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RICORDO

Aldo Natoli, un comunista per amico

di Rossana Rossanda

È sulla fine degli anni cinquanta che ho conosciuto Aldo Natoli. Lui era Roma, io Milano, lui il quadro più rilevante di quella federazione, io un quadretto della federazione milanese, lui all'ultimo processo del regime nel 1936, quando io ero ancora al ginnasio, lui deputato e consigliere comunale in Campidoglio che aveva assestato, assieme agli ex azionisti romani, il primo duro colpo alla speculazione con il famoso «Capitale corrotta, nazione infetta», io che facevo il mio apprendistato a Palazzo Marino, lui da tempo, forse da sempre, nel Comitato centrale del Pci ed io appena entrata. Là ci eravamo, se si può dir così, «annusati», a qualche anno dal 1956, rientrata ogni speranza in un cambiamento dell'Urss, ma il nostro partito in crescita e in eccitazione. L'accento comune, che aveva permesso di ascoltarci e riconoscerci era: più avanti, più a sinistra - una sinistra che non aveva niente a che vedere con lo stalinismo che, una volta per sempre e senza dovercene mai pentire, avevamo capito essere di destra.

Aldo era un bellissimo uomo, agile ed elegante, di quelli che vestono sempre perfettamente e allo stesso modo sia che entrino alla Camera o in una sezione della Garbatella, era un medico ma faceva il militante comunista a tempo pieno, parlava tedesco e aveva in alcuni eminenti scienziati antifascisti tedeschi uno dei riferimenti del cuore, suo fratello era il francesista Glauco Natoli. Fui dunque lusingata quando mi invitò, un giorno del Cc, a colazione. Ricordo una giornata di sole, una caffetteria in via Veneto, l'immediato intendersi nel giudizio, in quel che ci premeva e avremmo voluto. Al momento di pagare, l'inappuntabile gentiluomo cerca inutilmente il portafoglio, l'aveva lasciato in un'altra giacca e il suo, per me assai meridionale, imbarazzo, ci mise in allegria. Eravamo diventati amici e lo siamo rimasti sempre.

Compagni e amici. Nella stupidità attuale neppure si immagina che cosa è stato il legame fra comunisti allora, un rapporto totale e riservato, un vedersi camminare assieme, inciampare e raddrizzarsi assieme, sorridersi da lontano. Non credo di aver messo piede in casa sua, né lui nelle mie due stanze a Roma, quando le ebbi. Una volta mi mostrò un disegno di Bruna, e così venni sapere che aveva anche una figlia. Senza di lui sapevo di Claudio. Oggi so che pensare della distinzione fra pubblico e privato, ma so anche che allora ci fu un modo di essere pubblico che non poteva essere più interiore e interiormente condiviso.

Una differenza c'era fra noi sul rispettivo polo di interesse: Natoli era una figura carismatica per il popolo di Roma, lo ascoltavano dovunque, conosceva tutti, sapeva parlare allo stesso modo, senza fronzoli né lunghezze, in piazza e in Parlamento, ma la sua testa non stava a Roma, scrutava nelle vicende del comunismo internazionale. Io ero stata tutta dentro Milano, nella vicenda d'una classe operaia che il partito elogiava ma non prediligeva, mi volevano abbastanza bene ma carisma zero, la testa interamente in Italia sul presente.

Aldo aveva sentito la sfuriata di Togliatti su Amendola quando questi, per la prima e ultima volta nella sua vita, aveva definito un peso il rapporto con l'Urss. Io pensavo alla Breda e ai pendolari dalle cinque alle otto verso l'entroterra milanese. Ci pareva, e tutto sommato era, lo stesso identico problema.

Nel '58, credo, Togliatti ribaltò la molto ortodossa redazione di Rinascita, sua rivista personale, immettendovi dei bizzarri come Natoli, Trentin, altri giovani e me. In quella riunione mensile, cui non mancava mai, si discorreva con libertà - per libertà intendevamo allora, ma è insolito oggi, suonare ognuno sullo stesso filo musicale, che tutti interpretavamo e nessuno avrebbe spezzato (forse come nel jazz dei tempi gloriosi). Nei momenti migliori degli anni Sessanta fu così, dopo la morte di Togliatti la sfida divenne conflitto. Io dirigevo gli intellettuali, nel senso che mettevo fine alle direttive care ai Sereni e agli Alicata, Ingrao e Reichlin aprivano un pericoloso dibattito sul centrosinistra imminente, i colpi che ci menavamo non erano leggeri.

Nel 1966 cademmo tutti, Ingrao con onore, Natoli confermato come figura nobile ma periferica, Pintor fuori da l'Unità, Castellina fuori dai giovani, Magri fuori dal lavoro di massa, io fuori del tutto da qualsiasi incarico. Gli ingraiani furono definiti dall'occhiuta direzione del Pci prima che da se stessi. Nel 1968, studenti e invasione della Cecoslovacchia ci trovano tutti dalla stessa parte. Al XII Congresso votammo tutti, nelle rispettive istanze, contro le tesi della direzione. Natoli, Pintor ed io fummo, per così dire, distillati fra coloro che restavano ancora nel Cc, pochi ma rispettati, rispettati ma pochi. E là ci infilarono come farfalle gli obiettivi dei fotografi ammessi a riprendere i tre che il Cc radiava. Per aver fatto e mantenuto fermo il manifesto rivista. A Aldo Natoli, che parlò per ultimo dopo tre lunghi dibattiti, non fu perdonato che dicesse: non occorre una tessera per essere comunisti.

Del manifesto abbiamo parlato altre volte. A guardar bene, si era coagulato in tutti gli anni Sessanta. Il mensile che decidemmo di fare, andando ogni giorno in piazza del Grillo, fu un bel lavoro. Il suo successo fu strepitoso. Aldo, che era tornato dal Vietnam e vi aveva molti compagni, scrisse soprattutto sul comunismo internazionale e avrebbe fatto, assieme a Lisa Foa, tre pezzi sulla Cina di Mao che, a mia conoscenza, sono rimasti senza uguali in Italia. Non fu entusiasta quando si passò al quotidiano, opera soprattutto di Pintor, ma vi lavorò come sempre, assieme a Lisa Foa, Luca Trevisani e me e con successo. Su due questioni puntò i piedi, sull'andare con la nostra lista alle elezioni nel 1972 e sul diventare presto un partito. Ero dello stesso avviso, ma più accomodante di lui. Lui era più anziano, più provato, più scettico sui tempi e forse sul fine. Fece la campagna elettorale ma non andò oltre. Oggi, con gli occhi del femminismo che allora non conoscevo, penso che i tre uomini, Magri, Pintor e Natoli avevano idee più simili di quanto permettessero i loro caratteri. Sono le donne che fanno precedere al carattere le idee. Nessuno fece clamore, quando prese le sue decisioni, non ci fu un giorno in cui si consumarono adesioni e rotture. Aldo restò un amico ma sempre più appartato, con un suo giudizio ben fermo, che noi più giovani non volevamo ammettere: il comunismo avrebbe richiesto tempi più lunghi. Non so se immaginasse con quanta disinvoltura i cugini di Amendola e i figli di Berlinguer avrebbero fatto a pezzi il partito dei comunisti.

Studiava e scriveva. All'Istituto Gramsci scoprì il carteggio, intonso, fra Antonio Gramsci e Tatiana Schucht, la compagna russa cui alcuni, forse l'esecutivo dell'Ic, affidò la cura del prigioniero ormai nel carcere di Turi. Tatiana era sorella di Julia, sposata da Gramsci a Mosca, e dunque aveva diritto di visita a nome della famiglia. Gli sarebbe rimasta accanto per oltre dieci anni, andando a Turi appena ne aveva il permesso, portandogli libri e le povere cose di cui aveva bisogno, fino alla semilibertà in una clinica di Formia e poi, sempre più ammalato, nella clinica Quisiana di Roma, dove si sarebbe spento nel 1937.

Di Tatiana, che chiama Antigone in uno dei suoi libri, Aldo quasi si innamorò, tanto era lei stessa innamorata di Antonio, senza dirglielo né dirselo, ricevendo tutte le sue angosce e qualche volta le sue ire, devota alla sorella e alla sua curiosa famiglia, e insieme più fiduciosa nel Pcus che nel Pc d'Italia. Non scrisse che cosa pensava dei sospetti di Antonio su una lettera, che gli parve incongrua, di Grieco né dell'isolamento in cui lo lasciarono i compagni di galera quando criticò la linea del «muro contro muro» dell'Ic. Gramsci non capiva perché Togliatti non facesse il massimo per ottenere la sua liberazione. Con uno scambio? Per mezzo del Vaticano? Stava sempre peggio, della sua sofferenza e amarezza Tatiana fu indolenzita testimone, alla fine convinta di una sorta di persecuzione degli italiani di Mosca, infuriata perfino con Piero Sraffa, accorso per parlare con Gramsci prima della fine. Che cosa si dissero non sappiamo. Certo Antonio dovette scoprire molte verità. Non era davvero libero, era stato condannato non solo dai fascisti, come aveva già scritto, non sarebbe andato né a Mosca né nei pressi di Ghilarza. Pochi giorni dopo morì. Tatiana raccolse le sue cose, mise in salvo i quaderni, lo fece incenerire e seppellire in un funerale senza seguito, tornò nell'Urss e vi morì durante la guerra.

Di questo carico di dolore nessuno ha scritto come Aldo Natoli - anni prima, forse, e anche lui non amato dal Pci, Peppino Fiori. Neanche i gramsciani, mi sembra, hanno adorato questo outsider, precisissimo ma non nella cerchia degli addetti ai lavori, che nel destino di Gramsci scrutava le pieghe terribili del comunismo degli anni Trenta, all'epoca di Stalin su cui avrebbe scritto un altro bel libro. Su Togliatti, Aldo non ebbe mai uno sguardo men che severo.

Non so se ne abbia scritto e se lo troveremo nelle sue carte. Dopo la morte di Mirella, la moglie, da alcuni anni non stava più bene. Non avrebbe cambiato la sua vita per un'altra, ma le solitudini del secolo le ha conosciute tutte. Sotto il fascismo quella del carcere, poi l'impegno della resistenza e il breve entusiamo della rinascita, presto la durezza della guerra fredda nella Roma papalina ma colorata di rosso, le asperità degli scontri nel partito, altra solitudine nel 1956, altra speranza nei Sessanta, poi l'esclusione dal partito, nuova speranza e nuove difficoltà nel manifesto e, dopo, il ritiro. Solitudini mai esibite, sempre nella sua eleganza e riserbo. Non credo che abbia mai chiesto aiuto, né gli è stato dato, né l'avrebbe tollerato. Era un comunista, stirpe di signori nel Novecento. La terra gli sarà lieve.

PARLA PIETRO INGRAO

«La militanza e l'amicizia»

di Tommaso Di Francesco

«Provo un grande dolore - Pietro Ingrao parla lieve, con una voce rotta dall'emozione che lo interromperà più volte nelle risposte - e non solo per la grande stima ma per l'affetto che io e tanti come me sentiamo per Aldo, per la sua umanità così profonda e così indirizzata alla militanza, insomma, puoi capire quanti ricordi adesso passano per la mia mente e quante immagini di fratellanza con una figura come Aldo, così fortee appassionata...è una grande perdita.»

Come vi eravate conosciuti?

«L'ho conosciuto alla fine degli anni Trenta.. Io ricordo gli incontri che abbiamo avuto al momento in cui si formò questa aggregazione politica comunista, nell'area romana e lui fu in prima linea nella costruzione di questo schieramento. Era pieno di passioni e poi contemporaneamente aveva anche un'ironia,sempre, quando parlava poi delle nostre lotte, dei nostri tentativi e anche degli approcci che facevamo, della visione in generale della lotta nel mondo».

Come maturarono le tue, le vostre scelte politiche?

«Per me sia l'incontro con lui, sia un po' il mio modo di leggere le cose maturarono tra il '36 e il '39. Direi che è lì che per me avviene lo stacco dalla passione per la letteratura e l'impegno politico a tutto campo e lì conobbi anche la sua umanità. Tieni conto che ci fu anche una presenza femminile, la mia fidanzata, Laura Lombardo Radice era molto amica di Mirella che è stata la compagna di Aldo e questo intreccio di passioni umane e di insieme impegno nella cospirazione e nello schierarsi furono parecchio fuse e fecero per me un insieme molto stretto tra la passione politica e al tempo stesso l'amicizia umana».

Quale fu l'evento che caratterizzò l'impegno comunista e che ruolo ebbe Aldo Natoli?

«Sono emozionato al ricordo, scusami. Per me il punto chiave dell'impegno ed insieme quindi la conoscenza del mondo con cui poi dopo imparai a cospirare fu l'aggressione di Franco in Spagna, lo sbarco, l'attraversata dello stretto di Gibilterra e l'inizio della guerra fascista e nazista spagnola. Lì fu un evento che mi disse che tutto cambiava nella mia vita e fondava soprattutto ed in primo luogo la capacità di militanza e come allora bisognava procedere con pienezza, direi, d'impegno nell'azione quotidiana alla pratica e alla predica della lotta comunista e per la liberazione dell'Europa. Questi prodromi che poi sfociarono nella straordinaria, grande, emozionante guerra di Spagna mi trascinarono alla cospirazione e all'impegno militante e in quegli anni l'incontro con Aldo è stato di grande importanza. Con Aldo, con Lucio che erano nel carcere di Civitavecchia e che per noi erano grandi punti di riferimento, furono loro gli esempi che ci trascinarono all'azione».

Poi, nel dopoguerra, c'è stata una lunga storia di rapporti di militanza nel Pci. Anche lì c'era Aldo, nei momenti cruciali come l'attentato a Togliatti, o come nell'impegno rigoroso contro le trasformazioni sociali e di potere della città di Roma, con la campagna memorabile, giornalistica e politica «Capitale corrotta, nazione infetta»...

«Sì, fu il suo un lavoro proprio sulla metropoli. Sul cambiamento della metropoli e questo sogno anche della nuova capitale aprì per tutti noi, nel partito ma anche fuori, uno squarcio capace di portare tutta una nuova generazione all'impegno militante, quando tutta la vita, tutta la giornata viene presa e viene spostata a lavorare per il comunismo e per la rivoluzione».

E alla fine degli anni '60 ci fu la questione del manifesto, e fu una rottura dolorosa...

«Bè, furono vicende laceranti e lì io pure sbagliai e non seppi realizzare l'invenzione dello scarto che mi portasse a capire la novità anche dell'impegno di compagni come Aldo, Rossana. Lì commisi degli errori che ho ancora duri nella mente, però poi ripresi una conoscenza e un contatto con Aldo che mi restituì tutta la forza della sua umanità. In questo ci fu anche un intervento della mia compagna, Laura, che veniva dal ceppo dei Lombardo Radice. S'impegnò nell'incontro con la famiglia di Aldo e quindi la trama dell'amicizia e del rinnovamento si allargò ancora di più, divenne più stretta. In qualche modo l'amicizia con Aldo divenne ancora più salda».

Se tu dovessi raccontare ad un giovane che cosa perdiamo con Aldo Natoli, cosa diresti?

«È una perdita grande, quella di una figura che aveva una capacità intensa di vivere e suscitare militanza e coinvolgimento umano. Una perdita grande...»

MEMORIA

14 luglio 1948, l'attentato a Togliatti

di Luciana Castellina

«Il Pci - amava ripetere Togliatti - è una giraffa». Intendeva dire che era un animale bizzarro, anomalo, molto dissimile dagli altri partiti comunisti. Ebbene, Aldo Natoli è stato, sin dall'inizio, una giraffa nella giraffa e io, quando l'ho incontrato per la prima volta, sono in effetti rimasta sbalordita. Era il 18 novembre 1947 e si votava per le elezioni amministrative di Roma: la sinistra unita nel Blocco del Popolo, simbolo l'effige di Garibaldi. La sera prima, in una colluttazione fra ragazzi che attaccavano gli ultimi manifesti, a Piazza Vittorio, un giovane democristiano, Gervasio Federici, era rimasto sul terreno, ammazzato. Furono accusati e arrestati a casa loro molte ore dopo un gruppo di giovani comunisti. Erano tempi feroci e la provocazione all'ordine del giorno. Questa era destinata a influenzare il voto e lo influenzò, seminando il terrore dei «rossi». Ricordo bene quel giorno perché fu quel giorno che, rompendo i restanti indugi, chiesi la tessera del PCI, misi piede per la prima volta nella sede della Federazione romana e conobbi Aldo Natoli, che poco dopo ne divenne segretario. Io, certo, sapevo che i comunisti non mangiavano i bambini, ma per una ragazzetta come ero io non era da poco scoprire, in quel duro `47, la guerra fredda appena scatenata, l'anticomunismo più rozzo all'apice, che il capo dei «rossi» della capitale era un intellettuale particolarmente raffinato, sotto il braccio sempre opere letterarie preziose o un disco di musica del `700 («dopo non c'è più stata musica all'altezza», ricordo che mi disse nella prima conversazione personalizzata e le sue parole hanno segnato il mio gusto da allora).

Negli anni successivi, nelle tante riunioni nello stanzone di piazza S. Andrea della Valle, o nel salone della sezione Ponte Regola, in via Banchi di S. Spirito, dove si tenevano gli «attivi» del martedì, ho avuto modo di capire che quell'intellettuale così difforme dal cliché dei dirigenti «rossi» dell'epoca era anche il leader riconosciuto - amato, stimato - dei comunisti romani. L'uomo di cui avevano fiducia, non solo per le sue analisi brillanti (ricordo il suo rapporto sull'edilizia romana, al terzo congresso della Federazione, nel dicembre del `47 - pochi mesi dopo uno sfortunato sciopero generale per le case popolari e il risanamento delle borgate - in cui individuò il nemico vero, la proprietà fondiaria dell'aristocrazia nera e l'incipiente affarismo bancario, contro ogni iimpostazione assistenzialista); ma anche nei momenti drammatici, nel fuoco dello scontro. Ho ancora impressa nella memoria la sua immagine quel 14 luglio 1948 quando, solo poche ore dopo l'attentato a Togliatti si riversò sul centro di Roma paralizzato da un immediato sciopero generale, a bordo di improvvisati gremiti trasporti, il popolo inferocito delle borgate e tutto poteva accadere. A piazza Colonna furono Aldo Natoli e, se non ricordo male, Sandro Pertini, a cercare di calmare i compagni, a far defluire il corteo.

Solo l'autorità indiscussa che gli veniva riconosciuta poteva riuscire. Aveva alle spalle, è vero, la lotta clandestina e il carcere che gli avevano dato prestigio; e aveva il sostegno di Edoardo D'Onofrio, un uomo che da lui non avrebbe potuto esser più diverso e che però ebbe la lungimiranza di sceglierlo come suo delfino e che a tutti noi, in un Pci ancora tanto operaista, insegnò a occuparci del sottoproletariato della cintura rossa senza disprezzare né ladri né puttane, ma senza nemmeno populismo o compiacimento, e anzi per portare a Primavalle o al Tufello cultura e coscienza di classe. E «coscienza nazionale», come si diceva allora. (Non è un caso se quando, nel `60, scoppiò nel Partito la polemica su Pasolini, quel gruppo dirigente si schierò dalla parte dell'autore di «Una vita violenta»). È così che è stato costruito il «partito nuovo», anomalo come una giraffa. Poi sono accadute tante cose e nel `69 ci siamo ritrovati, con Aldo, nel Manifesto. Ho voluto ricordare in questo giorno doloroso le pagine più antiche della sua storia di militante comunista, quegli anni in cui il centro delle nostre vite era quel palazzo un po' scalcinato fra corso Rinascimento e corso Vittorio, negli uffici e alla mensa dove per tanto tempo abbiamo continuato a consumare assieme il pasto di mezzogiorno e dove molti di noi, un po' più giovani, hanno imparato quasi tutto.

UN NASTRO DI PAROLE

«Ho conosciuto gli operai e i contadini in carcere»

di Alessandro Portelli

Nel 1987, aggirando un'antica soggezione, andai con Nicola Gallerano a parlare con Aldo Natoli per un numero su Roma dei Giorni Cantati. Ci raccontò l'impatto nel dopoguerra con una sconosciuta Roma popolare, in termini resi emozionanti da quel suo ritegno rigoroso, da un senso della propria diversità che fonda una passione senza populismo: «Io sono un meteco a Roma, un siciliano che ha vissuto sin dalla mia prima giovinezza qui», spiegava, «ma non posso dire di essermi mai profondamente acclimatato con gli umori popolari. In fondo, io prima di diventare comunista ero un giovane intellettuale aristocratico. O per lo meno pretendevo di esserlo. Ma stavo molto bene con loro; e in questo forse vi era il ricordo del modo come io mi ero proletarizzato, in un certo senso, quando stavo in galera. Però dal punto di vista culturale in fondo io ho mantenuto sempre questa ristrettezza - stavo per dire autonomia, ma preferisco dire ristrettezza aristocratica». «Nell'attività politica che ho svolto prima di essere arrestato, fra la fine del `35 e la fine del'39, non ho mai avuto un contatto con un operaio. Il partito ci indicava l'interdizione di avere contatti in ambiente operaio. Questo derivava (anche) dal fatto che l'ambiente operaio romano, di sinistra, comunista in particolare, era stato semidistrutto dalla repressione, e dall'infiltrazione, poliziesca. Quindi io non avevo mai conosciuto un operaio, un contadino. La mia prima conoscenza avvenne in carcere. E rese più agevole dentro di me lo svilupparsi di alcuni processi di mitizzazione relativamente alla classe operaia e ai contadini. Cioè, quando io ricordo i rapporti che io ebbi in carcere, con operai e contadini, debbo resistere alla mitizzazione. Capisci?» C'è chi mitizza la classe in astratto, e poi si dice deluso; e chi costruisce sulla conoscenza un legame che dura tutta la vita.

Riascoltando il nastro, mi accorgo che «capisci?» non è un intercalare ma la parola chiave: non racconta avventure, del passato, ma ci aiuta a capire che cosa è Roma, che cosa siamo noi. I fornaciai di Valle Aurelia, le donne di Trastevere che andavano al Divino Amore ma erano furiose contro l'articolo 7, il Quarticciolo («al Quarticciolo c'era il Gobbo, in quel tempo. Capisci? Quindi c'era un intreccio, fra le frange del partito e non solo questa piccola delinquenza locale ma il clan del Gobbo. E il Gobbo pretendeva di essere lui il comunista, lì»): «Capisci, noi avevamo verso il sottoproletariato delle borgate, una posizione che non aveva niente a che fare con il perbenismo. E in questo magma sottoproletario, con una percentuale altissima di immigrati del Sud - senza lavoro, gente che si arrangiava - il partito aveva un enorme prestigio. Questi vedevano il partito come lo strumento della redenzione». Non si trattava solo di andarci, nelle borgate, ma di riportarle dentro Roma: «La lotta contro il patto Atlantico: come avremmo potuto fare quella lotta nel centro di Roma se non ci fosse stata la partecipazione delle borgate? Ma alla fine del `47, sulle questioni della disoccupazione, noi facemmo uno sciopero generale che durò due giorni. Con una azione, organizzata, formidabile - di interventi nel centro e nella periferia. E perfino con azioni gappistiche: nel senso per esempio di paralizzare i trasporti distruggendo gli scambi dei tram; oppure spargendo i chiodi a quattro punte. Ma in certe borgate organizzavamo scioperi a rovescio. Per esempio, costruivamo le strade». Nel congedarci, raccontava: «Giorni fa mi ferma per strada un tranviere» (l'amore di Natoli per Roma proletaria è stato intensamente ricambiato) «e mi chiede: Natoli, che fai? E io: sono un comunista senza partito». È doloroso. Ma da quel giorno sono stato fiero di esserlo anch'io.

ALDO NATOLI

Vita e storia di un comunista «senza partito»

Aldo Natoli (Messina 20 settembre 1913- Roma 8 novembre 2010) è stato medico, antifascista e deputato del PCI per cinque legislature.

Laureatosi in medicina e chirurgia, fu inviato dall'Istituto italiano del cancro all'Institut du cancer a Parigi nel 1939; partecipò con Bruno Sanguinetti, Lucio Lombardo Radice e Pietro Amendola al gruppo comunista romano, una delle esperienze più emblematiche del nuovo antifascismo che si stava formando in Italia alla fine degli anni '30; stabilì, insieme con Bruno Corbi, un collegamento con il Centro estero del Pci a Parigi in stretto contatto con il fratello Glauco, lettore di lingua italiana all'Università di Strasburgo. Rientrato in Italia, fu arrestato nel dicembre 1939 insieme ai militanti del gruppo di Avezzano (tra cui Bruno Corbi e Giulio Spallone) e condannato a cinque anni di carcere dal Tribunale Speciale. La «scuola del carcere» fu, come egli stesso ebbe a testimoniare nel libro «Il Registro», decisiva per la sua definitiva «scelta di vita» comunista.

Dopo tre anni di reclusione a Civitavecchia, poté avvalersi di un provvedimento di indulto e di amnistia e fu scarcerato nel dicembre 1942. Dopo la breve parentesi del servizio militare, durante la quale si guadagnò la fama di medico antifascista, tra il 25 luglio e l'8 settembre 1943 entrò nell'organizzazione del PCI. Partecipò alla Resistenza romana, lavorando alla redazione de l'Unità clandestina ed occupandosi dei contatti radio con le regioni liberate.

Dopo la Liberazione fu dapprima vicesegretario e poi segretario della Federazione di Roma e del Lazio del PCI, dedicandosi alla costruzione del «partito nuovo» attraverso una vasta azione di acculturazione politica e di crescita civile nei quartieri popolari e nelle borgate. Fu anche protagonista della grande stagione degli «scioperi a rovescio» dei braccianti e dei lavoratori del basso Lazio. Nel 1948 fu eletto deputato nel Lazio e riconfermato al Parlamento sino alle elezioni del 1972. Consigliere comunale di Roma dal 1952 al 1966, fu capogruppo del PCI in Campidoglio. Qui condusse una battaglia contro la politica delle amministrazioni centriste, contro il «sacco di Roma» da parte delle grandi società immobiliari, in stretto rapporto con le correnti culturali più avanzate in campo urbanistico. Nel 1956 entrò in contrasto con la direzione del Pci sull'invasione dell'Ungheria, pur continuando la militanza nel partito. Negli anni '60 fu impegnato sulle tematiche delle riforme di struttura, a cominciare dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica. Nel 1965 fece parte di una delegazione del Pci che si recò in Vietnam, incontrando il presidente Ho Chi Minh e aprendosi ai temi dell'internazionalismo e della lotta per la pace.

