Un resoconto di Sandro Medici sul convegno su uno dei due grandi sindaci che ebbe Roma nel secolo scorso e una cronaca di Ylenia Sina sulla contemporanea manifestazione: riflessione e azioni vicine per fare una politica non politicante.
Il manifesto, 21 gennaio 2013
Cent'anni fa, il futuro
di Sandro Medici
I trasporti, la scuola, i diritti sociali: un secolo fa, gli stessi problemi Di anni ne sono trascorsi ben cento. E cento sono proprio tanti. In politica, è un'era: da un inizio secolo all'altro. Eppure ad ascoltare gli interventi, le suggestioni, le argomentazioni, perfino le ricostruzioni storiche, che ieri mattina si sono snodati nella Casa dell'Architettura a Roma sembrava proprio di parlare del presente, di come questa città continui a rappresentare un problema capitale e di come sia possibile (e giusto) governarla meglio, aiutarla a liberarsi dai suoi cronici mali. Passione politica e tensione culturale sono stati i principali ingredienti che hanno animato il convegno "Ernesto Nathan 1913-2013, la storia e il futuro di Roma". Un'iniziativa nata dall'intuizione di un gruppo di intellettuali, spinti dal desiderio di riproporre l'esperienza di un grande e anomalo sindaco nell'imminenza della nuova stagione politica che si avvierà in primavera a Roma, sulle macerie dell'amministrazione della destra di Alemanno. Maria Immacolata Macioti ed Enrico Pugliese, Pierluigi Sullo e Vincenzo Naso, Antonello Sotgia e Roberto Musacchio, Vezio De Lucia e Anna Pizzo, Rossella Marchini e Roberto Magi, con il contributo di altri e altre, hanno voluto insomma rileggere un passato straordinariamente stimolante per sollecitare una riflessione che dovrebbe tratteggiare una prospettiva futura. Cercando di scuotere una discussione cittadina, in verità piuttosto modesta, se non direttamente manchevole e reticente. «Su Ernesto Nathan c'è stata una sistematica e colpevole rimozione», ha spiegato Valentino Parlato. Un sindaco ebreo, massone e molto mazziniano è stato imprigionato in una parentesi della storia, in una sorta di incidente eretico lungo una traiettoria costantemente connotata dalla subalternità alla rendita e dalla subordinazione al comando vaticano (più temporale che spirituale). Certo, con l'eccezione delle giunte rosse tra gli anni settanta e ottanta, con i sindaci Argan, Petroselli e Vetere, con la travolgenti attività dell'indimenticato Renato Nicolini: unica esperienza lungo quest'ultimo secolo che a più riprese ha saputo contrastare ed erodere il sistema di potere capitolino. Parlare di Nathan oggi, ha osservato Alessandro Portelli, è la dimostrazione di come la memoria storica si trasformi in battaglia politica, in conflitto sociale. C'è da impallidire dalla vergogna (come ha rilevato Clotilde Pontecorvo), se si paragona il programma di estensione del sistema scolastico comunale sviluppato da Nathan all'attacco alla scuola pubblica che negli ultimi tempi sta devastando il paese. Si resta allibiti di fronte all'intelligenza delle politiche urbanistiche di cent'anni fa, oggi che Roma è praticamente ostaggio di immobiliaristi e finanzieri, potentati politici e faccendieri d'ogni categoria. Le lungimiranti riforme sui servizi cittadini strategici per l'acqua, l'energia, i trasporti, ecc., attraverso la costituzione di aziende municipali, è desolatamente stridente con le scelte di alienazione e privatizzazione delle grandi società comunali, Acea in testa. Ed è forse proprio qui, in questa profonda differenza tra quanto avviato allora e quanto oggi deteriorato, il principale contrasto politico che si dovrà agire in vista della prossima battaglia elettorale per il Campidoglio. A Roma non si deve più edificare nulla, niente di niente («Bisogna tracciare una linea rossa invalicabile», ha affermato Vezio De Lucia): la città è finita , ha raggiunto il suo limite di sostenibilità. Le risorse pubbliche, il patrimonio pubblico, le stesse aziende comunali appartengono alla città e a essa vanno restituite, non possono essere vendute per compensare i tagli assassini imposti da governi nazionali e continentali. Basta con le grandi opere e si avvii un'estesa rigenerazione dei tessuti urbani, un recupero dell'edilizia vuota e abbandonata, che è una vera e propria riserva, indispensabile per corrispondere ai molteplici bisogni sociali e culturali. Nathan fu insomma il sindaco che introdusse a Roma la modernità, una modernità laica e democratica, quand'ancora l'eco delle spingarde a Porta Pia non s'era del tutto assopita. Una modernità che viaggiava con i primi embrioni di welfare («Per la prima volta si parlava di diritti sociali», ha spiegato Catia Papa), con i primi correttivi di democrazia diretta attraverso i referendum, con i primi progetti di gestione e razionalizzazione del trasporto pubblico («Arrivarono i tram, magari ce ne fossero oggi», ha evocato Enzo Naso). Una modernità che forse oggi potrebbe tradursi in bisogno di contemporaneità («O di complessità», come ha chiosato Lorenzo Romito). Un impulso alla trasformazione radicale del sistema-città: non più centrifugo, espansivo e consumistico, ma invece centripeto, rivolto al recupero e al riuso; non più giganteggiante e scioccamente competitivo con altre città, votato alla rincorsa a chi realizza il grattacielo più lungo, ma al contrario introflesso e teso al lavoro di cura di morfologie e territori, al rilancio di economie tenui e redistributive nella cultura, nei servizi sociali, n
ell'agricoltura. Insomma, per Roma non sarebbe male costruirsi un futuro di cent'anni fa.
Roma - Casa, servizi, lavoro... «Riprendiamoci la città»
di Ylenia Sina
Diecimila persone ieri pomeriggio hanno sfilato per le strade di Roma con lo slogan «riprendiamoci la città». Movimenti per il diritto all'abitare, centri sociali, studenti, precari, sindacati di base, lavoratori della sanità, insieme a comitati cittadini, associazioni ambientaliste e movimenti per i beni comuni. Una manifestazione «che dimostra come il messaggio lanciato il 6 dicembre dai movimenti per il diritto all'abitare con l'occupazione contemporanea di sette stabili non è rimasta inascoltata, ma si è allargata a tutta la città» commenta Paolo Di Vetta dei Movimenti per l'abitare. Al centro della mobilitazione l'opposizione al pacchetto Alemanno 64 delibere urbanistiche in discussione in consiglio comunale, «un nuovo sacco di Roma» - la privatizzazione dei servizi pubblici, la difesa del lavoro e della scuola, la riaffermazione del diritto alla casa «in una città in cui è sembrata una provocazione indire un nuovo bando per le case popolari senza avere alloggi da assegnare». Sfidando un freddo pungente e insolito per Roma, i manifestanti partono da Piazza Vittorio. In testa al corteo il Coordinamento lavoratori della sanità di tutti gli ospedali di Roma «perché con i tagli e le politiche di austerità non sono diminuiti gli sprechi ma solo i servizi», denuncia una lavoratrice del Cto. Di seguito, il Coordinamento romano acqua pubblica, i precari della scuola, Legambiente Lazio che ha aderito alla giornata di protesta «per bloccare il cemento di Alemanno che cancellerà ettari ed ettari di agro romano». Poi i movimenti per il diritto all'abitare, in migliaia a formare un biscione compatto di persone che avanza per il centro cittadino. «Non è questo il colore che voglio nella mia città», si legge su tanti cartelloni grigi nelle mani dei manifestanti. Tra loro, anche le «nuove occupazioni» del 6 dicembre scorso. «Questa manifestazione chiede con forza di ribaltare l'agenda della città mentre ricostruisce una coalizione di forze sociali che saprà imporre a chiunque vorrà governare un nuovo modello di sviluppo», dice Andrea Alzetta, consigliere comunale di Roma in Action. La manifestazione prosegue tranquilla in direzione dei Fori Imperiali. «La nostra forza è nel numero» dicono in molti tra le file del corteo indicando un lungo tratto di via Cavour pieno di gente. Qui un enorme striscione del Coordinamento cittadino per l'acqua pubblica lancia una mobilitazione per il 25 gennaio alle 11 a Fontana di Trevi «sotto le finestre dell'Autority che ha reintrodotto in bolletta quanto cancellato con il referendum». Intanto, un gruppo di attivisti "sanziona" con dei fumogeni un albergo di lusso: occupy suite , viene chiamata l'azione. La coda del corteo è animata dalle bandiere dell'Unione sindacale di base, in piazza con uno spezzone numeroso, preceduto da quello del Comitato No Debito. «I tagli ai servizi e le politiche di spending review peggiorano la vita dei lavoratori che sono anche cittadini e abitanti di questa città» commenta Guido Lutrario dell'Usb. In piazza anche diversi politici: da Luigi Nieri, ex consigliere regionale di Sinistra ecologia e libertà, tra i nomi in lista nelle primarie del centro sinistra per le comunali di Roma, al candidato sindaco e presidente del decimo municipio Sandro Medici, che ribadisce «la necessità di bloccare le concessioni edilizie e l'espansione di una città che deve iniziare a puntare su politiche di recupero dell'esistente». Presenti anche il consigliere regionale del Pdci Fabio Nobile e quello provinciale di Sel Gianluca Peciola. Intorno alle cinque e mezza i manifestanti raggiungono piazza Santi Apostoli dove il corteo si scioglie. «Una bella risposta contro i poteri forti di questa città», commentano gli organizzatori. Prossimo appuntamento, venerdì pomeriggio all'occupazione di via delle Province.
Se ne è andato ancora un personaggio di un'Italia oggi inimmaginabile. Figure e idee che restano, patrimonio per una società migliore. lo ricordiamo con articoli di Alfredo Reichlin e Valentino Parlato, da
L'Unità,il manifesto, 9 novembre 2012. Era anche un amico; lo ricordo anch'io con rimpianto, e con una postilla
Alfredo Rechlin, La forza di una passione, l'Unità
Anche Luciano Barca se n’è andato. Non so ricordarlo senza dire perché la sua scomparsa tanto mi colpisce e mi addolora.Certo, Luciano era un vecchio amico. Ma non solo. Era tra i pochi che hanno contato nella formazione della mia identità oltre che della mia memoria. Enrico Berlinguer, Luciano Barca, Pietro Ingrao, Tonino Tatò, Franco Rodano, Fernando Di Giulio e pochi altri che non sto a ricordare e che si confondono nella mia memoria. Erano molto diversi tra loro ma ciò che nella mia mente li accomuna è la straordinaria passione per le idee, era l’enorme fiducia che la politica potesse cambiare il mondo. E la prova stava lì, sotto i loro occhi. Stava nel fatto che l’Italia in quegli anni cambiava come mai da secoli. Finiva l’antica arretratezza, la povertà assoluta, l’analfabetismo.
I sudditi diventavano cittadini e scrivevano la più avanzata Costituzionedemocratica, i contadini attraverso lotte anche sanguinose facevano saltare ilvecchio blocco agrario, i sindacati conquistavano un potere mai avuto prima,gli artigiani diventavano piccoli industriali, la legge, i diritti e i doverierano certi e uguali. E gli intellettuali italiani inventavano un nuovo cinema,scrivevano romanzi e dipinge- vano quadri e si chiamavano Rossellini, Fellini,Moravia, Calvino, Guttuso. Diventavano l’avanguardia d’Europa.
Ho avuto con lui un rapporto molto stretto, e per me fruttifero, quando è stato mio direttore alla rivista «Politica ed Economia». Mi ha insegnato a cercare la sostanza dietro le apparenze, e i modi e le vie per fare questo. Sempre franco nelle critiche e negli apprezzamenti mi ha insegnato che la critica non è offesa, ma il modo più serio per portare avanti un lavoro o una ricerca. Quel periodo per me è stata una scuola, che mi ha molto aiutato a fare poi il giornalista.apporto molto stretto, e per me fruttifero, quando è stato mio direttore alla rivista «Politica ed Economia». Mi ha insegnato a cercare la sostanza dietro le apparenze, e i modi e le vie per fare questo. Sempre franco nelle critiche e negli apprezzamenti mi ha insegnato che la critica non è offesa, ma il modo più serio per portare avanti un lavoro o una ricerca. Quel periodo per me è stata una scuola, che mi ha molto aiutato a fare poi il giornalista.
L'Italia entra nella seconda guerra mondiale nel 1940, quando Luciano ha vent'anni e vi partecipa come ufficiale nei sommergibili. Va ricordato che la Marina non aveva simpatia per l'alleato tedesco. Luciano Barca, nel 1943, a soli 23 anni al comando di un sommergibile attacca una nave tedesca sulle coste di Bastia e poi ripara nella base militare di Malta dove entra a fare parte del gruppo Midway della marina inglese e continua la guerra. Tornato in Italia fa parte della resistenza, per un certo periodo fa parte della Sinistra cristiana e nel 1945 si iscrive al Pci. Si schiera contro la svolta della Bolognina, non aderisce al nuovo Pd, ma non abbandona la battaglia politica. Difficili gli ultimi anni, pesantissima la morte recente della moglie Gloria Campos Venuti. Ogni tanto lo chiamavo per sentire come stava e cosa pensava. E' stato un maestro e con lui se ne va una straordinaria stagione anche della mia vita.
Un forte abbraccio ai figli Fabrizio, Flavia e Federico.
Postilla
il manifesto
Il giovane grande vecchio che amava capire il mondo
di Daniele Mazzonis
Marcello Cini è stato il mio maestro, non c'è dubbio.L'ho seguito dai lontani anni Settanta, quando il tema della salute in fabbrica ci ha fatto incontrare in una mini-manifestazione nell'androne della Facoltà di chimica della Sapienza. Era quasi l'inizio delle «150 ore» nelle quali volevamo condividere con i lavoratori quello che avevamo imparato. In verità più che insegnare gli effetti dei residui tossici delle produzioni chimiche o le ricadute del nucleare preferivo andare a sentire Marcello che insegnava, anche a me e a partire della fisica, perché la scienza non è neutrale. Oggi so che sembra impossibile, ma miei professori reputavano l'epidemiologo Giulio Maccacaro (che discuteva della salute in fabbbrica) un medico fallito, Franco Basaglia uno che voleva fare parlare di sé ma non avrebbe mai tradotto le sue fantasie in realtà, Steven Jay Gould uno pseudo-scienziato che contraddiceva la teoria evoluzionista e Marcello un pazzo furioso, visto che da grande fisico era diventato agitprop dei sessantottini .
Marcello invece amava il suo mestiere, amava pensare e pubblicare le sue riflessioni sulla teoria della misura dopo la quantistica, ma non rinunciava a guardare il mondo, a cercare disperatamente di capirlo e spiegarlo, non avendo - diceva - alcuna capacità di cambiarlo. Si autodefinì cattivo maestro in un bellissimo libro in cui un nonno educatore e un filosofo dialogano con la bambina Alice. A parte lo straordinario interesse del libro che spiega in termini semplici i nodi più complessi della fisica quantistica (Lucio Magri disse che finalmente aveva capito il mestiere e i contenuti della fisica), Marcello abborda il suo tema preferito negli ultimi anni: quello del capitalismo che sta trasformando in merce tutte le forme non materiali di soddisfazione dei nostri bisogni, una mercificazione che appiattisce la complessità della conoscenza e toglie valore al bello.
Marcello era giovane anche da vecchio: era curioso e disponibile a sentire chi non la pensava come lui; ma quando lo faceva prima ripensava e dubitava e subito dopo, con qualche colpo di tosse, si arrabbiava. Anche questo lo faceva con gentilezza ma senza mai mediare, né di fronte a colleghi, ministri, rettori. Se non compreso, se la prendeva e diventava irascibile: in un compito alle elementari da bambino suo figlio lo chiamò «il re dell'ira».Non posso chiudere senza parlare della nostra pagina scientifica su «il manifesto». Avevamo convinto il giornale - non era stato difficile con l'aiuto di Michelangelo Notarianni - a uscire ogni mercoledì con una pagina sulla scienza (fummo i primi in Italia anche se pare incredibile), ma doveva essere una pagina diversa alle altre. Non volevamo fare divulgazione, ma «volevamo spiegare» il processo di accumulazione di conoscenza, le scoperte interessanti, le vere e false promesse che i laboratori del mondo sfornavano a ritmo sempre più accelerato.
A Marcello chiedevo una riflessione settimanale e, per anni, ogni martedì, mi ha odiata per la mia telefonata di richiesta del pezzo che arrivava sempre tardi (Marcello nella scrittura era lento quanto serio, misurava la portata di ogni affermazione per poterla sostenere con chiunque). Siamo gli unici in Italia ad avere dato il peso che meritava alla moratoria decisa alla famosa conferenza Asilomar sugli esperimenti sul materiale vivente, in cui i più famosi studiosi del settore chiesero d'interrompere gli esperimenti e aprire una fase di riflessione sulle conseguenze delle manipolazioni genetiche. Grazie alla collaborazione con i compagni del petrolchimico e a qualche collega onesto, fummo i primi a parlare della diossina di Seveso. Oggi Taranto ci ricorda che queste battaglie non sono vinte.Come tutti i compagni, sono davvero triste. Ancora il mese scorso, quando ho discusso con lui l'ultima volta prima della mia partenza per l'Argentina, Marcello a me sembrava giovane, giovanissimo, come sempre.
il manifesto
Il brillante docente e ricercatore che incontrò la storia e la società
di Giorgio Parisi
Durante il '68 Marcello Cini non stava a Roma: aveva preso un anno sabbatico in un'università parigina. In quel periodo sentivo spesso parlare di questo compagno professore, che aveva sempre pronta una citazione raffinata di Marx e che era appena andato nel Vietnam del Nord bombardato dagli americani.Lo incontrai al suo ritorno a Roma, avrei dovuto seguire un suo corso di fisica, ma tra occupazioni e altre vicende le lezioni a cui sono andato si contano sulle punte delle dita. Ma ho ancora impresso in mente lo sforzo che Marcello faceva per non separare i risultati della meccanica quantistica (la formulazione matematica, i teoremi, le previsioni sperimentali) dal come un piccolo numero di uomini era riuscito a fare queste scoperte meravigliose, formulando all'inizio ipotesi insensate e contraddittorie che con gli anni si modificavano e diventavano sempre più sensate e coerenti. Non era affatto facile portare assieme i due discorsi: la storia di un'avventura che si dipanava per un periodo di una trentina d'anni (dal 1900 al 1930) e la descrizione della teoria risultante. Era un modo diverso di raccontare la scienza, che faceva notevole impressione a noi abituati a vedere solo il prodotto finale, bello lucido, senza che ci rendessimo conto della fatica che era stata necessaria per arrivarci.
Era un periodo di transizione nella vita di Marcello. Nel primo dopoguerra era diventato un brillante fisico teorico nella disciplina allora di punta, la fisica delle altre energie, e a soli 33 anni nel 1956 aveva vinto una cattedra all'università di Catania. Aveva continuato a lavorare, pubblicava articoli su prestigiose riviste, era invitato a parlare a importanti congressi internazionali, ma la fisica teorica gli stava diventando stretta. Come lui stesso dice nei Dialoghi di un cattivo maestro, «la fisica teorica stava cambiando. La concorrenza diventava sfrenata. Se avevi un'idea, scoprivi che altre sei persone ci stavano lavorando sopra. (...) Quando eravamo pochi, anche il nostro lavoro aveva un senso. Ma una volta diventati tanti, veniva da domandarsi a che cosa servisse. (...) Questo disagio professionale si accompagnava all'insoddisfazione che provavo da qualche anno nei confronti della politica del Pci».
In quel periodo Marcello stava cessando di lavorare nel filone principale della fisica: riprenderà la sua attività di ricercatore diversi anni dopo, affascinato da uno dei problemi più intriganti e mai ben risolti della fisica: quale sia «il significato» della meccanica quantistica, cosa sia la realtà fisica, quale sia in questo contesto il rapporto tra la l'osservatore e l'oggetto osservato, quanto l'osservazione di un fenomeno modifichi necessariamente il fenomeno stesso. Marcello incominciava a riflettere su i rapporti tra la scienza, la storia e la società, a vedere la scienza come una delle tante attività umane che diventa «comprensibile solo se riferita alla totalità dell'operare degli uomini». La scienza non è più neutrale, ma porta con sé i segni delle ideologie degli scienziati che l'hanno prodotta.
Sono le tesi che confluiscono ne L'Ape e l'Architetto, libro pubblicato nel 1976 e che raccoglie saggi scritti negli anni precedenti da Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona Lasinio. Erano tesi doppiamente eretiche rispetto all'ortodossia dominante, dal punto di vista sia politico che scientifico, e suscitarono una reazione furiosa: Lucio Colletti e Giorgio Bocca furono tra gli oppositori più accesi che cercarono di smontarle con una serie di banalità impressionanti. La reazione del mondo scientifico fu più composta, di grande freddezza in pubblico, ma veementemente negativa in privato. Il libro, che ebbe una notorietà enorme e che è stato recentemente ristampato, ebbe tuttavia, col passare degli anni, una fortissima influenza sul modo in cui concepiamo il rapporto tra scienza e società e molte delle tesi scandalose sono diventate sentire comune.
Marcello non si era però fermato lì: aveva continuato a riflettere sui rapporti tra scienza, tecnologia società e democrazia, su quali fossero concretamente e in dettaglio queste relazioni, come si modificassero con il tempo, su come fossero diverse per esempio fisica e biologia, riflessioni che hanno generato molti libri in cui raffina e approfondisce il suo pensiero. Marcello è stato uno dei pochi grandi intellettuali che ha cercato di capire a fondo il mondo, non solo negli aspetti tecnici di una disciplina scientifica, ma nella sua interezza, riempiendo la propria vita sia dell'impegno politico che dello sforzo per arrivare a una maggiore comprensione e controllo della natura. Era uno dei pochi punti di riferimento che avevamo, sempre pronto a discutere e ad aiutarti a capire. Ci mancherà moltissimo.
il manifesto
Un ottimo cattivo maestro
di Marco D’Eramo
Marcello Cini lo conobbi prima come professore, al terzo anno, quando dall'ottobre del 1968 seguii il suo corso di Istituzioni di fisica teorica. Parlava molto lentamente, con quel tossicchiare a scandire le frasi che avrei imparato a conoscere così bene, e all'inizio trovavo noiose le sue lezioni. Col mio sguardo di 21-enne lo trovavo vecchio. Aveva 45 anni ed era nel pieno fulgore della sua maturità. Non sapevo quanto le nostre vite sarebbero state intrecciate. Infatti nel gennaio di quello stesso anno erano iniziate le agitazioni studentesche a Roma, che erano culminate il primo marzo con quella che fu chiamata «la battaglia di Valle Giulia» ma che continuarono per tutto l'anno successivo. L'istituto di fisica Enrico Fermi fu uno dei centri del movimento romano, insieme a Lettere e Architettura. Leader del movimento erano giovani fisici, assistenti e borsisti, che nel decennio successivo avrebbero seguito traiettorie diverse: Franco Piperno, Gianni Mattioli, Massimo Scalia, Sandro Petruccioli, Mimmo De Maria. E, quando tornò dal suo anno sabatico a Parigi, Marcello fu l'unico ordinario a interloquire con noi, anche a polemizzare, ma stando sempre dalla nostra parte, lui che era noto per la sua militanza nel Partito comunista italiano (da cui sarebbe stato radiato dopo pochi mesi, nel 1969, insieme a tutto il gruppo della rivista il manifesto).
Poi Marcello fu il mio direttore di tesi e dopo la laurea si adoperò perché divenissi borsista nel suo gruppo di ricerca teorica. Quando abbandonai la fisica e andai a studiare sociologia a Parigi, negli anni Settanta, ogni volta che veniva sulla Senna, ci vedevamo, cenavamo insieme con la sua (allora) nuova compagna, Agnese. Poi, nel 1980 per le peripezie della vita, venni a lavorare nel quotidiano di cui Marcello era stato uno dei fondatori e dalle cui colonne ora vi sto scrivendo. Ancora, il figlio di Marcello, il regista Daniele Cini, aveva vissuto per anni nella stessa casa della nostra indimenticata Carla Casalini, e la sua perdita nel 2008 ci ha stretti alla sua figlia Gaia.Non solo, ma negli anni Settanta Marcello aveva animato un gruppo di fisici teorici (di cui oltre a Marcello facevano parte Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio) che avrebbe prodotto l'unico contributo italiano davvero rilevante alla filosofia della scienza, e cioè L'ape e l'architetto (Feltrinelli 1976, ripubblicato con rivisitazioni degli autori presso Franco Angeli nel 2011). Era la prima volta in Italia che a discutere di neutralità della scienza erano scienziati professionisti.
Fino al fine anni Sessanta infatti la sinistra italiana era stata scientista, d'istinto e di convenienza. Lo scientismo era l'orizzonte filosofico più comodo per coniugare insieme emancipazione sociale e progresso tecnologico, razionalismo antisuperstizioso e laicità. Una versione paludata di quello slogan «Soviet + elettrificazione» in cui cui Lenin aveva condensato tutto il comunismo. Sul versante opposto, le critiche alla scienza venivano tutte da un orizzonte irrazionalista, poetante, nietzscheano, aborrente i numeri («la legge di gravità non renderà mai conto della poesia della luna di notte») e la rivendicazione di un'ineffabilità sostanziale del mondo.Ma già dal sottotitolo, Paradigmi scientifici e materialismo storico, i quattro autori rimescolavano le carte ed esplicitavano il loro obiettivo: affrontare la non-neutralità della scienza, la sua storicità, non dalla prospettiva di un irrazionalismo di destra, ma da sinistra e dall'interno del razionalismo. Non a caso i quattro autori avevano tutti partecipato in modi diversi al '68.
E ci voleva la carica eversiva del '68 per poter formulare - contro tutto l'establishment accademico e contro la corporazione degli scienziati, in primis dei fisici - una visione storicizzata della scienza. Per poter cioè dire che la scienza è prodotto storico, come ogni altra attività umana, e in quanto tale condizionata dalla società in cui viene esercitata. Fino ad allora aveva prevalso la tesi che la scienza di per sé è neutra e a-storica, anche se il suo (buono o cattivo) uso può essere determinato dal contesto sociale. L'ambizione dell'Ape era invece quella di mostrare che la correlazione tra società e ricerca scientifica penetrava fino nelle teorie e nei concetti. Un'ambizione che valse al libro una levata di scudi sul genere becero «la legge di gravità fa cadere i corpi allo stesso modo in un regime socialista e in uno capitalista».
Fu proprio la non neutralità degli stessi concetti scientifici a indirizzare il lavoro giornalistico e di ricerca che facemmo sul manifesto per tutti gli anni '80 sulle pagine culturali e sul supplemento monografico settimanale la talpa. Un lavoro cui partecipavano tra gli altri Michelangelo Notarianni, Franco Carlini, Danielle Mazzonis.Certo Marcello, non sempre andavamo d'accordo tu e io: per esempio non condividevo la sua passione per Bateson, ma è certo che il confronto intellettuale sui temi che ci arrovellavano entrambi ha stimolato la mia mente, come quella di tanti altri, e ci ha consentito di non assopirci nel generale letargo della ragione che ha colpito la nostra società.E come apprezzammo nel 2007 la lettera che dalle colonne del manifesto scrivesti (insieme ad alcuni altri docenti tra cui Giorgio Parisi) al rettore dell'università La Sapienza di Roma per far annullare la lectio magistralis di Benedetto XVI!
Una vita lunga e invidiabile la tua Marcello: non solo sei sempre stato un bellissimo uomo, ma hai fatto un bellissimo lavoro, quello di fisico teorico, hai visitato terre lontane (come quando nel 1967 andasti in Vietnam e in Laos, sotto le bombe americane, come membro della giuria del Tribunale Russell), hai avuto una miriade di amici intelligenti che ti amavano, eri stimato, hai militato per una società migliore, hai contribuito a fondare il manifesto, hai stimolato la discussione filosofica italiana, hai goduto i piaceri della vita. Come scrisse Catullo a suo fratello: et in perpetuo salve atque vale.
Addio a Marcello Cini, fisico e ambientalista
di Piergiorgio Odifreddi
È morto a quasi novant’anni Marcello Cini, influente e discusso scienziatoengagé,nel senso alto della parola: quello portato alla ribalta dalle contestazioni studentesche degli anni ’60, e oggi purtroppo solo un ricordo di tempi passati. Esatta antitesi dell’intellettuale chiuso nel suo laboratorio a osservare le particelle, o rinserrato nel suo studio a cercarne le leggi, Cini era uscito allo scoperto per diventare un “cattivo maestro”, come si era definito con provocatoria civetteria negli autobiograficiDialoghi di un cattivo maestro,appunto.A portarlo alla ribalta nel 1976 fuL’ape e l’architetto,un libro scritto con Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio, che sollevò un vero e proprio polverone. Cini e i suoi coautori attaccavano infatti la visione di una scienza neutrale e impersonale. Ne mettevano in luce non solo le implicazioni, ma anche e soprattutto le responsabilità sociali. E percorrevano una specie di “terza via”, a metà strada tra gli eccessi acritici dell’accettazione scientista e del rifiuto idealista.
Il linguaggio di quelle pagine oggi suona un po’ arcaico edemodé,con tutti quei riferimenti ai “modi di produzione” e alle “classi dominanti”. Ma la sostanza rimane attuale, se è vero che, come ricordava qualche tempo fa lo scomparso premio Nobel per la pace Joseph Rotblatt, la maggioranza degli scienziati attualmente lavora a ricerche direttamente o indirettamente legate agli armamenti. E una percentuale ancora maggiore, ovviamente, a ricerche direttamenteo indirettamente legate all’industria e alla tecnologia.Sorprendentemente, a scagliarsi contro quest’interpretazione marxista della scienza fu Lucio Colletti, coetaneo di Cini, che in una famosa recensione sull’Espresso scrisse: «Qui la scienza e il capitalismo fanno tutt’uno. Il valore oggettivo della conoscenza scientifica è saltato. Malgrado le intenzioni è saltato anche il materialismo». Quasi quarant’anni dopo, la storia registra la coerenza di Cini, collaboratore fino all’ultimo delManifesto,e il tradimento di Colletti, fiore all’occhiello di Forza Italia dal 1996 alla mortenel 2001.
Politicamente, Cini (nato nel 1923 a Firenze, chiamato alla Sapienza da Edoardo Amaldi per insegnare Fisica teorica e, poi, Teorie quantistiche) aveva fatto parte del Partito Comunista Italiano fino al 1970, quando ne era stato espulso insieme agli altri fondatori delManifesto,appunto. E nel 2010 aveva accettato la candidatura da capolista di Sinistra Ecologia Libertà alle regionali del Lazio. D’altronde, l’ecologia e l’ambientalismo erano due dei grandi temi del suo pensiero, a favore dei quali si era impegnato nella presidenza del consiglio scientifico di Legambiente.
