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ia». la Repubblica, 23 maggio 2017

Per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo Paese». Così Giovanni Falcone rispose in tv a una ragazza che gli chiedeva: «In Sicilia si muore perché si è lasciati soli. Giacché lei fortunatamente è ancora tra noi, chi la protegge? ». Erano i giorni in cui girava voce che l’attentato all’Addaura (fu trovata una borsa di tritolo sulla scogliera davanti alla sua casa al mare) lo avesse organizzato da solo per fare carriera, perché la mafia non sbaglia, se vuole uccidere uccide.

A ogni commemorazione della strage di Capaci, non posso fare a meno di ricordare che allora come oggi la grammatica comunicativa è la stessa, se non peggiore: solo sui cadaveri gli italiani riescono a esprimere una solidarietà e un’empatia disinteressate.
A chi si preoccupava perché fumasse troppo, Falcone rispondeva: «Non mi uccideranno le sigarette». Sembra un dettaglio futile, ma la storia di Giovanni Falcone dobbiamo raccontarla, per conoscerla davvero, seguendo percorsi laterali, unendo i puntini dei dettagli futili. E dettagli futili sono il veleno quotidiano e le accuse che a Falcone venivano rivolte da colleghi magistrati e da giornalisti per come lavorava e comunicava. Falcone innovatore del diritto, Falcone magistrato che dava una solidità tale alle sue inchieste da superare la più difficile delle prove, la verifica dibattimentale, possedeva doti preziose ma solo in astratto. Per queste doti - innovazione e rigore - Falcone in vita fu considerato magistrato poco ortodosso e insabbiatore. Odiato, ostacolato, disprezzato, esposto alla pubblica disapprovazione e isolato e non, come la storiografia ufficiale ci tramanda, apprezzato, rispettato, appoggiato. Questo è il torto più imperdonabile che si possa fare alla memoria di Falcone, perpetrare la menzogna di un talento riconosciuto, di un magistrato che ha lavorato con il sostegno dei colleghi e dell’opinione pubblica. Queste mie parole suoneranno odiose e vogliono esserlo perché per capire il Paese che siamo, dobbiamo sapere che Paese eravamo. E per capire che Paese eravamo dobbiamo studiare ciò che è stato fatto a Falcone in vita.
Potrebbe sembrare, a un giovane lettore, che Falcone sia stato l’uomo giusto, rappresentante dell’Italia perbene, ucciso dagli uomini ingiusti, rappresentanti dell’Italia corrotta. Non è così. La sintesi di ciò che Falcone ha dovuto subire l’ha fatta, a dieci anni da Capaci, Ilda Boccassini, il magistrato che forse più di tutti ha ereditato il suo metodo investigativo: «Non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia sia stata tradita con più determinazione e malignità». Bocciato come consigliere istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm, e - continua Boccassini - sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso.
Uno dei motori principali dell’ostilità continua verso Falcone è stato il meno citato in questi anni ed è il più abietto dei sentimenti: l’invidia. Non sembri un’esagerazione, non è una mia idea, perché questa parola - invidia - è nero su bianco in una sentenza della Corte di Cassazione nell’ambito del processo per l’attentato dell’Addaura: “Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia”. Ma come si poteva invidiare un uomo che era un obiettivo tanto esposto? Si poteva eccome, non riuscendo a eguagliare il suo rigore e il suo talento, si arrivava a detestarlo, a cercare di ostacolarlo. E soprattutto risultava insopportabile a una parte importante del giornalismo e della magistratura che lui avesse l’ambizione di raggiungere ruoli di vertice per trasformare la realtà. Meglio farlo passare per un ambizioso affamato di potere e di pubblicità.
Sapete come lo attaccavano? Esattamente con le stesse parole con cui oggi gli haters riempirebbero i social. Falcon Crest, il giudice abbronzato, il guitto televisivo, l’amico dei socialisti, l’uomo che usa la mafia a favore delle telecamere. Sino alle insinuazioni “se è in vita è perché lo ha permesso Cosa Nostra” ai cui affiliati viene così attribuito potere assoluto di vita e di morte. Una sorta di omaggio, più o meno inconsapevole, alla mafia da chi credeva, diceva o fingeva di volerla combattere. E Falcone, che abbiamo visto rispondere in televisione, non riusciva fino in fondo a credere possibile di doversi scusare per essere ancora in vita.
Giovanni Bianconi, nel suo libro L’assedio, mette in fila tutte le vili accuse e le diffamazioni possibili di cui Falcone fu oggetto e parla di una vita passata a combattere la mafia e a difendersi da tutto il resto. Falcone aveva contro i mafiosi, chi non riusciva come lui a combattere i mafiosi, e chi stava a guardare come una corrida chi vincesse tra lui e la mafia. E Cosa Nostra era lì a osservare il progressivo isolamento, ad aspettare il momento giusto per colpire. Falcone viene ucciso da direttore degli Affari Penali, mentre lavora a Roma alla costruzione della Superprocura voluta da Martelli. Quando Cosa Nostra decide di eliminarlo, manda un commando nella Capitale che sarà definito simbolicamente la Supercosa, nata per contrastare la Superprocura. Ma Bianconi scrive che Falcone a Roma è tranquillo e all’inquietudine di un amico che si preoccupa per lui risponde: «Qui sono libero di fare quasi la vita che voglio, non rischio nulla. È in Sicilia che sono un morto che cammina».
Falcone prima e Borsellino poi sapevano di avere il destino segnato, eppure non si sottrassero alla morte. Ma dobbiamo leggere e interpretare il loro martirio sapendo che non era possibile fare marcia indietro dopo tutto il sangue versato. Erano morti colleghi magistrati, poliziotti, nascondersi non si poteva, cambiare vita era troppo tardi. E allo stesso tempo, pensare a Falcone e Borsellino come due uomini rassegnati alla morte significa non comprendere fino in fondo il valore del loro sacrificio. Giovanni Falcone voleva vivere. Paolo Borsellino voleva vivere. Nessuna vocazione da parte loro al martirio, tutt’altro.
Mi capita di paragonarli a Giordano Bruno perché anche Bruno voleva vivere e quindi credendo di potersi salvare decise di abiurare. Bruno abiura più d’una volta, ma all’inquisizione non basta che taccia, che ometta, che ragioni da filosofo. L’inquisizione vuole delegittimare quello che ha scritto, verità etiche che l’uomo non può negare perché se le negasse smetterebbero di esistere. Non si tratta di negare il moto della Terra che è un dato fisico e, per quanto lo si neghi, vero. Negare verità etiche significa cancellarle. Nel teatro dell’inquisizione Bruno ha creduto di poter recitare la parte di colui che si pente, fino a quando non capisce che la posta in gioco è troppo alta, molto più alta della sua stessa vita. Anche Falcone e Borsellino sono stati costretti a difendere la verità del loro lavoro con il sacrificio, un sacrificio che non poteva essere pubblicamente rivendicato perché adesso come venticinque anni fa la delegittimazione è percepita come autentica, più autentica di ogni legittima difesa. Buonisti li chiamerebbero oggi, di quelli che senza prove certe non lanciano dardi, nemmeno contro un nemico infame come la mafia.
Falcone e Borsellino insieme a pochi, pochissimi altri, hanno combattuto contro il più feroce dei nemici sapendo che a loro non era concessa alcuna scorciatoia; sapendo che per quanto il loro nemico fosse disonesto, scorretto e potente potevano contrastarlo con una sola arma: il diritto. Solo il diritto era garanzia, solo attraverso quello si sarebbe evitato di ledere i diritti di tutti. Una grande lezione per noi oggi, che vediamo quotidianamente farne strame da chi considera il fine superiore a qualunque mezzo e il diritto un ostacolo da spazzare via.

Articoli di Filippo Ceccarelli ,Simonetta Fiori, Rossana Rossanda, Luciana Castellina.

la Repubblica il manifesto 3 aprile 2017

la Repubblica
MORIREMO COMUNISTI

di Filippo Ceccarelli

«Addio a Valentino Parlato il sorriso di un eretico tra politica e giornalismo
I suoi titoli erano piccoli grandi capolavori di sarcasmo»

È già difficile guadagnarsi il titolo di Maestro, ma nel caso del giornalismo, entità quant’altre mai opinabile e relativa, è quasi impossibile. Sennonché, per qualche misteriosa legge dei simili si può pensare — forse! — che solo un giornalista tanto più appassionato quanto più scettico potrebbe meritarsi tale dignità.

Ebbene: a sentirselo tributare, per prima cosa si sarebbe acceso una sigaretta, in silenzio. Fumava sempre, infatti, e non solo a getto continuo, ma con mite allegria qualche anno fa aveva addirittura pubblicato per i libri del Manifesto una guida,Segnali di fumo appunto, sui locali di Roma e Milano in cui era ancora consentito spipacchiare in libertà.

Quindi, aggiustandosi gli occhiali sulla fronte, da dietro la sua monumentale Olivetti 98, Valentino Parlato, Maestro di Giornalismo con doppia maiuscola, avrebbe probabilmente accolto l’onore con un sorriso dei suoi, tipici di chi considera un dovere morale non prendersi mai troppo sul serio.

Ieri se n’è andato, a 86 anni, fra gli ultimi della vecchia guardia del manifesto, “quotidiano comunista”. Il 9 aprile scorso, nel suo estremo articolo, ancora una volta aveva scritto che bisognava sforzarsi di capire questo tempo: «Sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà». Domenica aveva votato alle primarie del Pd. Ma nel novero delle sue numerose virtù si fatica a collocare Parlato nell’ambito dell’impegno politico o dell’ideologia. O meglio. Più che come coscienza critica della sinistra o eretico del comunismo vale oggi ricordarlo per le sorprendenti argomentazioni, il dono magico della sintesi e le risorse del secco periodare, il ritmo e la chiarezza del linguaggio, la cultura mai esibita e il guizzo fantastico che spesso faceva dei titoli di prima pagina piccoli, grandi capolavori di spirito polemico, elegante sarcasmo e perfino poesia.

Si può aggiungere un’inguaribile curiosità, anche a livello umano, e quel tratto di garbato distacco dalle mode che riportano più alla persona che al mestiere. Ma in lui l’intreccio appariva in realtà indissolubile: nei commenti calibrati, nella memoria, nei ricordi dispensati dietro il tavolo di qualche convegno come nelle chiacchiere davanti al bancone del Caffè delle Antille, al di là di via Tomacelli, la prima e indimenticata sede del quotidiano.

Una «bella e lunga vita», parole sue, «una storia difficile e faticosa». Valentino era nato in Libia, da genitori siciliani, e laggiù, nell’adolescenza, aveva aperto lo sguardo, generosamente, sulla miseria e le ingiustizie del colonialismo. Fino a farsi comunista e a lottare per l’indipendenza di quella gente; fino a quando, appena ventenne, nel 1951, l’amministrazione britannica non lo aveva caricato a forza su una nave e rispedito in Italia. Qui, come pure succedeva, fu “adottato” dal Pci, debitamente istruito e indirizzato verso studi economici. Per un po’ lavorò in Puglia con Alfredo Reichlin; quindi a Botteghe Oscure, nella Sezione Economia, allora dominata dalla tonitruonante figura di “Giorgione” Amendola, forse l’unico esponente del Pci, antenato della futura destra migliorista, capace di seminare dubbi e polemiche nel campo avversario.

Per sua natura indipendente, e anzi a suo modo incline agli ossimori, in tarda età si riconobbe nella definizione (datagli da Paolo Franchi) di “amendoliano di sinistra”. Ma l’ardua collocazione non dispensò il giovane Valentino dall’aderire alla corrente o frazione di sinistra che, inizialmente con l’avallo di Ingrao, diede vita al Manifesto- rivista; né poi, nel 1969, si salvò dal conseguente repulisti che lo costrinse ad abbandonare la redazione di Rinascita — «anche se — ricordava in lieta serenità — mi diedero anche la liquidazione ».

Dopo di che, insieme con Pintor, Rossanda e Castellina, divenne uno dei motori del nuovo, austero, elegante, elitario e “solitario”, come preferiva lui, quotidiano. Inutile dire che furono anni di straordinaria intensità, non solo professionale. Idee, articoli, amori, rivalità professionali, scontri generazionali, infinite discussioni, ma pure inusitati, apparentemente, pellegrinaggi in redazione, da Jane Fonda a Ciriaco De Mita.

Molti in effetti apprezzavano la libertà di giudizio di quelle pagine quasi sempre estranee ai giochi del potere e alle scorribande della finanza, animate com’erano da una passione insieme infuocata e rarefatta. Ma c’è da dire che pochi altri giornalisti, per giunta tra quanti si ostinavano a dirsi comunisti, riuscirono come Parlato a ottenere la stima e in certi casi l’amicizia di figure assai diverse fra loro e comunque ben lontane dal mondo e dai precetti del Manifesto: Cesare Romiti, il cardinal Silvestrini, Guido Rossi, Enrico Cuccia, Cesare Geronzi, senza dimenticare il Colonnello Gheddafi che, da nativo libico, Valentino sempre volle considerare — e ha fatto in tempo ad aver ragione — una soluzione di necessaria stabilità.

Inutile anche ricordare che dalla seconda metà degli anni 80 la vita del Manifesto, modello pressoché unico di giornale senza padrone e/o padroni, cominciò a farsi difficile, ma che poi continuamente, disperatamente, tra una sottoscrizione e l’altra, entrò in gioco la sua stessa sopravvivenza.
E qui Valentino, per l’assenza di pregiudizi vissuto come una sorta di ambasciatore in partibus infidelium, dovette dare fondo ai suoi rapporti, da Grauso a Tanzi, da Craxi a Capitalia. In buona sostanza si trattava di prestiti, fideiussioni, finanziamenti e altre trovate finanziarie; quanto insomma era indispensabile per scongiurare la chiusura definitiva di un’esperienza che aveva occupato l’intera sua vita e per la quale, sempre con quella grazia intelligente e quell’onesta simpatia che tutti gli riconoscevano, non esitò a spendersi nelle forme più discrete e laboriose, senza che mai facesse capolino un qualche tornaconto, meno che meno di natura personale.
Perché tanti sono i modi di essere maestri, ma al dunque i migliori sono sempre quelli che pensano agli altri.

La camera ardente sarà allestita a Roma nella Protomoteca del Campidoglio alle ore 15. Mentre la cerimonia funebre si svolgerà alle 18


la Repubblica
ROSSANA ROSSANDA
«CI HA SALVATO DALLA CHIUSURA
SU DI LUI SI POTEVA CONTARE»
di Simonetta Fiori

«Il ricordo della compagna di lotte: "Aveva grandi competenze economiche e sapeva andare d’accordo con tutti"»

«Ci saremmo dovuti vedere da me a Parigi giovedì. È stato un attacco improvviso, fulminante». Rossana Rossanda ricorda l’amico Valentino. Procede a fatica, ha appena terminato di scrivere un articolo per il Manifesto ed è molto stanca. Però si sforza, mossa da quella forza che solo i sentimenti possono dare.

Quando vi siete sentiti l’ultima volta?
«La settima a scorsa. Abbiamo commentato i risultati dell’elezione francese. Ma con Valentino non si parlava solo dei destini del mondo».

Parlavate anche di voi.

«Sì, si preoccupava per me. Anche nell’ultima telefonata mi ha chiesto se mi occorressero dei libri o altre cose».

L’umore com’era?
«Non buono. Era malandato. Non si sentiva più di scrivere, di partecipare alla vita politica. E questo lo rendeva infelice».

Però domenica ha votato alle primarie del Pd.
«Non lo sapevo. Spero non abbia votato Renzi, che io detesto».

Da quanti anni vi conoscevate?
«Dal 1966, da più di cinquant’anni. Io ero responsabile della commissione Cultura dentro il Pci, Valentino lavorava a Rinascita e faceva parte della commissione economica».

Tre anni dopo avete dato vita al “Manifesto”. E nel novembre di quello stesso anno foste tutti espulsi dal Partito.
«Sì, ma con le buone maniere. Nessuno gridò al “traditore” o al “serpente viscido”».

Ricorda Valentino in quei frangenti?
«No, ero troppo concentrata sul mio malumore».

Quando rievocava la storia del Manifesto, Parlato si distingueva per umiltà. Diceva di essere «il più modesto», quasi «una figura di secondo piano».
«No, la verità è che era molto più generoso di noi. Io sono dura e cattiva, Valentino buono e ben disposto».

Lui diceva che intellettualmente era lei la più attrezzata.
«Non si può dire questo. Nel campo della cultura economica ne sapeva molto più di noi. Era amico di Federico Caffè. E quando usciva la relazione annuale della Banca d’Italia era lui a spiegarci le cose. Io forse ero più versata nelle scienze umanistiche mentre Luigi Pintor era un giornalista magnifico, l’eccellenza ».

Con Lucio Magri non si prendevano molto. Una volta la spiegò così: «Lucio era raziocinante e incline alla teoria, io un arrangista fatalista. Due modi diversi di stare al mondo».
«Arrangista? Forse perché cercava di andare d’accordo con personalità complesse, un compito non facile. Fatalista perché preferiva evitare gli scontri cruenti. Su Valentino si poteva sempre contare».

Si fece carico della direzione del Manifesto in vari passaggi.
«E io lo affiancai in momenti diversi. Più che un giornale eravamo un gruppo di amici legato da passioni grandi. E questo è stato anche il nostro limite».

Perché un limite?
«Perché per durare nel tempo si ha bisogno di una struttura organizzata e gerarchizzata. Mi ricordo una volta che Luigi provò a mandare una lettera con una specie di ordine di servizio: bisognava stare al giornale entro una certa ora, etc etc. La redazione organizzò una manifestazione di protesta. Era nel clima di quegli anni, al principio dei Settanta: non erano ammesse le regole. Ma un giornale così non funziona facilmente».

Qual è stato il ruolo di Parlato nella storia del Manifesto?
«Fondamentale. Si è sempre occupato della gestione economica. È stato quello che ci ha salvato quando incombeva la minaccia della chiusura. Valentino è riuscito sempre a cavarsela ».

Com’erano i suoi rapporti con Pintor dentro il giornale?
«Personalità diverse, ma in sintonia. Erano entrambi convinti che prima di scrivere un articolo occorresse avere in mente un titolo. Poi l’articolo sarebbe venuto da sé. Io non ero d’accordo. E non mi sognavo di anteporre il titolo all’articolo».

Anche Pintor non aveva un carattere facile.
«Sì, Luigi e io eravamo più spigolosi. Anche nel rapporto con i collaboratori. Quando Umberto Eco cominciò a scrivere per noi, Luigi ne era come infastidito e lo mise nelle condizioni di andarsene. Valentino non l’avrebbe mai mandato via».

Un tratto che vi accomunava – ha scritto Parlato - era l’antidogmatismo. Lo stesso che vi infondeva «non solo il coraggio ma anche il gusto di dire no».
«Venendo tutti dal Pci, non poteva essere diversamente. E comunque fare per tanti anni un giornale quotidiano, senza una lira, senza un editore e senza un partito alle spalle, è stata un’impresa pazzesca. E questo ci ha resi compagni di vita, oltre che di lavoro».

Lui si è sempre ritratto come uno scettico.
«Ma era un modo di apparire più che di essere. Sicuramente era molto ironico. Ma un gruppo di scettici non avrebbe mai vissuto la nostra esperienza».

Non si perdonava il suicidio di Magri. Aveva l’impressione di non aver fatto abbastanza per dissuaderlo.
«Io ho voluto aiutare Lucio accompagnandolo in Svizzera. Con Valentino non ne ho mai parlato. È una mia mancanza. Ma sono cose di cui è difficile parlare».

Vi sentivate spesso?
«Quasi tutti i giorni. Lui pensava che io fossi troppo rigida, nel giudizio sulle persone. Lui era molto più benevolo, generoso. Mi mancherà molto».

il manifesto
PARLATO , LA GENEROSITÀ COME MODI DI ESSERE.
di Rossana Rossanda
«Il ricordo. Un economista nutrito di Settecento

Si è spento ieri notte, colpito da un malore improvviso, Valentino Parlato, il nostro amico e compagno più vicino, uno dei fondatori del gruppo del Manifesto e di questo giornale assieme ad Aldo Natoli, Lucio Magri, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Eliseo Milani e chi scrive.

Del giornale è stato parecchi anni direttore, e soprattutto vigile amico del suo destino, salvatore nelle situazioni di emergenza, oltre che naturalmente collaboratore per lungo tempo.

Valentino era nato in Libia e la sua entrata nel giornalismo italiano è stata la stessa cosa della sua adesione al Partito comunista italiano, finché non fu vittima anche egli della cacciata di tutto il gruppo del Manifesto per non essere d’accordo con la linea imperante fra gli anni sessanta e settanta. Aveva cominciato a collaborare a Rinascita assieme a Luciano Barca ed Eugenio Peggio, in quello che fu forse il più interessante periodo della politica economica e sindacale comunista, e il culmine della polemica sulle «cattedrali nel deserto», ma negli stessi anni tenne uno stretto collegamento con Federico Caffè e Claudio Napoleoni.

Tuttavia non si può limitare la sua cultura alla scienza economica; nutrito di letture settecentesche, si considerò sempre un allievo di Giorgio Colli e di Carlo Dionisotti. Portò questa sua molteplice cultura nella fattura del manifesto e nel propiziargli i collaboratori, della cui generosità si è sempre potuto vantare.

Sempre per il manifesto seguì le grandi questioni della produzione italiana (rimase celebre la sua inchiesta sul problema della casa); ma quello che lo caratterizzò in anni nei quali alle prese fondamentali di posizione nella politica del paese si accompagnarono spesso dolorose rotture, fu la grande apertura alle idee altrui, una generosità mai spenta, un vero e proprio modo di essere e di pensare che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua attività nel giornalismo.

L’aver militato per diversi anni in Puglia con Alfredo Reichlin lo aveva legato per sempre alla questione del Mezzogiorno.

Ma Valentino è stato soprattutto una specie di nume protettore del giornale, chiamato a salvarlo in ogni situazione di emergenza, pronto a lunghe attese per essere ricevuto nelle stanze ministeriali al fine di ottenere le avare sovvenzioni sulle quali il giornale ha potuto fondarsi. Tutti gli incidenti che potevano occorrere a un’impresa avventurosa e senza precedenti come la nostra ebbero in lui un dirigente e un mediatore saggio.

La sua presenza e capacità mancheranno a chi lo ha conosciuto, qualche volta perfino impazientendosi della sua benevola tolleranza per chi non la pensava come lui e come noi.

Del gruppo iniziale siamo rimasti molto pochi nel giornale mentre più vasta è stata la seminagione nei rari settori della Sinistra sopravvissuta alla crisi di questi anni.

Anche sotto questo profilo la perdita di Valentino Parlato sarà assai dura. Per non parlare del venir meno della sua amicizia ed affetto per chi, come noi, cerca ancora di stare sulla breccia.

il manifesto
IL GIORNALE SEMPRE,
PRIMA DI TUTTO

di Luciana Castellina

«Il ricordo. A lui interessava solo il manifesto, a cui ha dato più di chiunque altro tra noi, tutto se stesso»

Sono parecchie le foto del manifesto delle origini in cui appare il gruppo fondatore del giornale. Ora che Valentino è scomparso, «vive – mi dice Rossana al telefono accorata – sono rimaste solo le donne, tu ed io. Perché le donne sono più longeve».

Anche Lidia Menapace, che sebbene proveniente da tutt’altra storia politica si unì assai presto alla nostra avventura, corre ancora per l’Italia – a 95 anni – a fare riunioni. Sarà forse un vantaggio del nostro genere, ma non ne sono sicura: per me la morte di Valentino, nonostante i nostri non infrequenti litigi, è un pezzo di morte mia di cui ora, infatti, non riesco a capacitarmi. Si capisce: abbiamo vissuto accanto, per quasi settant’anni, dentro il contesto di una straordinaria vicenda politica, quella dei comunisti italiani. Prima ortodossi, poi critici, poi eretici. È per via di questa storia che Valentino, quando gli chiedevano se si definiva ancora comunista, rispondeva di sì.

Lo conobbi che aveva poco più di 18 anni ed era appena sbarcato in Italia dalla Libia: re Idriss lo aveva espulso dal paese dove era nato e vissuto, nella grande casa del nonno siciliano che in quel paese era stato colono.

Al liceo di Tripoli, assieme ad un altro gruppetto di ragazzi, era diventato comunista. Grazie a qualche insegnante mandato lì nel dopoguerra. Invano ho cercato di convincere Valentino a scrivere un libro su quegli anni libici, quando un pezzo del terribile conflitto mondiale era passato proprio da quelle campagne. I suoi racconti erano fantastici, pieni di informazioni inedite. Non l’ha scritto mai, perché così era Valentino: a lui interessava solo questo giornale a cui ha dato più di chiunque altro fra noi, tutto se stesso. Perché in 45 anni non ha mai abbandonato un momento la sua quotidiana fatica in redazione, non si è mai distratto per un altro impegno o divagazione. Anche scrivere un libro gli sembrava una perdita di tempo. E ora che, invecchiato, non era più al timone, soffriva, si sentiva svuotato.

Un aspetto curioso della sua personalità: intelligente con acutezza, ironico e autoironico, spesso addirittura trasgressivo, il tono sempre distaccato, mai un protagonismo, mai un eccesso di schieramento, mai settario, anzi talvolta dispettosamente compiacente verso il pensiero avversario (amava definirsi «amendoliano», e poi aggiungeva «di sinistra»). E però, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettati da uno così, militante a tutto tondo, sempre «al pezzo». Perché la qualità principale di Valentino – che è poi la migliore fra le qualità – era la generosità.

Nel raccontare la sua vita amava ricordare che io gli avevo trovato il primo lavoro della sua vita, per l’appunto quando approdò dalla Libia: un posto di correttore di bozze all’Unità. Ma diventò economista e con queste competenze lavorò con Luciano Barca e Eugenio Peggio alla rivista del Pci Politica ed Economia. Erano gli anni della nascita della Comunità europea, e sarebbe bello ristampare quei suoi articoli che richiamavano l’attenzione su quanto l’unificazione del mercato europeo, senza interventi pubblici correttivi, avrebbe aggravato la questione meridionale. Aveva ragione, anche se la posizione ufficiale del Pci aveva sottovalutato gli aspetti positivi del processo. Purtroppo senza continuare a dare a quella analisi la dovuta rilevanza, quando, negli anni ’60, la linea fu capovolta e si passò ad un europeismo assurdamente acritico.

Le campagne meridionali Valentino le conosceva bene, non solo per via della sua mai spenta sicilianità, ma perché prima che iniziasse la storia de il manifesto, era stato il vice segretario regionale della Puglia, cui era allora a capo Alfredo Reichlin. Furono quei due, scomparsi a così poca distanza di tempo, ad aver conquistato allora una nuova generazione di baresi impegnati nell’università e nelle case editrici – Laterza, De Donato, Dedalo – una grande novità in un partito fino ad allora tanto bracciantile. E però ad avere, ambedue, contemporaneamente sempre ripetuto che proprio da quei braccianti avevano imparato ad essere davvero comunisti.

Mi è difficile scrivere su Valentino, non avrei voluto essere io a commemorarlo anziché lui a commemorare me, come sarebbe stato giusto perché più vecchia di lui. Perché Valentino è stato per me non solo un compagno, ma un fratello. E come sapete non si chiede a una sorella, a poche ore dalla morte, di scrivere sul fratello.

Era così perché dentro il «gruppo» noi avevamo una collocazione simile e in qualche modo diversa: non eravamo giovani come i sessantottini appena arrivati, e però nemmeno anziani come Rossana, o Natoli; non autorevoli come Rossana, Lucio e Luigi, ma tuttavia «dirigenti». Per questo quando c’era qualche missione delicata da svolgere, o qualche fatto intricato su cui scrivere, e nessuno dei «big» voleva farlo, si diceva: «che lo facciano Luciana o Valentino». Per questo ci chiamavano Gianni e Pinotto.

Ho detto fratello. Perché nonostante non fosse affatto saggio Valentino è stato per me, in momenti difficili della vita, un amico saggio, capace di consigliare le cose giuste da fare nella vita. Perché mi voleva bene e gliene volevo molto anche io.

Tanto di più quando penso a questi ultimi tempi inquieti, dominati da tanto pessimismo che tracimava in passività. Lui, pur sempre un po’ scettico, non intendeva rinunciare e continuava a dirmi: dobbiamo fare qualche cosa. E come atto di fiducia, si era persino iscritto a Sinistra Italiana. «Sono tornato ad avere un partito», mi aveva detto.