Nell'ottobre 1969, dopo l'invasione della Cecoslovacchia, in dissenso con la direzione del Pci sui rapporti con il Pcus e sul «carattere socialista» dell'Urss, fu radiato dal partito con Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri e Luciana Castellina e fu tra i fondatori della rivista e del quotidiano il manifesto, per il quale curò il settore internazionale.

Distaccatosi dal gruppo e poi dal giornale, si è dedicato per un ventennio ad un'intensa attività storiografica, pubblicando saggi e volumi sul comunismo cinese, sulle origini del stalinismo, sulla storia del PCI e sulla vita e l'opera di Gramsci. Su questi temi ha svolto corsi presso l'Università di Urbino e seminari presso la Freie Universität di Berlino.

(s. d. r.)

«Voglio assolutamente avere una copia di quella lettera». Baldina Di Vittorio è emozionata, felice. Suona orgogliosa al telefono da Roma la voce della figlia del mitico "Peppino", l’ immarcescibile leader dalla Cgil: «Quel manoscritto rivela più di qualsiasi altra cosa il carattere di mio padre, onesto e coraggioso». Di Vittorio che gentilmente rifiuta un pacco-dono del conte Giuseppe Pavoncelli, proprietario terriero di Cerignola e che su un paio di fogli di carta intestata della cooperativa " Lafalce" spiega le ragioni di quel rifiuto: «Io e lei siamo convinti della nostra personale onestà, ma per la mia immagine politica non basta l’intima coscienza della propria onestà. E’ necessaria anche l’ onestà esteriore». Ecco perché «a preventiva tutela della mia dignità politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli che stimo moltissimo, sono costretto a non accettare il regalo. Perciò la prego di mandarmi qualcuno, possibilmente la stessa persona, a ritirare gli oggetti portati». Eppure era un cadeau goloso: pane, formaggio, taralli, olio. «Quella, per la mia famiglia, era l’epoca della povertà assoluta. Sì, insomma, non era facile rifiutare quel po’ di ben di Dio, come scrive papà. Alla vigilia di Natale, poi...».

La data della missiva, che era rimasta inedita fino all’altro giorno, è quella del 24 dicembre 1920. Racconta la signora Baldina: «E’ l’anno in cui io sono nata e per me questo documento acquista un valore particolare. Ne avevo sentito parlare in famiglia, di quelle poche righe indirizzate al conte Pavoncelli, titolare di un’azienda che continua ad essere viva e vegeta e che produce olive la cui qualità è famosa in tutto il mondo: la "Bella di Cerignola", così si chiamano. In fondo è grazie al nipote Stefano che salta fuori questo biglietto da cui emerge la generosità e la correttezza di Giuseppe Di Vittorio». Altri tempi? «No, un uomo diverso rispetto a quelli dei giorni nostri. I tempi, inevitabilmente, cambiano. Non voglio fare paragoni, per carità, con gli uomini politici e i sindacalisti di questo nuovo secolo. Però sono convinta che mio padre avrebbe seguito le stesse regole, soprattutto morali, rispettate scrupolosamente quando era in vita». "Peppino" muore esattamente cinquant’ anni fa. La Rai gli dedicherà un film, che in parte sarà girato proprio a Cerignola. Fa sapere l’ indomabile Baldina, che indossa i suoi 87 anni con la leggerezza di un’adolescente: «Proporrò agli sceneggiatori d’inserire questo episodio nella pellicola. Sì, loro già lo conoscono perché durante i sopralluoghi nella città natale di papà prima di cominciare le riprese hanno incontrato Stefano Pavoncelli, che gli ha fatto vedere l’epistola. Sì, sarebbe bello se fosse immortalata in questo lavoro cinematografico. Perché è istruttiva e mette in risalto comportamenti che devono essere validi perfino nel terzo millennio».

Baldina Di Vittorio è un fiume in piena e l’età non tradisce la freschezza delle sue parole. Insiste: «Comportamenti, visti a distanza di quasi novant’anni, che non sono quelli di un marziano. Piuttosto, sono naturali. Mio padre predicava l’opportunità di avere rapporti con tutti, ma non tollerava l’ incoerenza. Negli altri e meno che mai da parte sua». L’essere e l’apparire, insomma, dovevano rappresentare il "lato A" e il "lato B" della stessa medaglia. Come la moglie di Cesare, bisognava essere al di sopra di ogni sospetto. «è un insegnamento che io stessa non dimentico, ma che tutti dovrebbero ricordare. Più degli altri, quelli che rappresentano il popolo. O la gente, come si dice adesso».

Il 17 gennaio 1954, in occasione delle onoranze nazionali ai sette fratelli Cervi fucilati a Reggio Emilia il 28 dicembre del 1943 dai nazisti, il Presidente della Repubblica ha ricevuto al Quirinale il vecchio padre Cervi, trattenendolo affettuosamente a colloquio.
Il testo che qui pubblichiamo è apparso su "Il Mondo" il 16 marzo 1954, ed è raccolto nel volume Il buongoverno di Luigi Einaudi, pubblicato dalla casa editrice Laterza che ringraziamo per la gentile concessione.

Einaudi

Entrano nello studio del presidente della repubblica il padre dei sette fratelli Cervi, fucilati dieci anni fa dai nemici degli uomini, il magistrato Peretti Griva, già presidente della corte di appello di Torino, l'on. Boldrini, medaglia d'oro della resistenza e Carlo Levi, scrittore e pittore, il quale reca l'originale del ritratto da lui dipinto dei sette fratelli.

Il padre, che porta sul petto le medaglie dei sette figli morti per la patria, ricorda al presidente di averlo già incontrato in Reggio Emilia. Il presidente aveva letto, in un articolo di Italo Calvino, che tra i libri dei sette fratelli, si noverano alcuni fascicoli della rivista "La Riforma Sociale", un tempo da lui diretta e poi soppressa dal regime fascistico e dice al padre della sua commozione per poter cosí pensare con orgoglio ad un suo rapporto spirituale coi martiri.

Il padre racconta:

- Sí, i miei figli leggevano molto, erano abbonati a riviste; e cercavano di imparare. Se leggevano qualcosa che pareva buono per la nostra terra, si sforzavano di fare come era scritto. Quando abbiamo preso il fondo in affitto, ed erano 53 biolche di 2.922 metri quadrati l'una (circa 15 ettari e mezzo), vedemmo sul terreno monticelli e buche. I figli avevano letto che se la terra sopravanzante sui monticelli fosse stata trasportata nelle buche, il terreno sarebbe stato livellato e sul terreno piano i raccolti sarebbero venuti meglio. Subito acquistarono vagoncini di quelli usati dai terrazzieri sulle strade e si diedero a levare la terra dai tratti alti e metterla nelle buche. 1 vicini passavano, guardavano e scuotevano la testa: "I Cervi sono usciti pazzi. Dove andrà l'acqua che ora finisce nelle buche? Quando tutto sarà piatto come un biliardo, l'acqua delle grandi piogge ristagnerà dappertutto e frumenti ed erbai intristiranno annegati". Ma i figli avevano dato al terreno, fatto piano, una leggerissima inclinazione; sicché quando le grandi piogge vennero e quando d'accordo con altri tre vicini, fittaioli di poderi appartenenti alla stessa famiglia del nostro padrone, facemmo un impianto per sollevare le acque ed irrigare a turno i terreni, dopo due ore la terra è irrigata ma di acqua non ce n'è piú. Coloro che avevano detto che i Cervi erano pazzi, ora riconoscono che noi eravamo i savi e tutti nei dintorni ci hanno imitato.

- Anch'io, osserva il presidente, quando un terzo di secolo fa smisi di fare i fossi in collina per le vigne e di riempirli di fascine e di letame, ed invece eseguii lo scasso totale, senza concimazione e misi le barbatelle, innestate su piede americano, in terra tali e quali, quasi alla superficie, dopo aver resecate le radicette a un centimetro di lunghezza, i vicini i quali dallo stradone provinciale osservavano quel brutto lavoro, scuotendo il capo se ne andavano: il professore è uscito matto e dovrà rifare il lavoro. Quando videro però che le viti venivano su piú belle di quelle dei fossati e del letame, ci ripensarono ed ora tutti fanno come avevano visto fare a me.



Il presidente: - Ed in quanti vivete su quelle 53 biolche?

Il padre: - Io, il nipote, le quattro vedove, e gli undici figli dei figli, in tutto diciassette. I figli prima ed ora noi abbiamo faticato assai. Abbiamo ricevuto dal padrone la casa e la terra; ed avevamo quattro vacche e pochi arnesi. A poco a poco i figli comprarono due trattori, uno grande per i grossi lavori ed uno piú piccolo per i lavori leggeri; abbiamo falciatrici, mietitrici, aratri ed ogni sorta di arnesi. Il fondo di fieno e mangime è tutto nostro. Nelle stalle vivono una cinquantina di vacche ed un bel toro. Il toro lo comprammo in Svizzera, ma viene dall'Olanda ed è originario americano. Col toro ci hanno dato le sue carte; ma noi siamo stati sicuri di lui solo quando abbiamo conosciuto la figlia sua e poi la figlia della figlia. A venderlo come carne, prenderemmo pochi soldi; ma, vivo, non lo dò via neppure se mi offrono un milione di lire. Questo - trattori, macchinari, fondo di vettovaglie, vacche, toro - è il "capitale" ed è nostro, di tutti noi".

- Anche del nipote?

- Il nipote non è figlio, ma è come lo fosse. Quando uscii dalla prigione e, tornato a casa, non trovai piú i figli e mi dissero che li avevano uccisi, vidi il nipote.

Le nuore: - È venuto per aiutarci, mentre eravamo sole.

- Dopo qualche giorno, poiché il nipote aveva dimostrato di essere un buon ragazzo, radunai le nuore e: "Bisogna stabilire le cose per il nipote. Lo teniamo come giornaliero? Avrà diritto alle otto ore, alle feste, al salario che gli spetta. Lo fissiamo come servo? Dovrà essere trattato come salariato ad anno e dovranno essergli riconosciuti il salario e gli altri diritti del salariato. Lo riconosciamo parente? Il trattamento sarà quello che gli spetta come parente. Che cosa ne dite voi?"

Le nuore: - Padre, quello che voi direte, per noi è ben detto. Voi dovete decidere.

Il padre: - No. Voi, nuore, rappresentate i figli uccisi ed i figli dei morti sono vostri figli. Voi dovete parlare.

Le nuore: - Noi non sappiamo parlare. Chi deve parlare siete voi, padre.

Il padre: - Siccome lo volete, il mio avviso è questo; ed ho detto quel che pensavo. Avete quattro giorni di tempo per pensarci. Adesso non dovete parlare. Quando i giorni saranno passati, ritornerete e direte il vostro pensiero.

- E le donne ritornarono al lavoro.

Il presidente, il magistrato, la medaglia d'oro e lo scrittore-pittore attoniti ascoltavano il padre. Questi parlava lentamente, scandendo le parole e ripetendole per fissarle bene nella testa degli ascoltatori. Era un contadino delle nostre contrade, un eroe di Omero od un patriarca della Bibbia? Forse un po' di tutto questo. Dagli arazzi napoletani del 1770, stesi sulle pareti dello studio, il pazzo don Chisciotte pareva ascoltasse la parola dell'uomo saggio.

- Prima che fossero trascorsi i giorni fissati, dopo soli due giorni, le donne tornarono al padre, dicendo: Abbiamo pensato e quel che è il vostro consiglio rispetto al nipote è anche il nostro.

Il padre: - Sapete voi se il nipote intenda rimanere con noi?

Le donne: - Sí, padre, noi lo sappiamo.

Il padre: - Ciò è bene; ma io non posso parlare al nipote prima di aver parlato al padre ed alla madre di lui. Il nipote non può uscire dalla sua famiglia ed entrare nella nostra se i suoi genitori ed i suoi fratelli non lo sanno e non sono contenti.

Non stavano in un paese molto lontano ed andai a parlare al padre del nipote, che era mio fratello. Fratello, dissi, il nipote tuo figlio ha detto di volere rimanere con noi.

Il fratello e la cognata: - Lo sapevamo. Il figlio l'aveva detto quando era partito di qui per andare ad aiutare le donne, a cui avevano uccisi i mariti. Noi siamo contenti.

- Se cosí è, il nipote entrerà nella nostra famiglia. E, tornato a casa, radunai le quattro buone donne e il nipote e dissi: Il fratello e la cognata sono contenti che il nipote rimanga con noi. Ed io dico: i sette figli sono stati uccisi e voi, donne, siete al loro luogo. Ma abbiamo bisogno di un uomo, che diriga le cose. Io sono vecchio e non posso piú fare come una volta. Il nipote starà insieme con noi e sarà come fosse un figlio. Quando io non ci sarò piú, il "capitale" sarà diviso in cinque parti uguali, fra le quattro nuore ed il nipote.

Cosí fu deciso e cosí si fa. Nella casa lavoriamo, ciascuno secondo le sue forze, in diciassette; ed il nipote sta a capo, lavora, compra e vende.

Lui e le donne chiedono sempre il mio consiglio ed io consiglio per il bene di tutti.

Poi i genitori del nipote ed i suoi fratelli vollero spartire quel che c'era in casa al momento che il nipote li aveva lasciati e diedero a lui la parte che gli spettava. Ed egli volle fosse data alla famiglia in cui era entrato. Ed io dissi: noi non l'avevamo chiesta. Ma tu la dai alla famiglia ed entrerà a far parte del "capitale". Diventerà proprietà comune; e come il resto sarà diviso in cinque parti.

Il presidente, il magistrato, la medaglia d'oro e lo scrittore-pittore guardavano al padre e vedevano in lui il patriarca il quale, all'ombra del sicomoro, dettava le norme sulla successione ereditaria nella famiglia. Assistevamo alla formazione della legge, quasi il codice civile non fosse ancora stato scritto.

Il presidente, rivolto allo scrittore-pittore, il quale conosce i contadini dei suoi paesi - e sono uguali ai contadini di tutta Italia - interrogò: forseché i sette fratelli si sarebbero sacrificati se non fossero stati un po' pazzi costruttori della loro terra e se il padre non fosse stato un savio creatore della legge buona per la sua famiglia? Si sarebbero fatti uccidere per il loro paese, se fossero stati di quelli che noi piemontesi diciamo della "lingera" e girano di terra in terra, senza fermarsi in nessun luogo?

Lo scrittore-pittore rispose: Credo di no; il magistrato e la medaglia d'oro consentirono. Ed il presidente chiuse: Credo anch'io di no e strinse la mano al padre ed a tutti.

Qui potete scaricare e leggere il libro di Renato Nicolai e Alcide Cervi, I miei sette figli

La Repubblica
Il politico gentiluomo che scelse il riformismo
di Nello Ajello

È morto ieri a Roma, all'età di novantacinque anni, Antonio Giolitti. Prima che l'età lo costringesse a chiudersi in un garbato silenzio, la sua presenza nella vita politica italiana è stata intensa e, a tratti, incisiva. Deputato comunista fin dai tempi della Costituente, nel 1957 uscì dal partito di Togliatti passando al Psi. In due riprese, nel 1963-'64 e nel 1970-'74, è stato ministro del Bilancio e della Programmazione economica nei governi di centrosinistra. Nel 1987 era stato eletto senatore come indipendente di sinistra.

Nipote di Giovanni Giolitti, sembrava vocato alla politica per tradizione familiare. La sua giovanile adesione al Pci apparve come un segno dei tempi. «Quanti cari nomi sento risuonare tra i giovani comunisti!», esclamava Arturo Carlo Jemolo in un articolo pubblicato sulla rivista fiorentina Il Ponte. Ed elencando gli eredi di queste dinastie famose - Giolitti appunto, Amendola, Calamandrei, Lombardo Radice - il grande giurista confessava: è anche per la loro presenza che, nei riguardi del comunismo, «io non riesco a sentire quell'avversione profonda» che «avvertivo di fronte al nazismo». Era il novembre del 1945. All'epoca Giolitti, trentenne, faceva parte di quell'ambiente culturale giovanile che Palmiro Togliatti considerava una sorta di lievito del Pci uscito dalla clandestinità. E nei decenni successivi, dopo il distacco da Botteghe Oscure, egli avrebbe continuato a rappresentare una voce viva della sinistra italiana. Percorrendone l'impervio tracciato. Esprimendo i suoi consensie dissensi con quieto coraggio. Assurgendo a modello di una " gentilhommerie" che è banale attribuire all'altro secolo.

Aveva partecipato, Giolitti, alla guerra partigiana, prima sul monte Bracco, in Piemonte, poi nelle valli di Lanzo, come commissario politico delle Brigate Garibaldi.

Ferito casualmente a una gamba, era passato in Francia per curarsi. Tornando a Roma dopo la Liberazione aveva ripreso, accanto all'attività di partito, il suo lavoro presso la casa editrice Einaudi. Gli avevano tenuto in serbo per due anni - così egli raccontava - il suo tavolo, «in una bella stanza dove lavorava Cesare Pavese».

Così cominciava la stagione più impegnativa per questo intellettuale che si era trovato «suo malgrado a fare politica per colpa della Resistenza». Sui ricordi dei suoi anni verdi, si profila l'ombra profetica del «grande nonno». In una lettera che Giovanni Giolitti inviò a suo figlio Giuseppe, padre di Antonio, il 10 maggio del 1915, si leggeva fra l'altro: «L'affrontare l'impopolarità è in alcuni casi il più assoluto dovere». Queste righe, Antonio le ha riprodotte ad apertura di un proprio libro, Lettere a Marta (così si chiama una sua nipote), una sorta di autobiografia pubblicata dal Mulino nel 1992. In realtà, il dovere dell'impopolarità Giolitti junior lo condividerà fino a farsene un abito esistenziale.

Roma, gli studi, un breve soggiorno in carcere per antifascismo, e poi la politica. Il Piemonte, teatro delle campagne elettorali e luogo di villeggiatura. Sono questi i luoghi di Antonio Giolitti. Gli amici di Roma e Torino popolano la sua vita. Fra i primi, quel gruppo di giovani che alla vigilia della guerra comincia a formare un'ossatura di "intellettuali organici" per ciò che sarà il Pci: da Bufalini a Trombadori, da Alicata a Ingrao. Poi, i colleghi di lavoro alla Einaudi: da Pavese a Balbo, da Muscetta a Giaime Pintor, da Bobbio a Venturi, da Calvino a Massimo Mila.

Fra gli incontri fatti in Piemonte, spiccano i compagni dell'avventura partigiana: Geymonat, Pompeo Colajanni, Giorgio Agosti, Mario Andreis. E infine, la villeggiatura al mare di Castiglioncello, dove Antonio entra in contatto con il clan D'Amico: una ragazza di questo cognome, Elena, diventerà nel '39 sua moglie. Gli sarebbe stato sempre caro Lele D'Amico, cugino di Elena. E altri due frequentatori delle estati al mare, Paolo Milano e Furio Diaz, sarebbero rimasti fra gli amici di una vita. La biografia di Giolitti è soprattutto il racconto d'un trauma: quello che deve affrontare, in politica, un uomo di sinistra dotato di un'onestà intellettuale che rasenta l'intransigenza. Il suo battesimo pubblico come polemista si colloca alla fine del '56, in occasione dell'VIII congresso del Pci. La sua figura è relativamente poco nota. Nelle cronache di quell'assise, il Corriere della Sera sente il bisogno di presentarlo ai lettori.

«L'onorevole Giolitti è un giovane quarantenne alto, bruno, elegante. Si dice che fosse uno dei giovani più cari a Togliatti». Ed ecco che questo comunista prediletto in alto loco afferma che, in definitiva, per il Pci, «si tratta di cambiare e di correggere», e di «cambiare anche gli uomini che non si possono correggere». È l'allusione più esplicita che sia risuonata nel palazzo dei congressi dell'Eur, benché pronunziata senza enfasi, senza apparente malanimo. E anche in seguito, le polemiche che l'abiura di Giolitti alimenterà non raggiungeranno mai l'apice dell'animosità. Quando il deputato piemontese esce dal Pci con una motivazione che investe l'intera politica del partito e che egli illustra nel saggio Riforme e rivoluzione, dai vertici comunisti non partono contro di lui quelle bordate "definitive" che hanno colpito altri dissidenti. In una lettera mai recapitata per un disguido, Togliatti gli chiede anzi un favore: avere con lui «un incontro» che preluda «a una migliore comprensione».

Ricucire con Togliatti e il suo partito? Una simile svolta non rientra nelle sue prospettive. Giolitti s'incammina ormai sulla «via del riformismo», man mano che la fede nella dottrina marxista lascia spazio, in lui, alla scoperta del New Deal rooseveltiano, delle idee di Keynese della pratica di governo in uso nelle socialdemocrazie d'Europa. Nel partito di Nenni, cui Giolitti aderisce, si parla, soprattutto ad opera di Riccardo Lombardi, di "riforme di struttura". Albeggia il centrosinistra. Giolitti e Lombardi vi formeranno un tandem operativo.

Programmazione: una prassi di cui Giolitti si sforza di dimostrare l'indispensabilità. E lo fa tra molti ostacoli. L'allarme suscitato nel mondo degli affari e l'insofferenza, da parte della Dc dorotea, nei confronti di «quello che viene giudicato uno spericolato zelo riformatore» decretano il fallimento dell'esperienza. Dopo l'insuccesso socialista alle elezioni del 1976, si entra nell'era craxiana. Nei governi che si susseguono, entra in ombra la politica di piano. Abbandonati gli incarichi di governo, l'«uomo della Programmazione» vive perciò relativamente appartato, parte di quell'ambiente che egli stesso definisce dei «senzatetto di sinistra». Il suo stesso staff, capeggiato da Giorgio Ruffolo, si vede allontanato dall'area ministeriale. Dal 1977 al 1985 Giolitti è a Bruxelles, membro italiano della Commissione delle Comunità europee. Il Psi lo ha deluso. Nella nuova gestione di Craxi scorge un'intolleranza non meno grave di quella sperimentata a suo tempo nel partito di Togliatti. Assiste al consolidarsi «una consensuale e sistematica prevaricazione dei partiti di governo sulle istituzioni». Craxi? «Ho smesso d'incontrarlo quando è andato a palazzo Chigi», dichiara Giolitti nel maggio 1987. Un mese più tardiè eletto senatore come indipendente nelle liste del Pci. È la sua ultima campagna elettorale. Da allora apparterrà a una sinistra «impaziente e insoddisfatta». Le sue ricomparse nella cronaca saranno, nella primavera del 2006, la visita che gli fa il presidente Napolitano, fresco di elezione al Quirinale, e, nell'estate, la dichiarazione, sempre di Napolitano, nella quale gli si dava ragione per aver assunto nel "fatale '56", una posizione severamente critica contro l'Unione sovietica e il Pci. F ino all'ultimo, rievocando la sua gioventù e maturità questo «timoroso riformista» (così amava definirsi) ha sempre usato un elegante understatement. Ciò che lo animava era il tentativo di passare «dall'illusione dell'utopia alle speranze del riformismo», senza smarrire il «rapporto sempre problematico tra efficacia della passione politica e coerenza con i valori etici».

Saranno pure state prediche da nonno. Ma è difficile ascoltare, in giro, parole più attuali.


Antonio Giolitti, i sorci e le riforme
di Giorgio Ruffolo

Sono stato legato ad Antonio Giolitti da una lunga fraterna amicizia. Ricordo ancora con emozione il giorno che lessi una sua recensione di un mio articolo sulla disoccupazione pubblicato su Moneta e Credito, ero un giovanotto, e ne fui molto fiero. Cominciò così, a partire da un successivo incontro alla Casa Einaudi, dove lui lavorava, e poi nel partito socialista dove lui era entrato dopo i fatti d'Ungheria, nella corrente della sinistra nella quale i «giolittiani» costituivano un gruppo particolare, si chiamava Impegno Socialista, tra il 2 e il 4 per cento degli iscritti al partito: più 2 che 4, se ricordo bene. E poi nell'esperienza di programmazione. Anni di impegno vero, tormentato ed esaltante al tempo stesso. Anni di grandi riforme, lo si può dire oggi che di riformismo non si fa che parlare, allora non se ne poteva neppure parlare, a sinistra, perché il riformismo era considerato poco meno di un cedimento al nemico, si doveva dire, per carità: riformatori, non riformisti.


Però le riforme, in quella stagione di centro sinistra, si fecero davvero. In quegli anni cambiò la scuola, cambiò il sistema pensionistico, si introdusse il sistema sanitario, si fece lo statuto dei lavoratori, si completò la grande rete autostradale, si costituirono le regioni. Gli uffici della programmazione si installarono in un grande corridoio dove enormi sorci inseguivano timidi gattini. Era il tentativo di inserire una strategia di progresso sociale e di equilibrio territoriale in uno sviluppo economico poderoso ma tumultuoso disordinato, iniquo. Erano sogni? Forse: diventarono incubi, quando le contraddizioni che si erano inserite nel contesto politico italiano, non corrette da una politica di programma, esplosero, in una congiuntura sempre più difficile. La sinistra, che è immemore, dovrebbe riflettere su quella esperienza: e soprattutto su quale dovrebbe essere il contributo di una cultura aggiornata a una progettazione politica che oggi brilla per assenza.


Giolitti era il rappresentante di una classe politica di cui si sono molto affievolite le tracce: quando politica e cultura diventavano parte di un solo messaggio. Con lui si poteva parlare di politica, naturalmente: ma anche di musica, della quale era particolarmente esperto, e di arte e di letteratura, e ci si poteva divertire scherzando, lasciandosi guidare dal suo stile ironico e arguto. In compenso, non ricordo di avergli sentito raccontare una sola barzelletta.


Egli resterà con me e per me, per il resto della mia vita, un modello di professione politica, nel senso weberiano, non del mestiere, ma della vocazione; prima che quella vocazione si identificasse, in modo così desolante, con il nudo potere, con il denaro, con la volgarità.

Sono passati dieci anni dalla morte di Nilde Jotti; ma dieci anni drammatici e difficili. Siamo veramente entrati in un altro millennio. Quale è oggi il contesto in cui ci troviamo a ricordarla?

Un contesto difficile per le donne, segnato da un attacco contro le conquiste ottenute: pensiamo alla parità di retribuzione: impressionanti i dati sulle disparità salariali emerse, pochi giorni fa, dalla assemblea delle consigliere di parità, al diritto al lavoro: tra i lavoratori precari, la maggioranza sono donne; l’Italia è agli ultimi posti in Europa per la presenza delle donne nel mondo del lavoro sono sotto attacco anche la tutela della maternità, l’autodeterminazione nella maternità, nella procreazione assistita, nell’interruzione volontaria di gravidanza: ultimo episodio di questi giorni l’assurdo voto in Senato contro la commercializzazione della pillola RU486; permane la sottorappresentazione ai vertici della politica e delle istituzioni, in tutti i luoghi decisionali, (che provoca un impoverimento della democrazia), un trend opposto a quello che, nell’ormai lontano 1979, con la elezione di Nilde alla Presidenza dellaCamera dei Deputati sembrava si stesse aprendo.