L’ultima zampata da leone l’aveva data il 14 novembre 2007, indirizzando al rettore della Sapienza una lettera di protesta in cui gli chiedeva di annullare l’invito a BenedettoXVI in occasione dell’apertura dell’anno accademico. Decine di docenti dell’università sottoscrissero l’appello di Cini, e centinaia di studenti manifestarono contro la visita del papa, che decise diplomaticamente di cancellare la proprialectio magistralis.Fu in quell’occasione che vidi Cini per l’ultima volta. Partecipammo insieme, la sera del 16 gennaio 2008, a una puntata di Porta a Porta, il giorno prima della mancata visita papale. Monsignor Fisichella e l’onorevole Buttiglione chiamarono a raccolta per la domenica successiva in Piazza San Pietro. Cini intervenne signorilmente e pacatamente, a difesa della scienza e della sua separazione dalla religione. E le sue parole e la sua chioma bianca sono il mio ultimo ricordo del “cattivo maestro”, che quella volta era riuscito a scuotere l’Italia intera.
Corriere della Sera
Addio a Cini, il fisico che si oppose alla lectio del Papa alla «Sapienza»
di Giovanni Caprara
«Sono convinto che anche le conoscenze scientifiche non sono verità assolute ma sono relative e contingenti e debbono essere vagliate da altri punti di vista, tra i quali anche quello della filosofia. Naturalmente anche questi punti di vista sono a loro volta relativi e contingenti: un punto di vista assoluto e immutabile non esiste». Questa era l'idea della scienza di Marcello Cini, scomparso lunedì a Roma all'età di 89 anni. E le sue parole rivelavano il metodo che lui applicava alla vita in generale, sempre, ponendo in discussione tutto pur restando fedele alla sua visione dell'uomo.
L'ultima sua uscita clamorosa risale al novembre 2007, quando scriveva al rettore dell'Università di Roma «La Sapienza» chiedendogli di annullare lalectio magistralisdi Papa Benedetto XVI all'inaugurazione dell'anno accademico, giudicandola inadatta all'occasione. E fu l'ultima volta in cui riuscì a coagulare intorno a sé il consenso di 67 docenti che firmarono con lui, ma provocando fuori dell'ateneo accese reazioni, soprattutto da parte del mondo cattolico. Diventò un caso che sollevò contestazioni e disordini. E il Pontefice tre giorni prima della visita, nel gennaio successivo, rinunciava all'invito. Cini sostenne in modo risoluto la laicità dell'istituzione: considerava la presenza del Papa una violazione. E con questo manifestava anche la sua idea di laicità assoluta. Era uno dei tanti volti di Marcello Cini, il primo dei quali era tuttavia quello dello scienziato: sulla cultura scientifica egli costruiva le sue certezze.
Era nato a Firenze il 29 luglio 1923, arrivando ad insegnare fisica teorica alla «Sapienza» chiamato da Edoardo Amaldi. Poi abbracciava le frontiere più avanzate della fisica quantistica. Nonostante i suoi pensieri di fisico fossero molto astratti e apparentemente distaccati dalla quotidianità Marcello Cini guardò alla Terra e alla difesa della vita con la stessa intensità con la quale difese la laicità.Negli anni Sessanta diventò uno dei padri, il più nobile, degli ambientalisti. Cini era un fine intellettuale le cui idee potevano non essere condivise, ma era stimolante considerarle: il confronto generava sempre un arricchimento. Ma sapeva anche mettersi in discussione come nel libro Dialoghi di un cattivo maestro.
Le sue accese convinzioni, la voglia di incidere sulla realtà lo portò inevitabilmente in politica. Partecipò alla fondazione del quotidiano «Il Manifesto» e negli anni Sessanta fece parte del Tribunale Russell sui diritti dell'uomo, recandosi in Vietnam e raccontando poi le atrocità della guerra. Alla direzione della rivista «SE/Scienza Esperienza», fondata da Giulio Maccacaro, la sua linea fu discutere e diffondere lo stretto rapporto tra scienza e società. Come i suoi articoli, ancor di più facevano discutere i suoi libri, in cui scavava ancora più a fondo la visione sociale della scienza. Per questo L'ape e l'architetto, Il gioco delle regolee Il paradiso perdutosegnarono davvero un'epoca.
N el 1999 proposi a Eric Hobsbawm, l'inventore del «secolo breve», un'intervista sul nuovo secolo che stava per cominciare. Il mio era un tipico giochetto giornalistico: chiedere a uno storico una previsione sul futuro basata su un'analisi del passato. Poiché a Eric piaceva giocare, accettò.
Ne nacque una conversazione di cui l'editore Laterza vendette i diritti in tutto il mondo (in Inghilterra, Usa, Germania, Francia, in lingua spagnola e portoghese, giapponese, turco, romeno… In alcuni Paesi ci furono addirittura delle aste per aggiudicarsi il libro).
A testimonianza della fama planetaria che circondava uno storicoglobal, come si direbbe oggi: per niente eurocentrico, sempre perfettamente a conoscenza degli eventi nei più sperduti posti del mondo, e soprattutto in grado di cogliere i nessi, anche i più singolari, «ciò che legava la nascita del rock and roll, il disfacimento del matrimonio, la bancarotta dell'avanguardia artistica, il declino dell'etica puritana del lavoro o quello del regime parlamentare». Diciamo che era uno al quale non sarebbe sfuggito un battito d'ali di farfalla in Brasile capace di produrre un tornado in Texas.
L'intervista si svolse nell'arco di una decina di giorni, in unafull immersionnella sua casa londinese ai margini del parco di Hampstead Heath. Dalla mattina alle 9 alla sera alle 5,nine to five, ascoltando musica jazz (di cui era recensore professionale) e Bbc Four, facendoci il caffè e i panini da soli. Questo incontro ravvicinato con Eric, fisicamente la più perfetta descrizione dell'aggettivo allampanato che io conosca, fu un'occasione per studiare un personaggio vissuto anche più a lungo del suo secolo breve (era nato nell'anno della Rivoluzione bolscevica) e che in qualche modo ne aveva incarnato ilGeist. Il prodotto era un uomo straordinario e complesso quanto la sua era.
Intanto era difficile definirne l'identità. Si trattava di un ebreo, che la famiglia aveva allontanato con lungimiranza da Vienna e da Berlino per spedirlo lontano dalle camicie brune, cioè di un esule? O era ormai un inglese, perfettamente a proprio agio nelle sue pantofole e nella sua patria d'elezione? Oppure un apolide, come si addiceva a coloro che avevano fatto parte di un movimento di palingenesi internazionale quale era il comunismo mondiale? Oppure ancora un prototipo di europeoante litteram, come poteva far supporre la sua perfetta padronanza del francese, dell'italiano, del tedesco, e la sterminata rete di conoscenti e amici che gli telefonavano ogni giorno da tutto il continente?
Penso che la descrizione migliore di Hobsbawm non fosse nessuna di queste. Egli apparteneva in realtà a una nazionalità sconosciuta sui passaporti: era unlondoner, un cittadino di Londra, di questa specie di città-stato cresciuta lungo il Tamigi tra la City e il West End, che per secoli ha idolatrato la libertà attraendo a sé il moderno. Anzi, per essere più precisi, Hobsbawm era un cittadino di Hampstead, il villaggio collinare dove si erano concentrate alcune tra le migliori menti del Novecento, spesso in fuga dai loro Paesi. Gente strana, erudita, informale, con le case piene di libri e gli armadi pieni di vecchi maglioni con le toppe, arroccatasi intorno a un bosco, su un'altura dove per secoli mercanti, geografi, scienziati avevano scrutato il globo dalla sommità dell'impero.
Poi c'era l'altra grande domanda che la sua vita provocava: Hobsbawm era ancora, o almeno poteva ancora definirsi, un comunista? Da ragazzi lo leggevamo su «Monthly Review», era un intellettuale chiave per chi negli anni 70 coltivava l'illusione che si potesse restare comunisti in Occidente senza accettare la realtà del comunismo sovietico. Lui filosovietico di certo non era, al punto che in Urss non erano mai state tradotte le sue opere. Nel 1956 era cominciato il suo grande freddo con il Partito comunista britannico: «Dissi ai dirigenti — raccontò nella nostra intervista — che non avrei rotto i rapporti con coloro che erano stati espulsi e aggiunsi che, se a loro non stava bene, potevano cacciarmi». Non lo cacciarono, ma lui non lasciò. Cominciò allora quel limbo di ambiguità in cui tanti comunisti occidentali — italiani innanzitutto — si logorarono per decenni, cercando una via al socialismo che fosse diversa. Alla «via italiana» Hobsbawm dedicò anche un saggio, in nome di Gramsci e in ammirazione di Berlinguer, allora protagonista della effimera stagione dell'eurocomunismo.
Non volle riconoscere, nemmeno quando ne parlammo ad Hampstead alla vigilia del Capodanno 2000, che il comunismo era «il passato di un'illusione», per dirla con il titolo di un fortunato e ben più radicale libro di François Furet, che uscì quasi in contemporanea al suoThe Age of Extremes. Con quel lavoro, in italiano tradottoIl secolo breve, per la prima volta nella vita di studioso aveva finalmente scritto del comunismo: fino ad allora si era appositamente tenuto alla larga dal Novecento, diventando paradossalmente il grande storico dell'età della borghesia. Ma la sua utopia non la rinnegò mai. Fu l'orgoglio intellettuale a non permettergli abiure né allora né dopo: «Perché sono rimasto? Perché non volevo finire in compagnia di tutti quegli ex comunisti che erano diventati anticomunisti.
Per lealtà a una grande causa, a tutti coloro che per essa avevano sacrificato la propria vita, agli amici e compagni morti per quella causa, che hanno sofferto carcere e tortura, da parte dei regimi comunisti come di quelli capitalisti. Me ne pento? No. Non penso. So bene che la causa che ho abbracciato ha dimostrato di non funzionare. Forse non avrei dovuto sceglierla. Ma, d'altra parte, se gli uomini non nutrono un ideale di un mondo migliore, perdono qualcosa. Mi sembra che l'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute».
Rimase così uno storico comunista senza il comunismo. L'ultimo. Orgoglioso al limite della testardaggine, ma pronto a pagarne il prezzo. Una volta mi diede di sé, ridacchiando, una fulminante definizione che solo un inglese può apprezzare fino in fondo: «Io faccio parte della ristretta schiera dei comunisti Tory», che è un po' come dire in Italia «comunisti conservatori». Il suo quasi secolo di vita è stato molto lungo. Solo ora che se ne è andato si può davvero dire che il Novecento è finito.
Al tempo della rivoluzione
di Gianpasquale Santomassimo
All'età di 95 anni, scompare quello che è stato probabilmente il più grande storico marxista del Novecento, certamente il più popolare e noto al grande pubblico. Una popolarità, quella di Eric J.Hobsbawm, relativamente recente e legata in grandissima parte alla fortuna e alle controversie suscitate dal Secolo breve. Come ricordava nella sua autobiografia Anni interessanti, per la stampa inglese era stato a lungo soltanto «quello storico che è rimasto comunista e che ama il jazz».
Nato ad Alessandria d'Egitto nel 1917, dall'incontro fra una ebrea viennese e un ebreo polacco immigrato in Inghilterra e spedito in Egitto quale funzionario - e da questa origine familiare, possibile solo nel mondo degli imperi che andava declinando, trarrà l'incipit per il suo volume The Age Of Empires - seppe utilizzare tanto il lascito cosmopolita quanto quella «posizione leggermente angolata rispetto all'universo», di cui si era parlato a proposito del poeta greco Kavafis, nato nella stessa città. Il suo cognome era il risultato di una serie di travisamenti della burocrazia imperiale attorno all'originario Obstbaum, che il nonno ebanista polacco aveva portato con sé emigrando in Inghilterra.
Il suo rapporto con l'ebraismo, mai praticato religiosamente né riscoperto in età avanzata, come accadde a molti intellettuali, si limitò al rispetto del principio fortemente ribadito da sua madre: «Non fare mai qualcosa né dare l'impressione di far qualcosa che lasci pensare che ti vergogni di essere ebreo»; un precetto che dichiarò di aver sempre cercato di osservare «benché alla luce del comportamento del governo israeliano, la fatica di attenervisi sia a volte quasi intollerabile». Agli ebrei di San Nicandro Garganico è dedicato uno dei suoi ultimi scritti, molto bello, uscito sulla London Review of Books.
Ma era anche consapevole di essere un sopravvissuto della «civiltà ebraica delle classi medie dell'Europa centrale dopo la prima guerra mondiale». Tra Vienna e Berlino, dove visse da giovane, non c'era molta possibilità di scelta, in quella Europa: si poteva diventare o comunisti o sionisti, e il giovane Hobsbawm compi la scelta del comunismo a cui rimase fedele per tutta la vita.
Nell'ambiente di Cambridge, tra grandi storici come Dobb e Cole, maturò rapidamente un personale ventaglio di interessi, uno stile e una forma di marxismo che ne avrebbero contraddistinto l'opera, rendendola immediatamente riconoscibile.
Una visione globale
Chi leggeva negli anni Sessanta The Age Of Revolution, che diverrà il primo volume della grande quadrilogia sul mondo contemporaneo - non voluta né pensata tale all'origine - si rendeva conto subito di trovarsi di fronte a qualcosa di diverso rispetto a ciò che passava in genere per storiografia marxista. In quel libro, che rimane forse il più bello tra i suoi volumi d'insieme, non c'era il plumbeo economicismo di tante trattazioni, pur occupandosi in gran parte di economia, ma non solo: il mondo nuovo emergeva dall'intreccio di una «duplice rivoluzione», quella industriale che muoveva dall'Inghilterra e quella politica che dopo avere debuttato negli Stati Uniti trovava il suo pieno dispiegamento in Francia. Le due rivoluzioni confluivano e cambiavano tutto il mondo, non solo nel modo di produrre, ma in quello di pensare, di vivere, di sentire. Colpivano i capitoli sull'evoluzione della cultura, delle arti, delle scienze, della musica, che poi diverranno caratteristica abituale nella quadrilogia. Colpiva la dimensione internazionale della trattazione, in un libro dove c'era più Toissant Louverture che Danton o Saint-Just, dove si cercava di dar vita a una storia collettiva, basata sull'interdipendenza tra civiltà europea e atlantica e quelle degli altri continenti; effettivamente globale molto prima che qualcuno immaginasse un termine come «globalizzazione».
E in questo modo, soprattutto, si riscopriva il vero Marx del Manifesto, non un filosofo regressista che deprecava un indistinto «capitalismo», ma l'esaltatore della portata rivoluzionaria che l'industrializzazione capitalistica aveva portato nel mondo, e che rendeva possibile anche il suo superamento. A «questo» Marx Hobsbawm si richiamerà anche nelle sue ultime opere, e in particolare nel recentissimo Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo.
Colpiva la leggibilità dell'opera, che non derivava da un compromesso con il rigore e la completezza. Né poteva parlarsi di «divulgazione», ma di una nuova interpretazione e di una nuova sintesi, completa anche nel dettaglio ma senza inutili sfoggi di erudizione.
Hobsbawm era del resto uno dei pochi storici che si era posto realmente il compito di «tentare almeno di comunicare con i cittadini comuni», senza che ciò comportasse uno scarto stilistico tra produzione storica e contributi giornalistici. «Mi sembra - affermava in una intervista degli anni Settanta - che sia molto importante scrivere storia rivolta non soltanto all'accademia. Nell'arco della mia vita la tendenza dell'attività intellettuale è stata quella di concentrarsi in modo crescente nelle università e di farsi sempre più esoterica, tanto da consistere nel lavoro di professori che parlano per altri professori, ascoltati distrattamente da studenti che devono ripetere le loro idee per poter superare i programmi di esami fissati da professori. Questo restringe considerevolmente la disciplina intellettuale».
Tra ribelli e banditi
I soggetti privilegiati nella sua lunga ricerca saranno ribelli, rivoluzionari, anche banditi, nell'intreccio tra idee rivoluzionarie e forme primitive di rivolta, dai ribelli del Monte Amiata a quelli del latifondo siciliano. Gente non comune, come recita il titolo di una sua raccolta, ma anche common gentry. E, anche e soprattutto, operai e lavoratori. Anche qui si nota la concretezza dell'approccio di Hobsbawm alla storia sociale, che per lui deve essere pienamente storia della società, e non sociologia retrospettiva.
Respingeva come schematica l'idea di una classe operaia come «una sorta di sottosuolo passivo e qualunquista... o come un immenso ghetto comprendente gran parte della nazione, o al più come una forza capace di mobilitarsi solo in difesa di interessi economici più o meno corporativi».
Era storia anche di «mestieri» e della loro trasformazione, talvolta rapida, a volte lentissima nel tempo; ma era anche storia «culturale», a pieno titolo, evoluzione di forme di coscienza e consapevolezza. La diffusione delle idee di Marx e il loro acclimatamento nei vari ambiti nazionali, di cui aveva parlato in sintesi nella Storia del marxismo Einaudi, erano parte integrante di questa storia.
In quello che è il profilo più aggiornato ed esaustivo in lingua italiana, Aldo Agosti aggiunge che Hobsbawm «vede affermarsi soprattutto dopo il 1890 una forte coscienza di classe nelle aree urbane, non identificabile però semplicemente con quella delle avanguardie di attivisti e militanti socialisti. I caratteri fondamentali di questa emergente coscienza di classe sono un profondo senso della separatezza del lavoro manuale, un codice non formulato ma molto forte basato sulla solidarietà, la "lealtà", il mutuo aiuto e la cooperazione; e si accompagnano alla formazione di modelli di comportamento, di abitudini e di stili di vita sui quali Hobsbawm proietta rapidi ma efficaci squarci di luce: l'affermarsi del football come uno sport proletario di massa, lo sviluppo di un luogo di vacanza frequentato quasi esclusivamente dai lavoratori e dalle loro famiglie come Blackpool, la diffusione degli spacci di fish and chips, e persino l'adozione dell'"inconfondibile copricapo" del proletariato britannico, il berrettino reso poi celebre dalle vignette di Andy Capp degli anni '60» (Aldo Agosti: Il test di una vita: profilo di Eric Hobsbawm, Passato e presente, n. 82, 2011).
Un altro tema assolutamente originale introdotto da Hobsbawm sarà la demistificazione dei miti di fondazione delle nazioni moderne (le tradizioni inventate), che aprirà un filone di interessi e di ricerca tuttora non esaurito.
Abbiamo detto che fu si proclamò comunista per tutta la vita, e rimase anche dopo il 1956 nel piccolo partito comunista britannico: ma nel corso degli anni divenne in patria un consigliere ascoltato del Labour Party, fortemente critico tanto della rigidità «classista» dell'era di Kinnock, incapace di comprendere i mutamenti della società, quanto del New Labour di Tony Blair, null'altro che «un Tatcher con i pantaloni». Ma la svolta di Miliband è frutto anche in parte della sua critica, e di un rapporto personale e familiare (il padre fu valido storico e teorico marxista).
In realtà Hobsbawm dichiarò di essersi considerato a partire dal 1956 un «membro spirituale» del partito comunista italiano alle cui idee si sentiva particolarmente vicino. Le numerose pagine «italiane» testimoniano di un lungo rapporto che fu anche familiarità e condivisione di problematiche con una generazione di storici (Rosario Villari, Ernesto Ragionieri, Giuliano Procacci, Renato Zangheri) e anche di politici (Giorgio Napolitano, in modo particolare, che intervistò nel 1976, quando la breve fiammata dell'«eurocomunismo» aveva acceso interessi e speranze destinate a declinare).
C'è in rete una «videolettera» toccante registrata il 20 marzo 2007 in cui Hobsbawm si rivolge ad Antonio Gramsci, con gratitudine e ammirazione, che più di ogni altro documento attesta il legame «italiano», sentimentale e teorico, dello storico inglese verso una forma di comunismo che sentiva vicina alla sua sensibilità.
La frana dell'Occidente
La sua popolarità presso il grande pubblico, come abbiamo ricordato, derivò in gran parte dal Secolo breve, titolo italiano di The Age Of Extremes, volume che brevemente e forse un po' bruscamente concludeva il ciclo del «Lungo Ottocento» che era stato oggetto dei volumi di sintesi che lo avevano preceduto. È la sua opera più discussa, e forse la più discutibile, per tanti motivi. Di fatto, Hobsbawm passerà gli ultimi anni della sua vita a discutere, limare, correggere quelle interpretazioni, alla luce dei nuovi avvenimenti che cambiavano il quadro del mondo descritto nell'ultimo capitolo: la Frana, che seguiva improvvisamente all'Età dell'Oro dell'Occidente. Ora la frana si è approfondita, rischia di travolgere tutto, e l'Occidente che si sentiva trionfante nell'Ottantanove appare sempre più in declino. Il secolo americano, che Hobsbawm aveva visto nascere, sembra avviato a chiudersi al momento della sua scomparsa, come aveva previsto a conclusione della sua autobiografia dieci anni fa.
In quella che è una delle sue ultime interviste, nel maggio 2012, l'interlocutore gli chiedeva: Cosa rimane di Marx? Lei, in tutta questa conversazione non ha mai parlato né di socialismo né di comunismo... E Hobsbawm rispondeva: «Il fatto è che neanche Marx ha parlato molto né di socialismo né di comunismo, ma neanche di capitalismo. Scriveva della società borghese. Rimane la visione, la sua analisi della società. Resta la comprensione del fatto che il capitalismo opera generando le crisi. E poi, Marx ha fatto alcune previsioni giuste a medio termine. La principale: che i lavoratori devono organizzarsi in quanto partito di classe».
Quanto alla sinistra attuale, il giudizio era molto esplicito:
«Non ha più niente da dire, non ha un programma da proporre. Quel che ne rimane rappresenta gli interessi della classe media istruita, e non sono certo centrali nella società».
EUROPA
L'evaporazione della democrazia
di Gianni Ferrara
Per essere un veterano della critica all'Europa dei Trattati e dei mercati spero che l'intervento di Habermas, Bofinger e Nida-Ruemelin (la Repubblica del 4 agosto) così come la presa di posizione di Balibar (su questo giornale del 20 settembre) assieme alla crisi di rigetto che si estende nella varie nazioni del Continente ridestino la coscienza europea dal sonno delle ragioni della democrazia.
Quelle ragioni che il neoliberismo dei Trattati ha sottratto ai popoli europei istituzionalizzando della democrazia una autentica mistificazione, quella dell'Ue. La cui legittimazione sarebbe derivata dalla democraticità degli stati di appartenenza. Come se la rappresentanza politica dei Parlamenti di questi stati potesse essere trasferita ai rispettivi governi, usati come tramite per una successiva investitura di rappresentatività operata a favore delle istituzioni intergovernative dell'Unione. L'evaporazione della rappresentanza parlamentare si sarebbe poi estesa oltre le istituzioni intergovernative (Consiglio, Consiglio dei capi di stato e di governo).
Perché tali istituzioni, come del resto lo stesso Parlamento europeo, pur se rappresentativo di tutti i popoli dell'Unione, sono a potestà dimezzata. Possono esercitare le rispettive funzioni soltanto per deliberare su proposte di una diversa istituzione, la Commissione europea, disegnata in modo da farla risultare svincolata dagli stati, dai governi, dai parlamenti nazionali e da quello europeo e finalizzata a «promuovere l'interesse generale dell'Unione» (art. 17, Tue). Interesse che fu identificato nella realizzazione di una «... economia di mercato aperta ed in libera concorrenza» (art. 119 del Tfue). Che la rappresentanza acquisita all'origine dai parlamenti nazionali, una volta ridotto quello europeo ad esecutivo dei trattati, possa librarsi nei cieli d'Europa per poi poggiarsi sulla Commissione di Bruxelles e pervaderla col flusso della legittimazione offertale dalla base sociale dei singoli stati è credenza risibile, affermazione mendace, teorizzazione infondata. Con conseguenze tragiche, quelle della crisi che stiamo vivendo.
Che si tratti del fallimento del neoliberismo con l'autoregolazione dei mercati, suo immediato corollario, non possono esserci dubbi. Tanto più che, via via che l'andamento del sistema costruito su quei principi smentiva una ad una le promesse declamate, si è fatto ricorso a misure che, mirando a conservarlo, lo contraddicono radicalmente trasfigurandolo in neoliberismo coatto. Non potevano che essere altrettanto catastrofiche le conseguenze sul tipo di edificazione scelto per fornire a questa Europa le istituzioni necessarie a farla nascere e ad integrarne la configurazione.
Perciò se ne vanno proponendo nuove architetture istituzionali. Ma da sedicenti costituenti quali Bce, Commissione europea, Consiglio europeo. Quindi da soggetti di legittimazione democratica nulla. Ma il problema si pone e drammaticamente. Non credo però che l'enorme ed esaltante questione dell'unità europea si possa affrontare senza ripudi irreversibili e senza assumere come compito inderogabile la costruzione di quella che Balibar chiama democrazia sostanziale. Non credo che lo si possa senza sbarrare gli effetti della rivoluzione passiva che il capitalismo ha condotto contro lo stato sociale e le conquiste di civiltà arrise al movimento operaio e democratico nel secondo dopoguerra. Non credo che lo si possa senza partire dal fattore originario della crisi mondiale - l'abbandono negli anni 70 del sistema dei cambi fissi - senza cioè riconoscere che la liberalizzazione dei capitali dagli stati comportò e comporta la liberazione dei capitali dalla democrazia negli stati, per quanto in essi si fosse realizzata o si potesse sviluppare. L'Unione europea, per il suo principio fondante e il corollario dell'autoregolazione del mercato, è stata ed è la specificazione europea della sottrazione del mercato alla democrazia, e, più ancora, cancellazione della politica, contraffazione e asservimento del diritto a funzione servente dell'economia liberista.
So bene che queste mie convinzioni mi pongono in posizione opposta a quella di Habermas quanto a concezione del mercato (v. la Repubblica del 23 settembre). Credo che possano però convergere sulla necessità di una unità europea legittimamente fondata, da qui la proposta di «un legislatore eletto da tutti i cittadini europei che possa decidere sulla base di interessi generalizzati a livello europeo». Riemerge però il mio dissenso ed ha ad oggetto il ruolo di tale legislatore. Attiene al diverso grado di legislazione che si pensa debba essere esercitata. Habermas la concepisce come interna o almeno compatibile con l'ordinamento vigente, con lo spirito e la logica dei Trattati. Il legislatore sarebbe compartecipe (la Repubblica, cit.) del Consiglio europeo. La mia opinione invece è che, perché eletto da tutti i cittadini europei, non possa che essere titolare di potere costituente. Uso questa qualificazione per una ragione che credo evidente. Il superamento di questa Europa fallimentare implica il superamento delle sovranità nazionali dimezzate dai Trattati ma ancora vincolanti o anche solo condizionanti. A simboleggiarle ma soprattutto ad esercitare, congiuntamente, poteri derivanti dalle sovranità nazionali è proprio il Consiglio europeo. Confermarlo in tale ruolo incrementandogli i poteri con l'aggiunta di quelli di grado costituente contraddice proprio tale grado di regolazione che si pone come necessaria e che è quella costituente.
Ma c'è un motivo in più a favore della discontinuità con la storia dell'integrazione europea finora perseguita. Gli stati, non solo europei in verità, sono responsabili di un'abdicazione concertata insieme per delegare al mercato la regolazione del mercato. Una delega senza limiti, senza criteri direttivi che, quindi ha privilegiato tra masse di esseri umani e contro masse di esseri umani, gli attori del mercato, quello finanziario e non solo. Questi attori si sono rivelati per quelli che erano e non potevano che essere: responsabili dello spostamento più consistente della ricchezza prodotta dai salari ai profitti e della più estesa e massiccia compressione dei bisogni delle donne e degli uomini. Hanno, questi stati, tradito la loro stessa storia, la più recente, quella che li vide accogliere le domande della democrazia di assumere la qualificazione "sociale" rendendola credibile col riconoscimento del principio dell'eguaglianza sostanziale e quello dei diritti sociali. Questi stati a fronte del fallimento del neoliberismo non reagiscono, non revocano l'abdicazione compiuta a favore del mercato autoregolato, non provano a riacquisire ed esercitare i poteri per i quali emersero nella storia e pretesero di legittimarsi, i poteri di garantire la sicurezza di vita dei sottoposti - a questo stadio di regressione si è giunti - sicurezza abbandonata alla devastazione neoliberista.
Perciò questi stati, non possono essere soggetti costituenti della democrazia sostanziale (Balibar) da costruire in Europa assumendo come suo compito l'eguaglianza sostanziale e a suo fondamento i diritti sociali con tutti gli altri che il costituzionalismo ha definito, munendoli di garanzie inderogabili. Certo, attuando il principio no taxation without representation. A condizione che sia una rappresentanza autentica, non distorta, non limitata, controllabile. Perciò aggiungendo: no representation without participation. Ma che sia una partecipazione credibile, cioè regolata, non disponibile per oligarchie irresponsabili. Una democrazia che sia insieme rappresentativa e partecipata. Con la disponibilità per il demos di ambedue le forme di esercizio del potere, distinte solo quanto alla adeguatezza di una delle due alle deliberazioni da compiere. Una democrazia che apra orizzonti alla prospettiva del libero sviluppo di ciascuno come condizione del libero sviluppo di tutti. Un compito enorme ma ineludibile.
Post scriptum. Con tutto quello che comporta di analisi, di riflessione, di approfondimenti, di elaborazione, di invenzione la democrazia sostanziale non potrebbe essere adottata come ragion d'essere di questo giornale? Da qualche parte bisognerebbe pure ricominciare.
CON uno zelo tanto impareggiabile quanto prevedibile è cominciata nella Chiesa l’operazione anestesia verso il cardinal Carlo Maria Martini, lo stesso trattamento ricevuto da credenti scomodi come Mazzolari, Milani, Balducci, Turoldo, depotenziati della loro carica profetica e presentati oggi quasi come innocui chierichetti.
A partire dall’omelia di Scola per il funerale, sulla stampa cattolica ufficiale si sono susseguiti una serie di interventi la cui unica finalità è stata svigorire il contenuto destabilizzante delle analisi martiniane per il sistema di potere della Chiesa attuale. Si badi bene: non per la Chiesa (che anzi nella sua essenza evangelica ne avrebbe solo da guadagnare), ma per il suo sistema di potere e la conseguente mentalità cortigiana. Mi riferisco alla situazione descritta così dallo stesso Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al papa stesso”. E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.