La scomparsa di Valentino Parlato ci induce a riprendere dall'archivio di

eddyburg un suo saggio, che consideriamo di decisiva importanza, ancora oggi, per chiunque voglia comprendere le ragioni sociale della drammatica condizione dell'abitare in Italia, l'utilità del metodo marxiano nell'analisi sociale, e quindi nella comprensione del mondo in cui viviamo. In calce il testo del suo saggio scaricabile in .pdf

Valentino Parlato
IL BLOCCO EDILIZIO
(Il Manifesto, 1970)

Questo saggio, dimenticato e, fino al gennaio 2006, assente dalla rete, è apparso originariamente sulla rivista Il Manifesto, l n. 3-4 del 1970; è stato ripubblicato nel volume collettaneo Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Venezia 1972.
E’ di grande interesse per almeno due ragioni.
1. Perché è un esempio, mai più raggiunto, di compiuta analisi economico-sociale di una realtà sociale (il “blocco edilizio”) che ha ostacolato, e continua a ostacolare, i tentativi di governare efficacemente l’ambiente della vita dell’uomo e della società. Purtroppo il metodo dell’analisi marxista non è stato negli anni successivi né superato, né applicato al campo indagato dall’Autore.
2.Perché le realtà economica e sociale che il saggio descrive sopravvive in larga misura alle trasformazioni intervenute negli ultimi decenni nell’economia, nella società, nella politica e nella cultura.
Per incidens mi limito a ricordare la finanziarizzazione dell’economia e il rafforzato intreccio tra rendite finanziarie e rendite immobiliare a scapito del salario e del profitti; la crescente prevalenza dei “valori” individuali, la frammentazione dei corpi sociali, la graduale emarginazione dei beni comuni; la scomparsa di un’egemonia di sinistra nello schieramento di opposizione, l’accodamento al potere delle posizioni culturali una volta d’avanguardia, limpidamente testimoniato dalle posizioni assunte dell’Istituto nazionale di urbanistica. (A quest’ultimo proposito rinvio al mio Commiato dall’INU, i cui argomenti gettano forse qualche luce sull’atteggiamento attuale del gruppo dirigente dell’INU) (eddyburg, 1° gennaio 2006).

Il Blocco edilizio
di Valentino Parlato

Può anche apparire singolare, ma in Italia – dove la parte di ispirazione marxista ha tanto discusso e discute di processi di formazione di un nuovo blocco storico – manca, quasi del tutto, un’analisi del blocco storico esistente, quello dominante, che sarebbe necessario conoscere e disaggregare. Questa considerazione, non priva di significato culturale e politico, vale anche per la complessiva questione delle abitazioni, rispetto alla quale solo di recente, e di passaggio, a un convegno del PCI è stato detto che intorno ad essa “si cementa un blocco sociale, che è una delle cerniere essenziali del blocco di potere dominante”. Questa analisi però continua a mancare, nonostante che già un secolo fa Engels – schematicamente quanto si vuole – avesse individuato proprio questa capacità aggregante della questione, quando – in polemica con la rivendicazione proudhoniana di trasformare il canone di fitto in canone di riscatto – sosteneva che “gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato”. Al riguardo si può aggiungere che nello stesso arco della nostra esperienza (pensiamo alla secca liquidazione della legge Sullo) non ci sono mancate prove della potenza d’urto di questo esercito.

Fatte queste constatazioni di assenza, resta tuttavia da aggiungere qui – per difficoltà oggettive e soggettive – non si intende offrire al lettore una compiuta analisi di quel che si potrebbe definire “il complesso edilizio”, ma solo un avvio di questa analisi, nella forma di una serie di schematiche osservazioni relative alle stratificazioni che fanno parte, o sono in qualche modo subordinate, a questo “complesso” e ai legami, anche sovrastrutturali, che sono condizione della sua conservazione. Ma prima di addentrarci in queste osservazioni appaiono utili alcune sommarie informazioni sulla entità e le caratterizzazioni dell’“affare casa”.

Nel 1968 il prodotto lordo al costo dei fattori del settore costruzioni (fondamentalmente a uso residenziale) è stato pari a 3.341 miliardi di correnti, cioè di non molto inferiore al prodotto dell’agricoltura (4.096 lordi) e sensibilmente superiore a quello dell’industria meccanica (2.790 miliardi ). Se poi al prodotto lordo dell’industria delle costruzioni aggiungiamo quello del settore fabbricati residenziali (cioè l’ammontare dei fitti pagati per l’uso del patrimonio edilizio esistente), che ammonta a ben 2.310 miliardi di lire, arriviamo a una somma complessiva di 5.651 miliardi, largamente superiore a quella del prodotto dell’agricoltura e pari a un po’ più del 15% del prodotto nazionale lordo complessivo. Tale rilevanza economica del settore viene confermata e sottolineata dalla sua incidenza (30% circa nella media degli ultimi dieci anni) sul totale degli investimenti fissi lordi e sul totale delle spese per consumi finali (quasi il 10% nel 1968). Si può ancora aggiungere che dall’edilizia dipendono totalmente produzioni non trascurabili come quelle del cemento, dei laterizi, del legno e dei mobili, e dipendono in larga misura molte produzioni del settore meccanico. Per ultimo si può considerare economicamente significativo anche l’elevatissimo indice di gradimento che, a livello locale e nazionale, hanno assessorati e ministero ai lavori pubblici. La consistenza economica e le ramificazioni del complesso fondiario industriale-finanziario dell’edilizia appaiono evidenti.

Nonostante le profonde interrelazioni tra pubblico e privato, il segno di questo settore è tuttavia nettamente privatistico. Il settore dell’edilizia, proprio dal punto di vista della produzione e della proprietà, è tra i più privatizzati della nostra economia. Il patrimonio edilizio esistente è quasi integralmente privato e, quanto alla produzione, si ricordi che mentre nell’industria gli investimenti fissi lordi si ripartivano tra imprese private e pubbliche rispettivamente nella misura del 64,6% e del 35,4%, nel settore delle costruzioni, invece, l’incidenza degli investimenti pubblici, in tutto il periodo che va dal 1962 al 1968, si è aggirata tra un minimo del 4,1% a un massimo del 7,4%. Tale carattere privato del settore risulta ancora più evidente dal confronto con gli altri paesi nei quali la incidenza dell’intervento pubblico è di gran lunga superiore. Questa assoluta prevalenza privata non deve però indurre nell’errore di credere che l’intreccio tra pubblico e privato sia di scarsa rilevanza: esso si realizza, ed è fonte di grandi affari e di spostamenti di convenienze, attraverso l’intervento normativo, i piani regolatori e particolareggiati, la predisposizione dei servizi pubblici, le grandi opere pubbliche, la politica fiscale e creditizia ecc. Dopo avere sommariamente indicato dimensioni economiche, ramificazioni e carattere privatistico del complesso edilizio, si tratta di individuare le aggregazioni sociali e le articolazioni economiche e culturali che compongono il blocco. Secondo rapporti di maggiore o minore o subordinazione, in questo blocco si raccoglie un coacervo di forze che fa pensare ad alcune pagine del “18 brumaio di Luigi Bonaparte”.

Ci sono tutti: residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, oppure che ritengono di risparmiare in avvenire sul fitto pagando intanto elevati tassi di interesse, grandi imprese e capimastri, cottimisti ecc. Un mondo nel quale, all’infuori di poche sicure coordinate (quelle di sempre, della potenza economica e del potere politico) vasta è l’area magmatica delle improvvise fortune e della prigione, del triste esproprio (pensiamo solo alla sorte di molti piccoli proprietari di case a fitto bloccato). Un mondo, però, che si tiene saldamente insieme strumentalizzando – per rafforzare i più solidi legami di interesse economico – il fanatismo dell’ideologia della casa, la drammatica necessità di ottenere una casa anche a costo di sacrifici, la necessità di avere un lavoro: il contadino fattosi edile, di fronte alla minaccia di non lavorare, è naturalmente portato a considerare inutili e dannose sottigliezze tutti i perfezionamenti democratici dei regolamenti edilizi. Il fatto che questo sistema non sia in grado di dare la casa a tutti finisce con l’essere la condizione di forza del “complesso edilizio”.

1. Fino a oggi i contingenti decisivi dell’esercito conservatore, che i capitalisti si allevano contro il proletariato sono stati sostituiti dalla vasta massa dei proprietari di abitazioni. Nel più recente rapporto del CENSIS sulla situazione sociale del paese si legge:

«solo una parte dell’offerta di abitazioni è collocata, in proprietà o in affitto, presso gli utilizzatori finali del bene abitazione: una quota rilevante, pari, secondo stime relative agli ultimi anni, a circa un terzo viene invece acquistata da piccoli e grandi risparmiatori a scopo di investimento».

Si può quindi calcolare che quasi centomila abitazioni all’anno siano andate ad accrescere il patrimonio di questi “risparmiatori”, che sono le truppe scelte dell’esercito conservatore e il cui numero, per proporzionalità alle centinaia di migliaia di case che compongono questo monte, va certamente oltre l’ordine delle decine di migliaia. Vi è poi la sterminata fanteria di coloro i quali sono proprietari degli appartamenti nei quali abitano (tra questi rientrano anche coloro che posseggono qualche o molti altri appartamenti oltre quello in cui abitano). Si tratta di una massa in continua e rapida crescita: 4.301.000 nel 1951 5.972.000 nel 1961, 7.562.000 il 20 gennaio del 1966; dall’andamento degli impieghi bancari e degli istituti speciali risulta che la crescita si è ancora accelerata nel 1967 e nel 1968.

La concentrazione delle case in proprietà è, comprensibilmente, maggiore nei comuni non capoluoghi che in quelli capoluoghi, nel Mezzogiorno più che nel triangolo industriale. Questo dato richiama inevitabilmente la questione del rapporto città-campagna (che è chiave rispetto al problema abitazioni) sulla quale occorrerà ritornare.

Le statistiche non dicono nulla sulla figura sociale degli oltre 7,5 milioni di proprietari di case; si limitano a darci le percentuali della distribuzione degli oltre 6 milioni di case in fitto a seconda della condizione professionale o non professionale del capofamiglia. Relativamente al 1966 dati, nell’ordine, sono i seguenti: imprenditore 0,5%; liberi professionisti 0,9%; dirigenti 1,3%; lavoratori in proprio 13,9%; impiegati 12,0%; lavoratori dipendenti 46,1%; coadiuvanti 0,5%; pensionati 20, 2,%; benestanti 0,3%; altri 4,3%.

Questi soli dati sono insufficienti a conclusioni socialmente qualificate, tuttavia se ne possono trarre almeno due indicazioni: la prima è la conferma che il problema dell’affitto interessa fondamentalmente (quasi nella misura dell’80%) i percettori di reddito fisso, lavoratori dipendenti, impiegati e pensionati; la seconda – alla quale si giunge anche attraverso un confronto tra la distribuzione percento e delle case in affitto e la distribuzione percentuale della popolazione totale secondo la condizione professionale e non professionale – conferma anch’essa ciò che si può facilmente intuire, e cioè che la massa prevalente dei proprietari è costituita da imprenditori, liberi professionisti, dirigenti, lavoratori in proprio e impiegati. Questa conclusione – che conferma quella derivante dalla scarsa incidenza dell’edilizia pubblica – contribuisce a dare una qualificazione sociale a quella che è stata qui definita come la fanteria del “complesso edilizio”: la massa rilevante dei proprietari di appartamenti (in generale di un solo appartamento o al massimo di due), più intensa nel centro-sud e nei comuni minori, è costituita fondamentalmente da ceti medi – e medio-alti – professionali, commerciali, imprenditoriali e impiegatizi, venuti in possesso di uno o più appartamenti o per precedente accumulazione familiare, o per aver varcato una soglia di reddito (o di sicurezza di reddito) che ha consentito l’acquisto in contanti o il versamento di una prima quota (aggirantesi grosso modo intorno al milione di lire) e quindi l’impegno di continuare a pagare per quindici o venticinque anni.

Va poi osservato che, in generale, la possibilità di acquisto di un appartamento si accompagna a uno status che consenta accesso o agevolazioni al credito. In sostanza la possibilità di acquisto presuppone condizioni di privilegio anche minimo, ma precluse alle masse lavoratrici: la proprietà della casa diventa, cioè, nell’attuale contesto, per un verso un elemento di distinzione sociale e per l’altro un aggregante, in senso conservatore, di quel complesso di stratificazioni, che – in modo piuttosto indeterminato – va sotto la definizione di ceto medio, al punto che si potrebbe concludere che è impossibile fare una politica di segno progressivo nei confronti del ceto medio senza sciogliere il nodo della casa, e che è impossibile affrontare il problema della casa senza – quanto meno – neutralizzare il ceto medio.

2. Al di sopra di questo schieramento di massa, vi è il gruppo dominante in verità eterogeneo e non fortemente coeso, almeno nelle sue pur consistenti frange marginali.

Ci sono i proprietari di grossi patrimoni immobiliari e gli speculatori, i padroni di piccoli orti suburbani, gli imprenditori che non sono sempre imprenditori soltanto, i gruppi finanziari privati e pubblici. La categoria dei puri proprietari di aree, non numerosa ma decisiva, grosso modo dalle prime fasi del boom edilizio fino al 1964, viene ora perdendo di peso in rapporto all’ingresso nel campo edilizio dei maggiori gruppi industriali del paese.

Il nucleo determinante di questo raggruppamento è sempre più nettamente costituito dalle società immobiliari, e più di recente, da società specificamente commerciali. Nelle società immobiliari la accumulazione di veri e propri demani di aree si unisce all’attività di costruzione e a quella finanziaria, sia per la raccolta di fondi di investimento, sia per il credito (a carissimo prezzo) praticato agli acquirenti a riscatto. Attorno a questo nucleo centrale si può calcolare vi siano un po’ meno di 50.000 imprese di costruzione e di installazione che assolvono, per una loro larga parte, il ruolo di imprese marginali e costituiscono una vera e propria fascia di copertura, destinata a essere sacrificata nei periodi di cattiva congiuntura. Vi è poi una massa consistente di piccoli speculatori, di intermediari, di procacciatori di favori ecc. Un mondo che non ha riscontri nell’industria vera e propria e che è specifico della persistente condizione di arretratezza e parassitismo del settore. (Il meccanismo di realizzazione della rendita continua a trascinarsi appresso forme di impronta feudale, ma si tratta pur sempre di un mondo esistente, niente affatto disposto a perire silenziosamente, da solo).

Descrivere e quantizzare il gruppo dominante richiederebbe, quanto meno, alcune ricerche dirette che mancano, ma in via di approssimazione possono avanzarsi due osservazioni.

A. Nel nucleo dominante del “complesso edilizio” si realizza uno dei collegamenti centrali tra le varie componenti dell’attuale potere borghese. Le dimensioni dell’“affare casa” sono tali da far superare ogni pregiudizio di modernità, e nel campo edilizio giocano tutti: per le grandi società assicurative l’investimento immobiliare risponde addirittura a un canone di buona amministrazione, ma intervengono anche i maggiori gruppi industriali e ci sono arrivate ormai, e con grande ampiezza di vedute (dalla tangenziale, al prefabbricato, alla società immobiliare), anche le imprese a partecipazione statale.

La saldatura-collusione con i pubblici poteri si realizza attraverso i piani di opere pubbliche, che sono uno degli esempi più realistici della concentrazione programmata: dato socialmente oggettivo rispetto al quale la proposta di un “buon governo” è solo illusione di resuscitare miti. Basterebbe soffermarsi su due o tre delle maggiori società immobiliari per mettere in evidenza questi collegamenti e offrire al lettore anche qualche dato interessante, ma si tratta in generale di fenomeni noti.

Quel che qui si vuole sottolineare è che ci troviamo oramai di fronte a un intreccio di interessi e di forze, consolidato sulla realizzazione di un dato surplus, nel quale si intrecciano, e si confondono in verità, forme diverse di rendita con interesse e profitti industriali e commerciali. Questo surplus viene realizzato in una generalizzata situazione di monopolio rispetto a un bene, la casa, il cui mercato, per le specifiche caratteristiche del bene (dove c’è una casa non può essercene un’altra, non trasportabilità ecc.), è tipicamente monopolistico e si svolge secondo le più dispendiose forme di concorrenza monopolistica (differenziazione del prodotto nelle sue infinite possibilità: dal tipo di casa, alla sua localizzazione in quartieri socialmente differenziati ecc.). In questa situazione di mercato monopolistico, e nella quale la rendita (nelle sue varie forme) non è più appropriazione esclusiva del proprietario fondiario, il solo esproprio generalizzato può non essere sufficiente (anzi è assai improbabile che lo sia) a ridurre radicalmente (o nella misura oggi attribuita all’incidenza della rendita) il prezzo di uso della casa. Se non si spezza l’aggregato di potere che si esprime nel “complesso edilizio” anche l’esproprio generalizzato rischia di pervenire allo stesso risultato cui è pervenuta l’accresciuta offerta di aree fabbricabili da parte dei comuni emiliani. Come ha scritto Giuseppe Campos Venuti:

«Lungi dall’abbassare il costo dei suoli edificabili, l’abbondanza di aree sul mercato vuol dire soltanto portarle tutte al massimo costo sopportabile dagli utenti, costretti a cedere al ricatto della insopprimibile fame di case che si crea in una società caratterizzata dal fenomeno dell’urbanesimo accelerato».

Del resto, nella nota situazione di penuria di case esistente a Roma non vi sono forse 30.000 abitazioni non utilizzate?

B. Questo blocco, specie con l’ingresso recente nel settore dei maggiori gruppi industriali, si prepara ad attraversare una fase di tensioni sia all’interno di quello che si definisce il nucleo dominante sia nei rapporti tra questo e la sua base di massa. Le categorie come rendita o profitto non sono quantità rispetto alle quali si possono fare sottrazioni o addizioni, ma concreti rapporti sociali che vanno sciolti con uno scontro; per questo occorre guardare ai nuovi elementi di tensione che possono favorire una disgregazione del blocco centrale, se non si vuole correre il rischio di finire con l’attaccare quel guerriero, di cui dice il poeta, che continuava a combattere ed era già morto. Questo è infatti il rischio che si corre quando si pensa di concentrare i propri colpi sulla rendita, e su coloro che si appropriano della sola rendita, nell’illusione di potere restaurare un mercato libero-concorrenziale delle abitazioni, è il rischio che si corre quando si sottovalutano le caratteristiche monopolistiche del mercato delle case e l’incidenza diretta che su questo carattere monopolistico ha, e avrà ancora in futuro, la determinazione storica del bene casa e del suo uso.

3. Rispetto al complessivo “blocco edilizio”, una posizione a sé stante, fondamentalmente antagonistica, ma col pericolo di essere a volte subordinata, ha la massa degli edili, tra le più sfruttate, ma anche tra le più coinvolte. Nel settore delle costruzioni lavorano circa due milioni di persone, nella grande maggioranza edili; questi lavoratori, in buona parte di recente provenienza meridionale o agricola, sono distribuiti in una miriade di aziende di varia dimensione e tra loro diversamente collegate (subappalto dell’impresa maggiore alla minore o, addirittura, semplice fornitura di forza-lavoro da parte di quest’ultima). All’interno della stessa organizza-zione del lavoro esiste una forte gerarchizzazione di fatto (la catena del cottimo), che è causa di divisione interna della categoria; la sicurezza della continuità del lavoro è fortemente soggetta ai cicli stagionali e congiunturali e ai casi della legislazione (legge-ponte per esempio).

Tutte queste cause di debolezza oggettiva e soggettiva comportano che le condizioni di lavoro siano subcontrattuali per moltissimi lavoratori (nella provincia di Milano, che non è certo tra le più arretrate, si calcola che il 30-40% degli edili subisca, in forme diverse, “gravi evasioni” alle norme regolanti il rapporto di lavoro). Una seconda conseguenza delle indicate ragioni di debolezza è costituita dalla permanente minaccia di subordinazione e strumentalizzazione: i casi di utilizzazione della massa degli edili come strumento di copertura o di pressione per deroghe ai regolamenti edilizi o ai piani regolatori, o contro leggi che possono ledere gli interessi del “complesso edilizio” fanno parte delle cronache del nostro paese.

Si aggiunga che proprio: a. la bassa composizione organica del capitale, b. la relativa brevità del ciclo produttivo; c. la coincidenza delle funzioni di speculatore, costruttore e commerciante nella stessa persona o gruppo, consentono ai boss dell’edilizia una elasticità di manovra nei confronti dei lavoratori assai maggiore di quella degli industriali veri e propri. Nel tenace e soffocante sistema di ricatto che tiene unito il vasto ed eterogeneo aggregato del “complesso edilizio” si realizza una pressione continua alla corporativizzazione coatta della categoria degli edili. Anche in questo caso però deve osservarsi che le trasformazioni produttive, che ormai si annunciano nel settore, insieme a prospettive di difficoltà e di tensione, prospettano anche la possibilità di accentuare e rendere più netto il contrasto di classe tra proletario e capitalista, che è specifico al rapporto di lavoro dell’edile.

L’obiettivo politico, proprio in rapporto al problema della casa non ci pare sia tanto quello di impegnare gli edili in lotte per la riforma, quanto piuttosto di rafforzarne il potere contrattuale e quello relativo ai modi di organizzazione del lavoro, in modo da impedirne l’uso strumentale da parte del padronato.

Queste componenti sociali del cosiddetto blocco edilizio, oltre che da ragioni immediatamente economiche, sono tenute insieme anche da legami che possono considerarsi sovrastrutturali: la famiglia, i modelli culturali e il consumo.

L’attuale modo di abitare sarebbe certo del tutto diverso ove l’attuale famiglia fosse stata superata e, per converso, si può anche sostenere che una soluzione sociale del problema delle abitazioni non è possibile fino a quando la famiglia imporrà un certo uso della casa. La famiglia è ancora un centro di rapporti di riproduzione, storicamente determinati, e di produzione di servizi; è un centro di consumi individuali; un rifugio di fronte alle difficoltà e alle durezze della vita nella società. Queste funzioni famigliari si rispecchiano nettamente nelle forme assunte dal bisogno (in origine naturale) di abitare; è un punto questo sul quale ha esattamente ragione Adorno quando dice: «A che punto siamo con la vita privata si vede dalla sede in cui dovrebbe svolgersi».

Ma non si non si tratta solo di questo. Come la famiglia non si è ancora liberata del tutto da funzioni di produzione e di accumulazione, così la casa non è ancora soltanto un bene di consumo, resta ancora un bene capitale, occasione di investimento privato (anche forzato o poco conveniente come per gli acquisti a riscatto) che continua a mantenere sostenuto il mercato, salda la difesa della rendita, tenace la resistenza alla socializzazione della casa.

Le funzioni di rifugio privato e di centro di consumi privati hanno nell’attuale abitazione privata la loro massima esaltazione e, nella misura in cui, trasformandosi in bene di consumo, la stessa abitazione diventa un esaltazione di consumo socialmente improduttivo. L’abitazione si imbottisce di beni di consumo sempre più costosi e sempre più scarsamente utilizzati; diventa – alle varie scale – momento di raffinamento continuo dei bisogni privati da un lato e quindi, dall’altro (in un sistema capitalistico) momento coattivo di imbarbarimento e di astratta semplificazione dei bisogni. Il risvolto di questa abitazione, bene e centro di consumo, momento di progressivo raffinamento del bisogno privato è quello, sia pur con iperbole giovanile, lucidamente indicato da Marx:

«Lo stesso bisogno dell’aria aperta cessa di essere un bisogno nell’operaio; l’uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria è però viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando essa per lui un’estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare. La casa luminosa, che, in Eschilo Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l’operaio [... ] e parimenti il povero apprende che la sua dimora è qualitativamente opposta alla dimora umana che ha sede nell’al di là, nel cielo della ricchezza».

In questo senso spingono le forze di natura del capitalismo: negli Stati Uniti, insieme al proliferare degli slums accade che non i miliardari, ma anche la middle class si costruisca casette unifamiliari negli stili più inutilmente bizzarri. La struttura del monopolio e l’ideologia della fase monopolistica spingono in questo senso: da una parte la differenziazione del prodotto, dall’altra il principio di distinzione sociale; congiuntamente la distribuzione di surplus e la creazione di sacche di miseria, di fasce di marginali.

La citazione di Marx è solo una indicazione e l’Italia, per varie ragioni, è ancora diversa dagli USA, ma pure nel nostro paese le indagini sulle condizioni abitative non solo dei marginali ma anche di larga parte dei ceti operai non offrono quadri luminosi, e gli esempi di differenziazione di prodotto in rapporto al bene e ai beni di consumo domestico diventano sempre più frequenti.

Del tutto al di fuori del blocco del cosiddetto “complesso edilizio” sono gli inquilini e i cittadini senza casa, i baraccati, gli abitanti alloggi impropri. I primi – come tutti sanno – numerosissimi, da un punto di vista sociale non sono niente: sono soltanto un disaggregato sociale. Non solo va respinta la facile assimilazione del rapporto tra inquilino e padrone di casa a quello tra proletario e capitalista, ma ancora va chiarito – nonostante l’elevato livello del fitto solleciti iniziative più generali – che l’unificazione di base tra inquilini (per contrattare il fitto o altre condizioni di locazione) può realizzarsi soltanto tra persone che abbiano l’elemento aggregante non solo nel contratto di fitto, ma anche nel rapporto di lavoro e nella condizione sociale, cioè in una specificità effettiva, tale che la lotta per la riduzione del fitto non muova da un rapporto mercantile fondamentalmente astratto (padrone di casa-inquilino), ma dal rapporto di lavoro concreto che qualifica socialmente la lotta. Va però sottolineato che il livello raggiunto dai fitti consente, nell’immediato, una serie di iniziative da parte di inquilini abitanti in quartieri anche socialmente eterogenei.

I cittadini senza casa che sono tanti e concentrati soprattutto nelle grandi città, sono quello che negli Stati Uniti si definisce il “proletariato urbano” (o i negri), sono un analogo dei contadini senza terra nelle campagne e, proprio in quanto testimonianza vivente della incapacità di tutti i capitalismi di risolvere il problema, sono il ferro di lancia nella lotta anticapitalistica per la casa. Sono le forze che lottando per conquistarsi la casa, oggettivamente (e con un livello di coscienza certamente più elevato di chi può acquistarsi l’uso della casa sul mercato capitalistico) negano l’assetto capitalistico della società e pertanto portano in germe (nonostante la degradazione culturale e le alterazioni di valori intrinseche alla miseria in una società di ricchi) forme e modi di uso della casa di segno non capitalistico, che comunque vanno oltre l’orizzonte borghese dell’uso individualistico e privatistico della casa. Del resto nelle baracche e nelle coabitazioni il capitale fa ogni giorno giustizia sommaria degli ideali di “focolare”, e di “nido”, e anche di “famiglia”. Ma le forze dei “baraccati”, dei soli cittadini senza casa non bastano a vincere in questa lotta anticapitalistica.

Come la lotta dei contadini senza terra raramente ha superato la soglia della jacquerie, così le impetuose occupazioni di questi mesi rischiano di diventare una guerra contadina, di esaurirsi in una serie di scontri, o nella precaria conquista di alcuni edifici. L’articolazione e la forza del “complesso edilizio”, il peso delle sue componenti, la tenacia e profondità dei suoi leganti, economici e non economici, e soprattutto l’indissolubile dipendenza della penuria di case dall’esistenza del sistema capitalistico comportano che l’offensiva dei cittadini senza casa, per essere efficace, debba iscriversi in una più vasta articolazione di lotte, che investano tutti i gangli dell’attuale equilibrio capitalistico e abbiano obiettivi al livello delle trasformazioni e delle contraddizioni in atto.

Ora, l’attuale situazione si caratterizza da una parte per la persistente esasperazione e offensiva di una importante avanguardia, costituita dai cittadini senza casa, e dall’altra dalla prospettiva di tensioni all’interno del nucleo dominante il “complesso edilizio”, quanto meno per l’ingresso in campo di nuove forze imprenditoriali, private e del capitalismo di stato. Questo ingresso provocherà tensioni all’interno delle forze attualmente dominanti il mercato edilizio e investirà necessariamente la massa degli edili, che dovrà ridiscutere i suoi rapporti col padronato e quindi sarà impegnata in lotte di grande peso. Contemporaneamente è registrabile in alcune sfere di comando della nostra economia (discorsi di Petrilli, di Carli, di Agnelli) la coscienza che l’elevato costo delle case (che aumenta necessariamente il prezzo della forza lavoro), dato l’attuale livello del potere rivendicativo della classe operaia, incide negativamente sulla redditività e competitività della industria. Nell’ipotesi quindi che la classe operaia non subisca, nel breve periodo, gravi sconfitte, è assai probabile che l’intervento pubblico e privato nel settore edile provochi un arresto o anche una lieve flessione nella dinamica ascendente dei fitti e della valorizzazione delle abitazioni di livello medio-basso. In questa ipotesi (che non sarebbe diversa dalle cicliche espropriazioni dei risparmiatori che hanno investito in case), la potente fanteria dei piccolo-medi proprietari di casa avrebbe fatalmente degli ondeggiamenti (basterebbe uno spostamento del risparmio verso gli investimenti in obbligazioni, in molti casi già oggi più convenienti) e il gruppo di potere sarebbe indebolito proprio nella sua decisiva base di massa.