Insomma vengono minacciate le conquiste che le donne hanno ottenuto in anni e anni di lotte e a cui Nilde Jotti aveva dedicato tanta passione e tanta parte della sua attività.

Questi diritti e queste conquiste sono minacciate anche dal preoccupante e crescente rigurgito della violenza maschile sulle donne. Giustamente invece nel suo editoriale di alcuni giorni fa Concita de Gregorio sottolineava che razzismo, violenza e sguaiataggine verbale creano un clima che incita gli uomini alla violenza e che tende a conculcare la presenza delle donnenella vita sociale, economica e culturale. Donne viste come prede, come oggetti, non come cittadine con pari diritti. Chi meglio di Nilde Iotti può costituire il modello di donna da indicare alle nuove generazioni?

Ripenso aquando l’ho conosciuta, a Firenze, al primo Congresso dell’UDI, quello della fusione con i GDD. Eletta nel ’46 alla Costituente, Nilde faceva parte di quella nutrita pattuglia di giovanissimi, che il Pci aveva voluto affiancare ai militanti e alle militanti storiche che venivano dai lunghi anni dell’esilio, del carcere e del confino. Nilde ha avuto un ruolo fondamentale nella elaborazione della nostra Costituzione, facendo parte della Commissione dei 75, ed essendo relatrice, assieme a un parlamentare DC molto conservatore, Camillo Corsanego, sui problemi della famiglia. Avevano, come è facile immaginare, idee assai diverse, e perciò presentarono due relazioni distinte. Le formulazioni che Nilde proponeva, che non sono quelle poi adottate definitivamente sono molto più vicine, sebbene vecchie di 60 anni, a quello che pensiamo oggi.

Nilde era stata d’accordo che la questione del divorzio non venisse inserita nella carta costituzionale; non la riteneva matura. Ma fu Nilde a insistere, al X Congresso del PCI, contro le timidezze e le tiepidezze di molti, perché ci si decidesse ormai a affrontare la questione, e poi per l’approvazione della legge in parlamento e la sua conferma nel referendum. Nilde Jotti contribuì alla elaborazione dell’articolo 3 della Costituzione, l’articolo che sancisce la pari dignità sociale ed eguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini, «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»; cui segue la basilare affermazione del secondo comma: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Principio totalmente nuovo, unico anche rispetto alle coeve carte costituzionali antifasciste», quella francese del ’46, quella della RF di Germania del ’49, che segna il passaggio dal sistema liberale al sistema democratico, a una democrazia segnata da contenuti di progresso sociale.

Erano state le donne costituenti a ottenere che il sesso fosse collocato all’inizio dell’elencazione e a voler precisare, inserendo l’inciso «di fatto», la natura e l’ampiezza degli ostacoli che dovevano essere rimossi. Non è dunque casuale che i movimenti delle donne, nel corso di molti decenni, abbiano fatto riferimento soprattutto a questo articolo. Nel corso della sua lunga vita politica, Nilde divenne Anche l’autorevole presidente di Montecitorio. Ma forse non tutti si rendono conto della straordinarietà di questo fatto. Io ho ancora ben presente l’emozione che tutte noi, donne, provammo quel giorno del 1979, - sono passati ben 30 anni - quando fu eletta presidente della Camera dei deputati. Era la prima volta nella storia italiana che una donna e per giunta una dirigente comunista, di un partito dell’opposizione, veniva chiamata a un così alto incarico. Un incarico, quello di presidente della Camera – altro fatto straordinario – che lei ha ricoperto per ben 13 anni, rieletta per tre legislature; una così lunga permanenza nell’incarico non ha precedenti nella storia del Parlamento italiano, a riprova della stima e della fiducia che aveva conquistato nell’assemblea.

Non soltanto, dunque, una donna che presiedeva la Camera,ma una donna che lo ha fatto con straordinaria capacità, conquistando stima e apprezzamento, rendendo onore alle donne, anche in anni difficili, in momenti di aspro confronto parlamentare, (si pensi all’ostruzionismo radicale, non privo di volgari attacchi alla sua persona, nel novembre del 1981) quelli della prima grave crisi della democrazia italiana, e della stessa funzionalità del parlamento, seguita all’assassinio di Aldo Moro. E Nilde, con coraggio e prudenza, mise mano a una riforma del regolamento per cercare di uscire dallo stallo per coniugare rappresentanza e capacità di decisione. La sua sensibilità, direi la sua passione, nata alla Costituente, per i problemi istituzionali, è stata una costante del suo impegno fino agli ultimi anni, ad esempio nella Commissione bicamerale sulla riforma della Costituzione. Proprio lei, che era stata magna pars nella elaborazione della Costituzione era consapevole che occorrevano norme nuove per armonizzare l’autorità del Parlamento con l’efficienza dell’Esecutivo e i poteri delle Regioni; ma,come risulta chiaro nel suo ultimo discorso parlamentare del ’98, un anno prima della sua morte, rimase sempre schierata nella difesa dei lineamenti fondamentali della Costituzione del ’48, contraria a modifiche che potessero alterare l’equilibrio tra i poteri dello Stato e aprire la strada a derive autoritarie.

Grandissimo fu anche il contributo di Nilde per far approvare in parlamento leggi fondamentali per le donne, quali, ad esempio, la pensione alle casalinghe, il riconoscimento del valore del lavoro delle donne contadine, la riforma del Diritto di famiglia, la legge del ’93 sulla presenza delle donne nelle liste elettorali, intervenendo perché si mantenesse la norma dei due terzi introdotta al Senato contro un emendamento Bonino che voleva abolirla. Sebbene presidente della Camera volle apporre la sua firma alla legge di iniziativa popolare sui tempi. Sulla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza, rifiutando sia la tesi radicale dell’aborto come diritto civile, sia la pretesa clericale di considerare l’aborto un reato, Nilde si mosse sulla linea (che era anche dell’Udi), della lotta all’aborto clandestino per sconfiggere il ricorso all’aborto, considerato come violenza imposta alle donne; per la gratuità dell’interruzione di gravidanza praticata nelle strutture sanitarie pubbliche; per il diritto delle donne all’autodeterminazione. Quella piattaforma consentì di uscire dalla paralizzante contrapposizione tra una semplice liberalizzazione e la puntigliosa casistica, prevista inizialmente nei testi legislativi proposti dai diversi gruppi politici.

Mi ci sono soffermata per sottolineare come Nilde, su leggi difficili, che investivano problemi delicati e aprivano unforte conflitto, restasse ferma sui principi, ma fosse capace di ascolto e di comprensione per le posizioni diverse dalle sue, diretta a ricercare sul terreno della laicità dello Stato e rifiutandole contrapposizioni ideologiche, una possibile intesa.

Engels ne “L’origine della famiglia” distingueva tra “la produzione delle merci e la produzione degli uomini”, che pure vedeva strettamente contigue. In più di un secolo e mezzo di vistosissima trasformazione del mondo, anche i parametri di lettura e di analisi della realtà sociale sono andati diversificandosi, specializzandosi, separandosi. Oggi è la produzione delle merci (nella complessità delle sue problematiche specifiche, e soprattutto nella sua funzione primaria all’interno del sistema capitalistico) l’oggetto centrale della scienza economica. Mentre “la produzione degli uomini” se n’è andata via via distaccando, dando luogo alla nascita di una vasta serie di nuove discipline, sociali, antropologiche, psicologiche, comportamentali, ecc., alcune impostesi come capitoli determinanti della cultura contemporanea.

Questo non ha però impedito all’economia (proprio in quanto produzione di merci) di collocarsi al centro non solo dell’interesse politico ma dell’esistere umano nella sua totalità: da un lato come indiscusso “valore” prioritario, costante termine di riferimento e misura di giudizio dell’agire collettivo, dall’altro come formidabile produttrice di modelli, comportamenti, scelte individuali e di gruppo, di progetti di vita. In sostanza non solo determinando il netto prevalere della “produzione delle merci” sulla “produzione degli uomini”, ma tendenzialmente inducendo l’assimilazione o il divoramento e la cancellazione di questa da parte dell’altra.

Claudio Napoleoni è stato un grande economista, come tale riconosciuto e largamente apprezzato, e però nei confronti della centralità dell’economico rispetto a ogni altro momento dell’umano ha sovente espresso dissenso, mentre nel suo riflettere mai perdeva di vista quella dimensione dell’esistere che Engels appunto indicava come “produzione degli uomini”, e che la moderna sociologia definisce “riproduzione”. Anzi in qualche misura mostrava di privilegiarla, come ambito cui non solo appartiene in tutte le sue forme la continuità vitale della specie, ma in cui trovano spazio i rapporti più ricchi, le passioni più profonde, le libertà totali; in cui si esprime insomma al suo massimo, in positivo e in negativo, la qualità umana.

In questo senso va letto questo titolo un po’ criptico del mio intervento, cui sono stata cortesemente invitata, e che intendeva richiamarsi a un momento di confronto attivo tra Claudio e me, cioè a un dialogo, apparso nell’88, in appendice alla seconda edizione di un mio libro di due anni prima: titolo “Tempo da vendere – Tempo da usare”, sottotitolo “Produzione e riproduzione nella società microelettronica”. Un lavoro che nasceva come critica della storica divisione del lavoro tra uomini e donne, ancora oggi in larga misura perdurante, benché sempre più le donne siano partecipi anche del lavoro di mercato; ma si impegnava poi nell’analisi della diversa qualità del tempo impiegato nelle due distinte funzioni: tempo di lavoro, il primo, cioè pezzi di vita “venduti” a un imprenditore contro un determinato compenso; il secondo, tempo “usato” in un vastissimo arco di impegni, attività, rapporti, che travalicano l’ambito familiare, fino a coincidere di fatto con la vita. Tutto il discorso era sostanzialmente improntato a un giudizio duramente critico di una razionalità sociale, che con la produzione e il mercato sempre più tende a coincidere e identificarsi.

Il libro in questione era piaciuto molto a Claudio, che me ne aveva scritto in una lettera assai più significativa di un formale ringraziamento per l’omaggio, e nella quale già andava abbozzando un possibile approfondimento di alcuni momenti della materia affrontata. Subito infatti, quando glie lo proposi, accettò di commentare e sviluppare i contenuti del mio lavoro, in appendice a una seconda edizione. E lo fece, senza riserve usando quella sua straordinaria capacità di muoversi tra l‘osservazione della più modesta ferialità quotidiana e l’azzardo di ipotesi decisamente utopiche, individuando tra le due dimensioni una stretta reciprocità di senso, e perfino di utilità fattuale: usando la prima come difesa dal rischio della speculazione astratta e la seconda come spinta al superamento di una politica sempre più pigra e casuale, priva di obiettivi capaci di oltrepassare il contingente, come quella che ormai apparteneva alle sinistre.

In questa chiave non solo approvò con entusiasmo la proposta che avanzavo nel libro, di recupero dell’idea di una riduzione forte e generalizzata degli orari di lavoro; e non solo riconobbe la possibilità di giungere a questo modo a un’equa distribuzione del lavoro, sia produttivo che riproduttivo, tra uomo e donna (ciò che giudicava come una prospettiva di grande arricchimento per ambedue), ma a lungo si soffermò a considerare un altro aspetto del problema che io proponevo: lo scarsissimo utilizzo del progresso da parte delle sinistre.

In effetti, via via che il prodigioso cammino compiuto da scienza e tecnologia evidenziava la possibilità di sostituire in misura crescente il lavoro umano con le macchine, quando dunque il lungo sogno di liberazione dal lavoro alienato appariva ormai un obiettivo concreto, i movimenti operai non hanno saputo vedere e usare a proprio favore la portata rivoluzionaria del momento: di fatto regalando i frutti del progresso al capitalismo. Il quale, in piena coerenza con la propria logica, lo ha usato soltanto per aumentare il prodotto: ignorando gran parte delle possibilità insite nella rivoluzione microelettronica, avviando quel processo di produttivismo perseguito ad ogni costo, di mitizzazione del Pil, di quasi “sacralizzazione” della crescita, cui anche i ceti popolari e operai furono via via conquistati, subornati dalla pubblicità e sedotti dal consumismo. Posizioni rimaste d’altronde immutate anche quando i vantaggi di questo processo non apparvero più così scontati; e mentre il Pil poco o tanto continuava ad aumentare, l’occupazione si faceva via via più problematica, e il precariato andava affermandosi in tutto il mondo come strumento privilegiato di prosperità aziendale.

La paura della disoccupazione tecnologica è stata certo la causa prima di questi comportamenti. E però, notava Claudio, c’è anche altro. C’è “il ruolo che le sinistre hanno storicamente attribuito al lavoro, in ciò conformando la propria cultura alla cultura classica borghese in modo decisamente subalterno: indicando nel lavoro - non importa quale - il fondamento non solo della vita individuale, ma della vita associata, e quindi della società intera, e quindi della politica “. Claudio insiste su questo aspetto: “Nella tradizione teorica del movimento operaio non c’è una rottura con l’ideologia borghese del lavoro”, dice; e parla di “una sorta di complesso di inferiorità delle sinistre nei confronti di quelle che vengono chiamate le leggi economiche”.

Dura e per lui dolorosa severità di giudizio, che però non gli impediva di credere alla possibilità di uno scatto capace di allargare gli orizzonti di una politica senza respiro, e intravedere i traguardi di una profonda trasformazione. Tra questi appunto un forte taglio del lavoro non automatizzabile (ad esempio una settimana di trenta ore) gli pareva non solo il primo da mettere in campo, ma quello più capace di conseguenze addirittura rivoluzionarie, su molti versanti.

Ne seguirebbe innanzitutto (conveniva con me) non solo la possibilità di un uso diverso, liberamente scelto, del proprio tempo, ma la definizione di una diversa qualità del tempo. Sottrarre cospicue porzioni del nostro tempo al mercato, all’obbligo dell’efficienza e della produttività, ai meccanismi della concorrenza, a rapporti per loro natura violenti, significherebbe la possibilità di costruire la giornata - e dunque la vita - secondo ritmi più distesi, pause cariche di senso, momenti di ricchezza psicologica e mentale altamente gratificanti, nella totale assenza di traguardi “utili” secondo la convenzione.

E in tutto ciò - insisteva - avrebbe certo un’influenza decisiva il superamento dell’attuale divisione del lavoro tra i sessi, che la riduzione degli orari grandemente aiuterebbe. Al di là della fine dell’intollerabile sfruttamento del lavoro familiare ancora interamente scaricato sulle donne, l’aumento e la maggior qualificazione della presenza femminile nel mercato del lavoro, e quindi di quella dimensione psicologica mentale temperamentale che storia e cultura hanno identificato con il “femminile”, potrebbero segnare un mutamento decisivo in un mondo nato e sviluppatosi secondo modelli della più rigida convenzione maschile. Quella cesura tra produzione e riproduzione, che certo ha radici antiche e storia assai più lunga di quella del capitale, ma che indubbiamente la società industriale capitalistica ha radicalizzato e in qualche modo istituzionalizzato, potrebbe trovare superamento in quell’approccio cui Claudio alludeva parlando della capacità di “appropriarci della realtà come di un tutto”, e che avrebbe voluto alla base della politica delle sinistre; desiderio, ahimé, dalle loro scelte sistematicamente deluso.

In perfetta coerenza con questo impianto del suo ragionamento, sempre rapportandosi all’ipotesi di riduzione del lavoro, e dunque di abbandono del produttivismo imperante, Claudio faceva riferimento anche alla crisi ecologica planetaria, di cui lucidamente già allora (cioè più di ventidue anni fa) valutava la minaccia. Merita riportare per intero le sue parole: “E’ dimostrato che la crescita indefinita di beni materiali da un lato incontrerebbe limiti invalicabili nella esauribilità delle risorse naturali, dall’altro comporterebbe crescenti costi ambientali: l’inquinamento dell’aria e delle acque, la distruzione dei suoli, il dissesto degli assetti urbani, i fenomeni di congestione e così via, già oggi pervenuti a livelli intollerabili. E’ qui infatti, nella drammaticità del problema ambientale, che i limiti sociali dello sviluppo si manifestano nel modo più evidente”. Una diagnosi dell’insensatezza del modello produttivo oggi invalso nel mondo, che dovrebbe far seriamente riflettere economisti, imprenditori e politici, che - quasi tutti - soltanto rilancio della produttività, ripresa della crescita, aumento del Pil, sanno pensare come cura del pianeta, proprio a causa dell’iperproduttivismo gravemente malato.

Utopia, era la critica spesso rivolta a Napoleoni, anche da parte di suoi grandi estimatori. Lui ne era pochissimo impressionato, e affermava convinto: “Posti a un livello minore, i problemi non hanno risposta”.

Pivano: Hai voglia di raccontarci come ti è venuto in mente di fare questo disco?

Spoon River l'ho letto da ragazzo, avrò avuto 18 anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi si trovava qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi si Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.

P./Cioè, tu hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a "comunicare"? Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters, la ragione per la quale queste poesie sono ancora attuali, specialmente tra i giovani?

F. Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne temi che si adattassero ai tempi nostri, e siccome nei dischi racconto sempre le cose che faccio, racconto la mia vita, certo di esprimere i miei malumori, le mie magagne (perché penso di essere un individuo normale e dunque penso che queste cose possano interessare anche agli altri, perché gli altri sono abbastanza simili a me), ho cercato di adattare questo Spoon River alla realtà in cui vivo io. Perché ho scelto Spoon River e non le ho addirittura inventate io, queste storie? Dal punto di vista creativo, visto che c'era stato questo Signor Lee Masters che era riuscito a penetrare così bene nell'animo umano, non vedo perché avrei dovuto riprovarmici io.

P.

/Sicché le grosse manipolazioni che hai fatto sui testi sono state come delle operazioni chirurgiche per rendere il libro attuale, contemporaneo?

F. Sì. Addirittura per rendere più attuali i personaggi, per strapparli alla piccola borghesia della piccola America del 1919 ed inserirli nel nostro tipo di vita sociale. Quando dico borghesia non dico babau, dico la classe che detiene il potere e ha bisogno di conservarselo, no? il suo potere. Ma anche nel nostro tipo di vita sociale abbiamo dei giudici che fanno i giudici per un senso di rivalsa, abbiamo uno scemo di turno di cui la gente si serve per scaricare le sue frustrazioni (è tanto comodo a tutti, uno scemo...)

P./Dal libro hai preso nove poesie, scegliendole tra le più adatte a spiegare due temi che sembravano le più insistenti costanti della vita di provincia: l'invidia (come molla del potere esercitata sugli individui e come ignoranza nei confronti degli altri) e la scienza (come contrasto tra l'aspirazione del ricercatore e la repressione del sistema). Perché proprio questi due temi?

F. Per quanto riguarda l'invidia perché direi che è il sentimento umano in cui si rispecchia maggiormente il clima di competitività, il tentativo dell'uomo di misurarsi continuamente con gli altri, di imitarli o addirittura superarli per possedere quello che lui non possiede e crede che gli altri posseggano. Per quanto riguarda la scienza, perché la scienza è un classico prodotto del progresso, che purtroppo è ancora nelle mani di quel potere che crea l'invidia e, secondo me, la scienza non è ancora riuscita a risolvere problemi esistenziali.

P. /Chi ha fatto questa scelta dei temi e delle poesie?

F. Dopo aver fatto la scelta ne ho parlato con Bentivoglio al quale ho proposto di aiutarmi in questo lavoro. Tra noi ci sono state molte discussioni, come è ovvio e come è giusto. Bentivoglio tendeva a fare un discorso politico e io volevo fare un discorso essenzialmente umano. Alla fine la fatica più dura è stata, mai rinunciando a esprimere dei contenuti, quella di accostarsi il più possibile alla poesia. Fatica a parte devo dire che vorrei incontrare un centinaio di Bentivoglio nella vita: se vivessi cent'anni, un disco all'anno, sarei l'autore di canzoni più prolifico del mondo.

P. /Puoi spiegarmi meglio l'idea del malato di cuore come alternativa all'invidia?

F. Se ci riuscissi. Gli altri personaggi si sono lasciati prendere dall'invidia e in qualche maniera l'hanno risolta, positivamente o negativamente (lo scemo che per invidia studia l'enciclopedia britannica a memoria e finisce in manicomio, il giudice che per invidia raggiunge abbastanza potere da umiliare chi l'ha umiliato, il blasfemo che è un esegeta dell'invidia e per salirne alle origini la va a cercare in Dio); invece il malato di cuore pur essendo nelle condizioni ideali per essere invidioso compie un gesto di coraggio e...

P./ Possiamo dire che ha scavalcato l'invidia perché a spingerlo non è stata la molla del calcolo ma è stata la molla dell'amore?

F. Ma sì, l'avrei detto io se non lo avessi detto tu.

P./ E allora possiamo concludere con la vecchia proposta di Masters, che a trionfare sulla vita è soltanto chi è capace di amore?

F. Sì, a trionfare sono i "disponibili".

P. /Anche per il gruppo della scienza hai trovato un'alternativa, vero? Bentivoglio mi diceva che per rappresentare il tema della scienza hai scelto il medico che ha cercato di curare i malati gratis ma non c'è riuscito perché il sistema non glielo ha permesso, il chimico che per paura si rifugia nella legge e nell'ordine come fatto repressivo e l'ottico che vorrebbe trasformare la realtà in luce e nel quale hai visto una specie di spacciatore di hashish, una specie di Timothy Leary, di Aldous Huxley. In che modo il suonatore di violino è un'alternativa?

F. Il suonatore di violino (che è diventato per ragioni metriche di flauto) è uno che i problemi esistenziali se li risolve, e se li risolve perché, ancora, è disponibile. E' disponibile perché il suo clima non è quello del tentativo di arricchirsi ma del tentativo di fare quello che gli piace: è uno che sceglie sempre il gioco, e per questo muore senza rimpianti. Non ti pare perché ha fatto una scelta? La scelta di non seppellire la libertà?

P./Allora si può dire che è questo il messaggio che hai voluto trasmettere con questo disco? Perché siamo abituati a pensare che tutti i tuoi dischi hanno proposto un messaggio: quello libertario e non violento delle tue prime ballate, come nella Guerra di Piero, quello liberatorio della paura della morte come in Tutti morimmo a stento, quello demistificante dei personaggi del Vangelo, come nel Testamento di Tito. Qual è il messaggio di questo Spoon River?

F. Direi, tutto sommato, che siamo usciti dall'atmosfera della morte per tentare un'indagine sulla natura umana, attraverso personaggi che esistono nella nostra realtà, anche se sono i personaggi di Masters.

P. /E' chiaro che le poesie le hai tutte rifatte. Per esempio, nella poesia del blasfemo, tu hai aggiunto un'idea che non era in Masters, quella della "mela proibita", cioè della possibilità di conoscenza, non più detenuta da Dio ma detenuta dal potere poliziesco del sistema.

F. Non mi bastava il fatto traumatico che il blasfemo venisse ammazzato a botte: volevo anche dire che forse è stato il blasfemo a sbagliare, perché nel tentativo di contestare un determinato sistema, un determinato modo di vivere, forse doveva indirizzare il suo tipo di ribellione verso qualcosa di più consistente che non un'immagine così metafisica.

P. /Mi diceva Bentivoglio che se la "mela proibita" non è in mano a un Dio ma al potere poliziesco, è il potere poliziesco che ci costringe a sognare in un giardino incantato. Cioè, il giardino incantato non è più quello divino dove secondo Masters l'uomo non avrebbe dovuto sapere che oltre al bene esiste il male.

F. Sì, in realtà per il blasfemo il giardino incantato non è stato creato da Dio ma è stato addirittura inventato dall'uomo e comunque la "mela proibita" è ancora sulla terra e noi non l'abbiamo ancora rubata. A questo punto hai capito che cosa voglio dire io per sognare: voglio dire pensare nel modo in cui si è costretti a pensare dopo che il sistema è intervenuto a staccarci decisamente dalla realtà.

P. /Mi pare che la tua aggiunta non sia una forzatura, perché anche nella denuncia della manipolazione del pensiero, del lavaggio mentale esercitato dal sistema, Masters è un precorritore dei nostri problemi. Cerca di dirmi in che modo, quando eri ragazzo, a un ragazzo della tua generazione Masters è sembrato un contestatore.

F. Perché denuncia i difetti di gente attaccata alle piccole cose, che non vede al di là del proprio naso, che non ha alcun interesse umano al di fuori delle necessità pratiche.

P. /Cioè più che la sua contestazione politica ti ha interessato la sua contestazione umana?

F. Sì, secondo me il difetto sostanziale sta nella natura umana.

P./Ritornando alle tue manipolazioni del testo, possiamo dire che l'aggiunta di questo concetto della "mela proibita" non detenuta da Dio ma dal potere del sistema è la manipolazione più grossa. D'altronde è passato mezzo secolo da quando Masters ha scritto queste poesie, sicché se questa galleria di ritratti la potesse riscrivere adesso non c'è dubbio che la sua vena libertaria gli farebbe inserire elementi che si è limitato a sfiorare come precorritore. Questo vale anche per l'altra grossa manipolazione che hai fatto, quella dell'ottico visto come proposta di un'espansione della coscienza. Ma proprio dal punto di vista stilistico, perché hai sentito la necessità di cambiare la forma poetica di Masters? Bentivoglio mi diceva che il verso libero di queste poesie non ti serviva, avevi bisogno di ritmo e di rima, questo è chiaro. Ma sembra quasi che tu abbia voluto divulgare, spiegare a tutti i costi.

F. Sì. Mi pareva necessario spiegare queste poesie; poi c'era la necessità di farle diventare delle canzoni. Cioè delle storie e una storia non è un pretesto per esprimere un'idea, dev'essere proprio la storia a comprendere in sé l'idea.

P./ Ma come spieghi per esempio il fatto di aver usato parole di un linguaggio contemporaneo quasi brutale, per esempio nel verso della poesia del giudice "un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del c..." e di avere per esempio inserito immagini come "le cosce color madreperla" in poesie che pur essendo piene di sesso sono espresse per lo più in forma asettica, quasi asessuata?

F. Perché anche il vocabolario al giorno d'oggi è un po' cambiato, e io ero spinto soprattutto dallo sforzo di spiegare il vero significato di queste cose. Quanto alla definizione del giudice, questo è un personaggio che diventa carogna perché la gente lo fa diventare carogna: è un parto della carogneria generale. Questa definizione è una specie di emblema della cattiveria della gente.