Quello che è rilevante in queste parole non è tanto la denuncia del carrierismo, compiuta spesso anche da Ratzinger sia da cardinale che da Papa, quanto piuttosto la terapia proposta, cioè la libertà di parola, l’essere trasparenti, il dire la verità, l’esercizio della coscienza personale, il pensare e l’agire come “cristiani adulti” (per riprendere la nota espressione di Romano Prodi alla vigilia del referendum sui temi bioetici del 2005 costatagli il favore dell’episcopato e pesanti conseguenze per il suo governo). È precisamente questo invito alla libertà della mente ad aver fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e a inquietare ancora oggi il potere ecclesiastico. Diceva nelleConversazioni notturne a Gerusalemme:
“Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balìa degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”. Ecco il metodo-Martini: la libertà di pensiero, ancora prima dell’adesione alla fede. Certo, si tratta di una libertà mai fine a se stessa e sempre tesa all’onesta ricerca del bene e della giustizia (perché, continuava Martini, “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio”), ma a questa adesione al bene e alla giustizia si giunge solo mediante il faticoso esercizio della libertà personale. È questo il metodo che ha affascinato la coscienza laica di ogni essere pensante (credente o non credente che sia) e che invece ha inquietato e inquieta il potere, in particolare un potere come quello ecclesiastico basato nei secoli sull’obbedienza acritica al principio di autorità. Ed è proprio per questo che gli intellettuali a esso organici stanno tentando di annacquare il metodo-Martini.
Per rendersene conto basta leggere le argomentazioni del direttore diCiviltà Cattolicasecondo cui “chiudere Martini nella categoria liberale significa uccidere la portata del suo messaggio”, e ancor più l’articolo suAvveniredi Francesco D’Agostino che presenta una pericolosa distinzione tra la bioetica di Martini definita “pastorale” (in quanto tiene conto delle situazioni concrete delle persone) e la bioetica ufficiale della Chiesa definita teorico-dottrinale e quindi a suo avviso per forza “fredda, dura, severa, tagliente” (volendo addolcire la pillola, l’autore aggiunge in parentesi “fortunatamente non sempre”, ma non si rende conto che peggiora le cose perché l’equivalente di “non sempre” è “il più delle volte”). Ora se c’è una cosa per la quale Gesù pagò con la vita è proprio l’aver lottato contro una legge “fredda, dura, severa, tagliente” in favore di un orizzonte di incondizionata accoglienza per ogni essere umano nella concreta situazione in cui si trova.
Martini ha praticato e insegnato lo stesso, cercando di essere sempre fedele alla novità evangelica, per esempio quando nel gennaio 2006 a ridosso del caso Welby (al quale un mese prima erano stati negati i funerali religiosi in nome di una legge “fredda, dura, severa, tagliente”) scrisse che “non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete – anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite – di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate”. Questa centralità della coscienza personale è il principio cardine dell’unica bioetica coerente con la novità evangelica, mai “fredda, dura, severa, tagliente”, ma sempre scrupolosamente attenta al bene concreto delle persone concrete.
Martini lo ribadisce anche nell’ultima intervista, ovviamente sminuita da Andrea Tornielli sullaStampain quanto “concessa da un uomo stanco, affaticato e alla fine dei suoi giorni”, ma in realtà decisiva per l’importanza dell’interlocutore, il gesuita austriaco Georg Sporschill, il coautore diConversazioni notturne a Gerusalemme.
Ecco le parole di Martini: “Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II (vediGaudium et spes16-17), è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo e a come in essa si lavori sistematicamenteper offuscarlo.
Comincia oggi una serie di pagine dedicate a figure o a opere che hanno avuto un ruolo importante - a volte evidente, a volte più sotterraneo - nella formazione culturale delle diverse generazioni novecentesche e che oggi appaiono marginali: dimenticate o al contrario museificate e prive, all'apparenza, di ogni vitalità. Obiettivo della serie è dunque il tentativo di verificare se e quanto questi personaggi, questi testi, hanno da dire a chi vi si era accostato trenta o quarant'anni fa e, più ancora. a chi non li ha conosciuti. Buona lettura!
Io non sono uno studioso del pensiero di Manlio Rossi-Doria. Chi vuole approfondire l'argomento può leggere almeno uno dei suoi libri o una sua biografia scritta da Simone Misiani e pubblicata recentemente dall'editore Rubettino. S'intitola semplicemente , sottotitolo Un riformatore del novecento.
Non ho alcun titolo per scrivere di lui. Posso vantare solo una contiguità toponomastica. Ho scritto un libro intitolato Terracarne. Ho fatto un film intitolato Terramossa. Organizzo una serie di eventi culturali intitolati Terrascritta. Allora il mio è un contributo inattendibile. Non parlerò dello studioso ma della cosa studiata. Parlerò della terra.
Il mezzogiorno nudo. Rossi-Doria ha studiato e frequentato i luoghi dove vivo. Il suo primo discorso parlamentare fu tutto centrato su una diagnosi dei problemi dell'Alta Irpinia, quella che lui chiamava Terra dell'osso e io adesso chiamo Irpinia d'Oriente.
L'ho visto alcune volte all'osteria di mio padre. Arrivato a tarda sera dopo qualche comizio in zona. Mi piaceva quando arrivava gente che si metteva a parlare di politica. Mi sedevo su una sedia e ascoltavo. Lui veniva coi socialisti della zona. Non mi ricordo una sua frase, non mi ricordo la sua voce. Molti anni dopo, quando ho cominciato le mie scarne letture politiche, ho sentito parlare di terra dell'osso, la famosa formulazione concepita per le nostre zone, contrapposte a quelle costiere definite della polpa. L'ho sentita dire tante volte e mi sono messa a dirla pure io. Forse però andrebbe rimessa in circolazione una sua distinzione pronunciata in un convegno del 1944 tra Mezzogiorno nudo e Mezzogiorno alberato. Una distinzione che a me interessa anche in termini estetici: penso al fatto che il Mezzogiorno nudo somiglia non poco al west che gli americani tanto hanno celebrato nei loro film e che noi poco abbiamo immortalato nei nostri.
Rossi-Doria e Scotellaro. Mi fa sempre impressione leggere che il poeta lucano morì improvvisamente a trent'anni. Morì per un infarto mentre era a Portici, dove lavorava su invito del professore. Io ho pensato tante volte che mi stava venendo un infarto. Rossi-Doria mi ha portato a Scotellaro e dunque alla paura dell'infarto. La poesia, la terra, l'infarto. Questo è il triangolo. Tre lati, tre brani di lettere che il professore scrive al poeta.
Ricominciare cento volte
“A ben guardare nella disperazione dei nostri contadini - che io ho veduto anche di recente in Calabria - non so se è maggiore la rabbia per chi ha pittato la luna o per chi ha sbarrato i portoni. Anche io sono come te: ho profonda fiducia d'un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo. Ma, sai, una ribellione fredda; senza fumi, alimentata da un lavoro cocciuto e paziente che alla fine ce la deve fare a riuscire. È in questo senso che ho impostato tutta la mia vita. Dalla politica per ora mi sono ritirato e faccio la politica del mestiere: è uno sforzo lento e lungo.
Il fatto è, caro Rocco, che a vincere e cambiare questa dannata condizione umana dei contadini che ha millenni dietro di sé, occorre molto più che lo sforzo di pochi anni o pochi miliardi. E quando si chiude una fase e tutto tende a ritornare come prima, bisogna avere il coraggio di ricominciare anche dieci, anche cento volte.
È ben vero che il lavoro non si può e non si deve fare al di fuori dei contadini ma coi contadini. E la vera maledizione di quella miserabile nostra riforma è che l'abbiamo voluta fare senza i contadini. Ma il lavoro non è principalmente di sovvertimento, ma di costruzione, di educazione, di selezione, di differenziazione, di creare individui e varietà, di individuare problemi e trovare ciascuno la sua diversa soluzione, di unir gli uomini, ma di lasciarli anche vivere ciascuno a suo modo. Solo l'intelligenza, la cultura, la libertà, la critica, oltre alla solidarietà e al rispetto del legame civile possono risolvere questi problemi.”
Quando lo sentivo nominare non sapevo che l'autore della terra dell'osso era romano. Non sapevo neppure che Pasquale Saraceno era della Valtellina e Danilo Dolci era triestino. Sapevo solo la cosa che sapevano tutti, che Carlo Levi era di Torino. E Carlo Levi nell' Orologio, così ritrae Rossi-Doria: «Stava a cavallo con un piede sulla politica pura e l' altro sulla pura tecnica, ma questa stessa incertezza gli chiariva le idee, gli impediva di fossilizzarsi in una abitudine mentale, lo conservava vivo e appassionato».
Al Palio del grano
“In questo momento a me una sola cosa importa: capir dentro a questo oscuro processo che vedo in atto nelle campagne. Per questo sono preso da una vera frenesia di girare, di vedere, di prender contatto con la terra. E non vedo l'ora di tornare giù nel Mezzogiorno, di girare paese per paese.” Con questo frammento da una lettera all'irpino Guido Dorso posso associare Rossi-Doria alla paesologia. Io gli somiglio nel mio girare paese per paese, purtroppo non ho la sua stessa veemenza nello studiare.
Consiglio di amministrazione dello Svimez, consigliere della Cassa di Mezzogiorno, senatore nel Partito Socialista italiano: la prova, rara, che si può rimanere onesti e occupare poltrone importanti.
Il centro di specializzazione ricerche economico-agrarie di Portici da solo valeva la nomina a ministro dell'agricoltura, che non è mai arrivata.
Ho pensato a Rossi Doria passando nei giorni scorsi a Caselle in Pittari, nel Cilento, dove sono andato a vedere il Palio del grano. Il palio si è svolto di domenica, preceduto da una settimana di alfabetizzazione rurale. Io sono arrivato il venerdì. Ho parlato in un piccolo anfiteatro fatto con le balle di fieno. Quando si arriva in un'esperienza che è già cominciata a volte si fatica a trovare il senso di quello che sta accadendo. È comunque stato bello vedere i computer appoggiati per terra. Sentire parlare ragazzi venuti da tutta Italia, da paesi e città, mi ha fatto pensare alla mia vecchia formula di coniugare il computer e il pero selvatico. Non so se in mezzo a loro c'è un altro Rossi-Doria. Magari qualcuno è venuto semplicemente per inquietudine o per trovare compagnie sessuali. Niente di male. Anzi, molto bene, se si considera quello che è accaduto la domenica. Io non ci credevo, pensavo che il palio del grano fosse una delle tante cose un po' finte che si fanno nelle estati paesane. E invece mi sono trovato dentro una festa contadina semplice e possente, un piccolo miracolo rurale. Volendo essere cattivi si può dire che i falciatori del grano divisi per paesi facevano pensare a una versione alla buona di giochi senza frontiere. E poi che senso ha mettere le persone a falciare il grano quando è una pratica che qui non farà mai più nessuno? E proprio qui la faccenda è curiosa: non ho sentito in alcun momento della giornata il soffio della paesanologia. Vedere un vecchio modo di mietere senza che si producesse un'aria nostalgica. L'aria non era quella di una sagra, l'aria era quella di una nuova alleanza tra i contadini (che ci sono ancora) e i ragazzi delle città e dei paesi, che cominciano a guardare alla campagna perché sentono che il modello capitalistico non promette più nulla di buono.
Rossi-Doria ha lavorato contromano, per tutti gli ultimi trent'anni della sua vita si è occupato di un mondo in fuga da se stesso, ha profuso ogni suo sforzo per frenare la rottamazione del mondo contadino. Adesso non è più così. A Caselle in Pittari, dentro il Cilento, io ho visto qualcosa di importante. Alla fine i giovani organizzatori hanno assegnato un piccolo pezzo di terra a ognuno dei ragazzi che ha partecipato al corso. So bene che tutte le persone, molte centinaia, che mangiavano strette strette sull'aia, in un meraviglioso affresco corale, adesso stanno nelle loro case, magari consegnate alla tristezza dell'autismo di massa, ma qualcosa è accaduto.
Quello che ho capito è che le persone quando stanno in una cerimonia che ha senso danno il meglio di loro stesse: l'ardore dei mietitori era commovente. Forse il disincanto e il cinismo di cui tanto parliamo sono solo un filo di polvere, sotto c'è ancora qualcosa che luccica. Bisogna aggiornare l'agenda del nostro nichilismo: forse siamo meglio di quello che pensiamo, alla fine siamo più vicini a Rossi-Doria che a Craxi. Sarebbe il caso che i terreni demaniali fossero affidati ai giovani, sarebbe il caso di aprire una grande stagione di ritorno alla terra.
Dopo il terremoto
Non sapevo che aveva subito prima l'arresto e poi il confino, a San Fele, non lontano dal mio paese. In galera divideva il tempo equamente tra studio ed esercizio fisico.
Rossi-Doria o Baudrillard? Non ho dubbi, scelgo il primo: cambiare la realtà, stando ben dentro nella realtà, identificare il centro della politica nei territori, immagino politiche diverse per diversi territori, importanza dello studio per pianificare interventi, esaltazione della democrazia vissuta in forma comunitaria.
A me colpisce la sua passione per il lavoro, la sua lontananza da un sud accidioso e amorale che si sceglie classi dirigenti altrettanto accidiose e amorali: Ho l'impressione che a lavorare veramente, oggi, in questa Italia liberata, non ci sia che la gente del mercato nero, le puttane e i contadini, oltre ai preti ed alla gente che ha da salvare le sue vecchie posizioni guadagnate negli anni addietro.
Nonostante le condizioni di salute precarie, nel 1980 si reca in Irpinia e Basilicata per elaborare un piano per la ricostruzione dei paesi colpiti dal terremoto. Non lo ascoltarono. I democristiani che comandavano a Roma comandavano anche nelle zone terremotate, non potevano lasciarsi sfuggire l'occasione di usare la catastrofe per rimpinguare le loro tasche e il loro consenso.
Lui parlava di politica del mestiere. Quelli che contestano i mestieranti della politica dovrebbero studiare il lavoro di un uomo come lui, il suo pragmatismo senza furbizie: “Continuo a lavorare nel Mezzogiorno, convinto come sono che l'unica cosa che conta è lavorare sodo attorno ai problemi concreti, riuscendo a realizzare di mano in mano quel poco che si può, cercando di accumulare esperienze e capacità effettive, per quanto dovesse servire e per quanto si potesse fare qualcosa di importante che cambi un poco seriamente la faccia di una realtà che dura sempre uguale a se stessa.”
Campagne spopolate
Voleva coniugare lo sviluppo economico con la coesione sociale, la salvaguardia delle risorse naturali con l'intensificazione produttivistica, l'infrastrutturazione con la difesa degli equilibri del territorio: e invece abbiamo avuto le acciaierie killer e lo spopolamento delle campagne. Non si può dire che non si è battuto per le sue idee e come spesso accade nella vita le idee migliori germogliano quando chi le ha prodotte non c'è più. Rossi-Doria è uno degli intellettuali del nostro futuro, altri li avvisteremo presto tra i ragazzi che mettono l'agricoltura al centro della loro vita e di quella del pianeta.
«I governi hanno fallito nel loro ruolo, la terra è l'unica salvezza, e va messa in mano a chi la coltiva. Invito i giovani a occupare la terra così come stanno occupando le piazze». Questo invito di Vandana Shiva è un seme gettato nel solco lungamente arato da Rossi-Doria. Forse oggi le sue analisi da economista agrario del novecento possono sembrare troppo condizionate dal tarlo dello sviluppo, ma i politici italiani, compresi i tecnici, molto avrebbero da imparare se trovassero il tempo di chinarsi nel suo solco.
Ieri il collettivo e i lettori del manifesto hanno perso un amico e compagno. Vittorio Tranquilli se n'è andato, aveva la rispettabile età di 87 anni e la carica e la passione di un ragazzino. Il giornale l'aveva incontrato che già sembrava un vecchietto simpatico e ti chiedevi dove trovasse la forza per attraversare tra le due e le quattro volte l'anno i Balcani con una vetturetta che ne aveva viste di tutti i colori. Come lui, del resto, come quando fuggiva rocambolescamente da Brindisi l'8 settembre del '43. Per sfotterlo gli davo del catto-comunista, un modo presuntuoso dei comunisti sedicenti doc di apostrofare i «comunisti cristiani», cioè chi ai miei occhi riusciva a tenere insieme due fedi. E qui sta l'errore, replicava, «io di fede ne ho una sola ed è quella su cui si radicano i valori che ispirano le mie scelte».
Era il '99, le "nostre bombe umanitarie" avevano raso al suolo, oltre a quel che restava, ormai poco, del sogno jugoslavo, anche la Zastava, la storica fabbrica di automobili di Kragujevac. Eravamo andati a raccontare quella storia sepolta sotto le macerie, dando voce a chi ci lavorava e aveva perso il presente e il futuro. Il manifesto lanciò l'idea di organizzare una rete di sostegno alle famiglie degli (ex) operai serbi, perché no, una campagna di adozione a distanza dei loro figli. Ne avevamo parlato con i dirigenti del sindacato dei metalmeccanici serbi che avevano accolto con entusiasmo la nostra proposta. Al nostro ritorno a Roma si presentò al giornale, in via Tomacelli, quel simpatico vecchietto e ci disse semplicemente: «Io ho una piccola ong, Abc solidarietà e pace, che si occupa di adozioni a distanza in Serbia, in Bosnia, in Africa e in America latina. Sono a disposizione».
Non un soldo raccolto tra le centinaia di lettori che aderirono all'iniziativa finirono a finanziare la struttura, non una lira a intermediari: Vittorio partiva con l'interprete - un'operaia serba che lavorava alla Fiat di Cassino - e consegnava a mano ai genitori di tutti i bambini adottati il gruzzoletto. Poi rientrava e metteva tutto in rete, conti, foto, letterine dei bambini ai genitori adottivi e un rapporto sulle condizione disperate in cui arrancava la società serba dopo le distruzioni, non solo materiali, di una guerra sciagurata. Non chiedeva a quella povera gente se stesse con Milosevic o contro, perché «bisogna aiutare chi ne ha bisogno, non chi la pensa come te».
Questa era la filosofia di Vittorio, che fino all'ultimo istante ha radunato intorno a se compagne e compagni per discutere, ma soprattutto costruire un'altra sinistra, perché la sinistra che aveva in mente lui non era fatta di parole ma di piccole azioni e, soprattutto, di coerenza tra idee e comportamenti. Della cultura comunista e di quella cristiana aveva preso il meglio. Ciao Vittorio, ciao compagno catto-comunista.
Ho conosciuto Vittorio molti anni fa, in un altro collettivo. Abbiamo lavorato insieme nelle riviste Il dibattito politico e, più tardi, La Rivista trimestrale , nel gruppo di persone - provenienti da molte storie e diversi mestieri - del quale Franco Rodano era il maestro. Nel gruppo Vittorio si occupava delle questioni che richiedevano di spaziare più alto e più lontano. Ma sapevo che Vittorio (come l’ariostesco ippogrifo, che “Volando, talor s'alza nelle stelle, così quasi talor la terra rade”).aveva saputo intrecciare stagioni e momenti di duro lavoro politico (dalla Resistenza alle lotte bracciantili nel Teramano) con la riflessione sui massimi sistemi di idee che reggono le azioni degli uomini, da Tommaso d’Aquino a Giuseppe Stalin: Sarebbe bello se qualcuno scrivesse la storia della sua vita e della sua ricerca. Magari qualcuno dei giovani che con lui facevano ( e continueranno a fare Il picchio a sinistra, il successore del sito martel.it katciu-martel, “ ticchettio di spunti per ricominciare a pensare”, che era stato il luogo del nostro ritrovarsi dopo tanti anni. Scoprì allora che la fedeltà agli interessi, alle passioni e ai patrimoni che avevamo condiviso si erano sviluppati lungo le stesse direttrici. Avevamo entrambi scoperto che il mondo è molto più grande di quello che avevamo conosciuto e in molte altre regioni si soffriva per le stesse storture che avevamo imparato a conoscere e a combattere. Se avessi avuto la fortuna di rivederlo oltre che dell’assenza di una sinistra capace di affrontare i problemi di oggi guardando al di là, avremmo parlato dell’Africa e dei molteplici Sud del mondo, e magari mi sarei associato alla sua ABC onlus
Titolo originale: Ray Bradbury brought literary respect to science fiction – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
"Avevano una casa a colonne di cristallo sul pianeta Marte ai margini di un mare vuoto…"
Saggio, sferzante, meraviglioso, così Ray Bradbury iniziava uno dei primi capitolo del suo Cronache Marziane, opera sulla paranoia da era spaziale, meraviglia lirica che negli anni ’50 rese finalmente rispettabile la fantascienza.
La scomparsa di Bradbury a 91anni è stata annunciata oggi dalla figlia a Los Angeles: uno scrittore americano nella scia della tradizione da Edgar Allan Poe a Hawthorne a Hemingway. Al tempo stesso pacato poeta e riluttante profeta, dagli scritti di Bradbury emerge uno stile che è una cascata di immagini e fondamentali verità: il potere nemico della creatività ( ), la paura dell’oscurità ( Paese d’ottobre), i robot non sono sempre nostri amici ( Il corpo elettrico), le cose più spaventose possono essere pagliacci, fiere, giochi ( Qualcosa di sinistro sta per accadere).
Nel 1956, il famoso regista John Huston chiese a Bradbury un adattamento cinematografico di Moby Dick. Alla domanda del giovane e poco pratico Bradbury, “Perché io? Dopo tutto scrivo quasi solo su riviste popolari”. E Huston rispose, “È per via di quella sua storia sul dinosauro e il faro, credo do averci annusato il fantasma di Melville”.
Diffidava della tecnologia — era famoso per non guidare e non salire sugli aerei — ma dotato di un “ottimismo guercio” Bradbury credeva nel futuro, anche se i suoi marziani complottavano di nascosto, e i pompieri fascisti di incendiavano istericamente tutti i libri e i personaggi che ci stavano dentro. “Fahrenheit 451 non l’ho scritto per prevedere il futuro – dichiarò una volta – ma per prevenirlo”. Incanutito, impacciato dopo un ictus nel 1999 e cieco da un occhio, Bradbury ha trascorso i suoi ultimi giorni nella casa a Cheviot Hills, Los Angeles, un paio di chilometri scarsi dagli studi 20th Century Fox. “Stava quasi sempre a letto” racconta Terry Pace, 49 anni, amico e collaboratore che ha passato una settimana con Bradbury in aprile. “Ma era sempre lo stesso dodicenne. Pieno di voglia di vivere, sempre interessato al futuro anche ripercorrendo il passato. In qualche modo sapeva che grazie alla sua opera avrebbe vissuto per sempre”.
Per una intervista al periodico Monsters from the Vault, Bradbury ha raccontato a Pace l’influenza dei film muti di Lon Chaney e dell’horror sulla sua scrittura. E nel corso della visita insieme ai bambini di Pace storpiava le canzoncine di Cantando sotto la Pioggia. “In quegli ultimi tempi la vita gli ripassava davanti” ricorda Pace. Davanti a un vecchio film di Chaney a un’edizione rara dell’Uomo che faceva miracoli, storia non molto nota di Wells, Bradbury poteva scoppiare in lacrime: “Grazie per avermi restituito il mio passato”. Secondo Pace Bradbury “valutava il suo lavoro. Magari prendeva un suo libro dallo scaffale, e chiedeva di leggerne un brano a caso. Piangeva come un bambino: ma chi l’ha scritto? Ottimo, davvero un buon lavoro!”
Nato a Waukegan, Illinois, le sue storie sono impregnate di cultura popolare del Midwest, pubblicate prima su rivistine economiche come Super Space Stories o Thrilling Wonder Stories, ma presto si impongono al pubblico nazionale sulle pagine più prestigiose di Colliers, The Saturday Evening Post e The New Yorker (c’è un suo racconto anche sull’ultimo numero). Il suo punto di forza non sono tanto le idee — qui dopo tutto la concorrenza è numerosa e agguerrita, da Arthur C. Clarke, a Isaac Asimov a Robert Heinlein che percorrono le medesime rotte della fantascienza — ma la qualità della scrittura, che colpisce la sensibilità letteraria.
“Mi pare di sentire ancora i brividi di quella giostra misteriosa e raggelante … Era la qualità della scrittura, fantastica ma al tempo stesso realistica: il mio genere preferito di fantastico” ricorda la scrittrice Erin Morgenstern, che confessa quanto il suo grande successo del 2011,The Night Circus, sia influenzato dall’incontro quando aveva undici anni con Qualcosa di sinistro sta per accadere scritto da Bradbury nel 1962. Lo spirito infantile di Bradbury era equilibrato da una certa scontrosità culturale, specie nei confronti della tecnologia. “Ci sono troppi telefoni cellulari” disse in occasione dell’uscita del primo e-book delle sue storie. “Tutti su internet. Bisogna sbarazzarsi di quelle macchine. Adesso ce ne sono troppe”.
Quando gli scienziati annunciarono di ver trovato prove della possibile esistenza della vita in forma microscopica su Marte nel 1996, Bradbury se ne fece beffe in una intervista sul nostro giornale, era così convinto che si sbagliassero da rifiutare di comparire alla trasmissione Nightline del canale ABC quella sera, nonostante avessero già mandato l’auto a prenderlo. Il più elegante sognatore della fantascienza era politicamente conservatore, al punto da essere turbato quando Michael Moore intitolò il suo lavoro anti-Bush Fahrenheit 9/11. In una introduzione alla raccolta di racconti Shadow Show, tributi all’opera di Bradbury, che uscirà a breve, l’ex first lady ed ex bibliotecaria Laura Bush chiama Bradbury “amico” aggiungendo che “Ray è un eroe delle biblioteche, nonché uno dei più inventivi scrittori di storie d’America”.
Come accade a gran parte degli autori di fantascienza, anche le previsioni di Bradbury non si sono avverate. Ma c’è un racconto del 1951,The Pedestrian, che riecheggia tristemente qualcosa nel nostro mondo post-11 settembre. È sera e un uomo cammina da solo nel suo quartiere. Viene fermato dalla polizia, e quando non riesce a spiegare perché esattamente stava camminando — “tanto per camminare” non basta ai poliziotti — viene portato al Centro Psichiatrico di Ricerche sulle Tendenze Regressive. La storia si conclude: “L’auto ripartì lungo le vie vuote come il letto di un fiume in secca, allontanandosi dal marciapiede vuoto, e non restò nessun suono, nessun movimento, in quella fredda sera di novembre”
Leggere di Federico Caffè è sempre una grande emozione. In queste recenti festività, approfittando della calma, ho piacevolmente letto alcuni profondi scritti di Bruno Amoroso e Daniele Archibugi amici e allievi del Maestro. Sono scritti che letti a pochi giorni da quel fatidico 15 aprile assumono ancora un significato più intimo e riflessivo. Le righe di Amoroso e Archibugi raccontano benissimo chi era Caffè quale fosse il suo rapporto con i suoi amati studenti e quale fosse la sua delusione per l’Italia “che non era più il Paese che sognava” per dirla con una bella frase recente di Carlo Azeglio Ciampi.
Ma perché questo “piccolo uomo” dalla statura intellettuale gigante fa ancora parlare di se? Perché chi lo ha amato e conosciuto (nel mio caso attraverso le sue parole scritte) lo cerca continuamente come bussola in tempi in cui il disorientamento è totale? Caffè non sopportava la decadenza dei suoi tempi e non riusciva a far finta di non vedere. E allora ha compiuto con estrema naturalezza il gesto più umano che un professore deve avere: dare importanza a ciascuno dei suoi allievi e prenderne tutte le risorse nuove attingendo per osmosi l’entusiasmo che allunga la vita. Ricorda Michelangelo Salinetti, un altro suo allievo, «che era l’unico professore che metteva il banchetto fuori dell’Istituto per aiutare gli studenti a comporre il Piano degli Studi. Stava in mezzo a noi e non in una torre d’avorio. Sempre a disposizione dei suoi allievi con consigli e qualche volta rimbrotti. Proverbiali sono stati i suoi sbalzi di umore». E aggiunge Salinetti «insegnava un metodo, deduttivo ed induttivo insieme, come richiede la Politica Economica. Ti insegnava ad esplicitare il tuo “giudizio di valore». Accettava tutte le opinioni, come del resto tutte le scuole di pensiero economiche. Diceva Caffè : “ogni scuola rappresenta un mattone nella costruzione dell’economia e della Politica economica».
Ecco perché uno degli episodi più dolorosi nel percorso terreno del Maestro è stato quando, raggiunti i limiti di età, dovette lasciare l’insegnamento. Perché egli aveva ancora tanto da dire e da dare. Era un grande economista, un grande formatore e un vero riformista. E lo dimostra il fatto che ancora oggi si ricerca e se ne parla, in tempi di crisi finanziaria, ma anche e soprattutto di valori primordiali con il primato delle tensioni sociali sul necessario welfare state che non sarebbe utopico in un Paese illuminato.
Ma nel mezzo dell’aprile 1987 evidentemente la sua depressione lo portò a scomparire alle luci dell’alba. Una scomparsa degna di un grande film d’autore. Nessun elemento che potesse ricondurlo a lui. Un’uscita di scena silenziosa e fragorosa. Un vuoto improvviso e insieme clamoroso. Un dolore immenso del fratello Alfonso, dolore che si è propagato anche ai suoi allievi e che si è trasformato in bisogno di sapere e di conoscere la verità. E di cercarlo. Sempre. E non solo immediatamente dopo la sua scomparsa. Forse, Caffè ha voluto essere discreto anche in questo. Non ha probabilmente voluto mostrarsi ai riflettori e come sempre ha voluto essere e non apparire. Questa è stata la sua forza. La concretezza e la sostanzialità. Gli studi, le affermazioni che non rimangono lettera morta o confinate in una mente ingenerosa; ma invece pragmatismo e poco formalismo e tutto in nome di quel sogno dell’economia di benessere tutta rivolta alla collettività. L’economia al servizio della persona. E la persona al centro, sempre al centro con convinta umanità e capacità di trasmetterla alle generazioni future. Per Caffè il concetto di efficienza non può essere disgiunto da quello di equità. Gli obiettivi di maggiore efficienza e di maggiore equità sono inseparabili.