Queste affrettate ipotesi non vogliono delineare una illusoria prospettiva di automatico crollo del “complesso edilizio”, ma la prospettiva di un allentamento della sua coesione e la possibilità di riaggregare in un blocco alternativo parte delle forze che oggi lo compongono, e che le politiche per la casa fin qui fatte (emerge così anche l’inefficacia della politica nei confronti dei ceti medi e delle città meridionali) hanno invece consolidato, o ingrossato.

La possibilità di disaggregazioni e riaggregazioni sottolinea la necessità e l’urgenza di elaborare e costruire una linea efficace, e quindi alternativa a quella riformista, fallita. Una linea alternativa non si inventa: viene prendendo forma, nel corso del tempo, attraverso le esperienze del movimento, la riflessione, il confronto polemico, anche. Nel numero 3-4 del “ Manifesto”, dalle schede, dagli articoli, dall’esame della forma della rendita, emerge già un primo abbozzo di linea alternativa, del quale cerchiamo qui di isolare i tratti essenziali. E va ricordato che a rendere alternativa una linea non basta, né è necessario, l’attribuzione di un obiettivo “più avanzato”. Non occorre essere strutturalisti per capire che il segno di una linea dipende dalla organizzazione dei suoi obiettivi e dai rapporti intercorrenti tra obiettivi e forze sociali. Così una linea che non si fondi su una analisi (e su una organizzazione) delle forze sociali e non consideri l’obiettivo come momento di aggregazione e potenziamento di uno schieramento socialmente qualificato, ma punti invece, sostanzialmente, a sommare rivendicazioni (quando non addirittura proposte) con un riferimento socialmente indeterminato (programmi d’opinione pubblica o programmi genericamente antimonopolisticì) potrà forse essere utile in una fase di difesa, ma sarà sempre una linea verticistica (con netta separazione tra momento sociale e momento politico) e riformista.

Schematizzando al massimo, questa linea si caratterizza per cinque qualificazioni: A. essere anticapitalistica; B. avere come sua avanguardia i lavoratori privi di abitazione e gli inquilini poveri aggregati in base alla loro qualificazione sociale; C. fondarsi su un movimento di vertenze sociali autogestite; D. avere l’obiettivo della casa come servizio sociale, rompendo quindi l’attuale tipizzazione privatistica del prodotto casa e del suo uso; E. avere l’obiettivo della nazionalizzazione del settore edile, oltre all’esproprio generalizzato delle aree.

Di questi punti, esaminati anche negli altri articoli, qui si considerano rapidamente solo il primo e gli ultimi due:

A. Caratterizzare come anticapitalistica la lotta per la casa consegue alla constatazione che il capitalismo in nessun paese è stato finora in grado di assicurare una abitazione abitabile a tutti, e quindi che il problema non si risolve attraverso riforme, ma solo attraverso il rovesciamento del sistema. Le prevedibili obiezioni di nullismo appaiono concretisticamente miopi e avvocatesche. La risposta più facile sarebbe nel dire che il più grosso concentrato di nullismo politico si trova nelle opere di Marx, o che ripubblicare la Questione delle abitazioni di Engels senza una prefazione che spieghi come con la GESCAL o con l’attesa legge urbanistica sia cominciata o comincerà una nuova fase del capitalismo, sarebbe prova di massimalismo intellettualista. E a voler rimanere sempre ai primi elementi di marxismo si potrebbe ancora ricordare che in Salario, prezzo e profitto, Marx – che pure aveva particolarmente insistito sul fatto che il proletariato si sarebbe liberato solo attraverso la distruzione del capitalismo – non ritenesse tutto ciò incompatibile con la lotta operaia per migliorare i salari reali. Dire che questa lotta deve essere anticapitalistica se vuole avere un senso, significa avere chiarezza del problema e quindi della necessità di condurla in connessione con le altre lotte (che debbono essere anch’esse di segno anticapitalistico), quelle operaie e quelle per la conquista di alcuni strati di ceto medio (gli statali per esempio), quelle contadine e quelle meridionali. Significa che questa lotta deve avere, per essere efficace, un respiro ideale e culturale comunista, che deve alimentare – traendone forza essa stessa – un contropotere di classe. Proprio nel caso delle abitazioni vale ripetere che «l’opposizione tra la mancanza di proprietà e la proprietà, sino a che non è intesa come l’opposizione tra il lavoro e il capitale, resta ancora una opposizione indifferente».

D. Fare della casa un servizio sociale comporta assicurare a tutti l’abitazione in base ai bisogni di ciascuno: è un obiettivo comunista, ma raggiungibile, e già oggi può consentire di migliorare le condizioni di abitazione degli strati inferiori della società. Le esperienze del boom e le decine di migliaia di case vuote dimostrano che non ci troviamo di fronte ad impossibilità per carenza di capacità produttive in astratto, ma ad impossibilità derivanti dai modi di operare di queste capacità, dai profitti o sovraprofitti e sprechi da eliminare. L’ingresso nel settore edilizio di grandi gruppi imprenditoriali annuncia una industrializzazione e una più spinta tipizzazione della produzione; la rivendicazione della casa come servizio sociale può consentire di intervenire su questa tipizzazione e sulla sua graduazione contrastando, sulla base di una impostazione egualitaria, una differenziazione del prodotto in base ai livelli di reddito e cercando di ottenere che la stessa necessaria tipizzazione corrisponda a scelte autonomamente elaborate dagli utenti delle case e dagli architetti. Non si tratta qui di definire modelli di case per il futuro, ma di tornare a ribadire che, in quanto consumo sociale, l’abitare si deprivatizzerà e casa e città dovranno assicurare ricchezza di libertà individuale e intensità di rapporti sociali nel senso di Marx, quando scrive del “comunismo come soppressione positiva della proprietà privata” e dei modi privatistici di vita a quella conseguenti. L’abitare inteso come consumo sociale comporta che la tipologia delle nuove abitazioni, e quindi delle città, si liberi dalla rigidità che ha dominato per secoli e che ancora oggi crea frizioni costose tra modi di costruzione e modi di abitare, di studiare, di curarsi, ecc. Al di fuori della futurologia si vuole solo affermare che casa e città dovranno essere tra l’altro adattabili al variare delle esigenze sociali.

E. Per nazionalizzazione del settore edile deve intendersi che le abitazioni avranno un regime analogo a quello delle scuole, che sono un bene pubblico. Non si tratta, neppure in questo caso, di definire i particolari del futuro, ma di limitarsi ad alcune indicazioni, per esempio che non appare utile estendere la nazionalizzazione al patrimonio edilizio esistente (che col passare del tempo dovrebbe esaurirsi) limitandola invece alle nuove costruzioni. La nazionalizzazione delle cose di nuova fabbricazione è, da una parte una logica conseguenza della rivendicazione, ormai diffusa, che si esprime nella formula “casa come servizio sociale”, e, dall’altra, è una condizione necessaria perché l’agganciamento del canone di fitto alle possibilità di pagamento dell’utente (e anche questa è una rivendicazione diffusa) non dia luogo alla creazione di una serie di ghetti rigidamente distinti a seconda dei livelli di reddito. Vi sono evidentemente una serie di problemi, da quello dell’assegnazione (che potrebbe avvenire anche attraverso simulazioni di mercato) a quello del finanziamento (che potrebbe ricadere sugli utenti o sulla società nel suo complesso), ma si tratta di questioni che troveranno soluzione soltanto nel corso della lotta per la casa e delle altre lotte, nella misura in cui quella e queste andranno avanti. Ma se si vuole che chi non ha abitazione possa conquistarsela e chi la ha possa riappropriarsi di un uso “umano, cioè sociale” della abitazione, crediamo proprio che la via da seguire sia quella, nella quale il cambiamento del modo di produzione si accompagni al cambiamento della natura del prodotto.

Cliccate qui sotto per scaricare il testo integrale:
Valentino Parlato, Il Blocco edilizio, 1970

Dal Sapere al Comprendere, dal Comprendere al Sentire, e viceversa: dal Sentire al Comprendere, dal Comprendere al Sapere. Anche eddyburg ricorda Antonio Gramsci, nell'anniversario della sua morte (i.b.)



Dal Sapereal Comprendere, dal Comprendere al Sentire,
e viceversa
Passaggiodal sapere al comprendere al sentire e viceversadal sentire al comprendere al sapere.

L’elemento popolare «sente», ma noncomprende né sa; l’elemento intellettuale «sa» ma non comprende e specialmentenon sente. I due estremi sono dunque la pedanteria e il filisteismo da unaparte e la passione cieca e il settarismo dall’altra.

Non che il pedante non possa essereappassionato, tutt’altro: la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola epericolosa che il settarismo o la demagogia appassionata.
L’errore dell’intellettuale consiste nelcredere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senzasentire ed essere appassionato, cioè che l’intellettuale possa esser tale sedistinto e staccato dal popolo: non si fa storia-politica senza passione, cioèsenza essere sentimentalmente uniti al popolo, cioè senza sentire le passionielementari del popolo, comprendendole, cioè spiegandole egiustificandole nella determinata situazione storica e collegandoledialetticamente alle leggi della storia, cioè a una superiore concezione delmondo, scientificamente elaborata, il «sapere».

Se l’intellettuale non comprende e nonsente, i suoi rapporti col popolo-massa sono o si riducono a puramenteburocratici, formali: gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (centralismoorganico): se il rapporto tra intellettuali e popolo-massa, tra dirigenti ediretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento passione diventacomprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente),allora solo il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementiindividuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè sirealizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si crea il «blocco storico».

Da: Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Q II (XVIII), pp. 77-77 bis.

Alexander Höbel, Tommaso Nencioni, Donatella Coccoli, Antonio Gramsci.

articolo21, il manifesto, Left , doppiozero. 27 aprile 2017 (c.m.c.)

articolo21
ANTONIO GRAMSCI VIVO, 80 ANNI DOPO
di Alexander Höbel

Come mai, a 80 anni esatti dalla sua scomparsa, la figura di Antonio Gramsci viene celebrata, ricordata e studiata in tutto il mondo? E perché si continua a ritenere la sua opera come un contributo fondante per la cultura politica della contemporaneità? Gramsci viene oggi celebrato e studiato non solo come antagonista irriducibile del fascismo, che lo volle in carcere e lì lo uccise; non solo come fondatore del Partito comunista d’Italia assieme a Bordiga, Terracini, Togliatti, Grieco, Camilla Ravera, e i giovani Longo, Secchia, Teresa Noce; ma anche come colui il quale – dagli scritti giovanili alle Tesi di Lione, dal saggio sulla questione meridionale ai Quaderni del carcere – ha dato un contributo enorme al marxismo novecentesco, e più in generale al pensiero critico contemporaneo.

Le categorie concettuali da lui elaborate costituiscono tuttora una bussola essenziale per orientarsi nel mondo: egemonia, come processo di apprendimento delle classi lavoratrici nel loro porsi e proporsi come nuove classi dirigenti della società e dello Stato; rivoluzione passiva, ossia il modello delle ristrutturazioni operate dalle classi dominanti con la costruzione del consenso dei dominati; intellettuale collettivo e moderno Principe, ossia lo strumento politico e organizzativo – il Partito in primo luogo – che i subalterni si danno per la trasformazione radicale degli assetti sociali.

«Questo miracolo dell’operaio che quotidianamente conquista la propria autonomia spirituale» – scriveva Gramsci nel 1920 –«lottando contro la stanchezza, contro la noia, contro la monotonia del gesto che tende a meccanizzare e quindi a uccidere la vita interiore, questo miracolo si organizza nel Partito comunista». È qui che l’operaio «collabora ‘volontariamente’ alla attività del mondo […] pensa, prevede, ha una responsabilità […] è organizzatore oltre che organizzato», e «sente di costruire un’avanguardia» che trascina con sé «tutta la massa popolare»[1]. Sono parole che ancora oggi emozionano e incoraggiano.

Fondamentale fu poi il lavoro, avviato da Gramsci nel 1924, teso a individuare le “forze motrici” della rivoluzione italiana: operai industriali e salariati agricoli del Centro-Nord e braccianti del Mezzogiorno. Oggi i settori sociali potenziali protagonisti del cambiamento non sono gli stessi, e tuttavia la lezione di metodo fornita da Gramsci rimane attuale, e implica un nuovo sforzo di analisi e di organizzazione.

Anche altre categorie centrali nel suo pensiero sono di estrema attualità: la dimensione molecolare dei processi di trasformazione, l’alternarsi di guerra di movimento e guerra di posizione, la complessità della lotta politica nei paesi a capitalismo avanzato, il ruolo decisivo della battaglia delle idee, la necessità di costruire una nuova intellettualità di massa e quella unità tra struttura e sovrastruttura, forze sociali e idee guida che rappresenta per Gramsci il blocco storico, nel quale – per dirla con Marx – «le idee diventano una forza materiale».

Oggi naturalmente, rispetto ai tempi di Gramsci, molte cose sono cambiate e i legami tra politica e cultura si sono molto allentati. Tuttavia la riflessione del rivoluzionario sardo rimane di estrema attualità. «Non può esserci elaborazione di dirigenti – si legge nei Quaderni – dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti […]. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti», «il giorno per giorno […] invece della politica seria»; ma anche «miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura», sempre più staccata dalla realtà storica. In questo contesto, scrive Gramsci pensando alla Germania del primo dopoguerra, la burocrazia «sostituiva la gerarchia intellettuale e politica»[2]. Oggi basterebbe sostituire la parola “burocrazia” con “tecnocrazia” o “tecnostruttura” per avere un quadro abbastanza simile a quello descritto.

In un altro passo dei Quaderni Gramsci fa un altro ragionamento interessante: «A un certo punto della vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali», che «non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe». A quel punto la situazione «diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto […] all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici», mentre si rafforza il «potere della burocrazia […] dell’alta finanza». In questa che si configura come una vera e propria «crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso», la classe dominante «muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo»; dunque «mantiene il potere, lo rafforza […] e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione», i quadri politici. Ne deriva «il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico [ma possono essere anche due o tre, aggiungerei] che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe» dominante. Insomma,«non sempre [i partiti] sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche», ma le conseguenze del loro disgregarsi sono molto pesanti[3].

Sono parole di grande attualità, che ci rimandano a quella idea di «crisi organica«, nella quale «il vecchio muore e il nuovo non può ancora nascere», che per Gramsci però è anche tipica delle «fasi storiche di transizione»[4]. Ecco perché il pensiero del fondatore del comunismo italiano non solo è ancora fecondo, ma è anche uno strumento prezioso per chi vuole abolire lo stato di cose presente e contrastare la barbarie che avanza.

[1] [A. Gramsci], Il Partito comunista, “L’Ordine Nuovo”, 4 settembre e 9 ottobre 1920, in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti 1978, vol. II, pp. 151-152.

[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi 1975, pp. 387-388.

[3] Ivi, pp. 1603-1604.

[4] Ivi, p. 311.

il manifesto
LE ISTITUZIONI NEI PASSAGGI D'EPOCA .
LE LEZIONI DI ANTONIO GRAMSCI.
di Tommaso Nencioni

«80 anni dalla scomparsa. L’anniversario dalla morte coincide con il centenario dell’Ottobre. Un alimento per discutere le istituzioni (europee) nei passaggi d’epoca»

Le celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della scomparsa di Antonio Gramsci si saldano quest’anno con il centenario della rivoluzione russa. Una notevole messe di studi ha teso a “depurare” il pensiero del Gramsci maturo – quello dei Quaderni del Carcere – dall’eredità del leninismo.

Tuttavia, senza voler addentrarsi nella querelle che ha appassionato storici e filologi di diverse scuole, l’impatto dell’Ottobre sul politico comunista sardo non può essere rinnegato, e neppure sbiadito, in base a letture contingenti dettate dall’esigenza generale di rimozione dell’evento rivoluzionario dalla storia del XX secolo.

Ciò che particolarmente persiste, della lettura che dell’Ottobre dette Gramsci – del suo tentativo di tradurre in italiano i fatti di Russia, verrebbe da dire con terminologia gramsciana – pare anzitutto una lezione di metodo, che si riflette in due intuizioni preponderanti.

La prima è l’assoluto rifiuto di una visione lineare della storia, come se questa fosse agita da un demone di carattere progressivo. Ogni rivoluzione si presenta come Rivoluzione contro il capitale, come frutto della volontà umana di piegare la modernità ad un esito del conflitto favorevole alle classi subalterne, di per sé non scritto in nessuna legge aurea. La seconda è la ravvisata necessità per i subalterni di creare, nel cuore stesso del conflitto, le istituzioni avvenire, senza attardarsi nella difesa di quelle caratteristiche dell’epoca precedente – fossero anche istituzioni che ne avevano garantito un relativo benessere, quali ne furono effettivamente edificate nell’Italia giolittiana. Se ci si attende l’emancipazione da eventi “esterni”, come se ci si ripara all’ombra di istituti che una nuova condizione storica fa apparire come obsoleti, l’ondata storica è destinata a travolgere le vecchie conquiste e a renderne impossibili di nuove. Di qui lo “spirito di scissione” evocato da Gramsci contro le tradizioni tanto riformiste che massimaliste del socialismo dell’Italia liberale.

Con l’Ottobre historia facit saltus, e una netta discontinuità si instaura nel pensiero gramsciano. Dal punto di vista della storia delle idee, la rivoluzione bolscevica mette concretamente il pensatore sardo di fronte al tema del marxismo, nella misura in cui, con la loro azione vivificatrice, con la loro Rivoluzione contro il capitale, i bolscevichi avevano ‘salvato’ Marx dai suoi esegeti ammalati di positivismo e determinismo.

Ma il saltus dell’Ottobre segna sì una discontinuità nella maniera gramsciana di pensare la lotta politica – mette l’ipotesi rivoluzionaria all’ordine del giorno, pone di fronte alla necessità di pensare la presa del potere da parte del proletariato colui che fino a quel momento aveva teorizzato la funzione di stimolo al progresso borghese proprio della classe operaia – ma in esso allo stesso tempo si intravede una continuità di metodo: col volontarismo di cui è permeato, Gramsci non giudica, alla maniera dei riformisti italiani o degli stessi menscevichi russi, la rivoluzione in base a presunte leggi di sviluppo presenti a priori nella Storia; ma, operando un vero e proprio distacco logico rispetto a tali convinzioni, individua nell’atto rivoluzionario una fonte di norme dell’agire storico. Gramsci non giudica l’Ottobre con le lenti della storia, ma ne fa una lente per giudicare la storia.

C’era prima della rivoluzione un Gramsci anti-giacobino, per il quale il giacobinismo in quanto ideologia democratica trascendente, fuori dalla storia, si risolveva forzatamente in un atto di negazione della libertà; questo Gramsci non a caso celebra la rivoluzione russa come rivoluzione anti-giacobina; e c’è un Gramsci, dopo lo scioglimento dell’Assemblea costituente da parte dei bolscevichi, che accetta le logiche della dittatura (giacobina) nel momento del passaggio dal vecchio al nuovo Stato.

Da queste considerazioni emerge il teorico dello Stato – dell’Ordine – nuovo. Uno Stato/Ordine nuovo che però si forma, in Gramsci, già nella prassi rivoluzionaria, nella dialettica tra conflitto e istituzioni; questa funzione di collegamento sarà individuata nel Soviet, istituzione autonoma della classe operaia già forgiata nel corso della lotta per il potere e successivamente destinata a funzionare da perno dell’Ordine Nuovo. Nel momento in cui il Soviet da contro-potere si fa potere, Gramsci si trasforma insomma da teorico dell’antistato e teorico dello Stato (nuovo). Un omaggio operante alla lezione del Machiavelli dei Discorsi, per il quale «coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…».

Anche nella fase attuale, a fronte di un rinnovato protagonismo dei popoli nello scenario politico che si articola in forme nuove e sconosciute, la sinistra storica si fa portavoce del dogma della modernizzazione – dell’espulsione, cioè, del conflitto dalla modernità – e si impantana nella difesa di istituzioni che sono state negli ultimi anni i perni della grande restaurazione neoliberale. In un simile contesto, una riflessione sul legame tra il pensiero di Gramsci e l’irruzione della rivoluzione nella storia umana costituisce un punto necessario da cui ripartire.


Left
GRAMSCI ,
UN PATRIMONIO CHE LA SINISTRA
NON RIESCE A FAR SUO
di Donatella Coccoli

Era il 25 aprile 1937 e il giudice del tribunale di sorveglianza di Roma aveva comunicato a Antonio Gramsci, ricoverato nella clinica Quisisana, che era finalmente un uomo libero. Ma la sera stessa, dopo aver cenato, Gramsci venne colto da una emorragia cerebrale e all’alba del 27 aprile cessò di respirare. Aveva 46 anni e nonostante il carcere e la malattia, aveva realizzato una riflessione politica straordinaria.

Ottant’anni dopo, l’anniversario gramsciano dovrebbe essere l’occasione per riflettere sul pensiero, sulla filosofia della praxis, sul concetto di egemonia culturale dell’autore dei Quaderni. La sinistra dovrebbe attingere a piene mani a un patrimonio inestimabile, come ha accennato anche lo storico Angelo d’Orsi sulle pagine di Left adesso in edicola. D’Orsi, autore per Feltrinelli di una nuova biografia – cinquant’anni dopo quella di Giuseppe Fiori – afferma che è drammaticamente necessaria oggi una figura come quella di Gramsci che per tutta la sua vita ha avuto come stella polare «l’esigenza della liberazione dei ceti subalterni».

Ma oggi non esistono intellettuali come lui, capaci di analisi profonde e originali che nemmeno lo stesso partito comunista di allora riuscì a cogliere. E al tempo stesso, Gramsci, si presenta come un personaggio ingombrante, con cui è difficile identificarsi. Non è un “brand” qualsiasi. Ci ha provato Matteo Renzi con il suo consigliere Tommaso Nannicini a tirare in ballo il concetto di egemonia culturale al Lingotto di Torino. Ma la cosa è davvero poco credibile.

Un presidente del Consiglio che ha voluto una riforma come la Buona scuola cosa ha in comune con chi teorizzava il fatto che tutti gli uomini sono intellettuali e che la scuola è un cardine della lotta per lo sviluppo umano? Cosa c’entra davvero il Pd di oggi con il partito Principe di cui parlava Gramsci? I fatti, cioè le riforme renziane “centraliste”, vanno in direzione contraria rispetto ai concetti espressi nei Quaderni in cui le masse erano comunque sempre protagoniste nella lotta di emancipazione. E non si venga a dire che oggi non c’è bisogno di emancipazione, con i 4 milioni e mezzo di italiani in povertà assoluta, il quasi 40 per cento di disoccupazione giovanile e il record di abbandoni scolastici rispetto all’Europa.

Anche a sinistra del Pd, tuttavia, non si può dire che ci sia una corsa frenetica per prendere o comunque studiare l’opera di Gramsci.
Vedremo cosa uscirà oggi dal convegno Gramsci ottanta anni dopo a Roma (ore 9, Sala Gonzaga, Via della Consolazione 4), promosso da Sinistra italiana e organizzato dal professor Michele Prospero. Tra i partecipanti, Stefano Fassina, Luciana Castellina, Nicola Fratoianni, Claudio De Fiores, Piero Bevilacqua.

Oggi Gramsci verrà commemorato anche alla Camera dei deputati dove, ricordiamo, venne eletto il 6 aprile 1924. Una carica che mantenne fino all’8 novembre 1926 quando venne arrestato. Per lui si sarebbe spalancato il portone di varie carceri italiane dove però con una forza incredibile, pur in condizioni di salute sempre più precarie fino a farsi gravi dal 1935, riuscì a scrivere la grande opera che Mario Lavia su L’unità definisce «una mole inevitabilmente di teoria “disorganica”». In realtà rappresenta una ricerca politica e culturale che non ha precedenti in Italia né prima e né dopo Gramsci. «Non c’è un argomento dello scibile umano di cui lui non si sia occupato», conferma Angelo d’Orsi.

Linguaggio, arte e letteratura, scuola, giornalismo, organizzazione politica, sono solo alcuni temi che si ritrovano nei Quaderni. I libriccini che cominciò a scrivere nel 1929 nel carcere di Turi saranno in mostra nella Sala della Lupa alla Camera fino al 7 giugno a cura della Fondazione Gramsci. Per la prima volta vengono esposti gli originali dei 33 quaderni e di cento volumi, tra libri e riviste, in possesso di Gramsci durante la detenzione. I manoscritti sono esposti accanto alla loro versione digitale e possono essere sfogliati integralmente.

Sempre oggi dalle 18 nella sede della Enciclopedia italiana il doppio evento Passato e presente, con One day exhibition, una installazione di Elisabetta Benassi e l’esecuzione dell’opera di Luigi Nono La fabbrica illuminata.
Quasi a sottolineare il legame con la cultura e l’arte che Gramsci aveva sempre avuto anche come giornalista e di cui si parla ampiamente anche nel numero in edicola di Left. Un’altra prova della grandezza della sua figura, in cui la politica va di pari passo con la cultura. Qualsiasi paragone con l’oggi è assolutamente improponibile.

doppiozero
ANTONIO GRAMSCI : I VERI INTELLETTUALI
di Antonio Gramsci

Quando si distingue tra intellettuali e non intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore dell’attività specifica professionale, se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale.

Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione de mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.

Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo.

Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i “veri” intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale.

Su questa base ha lavorato l’”Ordine Nuovo” settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti e era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente” perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico).

Tratto da : A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III.

La pubblicazione dell'opera omnia è l'occasione per ricordare la pienezza della sua vita di uomo e di sacerdote e le ragioni per cui i potenti e gli sciacalli si accaniscono contro la sua figura. articoli di S.Ronchey e F. Ruozzi. la Repubblica, 21 aprile 2017


LE VEREPAROLE DI DON MILANI
di Silvia Ronchey

«Perché il potere ha ancora paura del prete senza chiese»

Vissuto per metà sotto il fascismo, per metà nell’Italia divisa tra democristiani e comunisti, Milani è il rampollo di un’alta borghesia ebraica di antico lignaggio, radicate posizioni liberali, sofisticate tradizioni culturali - bisnonno senatore, Freud e Joyce, Svevo e Pasquali tra le conoscenze di famiglia, l’intelligencija russa nel Dna - che si fa traditore sia del proprio ceto, sia degli schieramenti autoritari della propria chiesa, nonché, in seguito, di quelli dei partiti, che i suoi gesti provocatoriamente radicali negli anni Cinquanta faranno più di una volta infuriare. È un ebreo non praticante che fa «indigestione di Cristo», come scrive al suo mentore e direttore spirituale Raffaele Bensi. Ma la sua conversione non è certo dall’ebraismo al cristianesimo, bensì da un battesimo di convenienza, ricevuto per sfuggire alle leggi razziali, a un abito scomodo, indossato per vocazione di riscatto: quello di cercatore di verità.

Cosa ha fatto Lorenzo Milani? Si è fatto maestro, non metaforicamente ma alla lettera, nel modo più umile e concreto, prima a San Donato, poi a Barbiana. Nel suo insegnamento si è liberato del catechismo, alla lettera ma anche metaforicamente, per attuare un progetto di “redenzione immanente” dell’ingiustizia sociale, ma anche per rovesciare l’impianto ideologico della scuola confessionale. Dove per confessione si intende quella cattolica, ma anche l’altrettanto autoritaria catechizzazione prodotta dalle ideologie secolari. Finendo così per «smascherare l’inganno costitutivo del potere e restituire la sovranità a una manciata di subalterni inafferrabili alla scolastica marxista allora imperante », come scrive Alberto Melloni nell’ardente introduzione all’edizione critica dell’opera omnia in uscita nei Meridiani Mondadori.
Calamitato dalla letteratura, dalla poesia, dalla pittura fin da adolescente, artista bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze di fine anni Trenta, è quasi dandistico il suo primo incontro con il messale romano: «Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore? », scrive diciottenne all’amico Oreste del Buono. Nel ’43 entra in seminario. Quando, dopo più di un decennio di attrito con le gerarchie, il suo primo libro, Esperienze pastorali, gliene guadagna definitivamente l’opposizione senza garantirgli alcuna effettiva protezione della sinistra comunista, Milani non fa che rafforzarsi nel convincimento, forse inevitabile per un intellettuale italiano, che l’unica possibile resistenza sia l’inappartenenza. Ed ecco che l’autorità ecclesiastica lo esilia in quell’«angolo estremo senza acqua, senza corrente elettrica, posta o strada » che è Barbiana. Milani «farà dell’esilio un trono».