P. /Tutto sommato mi pare che queste siano state le manipolazioni più pesanti che hai fatto ai concetti e al testo di Masters; e d'altra parte quando il libro è uscito, ai suoi contemporanei è sembrato tutt'altro che asettico e asessuato: il gruppo dei Neo-Umanisti lo aggredì come "iniziatore di una nuova scuola di pornografia e sordido realismo".

F. Capirai.

P./ Comunque sono certa che non deluderai i tuoi ammiratori, perché le poesie le hai proprio scritte tu, con quella tua imprevedibile, patetica inventiva nelle rime e nelle assonanze, proprio come nelle poesie dell'antica tradizione popolare. Ma fino a che punto, per esempio, ti sei identificato col suonatore di violino (Jones, che nel '71 suona il flauto) che conclude il disco? E non voglio alludere al fatto che da ragazzo ti sei accostato alla musica studiando il violino.

F. Non c'è dubbio che per me questa è stata la poesia più difficile. Calarsi nella realtà degli altri personaggi pieni di difetti e di complessi è stato relativamente facile, ma calarsi in questo personaggio così sereno da suonare per pure divertimento, senza farsi pagare, per me che sono un professionista della musica è stato tutt'altro che facile. Capisci? Per Jones la musica non è un mestiere, è un'alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio.

Fernanda PIVANO

F. Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: chi è Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua professione traducendo il libro di un libertario mentre la società italiana ha tutt'altra tendenza. E' successo tra il '37 e il '41: quando questo ha significato coraggio.

Fabrizio DE ANDRE'

(Intervista registrata a Roma il 25 ottobre 1971. Qui tratta da :lmasetti/percorsi_incrociati/spoonriver che ringrazio)

Studioso della società industriale più attento ai conflitti che la attraversavano, ha poi cercato di importare elementi di socialismo in campo liberale, arrivando a definire il Novecento un secolo socialdemocratico. Per poi trovarsi a difendere il modello sociale europeo dagli attacchi dei neoliberisti

Il suo nome è stato quasi sempre accostato a Isaiah Berlin e a Karl Popper, come espressione di un liberalismo che non aveva timore di confrontarsi con i conflitti della modernità. Un triumvirato messo a presidio di una concezione del mondo e della democrazia che trovava piena cittadinanza solo in Europa. Ralf Dahrendorf aveva più volte affermato che il liberalismo, per continuare a esistere, doveva fare propri molti dei principi del suo avversario storico, il socialismo. Una convinzione tanto profonda da portarlo a scrivere, pochi anni prima dell'Ottantanove, che il Novecento non era stato un «secolo americano», bensì socialdemocratico, perché erano stati proprio i socialdemocratici e i laburisti a salvare il capitalismo dal nemico storico, il comunismo. Il welfare state aveva infatti creato le condizioni affinché il capitalismo e la forma politica a esso congeniale, la democrazia liberale e rappresentativa, potessero sopravvivere in un mondo che aveva guardato all'Unione Sovietica prima e la Cina dopo il 1949 come a modelli di società «funzionanti» e che potevano rappresentare un'alternativa credibile al capitalismo.

La caduta del muro di Berlino, la dissoluzione del socialismo reale, la scelta cinese di intraprendere riforme propedeutiche allo sviluppo di una economia capitalistica smentirono le sue tesi, portandolo a guardare al processo di costruzione europea come la strada maestra per salvare il capitalismo dall'estremismo dei neoliberisti. Con la scomparsa di Ralf Dahrendorf scompare però proprio quel liberalismo novecentesco che aveva cercato di innovare la chiave di lettura della modernità. Del «suo» secolo socialdemocratico ci sono solo flebili echi in Germania e Svezia, mentre nel vecchio continente il neoliberismo arretra di fronte alle armate di un populismo tanto feroce, quanto capace di interpretare e dare risposte politiche seppur regressive ai conflitti del capitalismo. E non è un caso che il suo ultimo libro si chiami Quadrare il cerchio ieri e oggi (Laterza) dove lo studioso tedesco propone più che un punto di vista un metodo per diradare le nebbie di uno «spirito del tempo» certo non prodigo né di tolleranza, libertà e tanto meno di eguaglianza.

Autorevole in nome del potere

In questo breve saggio, Dahrendorf propone un ritorno alle sue origini di studioso, quando la questione dell'esercizio del potere diventava il nodo da sciogliere e che per farlo occorreva assumere le ragioni di una delle parti in conflitto e stabilire il frame affinché quelle ragioni fossero inscritte in un quadro di equilibrio tra interessi diversi. Una proposta di metodo avanzata con lo stile piano che gli era proprio, ma segnata dall'inquietudine profonda di chi ha visto svanire il suo mondo.

Ralf Dahrendorf era nato a Amburgo nel 1929 e aveva conseguito la laurea in filosofia per poi trasferirsi in Inghilterra e completare i suoi studi. Ed è stato proprio a Londra che aveva conseguito il Ph. D alla London School of Economics. Ma negli anni Sessanta il nome di Dahrendorf è legato sostanzialmente al volume Classi e conflitto di classe nella società industriale (Laterza), un volume dove lo studioso tedesco analizza il conflitto di classe come espressione di una lotta di potere. Per Dahrendorf, infatti, la società industriale è plasmata nel suo divenire attorno al nodo del potere, inteso come il potere di imporre la propria volontà e le proprie decisioni ad altri.

Nel capitalismo questo significa che i proprietari dei mezzi di produzione impongono ad altri di svolgere alcune mansioni. Da qui il conflitto dei «subordinati» rispetto proprio a quell'esercizio del potere. Ma se questa griglia analitica risente delle tesi weberiana sull'agire strumentale e sulla crescente burocratizzazione della vita sociale, ben diversa è la concezione delle classi che lo studioso tedesco elabora in una polemica a distanza con l'analisi marxiana delle classi sociali. È noto che per Marx le classi sono il risultato di determinati rapporti sociali di produzione, mentre per Dahrendorf invece le classi sono fatte discendere proprio dai rapporti di potere esistenti nella società. Così gli operai diventano classe operaia perché subordinati alla gerarchia di fabbrica, la quale definisce altri figure sociali che possono essere considerate appartenenti a una classe piuttosto che a un altra. Ed è così per l'insieme della società. I conflitti tra le classi sono dunque espressione dei rapporti di potere esistenti e del tentativo di modificarli a proprio vantaggio.

Travolto dal Sessantotto

Aspre e radicali furono le critiche che i marxisti riservarono a Dahrendorf, ritenendolo un teorico della stratificazione sociale che individuava nelle norme definite dall'amministrazione e dal sistema politico lo strumento per regolare i rapporti di potere, lo status e i livelli di redditi attraverso l'esercizio dell'autorità. L'esaltazione della democrazia liberale e la stigmatizzazione di qualsiasi proposta di una trasformazione radicale dei rapporti sociali lo portarono ad aderire al «Freie Demokratische Partei», il partito liberale della Repubblica federale tedesca, candidandosi alle elezioni. E fece scalpore a quel tempo il confronto serrato tra Dahrendorf e uno dei leader del Sessantotto tedesco Rudi Dutschke, che lo accusò di essere un paladino della società autoritaria e al dominio di classe esercitato dal capitale. Accuse che il sociologo tedesco rifiutò, ma che lo portarono a preferire l'Inghilterra alla «sua» Germania.

Questo è stato il libro più significativo di Dahrendorf dal punto di vista teorico. Il resto della sua produzione editoriale è da considerare una brillante variazione attorno al grumo tematico lì sviluppato. Ben diversa è stata invece le traiettorie impresse alla carriera politica e accademica.

Dahrendorf si trasferisce infatti in Inghilterra e diventa docente alla London School of Economics, diventando anche direttore per poi assumere la carica di amministratore delegato di Oxford. Dopo l'esperienza di deputato liberale al parlamento della Repubblica federale tedesca, è invece chiamato a partecipare a una delle prime commissioni europee per definire le tappe dell'unificazione economica e politica del vecchio continente. Per lo studioso tedesco, il cosiddetto modello renano doveva diventare il modello sociale europeo, anche se questo non gli ha impedito in anni recenti di esprimere dubbi e «scetticismo» su come si stava strutturando l'Unione europea, senza prendere le distanze da un cosmopolitismo old style, molto apprezzato in Inghilterra, una seconda patria che lo premiò con il titolo di lord.

Il crollo del Muro di Berlino, le tante «rivoluzioni di velluto» nell'est europeo, la crisi fiscale del welfare state mandano però in frantumi molte delle sue analisi sulla modernità. E così il vecchio studioso, che aveva lavorato per importare un po' di socialismo in campo liberale, si ritrovò a polemizzare con quanti, in nome della società aperta e del libero mercato, si definivano liberali, puntando a demolire il suo modello ideale di società liberale. Negli Erasmiani, un libro che può essere considerato una specie di testamento teorico, Dahrendorf propone una figura di intellettuale che interviene nell'arena pubblica per orientare le scelte, senza però mai rinunciare alla ricerca della verità. Con coraggio, ma senza mai rompere le compatibilità di fondo della società capitalistica. Un riformismo debole, il suo, e destinato a essere sommerso dalla marea di un dilagante populismo che ambisce a prendere il posto di potere occupato dai suoi avversari dell'ultima ora, quei neoliberisti che avevano già fatto carta straccia del suo timido liberalsocialismo.

La scena si colloca tra la più grande stagione di lotta operaia - l'autunno caldo del '69 - e la strage di stato - le bombe di piazza Fontana. Sullo schermo l'avvocato Agnelli di bianco vestito che esce dalla stanza del ministro del lavoro Donat Cattin, dopo aver preso atto che quella volta, per la prima volta, aveva perso la partita. Sotto c'era una didascalia che in pochi hanno potuto leggere: «Sarò l'uomo più elegante del mondo ma questa volta me l'hanno messa in quel posto». Racconta Ugo Gregoretti, il regista della più straordinaria testimonianza sull'autunno caldo, «Contratto»: quando Bruno Trentin, leader della Fiom e punto di riferimento di quella «classe lavoratrice», la vide, ne pretese la cancellazione.

Era un uomo fermo, colto, intransigente con sé e la sua parte, radicale nei contenuti e attento alle forme di lotta, rispettoso degli avversari a cui non faceva sconti. Attento al linguaggio, estraneo agli estremismi («parolai») ma non ai messaggi politici e alla domanda di cambiamento che quegli estremismi mandavano al sindacato e alla politica. Ci fu una stagione in cui parte del sindacato, quella di Trentin, seppe comprendere i messaggi che la politica - lo stesso Pci - non capì, o rimosse insieme a un'inedita esperienza di partecipazione di massa e a un sogno collettivo.

Trentin era un vero sindacalista e, per questo, un politico di qualità. Si interessava di tutto, parlava a tutti. Il bellissimo film di Franco Girardi «Con la furia di un ragazzo», presentato alla Casa del Cinema di Roma, ci racconta attraverso la voce e gli sguardi di Trentin il «terribile Novecento». Storie conosciute, la guerra civile spagnola o la Resistenza, chiedono una chiave di lettura che nelle parole dell'anziano sindacalista assumono il volto, l'impegno, le speranze, i progetti di uomini e donne che raccontano l'antieroismo, che è poi, in alcuni passaggi storici particolari, un eroismo di massa. Uomini e donne che hanno attraversato gli anni duri, i Cinquanta, e guidati da dirigenti politici e sindacali di cui il nostro tempo ha perduto l'eredità, hanno costruito con passione e disciplina una nuova storia. Il biennio '68-'69 non nasce dal nulla, è costruito nel passaggio dalla resistenza al protagonismo dei lavoratori; prima del contratto subìto da Agnelli nel '69 c'è quello, sempre dei meccanici, del '63. Perciò il '68 studentesco e il '69 operaio sono una rottura, ma costruita con una fatica, un coraggio, che segnano il passaggio dalle lotte d'avanguardia alle lotte di massa.

Trentin racconta la nascita di una democrazia diretta nei luoghi di lavoro con l'invenzione dei delegati di reparto. Racconta anche la sconfitta dell'80 alla Fiat subita sul campo, figlia della perdita di consenso in fabbrica. Non è la lotta a oltranza la chiave di volta, spesso nasconde difficoltà concrete. E' con la lotta articolata - la guerriglia e non la guerra aperta, si potrebbe dire - e con le assemblee, la democrazia, che si costruiscono egemonia e vittorie. Avendo al fianco la cultura e la scienza, Maccacaro e le 150 ore.

Con Trentin è venuta meno una voce importante, ma la storia da lui raccontata nel film di Franco Girardi era già stata archiviata, frettolosamente. Dev'essere dura, per chi oggi fa il sindacalista, raffrontare il suo lavoro e la sua passione con quella di Trentin, e il contesto di oggi con quello che milioni di persone avevano tentato di costruire.

Lo scorso 21 novembre il Centro per la riforma dello stato (Crs) ha promosso un incontro pubblico su Claudio Napoleoni a venti anni dalla sua scomparsa. Del suo straordinario contributo teorico e politico ne hanno discusso Mario Tronti, Raniero La Valle, Fausto Bertinotti, Luciana Castellina, Gian Luigi Vaccarino. Lavoro teorico e impegno politico: due campi difficilmente separabili per Claudio Napoleoni che, infatti, diceva «Io non avrei mai affrontato in vita mia una questione teoretica se non fossi stato spinto a farlo da un interesse politico». La politica, quindi, vista come attività verso la quale finalizzare lo studio e la ricerca, ma anche come «lo strumento di una liberazione».

Perché è importante riprendere la linea di ricerca di Claudio Napoleoni e provare a scavare attorno alle sue ultime e drammatiche domande? Proprio su questo sono stati diversi gli spunti di riflessione emersi nel corso del convegno. Qui ci soffermiamo solo su una questione. È possibile individuare un filo conduttore nella ricerca teorica e nel lavoro politico di Claudio Napoleoni? Rispondendo a tale quesito, infatti, è possibile capire meglio la sua attualità. Ci sono studiosi che individuano quale possibile filo conduttore della sua opera la polemica costante e ricorrente di Napoleoni contro la rendita e il parassitismo visti come tratti peculiari del capitalismo italiano. Lotta alla rendita, quindi, come terreno di iniziativa della stessa sinistra e del movimento operaio. Questo tema nel lavoro di Napoleoni indubbiamente c'è. Come però ci ricorda Lucio Magri nell'intervento al convegno di Biella (pubblicato poi su Critica Marxista), a 10 anni dalla scomparsa di Napoleoni, il suo contributo non può essere racchiuso in questo ambito. E infatti ciò è del tutto evidente se si riflette su alcune tappe importanti del suo lavoro teorico e del suo impegno politico. Già nella Rivista Trimestrale fondata con Franco Rodano (fine anni '50) prende corpo un'analisi critica del consumismo quale tratto saliente del nuovo capitalismo. A questa critica si coniuga una proposta di politica economica che, a partire dai bisogni sociali e collettivi, possa determinare nuove scelte e opportunità di investimento. Già allora, quindi, emergeva la critica alle nuove forme che il capitalismo veniva assumendo e l'esigenza di battersi per un diverso sviluppo e una diversa programmazione dell'economia. Questione, questa, che si riproporrà alla fine degli anni '60, arricchita da un elemento decisivo: proprio i contenuti avanzati delle lotte operaie di quegli anni e le forme di democrazia diretta davano la possibilità di fondare la programmazione e l'intervento pubblico nel vivo della società e dei suoi conflitti.

Nel 1978 - con Luciana Castellina e Stefano Rodotà - dà vita alla rivista Pace e Guerra. E proprio sul primo numero della rivista, riflettendo sul tema dell'austerità, Napoleoni scrive che quanto si aspettano «i destinatari» di quella proposta (cioè i soggetti sociali protagonisti delle lotte in particolare degli anni '60-'70) «non è soltanto una migliore amministrazione dell'esistente ma un inizio di superamento sia della condizione implicita del lavoro salariale sia dei modi di consumo impliciti nella produzione mercantile». Come si vede, anche da questo passo emerge una critica al modello capitalistico di sviluppo e l'esigenza del suo superamento. Negli anni '80 la riflessione di Claudio Napoleoni si trova di fronte due questioni assai delicate e gravide di conseguenze: cominciano a dispiegarsi le politiche neoconservatrici con i loro effetti sull'economia ma anche su quei soggetti protagonisti delle lotte degli anni '60-'70; in secondo luogo, si apre una discussione nel Pci proprio su come affrontare e contrastare quelle politiche. Nel 1986 in un seminario promosso dal Cespe e dal Crs Napoleoni si chiedeva perché mai la sinistra dovesse assumere come propri gli obiettivi del risanamento finanziario e della «stabilizzazione del ciclo economico intorno a un trend positivo». La leva del bilancio pubblico andava utilizzata, secondo Napoleoni, non per produrre una spesa inflazionistica ma per «dirigere risorse verso quei settori che sono più suscettibili di allentare la nostra dipendenza dall'estero». O verso una politica di investimenti «per grandi programmi di modificazione del territorio che hanno valore in se stessi e che possono essere giudicati dei beni finali e non dei beni strumentali a altro». Investimenti, quindi, per ridurre l'inquinamento, produrre servizi, risanare le città e le aree urbane.

Sappiamo come questa discussione si è conclusa. La domanda radicale che Napoleoni si pone negli ultimi anni della sua vita porta forse il segno di una riflessione che risente molto della sconfitta che la sinistra subisce proprio a partire degli anni '80. Si chiede infatti Napoleoni «posto che la storia contemporanea culmina in una società dominata da uno sviluppo nuovo del capitalismo che per l'uomo ha un carattere distributivo, è possibile una uscita da essa per via puramente politica?». È il dubbio che lo assillava negli ultimi anni della sua vita. E proprio a fronte di questo dubbio sollecitava, nel suo ultimo libro, «cercate ancora».

Quel filo conduttore di cui abbiamo parlato all'inizio e che troviamo in tante parti della sua riflessione teorica e politica sta proprio nella critica radicale del moderno capitalismo a cui si associa una costante ricerca delle strategie che - pure in presenza di vincoli e condizionamenti che il sistema produce - portino a un suo superamento. L'attualità del suo lavoro e dei problemi che esso pone sta proprio qui. E infatti guardiamo a ciò che oggi sta avvenendo. Quel capitalismo così «pervasivo» che distrugge l'ambiente e ingenti risorse è nel pieno di una crisi drammatica non solo della finanza. È una crisi che tocca e riguarda in primo luogo l'economia reale. Così il tema della redistribuzione del reddito verso il lavoro torna a essere centrale. Ma c'è di più. Paradossalmente la necessità dell'intervento pubblico in economia viene riconosciuta da tutti. Ma, ecco il punto, l'intervento pubblico non può limitarsi a tamponare gli effetti più devastanti della crisi per poi tornare alla condizione precedente. C'è l'esigenza, invece, che quell'intervento sia funzionale a un progetto capace di modificare la qualità della produzione e dell'occupazione. E ciò è possibile se si risponde alle tante domande inevase che ci sono nella società e su di esse si orienta uno sviluppo diverso: risanamento del territorio e delle aree urbane, nuove politiche energetiche e nuove politiche industriali, progetti per una mobilità sostenibile etc. Non sta anche in questo l'attualità del pensiero di Claudio Napoleoni? Forse una costituente per un nuovo soggetto della sinistra dovrebbe partire anche da lì.

«Certo, l'economia, in quanto disciplina autonoma, è nata come scienza del capitale; e tale è sostanzialmente rimasta…». Così, più di vent'anni or sono, Claudio Napoleoni rispose a una mia domanda che per un attimo lo aveva lasciato perplesso: «Esiste un'economia di sinistra?».

Quella risposta fu per me un'illuminazione, che ha continuato a chiarirmi molte cose della politica delle sinistre, alle quali, pur senza mai essere iscritta a nessun partito, ho sempre fatto riferimento e dato il mio voto. Anche quando, in Italia e non solo, le sinistre avevano solida consistenza e autorevolezza, nel concreto del loro operare mi pareva infatti di avvertire una critica troppo blanda, episodica e parziale, verso il capitalismo, il nemico storico contro il quale erano nate e che ancora affermavano di combattere. La sensazione è andata poi accentuandosi via via che il capitalismo andava trionfando in tutto il mondo, e (fatte salve le rituali quanto sacrosante accuse di crescente sfruttamento del lavoro, di sempre più pesanti disuguaglianze, ecc.) la lotta contro di esso andava ormai riducendosi a una serie di tentativi, parziali e separati, di emendare un sistema con tutta evidenza sempre meno emendabile. Mai (mi pareva) si tentava una critica organica alla gran macchina dell'economia capitalistica nella sua interezza.

Né, a quanto ne so, mai ha avuto luogo un'impegnata analisi di quel "cambio di fase" che si produsse nel trentennio dell'immediato dopoguerra, in cui l'espansionismo del capitale si orientò verso le masse lavoratrici come bacino di utenza adeguato a quella gigantesca dilatazione dei consumi che presto si sarebbe imposta come decisiva dimensione culturale dell'umanità; ciò che d'altronde per un periodo non breve ha certo notevolmente migliorato le condizioni delle popolazioni industrializzate.

Così che, mentre la "rivoluzione" ancora rimaneva l'obiettivo ultimo della lotta, la politica quotidiana (impegnata in quelle rivendicazioni - salari, orari, pensioni, assistenza sanitaria, ecc. - che furono base dello "stato sociale") di fatto si limitava un'operazione riformistica. Si combatteva contro il capitalismo per obiettivi immediati di maggiore giustizia, ma non per la rimessa in causa della sua logica, basata sull'accumulazione di plusvalore, cioè su una crescente produzione di ricchezza della quale prima o dopo (si prometteva) tutti avrebbero potuto godere. E ciò andava creando una sorta di dipendenza psicologica nei confronti dello stesso sistema che si affermava di voler abbattere, e alla fine l'adesione al paradigma ideologico industrialista, che dà la crescita produttiva quale strumento necessario garantire il benessere collettivo.

Già nei primi anni Novanta si verificarono però dei fatti che avrebbero dovuto far suonare più d'un campanello d'allarme . Mentre in tutto il mondo, dopo alcune più o meno piccole crisi, l'economia aveva ripreso a marciare a pieno ritmo, dovunque l'occupazione andava diminuendo. Per la prima volta veniva meno quella regola, per due secoli indiscussa, che aveva garantito il lavoro a traino della produzione. Accadeva cioè qualcosa che (mentre di nuovo già si allargava il divario tra ricchi e poveri) avrebbe dovuto aprire seri interrogativi sulle politiche delle sinistre, e sulle ragioni per cui i movimenti operai, certo senza mai dichiararlo, avevano in realtà fatto propri non pochi valori e certezze del capitalismo. Avrebbero insomma dovuto aprirsi dubbi sulla totale positività della crescita, ormai impostasi come una verità di fede. Tanto più che, in modi sempre più allarmanti, e con dati sempre meno discutibili, la scienza andava richiamando l'attenzione del mondo sul crescente squilibrio degli ecosistemi, e ne indicava le cause in uno sfruttamento delle risorse naturali fortemente superiore alla loro capacità di autorigenerazione: nella crescita cioè, nell'accumulazione capitalistica.

Molte riflessioni avrebbero potuto insomma aver luogo, prima che da un lato la crisi ecologica toccasse livelli di pericolosità da molti ritenuti irreversibili, e dall'altro si avviasse e rovinosamente avanzasse nel mondo globalizzato quel processo di sempre più duro attacco al lavoro che Serge Halimi ha chiamato "Il grande balzo all'indietro". Forse (magari con l'ausilio di profetiche letture della realtà firmate da osservatori politici quali Gorz, Wallerstein, Chomsky) ciò sarebbe stato possibile anche prima che la crisi del capitale clamorosamente esplodesse. E prima che la divaricazione tra ricchi e poveri toccasse vertici quasi surreali nei dati più recenti, secondo cui l'1% della popolazione del mondo possiede il 50% della ricchezza.

Nulla di tutto ciò è accaduto. E ora? Ora, non risolto ma in qualche misura contenuto ad opera di pubblico intervento lo tsunami finanziario, mentre ancora pericolosamente continua l'altalena delle borse, e nessuno dubita più della recessione prossima ventura, anzi già in atto, ora da ogni parte, con rinnovato empito, si invoca ripresa, rilancio produttivo, insomma crescita, Pil. Con qualche novità però. Dopo un periodo in cui la crisi economica aveva totalmente oscurato le tematiche ambientali, oggi di ambiente si parla molto, ma per motivi e in modi che con una effettiva salvaguardia degli ecosistemi ha davvero poco a che fare. Da Merkel, a Obama, a Sarkozy, a Veltroni, a più di un esponente sindacale, tutti parlano con entusiasmo di energie rinnovabili e di "business verde" nelle sue forme più diverse, pensando a una forte ripresa produttiva che potrebbe seguire al loro impiego su vasta scala, dunque con deciso rilancio dell'organizzazione economica attuale, cioè sulla la causa prima dello squilibrio degli ecosistemi.

D'altronde in perfetta coerenza con un passato in cui politica e economia, dopo aver a lungo ignorato il rischio ecologico, ha iniziato ad occuparsene solo di fronte all'allarme di un prossimo esaurimento del petrolio, polarizzando poi l'attenzione su effetto serra e mutamenti climatici, in gran parte generati dall'uso dei carburanti tradizionali; per puntare infine sulle energie rinnovabili quale certa salvezza del pianeta. Del tutto ignorando quella miriade di altri guasti (crescente mancanza di acqua potabile, desertificazione, scomparsa di migliaia di specie viventi, gigantesco accumulo di rifiuti, tossicità diffusa dovuta a pesticidi e materiali chimici di uso comune, malformazioni e tumori che si moltiplicano, ecc.), problemi di diversa gravità, ma tutti parte decisiva di quel problema enorme che riguarda la stessa nostra sopravvivenza.

A questo modo, da parte dei potenti, della più vasta informazione che sempre delle posizioni dei potenti risente, e anche di non pochi ambientalisti sinceramente impegnati, si è posta in essere una sorta di operazione riduttiva, tendente a ignorare la molteplice realtà della crisi ecologica, per identificarla con il mutamento del clima (certo la sua manifestazione più vistosa e carica di rischi, ma non l'unica) e la sua soluzione con le energie rinnovabili. Prospettando così un possibile futuro libero da inquinamenti e scarsità energetica, in cui non esistano più limiti a produzione e circolazione di auto, moto, aerei, ecc. né alla moltiplicazione di consumi di ogni tipo.