Scrive Caffè nel saggio In difesa del welfare state: «una efficienza priva di ideali ci riporta al clima intellettuale che ha consentito di designare l’economia come una scienza crudele». L’economia a servizio dell’uomo e a sostegno dei più deboli è la concezione portante del pensiero di Caffè che si riassume e sintetizza nel concetto di “cristianesimo laico”. In questo termine c’è tutto il pensiero e lo stile di vita del Prof. Caffè. Ecco perché le sue parole hanno da sempre assunto tutto un altro valore. Sono parole profetiche, lungimiranti e lucide. La specialità del Maestro era tutta nella sua normalità, una semplicità che lo ha reso unico e inimitabile. Un modello al quale fare riferimento specialmente nei momenti più bui. In realtà, più della scomparsa, occorre oggi parlare della sua presenza. Ed è il modo per farlo vivere e per farlo ancora parlare con il suo linguaggio schietto e diretto tipico di un vero Maestro autentico e prezioso. Per lui sembrano valere queste parole di Italo Calvino tratte dal libro Se una notte di inverno un viaggiatore, soprattutto nell’avvicinarsi del 15 aprile «Ci sono giorni in cui ogni cosa che vedo mi sembra carica di significati: messaggi che mi sarebbe difficile comunicare ad altri, definire, tradurre in parole... Sono annunci o presagi che riguardano me e il mondo insieme: e di me non gli avvenimenti esteriori dell'esistenza ma ciò che accade dentro, nel fondo; e del mondo non qualche fatto particolare ma il modo d'essere generale di tutto».
Federico Caffè non ha mai smesso di volare alto continuando il suo “ viaggio” carico ancora di significati per essere sempre presente anche nell’assenza.
L’articolo, inviato dall’autore che ringraziamo, è pubblicato nel sito della Fondazione Critica Liberale
Nella notte del 15 aprile 1987 il grande economista scomparve nel nulla Si pensò al suicidio, a un incidente oppure a una fuga perfetta per lasciarsi ogni cosa alle spalle. In quei giorni quasi tutti i suoi allievi intrapresero una grande ricerca, perlustrarono tutta Roma e non scartarono nessuna ipotesi Dopo venticinque anni, il racconto di uno di loro
Fu n mercoledì mattina Federico Caffè scomparve di casa con la discrezione che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Saranno state le sette quando mi arrivò la telefonata di suo fratello minore Alfonso, anche lui celibe e professore, con cui conviveva. Mi disse «Vinicio (così lo chiamavano in famiglia) è scappato di casa». Ci misi pochi minuti a raggiungere la loro casa di via Cadlolo, dove trovai i suoi nipoti e Nicola Acocella, uno dei suoi allievi che più si era preso cura di lui nelle ultime settimane. Non sapevamo che cosa attenderci: la sua fuga sarebbe stata di breve durata come quella di un adolescente o avrebbe preso una piega ben più tragica?
La domenica prima ero andato a trovarlo a casa. Da tre mesi, Caffè era stato preso da una profonda crisi depressiva e non andava più, come aveva sempre fatto, tutti i giorni in facoltà. Negli anni in cui frequentai l´Università, dal 1976 al 1982, è stato l´amico più vicino, nonostante fossi quasi mezzo secolo più giovane. Come altri affezionati allievi che avevano saputo della sua depressione, cercavo di aiutarlo passando qualche ora nel suo studiolo. La mia amicizia con Caffè è iniziata ben prima che nascessi: mio padre era il suo migliore e forse unico amico, e lui fu il testimone di nozze dei miei genitori. Era un uomo assai riservato e sin da bambino ho pensato che fosse la sua statura - era alto un metro e mezzo - a renderlo così schivo. Celibe, era generosissimo con i figli dei suoi amici: solo pochi mesi fa sono venuto a sapere che gli stessi giocattoli che ci faceva pervenire negli anni Sessanta giungevano anche ai figlioli del suo amico Paolo Sylos Labini e chissà a quanti altri.
Unico tra i miei fratelli, mi iscrissi a economia e commercio, la facoltà nella quale lui passava dodici ore al giorno. Scoprii in quel frangente che l´uomo riservatissimo che avevo conosciuto si trasformava dietro la cattedra e tramite l´eloquio, sempre sostenuto da un sano pragmatismo di mai ripudiata marca abbruzzese, riusciva a persuadere e, soprattutto, ad accendere la curiosità. Mi accorsi presto che ero stato arruolato nella confraternita dei suoi allievi che, senza bisogno di riti iniziatici, si ispirava ai valori coltivati dal Maestro: rigore e sobrietà. Per sopraggiunti limiti di età, Caffè aveva da pochi mesi smesso di insegnare, riportandone un tracollo emotivo. Il circolo di persone che gli era più vicino ne era rimasto sorpreso: come era possibile che lui, l´uomo che aveva sempre sostenuto tutto e tutti, avesse ora bisogno di sostegno? Aveva retto in piedi un´intera facoltà, reclutato i più promettenti insegnanti e contribuito al dibattito politico. Con discrezione, ma anche con passione civica, aveva sempre usato gli strumenti dell´economia per difendere i più deboli. Aveva tempo per tutti e per tutto, e a nessuno aveva negato il suo sostegno e conforto. Eppure, ora, si dimostrava incapace di abbandonarsi alle persone che gli volevano bene.
Da quel mercoledì iniziarono giorni terribili: non volevamo dare la notizia in pasto alla stampa nel timore che, se fosse stato travolto dal clamore dei media, avrebbe potuto compiere atti inconsulti che speravamo fosse ancora possibile scongiurare. Telefonammo ai molti suoi amici sparsi per Roma e per il mondo, nella speranza che si fosse rifugiato a casa di uno loro. Cercammo di immaginare quali potevano essere state le sue mosse e trovammo un interlocutore di rara sensibilità umana nel capo della squadra mobile di Roma, Nicola Cavaliere. Se stava vagando per la città in stato confusionale, aveva bisogno di essere aiutato.
Iniziammo a cercarlo sulle pendici della collina di Monte Mario, dove abitava, e nelle zone limitrofe. Ci fu chi perlustrò gli argini del Tevere, chi cercò nei dintorni della nuova facoltà di via Castro Laurenziano e della vecchia sede di Piazza Fontanella Borghese. Inseguimmo falsi indizi, come quello di un gioielliere che riteneva di averlo visto seduto sui gradini di una stazione della metropolitana. Negli stessi giorni, un altro anziano si buttò nel Tevere da Ponte Marconi ma ben presto, visti gli ingrandimenti delle foto scattate da un passante, escludemmo che si potesse trattare di lui. Bussammo alle porte dei conventi e chiedemmo aiuto al Vaticano. Armati di penna e taccuino, parlavamo con le persone che conosceva ricercando qualche indizio e raccomandando mille volte di mantenere la riservatezza.
Per cinque lunghissimi giorni non abbiamo dato la notizia all´opinione pubblica, per paura che la vita di un uomo sensibile e straordinario come Caffè potesse essere insudiciata. Tramite Marco Ruffolo, uno dei suoi amati allievi, chiedemmo a Eugenio Scalfari di pubblicare su Repubblica un annuncio criptico dettato dal fratello: «Vinicio, torna a casa, sto male. A.». In queste poche parole c´è forse il dramma estremo con cui Federico aveva costruito la sua esistenza: anche nel momento tragico in cui stava probabilmente pensando di porre fine alla propria vita, chi gli era più vicino sperava di convincerlo a cambiare idea richiamandolo ai suoi doveri verso gli altri piuttosto che a quelli verso se stesso. Del resto, era lui che da sempre aveva avuto tanta facilità a dare quanto difficoltà a ricevere.
Portai la notizia all´Ansa una domenica pomeriggio. Fui bombardato di domande e ognuna di esse mi parve una violenza esercitata nei confronti del mio professore. Ci trovavamo in una situazione contraddittoria: da una parte, il clamore suscitato dalla sua scomparsa aumentava la possibilità che fosse rintracciato, dall´altra temevamo la passione per il giallo scandalistico dei mass media. Così nessuno di noi parlò della sua crisi depressiva e per anni e anni siamo stati reticenti nel descrivere lo stato in cui si trovava negli ultimi mesi. La scomparsa del piccolo grande economista non doveva inficiare l´aura che si era meritato con un´esistenza esemplare.
Dopo un quarto di secolo, possiamo solo constatare che, qualsiasi sia stato il destino del nostro maestro, è stato quello che lui si è scelto. La sua vicenda non sarebbe ancora un mistero se nelle ore successive alla sua scomparsa non avesse dimostrato di avere le doti professionali di un agente segreto assai più che quelle di un austero docente. Anche la sua ultima pagina l´ha scritta senza farsi aiutare da nessuno.
Quando la notizia divenne di pubblico dominio, giunsero numerosissimi allievi per aiutarci nelle ricerche. Spesso non ci conoscevamo, ma bastava uno sguardo per capire che appartenevamo alla medesima confraternita. Agli studenti degli ultimi anni si accompagnavano quelli dei decenni anteriori, e ognuno di loro chiedeva che cosa potesse fare di utile. Non era facile trovare una risposta perché neppure la polizia aveva fornito una casistica. Nell´organizzare le squadre che battevano la città palmo a palmo, chiedevo spesso qualche informazione sugli anni in cui lo avevano frequentato all´università. Mi sentivo ripetere sempre la stessa frase: «È stato il periodo più bello della mia vita». Ma lui, Federico Caffè, lo avrà mai saputo?
Pochissimi sono i temi trattati da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere che non siano stati discussi e analizzati minuziosamente da numerosi studiosi in ogni parte del mondo. Uno di questi è il Lorianismo, un termine coniato da Gramsci per indicare un fenomeno socioculturale che è insieme sintomo e causa della corruzione della società civile. Nella sua introduzione al Quaderno 28, dedicato al Lorianismo, Gramsci spiega che si tratta di «assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell´attività scientifica [... ], irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale». Un tema inattuale, rilevante soltanto per l´epoca fascista? Gramsci aggiunge che «ogni periodo ha il suo lorianismo più o meno compiuto e perfetto, e ogni paese ha il suo».
La figura di Gramsci ha attirato l´attenzione di parecchi loriani. Qualche anno fa un arcivescovo fece notizia dichiarando, in una conferenza tenuta in Vaticano, che Gramsci si era convertito in punto di morte grazie all´effigie di Santa Teresa. Le polemiche suscitate furono comiche e divertenti. La più recente manifestazione di lorianismo è invece sconcertante. In uno scritto prodotto per Nuova Storia Contemporanea, anticipato in sintesi su sabato scorso, Dario Biocca ha sostenuto che Gramsci fu un pentito, pronto a fare un atto di ravvedimento al cospetto del duce. La tesi di Biocca è basata sulla supposizione che – con la richiesta per la libertà condizionale che Gramsci indirizzò a Mussolini nel settembre del 1934, invocando l´articolo 176 del codice penale – il comunista sardo si sia automaticamente ravveduto. Per confermare la sua ipotesi, Biocca cita il testo del codice penale: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla libertà condizionale».
Questo, però, non è il testo dell´articolo 176 in vigore negli anni Trenta quando Gramsci fece la sua domanda, ma il testo di quello stesso articolo così come fu riscritto nel novembre 1962. Come spiega il professore Nerio Naldi, in una lettera diffusa tramite la listserve della IGS-Italia (International Gramsci Society), il testo dell´articolo 176 nel codice in vigore nell´anno in cui Gramsci presentava la sua domanda recitava così: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni». Perciò, aggiunge Naldi, «la richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla».
Può darsi che Biocca abbia consultato qualche edizione del codice penale che non indica la revisione del articolo 176 effettuata nel 1962. In tal caso il suo travisamento dell´evidenza testuale sarebbe la conseguenza di un´incompetenza filologica piuttosto che di una lettura intenzionalmente ingannevole. Sorprende che Biocca non citi testualmente una dichiarazione che Gramsci fece nella sua lettera del 14 ottobre 1934 ad Antonio Valenti (l´immagine del documento appare di fianco al suo articolo su Repubblica): «Sono d´avviso che il beneficio che sta per essermi concesso non è da attribuirsi a cause politiche». Questa lettera e tanti altri documenti rilevanti sono stati pubblicati ed analizzati da biografi più attendibili (come Giuseppe Fiori e Paolo Spriano) e dal curatore delle lettere di Gramsci, Antonio Santucci. Studiosi seri che, a differenza di Biocca, non cercano lo scoop con ipotesi stravaganti.
Biocca vuol distruggere un mito. Gramsci, però, non è un mito ma un persona storica, la cui vita è ben documentata e i cui scritti sono facilmente accessibili in edizioni critiche curate con rigore filologico. Le fantasie di Biocca sulle vicende di Gramsci a Roma, prima del suo arresto, sono anch´esse contraddette da documenti e testimonianze ben note. Basterebbe leggere le lettere che Gramsci scrisse in quegli anni per vedere che il leader comunista rimaneva politicamente molto attivo, in contatto regolare con i suoi amici e compagni.
In conclusione, questo uso scorretto dei documenti intorno a Gramsci è da prendere sul serio solo perché è un sintomo del lorianismo attuale, e ci induce a riflettere – come ha fatto Gramsci – «sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici». Argini critici che ci è sembrato opportuno ripristinare.
(L´autore è presidente dell´International Gramsci Society e ha curato l´edizione critica dei "Quaderni dal carcere" per la Columbia University Press)
POCHE parole, a poche ore dalla morte del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: un uomo politico e un servitore della Costituzione rigoroso, roccioso e intransigente e, proprio per questo, molto amato e anche molto osteggiato.
«Non c´è da temere mai di fronte alle pressioni esterne. L´unico che può temerle è chi è ricattabile»: sono parole sue, rivolte ai giudici ma valide con riguardo a qualunque magistratura e tanto più valide in quanto riferite alle più alte cariche della Repubblica. Di queste, la prima e fondamentale "prestazione" costituzionale che si ha necessità e diritto di pretendere, soprattutto nei tempi di incertezza o di crisi, è la rassicurazione che viene dalla serenità e dalla forza, cioè dalla certezza che non vi possono essere cedimenti e deviazioni.
Altri, col tempo e con la riflessione necessari, scriveranno di lui e della sua opera nella storia della Repubblica, una storia che la copre dall´inizio all´altro ieri. Allora si faranno bilanci. Nella commozione del momento, vorrei ricordarlo con parole nelle quali egli probabilmente si riconoscerebbe volentieri, quasi come in un suo motto: "Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 37).
Una delle cause del degrado e della corruzione della vita pubblica nel nostro Paese, egli l´imputava ai troppi sì che si dicono da parte di chi avrebbe il dovere di dire di no, in modo di stabilire il confine del lecito e dell´illecito e quindi il territorio entro il quale può legittimamente valere il gioco democratico. Quelle che seguono sono sue parole:
«Il compito del Capo dello Stato non è quello di essere equidistante tra due parti politiche. Sarebbe fin troppo facile. Si dà ragione una volta all´uno e una volta all´altro e si sta a posto con la coscienza. No, il compito del Capo dello Stato è quello di garantire il rispetto della Costituzione su cui ha giurato. Di difenderla a ogni costo, senza guardare in faccia nessuno. Tra il ladro e il carabiniere non si può essere equidistanti: se qualcuno dice di esserlo vuol dire che ha già deciso di stare con il ladro».
L´imparzialità di cui la Costituzione ha bisogno non è dunque un´equidistanza senza carattere, ma presuppone che si stabilisca quali sono le parti le cui pretese sono legittime e che da queste siano tenute separate quelle che non lo sono. Soprattutto nei momenti di turbolenza e di tentativi di forzatura, il Capo dello Stato non può esimersi dal compito - un compito che nell´ordinaria vita costituzionale gli è risparmiato - di stabilire i confini tra il lecito e l´illecito costituzionale. Tra questi due poli non può esservi imparzialità. In una Costituzione pluralista e inclusiva com´è la nostra, il terreno dell´inclusione costituzionale è assai ampio ma non è certo illimitato. Una Costituzione che "costituzionalizzasse" tutto e il contrario di tutto sarebbe non una costituzione ma il caos.
È perfino superfluo ricordare che gli anni del settennato presidenziale di Scalfaro furono un periodo di accesissime polemiche e non infondati timori per la "tenuta" delle istituzioni costituzionali. Al centro delle tensioni si trovò proprio la Presidenza della Repubblica e la sua interpretazione della Costituzione. Non furono solo polemiche verbali ma anche attacchi personali il cui obbiettivo era trasparente. Il drammatico discorso televisivo delle 9 della sera del 3 novembre 1993, il discorso del "non ci sto", fu al tempo stesso una denuncia e una risposta. La reazione dell´opinione pubblica non iniziata alle segrete cose fu, inizialmente, di sconcerto.
Non si comprendeva che cosa stesse accadendo, anche se si avvertiva l´eccezionalità del momento e delle parole appena udite, che alludevano a manovre tanto più inquietanti quanto meno limpide. Col senno di poi, comprendiamo che quelle tre parole dicevano a chi doveva intendere: "ho compreso" e un "sappiate che cedimenti non sono alle viste". Che cosa "ho compreso"? Si dice che fosse in atto un attacco, un ricatto al Capo dello Stato da parte di uomini della maggioranza d´allora, che non lo consideravano malleabile. La parte finale del discorso allude certamente a ciò. Ma la parte iniziale è quella che deve essere riascoltata oggi. Vi si parla non di un atto grande e conclamato, contro la Costituzione e le sue istituzioni. Si parla di degrado e corruzione attraverso piccoli cedimenti, di per sé poco evidenti, ma tali da sommarsi l´uno all´altro e di fare massa, fino al momento in cui, quando ci se ne fosse accorti e si fosse voluto reagire, sarebbe stato troppo tardi. Qui, nel "bel paese là dove il sì suona" troppo frequentemente, i "no" scalfariani sono stati una scossa salutare. Egli stesso ne era orgoglioso. Nelle sue numerose e generose interviste, conferenze, lezioni degli ultimi anni, usava ricordare agli uditori, che avevano evidentemente bisogno di parole di rigore e le salutavano con entusiasmo, i tre rotondi "no" (senza "il di più" satanico) che seguirono alla richiesta di elezioni anticipate dopo la rottura dell´alleanza Lega-Forza Italia nel 1994. Quei "no" hanno salvato la Costituzione da quella che sarebbe stata una prima interpretazione anti-parlamentare destinata a fare scuola, secondo la quale il presidente del Consiglio può pretendere nuove elezioni per essere "plebiscitato" contro un Parlamento che non sta alle sue volontà. Scalfaro è stato la prima pietra d´inciampo nella marcia verso qualcosa d´inquietante, una sorta di "democrazia d´investitura" personalistica che non sappiamo dove ci avrebbe portato. Se, oggi, il presidente della Repubblica ha potuto resistere alle pressioni per elezioni anticipate, a seguito delle dimissioni del governo Berlusconi, lo dobbiamo anche alla fermezza mostrata allora dal presidente Scalfaro.
Ma altri, importantissimi "no" sono stati pronunciati. Non possiamo dimenticare con quale alto senso della laicità delle istituzioni repubblicane, egli - cattolicissimo - rivendicò davanti al Papa il suo essere presidente di tutti gli italiani, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, quando è tanto facile acquisire meriti e farsi belli agli occhi della gerarchia ecclesiastica, appellandosi alla tradizione cattolica, maggioritaria in Italia. Così, le questioni di fede o non fede, con lui, non erano mai motivi di divisione. Ciò che mi pare contasse davvero era l´evangelica rettitudine del sentire e dell´agire. Questo spiega l´ottimo rapporto personale - ch´egli soleva ricordare - con tanti galantuomini d´altri partiti, talora lontani politicamente dal suo e, al contrario, il pessimo rapporto con chi galantuomo non era, ancorché del suo stesso partito.
Infine, il suo impegno per la difesa della Costituzione, nel quale fino all´ultimo non risparmiò le sue energie. Presiedette il comitato Salviamo la Costituzione, al quale si deve un contributo decisivo alla vittoria nel referendum del 2006, che impedì una trasformazione profonda e ambigua delle nostre istituzioni. Ecco un altro no. Alla Costituzione andavano costantemente i suoi pensieri, consapevole ch´essa rappresenta uno dei frutti più elevati della cultura e della politica del nostro Paese. E insieme alla Costituzione, la Resistenza che ne è la radice storica e morale. Nel discorso alle Camere riunite, in occasione del giuramento, il 28 maggio 1992, rese omaggio agli uomini e alle donne che parteciparono alla lotta di Liberazione. La Costituzione "io non l´ho pagata nella Resistenza […] Altri non la votarono ma la pagarono con la vita. Non dimentichiamolo mai". Retorica, diranno coloro ai quali questa Costituzione non aggrada. Parole profonde, diranno invece coloro che hanno consapevolezza del valore storico di quel periodo della nostra storia e del suo frutto più importante. E questi ti saranno per sempre in debito di affetto e di riconoscenza, presidente Scalfaro.
. IL CAMPO DEL DOMINIO
di Marco D'Eramo
A dieci anni dalla morte, l'opera dello studioso francese continua ad offrire raffinati strumenti di comprensione del presente. E a fornire elementi per una critica dello status quo
Dieci anni fa, giorno per giorno, moriva Pierre Bourdieu. Ma quanto ci manca il grande sociologo francese (1930-2002)! Lo vorremmo qui, proprio in questa fase in cui la violenza simbolica, di cui tanto scrisse e che tanto chiarì, si esercita con ferocia inaudita azzerando le distanze. Che altro è se non violenza simbolica allo stato più puro il verdetto di retrocessione di uno stato emesso da un'agenzia di rating? Quell'agenzia è apparentemente inerme, non dispone né di eserciti, né di armi (si potrebbe parafrasare in questo caso la famosa, sardonica domanda di Stalin «Ma di quante divisioni dispone un'agenzia di rating?» e il sarcarsmo sarebbe altrettanto malposto quanto quello originale che si riferiva al Vaticano). Eppure il mondo intero si piega alle sue sentenze, paesi orgogliosi della propria grandeur vengono umiliati pubblicamente e - quel che più conta - nessuno osa contestare né i verdetti né i giudici.
Infatti quel che più stupisce in questa fase è la passività con cui i popoli subiscono la selvaggia repressione sociale cui sono sottoposti. Qualche protesta, certo. Ma niente di serio. Conquiste duramente ottenute con decenni, a volte con secoli di lotte furibonde vengono cedute, abbandonate sul campo con una indifferenza sconcertante. Di fronte a tanta apatia sorge spontanea la domanda: quale è la ragione della «sorprendente facilità con cui i dominanti impongono il loro dominio?» (in Raisons pratiques. Sur la théorie de l'action). E questa è proprio la domanda chiave che Bourdieu si pone e da cui deriva la sua teoria del dominio: «come è possibile che un ordine sociale palesemente fondato sull'ingiustizia possa perpetuarsi senza che venga posta la questione della sua legittimità?», per formularla nei termini usati da Gabriella Paolucci nella sua Introduzione a Bourdieu (Laterza).
Proprio le agenzie di rating ci mostrano la rilevanza e la profondità delle domande che Bourdieu si pone: da dove deriva la loro legittimazione? cosa ci impedisce di mettere in discussione l'arbitrarietà del loro dominio e ci impone di riconoscerlo, accettarlo e subirlo come legittimo?
Intendiamoci, la violenza simbolica non è mai disgiunta dai rapporti di forza oggettivi che la rendono possibile, né dalla violenza fisica che sullo sfondo si staglia all'orizzonte: ma il processo di legittimazione di un dominio consiste proprio nel fatto che la violenza simbolica, «dissimulando i rapporti di forza su cui si basa la sua forza, aggiunge la propria forza, cioè una forza specificatamente simbolica, a questi rapporti di forza» ( La reproduction). Nella violenza simbolica c'è sempre un'atto di dissimulazione.
La violenza simbolica è tale perché opera attraverso i simboli e sui simboli, ma i suoi effetti non hanno niente di simbolico: gli anziani che perdono le pensioni, i malati che non saranno più curati sono quanto di più materiale e meno simbolico si possa immaginare, ma se il verdetto può avere questi effetti è perché la legittimità della sentenza è interiorizzata da chi la subisce. L'effetto su colui che subisce una violenza simbolica è di essere messo nella condizione di pensare che non sta subendo alcuna violenza. La violenza simbolica agisce sulle categorie cognitive del dominato che, per pensare il proprio rapporto con il dominante, dispone solo di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata della struttura del rapporto di dominio, fanno apparire tale rapporto come naturale» ( Méditations pascaliennes).
È questo il meccanismo per cui ci appare «naturale» che una retrocessione formulata da una ditta privata in un paese lontano abbia come effetto diretto che un giovane non può più frequentare l'università o un lavoratore deve essere licenziato.
Noi la vediamo tutti i giorni all'opera questa violenza simbolica, questo «potere di dire ciò che è e di far esistere ciò che si enuncia» (Méditations pascaliennes). Ci dicono che esiste un'entità plurale eppure singolare chiamata i Mercati ed ecco che per un gioco d'«impostura legittima» questa entità acquista una sua esistenza autonoma che viene riconosciuta e temuta.
Naturalmente il gioco della violenza simbolica è insieme più sottile e più efferato, ma a noi manca disperatamente un pensatore - e un osservatore pensante - che riporti alla luce la sua natura di violenza dissimulata, proprio per effetto della coercizione simbolica, sotto le forme del «naturale», dell'«inevitabile», «inesorabile»: è «naturale» che vi siano sfruttati (e sfruttatori), che alcuni guadagnino 10.000 volte più della media dei propri dipendenti, la legge «di mercato» è una «legge di natura» come la gravitazione universale.
È qui che entra in campo il rapporto tra la sociologia e la politica. Che non può essere - come è così spesso, e in modo tanto sconsolante nei nostri giorni - un non rapporto. Ma che non può essere nemmeno quello dell'i ntellectuel engagé alla Sartre che grida il suo impegno politico, il suo essere di parte. Perché non serve a nessuno.
C'è invece bisogno di un sociologo come Bourdieu che si situi (come lui fece per tanti anni, fino al 1990) «al di qua» della politica, perché la guarda come un campo relativamente autonomo, in cui gli agenti operano spinti dalle proprie traiettorie sociali, dai propri habitus. L'impegno politico del sociologo si rifiuta al libro inteso come comizio politico. Fa politica senza dirlo: «La conoscenza esercita di per sé un effetto - che mi pare liberatore - tutte le volte che i meccanismi di cui stabilisce le leggi di funzionamento debbono una parte della loro efficacia al disconoscimento, cioè tutte le volte che ha a che vedere con i fondamenti della violenza simbolica» ( La leçon sur la leçon). Il sociologo fa politica nello smontare i processi di violenza simbolica, nel palesarli (essi sono di per sé nascosti e soggetti a denegazione), fa politica decostruendo le motivazioni sociali del discorso militante e filosofico, come ha fatto Bourdieu in quel classico della demistificazione del galateo filosofico che è L'ontologia politica di Martin Heidegger (1988), dove infine la filosofia non viene letta come pretende di esserlo, cioè ontologicamente, all'indicativo presente della terza persona singolare («l'esserci è»), ma contestualizzandola e senza facili cortocircuiti tra heideggerismo e nazismo (come invece aveva fatto Victor Farias nel suo libro del 1987). Il sociologo fa politica ricercando sul campo i meccanismi della «costruzione politica dello spazio» geografico e sociale, come nella straordinaria, commovente opera collettiva del 1993, in cui compaiono gli ultimi testi più densamente teorici: La Misère du monde, un volumone di 950 fitte pagine che fu venduto a 300.000 copie in Francia e tradotto in 13 lingue. Dice Marc Saint-Upéry (già direttore delle edizioni La Dècouverte): «Citando il poeta Francis Ponge, Bourdieu dichiarò un giorno che in fondo il suo lavoro mirava ad aiutare le persone a 'parlare con le parole proprie', a sfuggire ai meccanismi ventriloqui del dominio e ai modi imposti dai poteri o dai falsi contro-poteri».
Insomma, cercasi disperatamente nuovo Bourdieu, una filosofia della società e una sociologia della politica che guardino con lucidità, ma con partecipazione, questo terrorizzante mondo di oggi.
PIERRE BOURDIEU IL POTERE COSTITUITO CHE SI RIFLETTE NELLE DIVERSE DISCIPLINE DEL SAPERE
Un pensiero combattente
ARTICOLO
Dalla provincia a Parigi, dalla filosofia alla sociologia, dall'Algeria all'analisi critica della globalizzazione. Diario di un percorso teorico
Guascone, Pierre Bourdieu nasce nel 1930 in un paesetto del Béarn da padre contadino. Ottimo studente, viene notato da un professore che gli suggerisce di «salire a Parigi» per preparare l'ingresso alle Grandi Scuole. Nel 1949 entra nell'École Normale Supérieure della Rue d'Ulm, nella stessa classe di Jacques Derrida e Emmanuel Le Roy Ladurie; diventa allievo del filosofo della scienza Georges Canguilhem. Nel 1954 ottiene l'agrégation in filosofia che va a insegnare in un liceo nella banlieue parigina. Inizia una tesi di dottorato con Canguilhem sulle strutture temporali della vita afffettiva.
Ma l'esperienza che gli fa abbandonare la carriera filosofica e gli fa intraprendere il cammino sociologico è il servizio militare in Algeria dal 1956 al 1958 durante la guerra d'indipendenza (1954-1962). E infatti nel 1958 esce nella collezione Que-sais-je delle Presses Universitaires de France il suo primo libro, Sociologie de l'Algerie. Per continuare a studiare la società kabile, Bourdieu ottiene un posto di assistente all'università di Algeri dal 1958 al 1960. È nell'osservazione delle forme simboliche di quella società, delle sue risposte ai mutamenti violenti apportati dal colonialismo e dal capitalismo che prende forma la sua teoria sociologica.
Tornato a Parigi, nel 1960 diventa assistente di Raymond Aron che ne fa il segretario del suo Centre de sociologie européenne. Nel 1962 si sposa con Marie-Claire Brizard con cui avrà tre figli. Ma è il 1964 l'anno che segna la sua ascesa accademica: entra all'École Pratique des Hautes Études (che nel 1975 diventerà l'École des Hautes Études en Sciences Sociales), assume la direzione della collana «Le Sens Commun» presso le Éditions de Minuit e inizia la sua collaborazione con Jean-Claude Passeron con cui pubblica Les héritiers. Les étudiants et la culture, opera che avrà un grande successo e notevole influenza sul movimento del 1968. Proprio su questo movimento si produce la sua rottura con Aron, di cui abbandona il centro per fondarne uno suo: il Centre de Sociologie de lì éducation et de la culture.