Nella sua lotta al conformismo, nel voto di riscatto che sia il ruolo di intellettuale sia l’abito sacerdotale ritiene gli impongano, avrà cari non solo «i mezzi poveri del proprio mestiere con la gelosia con cui il nobile decaduto tiene ai propri titoli», ma cercherà di aprire un varco ai figli del proletariato contadino che tenta di educare proprio in quel modo alto borghese contro il cui feroce sistema di esclusione ha lottato, arrivando a dispensare loro, ostentatamente, gli stessi privilegi materiali, applicando ai venti allievi di Barbiana «i metodi dell’educazione grande bourgeoise»: l’opera alla Scala, i soggiorni all’estero, addirittura la piscina.

La passione per un utopistico «riscatto del tempo penultimo», in cui l’avanguardia contadina che ha riacquistato la parola diventa élite, domina ogni suo gesto, sempre politico, mai settario, sempre etico, mai arbitrario. Ogni intellettuale è un prete mancato. Il problema è che molti intellettuali mancati si fanno preti - di qualunque chiesa, confessionale o secolare, per innato dogmatismo, per ansia di assoluzione anticipata e garantita. Don Milani non era né l’uno né l’altro, e per questo la sua profonda laicità è stata tenuta per più di mezzo secolo in ostaggio da più cleri.

Lorenzo Milani muore nell’estate del ‘67 e la sua ricerca, sarà, scrive Melloni, «rapita dal Sessantotto», che farà di lui «l’icona di un mondo che gli era estraneo», postumamente affiliata da un’opposizione politica che ha avuto tra le sue responsabilità, peraltro condivise con demagogici schieramenti di governo del nostro paese, la sistematica decostruzione del suo sistema scolastico. Proprio quello che a Milani stava più a cuore, che auspicava acattolico e aconfessionale, che vedeva come unico vero strumento rivoluzionario - ma certo solo se e quando «dota i tacitati della parola», non quando li riduce a un nuovo, subculturale silenzio. Nell’anno in cui ricorre il cinquantenario della sua morte, sembra che da più parti si cerchi di infangare la memoria di Milani.

Sto con la professoressa, è il titolo di un recente articolo apparso sul Sole 24 Ore, con allusione al suo scritto più celebre, Lettera a una professoressa. Altrove si è cercato di “pasolinizzare” la sua figura e addirittura, nel recente romanzo di Walter Siti, di suggerirlo, contro ogni evidenza, pedofilo. Ma nessun equivoco è possibile a partire da oggi. Nei due volumi dell’opera omnia si dispiega la scrittura provocatoria e indocile di questa figura di prete divenuta un punto di riferimento per i laici proprio per avere lottato tutta la vita contro gli opportunismi di chi cerca la protezione dei partiti, delle sette e delle chiese.

NELLE SUE LETTERENESSUNA “CONFESSIONE”
MA SOLO IL GUSTO AMARO DEL PARADOSSO
di Federico Ruozzi


«Per tutta la vita ha dovuto difendersi da chi voleva farlo passare, come diceva lui, per “un finocchio eretico”. Però l’analisi attenta e non strumentale dei suoi testi allontana ogni sospetto di pedofilia»
La scrittura di don Milani è difficile da catalogare: ne era consapevole. In una lettera si rivolge così all’interlocutore: «Se accanto a te ce n’è un altro e ci mettete gli occhi insieme direte di me: “il solito paradossale” e sarete cattivi». E così a chi legge di sbieco resta in mano poco: piccoli slogan («l’obbedienza non è più una virtù», «I care») o luoghi comuni su di lui, spesso denigratori, che mescolavano omosessualità e pedofilia. Frutto, quando era vivo, della vigliaccheria dei suoi nemici, e - da morto - di ritagli malfatti, come quelli a cui si è riferito Walter Siti. In particolare, un libro di 15 anni fa dello storico dell’educazione Antonio Santoni Rugiu: Il buio della libertà. Storia di don Milani, (De Donato-Lerici). Rugiu cita di seconda mano passi scelti non a caso. E ignora quasi tutti quelli in cui Milani denuncia il tentativo di farlo passare per «finocchio eretico e demagogo».

Ecco le citazioni 1) Una lettera a Oreste Del Buono del 31 luglio 1941, in cui Lorenzino fantastica sul desiderio di essere visitato da un «angelo biondo» che non è un’allusione, ma il ricorso a quel registro ironico che segna i momenti tragici della vita.
2) Una poesia del 1950 in cui Milani contrappone il desiderio del prete di essere padre degli orfani e delle vedove all’accusa («finocchio!») a cui dovrà far fronte.
3) La lettera alla madre del 29 agosto 1955, in cui ricorda ancora una volta come i suoi persecutori abbiano messo in dubbio il suo sacerdozio.
4) Concetto ribadito nella lettera al vescovo Enrico Bartoletti del primo ottobre 1958, per contrapporre l’elevazione all’episcopato dell’amico e la sua “elevazione” a Barbiana in odore di «finocchio eretico e demagogo» - cose che certo Milani scriveva non per ammetterle, ma per mostrare la bassezza dei suoi denigratori.
6) Dalla lettera all’amico giornalista de L’Europeo Giorgio Pecorini del 10 novembre 1959 viene presa la riga che afferma «che se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto d’amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!)» e poi «chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso?».

Espressioni che non sono confessioni del desiderio di stuprare i bambini ma la costruzione della tesi paradossale finale: «Eccoti dunque il mio pensiero: la scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può essere fatta che per amore (cioè non dallo Stato). In altre parole la scuola come io la vorrei non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo d’una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini». Così come sarebbe strampalato imputargli una dottrina sul privilegio cattolico di insegnare, allo stesso modo non si può fare delle premesse la confessione di uno stupratore.

E infine c’è una lettera all’amico don Bruno Brandani del 9 marzo 1950 presentata con un’ omissione che ne stravolge il senso: all’amico don Lorenzo si rivolge dicendo «questa lettera è per te solo [...] se sei solo io son sicuro che mi intenderai come al tempo in cui ci si intendeva». L’ammissione di un’antica intimità erotica?

La straziante affermazione che nell’esilio barbianese la vita spirituale consiste «nel tener le mani a posto!» sarebbe l’ammissione di un desiderio represso di violenza sui bambini? No, la lettura dell’insieme del brano chiarisce tutti i dubbi: «Bruno questa lettera è per te solo solo solo. Se accanto a te ce n’è un altro e ci mettete gli occhi insieme direte di me: “il solito paradossale” e sarete cattivi. Ma se sei solo io son sicuro che mi intenderai come al tempo in cui ci si intendeva. Tu lo sai che a Dio ci credo e che credo anche a tutto il resto compreso la SS. Purità e la S.Carità e la S. Umiltà ecc. Ma ora che questi nomi non son più olezzanti fiorellini nell’orticello immacolato di Dio, ma sofferenti cicatrici, ora io non sopporto più di sentirne parlare sia pure da d. Bensi o Bartoletti o p. Lombardi o chi si sia. Ci credo da me come so che ci credi te e tutti gli altri compagni che ci viviamo dentro tragicamente».

Il linguaggio milaniano è volto sempre a provocare, oscillare e scivolare dal registro ironico a quello paradossale. A don Bensi, il suo padre spirituale, lo dice rimproverando di averlo spinto a lavorare al suo libro: «Può darsi che lei abbia in vista una felice sintesi delle due cose, di cui io invece non intravedo la compatibilità p. es. passare a un tempo da finocchio e da maestro, da eretico e da padre della Chiesa, da murato vivo nel chiostro e da pubblicatore del più polemico dei libri. Una sua decisione per l’una o l’altra strada oppure una sua spiegazione del come se ne possa compiere la sintesi mi farebbe un gran comodo ».

Don Lorenzo Milani, Tutte le opere (Meridiani Mondadori, due volumi, pagg. 2976, euro 140). Un progetto realizzato sotto la direzione di Alberto Melloni e con la cura di Federico Ruozzi, con la collaborazione di Anna Carfora, Valentina Oldano, Sergio Tanzarella. Dal 25 aprile in libreria.

«Pubblichiamo ampi stralci della postfazione di Giorgio Frasca Polara de “Il giornalismo, il giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore de ‘l’Unità

”, a cura di Gian Luca Corradi, introduzione di Luciano Canfora edito da Tessere, Firenze». Ytali 13 aprile 2017 (c.m.c.)

Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia.

Magari molte cose, nelle note sparse nei Quaderni (ma che Togliatti nella prima e purgata edizione, volle ordinare nel volume dedicato a "Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura"), sono superate: nella concezione e nella fattura di giornali, riviste, strumenti di comunicazione in genere. Nessuna sorpresa: basti pensare a quante cose, nel giornalismo, sono mutate ab illo; o a verificare, passato un secolo breve, che cosa oggi rappresenta, solo per fare un banale esempio, il web nel bene (la velocità dell’informazione) e talora nel male: la sintesi forzata, la superficialità, lo scoop. Eppure ci sono, in quelle note, molte, moltissime intuizioni straordinarie su come sarebbe diventato il giornalismo, e sulle condizioni per promuovere e realizzare un giornalismo attrezzato, intellettualmente onesto, e soprattutto libero.

Ma attenzione: neanche per Gramsci il giornalismo è una scienza infusa. La passione per la carta stampata nasce in lui, poco più che ventenne, come necessità politica di praticare il giornalismo perché egli ne comprende il valore unico, in un certo senso assoluto, come strumento di formazione, come arma prima di educazione e poi di propaganda. C’è una traccia fondamentale di quest’idea in un paio di storiche battute apparse su l’Avanti! già nel 1916: «Bisogna dire e ripetere che quel soldino buttato là distrattamente nella mano dello strillone è un proiettile consegnato al giornale borghese che lo scaglierà poi, al momento opportuno, contro la massa operaia. Se gli operai si persuadessero di questa elementarissima verità, imparerebbero a boicottare la stampa borghese con quella stessa compattezza e disciplina con cui la borghesia boicotta i giornali degli operai, cioè la stampa socialista (…) Boicottateli, boicottateli, boicottateli!».

Praticare il giornalismo ma soprattutto insegnarne le basi a chi non ha la minima idea di come si scrive un articolo, per creare così un collettivo, per far crescere appunto la stampa socialista. Prima la pratica e poi la teoria, sembra dirci Nino, stando ad un paio di sue lettere che scrive nel 1918 e nel 1924. La prima è diretta a Giuseppe Lombardo Radice, rivolta più al pedagogista che non al filosofo. Gramsci gli racconta dell’esperienza di un gruppo di giovani e giovanissimi socialisti, inseriti in un “Club di vita morale” di cui lui stesso fa da “exubitor”, che in latino fa sentinella, noi oggi diremmo che fa da tutor. Bene, da questo gruppo emerge Andrea Viglongo, un impiegato privato, 17 anni, studi tecnici inferiori, che ha scritto per Il Grido del Popolo la segnalazione di un saggio (chissà perché Gramsci lo definisce “opuscolo”) dello stesso Lombardo Radice su Il concetto dell’educazione. Che gliene pare? chiede Gramsci sollecitando qualche consiglio, «un indirizzo che integri e completi i miei propositi». Non si ha traccia della risposta, ma non è questo l’importante, come vedremo tra un momento.

Sei anni più tardi sarà Gramsci a impartire da Vienna una severa ma in fondo anche bonaria lezione a Vincenzo Bianco per un articolo destinato ad esser pubblicato ma non sappiamo su quale giornale. (Per inciso, emigrato in Francia e in Belgio con l’avvento del fascismo, Bianco fu poi un coraggioso garibaldino in Spagna; rappresentò ufficialmente il Pcd’I nella Terza Internazionale, e che come tale firmò lo scioglimento del Comintern nel 1943, a nome del Pci. Ebbe poi discutibili, e anzi assai discussi, rapporti con Tito per la questione di Trieste: lui era favorevole all’annessione della città alla Jugoslavia. Fu infine sospeso da ogni incarico di partito e finì i suoi giorni all’archivio dell’Unità come traduttore di Pravda e Izvestia.) Più giovane di Gramsci di una decina d’anni, Nino gli scrive che avrebbe preferito, agli articoli un po’ sbilenchi, “il lavoro pratico” tra gli emigrati; poi gli promette una lettera-lezione per correggere “gli errori che commetti, di stile e di grammatica”, anche se è “già gran cosa” sapere esporre con grande chiarezza “i tuoi concetti”. Ma bisogna mettere ordine in questi concetti.

E allora Nino, con pazienza, gli spiega: fare prima uno “schema”, poi «disporre in ordine (…) tutte le cose che vuoi dire» indi svilupparle. Per abituarlo a questo lavoro Gramsci gli consiglia di “fare esercizi” per iscritto (“in modo per abituarti a una forma tua, precisa e personale”), su scritti degli altri, “per esempio sul Manifesto dei Comunisti, capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica”. E gli ricorda che Antonio Labriola aveva letto più di cento volte il Manifesto, ogni volta comprendendo qualcosa che prima non aveva capito. «Se anche tu» imitassi il grande marxista napoletano «ciò non sarà inutile». E improvvisamente ritorna, in questa lettera a Bianco, il nome di Viglongo: gli aveva dato consigli analoghi, e gli aveva fatto fare lavori simili. «Prima scriveva articoli di 6, 7, 8 colonne che io cestinavo», racconta Gramsci: «Glieli facevo rifare sino a tre, quattro volte sino a quando non erano diventati di una colonne e mezzo al massimo (…) E Viglongo, che prima era un pasticcione di tre cotte, finì per scrivere abbastanza bene, tanto che poi immaginò di essere diventato un grand’uomo e si allontanò da noi». Quindi “non più” lezioni ai giovanotti del suo tipo, «lo farò solo con gli operai, che non aspirano a diventare grandi giornalisti della borghesia».

Passione per la carta stampata? Sì, ma unita ad una conoscenza e intelligenza strabilianti per le tecniche di stampa e, paradossalmente, persino per risparmiare sull’acquisto della carta. C’è una lettera illuminante, scritta da Vienna nel gennaio del 1924 e diretta a quel Ruggero Grieco che diventerà anni dopo – con la famigerata missiva che in pratica lo individua come il capo dei comunisti – la sua maggiore e distruttiva ossessione in carcere. Nella lettera Nino dà alcuni suggerimenti pratici alle viste della stampa a Roma del torinese “Ordine Nuovo”. Intanto trovare un tipografo che abbia una macchina piana capace di contenere il foglio del quindicinale: «Non mi pare difficile». Poi trovare un mercante di carta che, come accade a Torino (“e a Roma esistono una quindicina di giornali…”), acquisti dalle grandi tipografie “tutti i residui di carta”, “gli avanzi dei rotoli”, per cavarne «una carta bianca e abbastanza consistente» che possa servire per l’Ordine e, soprattutto, per conservarne il formato: «So quanto queste piccole cose abbiano una grande importanza pratica nella diffusione». Ma attenzione, e qui balza con tutta evidenza l’intelligenza critica di Nino Gramsci, perché «da una diversa soluzione del formato dipende anche una diversa impostazione redazionale». Sembra di sentire Albe Steiner, ma a quell’epoca il grande innovatore della grafica politica era appena un ragazzino…

Questo passaggio su soluzione del formato e impostazione redazionale è, credo, doppiamente importante. Intanto perché è uno dei primi e più efficaci esempi delle intuizioni che Antonio Gramsci svilupperà a lungo, saltuariamente, e anche nelle più disparate occasioni, negli anni terribili della galera quando dovrà limitarsi a studiare, del giornalismo, quelli che lui stesso definirà i «fini metodologici e didattici». E poi perché, un passo dopo l’altro delle sue riflessioni sul giornalismo, Gramsci giungerà ad alcuni punti fermi, tuttora validi, tuttora cogenti. Anzitutto un dovere dell’attività giornalistica: «Seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese». E poi ripete: «Tutti.» E subito fa un esempio illuminante: «Il cattolicismo è un grande centro e un grande movimento». Seguire e controllare tutto, ma bandendo «le cattive tradizioni della media cultura italiana: l’improvvisazione, il ‘talentismo’, la pigrizia fatalistica, il dilettantismo scervellato, la mancanza di disciplina intellettuale⋄.

A proposito di formati e di design. Nino si era fatto mandare in carcere il primo numero della rivista Leonardo edita da Sansoni e l’aveva paragonato ai numeri della stessa rivista èditi in precedenza da casa Treves. E nota subito la differenza a tutto favore della Sansoni, e ne scrive a lungo. Intanto a proposito della veste esteriore che ha grande importanza sia commercialmente che per fidelizzare il lettore, e ciò vale, a suo giusto avviso, non solo per le riviste ma anche per i quotidiani – e lui, in cella, ne ottiene tra al mattino e due al pomeriggio.

Qui, a proposito della veste, elenca minuziosamente, con una precisione tecnica non tanto da giornalista quanto da proto (che è, o almeno era, il “re” in tipografia) le caratteristiche di una pagina-tipo “composta dai margini, dagli intercolunni, dall’ampiezza delle colonne (lunghezza della linea), dalla compattezza della colonna cioè dal numero della lettere per linea e dall’occhio di ogni lettera, dalla carta e dall’inchiostro: bellezza dei titoli, nitidezza del carattere dovuto al maggiore o minore logorio delle matrici o delle lettere a mano ecc.” Anche da queste minuzie si può trarre una morale. Per esempio sulla “resa” politica della stampa. Si chiede Gramsci: “Come potrebbe essere ritenuto capace di amministrare il potere di Stato un partito che non ha o non sa scegliere (il che è lo stesso) gli elementi per amministrare bene un giornale o una rivista? Viceversa, un gruppo che con mezzi scarsi sa ottenere giornalisticamente risultati apprezzabili, dimostra con ciò, o già con ciò, che saprà amministrare bene anche organismi più ampi”. Ogni pronostico su future vicende editoriali di partito è ovviamente del tutto casuale: giusto attribuire meriti e doti grandi a Gramsci ma non quella di indovino (e comunque ci aveva azzeccato).

Il che non gl’impediva di prevedere o anticipare quali strade avrebbe preso il giornalismo in un domani, prossimo o lontano che fosse, o almeno quella parte dell’editoria più avvertita, che avrebbe sentito il polso del lettore e colto i segni di esigenze più avanzate. […]

Lettore famelico, onnivoro, persino compulsivo, Gramsci trova sulla Nuova Antologia (estate 1928, Nino è in carcere già da due anni) un articolo “interessante” di Ermanno Amicucci. Lo sa fascista, non sa che diventerà segretario del sindacato fascista dei giornalisti, e men che mai può sapere che sarà persino repubblichino, collaborazionista con i nazisti, condannato per questo a morte, pena poi commutata in trent’anni, e infine non solo amnistiato ma quasi subito libero di riprendere a fare il giornalista come se nulla fosse. Comunque Amicucci ha toccato un tasto – l’educazione al giornalismo – a cui, come si è visto, Gramsci è assai attento, nemico com’è dell’improvvisazione, del dilettantismo. E dunque egli fa suo, e lo definisce meglio, il principio che il giornalismo debba essere insegnato, che non sia razionale lasciare che il giornalista si formi da sé casualmente, attraverso la “praticaccia”.

Questo principio è vitale, e Gramsci prevede che “si andrà sempre più imponendo a mano a mano che il giornalismo, anche in Italia, diventerà un’industria più complessa e un organismo civile più responsabile”. Di più, Gramsci ha un’idea: che il problema della scuola professionale possa essere risolto nell’ambito della stessa redazione, trasformando o integrando le periodiche riunioni redazionali in scuole organiche di giornalismo, “con l’invito ad assistervi anche di elementi estranei alla redazione in senso stretto: vere scuole politico-giornalistiche”. Le scuole (quali buone, quali mediocri, quali pessime) ora esistono, ma completamente avulse dalle tradizionali riunioni di redazione. Un solo giornale ne trasmette via Internet una sorta di sceneggiata, magari utile a fini pubblicitari ma non certo scolastici. Gramsci è lontano.

«». MicroMega, 28 marzo 2017 (c.m.c.)

Prefazione di Luciano Gallino all'ebook "Per una moneta fiscale gratuita" a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini, edito da MicroMega nel 2015.

Questo libro a più voci osa proporre, nientemeno, che allo scopo di combattere la disoccupazione e la stagnazione produttiva in corso lo stato, massima istituzione politica, si decida a fare in piccolo qualcosa che le banche private fanno da generazioni in misura immensamente più grande: creare denaro dal nulla – adottando però modi, le banche, che non aiutano a combattere né l’una né l’altra.

Scegliendo di entrare nella zona euro, lo stato italiano sì è privato di uno dei fondamentali poteri dello stato, quello di creare denaro (che nella nostra lingua chiamiamo moneta quando ci riferiamo a denaro che ha una sua specifica connotazione nazionale, tipo la sterlina, la corona o il franco svizzero).

Per gli stati dell’eurozona, in forza del Trattato di Maastricht soltanto la BCE può creare denaro in veste di euro, sia esso formato da banconote, depositi, regolamenti interbancari o altro; a fronte, però, del divieto assoluto, contenuto nell’art. 123 (mi riferisco alla versione consolidata del Trattato) di prestare un solo euro a qualsiasi amministrazione pubblica – a cominciare dagli stati membri. Per quanto attiene alle banche centrali nazionali della zona euro, esse non possono più emettere denaro; nondimeno sono libere di ricevere miliardi in prestito dalla BCE a interessi risibili. Al tempo stesso accade che le banche private abbiano conservato intatto il potere di creare denaro dal nulla erogando crediti o emettendo titoli finanziari negoziabili.

Tutto ciò ha messo gli stati dell’eurozona in una posizione che si sta ormai rivelando insostenibile. Debbono perseguire politiche economiche fondate su una moneta straniera, appunto l’euro, ma se hanno bisogno di denaro debbono chiederlo in prestito alle banche private, pagando loro un interesse assai più elevato di quello che esse pagano alla BCE. Vari stati della UE – nove per l’esattezza, tra cui Regno Unito, Danimarca e Svezia - hanno invece scelto di restare fuori dall’euro e non a caso hanno affrontato con maggior successo la lotta alla crisi.

Le banche private creano denaro in due modi.[1] Il modo più noto e discusso, in specie a causa del ruolo che esso ha avuto nello scatenare la crisi del 2007, consiste nel concedere un credito, senza togliere un solo euro ad altri correntisti o al proprio patrimonio. L’operazione consiste semplicemente nell’inscrivere sul conto corrente di qualcuno, con pochi tocchi al computer, una certa somma a titolo di prestito. La stessa somma figurerà nel bilancio della banca da un lato come passivo (la somma che la banca si è impegnata a mettere a disposizione del cliente), dall’altro come un attivo (la somma che il cliente ha promesso di restituire). Si stima che il denaro così creato rappresenti nella UE (in questo caso l’eurozona più i paesi non euro) circa il 95 per cento di tutto il denaro in circolazione. Al confronto, le banconote stampate dalla BCE, di cui la TV ci ripropone l’immagine dieci volte al giorno, sono bruscolini.

Un altro modo di creare denaro da parte delle banche private, assai meno compreso e discusso del precedente, anche tra gli economisti, consiste nell’emettere prodotti finanziari che possono venire convertiti facilmente in denaro liquido. Si tratti di obbligazioni aventi per collaterale un debito ipotecario (CDO), di titoli garantiti da un attivo (ABS), di certificati di assicurazione del credito (CDS) o di un qualsiasi altro titolo “derivato” (nel senso che il suo valore deriva dall’andamento sul mercato di un’entità sottostante) inventato dagli alchimisti finanziari, esso può venire venduto in qualsiasi momento al suo valore di mercato. Di solito, o meglio in media, quest’ultimo è di molto inferiore al valore nominale (o nozionale, come dicono gli addetti ai lavori) del titolo, ma nell’insieme si tratta pur sempre di cifre colossali.

A fine 2008, ad esempio, l’ammontare nominale dei derivati “scambiati al banco”, cioè al di fuori delle principali borse, si aggirava sui 680 trilioni di dollari, mentre il loro valore di mercato superava i 32 trilioni – corrispondenti, all’epoca, a oltre la metà del Pil del mondo. La facilità con cui è possibile a chiunque trasformare i derivati in liquidità ha indotto un economista austriaco, Stephan Schulmeister, a definirli una forma di “denaro potenziale”. Ciò rende la distinzione cara a molti economisti tra “denaro” (che è liquido) e “patrimonio finanziario” (che invece non lo sarebbe) del tutto priva di senso.[2]

Personalmente credo che la definizione meno problematica dei Certificati di Credito Fiscale che gli autori propongono lo stato italiano emetta, nella misura di un centinaio di miliardi il primo anno, e 200 miliardi l’anno in seguito, sia appunto quella che vede in essi una forma di “denaro potenziale”. I CCF sono distribuiti gratuitamente a vari gruppi di popolazione, a cominciare dai disoccupati o dai giovani in cerca di prima occupazione, e ad imprese che si impegnino ad assumere nuovo personale per realizzare (piccole ma numerose) opere pubbliche.

Trascorsi due anni dall’emissione, i CCF possono venire utilizzati per pagare qualsiasi tipo di imposte o tasse dovute allo stato, a regioni o comuni. Ma sin dal momento della loro emissione essi possono venire venduti a terzi, utilizzati come mezzo di pagamento, versati a un creditore a titolo di collaterali e altro. La loro convertibilità in denaro contante o moneta elettronica è istantanea. Il risultato dell’operazione è che nell’economia verrebbero immessi a regime 200 miliardi di denaro potenziale che può diventare in breve denaro fresco, destinato non alla speculazione o ad accrescere l’accumulazione di patrimoni privati, bensì a sostenere in modo mirato e selettivo il soddisfacimento di quelli che Keynes chiamava “bisogni assoluti” da parte di strati di popolazione in difficoltà, e di piccole imprese.

Oltre ad essere erogato gratuitamente dallo stato, il denaro potenziale costituito dai CCF presenta diversi vantaggi rispetto a quello emesso a fiumi dalle banche private in forma di derivati o altro. Proverò a indicarne alcuni:

1) Il loro valore non è soggetto ad alcun rischio di svalutazione sul mercato dei titoli, sia quello borsistico che quello OTC (dove si scambiano i titoli “al banco”). Un CCF da 100 euro alla fine varrà sempre 100 euro, qualsiasi cosa accada sui mercati. Dove invece può accadere che una CDO o un CDS che al momento dell’emissione valevano 100, tempo dopo, quando si vuole rivenderli, valgano la metà o meno.

2) Il denaro potenziale rappresentato dai CCF è denaro legalmente “pieno” (nel senso che si applica all’espressione “legal tender”) poiché essi vengono per definizione accettati per pagare le tasse allo stato. Che è il maggior riconoscimento a cui qualsiasi forma di denaro possa pretendere, quale che sia la sua apparenza o denominazione come moneta circolante in una nazione.

3) I CCF appresentano una prima riconquista da parte dello stato (modesta, ma l’importante è cominciare) del potere di creare denaro a fronte del potere assoluto che finora hanno detenuto le banche private. Questo non sarebbe soltanto un fatto tecnico: sarebbe un evento politico di prima grandezza.

4) I CCF costituirebbero un primo passo indolore, o se si vuole sperimentale, in direzione di una riforma incisiva del sistema finanziario in essere, resa indispensabile dai suoi gravi difetti strutturali (su questo punto essenziale ritorno poco oltre per concludere).

5) Diversamente dai comuni crediti bancari, per i quali la destinazione del credito erogato da parte del debitore è quasi sempre indifferente, fatta salva (e non sempre) la solvibilità di quest’ultimo, i CCF verrebbero emessi per finanziare specifici progetti di utilità collettiva.

La proposta dei CCF non nasce dal nulla. Tiene conto degli studi in materia del Levy Institute, uno dei più noti dipartimenti di economia degli Stati Uniti, e del gruppo di New Economic Perspectives, in specie i lavori di Warren Mosler e L. Randall Wray, che ha studiato l’introduzione in Argentina, ai tempi della crisi, di titoli per certi aspetti simili ai CCF. Tra i precursori dei CCF sono stati ampiamente esaminati i TAN (Tax Anticipation Notes ossia Titoli di Anticipo Tasse), usati per decenni negli Stati Uniti. Quando uno stato o anche un comune di laggiù vuol realizzare un determinato progetto – per dire, ristrutturare un ospedale o ampliare un parco pubblico – ma ha problemi di bilancio, emette una certa quantità di TAN con i quali paga in tutto o in parte le imprese che ci lavorano.