Nessuno di quanti hanno pubbliche responsabilità sembra sospettare l'esistenza di un nesso tra crisi economica e crisi ecologica. Ciò che viceversa molte e autorevoli voci rilevano, d'altronde largamente riprese dalla stampa mondiale. Ne cito solo alcune, che riconducono ambedue le crisi a una sola causa: la crescita del prodotto. Il primo a dirlo era stato André Gorz ( Entropia N.2, 2007) a pochi mesi dalla morte. E lo affermano George Mombiot (con ripetuti interventi sul Guardian ), l'economista indiano Prem Shankar Jha ( il manifesto ), il biologo Edward O. Wilson ( Il Sole 24 Ore ), il filosofo Paul Virilio ( Le Monde ), l'antropologo Jared Diamond con il suo celebre libro Collasso (Einaudi). Tutti si dicono convinti che la Terra è troppo piccola per la velocità assunta dalla storia; che il futuro di tutti noi è condizionato dalla realtà ecologica, che cioè «in un mondo finito è necessaria una riduzione drastica del prodotto».

Tutti costoro sono inoltre convinti che, essendo l'economia capitalistica la causa dello squilibrio planetario, sia impossibile trovare soluzione entro la logica e le regole del capitale. Dello stesso parere si sono recentemente dichiarati anche: il filosofo sloveno Slavoj Zizek ( N.Y.Times ); l'economista Immanuel Wallerstein ( ); un'ampia "Rete di intellettuali e artisti sudamericani", che a partire da questa convinzione firmano un complesso Appello, dopo un convegno svoltosi di recente a Caracas; perfino Gorbaciov il quale dichiara senza mezzi termini che «il neoliberismo ha fallito in ogni senso» ( La Stampa ). Sono tutte opinioni innegabilmente "di sinistra", ma tutte espresse a titolo personale, da osservatori che non fanno riferimento a organismi politici. E i partiti, le sinistre organizzate, come si pongono?

Per limitarci alla situazione italiana, occorre dire che da qualche tempo si notano dichiarazioni esplicitamente e duramente anticapitaliste firmate da personaggi di rilievo di Prc. Faccio un paio di esempi. E' lo stesso segretario Ferrero a scrivere su questo giornale: «Noi ci battiamo per il superamento del capitalismo» (2 novembre); «Il capitalismo sta diventando, palesemente, il maggior nemico dell'umanità» scrive a sua volta Rina Gagliardi (4 novembre). Sono però affermazioni di solito non corredate da indicazioni operative conseguenti. Combattere il precariato, aumentare i salari, tassare i redditi più alti, potenziare i servizi, difendere il diritto a scuola e ricerca, sono in genere i provvedimenti auspicati: tutti condivisibili, certo, ma che non vanno oltre le politiche di sempre, senza affrontare l'eccezionalità della situazione.

E anche proposte capaci di una valenza decisamente rivoluzionaria, come la «riconversione ambientale e sociale dell'economia», auspicata da Ferrero ( 5 novembre), rimane appunto un auspicio, se non è debitamente elaborata e pianificata in un programma organico. Cosa di cui non si ha notizia. Anche le sinistre estreme, non solo in Italia, in genere esprimono il proprio impegno ambientale soprattutto nella battaglia contro i "mutamenti climatici" mediante energie rinnovabili (una linea, come dicevo, fatta propria dalla grande industria per la continuità e il rilancio della crescita), oppure si battono per la difesa dell'acqua, per il trattamento razionale dei rifiuti, contro opere pubbliche indifendibili come la Tav, il Ponte sullo Stretto, ecc: tutte attività in sé utilissime, ma ben difficilmente capaci di risolvere un problema quale quello che ci troviamo a confrontare.

Nessuna sinistra, a quanto ne so, sembra orientata ad assumere lo squilibrio ecologico come materia base di un impegno totale, nella cognizione piena di tutte le problematiche che ne sono parte, in una libera lettura della radicale trasformazione prodottasi negli ultimi decenni nel mondo; insomma di tutte le verità alle quali non può non fare riferimento ogni programma politico nella sua interezza e in ogni singola scelta. Tra discussioni per la difesa dei simboli e delle identità storiche, tra scissioni già in atto o minacciate, richieste di nuovi congressi (tutte cose, confesso, che non mi appassionano affatto, che trovo anzi dispersive e pericolose) è nata recentemente un'Associazione, di cui chiunque, abbia o no una tessera in tasca, può essere parte. Mi illudo se penso che questo potrebbe essere un organismo in grado di impegnarsi seriamente a ripensare la società e l'economia, per il superamento di una realtà costruita sullo sfruttamento sempre più duro del lavoro e la distruzione sempre più insensata della natura? Insomma per una rottura definitiva tra sinistre e capitale?

Forse no, se questo nuovo soggetto politico sarà capace di muovere da una piena consapevolezza del mutamento oggi in atto, assumendolo in tutta la sua radicale, eversiva portata: in cui "il capitalismo ha aderito come una seconda pelle all'antropologia del post-moderno", e in questo processo perfino «la lotta di classe, il lavoro come principio di significazione sociale, la religione civile dell'antifascismo (…) tutto è entrato in una sorta di centrifuga storica, la memoria si è mutata in fiction e caos pubblicitario», come scrive Nichi Vendola ( Liberazione 16 novembre). E Nichi Vendola è appunto uno dei promotori della nuova Associazione.

Scritti online di Claudio Napoleoni sono nel sito di Vittorio M. Tranquilli, Katciu-Martel, soprattutto nella sezione “LEZIONI, da Autori di un recente passato”. Una commemorazione lucida e commossa è quella che di Alfredo Reichlin, disponibile qui.

Mario Rigoni Stern è morto l’altro ieri sera ad Asiago, nel vicentino, dove era nato nel 1921 e dove era tornato a vivere subito dopo la guerra. Rispettando le volontà dello scrittore, la notizia della sua scomparsa è stata diffusa dai familiari soltanto ieri a funerali avvenuti.

«Son tornato vivo da una guerra. Ho avuto una buona moglie e bravi figli. Ho scritto libri. Ho fatto legna. Me basta e vanza. ‘Desso posso morir in pase». Così disse il vecchio quando andai a trovarlo l’ultima volta nella sua casa al limitare del bosco, sull’altopiano di Asiago. Era metà marzo, e lui stava in cucina sulla sedia a rotelle, un maglione di lana grezza addosso, davanti a un piatto di salsicce e patate con un bicchiere di rosso. Appena toccai la corteccia della mano - la stretta fu forte come sempre - sentii che non stava morendo, ma solo diventando bosco. Fuori era tutto primule e letame, le cinciallegre e i fringuelli sparavano trilli fenomenali, l’ultima neve splendeva, il disgelo marciava alla grande, tutta la natura si svegliava. Così ricordai quanto mi aveva detto un anno prima. «La primavera è la stagione giusta per partire, perché sai che la vita continua».

Ma per me il tempo del Mario era l’inverno. Quando nevicava, il primo pensiero era per lui. Ovunque fossi, cercavo la direzione dell’altopiano e dicevo tra me: il vecchio sarà contento, si sarà fregato le mani, avrà buttato altra legna sul fuoco. Insomma, Mario c’era, stava lassù, ed era bello saperlo. Era la garanzia che non tutto era perduto, la natura stava ancora nei binari. «Sono nato alle soglie dell’inverno - così esordisce il suo libro dedicato alle stagioni - e la neve ha accompagnato la mia vita. All’asilo infantile le suore ci avevano insegnato una canzoncina che diceva di un bambino che dormiva in una culla e di una vecchia che cantava, il mento sulla mano: «Nel bel giardino il bimbo s’addormenta / la neve fiocca lenta lenta lenta».

La Bianca Signora gli aveva portato via i compagni in Russia, ma non la odiava per questo. Quando turbinava in silenzio, usciva arruffato e felice, guardava la radura con quella foresta di capelli matti da giovanotto, barba gelata dal fiato, occhi umidi da cane pastore, poi andava a rovistare in legnaia. Per lui l’inverno era «la tavola grande dove si sta in tanti», gli sci in spalla, la dispensa piena, le corse e le capriole nella neve. Era soprattutto il tempo della scrittura, della memoria e del racconto. D’inverno vivi e morti si avvicinavano, il Sergente nella Neve tornava, le porte del cielo erano spalancate.

Aveva capito tutto: la montagna è l’ultimo baluardo, l’ultimo serbatoio di risorse in un mondo dilapidato. Sapeva che va difesa a ogni costo, e lui lo faceva: s’era buttato nella sfida con passione civile, a ottant’anni suonati, intervenendo sulla stampa nazionale contro la strategia dell’abbandono. «Il mondo che stiamo vivendo è fatto per consumare - ripeteva - ma consumando consumiamo anche la natura, e quindi l’uomo». Un giorno s’è augurato di «vivere abbastanza per vedere il mondo rinsavire un po’, con la fine degli sprechi, delle cose inutili, del chiasso, delle luci artificiali che nascondono le stelle». Senza il suo magistero morale, ora la battaglia per la sopravvivenza di quest’ultimo pezzo di mondo incontaminato diventa più difficile. Oggi non è solo la letteratura che perde un protagonista; è anche la montagna italiana che perde un difensore.

Mario nasce ad Asiago nel novembre del 1921, tre anni dopo la fine della guerra che ha devastato l’Altopiano. E’ quello il Grande Evento fondativo della sua immaginazione. Ha radici profonde; una storia di famiglia lunga mille anni, tutta lassù, tra i liberi Comuni dei Cimbri. Vive un’infanzia brada, in compagnia dei pastori delle malghe. A diciassette anni, va alla scuola militare alpina di Aosta, dove scopre la grande montagna. Ma è subito la seconda guerra, l’aggressione alla Francia e la campagna di Russia con le scarpe di cartone. Nella ritirata compie quello che definisce «il capolavoro della vita»: una notte parte dal Don con settanta alpini e cammina verso occidente nella bufera, sganciandosi dal suo caposaldo senza perdere nemmeno un uomo. Torna a casa, ma dopo l’8 settembre viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di lavoro in Masuria, a Nordest di Varsavia.

La prigionia non è solo il tempo della fame e del patimento. E’ anche il tempo della scrittura. Il suo cammino letterario comincia lì, in una baracca «buia, gremita e maleodorante» sui laghi gelati fra Polonia e Lituania, sotto un cielo pieno di stelle. Accanto al tavolaccio senza paglia che gli fa da branda, ha uno zaino con dentro fogli arrotolati che diventano il suo diario.

Come Primo Levi ad Auschwitz, si aggrappa alle memoria per non impazzire. Come Nuto Revelli in quegli stessi anni, capisce il valore immenso del mondo contadino da cui proviene. Dopo due anni, a guerra finita, torna a casa a piedi, viaggiando di notte e nutrendosi dei frutti del bosco, sorretto dal miraggio della sua piccola patria.

Dall’esperienza russa nasce il suo testo più famoso, Il sergente nella neve, che cinquant’anni dopo sarà trasformato in monologo teatrale da Marco Paolini. «I russi - racconterà all’attore - combattevano per le loro case, i tedeschi per il grande Reich, noi italiani per salvare la vita». Fa seguito Il bosco degli urogalli e soprattutto la Storia di Toenle, dove si narra di un contadino, pastore e contrabbandiere che trova nell’attaccamento alla sua terra l’unico possibile rifugio dagli sconvolgimenti della Grande Guerra che devasta l’Altopiano. Scrive perché la memoria non sia perduta: il Sergente è dedicato a quelli che non sono ritornati, Toenle ai racconti dei nonni, L’anno della vittoria alle sofferenze dei profughi, Le stagioni di Giacomo ai partigiani costretti a emigrare dopo avere ridato la libertà al Paese. E poi, recentissimo, Le Stagioni, dedicato alla natura. Un canto alla lettura ciclica del tempo, affine nello schema alle Georgiche di Virgilio.

Una vita piena, attaccata alla sua montagna. «Non potrei vivere in nessun altro luogo» diceva tra una sciata e una gita. Persino Asiago-paese era troppo grande e rumoroso per lui. Ha aspettato di avere ottantadue anni per andare a caccia di camosci la prima volta in vita sua e impallinare una bestia al primo colpo. Aveva una mira infallibile e nel bosco vedeva quello che gli altri non vedevano. Una notte di due anni fa ci trovammo a Jesolo per un evento letterario. Lui fece notte in allegria, cenando con le autorità locali in un casone sperduto della Bassa veneta, oltre la muraglia di cemento della Riviera, ma poi a un tratto disse: «Fioi, no vedo l’ora de tornar su in montagna». Era anarchico e partigiano nell’anima; si imboscava appena possibile e odiava la pianura perché c’era troppo rumore e troppa luce.

Era grande nella scrittura, ma ancora di più nella narrazione orale. Era figlio di quella cultura e aveva un periodare spiccio e concreto, fatto di cose semplici: la pioggia, la neve, la legna, le patate, le mele, il fuoco, la carta di un vecchio libro. Le evocava, ne sentivi la ruvidezza e l’odore. «La parola detta - spiegò in un incontro pubblico a Torino - viene molto prima della parola scritta. Ha un ritmo che si sposa con l’andatura dell’uomo, che è un animale nomade imprigionato dalla modernità». Come Claudio Magris, altro grande battitore di boschi e brughiere, anche per lui l’andatura era ritmo, metrica, dunque narrazione.

Lamentava: «Cinquant’anni fa si sentiva la gente cantare. Cantava il falegname, il contadino, l’operaio, quello che va in bicicletta, il panettiere. Oggi hanno smesso. La gente non canta e non racconta più».

Un giorno lo andai a trovare e mi accompagnò a piedi verso Malga Zevio, nella zona delle trincee raccontate da Emilio Lussu. Camminò sulle rocce dove erano morti migliaia di soldati, ascoltò il silenzio dell’Altopiano, interrotto solo dal ronzio dei mosconi. Poi disse: «Di questi tempi c’è troppo rumore, stiamo perdendo il senso delle parole, la loro forza terapeutica. Eppure l’uomo ha bisogno delle parole, sennò non le manderebbe a memoria. Primo Levi si salvò recitando la Commedia. Serbare il Verbo in petto gli impedì di diventare un numero e il segreto della parola fece la differenza tra i vivi e i morti». Disse che in Russia - che lui chiamava commosso «la mia Russia» - la gente andava a recitare sulle tombe dei poeti, e lì declamava, fremeva, piangeva, evocando parole dette chissà quanti anni prima.

Sentiva la sofferenza della natura per il surriscaldamento dell’atmosfera. Guardava continuamente il cielo, ascoltava il canto degli animali del bosco, controllava i movimenti degli animali. «Guarda - mi disse quell’estate, la tremenda estate rovente del 2003 - gli abeti sono in esuberanza, sono pieni di strobili e polline». Poi imitò il trillo di un uccello: «Le allodole - aggiunse - sono salite sopra i 1500 metri, lo capisci dal canto all’alba che non si sente più attorno al paese». S’era accorto che le zecche non c’erano più, e le vespe germaniche pure. I funghi erano scomparsi, le vipere invece si erano moltiplicate. C’erano «troppe ortiche», lamentò. «Se la politica non aiuta chi lavora su in malga, le erbe matte arriveranno fin dentro la piazza di Asiago».

«Spegnete la televisione, prendete un libro» disse a sorpresa un anno fa davanti a milioni di telespettatori nell’unico talk-show cui aveva accettato di partecipare. Non aveva paura di nessuno, e parlava volentieri soprattutto con i giovani. Sentiva l’urgenza di un messaggio da lasciare. A un raduno di cacciatori «gentiluomini» in Val Badia mi disse di essere ai ferri corti con la televisione, mezzo «volgare e banale». «Lo dirò un giorno ai loro direttori - sbottò - vi prego, tenetemi sveglio almeno durante il telegiornale». Fuori pioveva in modo impressionante sulle Dolomiti, e lui si sedette accanto al fuoco per raccontare. Evocò storie di preti-bracconieri e i favolosi racconti sulle battute di caccia della letteratura russa, tra le betulle del Nord, il suo albero preferito. Sobbalzando sulla poltrona, raccontò di un commilitone uscito allo scoperto dalle linee, sotto il tiro dei russi, per correre dietro a un volo di starne.

Chiamarsi Rigoni e morire in una contrada di nome Rigoni - Asiago è una rete di frazioni sparse sui pascoli - , vivere in una terra dove basta chiedere «dov’è la casa del Mario» per farsi indicare la strada, tanto il cognome è sottinteso, credo sia una grande fortuna in questo tempo di stradicamenti e meticciati selvaggi. Quando ci andai l’ultima volta, mi bastava nominare il Mario e la gente abbassava la voce, come per non disturbare l’evento misterioso che si compiva, come se tutto l’altopiano aspettasse col fiato sospeso la caduta della quercia e ogni alberello sapesse che l’equilibrio del bosco sarebbe mutato con la sua assenza. Di certo, la foresta lo chiamava, e non era una foresta qualunque, era quella che l’aveva visto nascere. La fine del Mario era davvero un inizio.

«No go paura de morir» disse con voce flebile. Ma le guance erano rosse come sempre, e nell’occhio stanco ardeva una luce febbrile. Continuò: «Mi avevano detto che non sarei arrivato a febbraio, e adesso è marzo. Non so se arriverò alle elezioni, ma mi piacerebbe che Quello Lì andasse a casa». Quello Lì era l’innominabile, il grande manipolatore, e la luce negli occhi erano i carboni ardenti della passione civile. Ero arrivato da lui con una coppia di amici che gli avevano portato un cesto di uova ruspanti, raccolte il giorno prima nel pollaio di casa. «Uova partigiane», dissero, mandategli dagli ultimi testimoni-protagonisti della Resistenza sulla Linea Gotica. Lui fece il baciamano a lei e diede la zampaccia a lui. Era contento. Poi disse: «Mi raccomando, non voglio pagliacciate ufficiali. Niente cori e discorsi. Che si sappia una settimana dopo».

Uscendo, ci fermammo nel soggiorno inondato di sole e bevemmo un bicchiere con la moglie Anna e il figlio Alberico, una montagna d’uomo, assessore all’ambiente del Comune di Asiago. Il Mario continuava a mangiare in silenzio, in cucina, e noi promettemmo di tornare, l’estate, a fare il giro delle malghe, «perché lassù si gioca una battaglia importante». Bisognava continuare il lavoro del vecchio, non mollare al cemento. Salutammo.

Avevamo già addosso il suo odore, i suoi scarponi e il maglione. Poi salimmo verso l’Ortigara, fin dove la neve bloccò la strada. Eravamo felici.

Cesare Bermani, Gramsci, gli intellettuali e la cultura proletaria, Cooperativa Colibrì, Milano 2007, 333 p., 19,00 euro

Antonio Gramsci. Nome e figura scomparsi da ogni luogo mentale o reale in Italia, discorsi pubblicistica politica scuola. Nelle università americane ricercatori studiano la sua vita, le opere. Domando agli studenti (22-24 anni) sapete chi fu A.G. Nessuno sa, nessuno ha mai sentito niente su di lui, nessuno ha visto il nome in testa all’Unità. Uno solo sperduto dice e non dice di crederlo promotore del terrorismo. L’Unità, retaggio (lett. fig. = patrimonio spirituale) di storie interrotte, per quanto tempo ancora salverà il fragile richiamo al fondatore? Per poco, giacché il nuovo partito di cui il giornale sarebbe la voce mal lo sopporta e vorrebbe cancellarlo. Qualsiasi sarà la nuova proprietà lo farà al momento giusto. Chi protesterà? Lo scrivente e pochi altri? Il Grandevetro? Il povero Bertinotti – peraltro mai appartenuto al Pci, bensì componente della sinistra socialista lombardiana e partecipante alla fondazione del Psiup (etiam ego) – tutto preso a leccarsi le ferite?

E poi, quale giornale del partito? Non c’è già la Repubblica? D’altronde, annota Cesare Bermani all’inizio del primo capitolo, già nel 1986 Paolo Spriano lamentava: “quasi nessuno legge più i suoi scritti”. Figurarsi ora con la sinistra finita al macero. Forse, proprio per questo dico: se è vero che dalle ceneri non si può che rinascere stante la naturale fertilità della terra cosparsane, meglio così. Allora, a quale fonte nutrire i semi se non, prima di tutte, al pensiero del nostro patrio maestro che raduna a sé il contributo più alto dei padri nobili del socialismo?

Intanto ci è dato questo magnifico volume nel settantennio (2007) della morte di Gramsci. Cesare Bermani appartiene al piccolo drappello di coloro che non accettano i nuovi conformismi culturali e di massa; vuole reagire alla ricacciata dell’opera gramsciana fra i reperti archeologici di un inesplicabile movimento sociale e politico. Per farlo da libero ricercatore portato a svelare i vecchi conformismi a sinistra senza negare, come oggi è di moda, il pensiero storico dialettico, entra nel cuore del problema. Che è, principalmente, e doverosamente (riguardo a un passato dominato dall’apparatchiki di partito) quello di “liberare Gramsci” dall’interpretazione e deformazione togliattiana unendosi alla “sparuta minoranza di studiosi e militanti per ristabilire il Gramsci ‘vero’”.

Dodici i saggi nel volume. Tre gli inediti, dei quali appunto Il Gramsci di Togliatti e il Gramsci liberato, scritto appositamente, introduce la raccolta. Tutti gli scritti sono significativi dal punto di vista di una auspicabile, benché improbabile, riapertura di una discussione non ristretta a sparuti gruppi filosofici e politici. Quelli pubblicati in diverse soluzioni editoriali fra il 1979 e il 1994 appariranno come originali; è pressoché impossibile ritrovarli nella collocazione iniziale.

Ad ogni modo i dodici capitoli si tengono insieme saldamente superando gli intervalli temporali della scrittura. Per un giovane ricercatore, e per qualsiasi persona diciamo “di sinistra” desiderosa di avvicinarsi per la prima volta alla figura “del solo autentico teorico marxista ad essere anche il lieder di un partito di massa” (Eric J. Hobsbawn, citato a p. 37) costituirebbero un’ottima guida, oltre che a una generale comprensione della figura di Antonio Gramsci, alla lettura meditata dei testi suoi e di critici, compagni di strada, interpreti diversi (sottolineando la datazione).

Non mi è dato lo spazio necessario per commentare adeguatamente un libro di questa portata. Voglio però raccomandare, su un piano di mera sensibilità personale prima di chiudere, i due testi scritti fra 1981 e 1982 e posti di seguito: Gramsci operaista e la letteratura proletaria e Breve storia del Proletkul’t italiano. Ciò che scriveva A. G. nel 1917 (citato a pp.122-23) sembra riguardare oggi tutti noi mentre marcisce la crisi della sinistra: “aspettiamo l’attualità per discutere dei problemi e per fissare le direttive della nostra azione. Costretti dall’urgenza, diamo dei problemi soluzioni affrettate […] L’associazione di cultura […] sarebbe la sede propria della discussione di questi problemi, della loro chiarificazione, della loro propagazione […] Gli intellettuali non hanno un compito… adeguato alle loro capacità. Lo troverebbero, sarebbe messo alla prova il loro intellettualismo […]” (in “Avanti”, 18 dicembre 1917”).

Infine, dichiaro non meno di pura ammirazione per il saggio sonoro in appendice (1994), che non conoscevo, Da Torino operaia al carcere di Turi (con F. Coggiola e M. Paulesu Quercioli), qui ampliato per cura di Bermani e presente nei due CD acclusi (anticipati nel 1987 da una versione in cassetta ). Siamo dentro al settore forse più noto del lavoro scientifico dell’autore. Grazie al quale abbiamo potuto goderci l’ascolto di canti sociali e politici, interviste e testimonianze registrati dal vivo.

L’ultimo, bellissimo articolo ("L’immondizia nel paese che si è rotto") era uscito il 20 gennaio scorso. Ieri Pasquale Coppola è morto, improvvisamente dopo una lunga e tormentata malattia. Scrittore brillante e analista tra i più anziani e acuti tra quelli la cui firma ricorre spesso su queste pagine, non ha bisogno di presentazioni. Aveva il gusto innato, anzi la passione, per la comunicazione a mezzo stampa; passione che non aveva trasformato in vero e proprio mestiere a tempo pieno, ma aveva saputo trasmettere alla amatissima figlia Alessandra, redattrice degli esteri de "Il Corriere della Sera".

Pasquale Coppola era soprattutto, come sanno generazioni di studenti toccati dalla sua didattica chiara e coinvolgente, un professore universitario e aveva piena consapevolezza della responsabilità delle sue funzioni. Le esercitava come magistero a tempo pieno dividendosi tra la cura per l’insegnamento e la paterna attenzione profusa nei confronti di una moltitudine di allievi che ha continuato caparbiamente a tirar su anche quando il far scuola era diventato ormai incompatibile con lo stato delle risorse della nostra università.

Geografo sensibile e aggiornato, era stato allievo di Domenico Rocco ed era entrato a insegnare, giovanissimo, all’Università "L’Orientale". Vi era giunto in tempo per partecipare, all’inizio degli anni Settanta, alla trasformazione di questa istituzione in un ateneo multifacoltà, proteso a superarsi e reinventarsi al di là di un’antica e specialistica connotazione filologico letteraria. Aperto allo studio di una geografia umana profondamente influenzata dal magistero di Lucio Gambi, Coppola fu tra i fondatori della facoltà di Scienze politiche e tra i fautori di uno studio interdisciplinare che seppe animare con ricerche e iniziative scientifiche di livello internazionale. Attento da sempre alla "questione Mezzogiorno" ha dedicato a questo tema numerosi studi concentrandosi in particolare sul significato delle nuove morfologie produttive della Basilicata. Ma la sua attenzione si è anche rivolta ad altri temi che scaturivano dall’infittirsi di un quadro di relazioni scientifiche internazionali che gravitava in larga parte sul mondo francofono a cui era particolarmente legato. Uno studio sul Marocco e vari contributi sull’area mediterranea mettono bene il luce questo settore della sua attività che si conclude, poco prima della sua scomparsa, con una ricerca condotta con alcuni allievi e dedicata agli insediamenti dell’immigrazione straniera in Campania. Sono tutte testimonianze di un percorso scientifico e culturale solido e apprezzato ai livelli più alti della comunità scientifica, ma che rendono solo parzialmente conto della ricchezza della sua personalità.

Pasquale Coppola mostrava di possedere naturalmente un forte senso di appartenenza a un’istituzione, l’Università considerata come depositaria di valori e di pratiche civili essenziali per il funzionamento e la sopravvivenza della società democratica costruita sulle rovine della guerra. Di questa visione, schernita e impoverita dai cattivi costumi accademici e dalle disgreganti omissioni delle classi politiche nazionali si sentiva, senza alcuna ingenuità, depositario e rigido difensore. Un indiano della riserva o un dinosauro, nella affettuosa espressione di qualche giovane allievo. Sicuramente una persona che ci mancherà molto e di cui cercheremo di continuare a seguire l’esempio.