Dal 1964 fino alla morte prosegue la sua infaticabile attività di ricercatore e di organizzatore delle ricerche altrui. Si succedono i libri e i saggi (più di 200 in tutto), tra cui è possibile citare. Le déracinement (con A. Sayad, 1964), Les héritiers (con J.-C. Passeron, 1964), Un art moyen: essay sur les usages sociaux de la photographie (con L. Boltanski, R. Castel e J-L. Chamboredon, 1965); L'amour de l'art (con A. Darbel, 1966); Le métier du sociologue, con J.-C. Passeron e J.-C. Chamboredon, 1968); Pour une sociologie des formes symboliques (1970); La reproduction (con J.-C. Passeron, 1971); Esquisse d'une théorie de la pratique (1972); La distinction: critique sociale du jugement (1979); Le sens pratique (1980); Ce que parler veut dire (1982); Leçon sur la leçon (1982); Homo academicus (1984); L'ontologie politique de Martin Heidegger (1989); Réponses: pour une anthropologie réflexive (con L. Wacquant, 1992); Méditations pascaliennes (1997), Science de la science et Réfléxivité (2001).
Nel 1975, con l'appoggio di Fernand Braudel, fonda e dirige la rivista Actes de la recherche en sciences sociales che raccoglie le ricerche sue e della sua scuola in un formato anti-accademico (foto, disegni, formati non convenzionali). Nel 1981 diventa professore al Collège de France, la più alta posizione del sistema scolastico francese. A partire da allora, oltre a continuare la sua attività di ricercatore e organizzatore di ricerche, Bourdieu moltiplica le prese di posizione pubbliche diventando un punto di riferimento per il movimento altermondialista (diventato poi no global); «per dar voce a chi è considerato irresponsabile dalla politica ufficiale» fa il caporedatore della rivista di tendenza Inrockuptibles. A questo nuovo impegno corrispondono testi come La misère du monde (a cura di, 1993); La domination masculine (1998); Sur la télévision (1996).
Muore il 24 gennaio 2002 di un tumore ai polmoni (non l'ho mai visto fumare). Ma per chi vuole avere un contatto di prima mano con l'uomo e il pensatore Bourdieu consigliamo il documentario su di lui La sociologie est un sport de combat (2001) di Pierre Carles. (m. d'e.)
BOURDIEU: UN CLASSICO IGNORATO
NELLA PROVINCIA ITALIANA
di Gabriella Paolucci
Eterodosso e non accademico. Uno studioso ai margini nelle scienze sociali del nostro paese
Se si dovesse valutare la notorietà e l'influenza di Pierre Bourdieu dai libri che gli sono stati dedicati in Italia, o dall'attenzione che si dà al suo lavoro nei manuali di sociologia nostrani, si dovrebbe concludere che il suo posto nelle scienze sociali è alquanto marginale. Poco amato e ancor meno studiato, nel nostro paese Bourdieu è un «ospite di scarso riguardo» (secondo la definizione di Angelo Salento), che non conviene affatto portare nei salotti buoni della sociologia, pena l'esclusione dai giochi che hanno come posta il potere accademico e la stessa definizione dei confini del campo disciplinare.
Ma per fortuna il caso italiano costituisce un'eccezione, davvero più unica che rara, in un panorama mondiale di tutt'altro segno. Se nel nostro paese il processo d'importazione dell'opera bourdieusiana, pur iniziato nei lontani anni Settanta, è stato discontinuo e frammentario, e si è risolto, salvo rare eccezioni, in una sostanziale rigetto, a livello internazionale, al contrario, Bourdieu è uno degli intellettuali più conosciuti e influenti, sia dentro che fuori dai confini del campo sociologico. La notorietà internazionale di Bourdieu è attestata non solo dalla traduzione sistematica delle sue opere in moltissime lingue e in numerosi paesi, ma anche dal costante proliferare della letteratura critica consacrata al suo lavoro di ricerca e al suo pensiero. Se nei paesi anglosassoni, ma anche in Germania, nei Paesi scandinavi e in America Latina, per non parlare naturalmente della Francia, si guarda ormai a Bourdieu come a un classico, un punto di riferimento ineludibile per molti campi della ricerca sociale, in Italia dobbiamo confrontarci con uno sconcertante primato negativo, che colloca il nostro Paese tra i più refrattari all'opera di Bourdieu. Lo stesso milieu culturale che ha accolto quasi con reverenza altri esponenti delle scienze sociali d'oltralpe - si pensi anche solo ad Alain Touraine e Raymond Boudon, a Jürgen Habermas e Niklas Luhmann, ad Anthony Giddens, Erwin Goffman e, da ultimo, a Zygmunt Bauman - e che ha eletto costoro a prestigiosi indicatori del superamento del provincialismo nostrano, ha riservato a Bourdieu un'accoglienza fredda e distaccata. Cosa peraltro testimoniata non solo dalla incredibile scarsità di letteratura critica che gli è stata dedicata. E se altrove coloro che ritengono di non poter condividere la prospettiva bourdieusiana si sono quanto meno misurati con il dibattito pubblico, da noi si è preferito più che altro ostentare indifferenza e astenersi dal confronto aperto.
Naturalmente questa vicenda ci parla molto più della sociologia italiana di quanto non ci parli di Bourdieu: «Il senso e la funzione di un'opera straniera sono determinati dal campo di ricezione almeno quanto dal campo di produzione» scrive lo stesso sociologo francese in un articolo pubblicato nei «Cahiers d'histoire des littératures romanes» ( Les conditions sociales de la circulation internationale des idées, 1990). Proviamo dunque a seguire il suo suggerimento, e a ipotizzare alcune delle ragioni che possono aver influito sulla pessima ricezione italiana.
Non c'è dubbio che uno dei motivi risieda nella postura radicalmente eterodossa rispetto ai tradizionali codici della sociologica accademica. Il modus operandi di Bourdieu, autentica sfida alla tradizione sociologica, ha certamente favorito incomprensioni e rigetti. E ha certamente influito sulla scarsa considerazione riservatagli anche il ribaltamento della gerarchia degli oggetti scientifici «legittimi» consacrata dall'accademia, così come la sostanziale noncuranza per le frontiere - «false» e «artificiali» - che strutturano la divisione del lavoro interna alle scienze sociali, contro la quale Bourdieu si è sempre battuto. Un motivo d'incomprensione, quest'ultimo, per chi, cultore specialistico dei diversi segmenti in cui è parcellizzata la sociologia, ha difficoltà a cogliere la complessiva portata teorica del raffinato e rigoroso lavoro scientifico prodotto da Bourdieu.
Ma quel che ha reso Bourdieu così poco digeribile da noi, è la critica, durissima, che egli ha lanciato contro la sociologia corrente, giustamente accusata di «omettere una radicale messa in questione delle proprie operazioni e dei propri strumenti di pensiero» e di riprodurre così, sotto forma di senso comune scientifico, il «pensiero di Stato», ultima e più efficace forma di legittimazione del dominio.
Basterebbe del resto dare una scorsa alle 650 pagine del volume che raccoglie i corsi sullo Stato tenuti al Collège de France dal 1989 al 1992, uscito proprio in questi giorni per Seuil ( Sur l'État, Seuil) per avere un'idea del perché Bourdieu abbia trovato tanta resistenza a casa nostra. Quest'esposizione sistematica del pensiero bourdieusiano sullo Stato, finora inedita, mostra tutta la radicalità di un progetto scientifico che non può non venire percepito come minaccioso da parte di un campo sociologico che ha una così scarsa propensione per la critica dell'esistente e che è così incline, in questo nostro sconcertante presente, a farsi sedurre dal «pensiero di Stato». «Il nostro pensiero e le strutture stesse della coscienza attraverso la quale noi costruiamo il mondo sociale (...) hanno buone chances di essere il prodotto dello Stato», leggiamo nella pagina d'apertura del volume. «Finzione collettiva» al servizio del «monopolio dell'universale», «banca centrale del capitale simbolico» e «principio dell'ortodossia» indispensabile alla produzione e riproduzione della sottomissione dossica all'ordine delle cose, lo Stato è all'origine della credenza nella legittimità del dominio e dell'ordine sociale così com'è.
E la sociologia, scienza politica per la natura stessa del suo oggetto, è naturalmente coinvolta nelle strategie di dominio in cui è inevitabilmente inserita, a meno che non metta in atto quel «dubbio radicale» che è indispensabile per non rimanere preda dell'inconscio collettivo che, inscritto nelle teorie, nelle categorie, e negli stessi problemi che guidano la costruzione dell'oggetto di ricerca, non fa altro che riproporre la semplice trascrizione del senso comune. Che altro non è che il punto di vista dei dominanti, travestito da punto di vista universale. Per l'originalità dell'impianto teorico e la radicalità degli esiti, questa idea di sociologia, mentre contribuisce a dare un senso alla particolarità della ricezione italiana, al contempo colloca a pieno titolo l'opera di Bourdieu nell'alveo del pensiero critico del Novecento, accanto a coloro che hanno inteso praticare la scienza sociale come «critica della società», che si contrappone programmaticamente alla «sociologia ufficiale, la quale procede - invece - secondo le regole di una scienza classificatoria», secondo la nota formulazione dei francofortesi. Nella convinzione bourdieusiana che il compito della sociologia consista nell'analisi razionale del dominio, e nella polemica nei confronti di chi, «apologeta dell'esistente, mette i propri strumenti razionali di conoscenza al servizio di un dominio sempre più razionalizzato» ( Méditations pascaliennes), non possiamo mancare di scorgere uno dei motivi di fondo dell'accoglienza così poco ospitale che l'Italia
PIETRO INGRAO
Quella notte insieme
prima dell'XI Congresso
Scrivo sgomento, pensando al modo in cui Lucio ha voluto lasciare la vita. Penso a quella ferita così dolorosa, che anch'io ho subito otto anni fa, della perdita della propria compagna. Penso al senso tragico di sconfitta che ha dominato i suoi ultimi anni. Sono pensieri, non spiegazioni: un gesto come il suo rimarrà sempre insondabile, chiede rispetto e silenzio. Sarebbe però profondamente ingiusto dare addio a Lucio Magri solo con il silenzio. Bisogna dire, ricordare, trasmettere il ricordo ai più giovani e continuare ad ascoltare la sua voce e i suoi pensieri, che ancora hanno tanto da dirci.
Con lui ho condiviso un percorso lungo, appassionante, intenso: non avrebbe senso, tentare di ripercorrerlo in poche righe. Mi limiterò solo a brevi immagini.
Erano gli anni '60, Lucio era stato licenziato da Botteghe Oscure, era momentaneamente senza lavoro. Veniva a pranzo a casa nostra, quasi tutti i giorni. Mia moglie si interrogava, molto prosaicamente: forse non ha i soldi per mangiare. Era solo una battuta: in quei pranzi e in quelle ore passate insieme, si consolidava fra me e Lucio una comune visione del mondo, una tensione al cambiamento che vedeva nel partito il suo soggetto centrale, ma che delle regole del partito sentiva ormai troppo rigidi i vincoli e le liturgie.
Ricordo nitidamente la nottata passata con Lucio nella mia casa di via Balzani a preparare l'intervento che avrei pronunciato all'XI Congresso del Pci, pesando con cura ogni parola: era la prima volta che nel partito veniva rivendicato il diritto al dissenso. Terminammo di lavorare alle due di notte, ed io ero convinto che all'angolo di strada di casa mia ci fosse un compagno della cosiddetta "vigilanza" del partito, a controllare chi a quell'ora veniva da me. Non era vero, naturalmente; ma a questo ci portava, sentire addosso la condanna ossessiva del cosiddetto "frazionismo", che nel Pci demonizzava ogni sodalizio, ogni condivisione di pensiero, ogni vero dibattito interno.
Fu quella condanna a portare alla drammatica espulsione dal partito di lui e degli altri compagni del Manifesto: è per me ancora una ferita, ricordare che allora non ebbi il coraggio di oppormi. Prevalse in me un'errata concezione dell'unità del partito. Un errore che ancora mi brucia dentro, anche se poi, nei lunghi anni seguiti a quella rottura, fra me e Lucio, e con tutti i compagni del Manifesto si ricostruì nuovamente uno scambio intenso e fattivo, che prese ancora più slancio dopo la svolta dell'89 e la fine del Pci.
Oggi Lucio ci ha lasciati, in giorni bui dominati da gelide dispute sulla Borsa e i bilanci. Un altro ricordo: era il maggio del 1962, in un convegno dell'Istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo. Si discusse animatamente, la nostra critica alla relazione di Amendola fu uno dei primi segni visibili della nostra ricerca di un nuovo sguardo sul mondo. In quell'occasione, Lucio parlò del bisogno di una critica a quella che lui chiamò "la società opulenta": la pervasività del mito dell'opulenza in ogni luogo della vita, a colpire l'autonomia dei bisogni umani. In questo presente così aspro e difficile, in cui la politica sembra aver ceduto le armi di fronte ai luoghi della finanza, ho risentito l'eco di quelle parole: non più solo nei miei ricordi, ma negli slogan di chi si accampa davanti a Wall Street.
Caro Lucio, carissimo compagno di tante lotte e di tante sconfitte: nessuna sconfitta è definitiva, finché gli echi delle nostre passioni riescono a rinascere in forme nuove, perfino di fronte al tempio del capitalismo mondiale.
LUCIANA CASTELLINA
Il suo peccato più grande,
andarsene in quel modo
Non è facile per me scrivere in morte di Lucio Magri: oltre ad aver condiviso più di mezzo secolo di impegno politico, siamo stati anche compagni di vita, sia pure in un tempo ormai molto remoto. E tuttavia scrivo, cedendo alla richiesta dei compagni del giornale, perché Lucio era ormai fuori dalla vita politica pubblica da moltissimi anni, e in tanti mi domandavano cosa stesse facendo, dove stava.
In un'epoca in cui tutta la politica è immagine lui aveva perso visibilità: perché aveva rinunciato ad essere rieletto parlamentare già nel '94, ormai non scriveva più sui giornali, solo raramente raccoglieva l'invito a partecipare a qualche iniziativa. I più giovani, poi, quelli nati quando il Pci stava sciogliendosi e il Pdup aveva già posto fine alla sua storia, forse non l'avevano nemmeno mai sentito nominare, se non dai padri sessantottini.
Per questo vorrei raccontare, soprattutto a chi non l'ha conosciuto, o conosciuto male. Non era disimpegnato, Lucio, neppure ora, tutt'altro. Intanto ci sono gli anni più recenti, quelli in cui fu pubblicata la seconda serie della Rivista del manifesto, fatta assieme al vecchio gruppo che aveva fatto la prima e ad alcuni compagni che allora erano restati nel Pci, fra loro Ingrao e Tortorella. Durò cinque anni, dal 1999 al 2003, e poi, per tante ragioni, cessò. Peccato, perché vi invito a rileggerla, è piena di scritti, di Lucio e di altri compagni, molto interessanti. Fino a qualche tempo fa era leggibile nell'archivio del sito del manifesto, credo ci sia ancora.
Da allora Lucio si è impegnato a scrivere il libro che è uscito due anni fa, ora in edizione economica, già tradotto in Inghilterra da Verso, in Spagna, in Argentina, attualmente in traduzione in Brasile. Un grosso lavoro, non una autobiografia, una ricerca documentata sul comunismo italiano visto nel contesto internazionale, una riflessione attenta, forse la sola che c'è stata, sul più grande partito comunista d'occidente, sulle ragioni del suo successo e su quelle che lo hanno portato a scomparire. Non manca - e questo di continuare ad interrogarsi sul proprio stesso operato era un pregio di Lucio - anche una riflessione critica su alcune semplificazioni nostre, del gruppo del Manifesto, anche se di questa esperienza non si parla direttamente. Il libro si chiama Il sarto di Ulm, titolo di una parabola di Bertold Brecht: il sarto diceva che l'uomo avrebbe volato, il vescovo principe non ci credeva, alla fine, stufo delle insistenze, gli dice «provaci, vai sul campanile e buttati». Il sarto si butta e si sfracella. Ma chi aveva ragione? Perchè è vero che allora il sarto non era riuscito a volare, ma poi l'uomo ha volato. La parabola vale per il comunismo: per ora non ce l'ha fatta, ma domani forse ce la farà.
Non è pessimista né disfattista il libro di Lucio sul comunismo italiano. C'è anzi la testarda dimostrazione che sebbene fosse necessario un rinnovamento profondo del Pci, c'erano motivi validissimi per andare avanti e, in appendice, il documento che aveva scritto nel 1988 come piattaforma per il XVIII congresso che, anche a leggerlo adesso, dopo più di vent'anni, appare documento strategico attualissimo.
Perché Lucio aveva una grande capacità anticipatrice: con Famiano Crucianelli e Aldo Garzia, negli ultimi tempi, aveva cominciato a raccogliere tanti scritti e documenti della nostra storia, quella di prima del '68, l'epoca della cosidetta corrente ingraiana, poi del Manifesto e del Pdup, moltissimi redatti da lui stesso. Sono di grande interesse perché molte tematiche che sembrano scoperte da poco sono già esplicitate: dalla questione ecologica, alla crisi della democrazia, al declino della supremazia americana e le sue conseguenze. Le "nuove contraddizioni della nostra epoca" non sono invocate come è rituale, ma finalmente analizzate e spunto per una nuova strategia. Credo che dovremmo raccoglierli e farli circolare questi scritti, magari cogliendo così l'occasione di ricordarlo che ora ci manca perché ci ha lasciato detto che non voleva cerimonie funerarie.
Andando in giro per l'Italia trovo tanti, davvero tante compagne e compagni, che mi dicono che la stagione politica vissuta assieme è stata decisiva nella loro formazione. Anche la storia del Pdup, nato come proseguimento di quello che si era chiamato "Movimento Organizzato del Manifesto" quando ci unificammo con il gruppo ex psiuppino di Vittorio Foa, penso dovrebbe esser rivisitata e fatta conoscere.
Questo partito l' avevamo sempre pensato transitorio, perché ci premeva ricomporre le fila del comunismo italiano e non cristallizzare un partitino, una scelta difficile e che molti gruppi della nuova sinistra non capirono e ne fecero anzi motivo di irrisione. Nell'84 avviammo la discussione per decidere se rientrare o meno nel Pci: si era in pieno regime craxiano e un nuovo anticomunismo conquistava terreno, restare divisi non aveva senso, anche perché c'era stata quella che fu chiamata la "seconda svolta di Salerno", quando Berlinguer aveva posto fine all'unità nazionale, denunciato la deriva della politica, e rotto definitivamente con l'Unione sovietica. Fu proprio Berlinguer che, senza preavviso, venne ad ascoltare la relazione di Lucio al nostro congresso del 1984, e poi ci chiese di rientrare, visto che i dissensi che ci avevano diviso erano ormai largamente superati. Forse avvertiva che c'era bisogno, nel Pci, dell'energia dei nostri quadri, per combatterne le derive normalizzatrici . Ma pochi mesi dopo morì e ci ritrovammo in un Pci che era oramai altra cosa, peggiore di quello che ci aveva cacciati. E così fu Lucio a trovarsi in realtà alla testa della contestazione - non conservatrice ma rinnovatrice - allo scioglimento del partito. Il rapporto che tenne ad Arco, dove si tenne l'ultima assemblea della mozione del no alla svolta per il XXI congresso del Pci, quello del gennaio '91, è - anche questo - un lucido e moderno programma per la sinistra. Anch'esso andrebbe riletto.
Lucio non aveva un carattere facile. Il suo più grande amico, Michelangelo Notarianni, diceva di lui che aveva grandissime qualità, ma gli mancavano i sentimenti intermedi. Era assolutamente vero: intellettualmente generosissimo - una quantità di testi non firmati sono in realtà suoi, ma non gliene importava niente che gli venissero attribuiti, gli interessava che quelle idee circolassero - sembrava sgarbato a arrogante; pronto a riflettere sui suoi errori, non perdonava quelli degli altri, perché era oltremodo, fastidiosamente integralista.
Ma il suo peccato maggiore è stato di andarsene così come se ne è andato. Riteneva di non poter più dare niente per una rinascita della sinistra di cui diceva «ci sarà, ma ci vorranno decenni e io comunque non sono più in grado di dare alcun contributo». Sbagliava, naturalmente, perché avrebbe potuto ancora aiutarci. Ma la depressione che lo aveva colto dopo aver seguito giorno per giorno, per tre anni, la terribile agonia di Mara, la compagna con cui ha trascorso gli ultimi 25 anni e che amava moltissimo, l'ha spezzato. Non aveva più motivi che lo trattenessero e noi amici e compagni non siamo riusciti a dargliene di sufficienti.
Parlato: ho cercato di fermarlo ma non ci sono riuscito
intervista di Simonetta Fiori
«Che volete sapere da me? Posso dire che è un gesto che attiene alla sua personalità, mescolanza di razionalità pura e di passione. E poi l´anagrafe non è cosa da sottovalutare. Avere ottant´anni, che si fa più? Solo un avvenire di malattie, questo Lucio me lo ripeteva spesso». Valentino Parlato passa veloce nei corridoi del Manifesto, le spalle leggermente incurvate, il sorriso accennato, lo sguardo affettuoso. I redattori lo salutano con serena sobrietà, l´abbracciano ma senza lutto, coi padri si fa così, li si rassicura per esserne rassicurati. Arriva una telefonata della Rossanda, che racconta il suo ultimo viaggio con Lucio. È stata lei, la sorella maggiore, l´amica forte e generosa, ad accompagnarlo in Svizzera. L´ex direttore Barenghi tenta di alleggerire l´atmosfera con ricordi di zuffe lontane. Parlato asseconda, è gentile, ma come distante: «Mi mancano i miei amici. Mi manca Luigi. E mi manca Aldo Natoli. Con loro mi sarebbe piaciuto parlare di Lucio, del suo gesto».
Lei, Parlato, come lo decifra?
«È il prodotto di una razionalità estrema, ma non possiamo trascurare la cifra sentimentale, la scomparsa della moglie. Per un uomo avventuroso come lui, Mara rappresentava l´ordine, l´ancoraggio forte. Lucio ha cominciato a morire insieme a lei».
Ve ne parlava?
«Sì, raccontava che avrebbe voluto morire con Mara, ma che lei gliel´aveva impedito. No, devi finire il libro, devi scrivere il saggio sul comunismo, ci tieni tanto. E io - diceva - le ho tenuto fede, ho concluso il libro. E ora sono arrivato al termine».
Un singolare impasto di raziocinio e romanticismo.
«Ma Lucio era questo, anche nella sua vita politica. Passione e ragione. Se penso a tutte le volte che abbiamo litigato...».
L´ultima volta?
«No, recentemente ci azzuffavamo non sulla politica ma su questa sua decisione di farla finita, però niente da fare. Lucio è sempre stato così, quando si mette in testa una cosa... Litigi accesissimi ci furono quando il Pdup nel 1973 annunciò di voler fare del Manifesto un organo di partito. Figurarsi Luigi, Rossana ed io, che i partiti li detestavamo, poi anche il Pdup non è che ci piacesse tanto».
Ma è vero che non "vi pigliavate", caratteri diversi?
«Lui raziocinante e incline alla teoria, io "arrangista" e fatalista: due modi diversi di stare al mondo...».
E tra Magri e Pintor erano scintille?
«Un rapporto conflittuale e insieme solidale. Avevano due personalità mica da ridere, con due opposte concezioni del giornale e della politica. Maggiori affinità legavano Lucio e Rossana, attenti alle ragioni della ricerca teorica e appassionati entrambi di filosofia tedesca. A Luigi della filosofia non gliene fregava niente».
Il fratello Giaime era un grande germanista.
«Sì, Luigi amava molto Rilke. Ecco proprio su questo classico di recente ho litigato con Lucio. Recensendo il libro di Luciana Castellina, scrissi che senza Rilke il Manifesto non ci sarebbe stato. Lucio la prese malissimo, "ma che cazzo c´entra Rilke con la lotta di classe?"...».
Vi vedevate spesso?
«Sì, abitiamo vicini, lui in piazza del Grillo e io in via del Boschetto. Ci capitava di giocare a scopone. Se non vinceva, si seccava».
Manie di protagonismo?
«Era un po´ egocentrico, narciso sì, d´una vanità singolare. Era convinto di essere bello».
Lo era.
«Sì, ma anche di essere agile. Quando salivamo le scale, faceva quattro scalini per volta. Anche negli ultimi tempi».
E i suoi amori un po´ spettacolari, il legame con Marta Marzotto?
«Cazzate di Lucio».
Era un perfezionista?
«In tutte le cose che faceva, era costituzionalmente spinto ad eccellere. Anche quando scriveva un articolo. Io riesco a farli così così, lui no, poteva starci giorni. Era molto meticoloso».
Lo è stato anche in morte: tutto deciso nel dettaglio.
«Sì, le pompe funebri già allertate, la lettera ai compagni».
Una morte estetica?
«No, una morte pulita. Voglio morire senza sfasciarmi sul selciato o in qualche altro modo atroce. Avrebbe voluto che passasse sotto silenzio. Cosa impossibile».
Un gesto che secondo lei ha un valore politico?
«Solo nel senso di dire "no". Un "no" alla politica italiana dell´ultimo ventennio, sinistra inclusa. "La sinistra italiana che conosciamo è morta", scrisse Luigi poco prima di morire. Così la pensava anche Lucio».
Ma lui voleva dare al suo suicidio un carattere di denuncia?
«No, è stato un gesto personale. Però non gli saranno sfuggite le conseguenze pubbliche. Voglio anche aggiungere che questo suicidio fa crescere il peso della sua personalità, la sua capacità di governare la vita fino in fondo».
Lei difende il diritto al suicidio?
«Sì, se uno è padrone della vita è anche padrone della sua fine. Nella Costituzione non c´è scritto che tutti i cittadini hanno il dovere di campare finché morte naturale non li fulmini».
Per uno che ha fatto politica per tutta la vita non è una fuga?
«No. È un giudizio definitivo sulla propria condizione, e sullo stato più generale delle cose, come se dicesse: per me, a 80 anni, non c´è più niente da fare».
Eretico in vita. Ed eretico in morte.
«La verità è che questo suicidio mi turba profondamente. Ho come l´impressione di non aver fatto abbastanza. Non mi sono arrabbiato abbastanza. L´ho subìto, insomma, e non me lo perdono».
L´ultima eresia di Lucio Magri è polemica sul suicidio assistito
di Maria Novella De Luca
Alla fine ciò che prevale sono il silenzio e il rispetto. Il ricordo dell´uomo, per molti dell´amico. Le polemiche ci sono, scoppiano ma non divampano. Per fortuna. Quella scelta così lucida e determinata, quella così chiara ammissione di dolore, fermano il mondo politico sulla soglia del pudore davanti alla morte di Lucio Magri. Che si è ucciso, pochi giorni fa, in Svizzera, con l´aiuto di un medico amico. Suicidio assistito. In Italia è vietato, di là, oltre il confine, è permesso. Si affollano piuttosto le immagini di chi Magri l´aveva visto ancora di recente, a Montecitorio per esempio, come Walter Veltroni, che «con tristezza e commozione» lo ricorda «come una delle menti più brillanti e originali della politica italiana». Racconta Veltroni: «Lucio ha voluto lasciare nel suo ultimo libro il suo testamento intellettuale, per poi ritirarsi per sempre dal dolore per la tragica scomparsa della moglie Mara». Anche da un cattolico praticante come Pierferdinando Casini, arrivano parole di rispetto: «Sono molto rattristato per la scomparsa di Lucio Magri, che ho conosciuto come appassionato intellettuale», scrive il leader dell´Udc in un breve messaggio affidato a Twitter, mentre il suo collega di partito Rocco Buttiglione prega perché «Lucio Magri venga accolto nella braccia del signore». Ma monsignor Sgreccia, voce della Chiesa, rammenta: «Non siamo padroni della nostra vita».
Prevale la commozione, ma anche l´amarezza, tra chi da anni si batte perché anche in Italia sia concessa la libertà di scelta sul "fine vita". «Spero che la vicenda umanissima di Lucio Magri, che ha deciso di non soffrire più, e ha posto fine al suo dolore, sia insegnamento» ammonisce Maria Antonietta Coscioni, deputata radicale. «Magri riteneva intollerabile vivere, preda di una depressione che lo faceva scivolare inesorabilmente in un "buio" provocato da ragioni pubbliche e private che sono insondabili e non vanno giudicate. Per porre fine al suo dolore, ha però dovuto "emigrare", un viaggio con un biglietto di sola andata...». Ma Ignazio Marino invita a non riaccendere il tifo da stadio da "pro-vita e pro-morte". «A Lucio Magri è dovuto un rispettoso silenzio, ci sono luoghi della nostra coscienza intorno ai quali nessuno deve permettersi di esprimere giudizi. Ma adesso non dividiamoci: il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla fragilità umana».
Dolore più che fragilità, un dolore insopportabile, una depressione cupa che assediava Lucio Magri da anni, da quando sua moglie Mara era morta, portata via da un tumore. Afferma Gaetano Quagliariello, vicepresidente dei senatori del Pdl: «Non entro nelle scelte personali, ma non è possibile pretendere che le compia lo Stato». Mina Welby risponde indirettamente, ricordando che se «Lucio Magri, ha scelto di morire, vuol dire che considerava la sua depressione senza via d´uscita e la scelta dell´individuo è l´unica cosa che conta». E rispetto esprime anche Beppino Englaro, ricordando come nel caso di Eluana, ciò che vale «è solo e sempre il primato della coscienza personale». Pacato ma netto il commento di Eugenia Roccella, ex sottosegretario al Welfare e in prima linea nelle battaglie pro-life: «La morte di Magri è un atto amaro e non va associata ad una scelta di libertà. Si tratta comunque di un suicidio, un gesto senza speranza».
"Ho deciso di morire" L´addio di Lucio Magri ai compagni di una vita
di Simonetta Fiori
Ha deciso tutto con lucidità. La fine in Svizzera, poi la sepoltura vicino alla sua Mara. Gli amici hanno tentato di dissuaderlo, ma lui era depresso per la morte della moglie
S´era raccomandato con i suoi amici più cari, quelli d´una vita, i compagni del Manifesto. Non voglio funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne. Luciana si occuperà della gestione editoriale dei miei scritti. Per gli amici e compagni lascio una lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto finito. Sì, ora è finito. La notizia può essere resa pubblica. Lucio Magri, fondatore del Manifesto, protagonista della sinistra eretica, è morto in Svizzera all´età di 79 anni. Morto per sua volontà, perché vivere gli era diventato intollerabile.
A casa di Lucio Magri, in attesa della telefonata decisiva. È tutto in ordine, in piazza del Grillo, nel cuore della Roma papalina e misteriosa, a due passi dalla magione dove morì Guttuso, pittore amatissimo ma anche avversario sentimentale. Niente sembra fuori posto, il parquet chiaro, i divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la collezione del Manifesto vicina a quella dei fascicoli di cucina, si sa che Lucio è un cuoco raffinato. Intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un quarto di secolo. No, Valentino non c´è, Valentino Parlato lo stiamo cercando, ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che Lucio non c´è più.