A suo tempo, quando lo riterranno conveniente, queste ultime li useranno per saldare debiti fiscali. Una importante differenza dei TAN a confronto dei CCF è che i primi sono emessi in generale da un singolo ente per un valore limitato – in media alcune centinaia di milioni di dollari – mentre nel caso dei CCF si parla di centinaia di miliardi. Inoltre hanno come scopo un singolo progetto ben delimitato, laddove i CCF non hanno, per così dire, confini prestabiliti. Ciò nonostante, nel febbraio 2015 studiosi del Levy Institute hanno suggerito al ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, di emettere una buona dose di TAN per fronteggiare la carenza di liquidità che affligge il paese. Una firma di punta del “Financial Times”, Wofgang Munchau, ha approvato l’idea.

Anche in Europa vari autori si sono soffermati sul concetto di “moneta fiscale”. Tra loro Bruno Théret del CNRS è lo studioso i cui argomenti hanno forse i maggiori contatti con quelli che sorreggono la proposta dei CFF. Vale la pena di citare un suo passo: «Il federalismo fiscale come noi lo proponiamo, in sintonia con diverse esperienze storiche, propone una rottura del monopolio bancario privato dell’emissione di moneta. Esso suppone che gli stati membri dispongano della capacità di emettere una loro propria moneta detta ‘fiscale’ perché garantita dalle loro entrate fiscali. L’idea soggiacente è che le entrate fiscali di domani (entrate anticipate) possono servire di garanzia per una iniezione monetaria fatta oggi. Le monete così create, appunto perché la loro circolazione è ristretta al territorio nazionale (o regionale), contribuirebbero a a rilanciare l’attività in una economia che soffre per la recessione e la sotto-occupazione.»[3] Va inoltre ricordato che due degli autori qui presenti hanno pubblicato nel 2014 un corposo libro sul tema dei CCF.[4] La proposta dei CCF, in sostanza, ha spalle solide.

Nei mesi scorsi diversi commentatori della proposta in questione, partendo dall’appello diffuso dai promotori che viene riprodotto all’inizio del volume, si sono soffermati soprattutto sul fatto se i CCF siano o meno una moneta parallela all’euro, se siano in contrasto con le norme UE, se rappresentino o meno un fattore di inflazione e altro. Si tratta, oso dire, di questioni secondarie. La questione centrale è che questa proposta rappresenta nella UE il primo tentativo concreto di togliere alle banche il potere esclusivo di creare denaro in varie forme, per restituirlo almeno in parte allo stato.

E’ una delle maggiori questioni politiche della nostra epoca. Di essa si discute sin dall’esplosione della Grande Crisi Globale (GCG) del 2007, e il nucleo della discussione è la necessità di procedere a drastiche riforme del sistema finanziario, inclusa la sua parte in ombra (equivalente come totale di attivi più o meno a quella operante alla luce del sole),[5] prima che esso provochi una nuova crisi. Le lobbies bancarie internazionali, più l’incompetenza o la complicità dei governi, hanno finora bloccato qualsiasi serio intervento in tale direzione. La riforma di Wall Street, basata sulla legge Dodd-Frank del 2010, non ha minimamente impedito al sistema bancario di diventare a tutt’oggi ancora più grosso, complesso e opaco di quanto non fosse prima del 2007 – appunto le tre caratteristiche che hanno fornito il materiale esplosivo per la GCG.

Le riforme in discussione nei parlamenti di Francia, Germania e Regno Unito; l’Unione Bancaria europea da poco varata; le norme di Basilea 3 (più di 500 pagine al posto delle 30 di Basilea 1), equivalgono al tentativo di sollevarsi dalla palude tirandosi per il proprio codino – tentativo riuscito finora, dicono, soltanto al barone di Münchhausen. Al confronto, la proposta dei CCF è un campione di concretezza e aderenza ai problemi reali soggiacenti alla crisi della Ue. Meriterebbe quanto meno di venire seriamente dibattuta.

Anche perché nei riguardi delle riforme del sistema finanziario il vento, da vari segni, sta forse cambiando. Il 15 aprile 2015 la senatrice democratica Elizabeth Warren ha tenuto al Levy Institute una conferenza di eccezionale vigore sul tema “Il lavoro non finito della riforma finanziaria.” Mai un membro influente del Congresso si era spinto così avanti nel chiedere interventi risolutivi in ordine ad alcuni dei principali vizi strutturali del sistema finanziario. In sintesi la senatrice Warren ha chiesto di porre finalmente termine al principio del «troppo grandi [le banche] per lasciarle fallire»; di dividere chiaramente le istituzioni depositarie dalle banche di investimento – che è il dispositivo introdotto dalla legge Glass-Steagall del 1933, abolita da Clinton nel 1999 dopo che Reagan e i suoi avevano già provveduto a svuotarla di ogni efficacia; di impedire alle istituzioni finanziarie di ingannare le persone; di denunciare il lassismo dei regolatori i quali «allorchè le piccole banche infrangono la legge… non esitano a chiudere le banche e gettare i dirigenti in prigione… ma non lo fanno per le maggiori istituzioni finanziarie». A queste si limtano a dare “uno schiaffetto sul polso” e dire “per favore non fatelo di nuovo”.[6]

Un altro segno di possibili mutamenti sul fronte delle riforme finanziarie proviene dall’Islanda. Su richiesta del Primo ministro, è stato redatto e pubblicato a metà marzo 2015 un lungo rapporto intitolato La riforma monetaria – Un miglior sistema monetario per l’Islanda. Il rapporto avanza l’idea che il miglior modo per riformare la finanza consista nell’eliminare del tutto il potere delle banche private di creare denaro, accogliendo la proposta delle associazioni del circuito “Positive Money”, molto attivo nel Regno Unito ma presente in forze in altri 17 paesi, dalla Germania alla Svizzera.[7]

La proposta consiste nel restituire per intero allo stato, ad una data prefissata, la sovranità esclusiva quanto a creazione di denaro. Le banche continuerebbero a fare il loro mestiere di accogliere depositi, custodirli, assicurare i flussi di pagamento, ma non potrebbero prestare ovvero dare a credito nemmeno un soldo che non esista già. Il credito potrebbe derivare soltanto o dal loro patrimonio, oppure da risparmiatori che consentono a che il loro denaro sia prestato a terzi, con un minimo di rischio compensato da un tasso adeguato di interesse. La cosa interessante è che il rapporto è caldamente appoggiato da Adair Turner, il quale non è l’ultimo venuto, essendo stato dal 2008 al 2013 presidente dell’Autorità per i Servizi Finanziari del Regno Unito. D’accordo, l’Islanda è un paese piccolo, e la crisi del 2007 l’ha colpita con eccezionale durezza. Ma il problema di cui si occupa il rapporto è assolutamente generale.

Bisogna lasciare la situazione qual è, o convenire con Adair Turner che «la creazione di denaro è troppo importante per venire lasciata ai soli banchieri»?[8] Un interrogativo al quale la proposta qui contenuta dei CCF non si limita a rispondere positivamente, ma indica pure una strada praticabile per attuare un principio basilare in essa insito: cominciare su scala limitata a restituire allo stato il potere sovrano di emettere denaro, allo scopo di ovviare rapidamente ai disastri che le politiche di austerità hanno prodotto.

NOTE

[1] Sui diversi generi di denaro creato dalle banche v. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011, spec. cap VII, e Il colpo di stato di finanze e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013, p. 105 sgg.

[2] S. Schulmeister, Geld als Mittel zum (Selbst)Zweck, in K. P. Liessmann (a cura di), Geld. Was die Welt im Innersten zusammehalt, Zolnay, Vienna 2009, p. 168 e passim.

[3] B. Théret, con la collaborazione di W. Kalinowski, De la monnaie unique à la monnaie commune. Pour un fédéralisme monetaire européen, Institut Veblen pour les reformes économiques, Parigi 2012, pp. 4-5. Corsivo mio.

[4] M.Cattaneo, G. Zibordi, La soluzione per l’euro. 200 miliardi per rimettere in moto l’economia italiana, Hoepli, Milano 2014.

[5] Cfr, Gallino, Il colpo di stato…, op. cit. , cap. 4.

[6] E. Warren, The Unfinished Business of Financial Reform, relazione tenuta il 15/4/2015 alla 24a Conferenza annuale in onore di Hyman P. Minsky, passim. Il testo è disponibile nel sito del Levy Institute.

[7] Un buon punto di partenza per esplorare questo circuito internazionale è il sito inglese http://www.positivemoney.org/.. L’opera più approfondita e attuale in tema di ritorno alla sovranità monetaria dello stato è J. Huber, Monetäre Moderniesierung. Zur Zukunft der Geldordnung: Vollgeld und Monetative, 3a ed., Metropolis, Marburg 2013.

[8] A. Turner, Foreword a F. Sigurjónsson, Monetary Reform – A better monetary reform for Iceland, Reykjavik 2015, p. 8.

(28 marzo 2017)

L'ultimo articolo di Alfredo e ricordi di Valentino Parlato, Eugenio Scalfari, Beppe Vacca, Paolo Franchi.

l'Unità, il manifesto, la Repubblica, Huffington post, Corriere della Sera, 22 e 23 marzo 2017


l'Unita, 14 marzo
UN LUNGO SILENZIO A SINISTRA
di Alfredo Reichlin
L'ultimo articolo, quando finalmente scrive: Matteo, ora basta
Sono afflitto da mesi da una malattia che mi rende faticoso perfino scrivere queste righe. Mi sento di dover dire che è necessario un vero e proprio cambio di passo per la sinistra e per l’intero campo democratico. Se non lo faremo non saremo credibili nell’indicare una strada nuova al paese. Non ci sono più rendite di posizione da sfruttare in una politica così screditata la quale si rivela impotente quando deve affrontare non i giochi di potere ma la cruda realtà delle ingiustizie sociali, quando deve garantire diritti, quando deve vigilare sul mercato affinché non prevalga la legge del più forte. Stiamo spazzando via una intera generazione.
Sono quindi arrivato alla conclusione che è arrivato il momento di ripensare gli equilibri fondamentali del paese, la sua architettura dopo l’unità, quando l’Italia non era una nazione. Fare in sostanza ciò che bene o male fece la destra storica e fece l’antifascismo con le grandi riforme come quella agraria o lo “statuto dei lavoratori”. Dedicammo metà della nostra vita al Mezzogiorno. Non bastarono le cosiddette riforme economiche. E’ l’Italia nel mondo con tutta la sua civiltà che va ripensata. Noi non facemmo questo al Lingotto. Con un magnifico discorso ci allineammo al liberismo allora imperante senza prevedere la grande crisi catastrofica mondiale cominciata solo qualche mese dopo.
Anch’io avverto il rischio di Weimar. Ma non dò la colpa alla legge elettorale né cerco la soluzione nell’ennesima ingegneria istituzionale: è ora di liberarsi dalle gabbie ideologiche della cosiddetta seconda Repubblica. Crisi sociale e crisi democratica si alimentano a vicenda e sono le fratture profonde nella società italiana a delegittimare le istituzioni rappresentative. Per spezzare questa spirale perversa occorre generare un nuovo equilibrio tra costituzione e popolo, tra etica ed economia, tra capacità diffuse e competitività del sistema. Non sarà una logica oligarchica a salvare l’Italia. E’ il popolo che dirà la parola decisiva. Questa è la riforma delle riforme che Renzi non sa fare.
La sinistra rischia di restare sotto le macerie. Non possiamo consentirlo. Non si tratta di un interesse di parte ma della tenuta del sistema democratico e della possibilità che questo resti aperto, agibile dalle nuove generazioni.
Quando parlai del Pd come di un “Partito della nazione” intendevo proprio questo, ma le mie parole sono state piegate nel loro contrario: il “Partito della nazione” è diventato uno strumento per l’occupazione del potere, un ombrello per trasformismi di ogni genere. Derubato del significato di ciò che dicevo, ho preferito tacere. Tuttavia oggi mi pare ancora più evidente il nesso tra la ricostruzione di un’idea di comunità e di paese e la costruzione di una soggettività politica in grado di accogliere, di organizzare la partecipazione popolare e insieme di dialogare, di comporre alleanze, di lottare per obiettivi concreti e ideali, rafforzando il patto costituzionale, quello cioè di una Repubblica fondata sul lavoro.
Sono convinto che questi sentimenti, questa cultura siano ancora vivi nel popolo del centro sinistra e mi pare che questi sentimenti non sono negati dal percorso nuovo avviato da chi ha invece deciso di uscire dal Pd. Costoro devono difendere le loro ragioni che sono grandi (la giustizia sociale) ma devono farlo in un percorso aperto intento ricostruttivo e in uno spirito inclusivo. Solo a questa condizione i miei vecchi compagni hanno come sempre la mia solidarietà.

Il manifesto, 23 marzo
LA MORTE DI ALFREDO REICHLIN.
RAGAZZI, PARTIGIANI, COMPAGNI FELICI IN MEZZO AL POPOLO

di Valentino Parlato

«Il ricordo. Nel libro

Il midollo del leone, il lungo sodalizio con Luigi Pintor, compagno di banco e di lotta».

Il compagno Alfredo Reichlin ci ha lasciato: è una seria perdita. E quando scrivo “compagno” ricordo l’epoca del protagonismo politico e culturale del Pci. Alfredo ne è stato uno dei migliori interpreti: uno straordinario compagno.

La sua vita è stata molto intrecciata a quella dei compagni che hanno fatto questo giornale. Innanzitutto a quella di Luigi Pintor. Erano compagni di banco, al liceo Tasso, ed è proprio grazie a Giaime che ambedue hanno preso la strada che poi li ha portati al Pci. Finirono la scuola nel ’43 ma nel grande edificio di via Sicilia tornarono assieme, armati di pistola, già universitari, per la loro prima azione temeraria: entrarono nella stanza del preside fascista, Amante, minacciandolo di rappresaglia se non avesse consentito lo sciopero degli studenti convocato per protestare per l’uccisione di Massimo Gizzio, studente antifascista in un altro liceo della capitale. Poi riuscirono a prendere contatto col Pci e furono arruolati, diciannovenni, nei Gap romani.

È sempre con Luigi che alla Liberazione decidono di fare il passo dell’iscrizione al Pci. «Eravamo comunisti?» – si è chiesto Alfredo nel bel libro scritto qualche anno fa (Il midollo del Leone, Laterza 2010). Lo siamo diventati dopo. E tuttavia se si vuole capire qualcosa della storia d’Italia e del perché il ruolo del Pci è stato così grande, tanti discorsi sul mito sovietico e sullo stalinismo servono ma fino a un certo punto. Non spiegano perché una generazione che dell’Urss non sapeva nulla (noi compresi) si gettava nella lotta. Non era Stalin ma la patria che ci chiamava. Può sembrare retorico, ma è la pura verità.

«Io non so se questo sentimento nazionale sarebbe scattato senza l’appello all’unità nazionale che ci arrivò da Napoli, dal capo dei comunisti, un certo Ercoli [nome di clandestinità di Palmiro Togliatti --n.d.r.] Dario Puccini, fratello del futuro regista Gianni, ci riunì a casa sua per spiegarci che l’obiettivo di questo Ercoli era la ’democrazia progressiva’.’Progressista’, cercai di correggerlo. No, ’progressiva’, mi rispose irritato, e mi spiegò il significato fondamentale di questa parola che alludeva a un processo in atto: a come, in certe condizioni, la democrazia poteva trasformarsi in socialismo.(Non ci sono barriere cinesi tra la democrazia portata fino in fondo e il socialismo). Lo aveva detto nientemeno che Lenin».

Fu di nuovo assieme a luigi che Alfredo approdò, già nel 1945, alla redazione dell’Unità. Togliatti, con grande coraggio, aveva capito che se voleva costruire un grande partito popolare doveva rendere protagonisti i giovani cresciuti nel paese durante il fascismo, non gli anziani, pur gloriosi compagni, tornati dall’esilio o usciti dalle carceri.

Di quel giornale – in cui io, più giovane di sei anni, entrai come correttore di bozze appena sbarcato dalla Libia – Alfredo divenne direttore, poco più che trentenne, succedendo a Pietro Ingrao. Ed è per “ingraismo” che ne fu allontanato nel ‘ 62 e spedito in Puglia dove era nato, ma non aveva mai vissuto (mentre Luigi per le stesse ragioni veniva spedito in Sardegna).

Segretario del partito in quella regione allora tutta bracciantile lo seguii poco dopo, perché anche io fui mandato «a conoscere l’Italia», e fui per alcuni anni il suo vice. Fu una straordinaria esperienza. Reichlin, sempre in quel libro in cui dà conto della sua vita, racconta il primo impatto con la Puglia, quando parla della felicità: l’immensa felicità della politica che si fa popolo, che riscrive la storia.

«La profonda emozione di riscoprire gli italiani, il paese vero:le borgate, le fabbriche, i braccianti. Ricordo quando arrivai a Bari da Roma una sera tanto tempo fa (erano i primi anni ’60) per assumere la direzione dei comunisti pugliesi. Non conoscevo nessuno. Cenai in una squallida trattoria con Tommaso Sicolo, il mio vice, un operaio di Giovinazzo di straordinaria intelligenza. Stazza 110 chili. Non avevo mai visto mangiare un piatto così grande di pastasciutta. Mi comunicò che il giorno dopo dovevo fare un comizio a Corato. Era la prima volta che parlavo in piazza. Non so quello che dissi. Ricordo solo una piazza immensa e un mare di coppole. Gli zappatori. In Puglia incontrai una umanità: i compagni. Mi trovai immerso nella vita di un partito che era anche una straordinaria comunità umana».

Quando io arrivai in Puglia Alfredo era riuscito ad aprire l’organizzazione anche a qualche giovane che bracciante non era. Stava crescendo un gruppo di intellettuali – Franco De Felice, Mario Santostasi, Giancarlo Aresta, Beppe Vacca, Felice Laudadio – formatisi fra l’università e la casa Editrice Laterza.

Vito Laterza, che ne era il direttore, divenne nostro amico e ci offrì la vecchia villa dove d’estate alloggiava Benedetto Croce, autore fondamentale della casa editrice. Lì andammo a vivere con Alfredo, l’abitazione era bellissima ma ormai a pezzi, in attesa di essere demolita, gelida d’inverno. Lì si svolsero discussioni infinite sulla questione meridionale, di cosa voleva dire – non in astratto, ma a partire da quel contesto concreto – una rivoluzione in occidente che non fosse una semplice variante del riformismo socialdemocratico né del marxismo-leninismo di tipo sovietico. Fu una bellissima stagione.

Anche dopo – per tutti gli anni ’60 – continuammo a incontrarci molto: a Roma, a dirigere la commissione culturale, era venuta Rossana, molto amica di Alfredo, e sebbene non sia mai diventata una corrente, visse in quegli anni pre-’68 un’area ingraiana che la pensava in modo analogo. Così come Ingrao anche Alfredo non ci seguì nell’avventura de Il Manifesto.

Le nostre strade politiche si separarono, non i rapporti umani, sebbene per un po’ di anni, i primi, le relazioni fra chi come Alfredo e Ingrao faceva parte del vertice del partito e chi come noi ne era stato radiato, furono anche tesi.

Alfredo accettò la scelta della maggioranza del Pci anche quando si arrivò allo scioglimento del partito nel gennaio ’91 e poi le successive trasformazioni in Pds, Ds, Pd.

Una rottura gli è sempre sembrata un arbitrio, quasi un atto di superbia. Fino all’ultimo ha continuato a riferirsi a quel che era restato come “il Partito”. Non riusciva nemmeno a immaginarsene un altro. Ma alla fine non ha più retto e ha scelto anche lui la strada del dissenso aperto: votando No al referendum e scrivendo, solo pochi giorni prima di morire, a commento del Lingotto, un feroce articolo contro il renzismo.

le ultime pagine de Il Midollo del Leone sono dedicate ai fratelli Pintor.

Si parte dalla foto della loro classe di liceo e Alfredo torna a guardare quei volti di loro ragazzi. «Sopratutto – scrive- il volto di Luigi, il mio compagno di banco e fratello di Giaime, insieme al quale scoprivo i libri, facevo i grandi pensieri, e poi combattei fianco a fianco tra i partigiani, e poi ancora ci ritrovammo nella redazione dell’Unità. Era un ragazzo davvero straordinario e ne parlo perché vorrei che lo avessero conosciuto i tanti simili a lui, che certamente esistono e che ormai devono decidersi a prendere la parola. Luigi era il nostro capo…..Passò solo un anno ed egli venne a casa da me in quella sera tristissima del dicembre 1943 per dirmi che Giaime era morto, dilaniato da una mina mentre attraversava la linea sui monti dell’Alto Volturno. Noi avevamo 18 anni, Giaime 4 o 5 di più. E Giaime resta per me il simbolo di una generazione».

Rispetto agli intellettuali antifascisti delle generazioni precedenti, questa non si è fatta affascinare dall’intimismo, ha «lasciato ai vecchi intellettuali delusi la confusione dei loro propositi. L’ultima generazione non ha avuto tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato un dramma esteriore perfettamente costruito».

E poi ricorda le parole di Calvino su Giaime: «L’esempio di Pintor, una delle tempre umane più estranee al decadentismo che pure veniva da un’educazione letteraria che era quella del decadentismo europeo, ci testimonia come in ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia».

il suo libro, Alfredo lo conclude con queste parole: «Di questo ’midollo del leone’ c’è un gran bisogno. Se Vittorio Foa fosse ancora vivo e mi rivolgesse di nuovo quella domanda – credevate nella rivoluzione? – io risponderei con questi pensieri».

la Repubblica, 23 marzo

ALFREDO REICHLIN

di Eugenio Scalfari
«Addio amico mio eri il più comunista e il più democratico».

L’avevamo battezzata, Alfredo ed io, la cena dei cretini, che da almeno tre anni aveva luogo in un ristorante romano di buon livello, non sempre lo stesso. I membri titolari di quella cena erano oltre noi due anche Fabiano Fabiani e Luigi Zanda ciascuno con le proprie mogli. Ognuno di noi naturalmente poteva invitare altri comuni amici o figli e questo secondo ciclo, figli a parte, erano cretini di complemento, la serie B: Andrea Manzella, Lorenzo Pallesi, Gianluigi Pellegrino e suo padre quando era a Roma.

Cretini. Ma perché c’era venuta in mente quella parola attribuita a noi stessi e perché mi viene in mente per prima, insieme a una montagna di ricordi questo che è il più cretino del mondo? Era la consapevole descrizione di persone fortemente interessate alla politica e alla propria professione: uomo politico, avvocato, magistrato, docente. Ma nessuno di loro (di noi) aveva mai pensato al proprio interesse. L’interesse generale, quello sì; lo Stato in quanto suo tutore. La distinzione era netta tra l’interesse generale e quello particolare, che doveva essere tutelato anch’esso, ma solo con le forze proprie e comunque doveva cedere di fronte agli ideali, ai valori ed anche alla eventuale conflittualità con quello dello Stato.

Si può conciliare il generale e il particolare, ma c’è chi lo fa con sagacia, nel senso cioè che quella conciliazione è furbesca e procura comunque qualche vantaggio, qualche influente amicizia che al bisogno una mano te la dà. Il cretino della nostra definizione invece è in questo caso ingenuo, sincero, leale con gli altri ed anche con se stesso. Insomma non si è posto un problema contraddittorio che per la sua natura non c’è. Ma per ironizzarlo e divertirmici sopra usiamo la parola cretini, anziché onestamente ingenui. Era anche onestà, non soltanto nella vita pratica ma anche in quella intellettuale. È probabile che questo mio racconto venga preso in giro e sia origine di sfottimenti di vario genere, più o meno diffamatori. Comunque a noi cretini la diffamazione ci sfiora ma non ci tocca. E tantomeno ci ferisce.

Quello che fin qui ho raccontato riguarda questi ultimi anni della mia amicizia con Alfredo, ma essa è molto più antica. Cominciò nei primi anni Cinquanta attraverso Luigi Pintor il quale era molto attivo, comunista politicamente e dotato di grande estro musicale e pianistico. Suonava con la stessa passione e grande tecnica strumentale il pianoforte. L’avevo conosciuto casualmente ed ero stato affascinato dal suo ruolo di pianista. Alfredo lo conosceva e frequentava in quanto compagno comunista ed anche lui gradiva le sue suonate e fu lì il nostro primo incontro.

Capii subito che Alfredo era un comunista “sui generis”, più di sinistra degli altri ma al tempo stesso democratico e costituzionale. Popolare. Amico del proletariato, ma contrario ad ogni rivoluzione che in nome dell’eguaglianza abbandoni la libertà dei singoli, del loro modo di pensare e di agire. Per lui il comunismo e l’eventuale sua rivoluzione potevano essere necessarie per completare le libertà borghesi con la libertà sostanziale del proletariato. Le libertà borghesi, cioè, erano indispensabili perché fanno competere e vanno scambiate per privilegi, ma dovevano essere comunque appaiate alla libertà proletaria e alla sua forza di accedere al potere. Un potere pieno ma democratico. Una democrazia che inventava la sua struttura iniziale: non erano i pochi che comandavano i molti, ma i molti che attraverso il potere ottenevano le finalità volute a favore del proletario, ma al tempo stesso tutelavano la libertà e la difesa dei propri legittimi interessi particolari, non di classe ma di persona e di famiglia.

Questa nel Pci era la tesi sostenuta da Pietro Ingrao e questa fu con chiarezza, ma anche con senso di appartenenza alla rivoluzione sovietica e alla sua potenza internazionale e quasi imperiale, la “doppiezza” di Togliatti, segretario (cioè capo) del Pci, ma anche membro del Comintern e poi del Cominform, organi internazionali del movimento comunista.

Togliatti era le due cose insieme. La sua doppiezza in quegli anni fu preziosa al Pci perché non lo chiuse nel ghetto di un partito che pensava e proponeva soltanto la rivoluzione. Del resto ripeteva quanto era stato stabilito al Congresso di Lione molti anni prima, dall’influenza del pensiero di Gramsci, e soprattutto quanto avevano detto e scritto Marx ed Engels nel 1948, quando le rivoluzioni borghesi scoppiarono nell’Europa intera contro le monarchie e i loro poteri assoluti. Insomma, un ritorno alla Rivoluzione francese dell’Ottantanove, poi sostituita dal “terrore” di Robespierre, dal potere assoluto del Direttorio e poi di Napoleone. Questa storia finisce con la restaurazione del potere monarchico assoluto che ritornò in pieno dopo il Congresso di Vienna gestito da Metternich.

«Marx – mi diceva Alfredo – non avrebbe mai voluto una rivoluzione comunista in Russia per il semplice fatto che la Russia non era una potenza industriale che produce oltre al profitto anche una massa di operai. Era invece un paese latifondista abitato soprattutto da contadini che non a caso alcuni grandi scrittori come Gogol chiamavano “anime morte”. In Russia le liberà borghesi non esistevano, quindi non esisteva la democrazia e non poteva evolversi con il comunismo marxista».

Così la pensava Reichlin e così la pensava Togliatti, ancor più in questa direzione si svolgeva il pensiero e la posizione politica di Terracini. Diversa era quella di Amendola, il più democratico di tutti in Italia, ma il più leninista e poi staliniano in Urss. Amendola cioè estremizzava la sua democrazia italiana compensandola con il suo stalinismo russofobo.

Alfredo era seguace della doppiezza di Togliatti e del popolarismo di Ingrao. Conoscendo i miei sentimenti verso il movimento di “Giustizia e Libertà” derivanti dal Partito d’Azione, mi esortava a votare comunista ora che il Partito d’Azione di fatto non esisteva più, anche se la sua cultura politica era molto diffusa. Di fatto io votavo per il Partito repubblicano finché Ugo La Malfa ne fu il capo, ma quando morì cominciai a votare comunista. Questo coincise con l’emergere di Berlinguer e dei suoi primi strappi contro il potere sovietico.

Ricordo ancora una cena a casa di Alfredo, una casa della cooperativa dei giornalisti, in una serata quasi estiva. Alfredo, che era un bel giovane alto, snello e forte, aveva da poco sposato Luciana Castellina, fisicamente bellissima e politicamente molto impegnata nelle associazioni universitarie di sinistra e poi nel Pci come partito rivoluzionario. Lei altre domande non se le poneva, rivoluzionaria, punto e basta. Infatti col passar degli anni ci fu una rottura e i rivoluzionari a cominciare da Luciana uscirono clamorosamente dal partito e ruppero anche con Ingrao che entro certi limiti era con loro, e fondarono il manifesto.

Tutto questo accadde dopo. La cena di cui parlo avvenne molto prima, esattamente nel giugno del 1957. Aggiungo che l’Espresso era già nato nell’ottobre del 1955 e nel gennaio del ’56 fece la sua comparsa il Partito radicale, fondato dal gruppo dirigente dell’Espresso e del Mondo di Mario Pannunzio. Di quel partito io ero stato nominato vicesegretario.