Nessuno ha mai saputo di questo piccolo quaderno nero, non i figli né la compagna né gli amici più intimi. Bruno Trentin l’ha protetto da sguardi e parole indiscrete per oltre sei decenni, lasciandolo scivolare sotto vecchie carte, come si fa con gli oggetti preziosi ma un po’ ingombranti, sepolti nel mucchio e mai dimenticati. È il diario dei suoi sedici anni, un documento privato ma con straordinario valore pubblico, la cronaca minuziosa e lucida dei sessanta giorni che segnarono le scelte d’una generazione, e anche il destino d’una nazione. Un journal de guerre, come titola espressivamente il giovane diarista, che comincia all’indomani dell’armistizio, il 22 settembre del 1943, per interrompersi due mesi più tardi, il 15 novembre, a pochi giorni dall’arresto insieme al padre Silvio. Due le epigrafi poste in prima pagina, «Allons enfants de la Patrie!» e «C’est la lutte finale!», la Marsigliese e l’Internazionale. Per raccontare la sua guerra antifascista Trentin sceglie il francese, "figlio guascone" di esuli italiani.

«Quando Marcelle Padovani me l’ha mostrato, è stata un’emozione molto forte: come ritrovare un tesoro al modo di Stevenson», racconta Carmine Donzelli, che ha deciso di darlo subito alle stampe.

Inusuale anche la veste grafica, nella calligrafia meticolosa, nell’ordinata scansione in paragrafi, perfino nell’accurata illustrazione tra fotografie, mappe e ritagli di giornale: «Anche in questo non comune gusto grafico», dice l’editore, «si riconosce la naturale eleganza dell’autore, una precocità fulminante e quel razionalismo cartesiano respirato nelle scuole francesi».

A Cédon de Pavie in Guascogna Bruno era nato il 9 dicembre del 1926, il padre Silvio un insigne giurista costretto all’emigrazione dalle «leggi fascistissime». Oltralpe dunque crebbe e si formò, guascone nelle radici e nel temperamento, lettore avido di D’Artagnan e ragazzo scalpitante: le foto giovanili ne mostrano l’indole da furetto indomito che pochi anni più tardi troverà una sua più misurata intensità. Inquieta e fremente - racconta Iginio Ariemma nella sua informata introduzione - è anche l’atmosfera respirata a casa e nella libreria paterna di Tolosa, la Librairie du Languedoc, crocevia degli esuli di Giustizia e Libertà e dei volontari andati a morire in Spagna.

«Ma un adolescente ribelle», spiega Donzelli, «può voler di più, magari mostrare ai padri che anche lui ci sa fare, su una spinta che mescola conflitto e assimilazione». Così nel 1942 Bruno appena sedicenne fonda un gruppetto anarchico, tappezza Tolosa di scritte antifasciste, utilizzando per la propaganda la carta intestata della libreria di famiglia... Per caso o per sfida? La polizia lo scopre, finisce in prigione. Di quell’episodio racconterà la visita in carcere della madre e un furente schiaffo sulla guancia: «Se fai il nome di tuo padre, t’ammazzo…». Per Bruno resterà uno dei ricordi più cari.

Quando può rientrare in Italia, dopo la caduta del fascismo, Silvio porterà con sé quel figlio precoce e inquieto. Ne fa il suo braccio destro, lo coinvolge nella sua attività clandestina di leader azionista della Resistenza veneta. L’arrivo è a Mestre, poi Treviso, il 4 settembre del 1943. La guerra sta per cominciare, quella vera, la guerra contro il nazifascismo - come annota Bruno nel diario - il patriottismo autentico contrapposto a quello fasullo di marca fascista... Nel journal il ragazzo trascrive ogni dettaglio, eventi e personaggi, incontri riservati, le prime azioni di sabotaggio, l’organizzazione delle bande partigiane. La cautela del cospiratore appare scossa dalla furia di divorare «conoscenze luoghi e persone», come se la scrittura potesse mimare e sostituirsi all’azione. Le sue fonti sono diversissime, dai quotidiani fascisti a Radio Londra e Radio Mosca, le agenzie internazionali, gli ambienti azionisti frequentati da Silvio. Nulla gli sfugge della scena mondiale, il fronte interno e l’Egeo, il Pacifico e la Russia. La sintonia politico-culturale tra padre e figlio sembra cementarsi, il diario è anche testimonianza d’un genitore ritrovato, «si è costruito quel rapporto che era in parte mancato», confesserà più tardi Bruno.

Resistenza e ancora Resistenza: la parola ricorre tra le pagine quando ancora se ne faceva scarso impiego, fa notare Claudio Pavone nella sua Postfazione. Dall’iniziale scetticismo verso i connazionali, intorpiditi dal ventennio nero, Trentin scopre pian piano una diffusa volontà di riscatto, in un crescendo di giudizi affilati che mescolano lungimiranza - l’eccidio di Cefalonia interpretato come pagina nobile contro il nazifascismo -, patriottica indignazione (il re «miserabile piccolo sgorbio ricoperto d’oro e medaglie finte») e accenti enfatici verso «le gloriose avanguardie dei figli di Lenin» immolate contro la «bestia nazista». Una passione questa sul fronte orientale talvolta raffreddata in un lessico più cauto, in termini come «rossi» e «bolscevichi». Nell’oscillazione lessicale sempre Pavone rintraccia i conflitti politici che agitano la sinistra resistenziale, ma anche «quel groviglio proprio d’una generazione del quale vanno colte sia le contraddizioni e le coerenze che il significato profondo».

Puntuale e quotidiano fino al 13 ottobre, nell’ultimo mese il diario acquista un passo più lento e frammentato, spia dell’aumentato rischio dei cospiratori. Il 15 novembre l’interruzione improvvisa, con una frase secca scritta a matita: «Tempo perduto. Ora all’opra!». È l’unica scritta in italiano, una sorta di epigrafe generazionale che riecheggia l’analogo appello di Giaime Pintor e disegna la parabola politica e esistenziale del giovane guascone partito dalla Marsigliese e approdato alla lingua dei padri. Per Bruno comincia una nuova vita. Quattro giorni più tardi l’arresto a Padova insieme a Silvio: nel tragitto verso la federazione fascista Bruno ingoia tutte le carte compromettenti, procurandosi un’occlusione intestinale. La carcerazione non durerà a lungo, ma nel marzo successivo l’attende lo strappo più doloroso, la perdita del padre. Al lutto privato s’aggiunge il peso simbolico della successione. Nell’aprile del 1944 Bruno è già in montagna.

Perché il prolungato silenzio su questo Journal de guerre? «Forse per una scelta di stile», risponde Donzelli. «Tra i dirigenti della sinistra vigeva la regola che non ci si doveva vantare. O forse Trentin è stato trattenuto dalla radicalità dei suoi giudizi giovanili. A me è sembrato sbagliato censurarlo, soprattutto in questi tempi confusi. Il diario ripristina con un’urgenza perentoria l’idea che c’è stata una guerra contro il fascismo, e che non è possibile equiparare i combattenti dell’una e dell’altra parte. È un documento sul valore imprescindibile dell’antifascismo. La Liberazione non è stata liberazione punto è basta, ma liberazione dal fascismo. È bene ricordarlo, altrimenti rischiamo che i miti fondativi della storia repubblicana perdano senso perché fondati sull’equivoco».

BRUNO TRENTIN

pagine dal diario

22 settembre 1934

Sono esattamente 14 giorni che il popolo italiano ha preso coscienza con una gioia trepidante dell’armistizio con le potenze Anglo-sassoni. Gioia ben presto delusa dall’annuncio dell’occupazione integrale dell’Italia settentrionale da parte delle truppe tedesche. Dall’8 settembre 1943, il nord della penisola vive la più terribile e la più penosa delle tragedie.

L’8, mio padre era a casa dei suoceri, mio fratello a casa di amici. Io passeggiavo per caso sulla piazza principale di Treviso (Veneto). Si è radunata una folla confusa e incerta. Corrono delle voci: la Pace... la Pace!... Voci, ma nessuno ne sa niente. Tutto a un tratto, un uomo compare a un balcone e urla: «Italiani! Una grande notizia... Armistizio!... la guerra del fascismo è finita!... Vendetta contro quelli che vi ci hanno trascinato!...». La gente grida di gioia, i soldati si abbracciano, si corre per le strade, si canta. Io, tremante, tesissimo, mi precipito attraverso il dedalo delle viuzze sporche della città bassa. In cinque minuti sono da mio nonno; irrompo nella stanza in cui mio padre sta discutendo con alcuni amici; grido: «Badoglio ha firmato l’armistizio!». Mio padre si alza in piedi, grave, senza inutili esplosioni di gioia; si guardano tutti tra loro... «È la guerra che comincia!».... La guerra vera per l’Italia vera.

Da quel giorno, le nostre volontà: quella di mio padre, di mio fratello e la mia, si sono sforzate di farla, questa guerra, con ogni mezzo.

Il 9 settembre, mio padre va a trovare il comandante della piazza, il generale Coturri. Questi si rifiuta di organizzare la resistenza alle truppe tedesche che avanzano verso Treviso per occuparla. Il 10, un altro generale, tremante di paura, si sottrae. L’11 un terzo generale del «fu esercito italiano» e il prefetto della città non si vogliono compromettere. Paura! Paura! Corriamo di prefettura in prefettura, dall’ufficio dello Stato maggiore al Municipio. La nostra delusione, la nostra amarezza sono grandi; tutti tremano di paura. Lo sgomento, il panico poco a poco si impossessano della popolazione. Qualche giorno prima, urlavano di gioia. L’11 settembre già tremavano per la loro salvezza. I tedeschi si avvicinano a Treviso. I soldati scappano in disordine, buttando le armi, le uniformi, gli ufficiali, in borghese, scappano in macchina attraversando a tutta velocità le vie della città. Di fronte all’impossibilità di organizzare in città una resistenza armata, partiamo a nostra volta per nasconderci in campagna. Comincia in Italia una nuova vita: la vita clandestina.

25 settembre 1943

Si è costituito il governo fantoccio di Mussolini. Tra questi ministri, tra questi uomini abietti che non hanno vergogna di incitare il popolo italiano a collaborare con le orde naziste, si ritrovano alcune vecchie conoscenze, già famose per la loro integrità e la loro grandezza d’animo. In particolare, quel caro maresciallo Graziani che si è tanto graziosamente distinto in Abissinia nell’impiegare i gas contro dei negri inermi, ha portato a termine la sua carriera di macellaio sanguinario, mettendosi a servire tra le file nemiche, come ministro della guerra di un governo fascista venduto alla Germania al prezzo più basso, fianco a fianco coi suoi colleghi tedeschi, macellai come lui.

Ma ci sono anche degli ufficiali che hanno saputo lavare nel sangue l’onore così compromesso di questa Italia martirizzata. È il caso del generale della divisione «Acqui» a cui era stata affidata la difesa dell’isola greca di Cefalonia, e che con una fermezza e uno stoicismo ammirevoli ha ordinato ai suoi uomini di resistere ad ogni costo all’invasore nazista. Soverchiato dalla schiacciante superiorità del nemico, insieme col suo stato maggiore rifiutò di arrendersi, cosicché i tre quarti della divisione, con tutti gli ufficiali, furono annientati. I Tedeschi fecero solo quattromila prigionieri. Una pagina gloriosa come questa mostra che c’è ancora della buona genia di Italiani: Italiani che hanno a cuore l’onore del loro paese e la loro libertà.

8 ottobre 1943

L’automobile s’inerpica per uno stretto sentiero di montagna, il tempo è cattivo, piove. Sono in macchina, con mio padre e uno dei nostri. Il nostro obiettivo è di andare a P..., paesino della montagna veneta, per discutere e prendere accordi con i capi di un movimento di patrioti italiani, armati fino ai denti, che tengono le alture. Intorno alle 5, arriviamo in paese. Parcheggiamo l’automobile nel cortile di una locanda che è una delle ultime case di P. «Loro» sono lì, ad attenderci: due giovani ufficiali degli «Alpini» dell’esercito Italiano. La barba lunga, indosso un completo di velluto, l’aria risoluta... Poche parole per presentarci, e ci sediamo attorno a un tavolo, davanti a un bicchiere di vino: siamo soli. Le discussioni che sono seguite sono state di carattere troppo confidenziale perché possa trascriverle su questo diario.

Tuttavia, mentre parlavamo, tra noi, sentivamo qualcos’altro.. un bisogno di essere affettuosi, nonostante parlassimo di questioni terribilmente serie e importanti.

Negli occhi di quei montanari si percepiva una grande aspettativa, un po’ di riconoscenza, per quella gente di laggiù, per quei rappresentanti dei partiti di resistenza, che erano saliti fin lì per provare a creare qualcosa di veramente organizzato... forse anche un po’ di diffidenza per quegli uomini ben vestiti, un po’ pieni di illusioni.

Arriva un capitano degli Alpini, è il capo del gruppo. Pelle abbronzata, baffi corti... doveva avere attorno ai trentacinque anni: il tipico montanaro veneto. I suoi occhi chiari ti frugano dentro e ti spogliano. «... allora è vero, ci sono degli amici che vogliono aiutarci... ci sono altri Italiani che vogliono battersi con noi; allora, non ci sono solo bastardi e traditori?... no, c’è anche un’Italia vera»; e anche noi pensiamo che ci sia un’Italia vera, un vero simbolo di libertà piena di vita e di splendore dentro gli occhi di quell’uomo dagli abiti logori e dalla barba lunga.

Ci sono uomini che hanno pensato come me, che hanno giudicato come me e che vogliono lottare come me contro lo stesso nemico. Non siamo soli! Sotto la maschera consunta e rappezzata, dietro a questa maschera del fascismo, spunta un’altra cosa, una cosa vera, un popolo vero... il vero popolo italiano; non la folla fasulla che urlava «a noi» senza sapere perché... no, un popolo vero... grave, risoluto, splendente di forza e di luce... il popolo libero, il popolo che spezza le sue catene, e che grida altolà!

Quel popolo che era sul Piave contro l’Austriaco, che era a Vittorio Veneto dopo Caporetto, che era anche a Guadalajara contro le Camicie Nere, è nato di nuovo, puro, vergine, inattaccabile...

Abbiamo finito di parlare. Gli accordi sono presi... al minimo segnale devo raggiungerli anch’io per lottare al loro fianco... Stringiamo le mani callose, le stringiamo forte... Addio... L’automobile scende nella notte: un’ora dopo i grandi e sublimi contorni delle Alpi sfumano nel buio... Riscendiamo in città... per occuparci di loro, per riprendere la penna, la carta, l’elettricità, la radio... gli strumenti moderni della guerra... quegli strumenti offerti dalla civiltà...

© Marcelle Padovani e Donzelli Editore 2008

Cesco Chinello si è spento a Venezia nella notte di sabato, «tranquillo e lucido come aveva sperato», testimoniano i suoi. Era malato da un pezzo, di quelle malattie anche di fatica che afferrano i non più giovani. Gli erano diventate difficili anche le scale dell'appartamento a Sant'Elena, nella modesta casa giusto dietro l'imbarcadero dei giardini. Aveva corso sempre, da quando poco più che ragazzo era entrato nella Resistenza, e fra un'azione e l'altra avevano deciso in quattro o cinque, per svegliare una città sonnolenta, una pericolosa goliardata interrompendo uno spettacolo al Goldoni davanti ai tedeschi occupanti per leggere un appello a resistere. E poi erano riusciti a scappare, giovani e matti, fra vicoli e canali, e continuando a rendere incerta la presenza della Wehrmacht assieme alle brigate dell'entroterra. Dove continuò a correre in bicicletta, a guerra finita, per contendere metro per metro alla chiesa un Veneto profondo bianco, del quale ancor oggi Venezia resta un'isola democratica e di sinistra davanti alla marea di una Lega dilagata negli spazi della vecchia Democrazia cristiana.

I giorni di Cesco sono stati un ostinato contrappunto alla vicenda della città, che il dopoguerra trovava sospesa fra un turismo élitario e il pessimo sogno fascista degli anni Trenta - quello del «conte» Volpi - di fare un avamposto industriale della zona fra la Marittima e Marghera, pesante appendice cementificata fra la città periclitante sulla laguna e Mestre. Nel dopoguerra sarebbero cresciute le manifatture dove un tempo c'erano stati navigazione interna e commerci e barene, sarebbe arrivato lo sciagurato canale dei petroli e il Petrolchimico dei veleni. Ognuno di questi poli, che sarebbero durati assai meno del secolo breve e furono terreno di un assai poco gloriosa frangia del poco glorioso capitalismo italiano, aggrumava una manodopera che veniva dall'entroterra contadino e dalla ex città di mare.

Un'aggregazione che cresceva negli anni Sessanta fino quel 1968 che ancor oggi i residui operai veneti, specie delle metallurgie, ricordano come se fosse stato tutto loro, un risveglio tumultuoso, la conquista di impensati diritti.

Cesco Chinello, dopo aver percorso la provincia in tutte le direzioni, era diventato l'uomo di quella gente, assieme ad altri quadri operai, straordinari e ritrosi come il Peri Granziera che non so quanto a lungo abbia creduto nel partito e per niente nei gruppi. Cesco nel partito credette sul serio e a lungo, fu segretario di quella federazione a calle del Remer (da tempo non ce n'è poi stata una se non a Mestre), dove passavano anche musicisti e pittori, Gigi Nono in polemica con Zdanov e i pittori in polemica fra loro, Vedova presto deluso contro Zigaina prediletto dalla direzione romana. Vi approdavamo anche noi ingraiani, ma Cesco non veniva con noi a tarda sera, con Gigi, alla taverna della Fenice. Forse pensava di noi come aveva scritto con ironia Noventa «credevamo di stare all'osteria e invece stavamo nella storia». Lui stava nella storia quotidiana, si alzava presto, correva a Marghera, passava da una riunione all'altra, cercava di convincere i compagni e il centro di quel che stava cambiando, aveva fiducia in Ingrao e in Trentin, che la fabbrica la conosceva davvero. Ma in verità ben prima del Muro di Berlino il Pci l'aveva lasciata cadere, se pure era mai stata al centro dei suoi dirigenti, più intenti alla geopolitica che a quel conflitto che connotò il secolo. Così dopo l'undicesimo congresso anche lui fu più o meno sordamente accantonato, fatto anche deputato quando si pensava ancora alla Camera come una onorevole messa da parte.

Si interrogava sulla crescita e sulla caduta. C'è una storia di Venezia che non somiglia a nessuna altra città, nei secoli e nel Novecento, declino dopo declino cui nessuno ha voluto o saputo metter un freno - oggi ha meno della metà degli abitanti di un secolo fa, e non cessa di perderne. Cesco la conosce, la ha annotata, la ha scavata - felice quando una biblioteca privata benevolmente gli si aprì - e ha potuto inserire nel lontanissimo passato le radici o almeno l'humus di quel che aveva raccolto nel presente, vicende, lotte, nomi, vite, decisioni, rinunce, volantini - tutto. Fedele alla memoria del Pci consegnò molto di quel suo prezioso materiale al locale Istituto Gramsci pensando di metterlo in salvo, finché un giorno vi si imbatte per caso, ammucchiato su una fondamenta in attesa della passata della spazzatura. Non so chi ne fosse allora il geniale direttore. Ma fu un altro passo nella solitudine, cui solo pose rimedio l'intelligenza dell'Istituto storico della Resistenza diretto da Mario Isnenghi. C'è da riflettere sulla smania autodistruttiva degli ex partiti comunisti, che si credono una classe dirigente senza avere imparato dalla borghesia che dal proprio passato si distingue ma lo salva.

Negli ultimi anni Cesco ha aderito alle sinistre delle sinistre, interessato specie al lavoro dei Verdi - ci siamo scontrati sul Mose, difeso da me e infido per lui. Ma soprattutto ha studiato, scritto, pubblicato sui conflitti operai a Venezia, interrogandosi senza pace sugli anni Sessanta e il rovescio che li ha seguiti. Ha concluso con una autobiografia che non è di sé se non come di uno fra i molti, non solo le vicende e le idee, ma nomi, cognomi, vite, caratteri, tentativi, fallimenti, anche le poche vittorie. Una storia appassionata, di parte, raramente distratta, spietata con pochi, generosa con molti, nella quale la sua Venezia si ritroverà.

Non ha veduto l'uscita di questo suo libro che è appena finito di stampare. All'Istituto andranno tutti i materiali cui non ha potuto dare spazio. Vorrei scrivere che Cesco vivrà a lungo, come il ricordo di coloro di cui ha voluto segnare per il tempo destino e lineamenti. Ma in questo momento più mi pesa che se ne sia andato anche lui, doveva partire dopo di me, tanto pochi siamo i sopravvissuti alle guerre di classe di cui oggi nessuno più vorrebbe sentir parlare.

Se n’è andato alle 8,50 del mattino, l’ora in cui, dopo la colazione («Per l’onorevole - era scritto su un cartello nella cucina della casa di riposo - caffè, biscotti, uova, marmellata») si avvicinava al tavolo per la prima partita della giornata. Giocava a beccaccino, una specie di briscola. Anche i suoi compagni di carte lo chiamavano onorevole, non più Bulow. Arrigo Boldrini, comandante partigiano, padre costituente, ha finito la sua vita ieri, all’ospedale di Ravenna. Il 6 settembre aveva compiuto 92 anni. «Nostro compito - ha scritto nel suo ultimo messaggio come presidente dell’Anpi - è raccontare la nostra esperienza partigiana, con le sue luci e le sue ombre. Perché possa essere di esempio e monito per fare comprendere il valore della libertà, il rischio di perderla, il sacrificio che occorre per riconquistarla».

Accompagnati da figli e nipoti, alla camera mortuaria della città arrivano gli ultimi suoi compagni di lotta, che combatterono nelle valli della Romagna. Arriva il sindaco Fabrizio Matteucci e dice che Ravenna «è orgogliosa di averlo avuto fra i suoi figli migliori». «Abbiamo perso un grande italiano. Quando ero ragazzo, i racconti dei partigiani si respiravano nell’aria: la Resistenza è stata la chiave che ci ha spinto all’impegno politico».

Domani alle 15 ci saranno i funerali in piazza del Popolo. In questa stessa piazza il 4 febbraio 1944 il generale Richard Mc Creery, comandante dell’VIII Armata inglese, gli consegnò la medaglia d’oro al valor militare per avere liberato la città di Ravenna quando il nord Italia ancora era occupato dai nazisti. Sempre in piazza del Popolo, nel novembre 1989, Arrigo Boldrini tenne l’orazione funebre per Benigno Zaccagnini. Avevano stretto un patto, lo studente di agraria diventato partigiano comunista e il pediatra che sarebbe diventato segretario nazionale della Dc. «Quando uno di noi se ne andrà - giurarono quando ancora erano in armi e si chiamavano Bulow e Tommaso Moro - l’altro parlerà al suo funerale».

Stamane verrà aperta una camera ardente in municipio. «In questo triste momento - ha scritto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - vorrei ricordare anzitutto l’amico sincero, dal tratto umano sensibile e aperto, con cui ho condiviso importanti momenti di comune impegno democratico. E rappresentare la gratitudine dell’intero Paese per il prezioso patrimonio di dedizione alla causa della libertà e dell’indipendenza nazionale».

Non era bravo a parlare, il comandante Bulow. «Me lo dissero - ha scritto nel libro "Corsari in jeep" Vladimir Peniakoff, comandante del reparto inglese che partecipò alla liberazione di Ravenna e salvò la basilica di Sant’Apollinare in Classe - i suoi stessi compagni. "Ha le qualità del capo, sa organizzare la guerriglia ma non sa parlare". In verità non era un oratore. Era un giovane piccolo di statura, vivacissimo. Era stato scelto da Luigi Longo, uno dei capi della Resistenza, perché aveva un’esperienza militare come ufficiale dell’esercito. Lo incontrai durante la liberazione della città. Noi entravamo da est, lui da nord. Bulow era ferito a un braccio, lo feci medicare e lo condussi nel mio alloggio. Era il giorno della vittoria ed egli era l’eroe ferito nella liberazione della sua città. Sarebbe rimasto a godersi il trionfo? Attivo e irrequieto come al solito, non ebbe pace finché non ripartì per le paludi, dove aveva vissuto tanto a lungo la vita di un ranocchio. Egli e i suoi vivevano in capanne di canne fangose, pochi centimetri sopra il livello dell’acqua. Ogni notte facevano una sortita contro i tedeschi, durante il giorno giacevano sul fango».

Finisce la guerra, Arrigo Boldrini resta per tutti Bulow. Non è facile scrollarsi di dosso i soprannomi in una terra romagnola dove i padri hanno il coraggio di chiamare i figli Rivo, Luzio e Nario, oppure Sole, Dello, Avvenire. «E’ stato un altro partigiano - raccontò Boldrini - a darmi questo soprannome. Si chiamava Michele Pascoli, era un barbiere comunista che sarebbe stato fucilato dai nazisti. Io spiego agli altri, in una riunione, che la guerra ai nazifascisti si può fare anche dove non ci sono montagne. Mi metto a parlare di "pianurizzazione". Il compagno Pascoli mi guarda e dice: "mo’ chi sit, Bulow?". Ma chi credi di essere, quel Bulow che ha sconfitto Napoleone?. Così quel nome mi è rimasto attaccato».

Subito dopo la guerra, il capo partigiano viene accusato dell’eccidio di Codevigo, in Veneto. Decine di militari e civili della Repubblica sociale furono uccisi. Arrigo Boldrini viene processato e assolto. Entra in Parlamento, diventa un padre della Costituzione. Diventa presidente dell’Associazione nazionale partigiani italiani. Scrive tutti i suoi discorsi, non parla mai a braccio, anche quando deve andare a celebrare il 25 Aprile nelle più piccole frazioni del ravennate. «Noi abbiamo combattuto - racconta - per quelli che c’erano, per quelli che non c’erano e anche per chi era contro…».

Arrivano gli anni del tramonto. Nell’aprile 2005 Bulow viene accompagnato dal figlio Carlo nella casa di riposo di un prete, don Ugo Salvatori, a Marina di Ravenna. Si guarda intorno stupito, assieme al sacerdote vede anche quattro suore. La sua mente non è più quella di un tempo ma qualche ricordo ritorna. «Ma lo sa - dice a don Ugo - che da piccolo, nella chiesa di Santa Maria del Porto, facevo il chierichetto? Il nostro capo chierico era Benigno Zaccagnini». Verso sera, nella nebbia ravennate, un’agenzia annuncia che «Bulow si era avvicinato alla fede». Lo avrebbe annunciato don Ugo, raccontando che «prima di Natale aveva partecipato alla Messa». Il sacerdote si affretta a smentire. «Io non ho mai parlato di conversione. Ho solo detto che prima di Natale l’onorevole era stato accompagnato alla Messa da suo figlio e che era gentile con me. Tutto qui». Anche nel 2005, nei primi giorni nella casa del prete, il vecchio comandante era andato a Messa. «Stavo giocando a carte e vedo che tutti vanno via. Dove andate? A Messa, mi dicono. Io non sono andato, perché nessuno mi aveva invitato. Ma a Pasqua il prete mi ha invitato, e allora anch’io sono entrato nella cappella». Una mente lucida per i conti della partita a beccaccino e per qualche ricordo lontano. Gli occhi alle carte e alla pineta, oltre la quale ci sono le valli con la palude e i canneti. Era qui che Bulow faceva «la vita del ranocchio», per la libertà dell’Italia.

