ha realizzato almeno tre grandi rivoluzioni.

Era una rivoluzione pericolosa. Fatah non aveva una base indipendente. Doveva funzionare nei paesi arabi, spesso subendo persecuzioni spietate. Un giorno, ad esempio, l'intera leadership del movimento, compreso Arafat, fu gettata in prigione dal dittatore siriano del giorno, dopo avere disobbedito ai suoi ordini. Solo Umm Nidal, la moglie di Abu Nidal, restò libera e così fu lei ad assumere il comando dei combattenti. Quegli anni ebbero una influenza formativa sullo stile caratteristico di Arafat. Egli doveva destreggiarsi tra i leader arabi, metterli l'uno contro l'altro, ricorrere a trucchi, mezze verità e discorsi ambigui, sfuggire alle trappole e aggirare gli ostacoli. Diventò un campione mondiale di manipolazione. Così salvò il movimento di liberazione da molti pericoli nei giorni della sua debolezza, finché esso non poté diventare una forza potente.

L'emergente forza palestinese indipendente preoccupò Gamal Abd-al-Nasser, il capo egiziano che all'epoca era l'eroe dell'intero mondo arabo. Per soffocarla in tempo, egli creò l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e mise alla sua testa un mercenario politico palestinese, Ahmed Shukeiri. Ma dopo la vergognosa disfatta degli eserciti arabi nel 1967 e l'elettrizzante vittoria dei combattenti di Fatah contro l'esercito israeliano nella battaglia di Karameh (marzo 1968), Fatah prese il controllo dell'Olp e Arafat diventò il leader indiscusso dell'intera lotta palestinese.

A metà degli anni `60, Yasser Arafat cominciò la sua seconda rivoluzione: la lotta armata contro Israele. La pretesa era quasi ridicola: una manciata di guerriglieri male armati, non molto efficienti in questo, contro la potenza dell'esercito israeliano. E non in un paese di giungle impenetrabili e catene montuose, ma in un fazzoletto di terra piccolo, piatto, densamente popolato. Ma questa lotta impose la causa palestinese all'agenda mondiale. Va detto francamente: senza gli attacchi omicidi, il mondo non avrebbe prestato attenzione alla domanda di libertà dei palestinesi.

Il risultato fu che l'Olp fu riconosciuto come il «solo rappresentante del popolo palestinese», e trent'anni fa Yasser Arafat fu invitato a tenere il suo storico discorso all'assemblea generale dell'Onu: «in una mano ho un fucile, nell'altra un ramo di ulivo».

Per Arafat, la lotta armata era semplicemente un mezzo, nient'altro. Non un'ideologia, non un fine in se stesso. Gli era chiaro che questo strumento avrebbe rinvigorito il popolo palestinese e conquistato il riconoscimento del mondo, ma non avrebbe sconfitto Israele.

La guerra dello Yom Kippur dell'ottobre 1973 causò un'altra svolta del suo atteggiamento. Egli vide come gli eserciti dell'Egitto e della Siria, dopo una brillante vittoria iniziale ottenuta grazie alla sorpresa, erano stati fermati e, alla fine, sconfitti dall'esercito israeliano. Questo lo convinse infine che non era possibile avere la meglio su Israele con la forza delle armi.

Perciò, immediatamente dopo quella guerra, Arafat cominciò la sua terza rivoluzione. Decise che l'Olp doveva arrivare a un accordo con Israele e accontentarsi di uno stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Due passi avanti, uno indietro

Questo lo mise di fronte a una sfida storica: convincere il popolo palestinese a rinunciare alla sua posizione storica di negazione della legittimità dello stato di Israele, e ad accontentarsi di un mero 22% del territorio della Palestina anteriore al 1948. Senza che fosse dichiarato esplicitamente, era chiaro che questo comportava anche la rinuncia al ritorno illimitato dei profughi nel territorio di Israele.

Arafat cominciò a lavorare a questo obbiettivo nel suo modo caratteristico, con tenacia, pazienza e stratagemmi, due passi avanti, uno indietro. Quanto immensa sia stata questa rivoluzione, lo si può vedere da un libro pubblicato dall'Olp nel 1970 a Beirut, che attaccava violentemente la soluzione con due stati (chiamata «il piano Avnery», perché io ero all'epoca il suo principale promotore.)