Da questa casa Magri s´è mosso venerdì sera diretto in Svizzera, dal suo amico medico. Non è la prima volta, l´aveva già fatto una volta, forse due. Però era sempre tornato, non convinto fino in fondo. Ora però è diverso. Domenica mattina rassicura gli amici: «Ma no, non preoccupatevi, torno domani». La sera il tono cambia, si fa più affannato, indecifrabile, chissà. Il lunedì mattina appare sereno, lucido, determinato. Ha scelto, e dunque il più è fatto. Bisogna solo decidere, e poi basta chiudere gli occhi. L´ultima telefonata nel pomeriggio, verso le sedici. Poi il silenzio.
Una depressione vera, incurabile. Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul fallimento politico - conclamato, evidentissimo - s´era innestato il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il mondo. «Lucio non sapeva usare il bancomat né il cellulare», racconta una giovane amica. Mara che oggi sorride dalle tante fotografie sugli scaffali, vestita color ciclamino nel giorno delle nozze. Un vuoto che Magri riempie in questi anni con le ricerche per il suo ultimo libro, una possibile storia del Pci che certo non a caso titola Il sarto di Ulm, il sarto di Brecht che si sfracella a terra perché non sa volare. Ucciso da un´ambizione troppo grande, così almeno appare ai suoi contemporanei.
Anche Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e il mondo degli ultimi anni gli appariva un´insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato.
Aspettando l´ultima telefonata, a casa Magri. Lalla, la cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo, vi fermate vero a colazione? E´ affettuosa, Lalla, ha ricevuto tutte le ultime disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il pranzo, ci sono ancora quelli vecchi che lui le ha lasciato. È stata lei ad assistere Mara nei tre anni di agonia per il brutto tumore, e poi ha visto spegnersi lui, sempre più malinconico, quasi blindato in casa. Ogni tanto qualche amico, compagno della prima ora. Ma dai, reagisci, che fai, ti lasci andare proprio ora? Ora che esce l´edizione inglese del tuo libro? E poi quella argentina, e quella spagnola? Dai, ripensaci, c´è ancora da fare. Ma lui non era convinto. Non poteva fare più nulla. Lucido e razionale, fino alla fine. E poi s´era spenta la sua stella, così scrive anche nell´ultima lettera ai compagni.
Sembra tutto surreale, qui in piazza del Grillo, tra squilli di telefono e porte che si aprono. Arriva Valentino, invecchiato improvvisamente di dieci anni. Lo accolgono con calore. No, non sappiamo ancora niente. Aspettiamo. Ricordi privati e ricordi pubblici, lui grande giocatore di scacchi, lui grande sciatore, lui politico generoso che preparava i documenti e nascondeva la sua firma. Ma attenzione a come ne scrivete, non era un vanesio, non era un mondano. Dalle fotografie sui ripiani occhieggia lui, bellissimo e ancora giovane, un´espressione tra il malinconico e il maledetto. Dietro la foto più seducente, una dedica asciutta. «A Emma, il suo nonno». Neppure Emma, la bambina di sua figlia Jessica, è riuscito a fermarlo.
Poi la telefonata, quella che nessuno avrebbe voluto mai ricevere. Ora davvero è finita. Le pompe funebri andranno a prelevarlo in Svizzera, tutto era stato deciso nel dettaglio. L´ultimo viaggio, questo sì davvero l´ultimo, è verso Recanati, dove sarà seppellito vicino alla sua Mara, nella tomba che lui con cura aveva predisposto dopo la morte della moglie. Luciana Castellina s´appoggia allo stipite della porta, tramortita: «Non avrei mai immaginato che finisse così». Il tempo dell´attesa è concluso, comincia quello del dolore.
Pci una storia a sinistra fuori dagli schemi
di Nello Ajello
Un pilastro portante del "Manifesto", rivista e partito. L´interprete d´una maniera di concepire la sinistra italiana diversa da ogni schema. Questo è stato in sintesi Lucio Magri. Ma è una sintesi che non esaurisce la singolarità del personaggio. Perché lui aveva, rispetto ai compagni della sua stagione dorata - dalla Rossanda a Pintor, da Natoli a Caprara, da Luciana Castellina a Valentino Parlato - un´origine più avventurosa. E, soprattutto, una preistoria precoce.
Precoce, Magri lo era stato in maniera spettacolare. Nato a Ferrara nel 1932 (e poi cresciuto a Bergamo), nei primi anni Cinquanta già figurava fra i redattori della rivista mensile "Per l´azione", un organo dei giovani della Dc cui si consentivano attacchi quasi temerari alle «brutture del capitalismo». Del Magri di allora ci rimane un ritratto che ne fece anni fa Giuseppe Chiarante, suo amico d´una vita: «Era ammirato dalle compagne di scuola», così egli ricorda, «per la sua presenza atletica e perché considerato molto bello». Quello della prestanza fisica resterà per lui una costante. Che poi fosse interessato «alla politica» veniva dato per scontato. Quando, nel 1955, esce un altro periodico democristiano di sinistra, "Il Ribelle e il Conformista", è lui, Magri, a condividerne di fatto la direzione con Carlo Leidi. Fu lì che appare a firma di Cesare Colombi (è uno pseudonimo di Magri) un articolo dal titolo "Bilancio del centrismo", nel quale di delinea un´ipotesi di apertura a sinistra - «senza contemplare una contrapposizione» fra il Psi e quel Pci, che in casa democristiana è il nemico. Sta intanto per uscire un´ennesima rivista, "Il Dibattito politico", che, legata all´orbita ideologica di Franco Rodano, è diretta da Mario Melloni, con condirettore Ugo Bartesaghi: per misurarne le qualità ereticali basti ricordare che i due saranno espulsi dalle file dello Scudo crociato per aver votato contro l´ingresso dell´Italia nell´Unione europea occidentale.
Il gruppo redazionale nel quale Magri esercita con passione il suo ruolo riunirà poi, accanto al solito Chiarante, intellettuali del rango di Ugo Baduel, Giorgio Bachelet, Edoardo Salzano (per citarne qualcuno). Programma dichiarato è «la ricerca delle necessità che sollecitano il mondo cattolico e quello comunista al dialogo». Potrà un simile progetto attuarsi dentro la DC?. Magri e gli altri sono i primi a dubitarne. La diaspora verso «la sinistra storica» è nei fatti.
La "vita democristiana" di Lucio Magri è stata breve e intensa: più lunghi saranno il tragitto verso il Pci e poi la permanenza in quel partito. Nell´estate del ´58, Giorgio Amendola, responsabile dell´organizzazione, lo riceve nel suo studio a Botteghe Oscure. Con Magri c´è il quasi gemello Chiarante. «Parlammo un po´ di tutto», racconterà quest´ultimo. L´impressione dei due, che avevano sporto regolare domanda, fu che l´illustre ospite li ritenesse «forse non a torto, degli intellettuali un po´ astratti». Gli raccomandò, comunque, «di avere delle esperienze di base». Così avvenne. Magri se ne tornò a Bergamo, diventando prima segretario cittadino, e, due anni dopo, vicesegretario regionale. Poco più tardi, a Roma, prese a lavorare nell´ufficio studi economici. La sua fama tardava a diffondersi. Non bastava a consolidarla il fatto di essere vicino, come idee, a Pietro Ingrao: gli ingraiani erano tanti.
Lo aiutò alquanto l´amicizia della Rossana Rossanda, e fu Luciana Castellina a procurargli un visto d´ingresso in Polonia dove si svolgeva un´assise di giovani comunisti. In casa di Alfredo Reichlin conobbe Enrico Berlinguer, senza ricavarne alcun pronostico sulla sua successiva, luminosa carriera.
Nel Pci si discuteva tanto. Fra i temi, il trauma causato dal XX Congresso, l´avvento di Krusciov. Non fu occasionale l´accoglienza che a Magri riservò il settimanale "Il Contemporaneo", diretto da Salinari e Trombadori, pubblicandogli vari pezzi polemici. Nel novero delle "bestie nere" di Magri era entrato, accanto al capitalismo che aveva acuito le sue riserve nella fase dc, il riformismo come una forma di inerte ipocrisia a sinistra.
Col tempo, nella galassia degli ingraiani più fattivi, il nome di Magri divenne di casa. Ma non fu certo suo esclusivo merito l´evento cruciale che stiamo per raccontare. Porta la data del 23 giugno 1969 l´arrivo in edicola, a Roma, della rivista "Il Manifesto", che subito apparve un caso esemplare di eresia politica. Stampata a Bari dalla casa editrice Dedalo e diretta da Magri e Rossanda, il periodico è promosso anche da Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara, Luciana Castellina, Valentino Parlato. Sulle prime, Magri vorrebbe chiamarlo "Il Principe", ma poi rinunzia. In un suo volume, "Ritratti in rosso", Massimo Caprara descriverà i responsabili dell´avventura: «Rossanda lucidamente egemone, Pintor imprevedibile, Natoli rigoroso». A Magri assegna un superlativo: «ferratissimo».
Ma che cosa c´è scritto nella rivista-scandalo, il cui primo numero ha venduto 50 mila copie? Si riserva un devoto rilievo alla «rivoluzione culturale» cinese. Si biasimano certi anticipi di «compromesso» fra Pci e Dc. Sotto il titolo "Praga è sola", si tesse un elogio della "primavera" di quella capitale, che Mosca ha represso.
A Magri e Rossanda venne rivolto un vano invito a ritrattare. Rimbalzarono da "Rinascita" all´Unità" i preannunzi d´un "redde rationem" rivolto ai reprobi. La liturgia della repressione è macchinosa. Una Comissione, detta "la Quinta", presieduta da Alessandro Natta, delibera la soppressione della rivista, ma la decisione viene delegata al Comitato centrale, dove Rossanda difende con dignità le posizioni del Manifesto. Alla fine, lo stesso Comitato centrale delibererà - è ormai il novembre ´69 - la «radiazione» dal Pci della stessa Rossanda, di Pintor e Natoli. Pene equivalenti vengono comminate a Caprara, Castellina e Parlato. Un analogo «provvedimento amministrativo» (vaghezza del lessico repressivo!) è applicato ai danni del "ferratissimo" Magri.
Fine anni Cinquanta: fuori dalla Dc. Fine anni Sessanta: fuori dal Pci. Ma di Lucio Magri si continuerà a parlare. Almeno un po´. Nel settembre del 1977, sul Manifesto, egli attacca Berlinguer per la sua decisione di reprimere chiunque si collochi alla sinistra del Pci, e questa sua protesta trova l´appoggio di Norberto Bobbio (è Giuseppe Fiori a ricordare l´episodio nella sua biografia del leader sardo). Alla sinistra del Pci, egli di fatto era collocato, avendo assunto la segreteria del Pdup, partito di unità proletaria, con il quale il gruppo del Manifesto s´era fuso. Nel 1984 lo si ritrova daccapo nel Pci, quando il Pdup vi confluisce. Sempre in Parlamento, a volte in questo o quel vertice di partito. Fino alla finale dissoluzione del Pci, Rimini, febbraio 1991. La scena mostra la patetica assise nella quale per pochi voti Achille Occhetto non viene eletto segretario del partito che subentrerà al Pci (vi sarà reintegrato poco più tardi). Chi era presente in quell´occasione conserva un´immagine di Lucio Magri. Lo ricorda in piedi, mentre, apprendendo l´esito delle votazioni, agita il pugno chiuso e scandisce un antico slogan: «Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-tung!».
INVIATO A PIEVE DI SOLIGO - Qui nell’alta marca trevigiana ci sono piccole zone incontaminate che resistono. Posti dimenticati come Refrontolo che hanno una felicità in sé e conservano un loro incanto. Ma ormai non si può più nemmeno pensarlo, il vecchio Veneto. «In giro c’è una ferocia tale che si esprime in un impulso alla velocità, alla fretta…» dice il poeta Andrea Zanzotto. Oggi compie 90 anni e per l’occasione verrà presentato un libro celebrativo intitolato Nessun consuntivo con un saggio di Carlo Ossola, contenente una lettera del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Da Pieve di Soligo, da quel mondo collinare che ha fatto da fondale ai quadri eterni di Giorgione, Tiziano e Tintoretto, poi devastato dall’industrializzazione selvaggia e dai capannoni del mitico Nord Est, il più cosmopolita dei nostri poeti continua a guardare alle cose del mondo e a tutti noi. Non senza rovelli e nuovi spettri. Zanzotto, a casa sua, è seduto al centro di un piccolo divano, coperto da un berretto rosso e un plaid marrone. Il suo viso è scavato dall’età e dagli acciacchi, ma gli occhi si muovono vispi. La testa mobile e curiosa, da indignato cronico.
È vero che segue da vicino la crisi finanziaria mondiale?
«Questa modernità cannibale mi ossessiona. La stoltezza che circola si palpa come un vento».
«In questo progresso scorsoio, non so se vengo ingoiato o se ingoio…», scrisse qualche tempo fa. Aveva forse previsto tutto?
«La mia cultura è soprattutto letteraria. Per questo mi trovo a inseguire delle realtà con il dubbio di non raggiungere nessuna e benché minima formulazione di un quadro attendibile. C’è qualcosa di azzardato e di friabile in questo nostro presente che sento di non poter controllare».
Se per questo anche gli economisti non hanno previsto nulla. Zanzotto lei è in buona compagnia…
«Questo è vero. In alcuni momenti credo di poter formulare qualcosa di abbastanza stabile. Forse è soltanto il potere della poesia a far sì che riesca a mantenere un contatto con il mondo nonostante il senso di disappartenenza in cui mi trovo costretto a vivere, anzi a sopravvivere. Ma poi mi accorgo che anche questa è un’illusione. Tutto è pressappoco e ci si trova con il fumo nelle mani…».
Lei parla di illusioni. Però le sue battaglie contro la cementificazione selvaggia che si sta mangiando mezza pianura del Piave, sono fatti molto concreti. Qui a Pieve di Soligo si ricordano tutti quella, vinta, a difesa del prato di via delle Mura. Doveva nascere un mega palazzetto, lei è riuscito a fermare le ruspe…
«La mia non è una battaglia antimoderna ma un fatto di identità e civiltà. La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto ricco di arte e di memorie è arrivata ad alterare la consistenza stessa della terra che ci sta sotto i piedi. I boschi, i cieli, la campagna sono stati la mia ispirazione poetica fin dall’infanzia. Ne ho sempre ricevuto una forza di bellezza e tranquillità. Ecco perché la distruzione del paesaggio è per me un lutto terribile. Bisogna indignarsi e fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta come un’area da edificare».
Un’altra battaglia che combatte da anni è quella contro l’imbroglio della cultura leghista…
«Mi ha fatto molto piacere sentire il Capo dello stato riaffermare l’unità d’Italia e liquidare certi giochi di parole che negli anni avevano creato un imbroglio. La Padania non esiste, il popolo padano neppure. Questa è una storia più che ventennale di equivoci e spettri. La riaffermazione di Napolitano potrà darci il senso di una tregua. E sono convinto che piano piano questo fantasma sparirà».
Eppure nei comuni qui attorno, in questi luoghi del quartiere del Piave sacro alla patria – Moriago e Nervesa della Battaglia, il Montello degli ossari dove correva la linea del fronte della Grande Guerra, l’isola dei morti dove il 26 ottobre 1918 gli arditi sfondarono le linee austriache - la Lega e la sua retorica anti italiana fanno il pieno di voti da anni, com’è possibile?
«Perché esiste una contraddizione molto forte tra la tradizione dell’Italia una e indivisibile e un paese reale diviso dal punto di vista economico. Questo dualismo lasciato marcire per anni ha confuso i piani producendo l’imbroglio di due paesi altri tra loro. Arrivando all’equivoco padanico».
Invece riaffermare nel corso del suo 150esimo anniversario l’unità d’Italia è stato come un urlo liberatorio. Come se Napolitano avesse gridato: “il re è nudo”, sgonfiando d'incanto la retorica secessionista.
«Il viaggio in Italia di Napolitano in occasione del 150˚ anniversario dell’unità ha come riscoperto un patriottismo sopito. In precedenza si era sottostimato quel che era il bisogno di proclamazione unitaria».
In effetti anche l’ex sindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini, al dunque si rimette in testa il cappello da alpino e sventola il tricolore. Il sindaco di Verona Flavio Tosi pure. Continua però l’abuso del dialetto, strumentalizzato a fini politici dai dirigenti leghisti…
«La riaffermazione di Napolitano spero dipani anche questo grande equivoco identitario. Come ci ricorda Gian Luigi Beccaria nel suo splendido libretto Mia lingua italiana , per prima è venuta la lingua. Non è stata una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il desiderio e il progetto di una nazione italiana. A partire da Dante, Petrarca e Boccaccio. Naturalmente ci sono mancanze e ritardi in un processo forse non del tutto riuscito che ha portato all’Italia unita».
In che senso?
«Storicamente le lingue erano frazionate, c’era una radicalità di dialetti, questo è vero. I mille sbarcati in Sicilia non si capivano, Cavour e la classe colta piemontese parlavano francese. Pittoreschi contrasti che però convergevano verso l’unità del paese, perché la lingua e la nostra tradizione letteraria ci hanno insegnato cosa significasse essere italiani e non soltanto fiorentini, lombardi, veneti, piemontesi o siciliani...».
Una lezione che i novant’anni di Andrea Zanzotto, veneto di Pieve di Soligo, la vandea leghista, ricordano a tutti a futura memoria.
(...) Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l'Occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.
Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l'indigenza, né deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo - ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio - quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.
Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo così ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un'opera di trasformazione sociale.
Proprio perché pensiamo questo, occorre riconoscere, a me sembra, che finora la politica di austerità non è stata presentata al paese, e ancor meno attuata, dentro tale spirito non di rassegnazione, ma di consapevolezza e di fiducia. E se possiamo ammettere - dobbiamo ammettere, anzi - che vi sono state e vi sono a questo proposito manchevolezze e oscillazioni del movimento operaio e anche del nostro partito, tuttavia le deficienze principali sono da imputare alle forze che dirigono il governo del paese. (...)
L'austerità è un imperativo a cui oggi non si può sfuggire. Certe obiezioni di qualche accademico ignorano dati elementari del mondo di oggi e dell'Italia di oggi. In sintesi, questi dati sono: innanzi tutto, il moto e l'avanzata dei popoli e paesi del Terzo mondo, che rifiutano e via via eliminano quelle condizioni di sudditanza e d'inferiorità, cui sono stati costretti, che sono state una delle basi fondamentali della prosperità dei paesi capitalistici sviluppati; in secondo luogo l'acuita concorrenza, la lotta senza esclusione di colpi fra questi stessi paesi capitalistici, della quale fanno sempre più le spese i paesi meno forti e sviluppati, fra i quali l'Italia; infine, la manifesta e ogni giorno più evidente insostenibilità economica e insopportabilità sociale, in questo mutato quadro mondiale, delle distorsioni che hanno caratterizzato lo sviluppo della società italiana negli ultimi venti-venticinque anni.
Da tempo noi comunisti cerchiamo di richiamare l'importanza e di far prendere coscienza di questi dati oggettivi della situazione del mondo e dell'Italia. Tuttavia, ancora oggi molti non si sono resi conto che adesso l'Italia si trova oramai - ma io credo, prima o poi, anche altri paesi economicamente più forti del nostro si troveranno - davanti a un dilemma drammatico: o ci si lascia vivere portati dal corso delle cose così come stanno andando, ma in tal modo si scenderà di gradino in gradino la scala della decadenza, dell'imbarbarimento della vita e quindi anche, prima o poi, di una involuzione politica reazionaria; oppure si guarda in faccia la realtà (e la si guarda a tempo) per non rassegnarsi a essa, e si cerca di trasformare una traversia così densa di pericoli e di minacce in una occasione di cambiamento, in un 'iniziativa che possa dar luogo anche a un balzo di civiltà, che sia dunque non una sconfitta ma una vittoria dell'uomo sulla storia e sulla natura.
Ecco perché diciamo che l'austerità è, si, una necessità, ma può essere anche un'occasione per rinnovare, per trasformare l'Italia: un'occasione, certo, come ha detto qui un compagno operaio, tutta da conquistare, ma quindi da non lasciarci sfuggire.
L'austerità per definizione comporta restrizioni di certe disponibilità a cui ci si è abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, conduca a un peggioramento della qualità e della umanità della vita. Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana. (...)
La politica di austerità quale è da noi intesa può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l'istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. "Lor signori", come direbbe il nostro Fortebraccio, vogliono invece l'assurdo perché in sostanza pretendono di mantenere il consumismo, che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano negli ultimi venti-venticinque anni, e, insieme, di abbassare i salari.
Fonte:
http://www.pdcipadova.it/RICORDO%20DI%20BERLINGUER.htm.html
Il medico islamico al-Asuli, vissuto a Bokhara nove secoli fa, aveva diviso la sua farmacologia in due parti: "Malattie dei ricchi" e "Malattie dei poveri". Lo ha dissepolto dall'oblio il premio Nobel pakistano Abdus Salam (1926-1997) in un articolo pubblicato nell'aprile 1963, all'alba dell'attenzione per l'ecologia, per ricordare che anche oggi i paesi ricchi e i paesi poveri sono entrambi affetti da malattie fisiologiche ed economiche che, passando da una parte all'altra, rendono malato il grande, unico corpo della comunità umana. Il tema è stato ripreso dal Papa nel discorso di domenica scorsa 3 luglio 2011, quando ha detto che "moltitudini sfinite si trovano nei paesi più poveri, provate dall'indigenza; e anche nei paesi più ricchi sono tanti gli uomini e le donne insoddisfatti, addirittura malati di depressione. Pensiamo poi ai numerosi sfollati e rifugiati, a quanti emigrano mettendo a rischio la propria vita.". Il "ristoro" annunciato dal Vangelo, "il vero rimedio alle ferite dell'umanità, sia quelle materiali, come la fame e le ingiustizie, sia quelle psicologiche e morali causate da un falso benessere", presuppone l'abbandono della "via dell'arroganza, della violenza utilizzata per procurarsi posizioni di sempre maggiore potere, per assicurarsi il successo ad ogni costo. Anche verso l'ambiente bisogna rinunciare allo stile aggressivo che ha dominato negli ultimi secoli e adottare una ragionevole `mitezza', la regola del rispetto e della non violenza".
"Parole sante", si potrebbe dire, dal momento che davvero i paesi ricchi e i paesi poveri sono entrambi malati. Le malattie fisiologiche dei ricchi provengono dalla insoddisfazione, dall'inquinamento, dalla necessità di rapinare le risorse naturali altrui, specialmente dei paesi poveri, per sopravvivere, dalla necessità di stare sempre in una situazione di pre-guerra per evitare che i poveri si ribellino, e dallo stare in una situazione di continua tensione in vista di tale ribellione. Gli ultimi cinquanta anni sono stati solo apparentemente anni di pace: centinaia di conflitti sono esplosi nei paesi poveri, alimentati anche dai paesi ricchi, interessati a continuare lo sfruttamento degli stessi paesi poveri e a vendergli armi. Le malattie fisiologiche dei paesi poveri derivano dalla scarsità di cibo, di acqua, di energia, dalle abitazioni malsane, dall'analfabetismo, dalla distruzione della fertilità del suolo e delle foreste, dall'aumento della popolazione. Le giovani generazioni dei paesi poveri migrano verso le grandi città che crescono con i loro grattacieli, circondate da grandi estensioni di baracche miserabili in cui dilagano le malattie e la prostituzione, accanto alle colline di discariche dei rifiuti dell'opulenza delle classi ricche all'interno dei paesi poveri.
Da qui un senso di ribellione e la ricerca di una cura nella conquista, anche violenta, dell'indipendenza e della giustizia. I giovani dei paesi poveri, se appena possono, cercano di alleviare la loro miseria bussando alle porte dei paesi ricchi che, spaventati, li respingono senza pietà. E infine il malessere degli anziani, il cui numero aumenta sempre, nei paesi ricchi spesso abbandonati e privi di affetti e solidarietà e poverissimi nei paesi poveri. La situazione peggiorerà sempre fino a quando le classi dirigenti non si accorgeranno che la cura delle malattie dei poveri è essenziale anche per guarire le malattie dei ricchi. Ma i paesi ricchi possono guarire soltanto con una cura dolorosa e traumatica che richiederà la revisione radicale dei modi di produzione e di consumo, degli stili di vita, del comportamento nei confronti delle risorse naturali e ambientali. Il cambiamento per forza deve passare attraverso nuovi criteri di giustizia planetaria, basata sulla equa distribuzione dei beni comuni della Terra, come premessa per una qualche forma di pace o almeno di minore violenza nei rapporti internazionali.
"Mitezza" verso l'ambiente, ha detto il Papa; mitezza verso l'ambiente e verso il prossimo è stato il messaggio "verde" di Alex Langer (1946-1995) un profeta inascoltato nella nonviolenza. La cura delle malattie dei ricchi e di quelle dei poveri richiede coraggio, diffusione dell'istruzione e delle conoscenze, soprattutto solidarietà che assicuri ai poveri alimenti, assistenza medica, acqua, posti di lavoro, pratiche agricole compatibili con i terreni, accoglienza e integrazione fra popoli ed etnie. Compiti giganteschi, ma anche entusiasmanti, che richiedono un gran numero di specialisti nel campo delle scienze della natura, nelle tecniche di lotta agli inquinamenti, nei metodi per economizzare le risorse naturali e per riutilizzare le merci usate, nei processi di fabbricazione dei macchinari, degli oggetti, degli alimenti, ma anche governanti capaci di imprimere un orientamento morale ai processi economici. Un grande progetto di speranza.
L’articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno
Introducendo Dizionario gramsciano 1926-1937 (Roma, Carocci, 2009, pp. 918, euro 85), i curatori Guido Liguori e Pasquale Voza si dicono convinti che i testi gramsciani carcerari dal 1926 al 1937, cioè i Quaderni del carcere e le Lettere dal carcere, “e la loro storia, il metodo ‘analogico’ seguito da Gramsci, lo spirito di ricerca e di dialogicità che li caratterizza, la peculiare “multiversità” del linguaggio dell’autore e persino l’ingente ed eterogenea mole interpretativa prodotta fino a oggi rendano tutt’altro che agevole al lettore comune, e in buona parte anche allo studioso, la comprensione del significato o della possibile gamma di significati delle ‘parole di Gramsci’”. E dunque si sono posti “l’obiettivo di ricostruire e presentare al lettore, in termini il più possibile accessibili, il significato dei lemmi, delle espressioni, dei concetti gramsciani” (p. 5). Cioè di parole chiave ancora necessarie a chi, come Gramsci, si ripropone di comprendere e agire per trasformare la realtà: 629 voci elaborate in un lessico da un’accolta mondiale di specialisti scelti, e non solo nella International Gramsci Society, oggi più che mai attenti al lascito gramsciano.
Gramsci, né puro teorico nel suo pensiero carcerario né puro politico nella sua azione politica precedente, ha vissuto con lucidità progettuale la scoperta moderna che i modi di vivere e il senso che si dà al mondo sono un costrutto umano variabile, necessario sempre ma non una volta per tutte. Tutto però era da ripensare, dopo l’imprevista presa del potere nell’ottobre russo, che fu, secondo una sua espressione, una “rivoluzione contro Il Capitale”. Ossia, una rivoluzione non nei paesi europei a capitalismo maturo, dove era attesa secondo certi marxismi con visioni meccanicistiche del divenire storico, ma nella grande arretrata periferia russa.
Una sorpresa che Gramsci, soprattutto in carcere, cerca di spiegare come dovuta al controllo egemonico della borghesia in Occidente, cioè alla capacità (prima di tutto intellettuale e morale) delle classi dirigenti di controllare il pensare e il sentire delle masse lavoratrici euro-americane. Le quali per Gramsci possono sì arrivare alla rivoluzione anticapitalista, ma per gradi e per progetto egemonico, con strategie e tattiche di lunga durata, con una lunga guerra di posizione e soprattutto dopo e come conseguenza di una riforma intellettuale e morale che contrasti l’egemonia culturale della borghesia col suo formidabile dispiegamento di capacità di consenso, oggi ancora più potente ed efficace. Ma allora bisognava pur fare di necessità virtù, dato che cosa fatta capo ha, e fare anche altrove “come in Russia”. Sicché oggi, a cose fatte, il senso comune potrebbe aggiungere che la gatta frettolosa fece i gattini ciechi, o che nel Novecento, una volta tanto a livello planetario, fu messo il carro davanti ai buoi.
Ma Gramsci costretto in carcere ha avuto modo di esercitare le sue eccezionali capacità intellettuali per capire. Il Dizionario è una ordinata ponderosa interpretazione del pensiero gramsciano, sempre così aperto, mobile e antidogmatico, ottenuta selezionandone le componenti, ordinandole, ponendole in gerarchia plausibile, anche escludendo, citando le due grandi edizioni italiane dei Quaderni, Togliatti-Platone e Gerratana, facendo sistematici rimandi al termine di ognuno dei 629 lemmi, e soprattutto attenendosi all’osservazione dello stesso Gramsci che “nella decifrazione di ‘una concezione del mondo’ non ‘esposta sistematicamente’, ‘la ricerca del leit motiv, del ritmo del pensiero in sviluppo, deve essere più importante delle singole affermazioni casuali e degli aforismi staccati’”(Q. 16, 2, 1840-2, p. 6).
Mi limito, quasi per competenza, a un cenno sulla voce folklore, che avrei ben visto preceduta da una voce filosofia spontanea insieme e dopo filosofia, filosofia classica tedesca, filosofia della praxis, filosofia speculativa, filosofo e filosofo democratico.
Gramsci che pensa il folklore è consapevole dell’operazione epistemologica che sta compiendo, ampliando, aggiornando e precisando, per cui il folklore è posto nel punto focale della sua visione generale delle cose umane e nel punto nodale delle sue preoccupazioni di uomo politico, quando in carcere decide di dedicare tanta parte delle sue riflessioni alla cultura delle classi popolari, cioè al folklore inteso però come “studio delle concezioni del mondo e della vita delle classi strumentali e subalterne”, e dunque come “cosa molto seria e da prendere sul serio”, ribadisce sei anni dopo in seconda stesura, nel ‘35, al Quaderno 27 intitolato Osservazioni sul “folclore”.