Ho riflettuto a lungo sul perché, quando il Presidente Bertinotti mi ha proposto il gradito compito di questa commemorazione, sia scattato in me, subito, per istinto, un titolo: la figura del grande italiano. Sarà che questo nostro paese continua a metterci di fronte una sostanziale ambiguità: da un lato la debolezza politica della storia italiana, dall’altro lato il paese forse più politico del mondo, in tutte le sue componenti sociali e popolari. Noi abbiamo inventato la politica per la modernità. Ne abbiamo fatto una forma, privilegiata, e un’espressione, intensa, di pensiero umano.

Perché Gramsci ha così a lungo pensato su Machiavelli? Fermiamoci un momento su questo, perché questo ci permette di entrare da subito nel foro interno di questa personalità. Intanto: il grande italiano è l’uomo del Rinascimento. Dietro, c’era la stagione magica che, fra Trecento e Quattrocento, aveva visto svolgersi quella contraddizione lancinante, fondativa della nostra successiva natura, la contraddizione tra una storia d’Italia, ancora molto lontana dal presentarsi come tale, e una poesia, una letteratura, un’arte, una filosofia, già italiane, in forme dispiegate e mature, con, in più, una naturale vocazione universalistica. Recitavamo, per l’intero mondo, l’Oratio de hominis dignitate .Quello che Pico diceva, Piero raffigurava. Ecco, Machiavelli viene fuori da qui. L’invenzione della politica moderna viene fuori da qui: dal contesto storico tra Umanesimo e Rinascimento. Di qui, la nobiltà del suo codice genetico. Uno di quei volumi Einaudi, dalla copertina grigio-scura, che presentavano, per la prima volta, i Quaderni del carcere di Gramsci, portava per titolo: Note su Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno. Era il 1953. Sono, come tanti, affezionato a quell’edizione. Era una raccolta tematica, per argomenti, dovuta all’impulso pedagogico di Togliatti, che voleva farne lo strumento di trasmissione di una cultura potenzialmente egemone. Allora ci si preoccupava di educare politicamente le masse, non come oggi, quando ci si preoccupa di correrle dietro, adattandosi a qualsiasi tipo di pulsione, anche se non sempre la migliore.

Eloquenti i titoli di quei volumi: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948); Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1949); Il Risorgimento (1949); Letteratura e vita nazionale (1950); Passato e presente (1951).

Poi verrà la più precisa e rigorosa edizione critica dei Quaderni, correttamente secondo l’ordine cronologico di stesura a cura di Valentino Gerratana, uno studioso che ha dedicato una vita a questo compito,e su iniziativa dell’allora Istituto Gramsci, oggi meritoria Fondazione Gramsci. Note su Machiavelli, appunto. Come questi aveva chiosato la prima decade di Tito Livio, così Gramsci chiosa Il Principe.

Geniale, a mio parere, la sua interpretazione del partito politico come moderno principe. Credo, ancora di una sconvolgente attualità. Ascoltiamo queste parole: “ Il moderno principe, il mito principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva, riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico; la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali “ (ed.cr. vol III, p.1558).

Non è il caso di nascondere le ombre che il tempo storico allunga su questa luce di pensiero. Non è un’orazione apologetica che ci interessa. Il distacco critico dagli autori, tanto più dai propri autori, è un obbligo intellettuale. Quell’aggettivo “totali” fa riflettere. “Germi universali e totali”. La storia del partito politico nel Novecento ha messo in campo progetti universalizzanti ma ha anche raccolto risultati totalizzanti. Marx e Machiavelli vuol dire “il partito non come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato”(ivi, vol.1, p.432). Fondare lo Stato, non farsi Stato. Non è questo però il punto centrale dell’argomentazione gramsciana. Gramsci aveva profeticamente previsto le possibili degenerazioni del partito che si fa Stato, cioè della parte che si fa tutto. E ne aveva sofferto, in carcere, non solo intellettualmente. Il suo problema politico era già allora, nella temperie terribile di quegli anni Trenta,come sfuggire alla trasformazione, non più incombente ma in atto,delle masse in folle manovrate e delle élites in oligarchie ristrette. Il problema originalmente comunista di Gramsci, vorrei dire, se questo non disturba troppo, l’originale leninismo di Gramsci, è la costruzione di un rapporto virtuoso tra classe dirigente e classe sociale. Il mito – usa lui questa parola e voglio usarla anch’io – il mito del partito-principe è l’organizzazione di una volontà collettiva, “elemento di società complesso”, come l’unica forza in grado di contrastare l’avvento della personalità autoritaria. Anche qui de nobis fabula narratur. Io penso che oggi noi dovremmo rideclinare le analisi dei francofortesi intorno alla personalità autoritaria sulla misura di un nuovo soggetto: che definirei, la personalità democratica. Si sta intrecciando qui un nodo di problemi strategicamente rilevanti per i sistemi politici contemporanei,occidentali e ormai non solo. Attenzione: questa invocazione del leader forte, a suo modo legibus solutus, se intendiamo le leggi al modo di Montesquieu, o di Tocqueville, come un corpo di costumi, abitudini, comportamenti, tradizioni, bene, questa figura non nasconde pericoli autoritari, non credo che sia questo il problema, - la liberale bilancia dei poteri funziona ancora - piuttosto fa vedere il pericolo di una delega diretta, immediatistica, al decisore politico, questa volta un individuo e non un organismo, in senso gramsciano,da parte di una moltitudine formata da una cosiddetta gente,dai forti umori antipolitici. Antonio Gramsci - da mettere in una ideale galleria di grandi italiani del Novecento politico, di tradizione cattolica e liberale, da Sturzo a Dossetti a Einaudi - bè, questi uomini postumi per le loro virtù, servono, vanno fatti servire, come vaccino contro le malattie contagiose delle democrazie contemporanee: l’antipolitica, il populismo, il plebiscitarismo. La personalità democratica come personalità non carismatica e tuttavia demagogica, eterodiretta dalla sua immagine, in sudditanza rispetto alla dittatura della comunicazione, onnipresente come figura, inconsistente come persona. Gramsci, con la sua vita e la sua opera, ci aiuta a richiamare la politica, tanto più dopo il Novecento, alla sua vocazione originaria che, da Aristotele a Weber, è stata collocata tra questi due splendidi estremi,la passione e la sobrietà. Ecco, a questo punto vorrei non dare l’impressione di edulcorare il personaggio Gramsci, iscrivendolo nel ruolo non esaltante di Padre della Patria. Tra l’altro si tratta di un uomo oggi sconosciuto ai più. Straordinaria la fortuna mondiale dell’opera di Gramsci. Tra qualche giorno, un convegno organizzato dalla Fondazione-Istituto Gramsci e dalla International Gramsci Society, farà il punto proprio su questo tema: “Gramsci, le culture e il mondo”. Ma, credetemi, non si può parlare di Gramsci, restando neutrali. O se ne può parlare, ma facendogli un grande torto. Scrisse di sé, dal fondo del carcere fascista: “Io sono un combattente, che non ha avuto fortuna nella lotta pratica”. Non era un’anima bella. Nato per l’azione, circostanze esterne lo costringono a diventare uomo di studio. Se dovessi riassumere in una definizione l’insegnamento che Gramsci ci lascia, direi così: come un uomo di parte possa diventare risorsa della nazione, senza dismettere la propria appartenenza, ma agendola nell’interesse di tutti; Gramsci ci dice che, machiavellianamente, la politica non ha bisogno dell’etica per nobilitarsi. Si nobilita da sé, sollevandosi a progetto altamente umano.

Gramsci non è solo i Quaderni del carcere. C’è un Gramsci giovane che si fa amare, se possibile, ancora di più. Lo scoprimmo nei magici anni Sessanta, quando fummo forse ingenerosamente ostili alla sua linea culturale “nazionale-popolare”, la famosa linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci, a cui rivolgevamo l’accusa di aver oscurato la grande cultura novecentesca europea, soprattutto mitteleuropea, che fummo costretti a scoprire per altre vie. Ci bevevamo gli articoli scritti per la rubrica “Sotto la mole” per l’edizione piemontese dell’Avanti! O sulla “Città futura” numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese. Qui quell’articolo (febbraio 1917) che comincia con le parole: “Odio gli indifferenti”. “Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo “. O gli articoli su “Il grido del popolo”: quello famoso e scandaloso: La rivoluzione contro il Capitale. la rivoluzione dei bolscevichi ” contro il Capitale di Carlo Marx. Se si potessero rileggere, oggi, senza il velo delle ideologie dominanti,quelle righe in “Individualismo e collettivismo”!. E’ l’individualismo borghese che produce il collettivismo proletario. “All’individuo capitalista si contrappone l’individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività “. E soprattutto gli articoli de “L’ordine nuovo”,settimanale di cultura socialista, che Gramsci fonda il 1 maggio 1919 e che poi diventerà quotidiano.Lì si organizza il gruppo che darà vita al Partito comunista d’Italia, che come si vede non subitoma fin dalle tesi di Lione del 1926, nascerà non solo contro i riformisti ma anche contro i massimalisti. Gramsci nasce, politicamente e intellettualmente, a Torino. Davanti a lui, il biennio rosso, l’occupazione operaia delle fabbriche, l’esperienza dei Consigli operai. La vera Università: la grande scuola della classe operaia. Del resto, ormai lo sappiamo: o si parte da lì, o si raggiungono solo quelli che oggi si chiamano non-luoghi. Gramsci, L’ordine Nuovo, settembre 1920: “ L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell’uomo, più grande dello schiavo o dell’artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera “. E ancora: “ Il fatto stesso che l’operaio riesca ancora a pensare, pur essendo ridotto a operare senza sapere il come e il perché della sua attività pratica, non è un miracolo? “. Già Togliatti, nel ricordo che scriveva, nel 1937, appena dopo la morte, intitolato “Il capo della classe operaia italiana”, scriveva: “ Il legame di Antonio Gramsci con gli operai di Torino non fu soltanto un legame politico, ma un legame personale, fisico, diretto, multiforme “. Non ci sono due Gramsci. L’operazione di valutare il Gramsci studioso e di svalutare il Gramsci politico è senso comune intellettuale corrente, e come tale va abbandonato a se stesso. Specialista + politico è formula gramsciana risolutiva. Dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e di qui alla concezione umanistica-storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” , (specialista + politico).Su questa base – scriveva nei Quaderni (4, ed.cr., vol.III, p.1551) ha lavorato L’Ordine Nuovo, settimanale. Il modo di essere del nuovo intellettuale sta nel mescolarsi attivamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore, non puro oratore. Quindi, per Gramsci, l’equivalente di politico è dirigente, armato però di cultura tecnica, scientifica, umanistica. Qui c’è la preziosa distinzione gramsciana tra direzione e comando, tra guidare e imporre. Questo vale per il gruppo dirigente nei confronti del partito, vale per il partito nei confronti dello Stato,vale per lo Stato nei confronti della società. Egemonia non è solo cosa diversa, è cosa opposta a dittatura. Sul concetto di egemonia pesa ancora un’incomprensione di fondo e una falsificazione di fatto. Non c’è pratica di egemonia senza espressione di cultura. Praticare egemonia è una cosa molto complessa, direi raffinata: vuol dire guidare seguendo, essere alla testa di un corso storico già in movimento, e che fa movimento anche in virtù delle idee, idee-guida, idee-forza che tu ci metti dentro. Una politica senza cultura politica, non cercatela in Gramsci. Scriveva nei Quaderni (ed. cr., vol. 1, p.311): “ Il grande politico non può che essere “coltissimo”, cioè deve “conoscere” il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non “librescamente”, come “erudizione”, ma in modo “vivente”, come sostanza concreta di “intuizione” politica “. Tuttavia – aggiungeva – perché in lui diventino sostanza vivente occorrerà apprenderli anche librescamente. Abbiamo tutti negli occhi, in questi giorni, i libri inchiodati del film di Olmi, che mi pare dicano la stessa cosa. C’è una frase gramsciana per me, per così dire, archetipica,nel senso di simbolicamente originaria, per un processo di formazione. Diceva: “Istruitevi, istruitevi e poi ancora istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.

Permettete un breve ricordo personale. Che rimane in tema. Nel dopoguerra, nelle sezioni, anche le più popolari, del Pci, c’era sempre un piccola biblioteca, con i classici dell’ideologia ma anche con testi di letteratura di battaglia. Quando andai a iscrivermi alla Fgci, i compagni della sezione Ostiense, qui a Roma, mi misero in mano tre libri: “Il Manifesto del partito comunista”,di Marx ed Engels, “Il tallone di ferro” di Jack London e le “Lettere dal carcere” di Gramsci. Le “Lettere dal carcere”. Quando lessi quell’ultima, al figlio Delio, non c’era più dubbio su dove schierarsi: “ Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa “ Quello, insieme agli altri due, erano i primi libri che entravano in quella casa, di persone non analfabete e non incolte,anzi colte, cioè coltivate interiormente in una maniera particolare. Una cultura che non veniva, appunto, dai libri, ma direttamente dalla vita e non una vita generica, ma una vita di lavoro. Ho sempre pensato che le due culture non sono,come si dice, la cultura scientifica e la cultura umanistica. Sono la cultura del popolo e la cultura degli intellettuali. Due cose diverse: non si identificano, non si sommano, non si confondono. Eppure un ponte di dialogo e di scambio tra queste due esperienze culturali,deve esserci e devi trovarlo. C’è una cultura materializzata nel lavoro, interiorizzata nel lavoratore: un orizzonte che, per un intellettuale di parte,è come la bussola per il marinaio, ti indica la rotta dove devi andare a cercare, a capire, a scoprire. E’ difficile comunicare la tranquilla forza di pensiero che ti conferisce l’essere, il sentirsi, radicato in questa parte di mondo. L’unico luogo sicuro e libero da quella nevrosi narcisistica che è la maledizione del lavoro intellettuale. La figura gramsciana dell’intellettuale organico, al partito e alla classe, può essere oggi demonizzata e derisa solo da chi non sarebbe mai stato capace di esserlo. Ebbene, quel ponte tra le due culture lo ha costruito quella figura storica, quel soggetto politico della modernità che si chiama movimento operaio. E lo ha fatto, generando coscienza e organizzazione delle masse e al tempo stesso creando pensiero, teoria, cultura alta. Analisi scientifica delle leggi di movimento dei meccanismi di produzione e riproduzione sociale e insieme progetti di liberazione politica.

Mi sento di esprimere una convinzione profonda: più andremo avanti, più il tempo“grande scultore”, come ha detto qualcuno/a –più il tempo si frapporrà tra noi e il passato, più ci accorgeremo che tutte le derive negative, anche tragicamente negative,non bastano per cancellare la grandezza del tentativo. Penso che, come soggetti politici di consistenza storica, dovremmo affrettare il momento di poter tornare a parlare, ognuno di sé, con onestà. Se dovessimo dirci tutta intera la verità, dovremmo parlare così:in realtà, non sappiamo con chi e con che cosa sostituire quelle componenti popolari,di matrice cattolica, socialista, comunista più quelle élites di ispirazione social-liberale,che, tutte insieme, componenti popolari ed élites non oligarchiche,hanno fatto la storia recente di questo paese: perché, esse, non erano società civile, erano società reale:cioè ordinamento storico concreto di una società. Dunque, sono ben consapevole di aver sconfinato dalle buone maniere di una commemorazione ufficiale. Ma i due Presidenti, che mi hanno affidato questo compito, ben conoscevano la mia ormai antica appartenenza a quella che Bloch ha chiamato “la corrente calda del marxismo”. I freddi piccoli passi non mi hanno mai entusiasmato, ammesso che abbiano mai entusiasmato qualcuno.

Concludo così: abbiamo individuato alcuni punti di attualità dell’opera di Gramsci. E alcuni dei presenti qui potrebbero suggerirne altri. Ma quando ripensiamo alla vita, anzi all’esistenza, dell’uomo, proprio in quanto uomo politico, allora dobbiamo far ricorso al criterio nietzscheano dell’inattuale.Qualcosa, o qualcuno, che non si può oggi riproporre e proprio per questo, in sé, vale. Ho letto, in questi giorni, questo libretto di George Steiner, “Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero”. Una delle ragioni, fonte di melanconia, è l’inadattabilità oggi del grande pensiero agli ideali di giustizia sociale. E scrive Steiner: “ Non c’è democrazia per il genio, solo una terribile ingiustizia e un fardello che può essere mortale “. Poi “ci sono quei pochi, come diceva Hölderlin, che sono costretti ad afferrare il fulmine a mani nude “. Ecco, è tra quei pochi che dobbiamo “cercare ancora” Gramsci. Quel gracile corpo fisico e quella forte statura umana, mi pare di vederli riassunti in quel gesto: afferrare il fulmine a mani nude.

Il testo è tratto dal sito rossodisera.info

Ieri, alle ore 15, in un micidiale caldo di agosto, eravamo in tanti a dare l'ultimo saluto a Bruno Trentin. Dobbiamo dire grazie al corsivetto di Galapagos sul manifesto di domenica: invece della mortificante delegazione annunciata dagli uffici dei Ds c'erano D'Alema, Fassino, Veltroni, Mussi e poi anche i presidenti di camera e senato (peraltro ex sindacalisti) il presidente del consiglio e poi tanti altri compagni, vecchi e invecchiate amicizie.

Lì, davanti alla sede storica della Cgil, c'era un popolo partecipe, ma, viene da dire, un popolo di sconfitti al funerale di un grande sconfitto.

Quel che resta di una stagione di grandi speranze e di grande impegno personale e politico.

Anche i discorsi che hanno monumentalizzato la figura di Bruno, erano, come spesso i monumenti, funebri o strumentali alle opportunità dell'oggi.

Ho conosciuto Bruno Trentin negli anni '50, quando costruì e diresse l'ufficio studi della Cgil. Allora in quegli anni piuttosto rozzi e di scontro duro e rozzo, mettere su un ufficio studi e non di «lotta dura senza paura» era una straordinaria innovazione. E quell'ufficio studi fu un vivaio di idee, di iniziative.

E c'erano compagni straordinari come Ruggero Spesso, Camillo Daneo e altri ancora dei quali non ricordo il nome. Quando - spesso in compagnia di Mario Mazzarino - andavo lì a parlare e soprattutto ad ascoltare, ne uscivo pieno di idee, di voglia di studiare, capire.

Allora lavoravo alla sezione economica del Pci e l'ufficio studi della Cgil mi appariva come il più libero e fertile territorio di ricerca, di scoperta del nuovo che in quegli anni stava maturando nell'economia e nella società italiana. E Bruno era il caposcuola: serio, riservato, profondamente ironico e, insieme, appassionato. Questo mix di ironia e passione era la componente forte del suo fascino.

Poi fu un leader indiscusso, quasi carismatico ai tempi della Flm, dell'unione dei tre sindacati metalmeccanici. Allora la triade Trentin, Carniti, Benvenuto faceva furore: i metalmeccanici erano la vera avanguardia della società italiana in trasformazione, erano la politica e la democrazia che si rinnovava.

Ma quella fertile stagione arrivò al suo declino e le cose cambiarono anche quando Bruno divenne il più prestigioso segretario generale della Cgil. Gli anni '70 furono - senza che molti di noi, anche io, lo capissero - quelli della controffensiva capitalistica. Controffensiva vincente: gli anni '80 e '90 sancirono la sconfitta, o almeno la fine di un ciclo. E i funerali di ieri mi sono apparsi come la certificazione di questa sconfitta.

Ora che la morte di Bruno quasi materializza la sconfitta, dobbiamo tornare - oso dire - al suo ufficio studi, al coraggio e alla pazienza della ricerca. Questo - a mio parere - l'insegnamento più valido che Bruno Trentin (con il quale ci siamo anche scontrati) ci lascia. Proviamoci. «Cercare ancora» diceva un altro importante defunto, Claudio Napoleoni, che non credo fosse in grande sintonia con Bruno. Ma entrambi ci mandavano lo stesso messaggio: cercare

Per chi abbia vissuto la straordinaria stagione della costruzione dell’unità sindacale a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70, la morte di Bruno Trentin è non solo dolore per la perdita di un amico e di un maestro, ma occasione per rievocare un’esperienza che avrebbe dovuto essere, credo più di quanto non sia stata, ricca di insegnamenti preziosi per la sinistra. Non a caso una riflessione seria su quell’esperienza che consentì al sindacato di acquisire molto potere, un potere non sempre utilizzato con lungimiranza, non è stata ancora fatta.

Il ruolo di Bruno nella vicenda fu fondamentale (forse solo Pier Carniti può essergli equiparato). Bruno era una persona particolare. Da un lato, era portatore di una visione del mondo molto originale, anche se permeata dalle ideologie del movimento operaio; dall’altro, era guidato dalla ragione e questa gli consentiva di mettere egregiamente a frutto capacità analitiche basate su una vasta cultura. La prima componente è esemplarmente testimoniata dal libro pubblicato da De Donato alla fine dell’autunno caldo (come fu denominata l’ultima parte del 1969, per i caratteri assunti dal rinnovo contrattuale dei metalmeccanici): “Da sfruttati a produttori”. La seconda dalla relazione sulle trasformazioni del capitalismo tenuta a un convegno dell’Istituto Gramsci nel 1963 (cito a memoria).

Certo era stata importante nella formazione di Bruno la vicenda familiare: un padre di grandissime qualità intellettuali e morali che rifiutò di sottomettersi alle leggi fasciste sui dipendenti pubblici del 1925 – lui docente universitario – ed emigrò in Francia, dove dovette adattarsi ai più svariati mestieri per mantenere la propria famiglia. Che rientrò in Italia con il figlio durante la guerra per contribuire all’organizzazione della lotta partigiana entro il movimento di Giustizia e Libertà, fu catturato con il figlio e imprigionato, e pochi mesi dopo morì. Un padre, in sostanza, con cui Bruno si misurò sempre, sentendosi (ho spesso avuto questa impressione) non di rado inadeguato.

Ciao Bruno. Avresti meritato di più, anche perché ci hai dato molto.

L'immagine lo ritrae a un comizio a Venezia nel 1971. E' tratta dal documentario di Manuela Pellarin, Porto Marghera. Gli ultimi fuoochi

Il boia abbassò l'interruttore alle ore 0,19 per Nicola Sacco. Sette minuti dopo per Bartolomeo Vanzetti. Nella prigione di Charlestown (Massachusetts) la sedia elettrica funzionò perfettamente e i due italiani (Sacco era nato nel foggiano, Vanzetti nel cuneese) furono giustiziati il 23 agosto 1927.

Sono passati 80 anni e il ricordo di quella esecuzione di due innocenti colpevoli solo di essere anarchici è ancora viva. Sacco e Vanzetti sono diventati il simbolo della lotta alle ingiustizie, prima fra tutte la pena capitale.

I due emigrati italiani erano accusati di aver preso parte ad una rapina uccidendo un cassiere e una guardia del calzaturificio "Slater and Morrill" a South Baintree, sobborgo di Boston. Nonostante le prove evidenti della loro innocenza e la confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros, che scagionava.

Bartolomeo Vanzetti era nato nel 1888 a Villafalletto, in provincia di Cuneo. Figlio di un agricoltore, a vent'anni entra in contatto con le idee socialiste e, dopo la morte della madre Giovanna, decise di partire per il "Nuovomondo", a caccia di una vita migliore come tanti italiani all'alba del Novecento.

Come Nicola Sacco, più vecchio di Vanzetti di tre anni, nato il 27 aprile 1891 a Torremaggiore (Foggia), che arrivato in America nel 1908 fece l'operaio alla Slatter.

I due si conosco nel maggio 1916 a Boston in una riunione di anarchici. Insieme ad altri militanti scappano in Messico per evitare di essere arruolati. Tornano nel Massachusetts a settembre e iniziano a scrivere per "Cronaca sovversiva", giornale anarchico. Da allora, Nick e Bart, come vengono soprannominati oltreoceano, diventano inseparabili.

La lotta agli anarchici da parte della polizia è fortissima. Molti amici di Sacco e Vanzetti vengono arrestati e i due pensano anche di tornare in Italia per fuggire alla persecuzione. Il 5 maggio 1920 vengono arrestati perché nei loro cappotti nascondevano volantini anarchici e alcune armi. Tre giorni dopo i due vengono accusati anche della rapina al calzaturificio, avvenuta poche settimane prima.

Dopo tre processi pieni di errori e incongruenze, Sacco e Vanzetti vengono condannati a morte nel 1921. A nulla valse neppure la mobilitazione della stampa, la creazione di comitati per la liberazione degli innocenti e gli appelli più volte lanciati dall'Italia.

Il verdetto fu fortemente condizionato dal clima da caccia alle streghe contro gli anarchici che in quel momenti caratterizzava gli Stati uniti e da un evidente sentimento razzista nei confronti degli immigrati italiani. Contro l'esecuzione di Sacco e Vanzetti si mobilitarono non solo gli italiani d'America, ma anche intellettuali in tutto il mondo, tra i quali Bertrand Russel, George Bernard Shaw e John Dos Passos.

«Mai vivendo l'intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini». Così Bartolomeo Vanzetti si rivolse alla giuria che lo condannò alla pena di morte. La stessa frase sarà detta da Gian Maria Volontà in uno dei momenti più toccanti del film di Giuliano Montalto del 1971. Una pellicola divenuta presto un cult grazie anche alla colonna sonora di Ennio Morricone, interpretata da Joan Baez, autrice dei testi. «Voi restate nella nostra memoria con la vostra agonia che diventa vittoria»: sono le parole di "Here's to you" che, insieme alla "Ballata per Sacco e Vanzetti", è entrata nel repertorio internazionale della canzone d'autore sollevando le coscienze negli Usa su un caso da molti dimenticato.

Il loro caso non solo smosse le coscienze degli uomini dell'epoca, ma come un fantasma continuò ad agitare l'America per decenni. Finché nel 1977, cinquant'anni dopo la loro morte, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis (riparando parzialmente all'errore del suo predecessore Fuller, che nonostante gli appelli non fermò il boia) riconobbe in un documento ufficiale gli errori commessi nel processo e riabilitò completamente la memoria di Sacco e Vanzetti.