Giustizia storica vuole che si affermi chiaramente che fu Arafat a pensare l'accordo di Oslo, in un'epoca in cui Yitzhak Rabin e Simon Peres puntavano ancora sull'irrealizzabile «opzione giordana», cioè l'idea che si potesse ignorare il popolo palestinese e restituire la Cisgiordania alla Giordania. Dei tre premi Nobel per la pace, Arafat è quello che lo ha meritato di più.

A partire dal 1974, sono stato testimone dell'immenso sforzo messo in campo da Arafat per far accettare al suo popolo il suo nuovo approccio. Passo dopo passo, esso fu adottato al Consiglio nazionale palestinese, il parlamento in esilio, dapprima con una risoluzione che stabiliva di istituire una autorità palestinese «in ogni parte della Palestina liberata da Israele», e, nel 1988, con la decisione di istituire uno stato palestinese vicino a Israele.

La tragedia di Arafat (e nostra) è stata che ogni qual volta si avvicinava a una soluzione di pace, i governi israeliani si tiravano indietro. I termini minimi di Arafat erano chiari e sono rimasti immodificati dal 1974 in poi: uno stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza; la sovranità palestinese su Gerusalemme Est (compreso il Monte del Tempio ma escluso il Muro Occidentale e il quartiere ebraico); il ripristino del confine anteriore al 1967 con la possibilità di scambi limitati ed equivalenti di territorio; l'evacuazione di tutti gli insediamenti israeliani nel territorio palestinese e la soluzione del problema dei profughi d'accordo con Israele. Per i palestinesi questo è assolutamente il minimo, non possono fare rinunce ancora maggiori.

Il partner Yitzhak Rabin

Forse Yitzhak Rabin si avvicinò a questa soluzione verso la fine della sua vita, quando dichiarò in tv «Arafat è il mio partner». Tutti i suoi successori l'hanno rifiutata. Essi non sono stati disposti a rinunciare agli insediamenti ma, al contrario, li hanno allargati incessantemente. Hanno resistito a ogni tentativo di fissare un confine definitivo, poiché il loro tipo di sionismo richiede un'espansione perpetua.

Perciò essi vedevano in Arafat un pericoloso nemico e hanno cercato di distruggerlo con tutti i mezzi, ivi compresa una campagna di demonizzazione senza precedenti. Così Golda Meir («non esiste un popolo palestinese»). Così Menachem Begin («un animale con due zampe, l'uomo con i peli in faccia, l'Hitler palestinese», così Binyamin Netanyahu, così Ehud Barak («gli ho strappato la maschera dalla faccia»), così Ariel Sharon, che tentò di ucciderlo a Beirut e da allora ci ha sempre riprovato.

Nell'ultimo mezzo secolo, nessun combattente per la libertà si è trovato di fronte degli ostacoli così immensi come i suoi. Egli non ha dovuto confrontarsi con un odioso potere coloniale o una invisa minoranza razzista, ma con uno stato nato dopo l'Olocausto e sostenuto dalla simpatia e dai sensi di colpa del mondo. Da tutti i punti di vista militari, economici e tecnologici, la società israeliana è molto più forte di quella palestinese. Quando gli è stato chiesto di istituire l'Autorità palestinese, Arafat non ha preso il comando di uno stato esistente e funzionante, come Nelson Mandela o Fidel Castro, ma di pezzi di terra scollegati e impoveriti, le cui infrastrutture erano state distrutte da decenni di occupazione. Egli non ha preso il comando su una popolazione che vivesse sulla sua terra, ma su un popolo composto per una metà dai profughi dispersi in molti paesi e per l'altra metà da una società fratturata lungo direttrici politiche, economiche e religiose. Tutto questo, mentre la battaglia per la liberazione va avanti.

Avere tenuto insieme questo pacchetto e averlo guidato verso la sua destinazione in queste condizioni, passo dopo passo, è il risultato storico di Yasser Arafat.