Queste le premesse che determinarono la nostra cena cui ho accennato. Era molto ristretta e, come mi aveva avvertito Alfredo, riservata. C’erano i padroni di casa (soprannominati da tempo “i due belli”) c’era Togliatti con la sua compagna Nilde Iotti e io con mia moglie Simonetta.

A tavola su domanda di Luciana che voleva sentire da Togliatti come e dove aveva trascorso gli anni di guerra, Togliatti rispose: a Mosca in un albergo. E da quel momento parlò e raccontò quei tre terribili anni, tra il 1939 e il ‘42 con le truppe tedesche a quaranta chilometri da Mosca, circondata con soltanto pochissimi varchi lungo il fiume. Ogni tanto gli facevamo qualche domanda e lui rispondeva, chiariva, completava. Insomma un racconto affascinante, personalizzato da un protagonista politico che lo stesso Stalin trattava per quello che era. Poi su sollecitazione di Alfredo, raccontò anche quando era uno dei comandanti degli armati comunisti a Barcellona durante la guerra di Spagna e ricordò, con un certo imbarazzo, la strage degli anarchici i cui volontari erano anch’essi a Barcellona per arginare le truppe di Franco che assediavano la città. I comunisti e gli anarchici convissero per qualche tempo ma poi scoppiò una vera guerra interna e gli uomini guidati da Togliatti, quando lui era tornato a Mosca, fecero strage degli avversari.

Alla fine, dopo aver brindato e mangiato il tradizionale dolce “montebianco” (lo ricordo ancora) ci trasferimmo nel piccolo salotto con le signore in un lato e i tre uomini dall’altro.

Io su indicazione di Alfredo sedetti in poltrona, lui su una sedia e Togliatti per parlarmi vicinissimo sedette su un pouf, posizionandolo quasi attaccato alla poltrona. Lì compresi finalmente la ragione di quella cena, quando Togliatti mi domandò che cosa fosse e che cosa si proponesse di fare il nostro Partito radicale. Debbo dire che mi sentii assai lusingato da questo suo interesse e risposi: eravamo dei liberali di sinistra, alcuni di noi volevano aprire verso i socialisti, altri, la maggioranza, si consideravano alleati di Ugo La Malfa e dei suoi repubblicani.

«Ho capito – commentò Togliatti – siete una specie di succursale intellettuale dei contadini romagnoli gestiti da La Malfa. L’alleanza con i socialisti è un po’ più anomala». Ma lei, gli dissi io, non è favorevole a questa spinta più a sinistra? «Certo certo», rispose lui. «Forse non hai capito bene», interloquì Alfredo. «A noi interessa che i radicali operino in quanto tali e La Malfa va benissimo come punto di congiunzione. I socialisti di Nenni hanno molto più seguito popolare e con essi non potete fare un’alleanza ma di fatto finirete dentro quel partito senza alcuna funzione autonoma da manifestare. Che vantaggio c’è non solo per voi ma per il Paese?». Intervenne Togliatti: «I socialisti sono nostri alleati, certamente rappresentano, sia pure in modo alquanto diverso, una sinistra marxista e nei momenti fondamentali siamo uniti a tutti gli effetti. Ma un partito liberale di sinistra in Italia non c’è e soltanto il vostro per piccolo che sia marca e sottolinea una posizione che interpreta la parte migliore della classe borghese, quelle famose libertà borghesi che in Italia già ci sono ma sono ancora deboli e fragili.

Chi è in grado di rafforzarle non tanto con i numeri degli elettori ma con il sostegno intellettuale e politico dei valori delle libertà borghesi è il benvenuto anche per noi. Spero di essermi spiegato ». Chiarissimo, risposi io. E la conversazione finì lì.

Di racconti analoghi ne potrei fare molti. Dirò soltanto che quando Berlinguer scomparve, gli subentrò Natta (e Tortorella) ma Natta durò poco e il Pci dovette porsi il problema del nuovo segretario. Era già nata Repubblica e io sostenni che a quel posto andasse Reichlin. Il quale mi telefonò per dirmi che stavo sbagliando. Lui sapeva già che il congresso votava Occhetto e che probabilmente lui avrebbe cambiato il nome del partito. Farà senz’altro bene, mi disse Alfredo, ma lui, Alfredo, non l’avrebbe mai fatto ancorché fosse persuaso che quella era la soluzione necessaria. Quindi la facesse qualcun altro ma lui quell’iniziativa non l’avrebbe mai presa pure approvandola.

Questo è stato Alfredo. Un politico bravo ed efficiente ma soprattutto un custode di valori e ideali a favore dei poveri, dei deboli, degli esclusi. La politica è stata la sua passione ma con difficoltà ad effettuare interventi a favore dei suoi ideali. A me talvolta ricorda in questi ultimi tempi papa Francesco e gliel’ho detto. «Ma che sei matto? » mi ha risposto Alfredo. Questo avvenne un paio di volte durante la cena dei cretini. Lì ci incontrammo l’ultima volta un mese e mezzo fa. Poi si ammalò e adesso ci ha lasciato soli, almeno me.

Huffington post, 22 marzo
LA SUA LEZIONE È QUELLA DI TOGLIATTI.
SU RENZI CI SIAMO DIVISI"
di Beppe Vacca

Beppe Vacca fa un tiro di sigaretta, quasi a trattenere l’emozione, comenello stile dei vecchi comunisti: “Ricordo che a uno dei primi incontri Alfredomi chiese: quante ore al giorno lavori? Io risposi: sei, sette… e lui: cosìpoco? Per fare grandi cose devi lavorare almeno dieci ore al giorno. Iniziò inquei tempi un grande sodalizio intellettuale e anche una grande amicizia”. È lafase della cosiddetta “ecole bariesienne”, il fecondo incontro tra il Pci e gliintellettuali in Puglia. Ricorda Beppe Vacca, storico direttore dell’IstitutoGramsci: “Alla fine del ’62 in preparazione del decimo congresso Alfredo assumela segreteria regionale. Il partito comunista dell’epoca è un partito insediatonelle campagne, tranne Taranto città operaia, e nel quale la forza urbana èmolto modesta e la presenza del ceto medio intellettuale è sparuta”. Reichlin èun giovane dirigente comunista, sguardo esigente e asciutto, cresciuto nel Pcitogliattiano, quello di Gramsci del suo “rovello” della storia d’Italia, cheinterpreta il marxismo come storicismo assoluto, la “politica come storia inatto”, come ricorderà lo stesso Reichlin commemorando Ingrao: “Io – prosegueVacca – avevo scoperto Togliatti, e in Reichlin vidi un dirigente esemplare,per più ragioni”.

Quali?
«Innanzitutto per come interpretava il centralismo democratico. Tornando dalleriunioni di direzione a Roma, non è che dava la linea, spiegava il processo diformazione della linea. Metteva i dirigenti nelle condizioni di poter ragionarenei termini della discussione per come si sviluppava ai vertici. In secondoluogo, per la grande attenzione ai processi urbani».

La politica delle alleanze.
Alleanze e gruppi intellettuali. Anche perché questo tipo di esercizio dinutrire culturalmente il perché la linea era quella e non un’altra stabilisceun allargamento della comunicazione tra i gruppi stretti e una base più larga.Il terzo elemento è che lui inizia subito a dare un nuovo orientamento almovimento operaio della puglia. Lavorando sui braccianti, sul sindacato, licolloca sul terreno più avanzato della lotta per la modernizzazionedell’agricoltura pugliese. È un approccio sviluppistico, non semplicementerivendicativo. E infatti inizia allora il dibattitto se il Mezzogiorno èquestione agraria o questione urbana»

Sentendola parlare avverto una nostalgia per un’epoca in cui la politicaè anche esercizio intellettuale?
«Per me è la politica è sempre questa e non può essere alta. Allorain determinate condizioni, oggi in altre».

Torniamo ai Dieci anni di politica meridionale, come si intitola suo illibro (Editori Riuniti, 1974).
«Il punto di arrivo di questa linea, quando lascia la Puglia, per andare adirigere la commissione meridionale, è che il Mezzogiorno non venga tagliatofuori, anzi è l’idea di un nuovo modello di sviluppo del Mezzogiorno. È unlavoro molto importante, che culmina con la conferenza di Crotone, basato sullasaldatura tra il ciclo contrattuale delle lotte operaie, i fenomeni modernidelle città e quello che si può muovere dalle campagne e dai fenomeni modernidelle città».

È la grande scuola togliattiana: l’analisi sociale, il campo, lapolitica delle alleanze, l’idea di una battaglia che porta all’approdo di unademocrazia che distribuisce ricchezza e potere. Più avanzata.
«La lezione di Alfredo è la lezione di Togliatti. Il fondamento della politica èl’analisi storica. La politica una grande chiave interpretativa dellamodernità, la politica organizzata.

In questa lezione c’è anche un partito non leaderistico. Reichlin èin segreteria con Berlinguer, il leader più popolare che ha avuto la sinistra,ma ha attorno una classe dirigente viva a critica, basti pensare alla vicendadella scala mobile.
«Nella politica come è stata negli anni Settanta, il grande partito era uncomplesso insediamento sociale e il grande partito aveva grandi leader. Poi,cambia la società e il mondo. E quindi cambiano i partiti e la natura dellaleadership».

Negli ultimi anni, lei e Reichlin, due togliattiani, avete fattoscelte diverse. Molto diverse. Vi ha diviso il giudizio su Renzi.
Io ho guardato al Pd nel suo farsi senza essere influenzato dall’alternarsidelle sue leadership. E ho riconosciuto Renzi come leader legittimo.

Però, scusi professore. C’è una differenza non da poco tra ilpartito della Nazione di cui ha parlato Reichlin, che è un partito incardinatosu una parte della società e si fa carico della funzione nazionale, e un magmasenza confini. È la differenza tra un partito che allarga il campo dellasinistra e quello che esce dal campo e rompe i confini.
Per me il Pd è un partito della nazione, già per il fatto che ha accumulatodieci anni di esistenza per una parte fondamentale di un pezzo dell’Italia,della nazione. Se io parlo della sinistra in Germania parlo della Spd, inFrancia del Pse, in Italia del Pd. E il Pd, anche questo Pd, è più modernodelle socialdemocrazie. Non è, come dice lei, un contenitore indistinto, ma uncampo di forze.

Nell’ultimo editoriale Reichlin sull’Unitàusa toni pessimisti sul futuro della sinistra: “Non lasciamo la sinistra sottole macerie”.
«Ha il merito di parlare a tutti. Ognuno mediti e si faccia l’esame dicoscienza».

Scrive Reichlin: “Anche io avverto il rischio Weimar. Crisi socialee crisi democratica si alimentano a vicenda e sono le fratture della societàitaliana a delegittimare le istituzioni !rappresentative”.
È dal 1975 che in Italia è aperta la questione Weimar. Uscì allora il libro lacrisi di Weimer di Gian Enrico Rusconi, pubblicato da Einaudi. Ripubblicatooggi sarebbe attualissimo».

Corriere della sera, 22 marzo
ALFREDO REICHLIN,
PERCHÉ CI MANCHERÀ
di Paolo Franchi

«Padre nobile di tutti i leader della sinistra, con l’eccezione di Renzi, un comunista italiano e un particolarissimo homo togliattianus»

Alfredo Reichlin è morto ieri sera. Aveva 91 anni. Era stato partigiano nelle Brigate Garibaldi, dirigente e deputato per il Pci, allievo di Togliatti, poi in sintonia con Ingrao e la collaborazione con Berlinguer. Fu anche direttore dell’Unità.

Con Alfredo Reichlin, scomparso nella notte all’età di 91 anni, se n’è andato uno degli ultimi grandi vecchi della sinistra. Persone che erano passate attraverso la Resistenza e si erano formate nel clima arroventato della Guerra fredda, ma avevano saputo smussarne le asprezze, pur rimanendo legate all’idea di un superamento del sistema capitalistico che si era rivelata illusoria. Reichlin aveva tuttavia accettato, dopo la caduta del Muro di Berlino, l’esaurimento degli ideali comunisti e le successive svolte che avevano visto la progressiva trasformazione del Pci, fino a svolgere il ruolo di presidente della commissione incaricata di stendere il Manifesto dei valori del Partito democratico. Insisteva però sulla necessità che l’eredità storica della sinistra non andasse dispersa.

Nato a Barletta il 26 maggio 1925, ma cresciuto a Roma fin dall’infanzia, figlio di un avvocato, apparteneva alla generazione che si era avvicinata alla politica con l’adesione alla lotta partigiana nelle file del Partito comunista. In particolare aveva partecipato nella capitale all’esperienza dei Gruppi d’azione patriottica, i nuclei armati che conducevano la guerriglia urbana contro gli occupanti tedeschi e i loro alleati fascisti. Durante la guerra era stato anche catturato dal nemico e poi liberato per un intervento provvidenziale di Arminio Savioli, futuro giornalista dell’«Unità».

Giovane di notevoli capacità, era tra coloro che si erano formati all’ombra di Palmiro Togliatti, che dopo la Liberazione, aveva scelto di aprire il Pci a tutte le energie esterne disposte a condividerne il programma, con l’intento di aggregare forze fresche in una società civile che andava abituandosi alla vita democratica.

Divenuto vicesegretario della Federazione giovanile comunista, Reichlin aveva poi proseguito la carriera politica in campo giornalistico, entrando nella redazione dell’«Unità», di cui era divenuto vicedirettore e poi, nel 1958, direttore. Ricordava con grande orgoglio il ruolo svolto all’epoca dal quotidiano del Pci nella capitale, in particolar modo nel denunciare il degrado delle periferie romane. Il compito che aveva affidato al giornale non era tanto seguire la politica istituzionale, diceva rievocando quegli anni, quanto piuttosto andare alla «scoperta dell’Italia vera, con le sue miserie, le sue tragedie, le sue violenze».

Negli anni Sessanta Reichlin, sulla spinta del cambiamento determinato dalla destalinizzazione, si era avvicinato alla sinistra di Pietro Ingrao e forse anche per questo nel 1963 era stato sostituito da Mario Alicata alla guida dell’«Unità». Ma aveva sempre mantenuto un ruolo di spicco nel partito. Era stato segretario del Pci in un regione importante come la Puglia e dal 1968 era stato eletto in Parlamento. Sposato in prime nozze con un’altra esponente comunista, Luciana Castellina (radiata dal partito nel 1969 con il gruppo del «manifesto»), aveva avuto da lei due figli, Lucrezia (firma del «Corriere») e Pietro, entrambi economisti. Dal 1982 era sposato con Roberta Carlotto.

Durante gli anni Settanta Reichlin era entrato nella direzione nazionale del Pci e aveva lavorato in stretto raccordo con Enrico Berlinguer, di cui aveva condiviso le scelte fondamentali che avevano condotto il partito prima a straordinari successi e poi a un progressivo declino. Interessato ai temi della politica economica e alla necessità di definire un nuovo modello di sviluppo, si era preoccupato anche di stabilire un rapporto con il mondo produttivo, compresa la piccola imprenditoria. Dal luglio del 1989 al 1992 era stato il ministro dell’Economia del «governo ombra» costituito dal Pci, poi divenuto Pds.

Dopo la fine del blocco sovietico aveva accettato di mettere in discussione la propria esperienza politica nel libro Il silenzio dei comunisti (Einaudi), scritto con Vittorio Foa e Miriam Mafai. Altre riflessioni importanti sull’identità e il futuro della sinistra sono contenute nei suoi saggi Ieri e domani (Passigli, 2002) e Il midollo del leone (Laterza 2010). Il suo ultimo intervento, significativamente intitolato Non lasciamo la sinistra sotto le macerie , era uscito il 14 marzo scorso sul sito Nuova Atlantide: «Non sarà una logica oligarchica — scriveva — a salvare l’Italia. È il popolo che dirà la parola decisiva».

Ottanta anni fa, il 27 aprile, moriva il grande intellettuale comunista. Se quanti fanno

politiquepoliticienne oggi - dalla sinistra radicale fino ai liberali -avessero letto e meditato con più attenzione i suoi scritti forse ci sarebbero meno rottami e più speranze. Ytali, 21 febbraio 2017 (c.m.c.)

"Io non parlo mai dell’aspetto negativo della mia vita, prima di tutto perché non voglio essere compianto: ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapevolmente". Lettera alla madre, 24 agosto 1931

L’“Anno Gramsciano” è appena iniziato. In tutta Italia sono già in tanti ad aver colto questa preziosa occasione per organizzare iniziative ed eventi dedicati al pensatore italiano più studiato e tradotto al mondo.

Uno dei primi importanti eventi dell’“Anno” è la mostra “Antonio Gramsci e la Grande Guerra”, ideata e realizzata dalla Fondazione Gramsci. Dal 15 febbraio al 10 marzo sono esposti all’Archivio Centrale dello Stato anche i trentatré “Quaderni del carcere” compilati da Gramsci dal 1929 al 1935.

Intellettuale e dirigente politico, la sua tormentata e dolorosa esperienza di prigioniero di Mussolini ebbe inizio l’8 novembre 1926, alla vigilia dell’approvazione delle “Leggi eccezionali fasciste”. La sua vicenda carceraria e la prematura scomparsa lo hanno reso un martire e un eroe. Egli stesso, tuttavia, aveva rifiutato queste etichette: lo dimostra la lettera del 12 settembre 1927 rivolta al fratello Carlo in cui affermava di non voler fare «né il martire né l’eroe». «Credo», proseguiva nella sua missiva, «di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo».

Gramsci morì il 27 aprile 1937 presso la Clinica Quisisana di Roma a causa di un’emorragia cerebrale che l’aveva colpito due giorni prima: «il giorno stesso in cui il giudice di sorveglianza del Tribunale di Roma», ricorda il professor Giuseppe Vacca, «gli aveva comunicato che, terminato il periodo della libertà condizionata, veniva sospesa ogni misura di sicurezza nei suoi riguardi.»

Togliatti gestì direttamente l’eredità culturale e politica di Gramsci all’indomani della sua scomparsa. Secondo Giuseppe Cospito, docente di Storia della filosofia moderna presso l’Università degli Studi di Pavia (“Introduzione a Gramsci”, Il melangolo, 2015), Togliatti è «l’artefice fondamentale, nel bene e nel male, delle letture del suo pensiero nei primi decenni successivi alla morte» non solo per il ruolo di “editore degli scritti”, ma anche per aver voluto «rivendicarne per sé e il proprio Partito l’eredità politica e culturale.» Un “difensore”, sempre secondo Cospito, dell’«originalità della posizione del capo della classe operaia» in grado di “trascendere la vicenda storica” del Partito, senza mettere in discussione l’ortodossia marxista e leninista, da interpretare, di volta in volta, in modo diverso, anche a costo di “inevitabili forzature”, per “adattare” il suo pensiero all’epoca contemporanea.

La Fondazione Gramsci, dal 1950, per volontà di Togliatti, custodisce il lascito di “Nino”, come Gramsci veniva chiamato in famiglia, ed è attivamente impegnata nella valorizzazione della sua figura in Italia e all’estero.

Ma, concretamente, com’è stato preservato questo patrimonio composto non solo dai “Quaderni del carcere” (29 di note e quattro di traduzioni) e dalle lettere, ma anche da libri, documenti d’archivio, giornali, riviste e altri manoscritti di Gramsci?

Lo abbiamo chiesto a Francesco Giasi, Direttore della Fondazione Gramsci, che ci ha accolto nella stanza in cui è conservata la maggior parte dei libri che Gramsci leggeva mentre si trovava in carcere.

Direttore, in questi 67 anni la Fondazione ha portato avanti il compito che Togliatti le aveva affidato. Come ha gestito questa importante “missione”?
L’idea di una Fondazione dedicata a Gramsci nacque in occasione del decennale della sua morte, nel 1947. Venne poi istituita nel 1950 quando tornarono in Italia i libri appartenuti a Gramsci, che, assieme ai “Quaderni” e alle “Lettere”, erano stati portati a Mosca dalla cognata Tania Schucht.
Le “Lettere dal carcere” avevano già avuto uno straordinario successo editoriale e si stava concludendo la prima edizione dei “Quaderni”. Togliatti non aveva mai pensato di ridurre Gramsci ad un santino. Il suo ingresso nel pantheon nazionale era avvenuto già all’indomani della Liberazione quando la sua figura politica era stata solennemente accostata in Parlamento a quella dei padri della patria. Accadde nel giugno del 1945, quando furono commemorati anche Giacomo Matteotti e Giovanni Amendola, gli altri due deputati vittime del fascismo. Prima della caduta di Mussolini, il volto e il nome di Gramsci avevano accompagnato le lotte antifasciste, assieme a quelli dei fratelli Rosselli, di Gobetti e di altre vittime e perseguitati politici. Gramsci, quindi, era già un’icona.

A Togliatti si deve la volontà di farlo conoscere attraverso i suoi scritti. C’è da dire che nei primi anni l’attività della Fondazione fu molto limitata. I manoscritti di Gramsci erano custoditi a Botteghe Oscure, presso la Direzione nazionale del PCI, dove aveva sede anche l’ufficio di Felice Platone che curò la prima edizione delle “Lettere” e dei “Quaderni”. Anche la pubblicazione degli scritti giornalistici fu avviata sotto la supervisione di Togliatti e il ruolo della Fondazione in questa impresa fu, inizialmente, marginale. Si trattava di un’impresa molto complessa che fu, peraltro, portata a termine solo molti anni dopo la morte di Togliatti.

Perché complessa?

Complesso è l’intero lavoro di edizione degli scritti. Gramsci è un autore che non ci ha lasciato “opere”, cioè libri, ma una grande mole di appunti (i 33 “Quaderni del carcere”), lettere non destinate alla pubblicazione e molte centinaia di articoli giornalistici. Questi ultimi non recano quasi mai la sua firma e sono dispersi in un gran numero di giornali e di riviste. C’è da individuarli e da riconoscerne la paternità. Ciò non è sempre agevole. In molti casi non è possibile stabilire con certezza che Gramsci ne sia l’autore, anche se il corpus dei suoi scritti principali non è mai stato in discussione. Gli articoli più brevi, quelli nati dalla collaborazione con altri redattori o che paiono più da lui ispirati che usciti dalla sua penna restano attribuibili con margini di incertezza. Un lavoro delicato iniziato da curatori che erano anche stati stretti collaboratori di Gramsci all’Avanti! di Torino, al Grido del popolo, all’Ordine Nuovo e all’Unità.

E quando la Fondazione iniziò ad occuparsi direttamente del lascito di Gramsci?
A partire dal 1957. In occasione del ventennale della morte, l’Istituto Gramsci, come venne ridenominata la Fondazione, organizzò il primo importante convegno internazionale di studi. L’iniziativa poté tenersi solo nel gennaio del 1958, a causa degli impegni politici di Togliatti. L’Istituto Gramsci era presieduto da Ranuccio Bianchi Bandinelli e diretto da Franco Ferri. Al convegno parteciparono figure di spicco della cultura nazionale e internazionale e una larga schiera di giovani filosofi e storici. Da allora l’Istituto prese in mano anche l’edizione degli scritti e divenne un vero centro di studi su Gramsci. Gli originali delle “Lettere” e dei “Quaderni” furono acquisiti nel 1963 e, poco dopo, l’archivio cominciò ad arricchirsi di altre carte, tra cui le lettere della cognata Tania. Togliatti affidò all’Istituto Gramsci la seconda edizione delle “Lettere dal carcere” che poté uscire solo nel 1965. Dopo la sua morte i convegni organizzati a cadenza decennale segnarono le tappe degli studi su Gramsci. Nel 1967 si tenne a Cagliari un convegno che impegnò una parte significativa del mondo accademico italiano. Nel 1977, a Firenze, vi fu una prima riflessione sulle novità portate dall’edizione critica dei “Quaderni del carcere” promossa già a metà degli anni Sessanta e pubblicata due anni prima. Ma ormai da vent’anni l’Istituto Gramsci non limitava la propria attività alla promozione degli studi gramsciani.

Gramsci ignorato in Italia e studiato all’estero. Un’idea che negli ultimi anni si è profondamente radicata nel nostro Paese. È davvero così?

Sfatiamo un mito. Gramsci è letto e studiato in Italia indipendentemente dalle ricorrenze. Basterebbe dare uno sguardo alle pubblicazioni degli ultimi vent’anni e a ciò che è stato prodotto tra gli ultimi due convegni gramsciani tenutisi a Cagliari nel 1997 e a Bari nel 2007. Decine di opere monografiche, innumerevoli contributi sulla sua vita e sul suo pensiero. Ricerche innovative in larga parte sollecitate dall’Edizione Nazionale degli scritti istituita dal Ministero dei Beni Culturali nel 1996. Un’enorme produzione di articoli, di saggi che alimentano una discussione vivace che appassiona gli studiosi delle più diverse discipline: storici, filosofi, linguisti, critici letterari, pedagogisti e antropologi. Questo avviene in Italia e non solo all’estero. In più, solo in Italia viene adeguatamente studiata la sua biografia politica e intellettuale.

Quando il pensiero gramsciano attraversò una fase di declino?
Vi fu solo un momento in cui la figura di Gramsci subì in Italia un temporaneo declino: all’inizio degli anni Ottanta. Già Hobsbawm, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte, aveva sottolineato che la crescente attenzione internazionale per Gramsci contrastava con la profonda “emarginazione” del suo pensiero in Italia. Proprio avvertendo questa discrasia tra fortuna all’estero e declino in Italia, Giuseppe Vacca, divenuto direttore della Fondazione, decise di organizzare un convegno che desse conto degli studi internazionali. L’iniziativa si tenne a Formia nel mese di ottobre del 1989, pochi giorni prima della caduta del Muro di Berlino.

Questo Convegno fu molto importante perché vide la partecipazione di studiosi europei, americani, asiatici e africani che illustrarono il percorso degli studi gramsciani nei Paesi di provenienza. La Fondazione da allora ha continuato a rappresentare un collegamento tra gli studiosi di tutto il mondo. A Formia, tra l’altro, si costituì l’International Gramsci Society e sono innumerevoli gli accordi con università e centri di ricerca per pubblicazioni e progetti congiunti. Da oltre un decennio curiamo la pubblicazione di volumi dedicati agli studi gramsciani nel mondo, l’ultimo dei quali si intitola “Gramsci in Gran Bretagna”. I prossimi saranno dedicati a “Gramsci in Francia” e a “Gramsci nel mondo arabo”.

In questo contesto rientra anche la decisione del Parlamento italiano di dichiarare la Casa Museo di Antonio Gramsci di Ghilarza “monumento nazionale”?
Certamente la decisione è un ennesimo riconoscimento dell’importanza di Gramsci per la storia e la cultura nazionale. Peraltro, la Fondazione Gramsci, l’International Gramsci Society e la Casa Museo di Ghilarza organizzano già dal 2013 una Summer School, una vera e propria scuola internazionale di studi gramsciani. Vi partecipa, di volta in volta, una quindicina di giovani studiosi provenienti da ogni parte del mondo, selezionati per concorso. Anche la Casa Museo si è data una nuova struttura e ha in calendario importanti iniziative.

Quali progetti e iniziative sta mettendo in campo la Fondazione per l’Ottantesimo?
Nel corso del 2017 lo celebreremo nel modo dovuto. La prima grande occasione – se ne è parlato prima – è la mostra “Antonio Gramsci e la Grande Guerra” allestita all’Archivio Centrale dello Stato. Il 27 aprile vi sarà una commemorazione organizzata con la Presidenza della Camera dei Deputati a Palazzo Montecitorio, nella sala della Lupa. Nei giorni seguenti, fino al 7 giugno, saranno esposti a Montecitorio i “Quaderni” e i libri del carcere. Durante i giorni della mostra si terrà – nella Sala Aldo Moro – un ciclo di lezioni destinato al largo pubblico. Dal 18 al 20 maggio si terrà poi il convegno intitolato “Egemonia e modernità. Il pensiero di Gramsci in Italia e nella cultura internazionale”, organizzato assieme all’International Gramsci Society e all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, che è anche l’editore dell’Edizione Nazionale.

Il convegno conferma l’importanza del pensiero gramsciano all’estero. Gramsci è uno dei cinque italiani presenti nell’elenco dei duecentocinquanta autori della letteratura più citati al mondo e sono circa ventunomila i titoli delle opere di letteratura critica pubblicate in quasi tutte le lingue moderne.
E tanti artisti e intellettuali hanno visto nel pensiero di Nino un possibile riscatto per la rinascita del proprio Paese, grazie all’adozione di modelli sociopolitici gramsciani, sicuramente da attualizzare.
Nel Bronx, ad esempio, nel 2013 l’artista svizzero Thomas Hirschhorn ha creato l’installazione “The Gramsci Monument”, un luogo di aggregazione che ha ospitato – in un’area della città particolarmente problematica – reading, lezioni, corsi per bambini, concerti e seminari.