La loro figura, anche alla luce del rinnovato impegno italiano nella campagna contro la pena capitale, torna alla ribalta. L'ottantesimo anniversario dell'esecuzione verrà ricordato il 23 agosto a Torremaggiore (Foggia), la città d'origine di Sacco nel cui cimitero sono custodite le ceneri dei due italiani, attraverso una serie di manifestazioni e la costituzione di un'associazione che porta il loro nome.

L'associazione sarà animata da Fernanda Sacco, nipote di Nicola Sacco, che da anni è impegnata nella valorizzazione del messaggio contro la pena di morte lanciato dal sacrificio dei due anarchici. Nonostante i 75 anni, Fernanda è arzilla e continua a girare le scuole per tramandare la storia di quel suo famigliare così particolare e impegnarsi nella battaglia contro la pena di morte.

Il Quirinale, in una lettera indirizzata all'associazione Sacco e Vanzetti e da essa resa nota, ha trasmesso «l'apprezzamento» del presidente della repubblica Giorgio Napolitano per l'iniziativa che, «nel tenere viva la memoria dei due emigranti italiani, intende contribuire al movimento per l'abolizione della pena di morte, tappa fondamentale per la difesa dei diritti umani, sulla quale si è di recente registrato l'unanime consenso dell'Unione europea».

A San Biagio della Cima, paese in provincia di Imperia, giovedì 23 alle 17 intitolerà la nuova piazza del Comune a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Al termine della cerimonia seguirà il dibattito: "Pena di morte, a quando la moratoria Internazionale?" al quale parteciperanno membri di associazioni e del mondo della cultura.

L’Unità

mi ha chiesto ciò che ricordo del giorno in cui il giornale, che allora dirigevo, diede, con tanti italiani, L’«Addio» a Enrico Berlinguer. Era mercoledì 13 giugno del 1984. Ma la giornata lunga era iniziata la notte tra il 7 e l’8 giugno, nel momento in cui Ugo Baduel mi telefonava da Padova per dirmi che Enrico era in condizioni disperate.

Ero a casa e tornai a Via dei Taurini, sede storica dell’Unità, che avevo lasciato da qualche ora, dopo aver informato e convocato i compagni che con me lavoravano al giornale, Romano Ledda, Carlo Ricchini, Giancarlo Bosetti, Renzo Foa e altri: avevo deciso di fare un’edizione straordinaria che fu distribuita la mattina di venerdì 8 giugno. Lucio Tonelli, Presciutti e i compagni dell’amministrazione erano al giornale. Il titolo diceva: «Sgomento, ansia, speranza per la vita di Berlinguer». Nel sommario: «Il presidente Pertini è accorso a Padova accanto ai familiari».

Le condizioni di Berlinguer erano tali da non dare molte speranze a chi non crede nei miracoli. E con i compagni della redazione capimmo subito, cosa era Berlinguer nell’animo di milioni di militanti e di elettori e cosa rappresentava nella coscienza nazionale. Dovevamo metterci su quella lunghezza d’onda, capire che il dramma di Berlinguer, che si svolgeva in un ospedale di Padova, non coinvolgeva solo il Pci. E avemmo subito un riscontro nel gesto di Pertini. Ma via via, le dichiarazioni di Cossiga, Saragat, Craxi, De Mita, di uomini del mondo della cultura e dell’economia, dei leader della sinistra europea e le parole del Papa, ci diedero la conferma di ciò che si sarebbe verificato. Infatti, ora dopo ora, la commozione e la partecipazione del popolo fu tale da configurarsi come uno dei momenti in cui la scomparsa di un leader mette in evidenza valori che sono nel profondo della coscienza nazionale. Il fatto che quella commozione e partecipazione si manifestassero nel momento in cui era in corso un’aspra lotta politica, in parlamento e nel paese - si discuteva il decreto di Craxi sulla scala mobile, si era svolta la grande manifestazione a Piazza S.Giovanni, e quel leader era il segretario del Pci - ci dice come quei valori a cui facevo riferimento - rapporto tra politica ed etica e la politica vissuta come grande passione civile sino all’ultimo respiro - hanno una valenza che va oltre ogni schieramento. Ma, in quelle manifestazioni di partecipazione e di cordoglio, c’era anche l’omaggio a un leader comunista che in una libera competizione elettorale, in una grande nazione europea, sede del Vaticano, aveva fatto guadagnare al suo partito il 34,4 dei suffragi collocandolo nell’area di governo.

So bene che i titoli che facemmo in quei giorni vennero anche criticati per una personalizzazione che varcava la soglia della politica. Per esempio il titolo dell’11 giugno in cui nell’occhiello c’è la notizia: «La situazione precipita, il compagno Berlinguer ormai si spegne» e il titolo a tutta pagina dice: «Ti vogliamo bene Enrico». Questi, però, erano a mio avviso i sentimenti più elementari e angoscianti del momento che attraversavano tante persone. E, questi, erano i miei sentimenti dato che con Enrico ebbi, come dirò, un serio e forte contrasto politico nel 1980-81, ma anche un rapporto forte dovuto non solo al fatto che lavorammo insieme per quattro anni, nella sezione di organizzazione (nel 1962-63), nell’ufficio di segreteria tra il 1963 e 1966, sino al famoso XI congresso. Quattro anni in cui ci vedevamo tutti i giorni e quando qualche mattina lui non poteva venire a Botteghe Oscure, perchè Letizia non c’era, e accudiva i figli, andavo a casa sua per vedere insieme le cose da fare. E non c’è dubbio che nei giorni dell'agonia e in quello in cui dovetti dargli l’«Addio», come in un film rivissi tanti momenti del nostro rapporto politico e della nostra amicizia. Rapporto politico e amicizia nel Pci avevano un significato particolare e relativo. Il «Partito sopratutto» si diceva. Ma l’amicizia se era fondata sulla fiducia, la disponibilità e la verità resisteva al contrasto politico. Dal punto di vista politico ho conosciuto Enrico solo dopo il 1956 quando lasciai la Cgil per la segreteria regionale del Pci e fui eletto nel comitato centrale. Negli anni in cui maturava la politica di centrosinisra e nel partito si sviluppò una lotta politica, Enrico, come Amendola, Bufalini, Alicata, Napolitano contrastò le posizioni di Ingrao, Natoli, Rossanda, Reichlin, i quali ritenevano che il rapporto Dc-Psi si collocasse in un disegno del neocapitalismo che bisognava combattere frontalmente e non, come sosteneva Togliatti, raccogliendo la sfida sul terreno del confronto e della lotta per le riforme. Una disputa politica che, dopo la morte di Togliatti, si concluse, con Longo segretario, all’XI congresso del Pci. Enrico - che aveva condotto una lotta politica come responsabile dell’ufficio di segreteria (nei fatti era un vice-segretario) fu criticato da Amendola e altri autorevoli compagni per aver «mediato» e fu destinato alla segreteria regionale del Lazio. Una storia di cui ho parlato nel mio libro 50 anni nel PCI. Le cose poi andarono come era giusto che andassero: Berlinguer fu eletto vice-segretario (1969) e poi segretario (1972). La scelta fu fatta con il convinto concorso dei compagni che all’XI congresso si erano trovati su sponde opposte, da Amendola a Ingrao. E in seguito Berlinguer seppe tenere insieme il gruppo dirigente, anche quando espresse politiche diverse. Nella prima fase, che sommariamente viene indicata come quella del «compromesso storico» fu molto innovativo sul piano internazionale, dall’Eurocomunismo sino all’adesione al Patto Atlantico. E sul piano interno: la lotta al terrorismo, la politica di risanamento economico e il superamento in positivo del centrosinistra sino al governo di solidarietà nazionale. In quella fase i suoi più stretti collaboratori furono Bufalini, Chiaromonte, Napolitano, Natta, Di Giulio e nella gestione interna Cossutta e Pecchioli. Ma coinvolse la «sinistra»: Ingrao fu presidente della Camera. Quando Berlinguer fece la «svolta di Salerno» proponendo «l’alternativa democratica» senza un riferimento ai partiti (il governo degli onesti), la sua fu considerata una sterzata a sinistra e i coordinatori furono Tortorella, Reichlin, con loro Minucci e Occhetto in punti chiave. Per la gestione interna Pecchioli. Cossutta era ormai fuori e in polemica con Enrico. Natta volle andare a presiedere la Commissione di Controllo, ma restò un suo riferimento essenziale. La «destra» però non fu emarginata: Napolitano era presidente del gruppo parlamentare alla Camera e Chiaromonte al Senato. Con Pajetta e altri autorevoli compagni, Berlinguer guerreggiava, ma li coinvolgeva. Con Longo invece i rapporti si raffreddarono. Tonino Tatò non fu suo consigliere, ma una persona di cui si fidava. Dei suoi giudizi, anche quelli scritti e ora raccolti in un libro, Enrico prendeva quelli che coincidevano con i suoi. Pensare che Berlinguer seguisse la politica suggerita da Rodano o Tatò è un abbaglio: seguì la sua e solo la sua, spesso con testardaggine sarda. Semmai un consiglio lo accettava da Giglia Tedesco, moglie di Tatò e da Marisa Rodano, moglie di Franco. Con Nilde Jotti i rapporti sempre buoni divennero burrascosi quando alla Camera si discusse il decreto sulla scala mobile. Enrico, sbagliando, contestava le decisioni di Nilde su interpretazioni controverse del regolamento che considerava favorevole al governo Craxi. La Jotti rifiutò sempre di discutere le sue decisioni in sedi diverse da quelle istituzionali. Quel conflitto però aveva anche un fondo politico: la Nilde considerava sbagliata la svolta berlingueriana, ma non ammetteva che si pensasse che le sue decisioni fossero influenzate da quel giudizio.

Scrivo da un borgo di montagna e ricostruisco a memoria, forse ho dimenticato qualcosa. Quel che però voglio dire è che Berlinguer fece una lotta politica aperta e anche dura, ma seppe tenere insieme il gruppo dirigente senza mediare. Penso che il suo carisma derivasse soprattutto dall’affidabilità di una persona che non mentiva, non giuocava d’astuzia e non mistificava. Ed era un messaggio che trasmetteva col suo volto, il suo comportamento, il suo parlare non solo al partito ma alla gente.

Gli esperti della politica sapevano e capivano le «svolte» berlingueriane, e quella dell’81 fu drastica e, a mio avviso, sbagliata, ma la grande maggioranza del partito e della pubblica opinione percepiva un messaggio comunque affidabile, condivisibile o meno, ma vero. Solo così si spiega il concorso di personalità e di popolo che si vide al funerale.

Io non sono stato, come altri compagni, fra i «consiglieri» di Berlinguer. Il quale riteneva spesso le mie posizioni e i miei giudizi «azzardati». Nel 1976 gli dissi di non votare al primo scrutinio Andreotti presidente del Consiglio e di aprire un «conflitto guidato» con la Dc per avere Moro presidente. Mi rispose - e lo ripetè in direzione - che era un azzardo perchè era Moro che voleva Andreotti, senza il quale non si faceva il governo. Ma fu a me e ai suoi familiari che nel 1973, rientrando dalla Bulgaria, mi disse che l’incidente d’auto, da cui uscì vivo per miracolo laico, era a suo avviso un attentato. La vicenda è stata ricostruita da Fasanella e Incerti in un libro. Mi chiese di tacere per sempre e lo feci fino al 1991. Quel racconto drammatico non fu solo un atto di fiducia nel mio riserbo, ma anche un giudizio su cosa erano ormai i gruppi dirigenti dei paesi dell'Est. E non fu questo il solo caso.

Enrico sembrava introverso ma il suo era solo un modo di esprimere grande rispetto per se stesso e gli altri. Ma un fatto fu per me decisivo per capire i nostri rapporti. Come ho già ricordato, negli anni ‘80-81 Berlinguer fece una svolta rispetto alla politica di solidarietà nazionale, che io, con Napolitano, Chiaromonte, Bufalini, Perna, Lama e altri compagni, contrastai. E nel 1980 in un’intervista al Mondo dissi che la politica di solidarietà poteva essere ripresa con una direzione politica affidata non più alla Dc, ma alla sinistra, nella situazione di allora al Psi, quindi a Craxi. Apriti cielo. Non ero a Roma, Berlinguer non mi cercò e la segreteria fece un comunicato in cui si diceva che le mie erano posizioni personali e non impegnavano il partito. Un azzardo il mio e una sconfessione la sua.

Eppure - ecco il punto - nel 1982, quando all’Unità si aprì una crisi grave, fu Berlinguer a proporre e a insistere che fossi io a dirigere il quotidiano del Partito. Sapeva che poteva contare sulla mia lealtà. E così fu anche nei momenti difficili.

Lo so, l’ho fatta lunga, ma nella vecchiaia le cose che si ricordano meglio sono quelle lontane. E i giorni dell’agonia e della morte di Berlinguer sono rimasti vivi nella mia mente e nel mio cuore e ripensandoci riprovo un emozione forte. Ricordo i volti dei redattori, dei compagni che in quei giorni sostavano all’Unità. Nel giorno in cui facemmo il numero dell’«Addio», Carlo Ricchini rintracciò presso la zia di Enrico la bellissima foto che collocammo in tutta la prima pagina: un Berlinguer di tutti, così mi sembrò quella foto. Chiesi a Renato Guttuso se voleva fare un disegno e dopo qualche ora arrivò in redazione il Berlinguer comunista col popolo comunista. Chiesi a Romano Ledda di scrivere l’addio del giornale per poi definirlo insieme - ed è quello che oggi tanti giovani possono leggere - pensando di comunicare con le nostre parole i sentimenti di milioni di persone.

Il fatto che dopo ventitré anni Berlinguer è ancora nei pensieri di tanti, anche di chi lo avversò e di chi non era ancora nato, ci dice che non fu un errore o una esagerazione l’edizione che oggi avete tra le mani. È vero, da allora la politica è molto cambiata e si è tanto scolorita. Certe passioni personali e collettive sembrano quelle di un’Italia antica, che non c’è più , di partiti che non ci sono più. Con la morte di Berlinguer e l’assassinio di Moro, in effetti, si chiuse un’epoca politica. Su quella che stiamo vivendo non dico nulla, perchè mi sembra di parlare del nulla.

Sono passati 20 anni da quella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987, quando Federico Caffè uscì silenziosamente dalla sua casa e si dissolse nel nulla.

L'avevo conosciuto, anni prima, a Roma, in casa di Edoardo Volterra, insieme a Riccardo Lombardi, al quale era legato da una profonda comunanza di idee e di valori.

Ho pensato spesso quale potesse essere il legame fra uomini così diversi per interessi culturali e storia personale, e sono giunto alla conclusione che questo legame era soprattutto il rigore civile e morale verso se stessi e verso gli altri.

Quando Lombardi morì, nel 1984, Caffè scrisse di lui: "...era un indispensabile punto di riferimento al quale si era portati a rivolgersi nel succedersi delle illusioni e delle delusioni, che hanno contraddistinto la vita del nostro Paese".

In queste due parole io sento la stessa malinconia che aveva contraddistinto l'ultima parte della vita di Riccardo Lombardi, quella "solitudine del riformista" che fece scrivere amaramente a Caffè "l'odierna voga del ritorno al mercato costituisce, in definitiva, una pavida fuga dalle responsabilità".

Ma questa malinconia non deve essere scambiata né in Federico Caffè né in Riccardo Lombardi, in rinuncia, perché " la fiducia che le idee finiscono per prevalere sugli interessi costituiti non può essere abbandonata da chi ne abbia fatto il fondamento della propria visione della vita".

E' questo il messaggio più bello che ci ha lasciato Federico Caffè.

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Vent'anni dopo, la lettura dei suoi scritti induce ad alcune domande. Chi era in realtà Federico Caffè? Un liberale? Se si riflette sul pensiero liberale nella concezione dei suoi due massimi esponenti italiani, Benedetto Croce e Luigi Einaudi, si sarebbe portati a rispondere positivamente a questa domanda.

Benedetto Croce nella "Storia d'Europa nel secolo decimonono", così definiva gli utopisti: "Utopisti furono quelli che si dettero a credere che la questione sociale o ‘la questione della Storia' sarebbe stata bella e risoluta con l'innalzare gli espedienti economici liberistici a principi assoluti, a legge della umana convivenza, ripromettendosi da ciò la pacificazione di tutti i contrasti, l'appianamento di tutte le difficoltà, la felicità umana; il che non si poteva pensare se non ponendo, in ultima analisi, la legge della storia al di là della storia".

Luigi Einaudi nelle sue "Lezioni di politica sociale" così definisce il mercato: "il meccanismo del mercato è un impassibile strumento economico, il quale ignora la giustizia, la morale, la carità, tutti i valori umani. Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni".

Si può considerare Caffè un liberale progressita? Si, se si pensa a Franklin Delano Roosevelt, che nel 1933 inviò al Congresso degli Stati Uniti un messaggio per accompagnare due disegni di legge che assunsero una importanza storica: il Public Utilities Company Act (che era la base istituzionale per la lotta contro i gruppi elettrico-finanziari) e la creazione della Tennesse Valley Authority.

"Contro le concentrazioni di ricchezza e di potere economico che le holding hanno creato nel campo dei servizi pubblici", scriveva il Presidente Roosevelt, "una regolamentazione ha poche possibilità di successo".

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Ma Federico Caffè scrisse, per un lungo periodo, solo su un quotidiano comunista, il Manifesto. Perché lo fece? Per mantenere una assoluta indipendenza di giudizio, io credo. Egli era contro il mercato fine a se stesso, contro cioè quella dottrina del "laissez faire" che affida alla cosiddetta "mano invisibile" il governo del mondo.

Ma la sua battaglia più dura fu contro il mercato finanziario. E' memorabile la sua definizione della borsa, che egli considera "un gioco spregiudicato che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori, in un quadro istituzionale che, di fatto, consente e legittima la ricorrente decurtazione e il pratico spossessamento dei loro peculi".

Ma egli fu anche un uomo delle grandi istituzioni dello Stato, alla cui funzione credette fermamente. E' noto, a questo proposito, il suo legame con la Banca d'Italia.

Ho ritrovato recentemente un significativo ricordo di Carlo Azeglio Ciampi:

"Negli anni settanta tutto il volume della Relazione Annuale veniva letto e discusso ad alta voce due volte. La prima volta il dattiloscritto veniva letto pagina per pagina in aprile. La seconda volta veniva letto in bozze da un gruppo fisso che comprendeva Carli, Baffi e uno dei due vice-direttori generali, il Capo Servizio Studi e di volta in volta i capi degli uffici interessati. Oltre a costoro, era sempre presente, seduto in silenzio, Federico Caffè. I suoi interventi erano i più misurati. Caffè era della idea che le osservazioni più gravi si dovevano fare sempre e soltanto a quattrocchi, mai in pubblico. La presenza di Caffè era utilissima, perché spesso gli animi si scaldavano, e quando c'erano contrasti o critiche, contraddizioni molto forti, mentre noi discutevamo, Caffè con la sua matitina vergava sul margine delle bozze la soluzione che accontentava tutti. Era un forte elemento di moderazione, anche linguistica, proprio lui che veniva considerato "di sinistra".

Allora chi era Federico Caffè?

Egli si definisce un riformista, e anche da questa definizione nasce la gratitudine che gli dobbiamo, perché la parola riformista si presta oggi a pericolosi equivoci.

Non è quindi inutile ripetere quella definizione che è diventata ormai famosa: "il riformista è convinto di operare nella storia, ossia nell'ambito di un sistema di cui non intende essere né l'apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito di apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell'immediato e non desiderabili in vacuo. Egli preferisce il poco al tutto, il realizzabile all'utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del sistema".

Per Caffè, d'altra parte, utopia non era affatto una brutta parola:"per uno scienziato quel che gli altri definiscono utopia è solo anticipazione di esiti che debbono superare le resistenze del presente".

Queste parole sono più che mai attuali, in un momento nel quale noi, uomini e donne della Sinistra, abbiamo idee diverse e confuse, perché ci aiutano a riflettere su noi stessi, per ritrovare, speriamo, dall'insegnamento di questi Maestri, la "diritta via", che abbiamo smarrito.

Su Federico Caffè leggi anche, su questo sito, l'articolo di Francesco Morello su . Se non sai chi era Federico Caffè guarda qui su wikipedia

Scriveva alla metà degli anni ’80 Giorgio Ruffolo: ”La programmazione […] fornisce il solo quadro coerente entro il quale una politica di arricchimento sociale può essere efficacemente perseguita. Essa è la risposta razionale, “illuministica” della sinistra alla degradazione mercatistica dell’ambiente e dello spazio. L’abbandono dell’impegno riformatore in questo campo costituisce uno degli aspetti più gravi e caratteristici della crisi attuale della sinistra”.

Il “riformista”, l’”amendoliano”, il “migliorista”, il “destrorso” Gianni Pellicani a questa degenerazione, destinata a un aggravamento esponenziale negli anni seguenti alla denuncia di Ruffolo, si oppose nei termini forse più efficaci, e certamente a lui più congeniali. Volendo, supportando, cercando di accompagnare all’entrata in vigore (il più delle volte lavorando nell’ombra, come sapeva impareggiabilmente fare, e talvolta ricorrendo a mosse spregiudicate fino al cinismo, che riusciva paradossalmente a rendere perfettamente compatibili con la sua alta moralità) gli strumenti della ripianificazione urbanistica comunale e quello della pianificazione territoriale comprensoriale della laguna e del suo entroterra (“importando” a Venezia Edoardo Salzano per la prima operazione e Vezio De Lucia per la seconda). E inventando, e riuscendo a fare due volte redigere, in tali casi sotto la sua personale responsabilità, e varare dal Consiglio comunale (con tutti i compromessi del caso, certamente!), uno strumento atipico che denominò “piano-programma”, e il cui scopo essenziale era quello di dare coerenza sistemica, e generale rispondenza a talune prescelte finalità, a tutte le attività, le azioni, gli interventi di realisticamente prevedibile concretizzazione nell’arco temporale del mandato amministrativo comunale, al contempo valutandone la fattibilità in relazione ai previsti flussi finanziari del comune, e in genere alle risorse credibilmente mobilitabili. Suppongo che oggi, per essere adeguatamente trendy, li si chiamerebbe “piani strategici”: ma non sono sicuro che i loro contenuti sarebbero altrettanto risolutamente fatti discendere dall’assunzione di precisi, e anche tra loro gerarchizzati, interessi collettivi.

Ignorare questo quadro concettuale e operativo dell’azione di Gianni Pellicani, per affastellare elenchi più o meno compiuti di interventi di cui fu variamente promotore, come mi pare si sia per lo più fatto negli organi d’informazione in questi giorni, significa impoverirne il ruolo a quello di un pubblico amministratore straordinariamente capace ed efficiente (e non sarebbe poco!) ma privo, o carente, di quella che la politologia anglo-americana chiamerebbe “visione”: cioè di ciò che Gianni sommamente ambiva possedere (e discutere, e, se lo ritenesse, correggere, rettificare, arricchire).

Di quello che ho sostenuto mi permetto di considerarmi un testimone qualificato, non foss’altro che perché la convinta, appassionata adesione di Gianni Pellicani alla “cultura della pianificazione” ha potentemente contribuito a orientare, e poi a condizionare irreversibilmente, la mia vita.

Essendo allora militanti in partiti politici diversi (io nel PRI, lui, come ognuno sa, nel PCI), e svolgendovi diversificati ruoli, la riscontrata convergenza su finalità, obiettivi, contenuti specifici riguardanti Venezia (e, a ben vedere, non Venezia soltanto) ci aveva portato a collaborare, talvolta pubblicamente, talaltra “clandestinamente”, nei processi di elaborazione della “legge speciale” del 1973, e poi, ancor più, dei relativi decreti di attuazione (soprattutto di quello sul risanamento della città storica), e quindi degli “indirizzi” governativi per la redazione del piano comprensoriale della laguna e del suo entroterra, mentre contemporaneamente ci si confrontava sugli emendamenti, e talvolta sulle vere e proprie proposte di rielaborazione, che io predisponevo relativamente alle normative degli strumenti urbanistici comunali.

Io, pur avendo fatto, oltre all’attività politica e istituzionale, vari “mestieri”, non avevo ancora deciso “cosa fare da grande” (pur non essendo proprio un ragazzino). Nel 1977, un giorno, mentre si parlava non ricordo più di che, Gianni mi disse: “Senti Gigi, visto che sai maneggiare benissimo le norme, soprattutto quelle urbanistiche e ambientali, e soprattutto sai scriverle, perché non fai di questa capacità la tua professione?”. Di fronte alla mia faccia sbalordita, aggiunse: “Potresti cominciare con l’essere responsabile della redazione delle norme del piano comprensoriale”. Provvide lui, intuendo il mio imbarazzo, a parlarne con Toni Casellati, designato Presidente del Comprensorio, repubblicano come me e mio carissimo amico, e a fissarmi un colloquio con Vezio De Lucia, nel corso del quale scoccò il fulmine di un’intesa che avrebbe fatto di quest’ultimo un altro mio fraterno amico (esattamente com’era successo, due anni prima, quando mi aveva fatto incontrare Eddy Salzano: che avesse un tocco magico?). E io ebbi, e svolsi, il mio primo incarico professionale di redazione delle norme di un piano territoriale. L’incarico professionale immediatamente successivo, alla fine del 1980, non essendo più io consigliere comunale, me lo conferì Gianni stesso, comunicandomelo con il modo di fare di chi dà notizia di una cosa già decisa: si trattava di coordinare, come suo consulente di fiducia, la redazione delle osservazioni del Comune di Venezia al piano comprensoriale della laguna e del suo entroterra, per cercare di farne concludere l’iter formativo, nonché la stesura del “piano-programma” del secondo mandato amministrativo. Fu un’altra esperienza appassionante, e la mia vita professionale ebbe il suo definitivo indirizzo.

Chissà perché, non ho mai detto a Gianni quanto avesse contato anche negli aspetti più personali della mia esistenza. Immagino che, se glielo avessi confidato in questi ultimi anni, in cui i fautori della “cultura della pianificazione” sono trattati, quando gli va bene, come gli ultimi soldati giapponesi nascosti nelle giungle delle isole del Pacifico, mi avrebbe borbottato, con il suo umanissimo sarcasmo autoironico: “Che bella fregatura ti ho dato, Gigi, eh?” (naturalmente l’avrebbe detto in veneziano, e avrebbe usato un altro termine).

Grazie, Gianni. Quando ci si becca quel tipo di fregature da persone come te, si può sperare di riuscire a vivere, e quando viene il momento di morire, come te, da persone degne di stima, di ricordo, di rimpianto.

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