«Lui è andato avanti»

I grandi uomini hanno grandi colpe. Una colpa di Arafat è la sua inclinazione a prendere da solo tutte le decisioni, specialmente da quando tutti i suoi collaboratori più stretti sono stati uccisi. Come ha detto uno dei suoi critici più severi: «Non è colpa sua. Siamo noi da biasimare. Per decenni è stata nostra abitudine scappare da tutte le decisioni difficili, che richiedevano coraggio e audacia. Dicevamo sempre: facciamo decidere Arafat!». E lui decideva. Come un vero leader, è andato avanti e il suo popolo lo ha seguito. Così ha affrontato i leader arabi, così ha iniziato la lotta armata, così ha teso la mano a Israele. Per il suo coraggio si è guadagnato la fiducia, l'ammirazione e l'amore del suo popolo, al di là delle critiche.

Se Arafat dovesse morire, Israele perderà un grande nemico, che sarebbe potuto diventare un grande partner e alleato. Con il passare degli anni, la sua statura crescerà sempre di più nella memoria storica. Per quanto mi riguarda: lo rispettavo come patriota palestinese, lo ammiravo per il suo coraggio, capivo le costrizioni con cui lavorava, vedevo in lui il partner per costruire un nuovo futuro per i nostri due popoli. Ero suo amico.

Come dice Amleto di suo padre: «Egli era un uomo, preso tutto insieme, di cui non vedrò un'altra volta l'uguale».

Traduzione di Marina Impallomeni

Chi è Uri Avnery

Lasciando l'ultima delle sue sette vite così, in punta dei piedi e per di più in esilio, Yasser Arafat ha fatto ancora una volta la cosa giusta per il popolo palestinese. La sua presenza nella prigione della Muqata a Ramallah aveva negli ultimi anni rappresentato, che lui lo volesse o no, un ostacolo per ogni tentativo di pace con Israele. E soprattutto aveva impedito l'emergere di una nuova classe dirigente palestinese: finché il raìs era ancora vivo, l'unico vero capo era lui. Gli uomini del suo entourage non nascondevano il disagio per questa situazione, ma poco potevano fare. Per il suo popolo, anche per i palestinesi schierati con leader e organizzazioni diverse dalle sue, lui era un'icona della causa tanto potente che definirlo mr. Palestine, come facevano gli anglosassoni, appariva quasi inadeguato al ruolo quasi sacrale che in sessanta dei suoi settantacinque anni di vita era riuscito a conquistarsi fra la sua gente e fra la gente dei paesi arabi, compresi quelli i cui governi non lo amavano, anzi lo temevano e lo pagavano senza troppe chiacchiere per tenerlo il più possibile lontano.

Arafat, non dimentichiamolo, è stato l'unico leader laico capace di conquistare uno Stato per il suo popolo: non sembra giusto che se ne vada senza avere avuto il bene di vederlo nascere compiutamente. E tuttavia se lo Stato di Palestina nascerà davvero, questo si dovrà in parte al fatto che lui non ci sia più, che la sua bandiera sia stata ammainata per sempre. Nel 2002, di fronte all'inviato del Washington Post, aveva recitato compunto la sua preghiera: «Per favore, Signore Dio, lasciami l'onore di essere uno dei martiri per la santa Gerusalemme». Allah non lo ha accontentato. Ma è giusto che il suo popolo lo consideri comunque un martire della causa palestinese perché in effetti questo è sempre stato, nel bene come nel male.

Non è un caso se il suo arcinemico israeliano, Sharon, non vuole che venga sepolto a Gerusalemme. Durante una polemica di molti anni fa, a chi sosteneva che egli era nato il 24 agosto del 1929 al Cairo, lui replicava con estremo vigore di essere nato proprio quel giorno lì, ma a Gerusalemme. Tutto ciò aveva molto senso per lui perché durante tutta la sua vita ha gridato che Gerusalemme doveva essere la capitale dello Stato palestinese, magari una capitale in condominio con gli israeliani, ma comunque la capitale. «Chiunque rinuncia ad un solo metro di Gerusalemme non è né un arabo né un musulmano», aveva tuonato ancora nel 1993, aumentando l'irritazione di Sharon e di tanti israeliani nei suoi confronti.