Quali sono i Paesi in cui il suo pensiero ha avuto particolare risonanza e, soprattutto, ritiene sia difficile per un intellettuale straniero studiare e interpretare i suoi testi?
I “ventunomila titoli” che lei ha citato sono quelli che registra la Bibliografia gramsciana fondata da John M. Cammett, il decano degli studi gramsciani negli Stati Uniti. Oggi la Fondazione Gramsci la aggiorna costantemente grazie ad una rete di corrispondenti presenti nei cinque continenti. Le lingue sono ormai 41. La banca dati è consultabile online dal sito della Fondazione.
Negli Stati Uniti vi è una grande attenzione per Gramsci, soprattutto nelle accademie. In Giappone la penetrazione del pensiero gramsciano è stata significativa, soprattutto negli anni passati.

Crescente è, invece, l’interesse verso Gramsci nei Paesi latinoamericani, in particolare in Brasile. Ma in Messico, Cile e Argentina vi è una solida tradizione di studi su Gramsci che risale agli anni Settanta. In Europa spicca da qualche anno il caso della Francia, dove si sono messi all’opera studiosi giovani e qualificati. È importante ricordare che Gramsci è un autore molto difficile da studiare e interpretare all’estero. Per comprendere a fondo i suoi scritti è necessaria una conoscenza approfondita della cultura del suo tempo.

E in Russia, che rappresenta quasi la seconda patria di Nino, il pensiero gramsciano è diffuso?
In Russia Gramsci non ha mai avuto una grande fortuna. Sono state pubblicate alcune antologie dei suoi scritti, ma non vi è un’edizione integrale dei “Quaderni del carcere”. Dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta il suo pensiero non si poteva valorizzare accanto agli autori che costituivano la costellazione dei filosofi marxisti-leninisti. Dai cataloghi delle edizioni statali si ricava una significativa marginalità di Gramsci e si può affermare che la sua biografia e i suoi scritti siano stati oggetto di interesse da parte di pochi studiosi, anziché di enti o istituzioni pubbliche. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non vi è stato nessun interesse significativo, nonostante la presenza di giovani che avvertono la rilevanza del pensiero di Gramsci nella cultura internazionale. Un caso a sé rappresenta il Centro russo che gestisce gli archivi dell’Internazionale comunista con il quale la Fondazione ha mantenuto importanti rapporti istituzionali e che, in alcuni casi, ha favorito il collegamento con università e altri centri culturali russi.

Torniamo in Italia. Dal 1950 ad oggi ritiene si sia creato un network culturale gramsciano trasversale diffuso sul territorio?
In questi decenni la Fondazione ha mantenuto il collegamento con gli istituti gramsciani, autonomi e attivi in molte regioni italiane. Sono nati nel frattempo Laboratori interdipartimentali in alcune prestigiose università che promuovono ricerche in vari ambiti disciplinari. Non sarei in grado di enumerare le iniziative organizzate a livello locale dai soggetti più disparati: scuole, associazioni culturali, biblioteche e centri di studio sparsi in tutta Italia.

La Fondazione non può certo raccordare tutte queste attività. Per noi la valorizzazione del lascito di Gramsci è attività quotidiana. Garantiamo agli utenti del nostro archivio e della nostra biblioteca l’accesso alle carte di Gramsci e la possibilità di consultare la letteratura scientifica proveniente da tutte le parti del mondo. E la nostra attività non si limita a Gramsci. La Fondazione conserva importanti archivi per lo studio della storia politica, sociale e culturale dell’Italia nel Novecento. Archivi di partiti, a cominciare dalla documentazione prodotta dal Partito Comunista Italiano dal 1921 al 1991, e di persone: dirigenti politici, intellettuali e artisti italiani. Vi è poi la nostra attività di ricerca che si articola attorno a temi e problemi della storia contemporanea.

Parliamo degli scritti. Nel 1975 fu pubblicata da Einaudi la prima edizione critica dei “Quaderni”, curata da Valentino Gerratana, che comprendeva 29 “Quaderni” (senza i quattro di traduzioni), disposti in base alla data di stesura e non per raggruppamenti tematici. Negli anni Novanta una nuova pubblicazione, a cura di Gianni Francioni, avvenne, nell’ambito dell’Edizione Nazionale degli Scritti, partendo dall’edizione di Gerratana e dal lavoro filologico di Francioni stesso. A partire dal 2009 è possibile avere accesso ai manoscritti riprodotti integralmente in un’edizione anastatica in cui ogni “Quaderno” è preceduto da una premessa ai fini della contestualizzazione del contenuto.
Quali sono i nuovi progetti della Fondazione?

Stiamo lavorando a un’edizione integrale e critica di tutti gli scritti. Una sezione è dedicata agli scritti giornalistici e politici e, qualche mese fa, ha visto la luce il volume che raccoglie gli articoli pubblicati nel 1917, anno cruciale della biografia di Gramsci.

I “Quaderni” saranno pubblicati distinguendo quelli di traduzioni – già pubblicati, come lei ha ricordato – quelli miscellanei e, infine, gli “speciali”, così denominati da Gramsci perché concepiti per includere note dello stesso argomento. L’epistolario include anche le lettere indirizzate a Gramsci. Ne sono usciti due volumi. Il primo contiene la corrispondenza dal 1906 al 1922, mentre il secondo è relativo esclusivamente al soggiorno moscovita di Gramsci nel 1923. Accanto a queste tre sezioni vi è quella dei documenti inaugurata con la pubblicazione della dispensa universitaria del corso di glottologia di Matteo Bartoli curata da Gramsci nel 1912. L’Edizione è frutto di un lavoro collettivo.

Un’ultima domanda. È nota la profonda vocazione pedagogica di Gramsci che ha trovato piena espressione nelle lettere ai due figli, Delio e Giuliano, in cui racconta storie di briganti e di animali, della sua infanzia e della Sardegna, raccolte poi nel testo “L’Albero del riccio”. La sua opera ha avuto un impatto sulla letteratura per l’infanzia?
Direi che Gramsci ha avuto fortuna anche tra i giovanissimi lettori. L’“Albero del riccio” ha avuto innumerevoli edizioni con tirature molto elevate. Era un libro illustrato concepito per i ragazzi. Molte sue lettere ai figli Delio e Giuliano sono poi finite nelle antologie scolastiche. L’ultima edizione della sua traduzione delle fiabe dei Fratelli Grimm è stata realizzata sulla base dell’Edizione Nazionale che potrà offrire i testi anche per future antologie tematiche. D’altronde, l’edizione critica è destinata principalmente agli studiosi, ma, come dimostra il caso delle fiabe dei Fratelli Grimm, potrà essere la base di svariate iniziative di raccolta dei suoi scritti.

Lasciamo la Fondazione con l’auspicio che il pensiero di Antonio Gramsci, figura di primo piano della cultura italiana, possa contribuire con la sua “ricchezza e vitalità” a contrastare l’avanzata delle destre e dei movimenti nazionalisti che stanno caratterizzando questa difficile fase sociopolitica.

Finito di redigere in data 19 febbraio, alle ore 14.

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. il manifesto, 8 febbraio 2017 (c.m.c.)

Se è indubbio che con TzvetanTodorov se ne va una delle maggiori personalità intellettuali del XX secolo, è certo meno facile riassumere in poche battute che tipo di pensatore e di scrittore sia stato. Impossibile l’etichettatura, e non solo perché tutti i cavalli di razza difficilmente si lasciano imbrigliare in abiti preconfezionati. La sua biografia intellettuale è irriducibile a uno schema, o a una carriera, e appare evidentemente bipartita.

Da una parte, tra gli anni ’60 e ’80 del XX secolo, lo studioso delle forme letterarie, dello strutturalismo linguistico, l’erede inquieto del formalismo russo; dall’altro la strana, e fascinosa, figura del saggista-testimone che riflette sul male del Novecento, sulla catastrofe dei fascismi e dello stalinismo, dei campi e dei gulag, della violenza etnica e politica portata all’estremo.

Questa conversione può essere situata facilmente alla fine degli anni ’80, guarda caso in corrispondenza della caduta del muro di Berlino e della fine dei sistema sovietico. È allora che – sembra di poter dire – Todorov consente a se stesso di alzare il velo su un passato recente che gli appartiene in pieno, quello del regime oppressivo dal quale era riuscito a sfuggire; lui che poco più che ventenne, all’inizio dei ’60, era emigrato dalla Bulgaria comunista e si era installato in una Parigi oltremodo scintillante, vero centro mondiale delle scena artistica e intellettuale.

Todorov è diventato così uno dei rappresentanti esemplari, e fra i più nobili, di un modo di pensare il Novecento «dall’interno» di un suo nucleo presunto, oscuro e per ciò stesso quasi insondabile (e dal quale appunto si era mantenuto a lungo lontano occupandosi di rarefatte geometrie poetiche), che egli, come molti altri prima di lui, fa coincidere con la pulsione totalitaria, a lungo latente nella società europea moderna e che poi, liberatasi da ogni impedimento, assume il suo volto più autentico nei regimi nazi-fascisti e in quello staliniano. È qui che appare il «secolo delle tenebre» come lui stesso ebbe a definirlo.

Il confronto faticoso con una delle categorie più tormentate, ambigue e controverse del dibattito politico e storiografico da molti decenni a questa parte dovette apparirgli ineludibile. Per non restare incagliato nelle sue aporie, di cui era consapevole, Todorov assunse però una prospettiva diversa da quella dei maggiori indagatori del totalitarismo come sistema (Hannah Arendt in primis).

Egli provò soprattutto a interrogare criticamente il punto di vista di coloro che avevano vissuto in pieno la violenza totalitaria, facendosene testimoni: figure assai diverse, da Margaret Buber-Neumann a David Rousset, da Primo Levi a Vasilij Grossman. L’interrogazione sulla memoria diveniva centrale, ma sulla scia di Ricoeur, Todorov ha mostrato più volte come sapersi districare nei labirinti dei resoconti fondati sul confronto con il passato privato, come distinguere l’eticità del ricordo dai controsensi dei suoi usi, come rivendicare persino il diritto all’oblio.

Nello stesso modo, è vero che la contrapposizione netta di totalitarismo e democrazia ha costituito in continuità lo schema fondamentale di tutte le sue ricognizioni critiche sul Novecento. Ma sbaglierebbe chi vedesse in questa coerenza la fedeltà a un banale modulo interpretativo. L’euforia, se ci fu, «post-89» si volse presto in una dolorosa presa di coscienza. Il totalitarismo europeo – Todorov ha spesso insistito su questo sulla scia di analisi chiaramente francofortesi – ha solide radici «moderne» illuministiche e razionalitiche, ma la dicotomia gli apparve presto un’illusione.

Riflettendo sulle guerre nella ex-Jugoslavia, e in particolare sulla vicenda dell’intervento della Nato in Kosovo, egli ebbe a scrivere «Il totalitarismo può apparirci, a giusto titolo, l’impero del male; ma da ciò non consegue in alcun modo che la democrazia incarni, sempre e dappertutto, il regno del bene».
Un segno, fra i tanti, della lucidità di uno sguardo che si è mantenuto vigile fino all’ultimo.

Scheda. Dai formalisti russi al «male estremo» del Novecento

Nato nel 1939 a Sofia, in Bulgaria, Tzvetan Todorov cominciò a interessarsi di teoria della letteratura nel suo paese, scontrandosi con gli imperativi ideologici. Solo quando arrivò nel 1963 a Parigi i suoi interessi di studioso voltarono pagina definitivamente. In realtà, vi giunse già attrezzato criticamente, sulla scia dei formalisti russi («Conobbi Roman Jacobson in Bulgaria, ne ricevetti una grande impressione. Fui attratto dal suo rigore scientifico, che si combinava felicemente con la passione per la poesia e per l’arte»).

A sua cura, presso Einaudi, nel 1965, uscì il libro I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico), mentre fra i numi tutelari della sua ricerca può iscriversi anche Michail Bachtin (al quale dedicò una monografia nel 1981, in Italia tradotta nel 1990): i suoi studi gli indicano la strada verso quella «critica dialogica» che implica nella scrittura un atto di comunicazione. Todorov scelse di perseguire una più libera nozione del testo intenso come un «incontro» polifonico tra diverse voci e autori.

Una direzione questa che lo indusse ad accostarsi al problema dell’«altro» e dei rapporti tra individui e culture (La conquista dell’America, Einaudi, 1984), allargando l’orizzonte verso la storia delle idee (Noi e gli altri, Einaudi, 1991). Passò poi dalla socialità come condizione umana alle ideologie dominanti, indagando quella «banalità del male» presente in istituzioni totali, come i gulag o i campi di sterminio nazisti (Di fronte all’estremo, Garzanti, 1992), non trascurando i cambiamenti fatali dei destini individuali che si producono durante i conflitti (Una tragedia vissuta. Scene di guerra civile, Garzanti, 1995).

Fra le ultime pubblicazioni, un saggio sui totalitarismi, Memoria del male, tentazione del bene (2000), Il nuovo disordine mondiale (2003), La pittura dei lumi. Da Watteau a Goya (2014, in cui l’arte resta strettamente connessa al pensiero che circola nella sua stessa epoca) e, nel 2016, Resistenti, Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia.

Domani, a Malta, al centro del mare della sua vita, l'affronto più grande al suo sogno, se il Mediterraneo diventerà una trincea. Realizzare la sua visione sarà compito di quelli che oggi e domani sapranno resistere.

la Repubblica, 3 febbraio 2017

È stato nemico di ogni nazionalismo e di ogni esaltazione dell’appartenenza etnica. La parola identità la declinava al plurale, per sottolineare che tutte le persone hanno più appartenenze e l’unica lealtà dovuta è quella a difesa dei valori universali e umanistici. Predrag Matvejevic, morto ieri a Zagabria, di identità e appartenenze ne aveva molteplici. Era nato, nel 1932 a Mostar, una città jugoslava, oggi in Bosnia, abitata da cattolici croati e bosniaci musulmani e divisa, o forse unita, da un antico ponte, che venne fatto saltare in aria il 9 novembre 1993 dagli ustascia, i fascisti croati. Il padre di Matvejevic è stato un russo, nato a Odessa, città plurinazionale, plurireligiosa, sul Mar Nero, contesa tra Russia e Ucraina, e che agli occhi dello stesso scrittore assomigliava a Genova e Marsiglia. La madre invece era una croata, cattolica devota. Il nonno e uno zio di Matvejevic sono stati prigionieri del gulag sovietico; il padre la prigionia la subì invece, durante la seconda guerra mondiale, nella Germania nazista. Tornato a casa, non parlò al giovane Predrag di vendetta, ma anzi, gli raccontò, come un giorno, un pastore evangelico lo invitò a casa, gli diede da mangiare, gli offrì un bicchiere di vino. Predrag, si sentì a quel punto in dovere di offrire, a sua volta, un tozzo di pane a un prigioniero di guerra tedesco.

E lui, stesso chi era? Era nostalgico della Jugoslavia di Tito Matvejevic? Della Jugoslavia, probabilmente sì. Di Tito un po’ meno. Da giovane aveva aderito alla Lega dei comunisti. Ma, nel 1974, venne espulso dal partito. La colpa: aver scritto una lettera, a Tito, in cui lo esortava a preparare la successione, a non lasciare che la Jugoslavia andasse a pezzi. Dissidente, Matvejevic è rimasto per il resto della sua vita. Quando la Jugoslavia cominciò a disgregarsi davvero, e i discorsi sulla guerra e sulla “pulizia etnica” li facevano leader e forze che si richiamavano alla democrazia, coniò il neologismo “democratura”. La parola ebbe tanto successo, che oggi viene adoperata per parlare del regime di Putin in Russia. Nemico del nazionalismo anche di quello “suo” croato, nel 1991 dovette andarsene dal Paese. Esperto di letteratura francese, approdò alla Sorbona. Nel 1994, si trasferì a Roma, insegnò slavistica a La Sapienza, dopo 18 anni di esilio tornò in Croazia. Nel frattempo, subì una condanna a cinque mesi di prigione (la pena non fu mai eseguita), per aver scritto parole che un poeta locale considerò ingiuriose nei confronti della nazione.

Per Matvejevic la vera patria era il Mediterraneo. Il suo libro più importante è stato Breviario mediterraneo (Garzanti), tradotto in 23 lingue. Vi si susseguono racconti su persone incontrate e leggendarie, analisi sulle origini delle parole, narrazioni su modi di preparare il cibo e sui nomi delle pietanze e degli oggetti, annotazioni geografiche, considerazioni sulla forma delle isole e sulla particolarità delle capitanerie di porto. Matvejevic spiega che i confini del Mediterraneo non sono determinati dallo spazio, e che quindi hanno qualcosa di mitico e immaginario; ma poi mette in guardia dalle troppo facili illusioni sulla presunta somiglianza delle persone e dei popoli. Il Mediterraneo è fascinoso perché contraddittorio e inafferabile per chi voglia classificare l’umanità e la natura a seconda delle rigide categorie. In questo senso il libro è una critica radicale della modernità, che come ha insegnato Bauman, ama la gerarchia, l’esclusione e l’eliminazione di tutto quello che disturba l’ordine prestabilito.

Matvejevic nutriva una certa diffidenza nei confronti di teorie filosofiche complicate. Contrapponeva quella che chiamava “l’identità dell’essere” a “l’identità del fare”. Siamo quello che facciamo. Per questo ha scritto Pane nostro, in cui raccontava come e perché il pane fosse al contempo un oggetto sacro da venerare e un profano saper fare il cibo. Ma pane significa anche, per una persona segnata nella storia familiare dai totalitarismi del Novecento, morire di fame: così morì suo zio, in un lager sovietico.

Negli anni della guerra balcanica Matvejevic rifletteva sulla follia dei politici; sul fatto che i padri dei leader serbi fossero suicidi. Tornato in Croazia, da Zagabria, seguiva con un certo scetticismo l’integrazione del Paese in Europa. Due anni fa, già malato, pubblicò un libro Granice i sudbine (“Confini e destini”). E in un’intervista a un giornalista croato spiegava come l’idea stessa della Jugoslavia fosse un’invenzione ottocentesca intelligente perché rendeva possibile la vita in uno spazio come i Balcani diviso tra diverse fedi, tradizioni. Diceva: certo, non ci sarà più la vecchia Jugoslavia, ma una cooperazione tra i nostri popoli è indispensabile. Per arrivare a questo, basterebbe, suggeriva, capire che le nostre memorie sono divise e spesso contrapposte. Ma il passato, se compreso ed elaborato, non impedisce di costruire un futuro comune.

l cappello a larghe tese indossato anche in casa, calcato sui capelli candidi, ne ha sostenute di battaglie per una cultura che rompesse i diaframmi elitari, diventando lievito civile».

la Repubblica, 27 gennaio 2017 (c.m.c.)

L’ultima battaglia racconta molto di Gerardo Marotta. L’avvocato Marotta, che si è spento a Napoli alla vigilia dei novant’anni, l’ha condotta senza stancarsi, contro il trascorrere del tempo che rendeva ordinaria, trascurabile, una storia che restava pazzesca: la dispersione dei suoi trecentomila volumi raccolti con pazienza e ardore, rincorsi negli anfratti dell’ultimo rigattiere e che un groviglio burocratico lasciava marcire.

Trecentomila volumi: non sono tante le cose culturalmente più rilevanti. E dire che Marotta, il cappello a larghe tese indossato anche in casa, calcato sui capelli candidi, ne ha sostenute di battaglie per una cultura che rompesse i diaframmi elitari, diventando lievito civile.

«Dobbiamo chiedergli perdono », diceva ieri l’assessore alla Cultura del Comune di Napoli, Nino Daniele. Mentre Massimiliano, figlio di Gerardo, ricordava «i libri sparpagliati in diversi depositi, da Arzano a Casoria, che attendono la ristrutturazione dei locali che dovrebbero ospitarli, acquistati dalla Regione nel 2008, ma per i quali manca il progetto esecutivo».

I ritardi, accumulati durante la precedente amministrazione, impediscono l’uso della biblioteca. Più il tempo passava, più i capelli dell’avvocato si appoggiavano sulle spalle e il viso smagriva al pensiero che con i libri si disperdesse il patrimonio che aveva condiviso non solo con la sua città. Nel 1975 Marotta diede vita all’Istituto italiano per gli studi filosofici. Fondamentale era il “per”. Gli studi filosofici come obiettivo, un complemento di scopo o di vantaggio e non un genitivo. Per tanto tempo l’Istituto ha avuto sede a casa Marotta,all’estremità di Monte di Dio. Nel salotto affacciato su Capri ci si ammassava per ascoltare Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, Norberto Bobbio, Paul Oskar Kristeller, Paul Dibon, Eugenio Garin e il meglio del pensiero filosofico europeo.

Marotta era un principe del diritto amministrativo, il suo studio discuteva cause miliardarie. Ma lui lo lasciò, vendette proprietà. I soldi servivano per l’Istituto e per i libri. All’inizio degli anni Ottanta gli fu assegnata la seicentesca Biblioteca dei Girolamini. Ma prima del trasloco, subito dopo il sisma del 1980, quelle stanze furono aperte ai terremotati. Nel bel film La seconda natura di Marcello Sannino si vede Marotta che racconta ai senzatetto il divario che a Napoli ha separato l’alta cultura e il popolo e aggiunge che una casa andava loro assicurata, ma non la sala con i volumi appartenuti a Giambattista Vico. Al che un uomo gli si avvicina: «Te do ‘nu vaso ‘nfronte» (ti do un bacio in fronte).

Nel salotto-istituto si respirava il lascito crociano, degli hegeliani napoletani e del meridionalismo liberale (Giustino Fortunato più che Gaetano Salvemini). Su tutto aleggiava la Repubblica giacobina del 1799 e quando parlava dei giovani impiccati dal re Borbone, Marotta era colto da commozione vera. Avvicinandosi Tangentopoli, Marotta istituì le Assise di Palazzo Marigliano, laboratorio sulla storia e la società meridionale.

Per i duecento anni dalla Repubblica del 1799, sindaco Bassolino, Marotta fece aprire il portone principale del Palazzo Serra di Cassano, dove si era trasferito l’Istituto, chiuso da due secoli. Si affacciava su Palazzo Reale e i Serra di Cassano lo avevano sbarrato per disprezzo verso i Borbone che avevano ucciso il figlio Gennaro, fra i protagonisti della rivoluzione giacobina. Il portone era il simbolo della separatezza fra un potere nutrito di umori plebei e una cultura mortificata. Fu riaperto, poi di nuovo chiuso. Napoli sembrava la capitale di una rinata Repubblica delle Lettere, dell’Istituto scrivevano riviste internazionali.

Gli ultimi anni sono più tristi: i libri dispersi, i finanziamenti risicati che non consentivano più le borse di studio né i convegni internazionali. Un crepuscolo ha avvolto la spettacolare scalinata di Ferdinando Sanfelice e tutto Palazzo Serra di Cassano, dove Marotta sempre più piccolo, si aggirava intabarrato in un cappotto nero. Mai domo, però. «Martedì mattina sembrava riprendersi », racconta Massimiliano, «per i suoi novant’anni voleva una lezione su Bertrando Spaventa e su Luigi Einaudi».

».

la Repubblica, "Robinson", 22 gennaio 2017 (c.m.c.)

«La nostra memoria seleziona e interpreta, e ciò che dev’essere selezionato e il modo in cui interpretarlo è una questione controversa e costantemente contestata» E proprio per questo così importante. Il testo che pubblichiamo in queste pagine è un estratto da un saggio inedito che verrà pubblicato a breve dalla casa editrice Laterza che raccoglie gran parte delle sue opere.

«Prima, l’Olocausto era inimmaginabile. Per la maggior parte delle persone restava inimmaginabile anche quando era già in corso. Oggi siamo stati messi tutti in allarme e l’allarme non è mai stato revocato. Che cosa significa vivere in un mondo ancora gravido dello stesso genere di orrori sintetizzato nella parola “Olocausto”? La sua memoria rende il mondo un posto migliore e più sicuro o un posto peggiore e più pericoloso?

È diventata quasi una banalità affermare che i gruppi che perdono la loro memoria perdono anche la loro identità, che perdere il passato conduce a perdere il presente e il futuro. Se la posta in gioco è la preservazione di un gruppo allora il successo o il fallimento di questo tentativo dipende dagli sforzi per tenere viva la memoria.

Questo può essere vero ma non è tutta la verità, perché la memoria è un dono ambivalente. Per essere più precisi: è un dono e allo stesso tempo una maledizione. Può “tenere vive” molte cose che hanno un valore ben diverso a seconda dei gruppi.

I morti non hanno nessun potere di guidare — tantomeno di monitorare e correggere — la condotta dei vivi. Allo stato grezzo, le loro vite non hanno quasi nulla da insegnare: per diventare lezioni, devono prima essere trasformate in storie (Shakespeare questo lo sapeva, a differenza di molti altri narratori e ancor di più dei loro ascoltatori, quando fa pronunciare ad Amleto morente l’esortazione all’amico Orazio a “dire la mia storia”).

Il passato non interferisce direttamente con il presente: ogni interferenza è mediata da una storia. Quale corso finirà con l’assumere quell’interferenza sarà deciso sul campo di battaglia della memoria, dove le storie sono i soldati e i narratori i comandanti, scaltri o fortunati, delle forze in conflitto.

Dunque il passato è tanti eventi e la memoria non li conserva mai tutti: qualunque cosa conservi o recuperi dall’oblìo, essa non si riproduce mai nella sua forma “pura” e “originale” (qualsiasi cosa significhi). Il “passato integrale”, il passato così com’è realmente accaduto non viene mai riafferrato dalla memoria (e se così fosse la memoria, più che un vantaggio, rappresenterebbe un inconveniente per l’esistenza). La memoria seleziona e interpreta, e ciò che dev’essere selezionato e il modo in cui interpretarlo è una questione controversa e costantemente contestata. La risurrezione del passato, tenere vivo il passato, è un obiettivo che può essere raggiunto solo mediante l’opera attiva della memoria, che sceglie, rielabora e ricicla. Ricordare è interpretare il passato; o, più correttamente, raccontare una storia significa prendere posizione sul corso degli eventi passati. Lo status della “storia del passato” è ambiguo e destinato a rimanere tale.

La contesa interpretativa in cui il passato viene ricreato in contorni visibili e nell’importanza vissuta del presente, e quindi riciclato in progetti per il futuro, si svolge — come ha messo in evidenza Tzvetan Todorov — tra le due trappole della sacralizzazione e della banalizzazione. Il grado di pericolo che ognuna di queste trappole contiene dipende da qual è la posta in palio, la memoria individuale o la memoria di gruppo.

Todorov ammette che un certo grado di sacralizzazione ( operazione che trasforma un evento passato in un evento unico, considerato “ differente da qualsiasi evento sperimentato da altri”, incomparabile con eventi sperimentati da altri e in altri momenti, e che pertanto condanna come sacrileghe tutte le comparazioni del genere) è opportuno, anzi inevitabile, se si vuole che la memoria adempia al suo ruolo nell’autoaffermazione dell’identità individuale. Contrariamente a quello che insinuano innumerevoli talk show televisivi e alle confessioni pubbliche che ispirano, l’esperienza personale è effettivamente personale e in quanto tale “ non trasferibile”. Il rifiuto di comunicare, o almeno un certo grado di reticenza, può essere una condizione per l’autonomia individuale.

I gruppi, però, non sono “come gli individui, solo più grandi”. Ragionare per analogie porterebbe a ignorare la distinzione cruciale: a differenza degli individui autoassertivi, i gruppi vivono attraverso la comunicazione, il dialogo, lo scambio di esperienze. I gruppi si costituiscono condividendo le memorie, non tenendole nascoste e impedendone l’accesso agli estranei. La vera natura dell’esperienza dell’omicidio categoriale ( cioè l’annientamento fisico di essere umani in quanto appartenenti a una categoria, ndr) tanto dal punto di vista del carnefice quanto dal punto di vista della vittima sta nel fatto di essere stata un’esperienza condivisa e nel fatto che la sua memoria è programmata per essere condivisa continua? »

È stata, e continuerà a essere uno dei non molti intellettuali italiani che ha voluto e saputo approfondire continuamene il suo sapere impiegandolo per svelare le ingiustizie e convincere a combatterle. il manifesto, 19 gennaio 2017

Giovanna Marini, la donna che alla politica le ha sempre «cantate», compie oggi 80 anni. Ma resta l’eterna ragazza della canzone popolare e politica, sempre con la sua chitarra, circondata dai cori (e coristi di ogni età) che attorno a lei si sono riuniti negli anni. E con loro soltanto (il coro della Scuola musicale di Testaccio e quello della località dei Castelli romani dove risiede) festeggerà l’anniversario. Giovanna Marini è innanzitutto una voce, che da cinquant’anni si è dedicata al recupero e rilancio della canzone popolare e di tutte le variazioni poetiche, politiche e sociali che questa è andata acquisendo nelle varie regioni italiane.