Il suo anche qui è un acume eccezionale, se è eccezionale, nella storia del pensiero anche riformatore e rivoluzionario moderno, tenere in conto la vita dei più diretti interessati al mutamento, cioè degli strumentali e subalterni, non solo nelle loro reali condizioni di strumentalità e subordinazione, ma anche nelle loro concezioni, sentimenti e risentimenti comunque espressi o repressi o trasformati dal dominio, come per esempio nelle concezioni salvifiche religiose o nel canto popolare dei ceti e popoli oppressi. Gramsci si concentra, come di somma importanza, su qualcosa di trascurato anche quando lo si voglia sfruttare o mutare rovesciando la prassi sociale: sullo studio dei modi, delle concezioni e delle espressioni della vita delle “classi strumentali e subalterne”, prevedendo anche confronti storicizzanti e generalizzanti magari estesi a tutte le “società finora esistite”; nonché confronto attenti ai contenuti e alle caratteristiche delle concezioni del mondo e della vita delle classi strumentali e subalterne rispetto ai contenuti e alle caratteristiche delle concezioni delle classi egemoni, nelle varie condizioni storiche. Ma senza pretese e sbrigatività giacobine e senza un’oncia di buonismo paternalistico, come spesso è accaduto a chi si è fatto paladino di umili e diseredati, piuttosto con rigore scientifico dando e chiedendo la parola, come hanno ben capito e apprezzato in tutto il mondo, tra gli altri, i cultori dei cultural, subaltern e postcolonial studies.
"In una situazione babelica di linguaggi e opzioni politiche, di fallimento di tutte le grandi fedi politiche e religiose, Gramsci forse viene riscoperto incessantemente perché ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che sia un processo e non un atto, che nasca da un lungo lavorio di preparazione culturale e pedagogica". Proponiamo il saggio di Angelo d'Orsi contenuto nel volume "Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell'Italia del dopoguerra" di Francesca Chiarotto di recente pubblicazione per Bruno Mondadori.
Le “scoperte” di Gramsci si sono reiterate, a cicli, nella cultura italiana e, sia pure in proporzione ridotta, in molte culture straniere. Altrettanto numerosi gli usi, talora abusi, del suo pensiero e della sua stessa figura: fondatore del partito, militante antifascista, martire, santo laico. Il suo volto – come lo conosciamo da una delle pochissime immagini che ci sono state tramandate, intenso e fascinoso – è divenuto un’icona che, a guisa di un Che Guevara italiano, orna ormai magliette, borse, manifesti murali, persino cartoline pubblicitarie, che “vendono” prodotti talora del tutto estranei all’universo gramsciano. Spesso, come del resto accade per il “Che”, la diffusione dell’icona è inversamente proporzionale alla conoscenza del suo significato profondo, ma, trattandosi di uomini d’azione e insieme di teorici politici, vuole testimoniare adesione a una proposta politica (ancorché ben conosciuta) e condivisione di una testimonianza giudicata, a ragione, eroica.
L’immagine pubblica di Gramsci ha percorso, dopo la morte, un itinerario che si snoda tra epifanie e disparizioni, disinvolti utilizzi e aspri scontri, interni ed esterni a quel mondo della sinistra che, gramscianamente, avrebbe dovuto lottare unito, pur preservando le differenze programmatiche e non sottacendo le distanze ideologiche. Il che significa che anche la figura ascetica di Gramsci, quasi immediatamente, dopo la sua morte, e per certi versi anche prima, sacralizzata, venne usata a fini di battaglia politica: innanzi tutto da Palmiro Togliatti, che pure fu il primo sostenitore di tutte le iniziative volte a rendere noto «il pensiero di Antonio», ma che certo seppe, in una strategia culturale di eccezionale lucidità, mettere a frutto quel patrimonio ideale, per costruire un partito che fosse comunista, ma italiano, con tutti gli adattamenti che di volta in volta gli sviluppi politici inducevano o obbligavano. In fondo, l’originalità del comunismo italiano, e la sua “diversità” ha a che fare con Gramsci, prima che con Togliatti; e, al di là delle differenze tra i due, che emersero nella clamorosa rottura del 1926, mai più sanata, non v’è dubbio che il secondo seppe riannodare il filo spezzato. Naturalmente, mancava l’interlocutore, ma il rispetto e l’attenzione di Togliatti per il fratello maggiore, come venne considerato e talora chiamato Gramsci, sono fatti assodati.
La vicenda, dunque, delle edizioni e degli studi gramsciani, che si intreccia alla istituzionalizzazione, attraverso la Fondazione ad Antonio Gramsci intitolata, e alle mille iniziative volte a portare il nome di quel Sardo ben oltre i confini del partito, costituisce una traccia forte, e finora non sufficientemente seguita, della edificazione di un blocco intellettuale intorno al PCI: «la costruzione dell’egemonia», appunto. Ora, sebbene intorno a quel nome la battaglia ideologica, in forma residuale, continui (basti pensare alla recente ripresa tardiva di una insulsa diceria che vorrebbe un Gramsci convertito alla religione dei padri, in articulo mortis), [1] non v’è dubbio che, almeno nel mondo degli studi, mentre ancora qualche anatra starnazza sul Campidoglio, per avvertire il popolo e il senato della minaccia “comunista”, Gramsci sia diventato un tassello ineliminabile del mosaico del pensiero universale. E, altrettanto indubbiamente, questo fatto è certificato da una data: la pubblicazione dei Quaderni del carcere, nella nuova edizione critico-filologica, a cura di uno studioso che ha con quel lavoro legato per sempre il suo nome agli studi gramsciani, Valentino Gerratana.
Il momento in cui si collocò quell’avvenimento editoriale, la metà esatta del settimo decennio del XX secolo, oggi ci può apparire un momento di cerniera: si era ancora nel pieno di quelli che Mao Zedong aveva proclamato «I grandi anni Settanta», convinto che sarebbero stati gli anni della rivoluzione proletaria e socialista in Occidente, ma il cambiamento radicale, epocale, si stava già palesando come sogno più che come progetto, e, anzi, da quel sogno le classi operaie, gli studenti, una parte di ceto medio intellettuale, motori della rivolta del decennio precedente, si sarebbero di lì a poco risvegliati, e molti sarebbero precipitati nel ritiro dall’agorà, occupandosi solo del proprio “particolare”; altri, si sarebbero lasciati attirare dalle sciagurate chimere della lotta armata, entrando in clandestinità; e non mancava, chi, come sempre accade nella storia, si apprestava già allora a cambiare bandiera, e i teppisti sarebbero diventati uomini d’ordine, gli ortodossi del comunismo avrebbero conservato la struttura mentale rigida e l’intolleranza di derivazione bolscevico-staliniana, ma rovesciando completamente i propri valori ideali e orientamenti politici.
E Gramsci? In sintesi, il rivoluzionario veniva riletto, grazie alla seconda pubblicazione dei Quaderni, sub specie aeternitatis: in sostanza, dopo letture, e più o meno accorti utilizzi, fino ad allora prevalentemente e direttamente in chiave politica, sia in Italia, sia fuori, Gramsci cominciò a essere guardato nei termini, soprattutto, di un filosofo politico, ma anche di uno storico, di un critico letterario, di un interprete del mondo «vasto e terribile», per riprendere una notissima sua espressione, che ricorre più volte nella corrispondenza con i familiari. Anzi, in particolare, i Quaderni – proposti nella forma più o meno originaria in cui erano stati in parte scritti, in parte già riorganizzati dall’autore – sembravano cadere proprio nel cuore di una fase storica di trapasso, che, nondimeno, a taluni, appariva ancora aperta alle possibilità del socialismo. In Italia, il movimento degli studenti era ancora vivo, il PCI giungeva a esiti elettorali eccezionali, mentre la società aveva introdotto nei propri ordinamenti giuridici notevoli cambiamenti, il costume si era profondamente trasformato, come mostrò il referendum contro il divorzio voluto da una parte della Democrazia cristiana e appoggiato dalla Chiesa e clamorosamente sconfitto. Ma nel contempo, si cominciava a prendere atto, da parte di soggetti politici e intellettuali forse più attenti e realistici, di una nuova, incombente disfatta dell’ipotesi rivoluzionaria.
I testi gramsciani, che ritornavano come nuovi sul mercato delle idee, venivano finalmente colti, non a torto, quali frammenti di un’analisi lucida, ancorché venata di amarezza, della sconfitta del movimento rivoluzionario: si aggiunga che quelle analisi parevano in controluce evocare le successive sconfitte: quella del Vento del Nord, nel post-Resistenza in Italia, e l’altra, appunto, che stava cominciando a definirsi nella seconda metà degli anni settanta. Frammenti, dicevo: sul “frammentismo” gramsciano si erano già impiegati chilogrammi di carta stampata (se ne trova traccia nelle pagine che seguono), e il tema ritornò di attualità davanti alla nuova edizione dei Quaderni, che evitava gli accorpamenti più o meno giudiziosi, secondo linee tematiche variamente individuate, talora convincenti, talaltra meno; ma sempre, comunque, “traditrici” dello stato del testo: dunque, ciò che era stato forzosamente reso organico e compatto, ritornava alla dimensione originaria, nella sua natura di brogliaccio, sia pure nel corso del tempo reso, almeno in parte, più sistematico dallo stesso Gramsci, attraverso quella rielaborazione chiamata «Quaderni speciali». Eppure si scopriva, riprendendo alcune preziose intuizioni dei decenni precedenti, che il frammentismo non esprimeva soltanto la condizione provvisoria e disorganica di quei testi, ma traduceva la natura del pensiero del loro autore.
Le letture e riletture – che erano quasi per tutti letture ex novo – favorite da questa nuova «epifania gramsciana», come viene chiamata efficacemente nelle pagine che seguono, furono dunque influenzate dalla situazione politica complessiva, ossia, dall’affievolirsi delle istanze di cambiamento radicale, anche se non si affacciava allora lo spettro della controrivoluzione, come nell’Europa di mezzo secolo prima, quando lo scontro reazione-rivoluzione propagatosi come un incendio dopo il 1917, aveva visto la vittoria della prima, spesso con dolorosissime conseguenze; e nella stessa immensa “patria del socialismo”, l’Unione Sovietica, dove il gruppo dirigente passava di successo in successo nella lotta contro i “nemici interni”, in qualche modo realizzando i peggiori scenari ipotizzati dallo stesso Gramsci nella lettera del 1926, consegnata a Togliatti e mai recapitata. Scenari che negli anni seguenti, e prima ancora delle purghe su larga scala – che sopraggiunsero nell’anno stesso della morte, il 1937 – il detenuto avrebbe in parte compreso, in parte vagamente intuito, sulla base delle scarne e mutile informazioni che gli erano fatte giungere, clandestinamente, attraverso i canali della comunità carceraria, per il tramite di compagni, ma sovente osteggiati da altri militanti del partito.
Il fatto che la presentazione dei Quaderni, curati da Gerratana, organizzata dalla casa editrice Einaudi, avvenisse a Parigi, può da una parte essere significativa della presenza precoce di Gramsci Oltralpe, ma anche del ruolo della Francia nella guida dei movimenti di contestazione europea degli anni precedenti. Eppure, non ne conseguì un rilancio efficace degli studi gramsciani francesi (ma va segnalato in contemporanea la pubblicazione di un saggio tuttora insuperato nel suo specifico, su di un tema fondamentale come quello dello Stato), [2] né delle traduzioni, paradossalmente, se non in modo assai contenuto, considerando che l’edizione integrale dei Quaderni, avviata più tardi, impiegò un ventennio per giungere a conclusione;3 tuttavia Parigi, grazie a quella iniziativa, che mostrò immediatamente il valore generale dell’impresa editoriale, fu il centro propulsivo di un rilancio della presenza di Gramsci sulla scena culturale internazionale. Se fino ad allora era stata soltanto la sinistra, variamente comunista, a tradurre, studiare o semplicemente leggere Gramsci, da quel momento si realizzò un salto in avanti nella conoscenza e diffusione dell’opera gramsciana, con un significativo allargamento del parco dei lettori e degli studiosi. E altre letture, altre interpretazioni, soprattutto altre focalizzazioni emersero dall’universo del Gramsci “maturo”, restituito alla pur complessa e multiforme natura di quegli straordinari appunti di lavoro che erano i Quaderni, e che finalmente apparivano per ciò che erano, liberati dalla gabbia della tematizzazione imposta da Palmiro Togliatti e Felice Platone.
Che “l’operazione Quaderni”, dell’immediato dopoguerra – più in generale, “l’operazione Gramsci” –, sia stata cosa buona e saggia, è ampiamente dimostrato nelle pagine di questo libro; ma quel tipo di edizione, non tanto per i tagli e le “censure”, quanto proprio per gli accorpamenti delle sparse note gramsciane, si prestava meglio agli utilizzi politico-ideologici. Ora, con il 1975, grazie all’edizione Gerratana, i Quaderni, se non tutto Gramsci, potevano essere affrontati in un altro modo, che non solo si sottraesse al servo encomio e al codardo oltraggio, ma fosse in grado di far emergere insospettate valenze di quel pensiero, ampliandone gli echi, moltiplicandone le risonanze. Il che, puntualmente, avvenne, pur non cessando gli usi politici, che, in un senso o nell’altro, erano comunque facilitati dall’assenza della pubblicazione completa e scientificamente rigorosa di tutti gli scritti e dei carteggi gramsciani.
Ma, ancora in mente dei l’Opera Omnia, in quella fase l’edizione integrale e critica dei Quaderni, giunta a conclusione dopo un paziente e generoso lavoro, fu una tappa fondamentale. Per la prima volta si poteva leggere quel che davvero Antonio Gramsci aveva scritto in carcere, senza le mediazioni togliattiane, sganciandosi da quel lavoro del primo dopoguerra che, con tutti i suoi meriti, aveva l’intento, principalmente, di fondare una pedagogia politica di massa. Fu una sorta di rivoluzione copernicana che costrinse a un benefico bagno nel testo, anche da parte di coloro che i Quaderni li avevano già letti e usati, e che ebbero l’impressione di trovarsi davanti a un altro testo, quasi un palinsesto, di straordinaria vivacità e forza, di enorme spessore, certo di gravi difficoltà, anche per la sua natura interrotta, provvisoria, talora rapsodica, non esente da contraddizioni e aporie... E, altro paradosso, se è vero che liberati dalla gabbia tematica i Quaderni erano restituiti alla polisemia di un cantiere aperto, d’altro canto anche la forma editoriale – in luogo dei sei volumi, apparsi separatamente, acquistabili uno per uno, come opere diverse, un blocco di oltre tremila pagine solo per comodità del lettore diviso in quattro tomi – dava al testo una sorta di omogeneità, ne faceva insomma un’“opera”. E su di essa, per tanti versi “nuova”, ci si pose allo studio, in modo nuovo: la filologia cominciò a essere una chiave importante, in parallelo, d’altronde, con l’acquisizione che stava imponendosi su scala sovranazionale, ancorché non ancora generalizzata, di Antonio Gramsci nell’empireo dei grandi del pensiero. I grandi si studiano, e si studiano con gli strumenti raffinati della critica e ricostruzione filologica del testo, dell’analisi filosofica, ma su quel preciso testo, dell’attenta contestualizzazione storica.
Grazie a questi nuovi approcci, Gramsci non soltanto fu, almeno in parte, sottratto alle dispute ideologiche, spesso di modesto valore, e agli utilizzi politici (almeno quelli più smaccati), ma altresì fu liberato da una interpretazione di fondo, che, con qualche non frequente eccezione, lo collocava nel solco della tradizione italiana, punto d’arrivo di linee continue che ne facevano uno storicista idealista, in buona sostanza. I due elementi erano andati di pari passo: notò nel 1977, assai criticamente, sull’“operazione Gramsci”, Arcangelo Leone de Castris, uno studioso marxista esterno (“a sinistra”) al Partito comunista, che nel momento in cui la cultura italiana del dopoguerra tentava «una sistemazione di quella operazione nella figura del “grande intellettuale”, culmine di una tradizione democratica nazionale e suo ripropositore, capovolgeva nella propria ideologia della continuità, di fatto funzionale a una concezione riduttiva della via italiana al socialismo, il vero centro teorico-politico dell’operazione gramsciana». [4]
Come dire un’operazione Gramsci, ossia su Gramsci, condotta da Togliatti e portata avanti dai suoi intellettuali organici dopo la morte del capo, contro l’operazione gramsciana, ossia di Gramsci. Quanto poi al centro dell’elaborazione propriamente di Gramsci, le opinioni dello studioso erano e rimangono discutibili, e forse attardate su moduli che ci appaiono oggi desueti. Ma il centro del discorso concerneva il fatto che Gramsci stesso si fosse battuto contro quella tradizione, e i suoi rappresentanti, specie nel presente politico.
Tra il convegno del quarantennale della morte (1977) e quello del cinquantennale di dieci anni dopo, furono forniti tutti gli indizi che i tempi stavano cambiando. Dall’apogeo si passò lentamente all’ipogeo: tutti gramsciani negli anni settanta, nessun gramsciano negli ottanta... Nel convegno del 1977 si affrontarono in particolare temi teorici, segno di una piena assunzione di Gramsci nel mondo del pensiero: un mondo dal quale da un lato taluni studiosi, retrivi e misoneisti, intendevano tenerlo lontano, mentre dall’altro alcuni esponenti della generazione più giovane, molto gauchiste, influenzata dall’antico avversario in seno al Partito comunista, Amadeo Bordiga, o da altre correnti marxiste, cercavano di inchiodarvelo come un marchio d’infamia (quasi una riproposizione, senza troppo sforzo immaginativo, delle accuse bordighiane rivolte già al giovane socialista sotto la Mole, di essere a capo di un gruppo, quello de “L’Ordine Nuovo”, «culturalista»). Ciononostante, era precisamente l’inventore o il reinventore di parole chiave del lessico politico, e in specie dell’egemonia, che ormai si era imposto sulla scena internazionale, a livello di mondo accademico: ma nemo propheta in Patria.
Dunque, in Italia, dopo quell’importante raduno del quarantennale, che quasi coincise perfettamente con l’ascesa al potere nel Partito socialista di Bettino Craxi, animato da un furor anticomunista, mentre fuori dei confini appunto Gramsci era oggetto di un processo di universalizzazione, qui veniva di nuovo ripiegato ad usum di cordate politico-intellettuali di modesto respiro, ma di notevole risonanza mediatica. L’intenzione era quella di portare il PCI a Canossa, e Gramsci diventava una sorta di uomo dello schermo: si criticava lui, per sollecitare il partito da lui fondato (pur con intenti polemici, a dispetto della sua dubbia verità, era rimasta dominante, diventando senso comune, l’attribuzione di “paternità”; Gramsci era “il fondatore” del PCI) ad abbracciare la “via democratica”. In particolare la rivista teorica del PSI, “Mondo Operaio”, si distinse in questa campagna, che, naturalmente, ebbe spunti interessanti, in un mare di interventi ideologici, che rivisti oggi appaiono irrimediabilmente datati. Forse, più datati persino del Gramsci “bolscevico” della prima metà degli anni venti.
Quanto alle letture collocate “a sinistra”, emergeva, non di rado, un’altra criticità, che era in parte scientifica, in parte, di nuovo, politica: ossia una svalutazione del Gramsci giovanile, parallela e contraria a quella condotta in seno all’intellettualità comunista ortodossa, e una nuova centratura sui Quaderni, che solo in anni assai recenti si è tentato, da parte di qualcuno, di rompere.
La cosa era comunque comprensibile, in quanto, letti nella loro versione (quasi) integrale, e sub specie voluminis, i Quaderni, insomma, diventati “opera”, accrescevano enormemente la loro forza di suggestione; al di là delle interpretazioni non c’è dubbio che in questo procedimento Gramsci fosse esaminato, da parte di una cerchia di studiosi per certi versi differente da quella passata, anche per ovvie ragioni biologiche, con occhi nuovi, e soprattutto anche con strumenti più raffinati. Non era la nouvelle histoire gramscienne, ma si poteva infine prestare la dovuta attenzione alla filologia, senza il rischio di essere accusati di pedanteria: inediti accostamenti, talora impensate affinità, conferme e modificazioni, si affacciavano nel paniere degli studi dedicati al Sardo. Se ne ricavavano preziose tessere di un mosaico che nel corso degli anni seguenti sarebbe diventato via via monumentale, in termini di quantità e di qualità, con una intensificazione fuori d’Italia a partire dal finire degli anni ottanta, e in Italia, dalla metà dei novanta. I concetti chiave del lessico gramsciano – da “Egemonia” a “Guerra di posizione”, da “Rivoluzione passiva” alla parola magica e forse davvero centrale “Intellettuali” – emersero come stelle luminose di un dizionario generale della teoria politica, ma anche della sociologia, della critica letteraria, della storiografia. E quant’altro. Già, perché si faceva strada un po’ alla volta la realtà di un pensiero multiverso, a volte quasi inafferrabile per la sua stessa ricchezza.
Nello stesso tempo, paradossalmente, il cambio di decennio comportò, di sicuro in Italia, un lento inabissarsi di quel pensiero, prova che l’assunzione di Gramsci nell’empireo non lo aveva emendato dalla “colpa originaria”: il comunismo. Così, dopo un paio di decenni in crescendo, tra le edizioni di testi e la pubblicazione di studi (spesso, è vero, disinvolti sul piano della filologia e sbrigativi su quello della contestualizzazione), dopo una massa di interpretazioni le più varie, che talora contenevano grossolane semplificazioni e talaltra gravi impoverimenti del suo pensiero, mentre ritornavano gli attacchi ideologici (non più di parte cattolica, ma perlopiù, come ricordato, provenienti dall’area intellettuale di riferimento della nuova segreteria del Partito socialista), venne, accanto e dopo, il tempo della rimozione, e dell’oblio. Antonio Gramsci, in patria, insomma, diventava un “cane morto”. Era un altro paradosso, in quanto, contemporaneamente, sull’onda lunga dell’edizione critico-cronologica dei Quaderni, il pensatore (ma anche il rivoluzionario) veniva scoperto fuori d’Italia, in sedi diverse, e con differenti modalità. Vale la pena di ricordare, in margine, che intanto si era avviata, ma riservata al mondo degli studi, una discussione sui criteri dell’edizione Gerratana, con proposte interessanti, di varia radicalità, di una sua emendazione: insomma, la stessa pubblicazione della nuova edizione dei Quaderni diede il via al proprio superamento, in particolare grazie alle suggestioni di uno studioso proveniente da altri ambiti di ricerca come Gianni Francioni; ma il fatto stesso che un filologo settecentista si dedicasse a Gramsci, e ai complessi problemi di ricostruzione del testo, era la prova che quell’autore non era più etichettabile nei termini di giornalista socialista, o di dirigente di partito che si era anche dilettato di pensare la politica. [5]
Ma appunto a tale verità fuori d’Italia si giunse prima, anche se nei decenni antecedenti non pochi erano stati coloro che avevano colto lucidamente la “classicità” di Gramsci. In sostanza, mentre fuori dei patrii confini il nome di Gramsci cominciava a circolare con insistenza, negli ambienti culturali nostrani Gramsci era quasi ritornato a essere lo sconosciuto che era avanti la “scoperta” del 1947, grazie alle Lettere e al premio Viareggio che le aveva, inopinatamente, lanciate sulla scena nazionale. [6] L’inabissarsi della figura, del nome e del pensiero di Gramsci fu impressionante, nell’Italia degli anni ottanta, dominati politicamente dallo pseudoriformismo “decisionistico” del craxismo, e culturalmente da quello che fu chiamato, su scala sovranazionale, “l’edonismo reaganiano”, con un forte ripiegamento sul privato, una esibita volontà di primeggiare, individualisticamente, nella dimensione esistenziale in cui il lato pubblico, politico, veniva cancellato. L’agorà, in ogni sua possibile versione, era dimenticata a vantaggio del salotto di casa, o, peggio, della discoteca, o della birreria, dove nondimeno il discorso pubblico, politico, era del tutto rimosso. Il divertimento, nella sua forma spesso più becera, prendeva il posto dell’impegno. Come avrebbe potuto trovare posto una figura quale quella – rigorosa al punto da apparire rigorista, “calvinista” – di Antonio Gramsci, in quell’universo?
E anche a sinistra, nello scenario che si cominciava a delineare di fuga dal marxismo, e dal suo corrispettivo politico, il comunismo, Gramsci non godé di buona stampa. Basti, come esempio, il convegno organizzato nella “sua” Torino, sul finire del 1988, dal locale Istituto a lui intitolato. Qui si colsero i frutti dell’ambigua interpretazione data da Bobbio al convegno di vent’anni prima, e si dimostrarono non errate le preoccupazioni per le «pericolose conseguenze che essa implicava». [7] Ormai, mentre la cosiddetta “nuova destra”, alla ricerca di parentele nobili, cominciava a guardare al pensiero di Gramsci come a un punto di riferimento, in un patchwork confuso, ma degno di attenzione, bizzarramente le letture che emersero al convegno torinese sembravano andare nella stessa direzione, consegnando quel rivoluzionario, inchiodato da etichette che volevano essere squalificanti, come armonico, gerarchico, produttivista, tendenzialmente totalitario, proprio al paniere ideologico di una destra “colta”. [8]
L’edizione Gerratana ebbe anche l’effetto, certo non positivo, di oscurare gli scritti precarcerari, che ritornarono a essere ciò che in passato erano stati in un’opinione diffusa, alla quale si erano opposti in pochi: una sorta di preparazione della “vera” elaborazione teorica, quella in prigione, per i sostenitori della “continuità”; un immaturo prodotto della giovinezza, poi superato, in direzione piuttosto diversa, nell’età “matura”. Effetto bizzarro, in quanto proprio in quell’ottavo decennio del secolo, ancora Einaudi aveva dato il via a una nuova edizione degli scritti precarcerari (antecedenti dunque al novembre del 1926), che aveva arricchito notevolmente il quadro della biografia intellettuale e politica gramsciana, fornendo ulteriore materiali per studi e approfondimenti. Si trattava di un’edizione che faceva compiere importanti passi avanti, specie in termini di attribuzione: se per i Quaderni il problema fondamentale era quello della datazione, per gli articoli, quasi sempre non firmati, rimaneva quello del riconoscimento di paternità, che, con il trascorrere degli anni, diventava via via più incerto, con il mancare di molti dei protagonisti di quella stagione, la cui testimonianza era stata in passato uno dei criteri per l’attribuzione dei testi alla penna di Gramsci.
Anche in questa tornata editoriale un ruolo importante fu svolto da Gerratana; ma accanto a lui, oltre al redattore einaudiano Sergio Caprioglio, che aveva collaborato con Elsa Fubini alla curatela delle lettere, per la seconda edizione, assai arricchita, del 1965, [9] emergeva uno studioso della generazione successiva, Antonio A. Santucci, che si sarebbe spento prematuramente nel 2006, non senza aver dato contributi significativi agli studi gramsciani. [10] Peraltro, poco prima, era mancato Caprioglio: due perdite gravi per la comunità dei gramsciologi, che ancora non aveva superato la perdita di Gerratana, avvenuta nel 2000. L’edizione degli scritti precarcerari degli anni ottanta fu, nell’insieme, pregevole, malgrado errori e lacune: col senno di poi, si può parlare di un passo verso l’edizione completa degli scritti, che sarebbe stata avviata un quindicennio più tardi; in ogni caso si trattò di un lavoro che contribuì a una conoscenza assai più ricca della biografia di Antonio Gramsci nella Torino che da città fredda e ostile, come gli si era presentata nell’autunno del 1911, andò trasformandosi un po’ alla volta nella “sua” città. [11]
Gli anni ottanta si chiusero con una serie di eventi che sembrarono di nuovo riaprire i giochi, anche se gli impulsi a una Gramsci-Renaissance, onda lunga dell’edizione Gerratana, provennero da fuori d’Italia. Non ci fu “il convegno” per il cinquantesimo della morte (1987), ma una serie di iniziative che mostrarono il divario tra gli ambienti culturali italiani che ricuperavano in modo lento e ritardato una vera ricezione del pensiero del Sardo, e una comunità di studi internazionale che si apriva a Gramsci con attenzione e, talora, persino con autentico entusiasmo: era l’entusiasmo della scoperta, ancora una volta. Era un Gramsci nuovo quello che in una lettura trasversale e multidisciplinare, si palesava, tra manipoli di studiosi europei, americani e un po’ alla volta anche di altri continenti (Asia e Australia): era il Gramsci pensatore critico della modernità, marxista innovatore, comunista capace di riflettere senza ideologismi sul fallimento della rivoluzione in Occidente. Due raduni internazionali, in particolare, dotati di questi caratteri, segnarono tappe significative in tale direzione. [12]
La cultura italiana, dal canto suo, si lasciò lentamente trascinare al seguito, in modo spesso riluttante, talora opponendo resistenza, in varia forma, come rivelò il convegno di Torino di fine 1988. L’anno dopo, il fatidico 1989, a Formia si tenne un raduno internazionale, nell’oggetto e nei soggetti partecipanti; [13] e l’anno prima, lo statunitense John Cammett (mancato nel 2008), in vista proprio di quell’evento, aveva realizzato la prima Bibliografia gramsciana: stampata, in edizione provvisoria, poi ampliata per l’edizione definitiva – ossia provvisoriamente tale – pubblicata per il centenario della nascita (1991). [14] Fu così che, grazie a questo fino ad allora sconosciuto studioso, già militante sindacale, che aveva lavorato da solo, e in modo dilettantesco – nel senso migliore – si scoprì che su Gramsci avevano scritto (articoli, saggi, monografie, voci di enciclopedie) centinaia e centinaia di studiosi, di militanti politici, di opinion makers, in oltre trenta lingue del mondo: si trattava di oltre settemila titoli. Fu un piccolo, salutare choc, che contribuì a produrre, anche per un effetto d’imitazione, una nuova ondata di studi, edizioni, ricerche.