Dove che sia nato, Arafat viene -questo è accertato- da una cospicua famiglia di commercianti di Gerusalemme. A quattro anni perde la madre, a 15 il padre lo manda a studiare nel cuore della cultura araba, cioè al Cairo. Nella capitale egiziana a quei tempi emergevano molti fermenti, da quelli panarabi che in seguito Gamal Abdel Nasser avrebbe predicato con successo, ma anche dal nascente integralismo religioso incarnato allora dai «Fratelli musulmani». Arafat assorbe tutto, ma il suo pensiero dominante va alla Palestina. Dopo la nascita di Israele nel 1948, la sua famiglia aveva dovuto trovare rifugio a Gaza. Lui studia ingegneria (riuscirà anche a laurearsi) ma quando nel 1956 scoppia la crisi di Suez fa parte con le brigate palestinesi dell'esercito egiziano, col grado di sottotenente. Nello stesso anno fonda al Fatah, l'organizzazione che resterà «sua» per i molti anni a venire, comincia a svolgere azione clandestina, gli egiziani, per niente grati dei suoi trascorsi militari, lo mettono in galera. Ci resta poco, poi si trasferisce in Kuwait, dove trova il fantasma dell'Olp, un'organizzazione nelle mani dei paesi arabi e di vecchi militanti ormai a riposo. Lui e altri capi palestinesi più radicali di lui come Mayef Hawatmeh e George Habbash partecipano alla guerra dei sei giorni. Quella guerra fu persa, ma la sconfitta permise ad Abu Ammar -così si chiamava allora Arafat- e agli altri duri di prendersi l'Olp. Così Arafat ne diventa presidente nel '69, una carica che manterrà continuamente nel corso degli anni, nonostante il fatto che le sue scelte siano state spesso contestate, anche vivacemente, da una parte dei suoi seguaci. Lo hanno rimproverato i politici più maturi per l'adesione al terrorismo che lo accomuna agli altri due «giovani leoni».

Dal ‘67 in poi sono anni brutti. Israele occupa la Cigiordania palestinese e la striscia di Gaza, lasciando intendere che mai restituirà quei territori. Il ricorso al mitra, ai sequestri, ai dirottamenti aerei sembra a molti palestinesi inevitabile. Probabilmente per non venire scavalcato dalla sua sinistra Abu Ammar si associa a quella politica, ma non la condivide fino in fondo. Il passato terrorista gli resterà comunque incollato addosso per tutta la vita, e vanamente lui cercherà di scrollarselo dalle spalle. Nel 1970 proclama ancora una volta al Washington Post: «L'obbiettivo della nostra lotta è la fine di Israele, e su questo non possono esserci compromessi». Questa linea gli lascia aperti i rapporti con i paesi arabi, che nel 1974 a Rabat definiscono l'Olp come «unico rappresentante del popolo palestinese» ma lo fa apparire sotto una luce sinistra in Occidente. Arafat lo sa benissimo e lavora per portare a piccoli passi la sua organizzazione lontano da una tale sciagurata deriva. Pochi gli credono ma alla fine lui otterrà dalla sua gente che la clausola statutaria dell'Olp che prevedeva come prima cosa l'eliminazione dello stato ebraico venga ritirata e sostituita da un implicito riconoscimento di Israele. Da lì spiccherà il volo per un negoziato duro che passerà da Madrid e da Oslo per approdare a Washington nel '94 quando stringerà la mano di Yitzhak Rabin e di Shimon Peres, accomunati nello stesso anno dal Nobel per la Pace.

Ma mentre a livello politico si svolgono negoziati e intrallazzi, Arafat assume in qualche modo l'immagine del pastore dei suoi connazionali. Durante il famoso settembre nero del 1970, quando re Hussein di Giordania decide di chiudere i conti con gli esuli palestinesi divenuti troppo ingombranti prendendoli a cannonate, Arafat è con loro, fugge da Amman vestito da donna. La dirigenza dell'Olp si trasferisce temporaneamente a Tunisi. Implacabili come sempre i caccia israeliani andranno a bombardare anche quegli edifici, nella speranza di colpire in primo luogo Arafat. Ma l'uomo ha veramente sette vite, sopravvive, si trasferisce con la sua gente in Libano, dove i profughi palestinesi mettono in crisi il precario equilibrio politico del paese e vengono ricompensati nel 1976 col massacro di Tel at Zatar dove i falangisti (il braccio militare dei cristiani maroniti), con la complicità dei falsi amici siriani e perfino del gruppo dissidente palestinese di As Saiqa, sparano senza ritegno sui profughi, donne e bambini compresi. Arafat scampa a questo massacro come era scampato nel '73 ad una bomba esplosa nel suo ufficio che uccise tre dei suoi principali collaboratori. Quando i palestinesi cominciano ad allargarsi troppo nel Libano (e Arafat non li dissuade, anzi) Ariel Sharon trova nel 1982 il giusto pretesto per scavalcare le frontiere libanesi arrivando fino a Beirut ed oltre e macchiandosi, ancora con la complicità dei falangisti, degli orrendi massacri di Sabra e Shatila. Ma Sharon cerca lui, l'uomo diventato per il vecchio generale un'idea fissa. Si racconta che il 30 agosto uno dei tiratori scelti israeliani riesca ad inquadrare Arafat nel suo mirino. Sharon, chissà poi perché, non dà l'ordine di fare fuoco.