Le edizioni in lingue diverse dall’italiano cominciarono a susseguirsi; e non si trattava più di antologie, ma di ambiziosi tentativi di traduzioni integrali. Negli Stati Uniti nacque la International Gramsci Society (IGS), che presto diede vita a una importante Sezione italiana. E mentre si cominciava alacremente a lavorare all’edizione integrale inglese dei Quaderni, a cura di Joseph Buttigieg, fondatore dell’IGS, il nome di Gramsci si diffondeva soprattutto in America Latina, mentre in Europa la ripresa di interesse fu più lenta, specie in Francia dove era partita per prima l’attenzione a questo italiano, con grandi contese politiche tra gramsciani e gramscisti... Ciò non toglie che in numerose realtà nazionali Gramsci fosse ormai diventato un personaggio di rilievo in seno al dibattito politico e culturale; lo si incominciava a citare anche al di fuori dei contesti scientifici, quasi ad avvalorare un destino di usi politici, ennesimo paradosso: la pratica degli utilizzi a fini di parte o di partito del pensiero gramsciano, cessata in Italia si diffondeva fuori, contemporanea e parallela alla nascita di autentici filoni di studio; questi, proprio come, del resto, gli usi politici erano, in effetti, legati essenzialmente alle principali categorie teoriche dei Quaderni che l’edizione Gerratana stava in qualche modo “liberando”, facendole emergere in piena luce. Insomma, il lessico di Gramsci su cui finalmente si poneva l’attenzione che meritava, si prestava a un doppio uso: strumento di analisi della realtà storico-politica (e non solo, essendo ben presenti in quell’ipertesto gramsciano concetti provenienti da altre discipline), da un lato, e di intervento nella prassi, dall’altro. Ma sempre fuori d’Italia. Doppiato il capo del 1989, nei primi anni novanta, quando nelle università italiane si può dire che nessuno (o quasi nessuno) tenesse corsi su Gramsci, il cui nome era ormai ritornato a essere ignorato o pressoché ignoto agli studenti, e negletto dalla quasi totalità del corpo docente, in Giappone, per fare un esempio, era uno degli autori politici più studiati; così pure, per riferirsi a tutt’altra temperie culturale, nei paesi arabi. [15]
Ma, come ho accennato, di nuovo gli orientamenti culturali stavano, sia pur lentamente, cambiando. Il 1989-1991 (ossia il biennio “rivoluzionario” che, con l’improvviso crollo del “socialismo reale”, aveva sconvolto il mondo, alimentando speranze poi rivelatesi perlopiù ingannevoli e fallaci) [16] aveva d’improvviso fatto emergere dalle macerie del Muro di Berlino, che aveva, nel suo crollo, travolto larga parte della letteratura marxista, proprio il fantasma di Gramsci, accanto a quello di Marx: se questo si presentava come il grande profeta critico della globalizzazione, anticipando le interpretazioni pessimistiche sulla globalizzazione della miseria, Gramsci appariva come il pensoso analista della sconfitta dell’ipotesi rivoluzionaria, ma altresì il pacato e profondo studioso di un altro socialismo possibile, lungo sentieri nuovi di lotta culturale, di costruzione di una egemonia intellettuale, di un uso intelligentemente critico degli elementi portanti del “moderno”. L’ultima riscoperta di Gramsci, quindi, in un paradosso più apparente che reale, si collocava proprio a ridosso del crollo del Muro, dal quale non soltanto non era sfiorato, ma che ne faceva risaltare la figura nello spazio rimasto vuoto. All’inizio degli anni novanta un momento importante, che però non diede luogo all’interesse che avrebbe meritato, fu la pubblicazione, a cura ancora di Santucci, delle lettere giovanili (fino al 1926, ossia fino all’arresto), che confermarono la potenza e l’umanità del Gramsci epistolografo, aprendo anche squarci nuovi e insospettati sulle difficoltà dell’esistenza di un uomo a cui le vicende della vita, da quelle della salute fisica a quelle familiari, a quelle politiche, avevano rubato prima l’infanzia, poi la giovinezza. Gramsci, insomma, fu sempre, da subito, adulto. E un adulto di eccezionale maturità, dotato di un precocissimo senso della responsabilità individuale, provvisto di pazienza e ironia.
Ci vollero, nondimeno, altri anni prima che anche in Italia – ribadisco: sulla scia della rinnovata e perlopiù del tutto nuova fortuna di «Gramsci in Europa e in America» [17] – si ricominciasse, con continuità e sistematicamente, a studiare, pubblicare, tenere corsi universitari; soprattutto ad avviare ricerche sia archivistiche, sia bibliografiche, volte specialmente a rintracciare i segni della fortuna di Gramsci fuori d’Italia: in ciò fu decisivo l’impulso della Fondazione Gramsci e, in non pochi casi, di taluno degli Istituti regionali intitolati al rivoluzionario sardo, che si stavano consorziando. [18]
Assai utile per rimettere in circolazione Gramsci fu la nuova raccolta, la più ampia fino ad allora (e a tutt’oggi), delle lettere carcerarie, curata sempre da Antonio Santucci; la pubblicazione suscitò un contenzioso tra l’editore palermitano che l’aveva mandata in libreria (Sellerio), la casa editrice Einaudi e la Fondazione Gramsci, entrambe reclamanti di essere depositari dei diritti d’autore, al punto che si giunse al ritiro dell’opera dalle librerie. [19] Ma, grazie alla stessa eco mediatica della pubblicazione, si accesero nuovi fari sull’opera gramsciana e comunque si trattò di un nuovo materiale documentario che arricchiva il paniere delle conoscenze sulla vita e sulle sofferenze, private e pubbliche, di quel prigioniero eccellente del fascismo. Di Gramsci si ricominciò dunque a parlare sulla grande stampa oltre che negli ambienti scientifici, e, assai meno, in quelli politici.
Lo dimostrava, ancora nel 1996, la pubblicazione di un saggio che costituiva (dopo un lontano analogo più sintetico lavoro di altro studioso, apparso nell’anno stesso dell’edizione Gerratana) [20] il primo tentativo di ricostruire le contese politiche oltre che scientifiche su Gramsci: libro utilissimo, ancorché con taglio ideologico, che sarebbe diventato una piccola guida per militanti, oltre che per studiosi. [21] Intanto, una nuova messe di edizioni antologiche giungeva sui banconi (non nelle vetrine) delle librerie e, talora, fino agli scaffali delle biblioteche: dopo il Gramsci martire, il Gramsci ortodosso, il Gramsci eretico, il Gramsci nazionale e popolare, il Gramsci fratello maggiore di Togliatti, sembrava riaffacciarsi il “Gramsci di tutti”, prestandosi, suo malgrado, a letture e interpretazioni multiverse, che passavano dalla nuova destra, che insisteva sui suoi tratti nazionali, produttivistici e organicistici, fino alla sinistra postcomunista, che ne faceva un pensatore liberale; mentre quel che rimaneva della sinistra marxista, in non pochi suoi segmenti, volgeva di nuovo il suo sguardo verso quel volto dai grandi occhi profondi, che gli occhialini evidenziavano, sotto la massa dei capelli crespi. Si riscopriva, citandolo e ricitandolo, in tutta la sua drammatica potenza, il bellissimo schizzo che ne aveva disegnato Piero Gobetti nel 1922:
Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima, che dovette essere accettata senza discussione: il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale, e serba dello sforzo una rude serietà impenetrabile; solo gli occhi mobili e ingenui ma contenuti e nascosti dall’amarezza interrompono talvolta con la bontà del pessimista il fermo vigore della sua razionalità. [22]
Infine, il segno decisivo del ritorno di Gramsci sulla scena culturale, fu l’avvio dell’Edizione Nazionale degli Scritti, nel 1996-1997, sotto l’egida della Fondazione Gramsci: non fu senza significato, certo, che il clima politico fosse di una nuova fiducia nella sinistra, appena giunta al governo del paese, dopo la prima breve ascesa e caduta di Silvio Berlusconi. E, tuttavia con l’Edizione Nazionale (che aveva nondimeno un comitato scientifico internazionale, nel quale primeggiava la stella di Eric Hobsbawm, già frequentatore dei raduni gramsciani), se Gramsci era ormai acquisito al Pantheon del Pensiero, la gran parte di coloro che lo studiavano provvedevano consapevolmente, e talora inconsciamente, a neutralizzarlo sul piano politico: la sinistra che governava non solo era lontana da qualsivoglia tentazione eversiva, ma era dichiaratamente lontana dalla stessa tradizione marxista. Gramsci rimaneva, comunque, “un comunista”, anche se da più parti si insisteva, anche riprendendo spunti dei decenni passati, sul carattere “diverso” del suo comunismo, e sul suo marxismo originale. Ciò non toglie che, politicamente, a Gramsci fosse preferito, spesso soprattutto dai militanti del partito da lui fondato, di volta in volta Carlo Rosselli o don Milani, John Kennedy o Karl Popper... Addirittura, nell’anno 2000, nel corso di un convegno celebrativo dei cinquant’anni della fondazione dell’Istituto Gramsci, che pudicamente si volle intitolare a Gramsci e Rosselli, l’allora leader emergente dei DS Walter Veltroni ebbe a schierarsi accanto a Rosselli, cercando di allontanarsi appunto da un ingombrante Gramsci, dimostrando con ciò di non conoscere né l’uno, né l’altro.
Eppure, se politicamente Gramsci non aveva più appeal, per impulso della progettata Edizione Nazionale (nel cui gruppo di lavoro non mancarono e non mancano tensioni) e di tutto quello che cominciava a nascere intorno a essa, gli studi gramsciani conobbero un imponente rilancio e poi via via una decisa accelerazione, dal sessantesimo anniversario della morte (1997), fino al settantesimo (2007), le cui manifestazioni, per numero, intensità e durata, sorpresero gli stessi gramsciani e gramsciologi. Oltre a sancire l’ingresso di Gramsci tra i massimi esponenti della cultura italiana, l’Edizione Nazionale ebbe soprattutto la funzione di stimolo a ricerche, mentre si formava, entro o intorno a essa, una nuova generazione di studiosi. Anzi, guardando a ritroso verso l’ultimo quindicennio, si può affermare che sul piano dell’acquisizione documentaria si sono forse compiuti maggiori progressi che nel mezzo secolo precedente.
E ciò, mentre fuori d’Italia Gramsci veniva scoperto e approfondito, con un salto notevole non solo nella quantità delle traduzioni, ma nella loro qualità e natura, con la prosecuzione o l’avvio di edizioni integrali, con la nascita di “Cattedre Gramsci”, con un nuovo interesse degli editori alla pubblicazione di testi e di studi: difficoltoso in un primo tempo, poi un po’ alla volta più facile. Alcuni convegni latinoamericani (Messico, Brasile, Argentina, Venezuela, in particolare), tra gli ultimi anni novanta e il primo decennio del XXI secolo, testimoniarono, oltre ogni dubbio, la nuova fortuna del pensiero di Gramsci nel mondo e in specie nel subcontinente americano, dove il richiamo a Gramsci appariva soprattutto, ma non esclusivamente, di tipo militante; a differenza che nel mondo anglosassone (dagli Stati Uniti all’Australia, fino al subcontinente indiano), dove Gramsci veniva scoperto e letto e impiegato metodologicamente, quale teorico, o prototeorico dei cultural studies o dei subaltern studies. [23]
Nel sessantesimo della morte, mentre si consolidava l’impresa dell’Edizione Nazionale, e si realizzarono alcuni convegni che fornirono ulteriore prova della presenza di Gramsci ben oltre i confini italiani ed europei, [24] veniva pubblicata una nuova edizione delle lettere dal carcere, concentrata sul carteggio, bilaterale, tra Antonio e la cognata Tatiana Schucht, la persona che più di qualsiasi altra seguì amorevolmente il penoso calvario del prigioniero di Turi. [25] Ben più ricca, e davvero imprevedibile, fu la mole delle celebrazioni del settantesimo della morte, con innumerevoli eventi, da Sidney a Torino, da Roma a San Paolo del Brasile, dalla Sardegna alla Puglia; convegni, ma anche edizioni di testi, pubblicazione di studi, avvio di grandi imprese. Fu quello l’anno, il 2007, dell’uscita dei primi due tomi dell’Edizione Nazionale, dedicata ai Quaderni di traduzione, inediti; a cui, tre anni più tardi, si aggiunse il primo volume dell’Epistolario. [26] A seguire, una cascata di iniziative: seminari, altri convegni, premi, edizioni, altri studi, opere di consultazione, quali la BGR (Bibliografia Gramsciana Ragionata), un repertorio che ricostruisce con schede analitiche tutto quanto è stato pubblicato in lingua italiana su Gramsci, dal 1922 a oggi; e il Dizionario gramsciano, concentrato sull’analisi e l’interpretazione del lessico e delle figure chiave dei Quaderni. [27]
Oggi la bibliografia gramsciana comprende oltre diciottomila titoli, ormai in una quarantina di lingue. Circa duemilacinquecento sono in lingua inglese; e, per fare un esempio lontano, circa seicento in giapponese. Si è annunciato l’avvio dell’edizione cinese dei Quaderni, dopo quella delle Lettere, mentre, giunte a compimento edizioni europee (francese, tedesca, angloamericana), veniva ripresa quella russa, avviata in passato e poi interrotta; e così via, in un profluvio incessante di cui sarebbe impossibile dare conto anche sommario. Il risultato è che Antonio Gramsci è oggi uno dei duecentocinquanta autori più letti, tradotti, citati e discussi di tutti i tempi, di tutti i paesi e di tutte le lingue e di ogni genere (ossia letterati, filosofi, scienziati...). È uno dei cinque italiani più studiati e tradotti e commentati dopo il XVI secolo. E l’interesse per questo pensatore, scrittore, dirigente politico e militante rivoluzionario ha registrato una eccezionale crescita nel corso degli ultimi anni. Da Chávez a Sarkozy, per menzionare due politici di opposta sponda, Gramsci è diventato un autore da citare, oggetto, oggi più che prima, di appropriazioni politiche e strumentalizzazioni ideologiche; le quali, nondimeno, sono il segno di una rinnovata attualità, di una riscoperta vitalità del pensiero di Gramsci, nostro contemporaneo.
Le nuove generazioni che studiano Gramsci (e i convegni per il settantesimo della morte ne hanno fornito un’importante testimonianza), possono farlo con un approccio diverso: appassionato ma senza soverchi ideologismi, partecipe, ma con sufficiente distacco critico; sono assenti da questi nuovi studi, proprio per ragioni generazionali, tanto il rimpianto quanto il rimorso o il rimbrotto; i «nati dopo il Settanta», [28] possono guardare a Gramsci, e alla vicenda politica e culturale in cui l’edizione dei suoi scritti lo ha collocato, in modo nuovo, “leggero”, pur con la serietà necessaria a un lavoro scientifico. [29]
L’Edizione Nazionale, dopo la pubblicazione dei Quaderni curati da Valentino Gerratana, e le nuove sollecitazioni provenienti, copiosissime, da fuori d’Italia, hanno favorito la costituzione di manipoli di nuovi studiosi e studiose della vita, del pensiero, dell’azione politica di Antonio Gramsci, che delle superfetazioni ideologiche dei “favorevoli” e dei “contrari”, nonché degli utilizzi politici togliattiani in fondo poco sanno e poco vogliono sapere, desiderosi, piuttosto, di riaccostarsi direttamente ai testi, e di coglierne le insospettate valenze, di sapore squisitamente umanistico, ma altresì capaci di suscitare nuove sintonie a larghissimo raggio, dalla politica all’ermeneutica.
Rimane nondimeno decisivo lo studio della ricezione del pensiero, lungo il filo delle edizioni dei testi gramsciani, degli studi, delle istituzioni che a Gramsci si sono variamente richiamate: specie se si tratti di studi condotti senza pregiudizi, senza i condizionamenti della militanza o dell’appartenenza, anche se con una forte empatia verso l’autore: del resto, difficilissimo (e, per quanto mi riguarda, anche superfluo) sottrarsi al fascino di un essere speciale, sotto tanti riguardi, quale fu Gramsci. Riaccostarsi, con gli strumenti della filologia storica, ma con una disposizione d’animo aperta e tendenzialmente da allievi ideali di quel maestro ancor più ideale, oggi appare importante, anche per il momento storico che stiamo attraversando. Dinnanzi al crollo dell’utopia e della speranza comunista in Occidente, mentre dall’America Latina giunge la proposta di un nuovo socialismo per il XXI secolo, Gramsci acquista un valore pregnante, proprio per la natura antidogmatica del suo pensiero, per il carattere critico della sua visione del comunismo, per la duttilità intelligente della sua analisi delle possibilità e dei limiti della “Rivoluzione in Occidente”.
In una situazione babelica di linguaggi e opzioni politiche, di fallimento di tutte le grandi fedi politiche e religiose, Gramsci forse viene riscoperto incessantemente perché ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che sia un processo e non un atto, che nasca da un lungo lavorio di preparazione culturale e pedagogica, una rivoluzione internazionale e sovranazionale, una rivoluzione che non sia più la presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno, bensì una trasformazione “molecolare” a carattere internazionale e sovranazionale. Gramsci, teorico delle situazioni di “crisi”, eccezionale reinventore del concetto oggi imprescindibile di “egemonia”, ci suggerisce, pacatamente, con la fusione dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione, qualche percorso per passare dalla crisi alla sua analisi e al suo superamento.
Soprattutto pare utile oggi, a proposito di egemonia, rispondere non con ulteriori polemiche al vituperio corrente, fondato su sciocchezze e menzogne, [30] ma, piuttosto, fare, come si cerca di fare in questo lavoro, con un’attenta ricostruzione del processo di formazione di quella egemonia, che si rivela, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, come un grande disegno culturale, del quale Togliatti è il regista, alcuni intellettuali di partito gli attori, mentre l’opera e la figura di Antonio Gramsci rappresentano la trama, la materia prima, il soggetto. Quel disegno, in realtà, non andò completamente in porto, per gli svolgimenti della situazione politica interna e internazionale – il 18 aprile 1948, con la sconfitta delle sinistre, l’ingresso italiano nel Patto Atlantico, l’involuzione del socialismo reale, la morte di Stalin, la rivoluzione ungherese, il XX Congresso del PCUS, la difficile destalinizzazione... –, ma rappresentò il più lucido tentativo di dare un’anima culturalmente profonda, di alto valore, al processo della ricostruzione del paese uscito dalla guerra e dal fascismo. E Gramsci, pur nell’utilizzo, talora spregiudicato, talaltra del tutto legittimo, da parte di Togliatti e dell’intelligencija “organica”, riuscì non solo a non farsi schiacciare dalla politica del momento, ma a resistere come un cristallo di roccia imponendosi come l’autore di cui il Partito comunista, la sinistra e l’Italia tutta avevano bisogno.
Da questo Gramsci dopo Gramsci, pensatore fortemente italiano e “nazionale”, ma, scoperto un po’ alla volta, nei termini universali e globali, possiamo trarre la conferma della necessità di quel cambiamento radicale di rotta per il mondo, reso urgente dalla situazione di guerra permanente, di aggravamento di ingiustizie sociali all’interno delle singole società nazionali, di emergere di disuguaglianze tra un Sud e un Nord del mondo ormai insostenibili... Ma questi elementi della crisi in atto, sottolineano innanzi tutto la necessità della lotta per la verità, filo conduttore della vita e dell’opera, politica e intellettuale, di Antonio Gramsci. E quale dovrebbe essere il ruolo dell’intellettuale, come Gramsci ce lo propone, negli scritti e nell’esempio concreto, di altissimo valore, se non la battaglia «per la verità»? [31] La nuova, ultima fortuna di Gramsci, davanti a un socialismo che si fondò sulla menzogna e su nuove ingiustizie, rovesciando le proprie premesse e promesse, risiede forse innanzi tutto in questa passione per la verità, che lo ricollega da un lato a un Romain Rolland e – sia pur in modo critico – a un Julien Benda, dall’altro a un Edward Said, che più di ogni altro sembra aver raccolto il testimone dalle mani di Antonio Gramsci, attribuendo all’intellettuale il compito supremo di «dire la verità». [32]
NOTE
1 Rinvio per una puntuale e pungente ricostruzione a G. Liguori, La conversione di Gramsci e la creazione di un nuovo senso comune (di destra), in “Historia Magistra”, I (2009), 1, pp. 17-29.
2 Cfr. Ch. Buci-Glucksmann, Gramsci et l’état, Fayard, Paris 1975 (trad. it. Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialistica della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1976).
3 Cfr. A. Gramsci, Cahiers de prison, a c. di R. Paris, Gallimard, Paris 1978-1996, 5 voll.
4 A. Leone de Castris, La teoria critica delle istituzioni liberali, in “Lavoro critico”, 9 (1977), pp. 7-57 (7): si tratta di un fascicolo monografico “Su Gramsci”, uno dei primi esempi della nuova critica gramsciana dopo l’edizione Gerratana.
5 Cfr. G. Francioni, L’officina gramsciana, Bibliopolis, Napoli 1984.
6 Si veda infra, pp. 23-29.
7 Si veda infra, p. 200.
8 Cfr. F. Sbarberi (a c. di), Teoria politica e società industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1988; Id., Gramsci. Un socialismo armonico, Franco Angeli, Milano 1986.
9 Si veda infra, pp. 187 ss.; ma in merito all’edizione delle Lettere, Elsa Fubini mi disse (intervista registrata, 1984) che Caprioglio si era attribuito una firma in modo indebito in quanto egli era solo il redattore della casa editrice; la raccolta e la cura erano in realtà sue (ossia della Fubini).
10 I volumi gramsciani a sua cura sono: Nuove lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di Piero Sraffa, prefazione di N. Badaloni, Editori Riuniti, Roma 1986; Antonio Gramsci: 1891-1937, Editori Riuniti, Roma 1987; A. Gramsci, Lettere,
1908-1926, Einaudi, Torino 1992; A. Gramsci, Lettere dal carcere, Sellerio, Palermo 1992. Santucci, tra gli altri lavori gramsciani, avrebbe anche curato la prima antologia di tutti gli scritti: A. Gramsci, Le opere, TEN, Roma 1996 (poi Editori Riuniti, Roma 2007).
11 Ho ricostruito il processo di adattamento di Gramsci a Torino, nell’Introduzione all’antologia da me curata: A. Gramsci, La nostra città futura. Scritti torinesi (1911-1922), Carocci, Roma 2004.
12 Alludo agli atti di due convegni del 1987: Gramsci e il marxismo contemporaneo, a c. di B. Muscatello, Editori Riuniti, Roma 1990 (contributi fra gli altri di N. Badaloni, J. Bidet, G. Labica, A. Davidson, O. Löwy, J. Texier, A. Tosel, G. Prestipino) e Modern Times. Gramsci e la critica dell’americanismo, a c. di G. Baratta e A. Catone, Diffusioni 84, Milano 1989 (poi Edizioni Associate, Milano 1989; contributi fra gli altri di J. Buttigieg, J.P. Potier, R. Finelli, F. Frosini, Ch. Riechers, A. Tisekm, T. Szabò, S. Kébier, G. Girardi, A. Santucci, L. Cortesi).
13 Cfr. M.L. Righi (a c. di), Gramsci nel mondo, Fondazione Istituto Gramsci, [Roma] 1995.
14 Cfr. J. Cammet (a c. di), Bibliografia gramsciana, Editori Riuniti, Roma 1991.
15 Cfr. sulla diffusione del pensiero gramsciano, La lingua/le lingue di Gramsci e delle sue opere. Scrittura, riscritture, letture in Italia e nel mondo, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Sassari, 24-26 ottobre 2007), a c. di F. Lussana e G. Pissarello, con un saggio introduttivo di G. Vacca, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2008. Cfr. in particolare K. Katagiri, Gramsci e la sinistra giapponese (pp. 241-243) e P. Manduchi, La diffusione del pensiero di Gramsci nel mondo arabo: traduzioni, riletture, prospettive (pp. 245-260).
16 Ho sviluppato questa tesi nel mio 1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio, Ponte alle Grazie, Milano 2009.
17 Così si intitolò un volume collettaneo curato da A.A. Santucci (Laterza, Roma-Bari 1995: importante il saggio introduttivo di E.J. Hobsbawm; gli altri contributi facevano il punto nelle varie realtà: Tosel per la Francia, F. Fernández Buey per la Spagna, D. Forgacs per il Regno Unito, J. Buttigieg e F. Rosengarten per gli Stati Uniti, I. Gregor’eva per la Russia, C. Nelson Coutinho per il Brasile, O. Fernández Díaz per il resto dell’America Latina).
18 Una rassegna utile, sia pur molto sintetica, di iniziative e pubblicazioni è in G. Vacca, G. Schirru (a c. di), Premessa, in Studi gramsciani nel mondo. 2000-2005, il Mulino, Bologna 2007, pp. 9-17. Il volume è una selezione di articoli apparsi in varia sede extraitaliana: tra gli altri di A.K. Sen, J.A. Buttigieg, M.E. Green, J.C. Portantero, B. Fontana e D. Kanoussi.
19 Cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit.
20 Cfr. G.C. Jocteau, Leggere Gramsci, Feltrinelli, Milano 1975.
21 Cfr. G. Liguori, Gramsci conteso. Storia di un dibattito 1922-1996, Editori Riuniti, Roma 1996.
22 P. Gobetti, La rivoluzione liberale, Cappelli, Bologna 1924, p. 105.
23 Si veda, per un riferimento essenziale, almeno G. Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Carocci, Roma 2007; ma cfr. anche gli Atti del Convegno di Formia (1989): Gramsci nel mondo, cit.; per i cultural studies, G. Vacca, P. Capuzzo e G. Schirru (a c. di), Studi gramsciani nel mondo. Gli studi culturali, il Mulino, Bologna 2008.
24 Rinvio ai rispettivi volumi degli Atti: Gramsci e il Novecento, a c. di G. Vacca, con la collaborazione di M. Litri, Carocci, Roma 1999 (organizzato dalla Fondazione Gramsci); Gramsci da un secolo all’altro, a c. di G. Baratta e G. Liguori, Editori Riuniti-IGS, Roma 1999 (organizzato dall’IGS); Gramsci e la rivoluzione in Occidente, a c. di A. Burgio e A.A. Santucci, Editori Riuniti, Roma 1999 (organizzato dal Partito della Rifondazione Comunista di Torino).
25 Cfr. A. Gramsci, T. Schucht, Lettere, 1926-1935, a c. di A. Natoli e C. Daniele, Einaudi, Torino 1997.
26 Cfr. A. Gramsci, Epistolario, vol. I: Gennaio 1906-dicembre 1922, a c. di D. Bidussa, F. Giasi, G. Luzzatto Voghera e M.L. Righi, con la collaborazione di L.P. D’Alessandro, B. Garzarelli, E. Lattanzi, L. Manias e F. Ursini, Istituto della
Enciclopedia Italiana, Roma 2009.
27 Cfr. Bibliografia Gramsciana Ragionata 1922-1965 (1), a c. di A. d’Orsi, Viella, Roma 2008 (sotto l’egida della Fondazione Gramsci); Dizionario gramsciano 1926-1937, a c. di G. Liguori e P. Voza, Carocci, Roma 2009 (sotto l’egida dell’IGS
Italia).
28 Riprendo il titolo di un celebre articolo di Mario Morasso (apparso sul “Marzocco” nel 1897), che si riferiva, ovviamente, al XIX secolo.
29 Ne è stato esempio notevole il convegno “Il nostro Gramsci”, organizzato dal sottoscritto per conto della Fondazione Istituto Piemontese A. Gramsci, a Torino, nel novembre del 2007, riservato alla generazione post-1970.
30 Rinvio per la storia del concetto e per le polemiche sul suo uso al volume Egemonie, a c. di A. d’Orsi, con la collaborazione di F. Chiarotto, Dante & Descartes, Napoli 2008.
31 Così si intitola una raccolta di testi gramsciani curata da R. Martinelli: Per la verità. Scritti 1913-1926, Editori Riuniti, Roma 1974.
32 Alludo a E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995.
(8 maggio 2011)
Aldo Natoli è stato un combattente per la libertà e la democrazia in Italia. È stato un intellettuale raffinato e insieme un uomo politico impegnato a fianco dei lavoratori, sempre in sintonia con i bisogni popolari. Negli anni Trenta da giovane ricercatore in medicina si trova a Parigi, nell'istituto di ricerca sui tumori, ma presto la lotta al nazifascismo lo sottrae agli amati studi e lo chiama all'impegno politico nella clandestinità. Entra nella lotta partigiana, nel gruppo romano di Amendola, Ingrao, Alicata, Lombardo Radice . Viene arrestato e condannato a cinque anni di carcere dal Tribunale Speciale.
Nel Parlamento della Repubblica sin dalla prima legislatura e poi nelle quattro successive viene eletto deputato come esponente di spicco del Partito comunista italiano. Nel contempo come consigliere comunale di Roma si impegna contro la speculazione edilizia nella famosa campagna «Capitale corrotta, nazione infetta». I suoi discorsi nell'aula Giulio Cesare del Campidoglio analizzano in modo originale e rigoroso i meccanismi della rendita urbana e divengono presto saggi scientifici studiati dalla più moderna cultura urbanistica italiana del tempo. Natoli diede un contributo peculiare a quel movimento riformatore, forse il più ambizioso e insieme il più osteggiato della storia repubblicana. Le sue idee, infatti, furono riprese dal progetto del Ministro democristiano Fiorentino Sullo con la legge dei suoli, quel progetto - ricordiamolo - battuto da una pesante controffensiva conservatrice cui non fu estraneo il «rumore di sciabole» del generale De Lorenzo. Se avessero vinto le idee di Natoli e di Sullo avremmo forse salvato parti preziose del paesaggio italiano e oggi avremmo città più vivibili.
Il ricordo vola poi ad un passaggio decisivo della sua biografia e del dibattito interno al Partito comunista. Natoli fu infatti radiato nell'ottobre del 1969 da quel partito e insieme al gruppo de Il Manifesto nel vivo di un contrasto politico che riguardava questioni rivelatesi poi cruciali negli anni successivi: le risposte da dare ai movimenti culturali e sindacali del biennio 1968-1969, la rottura con l'Unione Sovietica e il fallimento delle esperienze dei Paesi del socialismo reale già reso evidente dai carri armati di Praga e, infine, la libertà del dissenso nel dibattito interno al partito. Natoli fu protagonista di quel duro confronto politico e culturale.
Dopo la rottura e nonostante la rottura rimase legato all'idea tipica di quella generazione che si potesse fare politica soltanto all'interno di grandi forze popolari e rifiutò di partecipare a formazioni politiche minoritarie. Abbandonò l'impegno politico diretto negli anni successivi e tornò a coltivare l'amor per la ricerca culturale motivata non tanto da astratte teorie ma dall'insopprimibile esigenza di comprendere l'epoca in cui si era trovato a vivere. Per questo focalizzò gli studi sulla storia del movimento comunista internazionale, sia sulle sue tragedie sia sulle sue migliori espressioni, da cui vennero studi importanti sulle origini dello stalinismo e sulla figura di Antonio Gramsci, interpretata in modo originale con gli occhi di Tatiana Schucht in un bellissimo libro dal titolo significativo Antigone e il prigioniero.
Da circa quarant'anni Natoli dunque non era più attivo nella politica italiana e questo ne fa oggi, secondo le mode correnti, una figura inattuale. Eppure, se pensiamo allo stato di salute non brillante di parti non secondarie del ceto politico attuale dobbiamo augurarci per il futuro che sorga una nuova generazione di politici appassionati, di politici colti, di politici sensibili ai bisogni popolari.
Se questo serve al futuro del Paese, uomini come Aldo Natoli, al di là delle ideologie che hanno rappresentato, possono essere additati come esempio ai giovani che si impegnano in politica