Certamente Allah, pur non essendo Arafat uno scaccino, ha per lui una certa simpatia. Come si spiega altrimenti che due attentati contro di lui falliscano, poi gli succeda di cappottare in macchina sulla via di Bagdad uscendone senza un graffio, sia addirittura l'unico superstite di un incidente che carbonizza il suo aereo. E quando nel 1994 ritorna in Palestina come capo dell'Autorità Nazionale palestinese, la sua vita si fa sempre più difficile. Ai tradizionali avversari come Mayef Hawatmeh o George Habbash si aggiungono i gruppi dissidenti di Abu Nidal e Ahmed Jibril, entrambi finanziati dalla Siria che non vede di buon occhio la nascita di uno stato palestinese organizzato democraticamente ai suoi confini. Poi ci sono gli integralisti di Hamas, coi quali Arafat riesce però a mantenere aperto un canale di comunicazione, e gli altri gruppi jihadisti che si votano al martirio kamikaze. Abu Ammar da una parte li tira per la giacchetta, dall'altra sfrutta politicamente con gli israeliani il terrore che essi provocano e del quale, va detto, lui non è responsabile. Di altre cose sono responsabili lui in prima persona e tutto il suo entourage. I soldi che continuano ad arrivare come sempre dai regimi arabi sotto botta vengono amministrati in maniera clientelare, molti militanti diventano imprenditori e affaristi, il raìs lascia fare convinto che tutto questo non conti poi molto. E invece conta soprattutto a Gaza, dove Hamas, oltre che spedire kamikaze in Israele, intraprende tutto un lavoro di bonifica sociale e di solidarietà che riluce in contrasto con le miserie dei territori amministrati esclusivamente dall'Autorità Nazionale.

E poi non mancano gli errori politici più evidenti, come l'appoggio dato a Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo, il Desert storm, quando contro il tiranno di Baghdad sono schierati non solo gli Stati Uniti ma anche qualcuno fra gli interlocutori privilegiati della diplomazia di Arafat come la Comunità europea e molti stati moderati. Il presidente palestinese non è contento dell'iniziativa irachena di invadere il Kuwait, visto che la violazione della sovranità territoriale è proprio quello di cui i dirigenti palestinesi accusano da sempre Israele,in più sa di essere inviso a Saddam al quale si deve fra l'altro l'uccisione di Abu Iyad, uno dei suoi principali collaboratori. Ma su ogni ragionamento politico prevale in lui il vecchio capopopolo, i campi profughi palestinesi sono pieni di ritratti di Saddam Hussein, le «sue» masse stanno tutte con l'uomo di Baghdad e Arafat non riesce a tirarsi indietro. Tutto questo gli costerà in termini di credibilità e di autorevolezza, ma Allah gli vuole bene, l'errore viene dimenticato presto, soffocato dai clamori dell'Intifada che Arafat sponsorizza quasi in pieno.

Come a riscattare il suo errore, un anno dopo Desert storm sposa una palestinese cristiana, Suha Tawil, e ne fa nascere la figlia a Parigi, fra i brontolii degli ulema. Gli stessi brontolii che hanno accompagnato la sua decisione di curarsi all'ospedale di Percy, dove è morto lontano dalla sua Palestina. E dopo aver vissuto sette vite spera che almeno gli consentano di riposare per sempre in un fazzoletto di terra piccolo, quanto basta a venire coperto dalla sua kefiah, un simbolo che per più di mezzo secolo ha saputo portare sempre con dignità e perfino con una qualche ironìa.

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