Dall’esperienza dirompente di Bella ciao che sconvolse l’elegante festival di Spoleto a metà degli anni 60, la sua voce ha dato fiato, riconoscibilità, armonia e disarmonie a tutti i movimenti che dal ’68 hanno animato il nostro paese. E non solo, perché anche in Francia e in Svizzera i suoi recital sono richiesti e acclamati.

La sua vocazione musicale era nata al Conservatorio di Santa Cecilia, e si è modulata negli anni nelle molte cantate, ballate e elaborazioni di vario genere e forma, che ne fanno oggi una delle maggiori compositrici italiane. Ma ha continuato sempre a suonare, cantare e soprattutto indagare le più antiche sonorità, in ogni angolo d’Italia, dentro la tradizione religiosa come in quella della protesta e del lavoro. Vera erede dello spirito militante di Ernesto De Martino, fu incoraggiata alla ricerca nella musica popolare da Pier Paolo Pasolini.

Le sue canzoni hanno costituito il sound di mille manifestazioni e proteste, il suo orecchio ha aiutato giovani di generazioni diverse a capire di più il mondo entrandoci in sintonia. I suoi corsi alla Scuola di Testaccio come altrove continuano a essere affollati, anche perché il rigore e la preparazione musicale non le hanno mai limitato una simpatia e un calore umano impossibili da arginare. Tanti auguri dal collettivo de il manifesto.

ALTRI ARTICOLI - VISIONI
«Libri in uscita, progetti, citazioni Il lascito del sociologo celebrato sul web come una popstar. Il nuovo saggio racconterà i pericoli di un’utopia che torna al passato e fugge il presente.“

Retrotopia” la sua ultima parola».la Repubblica, 11 gennaio 2017 (c.m.c.)

Con Bauman l’intellettuale è sceso dalla torre d’avorio e si è mischiato alla gente. All’indomani della morte del grande sociologo polacco i social network sono tutti per lui, quasi si trattasse di una popstar. Nella Rete navigano frasi estrapolate da interviste, citazioni dai libri, video di conferenze. I temi sono la solitudine, l’amore, l’esclusione, la paura, la felicità, il futuro. Temi che appartengono a tutti e che Bauman ha saputo intercettare e approfondire.

La “liquidità” c’è ma scorre, si dissolve tra gli altri, come è naturale che sia. «Non è mai stato un contabile delle idee. Era pieno di curiosità. Gli interessavano tutti i fenomeni nuovi, non era il maestro che si mette su un piedistallo, amava mescolarsi. Ma non esistono grandi intellettuali che non dialoghino con la società». Giuseppe Laterza ha pubblicato con la sua casa editrice più di trenta titoli di Zygmunt Bauman e venduto oltre 500 mila copie.

Il primo saggio tradotto è stato Dentro la globalizzazione,l’ultimo è atteso per settembre ed ha per titolo un neologismo, Retrotopia, cioè l’altra faccia dell’utopia, quella che guarda al passato e non al futuro, che rischia di tornare indietro invece di andare avanti, che si illude di fuggire il presente trovando riparo in un’indistinta età dell’oro.

Il testo, che uscirà a fine gennaio in inglese per la Polity Press, parla dei problemi di oggi, della tentazione a far rinascere le frontiere degli stati nazionali o della tendenza ad affidarsi alla leadership dell’uomo forte. È articolato in più tempi (il ritorno a Hobbes, il ritorno alle tribù, il ritorno all’ineguaglianza e quello al ventre materno) ed è un ulteriore modo per rileggere la tensione tra individualismo e cultura comunitaria: «Proprio questa tensione – spiega Laterza – è alla base del successo di Bauman in Italia, un Paese dove la società, la comunità, ha ancora un peso».

Poi i ricordi si mescolano ai libri, la vita vera a quella indagata con le categorie della sociologia. Non c’è nessuno, tra amici o compagni di lavoro, che non abbia aneddoti da raccontare. Laterza ricorda il giorno che Bauman volle partecipare a un’asta su Internet per l’acquisto di un iPhone o la volta che a Trento preferì salutare tutti dopo una conferenza per finire a mangiare una pizza con un suo lettore sconosciuto. Così le due eredità si confondono, intellettuale e umana, riuscendo nel miracolo raro di incarnare un intellettuale che non tradisce nella vita ciò che afferma nella scrittura.

«Non è un caso – aggiunge Laterza – che tutti i suoi libri inizino raccontando una storia. Bauman non è un pensatore sistematico, parte sempre da frammenti, spunti concreti, dalla vita. Anche papa Francesco ha parlato di vite di scarto, mutuando l’espressione da un suo libro».

A chiedere in giro nessuno sa indicare un intellettuale che possa prenderne il posto. Bauman non ha avuto una scuola, è stato il sociologo europeo per eccellenza, sicuramente quello più di successo. Citato, rimaneggiato, saccheggiato, amato e anche odiato. Da Modernità liquida in poi – era il 2000 – ha fornito una categoria impareggiabile con cui leggere le dinamiche dei nostri tempi e un po’ ne è rimasto prigioniero, come sempre accade quando un concetto si trasforma in brand.

Chiara Saraceno, sociologa che con Bauman ha in comune molti temi, dalla povertà alla famiglia, non ama ricordare Bauman come sociologo della liquidità: «Il concetto di società liquida è stato abusato, diventando una specie di passepartout. Credo invece che a rimanere sarà la sua capacità di sollevare domande importanti, di vivere la tensione del presente, l’attrito tra l’emergere dell’individualità e la perdita delle appartenenze collettive, dalla famiglia al partito alle identità professionali».

Senza dubbio Bauman aveva le antenne vigili sul mondo, sulle diseguaglianze, le derive della globalizzazione. Vanni Codeluppi, professore di sociologia dei media allo Iulm di Milano, individua nella capacità di indagare il presente la sua eredità: «Si è occupato di lavoro, migrazioni, crisi sociali, olocausto, lavoro, libertà. Una marea di temi, perfino dei reality show, della moda e dei social network. Il suo lascito non è in un concetto, né nella riduttiva categoria della liquidità, ma in questa moltiplicazione di interessi, nello sguardo critico attento ai mutamenti della società, senza paura di metterne in luce gli aspetti negativi».

E senza temere di sconfinare in altri territori. Sempre a settembre uscirà per Einaudi Elogio della letteratura, scritto con Riccardo Mazzeo, in cui convivono psicoanalisi, narrativa e sociologia. Spiega Mazzeo: «Per Bauman la sociologia si era ossificata, i sociologi non andavano più a vedere cosa c’era fuori, avevano perso interesse nell’uomo». Bauman ha saputo parlarci della paura quando stavamo avendo paura, dell’amore quando faticavamo a crederci, degli esclusi quando non volevamo vederli. Dice Codeluppi: «Poteva sembrare un po’ moralistico, ma non vedo eredi in giro. Era rimasto il solo a saper individuare quali sono i problemi delle persone comuni». Per questo amava frequentare i festival, almeno quanto le aule universitarie.

la Repubblica online, il manifesto, Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2017 (p.d.)

la Repubblica
E' MORTO ZYGMUNT BAUMAN
di Antonello Guerrera

E' morto oggi il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, all'età di 91 anni. La notizia è stata data dal quotidiano Gazeta Wyborcza. Con la sua morte, se ne va uno dei massimi intellettuali contemporanei, tra i più prolifici e attivi fino agli ultimi momenti della sua vita.

La società liquida. Bauman, nato a Poznan in Polonia nel 1925, viveva e insegnava da tempo a Leeds, in Inghilterra, ed era noto in tutto il mondo per essere il teorico della postmodernità e della cosiddetta "società liquida", che ha spiegato in uno specifico ciclo della sua produzione saggistica, dall'"amore liquido" alla "vita liquida". Per Bauman, infatti, il tessuto della società contemporanea, sociale e politico, era "liquido", cioè sfuggente a ogni categorizzazione del secolo scorso e quindi inafferrabile. Questo a causa della globalizzazione, delle dinamiche consumistiche, del crollo delle ideologie che nella postmodernità hanno causato uno spaesamento dell'individuo e quindi la sua esposizione brutale alle spinte, ai cambiamenti e alle "violenze" della società contemporanea dell'incertezza, che spesso portano a omologazioni collettive immediate e a volte inspiegabili per esorcizzare la "solitudine dell'uomo comune", come si chiama uno dei suoi lavori più celebri.

L'accoglienza e i migranti. Un altro tema fondamentale del pensiero di Bauman, uno degli intellettuali più aperti al confronto umano e all'interazione con la viva realtà, era il rapporto con "l'altro" e dunque anche con lo straniero. Soprattutto durante le ultime crisi migratorie che hanno coinvolto l'Europa dopo le primavere arabe e la guerra civile in Siria, Bauman è stato sempre un intellettuale in prima linea a favore dell'accoglienza dei profughi e dei migranti scappati dall'orrore. Detestava la nuova Europa dei muri e del razzismo, nuova perversione della società contemporanea spaventata dalla perdita di un benessere fragile e anonimo e preda di un "demone della paura" sempre più ingombrante. Fondamentale, in questo senso, è stato il suo "Stranieri alle porte" (ed. Laterza). "Un giorno Lampedusa, un altro Calais, l'altro ancora la Macedonia", notava in una recente intervista a Repubblica. "Ieri l'Austria, oggi la Libia. Che 'notizie' ci attendono domani? Ogni giorno incombe una nuova tragedia di rara insensibilità e cecità morale. Sono tutti segnali: stiamo precipitando, in maniera graduale ma inarrestabile, in una sorta di stanchezza della catastrofe".

"La terra desolata". A questo proposito, Bauman aggiungeva: "Questi migranti, non per scelta ma per atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo è nell'istinto umano addossare la colpa alle vittime delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la nostra umiliante incapacità di resistere alla precarietà della nostra società. E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. Ma una cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in 'stanze insonorizzate' non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca, che aggraverà soltanto i problemi".

Dalla Shoah al consumismo. Di origini ebraiche, Bauman difatti si salvò dalla persecuzione nazista scappando in Unione Sovietica nel 1939, dove si avvicinò all'ideologia marxista. Dopo la guerra tornò in Polonia, dove studiò sociologia all'Università di Varsavia laureandosi in pochi anni per poi trasferirsi in Inghilterra, dove ha insegnato per decenni e formulato le sue principali teorie sociologiche e filosofiche, come il rapporto tra modernità e totalitarismo, con riferimento alla Shoah ("Modernità e Olocausto", ed. Mulino), la critica al negazionismo e il passaggio contemporaneo dalla "società dei produttori" alla "società dei consumatori" che ha indebolito anche gioie e soddisfazioni, in una realtà sempre più vacua. Sopravvissuto proprio all'Olocausto, Bauman nel tempo non ha lesinato critiche nei confronti del governo israeliano di Netanyahu e della politica dell'occupazione di parte della Cisgiordania, mossa per Bauman suicida per Israele e che, secondo l'intellettuale polacco, non avrebbe mai portato alla pace in Medioriente.

In Italia. Una delle ultime apparizioni pubbliche in Italia di Bauman è stata ad Assisi lo scorso settembre nell'ambito di un incontro interreligioso per la pace organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio e dai frati della località umbra, dove tra l'altro era presente anche Papa Francesco. Anche allora, Bauman parlò della necessità del "dialogo" come la via per l'integrazione tra i popoli: "Papa Francesco", ricordò, "dice che questo dialogo deve esser al centro dell'educazione nelle nostre scuole, per dare strumenti per risolvere conflitti in maniera diversa da come siamo abituati a fare".

La sfera pubblica. Bauman ha scritto frequentemente per La Repubblica e l'Espresso, e ha accettato l'invito del festival "La Repubblica delle Idee" a Napoli, dove nel 2014 ha tenuto un dialogo pubblico con l'allora direttore di Repubblica Ezio Mauro. Proprio con Ezio Mauro, Bauman ha scritto di recente "Babel" (edito da Laterza, come la stragrande maggioranza dei suoi libri), un saggio-dialogo sulla contemporaneità, la globalizzazione, la crisi della società e della politica dei tempi nostri.

il manifesto
ZYGMUNT BAUMAN,

UN PENSIERO ERRANTE
NEL FLUSSO DELLA SOCIETA'
di Benedetto Vecchi
Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia, inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il teorico della società liquida, una tag che accoglieva con divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale da intellettuale del Novecento.

Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo, rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente, che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman, infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda.

Ogni volta che prendeva la parola in pubblico Bauman faceva sfoggio di quella attitudine alla chiarezza che aveva, non senza fatica, come ha più volte ricordato nelle sue interviste, acquisito negli anni di apprendistato alla docenza svolto nell’Università di Varsavia. Parlava alternando citazioni dei «grandi vecchi» della sociologia a frasi tratte dalle pubblicità, rubriche di giornali. Mettere insieme cultura accademica e cultura «popolare» era indispensabile per restituire quella dissoluzione della «modernità solida» sostituita da una «modernità liquida» dove non c’era punto di equilibrio e dove tutto l’ordine sociale, economico, culturale, politico del Novecento si era liquefatto alimentando un flusso continuo di credenze e immaginari collettivi che lo Stato nazionale non riusciva a indirizzarlo più in una direzione invece che in un’altra. E teorico della società liquida Bauman è stato dunque qualificato. Un esito certo inatteso per un sociologo che rifiutava di essere accomunato a questa o quella «scuola», senza però rinunciare a considerare Antonio Gramsci e Italo Calvino due stelle polari della sua «erranza» nel secolo, il Novecento, delle promesse non mantenute. Nato in Polonia nel 1925 da una famiglia ebrea assimilata, aveva dovuto lasciare il suo paese la prima volta all’arrivo delle truppe naziste a Varsavia. Era approdato in Unione Sovietica, entrando nell’esercito della Polonia libera.

Finita la guerra, la prima scelta da fare: rimanere nell’esercito oppure riprendere gli studi interrotti bruscamente. Bauman fa suo il consiglio di un decano della sociologia polacca, Staninslaw Ossowski, e completa gli studi, arrivando in cattedra molto giovane. E nelle aule universitarie si manifesta il rapporto fatto di adesione e dissenso rispetto al nuovo potere socialista. Bauman era stato convinto che una buona società poteva essere costruita sulle macerie di quella vecchia. A Varsavia, la facoltà di sociologia era però un’isola a parte. Così le aule universitarie potevano ospitare teorici non certo amati dal regime. Talcott Parson fu uno di questi, ma a Varsavia arrivano anche libri eterodossi. Emile Durkheim, Theodor Adorno, Georg Simmel, Max Weber, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino, Antonio Gramsci (questi due letti da Bauman in lingua originale). Quando le strade di Varsavia, Cracovia vedono manifestare un atipico movimento studentesco, Bauman prende la parola per appoggiarli.

È ormai un nome noto nell’Università polacca. Ha pubblicato un libro, tradotto con il titolo in perfetto stile sovietico Lineamenti di una sociologia marxista, acuta analisi del passaggio della società polacca da società contadina a società industriale, dove sono messi a fuoco i cambiamenti avvenuti negli anni Cinquanta e Sessanta. La secolarizzazione della vita pubblica, la crisi della famiglia patriarcale, la perdita di influenza della chiesa cattolica nell’orientare comportamenti privati e collettivi. Infine, l’assenza di una convinta adesione della classe operaia al regime socialista, elemento quest’ultimo certamente non salutato positivamente dal regime. Ma quando, tra il 1968 e il 1970, il potere usa le armi dell’antisemitismo, la sua accorta critica diviene dissenso pieno. Gran parte degli ebrei polacchi era stata massacrata nei lager nazisti. Per Bauman, quel «mai più» gridato dagli ebrei superstiti non si limitava solo alla Shoah ma a qualsiasi forma di antisemitismo. La scelta fu di lasciare il paese per il Regno Unito. Il primo periodo inglese fu per Bauman una resa dei conti teorici con il suo «marxismo sovietico». L’università di Leeds gli ha assicurato l’autonomia economica; Anthony Giddens, astro nascente della sociologia inglese, lo invita a superare la sua «timidezza». È in quel periodo che Bauman manda alle stampe un libro, Memorie di classe (Einaudi), dove prende le distanze dall'idea marxiana del proletariato come soggetto della trasformazione. E se Gramsci lo aveva usato per criticare il potere socialista, Edward Thompson è lo storico buono per confutare l’idea che sia il partito-avanguardia il medium per instillare la coscienza di classe in una realtà dove predomina la tendenza a perseguire effimeri vantaggi.

Tocca poi all'identità ebraica divenire oggetto di studio, lui che ebreo era per nascita senza seguire nessun precetto. La sua compagna era una sopravvissuta dei lager nazisti. E diviene la sua compagna di viaggio in quella sofferta stesura di Modernità e Olocausto (Il Mulino). Anche qui si respira l’aria della grande sociologia. C’è il Max Weber sul ruolo performativo della burocrazia, ma anche l’Adorno e il Max Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo. La shoah scrive Bauman è un prodotto della modernità; è il suo lato oscuro, perché la pianificazione razionale dello sterminio ha usato tutti gli strumenti sviluppati a partire dalla convinzione che tutto può essere catalogato, massificato e governato secondo un progetto razionale di efficienza. Un libro questo, molto amato dalle diaspore ebraiche, ma letto con una punta di sospetto in Israele, paese dove Bauman vive per alcuni anni.

Camminare nella casa di Bauman era un continuo slalom tra pile di libri. Stila schede su saggi (Castoriadis e Hans Jonas sono nomi ricorrenti nei libri che scrive tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento) e romanzi (oltre a Calvino, amava George Perec e il Musil dell’Uomo senza qualità). Compagna di viaggio, come sempre l’amata Janina, morta alcuni anni fa. Manda alle stampe un saggio sulla globalizzazione che suona come un atto di accusa verso l’ideologia del libero mercato. E forte è il confronto, in questo saggio, con il libro di Ulrich Beck sulla «società del rischio», considerata da Bauman un’espressione che coglie solo un aspetto di quella liquefazione delle istituzioni del vivere associato. La famiglia, i partiti, la chiesa, la scuola, lo stato sono stati definitavamente corrosi dallo sviluppo capitalistico. Cambia lo «stare in società». Tutto è reso liquido. E se il Novecento aveva tradito le promesse di buona società, il nuovo millennio non vede quella crescita di benessere per tutti gli abitanti del pianeta promessa dalle teste d’uovo del neoliberismo. La globalizzazione e la società liquida producono esclusione. L’unica fabbrica che non conosce crisi è La fabbrica degli scarti umani (Laterza), scrive in un crepuscolare saggio dopo la crisi del 2008.

Sono gli anni dove l’amore è liquido, la scuola è liquida, tutto è liquido. Bauman sorride sulla banalizzazione che la stampa alimenta. E quel che è un processo inquietante da studiare attentamente viene ridotto quasi a chiacchiera da caffè. Scrolla le spalle l’ormai maturo Bauman. Continua a interrogarsi su cosa significhi la costruzione di identità patchwork (Intervista sull’identità, Laterza), costellata da stili di vita mutati sull’onda delle mode. Prova a spiegare cosa significhi l’eclissi del motto «finché morte non ci separi», vedendo nel rutilante cambiamento di partner l’eclissi dell’uomo (e donna) pubblico. La sua critica al capitalismo è agita dall’analisi del consumo, unico rito collettivo che continua a dare forma al vivere associato.

È molto amato dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito, che ha nella Rete un sorprendente strumento per una sorveglianza capillare di comportamenti, stili di vita, che vengono assemblati in quanto dati per alimentare il rito del consumo.

Bauman non amava considerarsi un intellettuale impegnato. Guardava con curiosità i movimenti sociali, anche se la sua difesa del welfare state è sempre stata appassionata («la migliore forma di governo della società che gli uomini sono riusciti a rendere operativa»). Nelle conversazioni avute con chi scrive, parlava con amarezza degli opinion makers, novelli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica, ma richiamava la dimensione etica e politica dell’intelelttuale specifico di Michel Foucault, l’unico modo politico per pensare la società senza cade in una arida tassonomia delle lamentazioni sulle cose che non vanno.


Il Fatto Quotidiano
ORA IL CITTADINO GLOBALE
E' SOLO CON LE SUE PAURE
di Alessia Grossi

A quest’età posso essere assolutamente certo che morirò socialista”. Quasi un necrologio, quello che il filosofo della “società liquida” aveva affidato già qualche anno fa alla Gazeta Wyborcza, lo stesso giornale polacco che ieri pomeriggio per primo ha diffuso la notizia della sua morte, all’età di 91 anni. Scappato in Unione Sovietica dalla persecuzione nazista della Polonia nel 1939, lui stesso definiva il suo legame con il marxismo una “grande fascinazione”. Studiata, analizzata e contestualizzata dall’intellettuale ormai naturalizzato britannico, insieme all’Olocausto, passando per la Modernità e la Postmodernità nelle sue prime pubblicazioni: dal 1959.

Ma è nel 2000 che con Modernità liquida sintetizza il nuovo millennio: quelle nuove “paure liquide che si attaccano e si staccano a seconda di chi le vende: che sia la politica o l’economia”. Quella che ci ha raccontato è l’eterna lotta tra libertà e sicurezza in cui il “pendolo si sposta dall’una all’altra a seconda di quale esigenza primaria dell’uomo prevalga in quell’istante storico”. Bauman le paure del XXI le riprese davanti ai nostri occhi liquidi, nonostante le ritenesse indescrivibili proprio per il loro stato. Ora sappiamo che si tratta di paure sociali, ma anche economiche. Ma soprattutto che sono “facilmente alimentabili”. Senza più reti ideologiche a protezione, pieni del liberismo che “ci viene venduto” e che “paghiamo caro”, viviamo con l’eterna inesorabile frustrazione di non aver saputo cogliere appieno ogni stimolo che la vita ci mette a disposizione. Peggio, con l’amarezza che la responsabilità di questa eterna infelicità sia individuale. È la globalizzazione, signori. Possiamo esserci anche noi, ma soltanto se ne siamo capaci. E quelli che non ce la fanno? I migranti? “Chi predica che non ci sia posto per loro, ha bisogno di questa paura e per questo la alimenta”. Primo fra tutti il presidente Usa Donald Trump, che con la sua campagna elettorale populista Bauman riteneva “un veleno, venduto come antidoto ai mali di oggi”.

Per l'accoglienza e il dialogo, Bauman sosteneva la necessità del potere di fare leva sulle paure ataviche e animalesche dell’uomo nei confronti dell’altro. Ma l’importante secondo il filosofo è non sovrapporre l’immigrazione con il terrorismo, non trasformare i profughi da vittime a colpevoli, istigando all’odio. “Per il dialogo passa l’integrazione e la pace tra i popoli”, aveva raccomandato ad Assisi durante gli incontri internazionali promossi da Sant’Egidio. “Un dialogo necessario tra laici e credenti per la costruzione della pace e di una società più inclusiva, perché il dio dell’altro non è più dall’altra parte del confine, ma è qui”. Anche perché Zygmunt Bauman non ammetteva alternative: “Il dialogo è una questione di vita o di morte: o ci capiamo, o toccheremo il fondo insieme”. Dialogo messo in pratica da lui stesso, incontrando Papa Francesco.

Filosofo della vita e delle relazioni che la compongono, aveva completato la definizione di “società liquida” con quella di “amore liquido”, che della prima è diretta conseguenza, quando al posto del legami ci sono le “connessioni”, quando niente sembra appagarci se non la continua ricerca di nuove relazioni, ma allo stesso tempo restare da soli ci fa paura. Al contrario della sua relazione con la moglie, Janina, con cui “parlava ancora”, coltivato fino alla fine, per 62 anni. Lui che indicava nelle cose durevoli la vera ricerca della felicità. Riconoscendo allo stesso tempo tutti i limiti della routine. Della morte, sosteneva fosse “l’unico problema senza soluzione”, al pensiero di cui tutti sfuggono. Chi con la filosofia, chi con promesse di sieri di eterna giovinezza. In comune, amore e morte avevano per Bauman una cosa sola, la più importante: “Entrambe sono esperibili una sola volta”. Ma dalla prima sosteneva si “rinascesse oggi di continuo”. C’è da augurarselo.


«Pensiero critico quale capacità di esercitare un giudizio cercando quali alternative esistono, anche in situazioni dove non sembrano essercene, e di scegliere tra di esse guardando a quelle che vanno in direzione dei fini ultimi piuttosto che alla massimizzazione dell’u

tile». MicroMega online, 2 gennaio 2017 (c.m.c.)

Voglio iniziare mettendo in luce alcuni fattori che ritengo fondamentali per definire la figura e il pensiero di Luciano Gallino. (…) Il primo elemento è la sua volontà, il suo impegno – soprattutto negli ultimi vent’anni della sua vita, quelli che mi sono più vicini – di fare pensiero critico: quel tipo di pensiero che oggi è drammaticamente passato di moda. Un tempo, anche in Italia e non solo c’erano gli intellettuali impegnati, per non parlare degli intellettuali organici a certe forme di partito e di cultura.

Luciano Gallino era impegnato anche facendo opera di divulgazione sui media, esponendosi anche politicamente, ma soprattutto era disorganico rispetto alla cultura dominante di oggi, cioè alla sommatoria di neoliberismo e di ordoliberalismo. Il suo era appunto un pensiero critico, l’unica forma possibile e autentica di pensiero – ma dire pensiero critico è quasi una tautologia, il pensiero è critico o non è pensiero -, perché pensare, ragionare, riflettere possono esserlo solo in senso critico, problematico, riflessivo, di approfondimento. Il pensiero critico è l’unica forma di pensiero che Gallino – e io con lui – ammetteva. Dove l’aggettivo appunto rafforza semplicemente il sostantivo. (…).

Critica, dunque, ma non per il gusto – autoreferenziale e improduttivo - di criticare; critica – invece - per andare a scavare sotto la superficie del senso comune e dei luoghi comuni e delle nuove ideologie come appunto il neoliberismo/ordoliberalismo; o per svelare l’apparenza delle ombre della nostra caverna di Platone, ombre (o mondo virtuale) che scambiamo sempre più per realtà.

Critica, infine come modalità per smascherare il potere, le ideologie, ma anche il nostro conformismo, l’opportunismo dell’indifferenza, e soprattutto la rassegnazione che ci prende come unica forma di reazione all’azione pedagogica dell’ideologia neoliberale; e quindi, critica contro quella stupidità che Gallino vedeva nelle politiche europee di austerità e di Fiscal compact, nei neoliberisti e negli ordoliberali al potere nell’eurocrazia di Bruxelles e di Francoforte, oltre che di Berlino. Ma al potere soprattutto nella società, perché il neoliberismo vuole creare un uomo nuovo, vuole pervadere l’intera società e trasformarla in mercato e la vita in competizione, si propone come un tutto – io dico, come una religione - e vuole essere soprattutto una biopolitica (come ha sostenuto Michel Foucault) governando la vita intera delle persone e delle società.

Luciano Gallino era un intellettuale che amava dunque il pensiero critico (quel pensiero, cito, «inteso quale capacità di esercitare un giudizio cercando quali alternative esistono, anche in situazioni dove non sembrano essercene, e di scegliere tra di esse guardando a quelle che vanno in direzione dei fini ultimi piuttosto che alla massimizzazione dell’utile») e non smetteva di praticarlo e di insegnarlo.

Perché era importante (è sempre importante, anche se faticoso) dire il vero, fare parresia direbbe ancora Foucault, smascherare le menzogne del potere perché, come recita la frase di Rosa Luxemburg citata da Gallino nel suo ultimo libro (uscito pochi giorni prima della morte), Il denaro, il debito e la doppia crisi, spiegati ai nostri nipoti: Dire ciò che è, rimane l’atto più rivoluzionario. Perché, appunto dire ciò che è - e non ripetere ciò che il potere dice, questa sì è cosa davvero rivoluzionaria in una società – la nostra – conformista pur negando di esserlo e manipolata incessantemente da una pedagogia neoliberista (che per molti aspetti è «una perversione della vecchia dottrina liberale», secondo Gallino) ma che è pervasiva e invasiva.

Pensiero critico anche contro la rassegnazione, dicevo: perché Gallino – secondo elemento della sua personalità da mettere in luce, lui piemontese austero ma aperto al nuovo e al cambiamento - ha sempre affiancato la critica alla proposta. Era sociologo che studiava la società, ma dallo studio e dall’analisi traeva poi spunto per passare alla proposta. Perché convinto, come detto, che c’è sempre almeno una alternativa rispetto a ciò che si fa e a ciò che si pensa – e anche in questo suo voler proporre sempre almeno un’alternativa vi era la critica del neoliberismo e dell’ordoliberalismo (tema del nostro ultimo scambio di mail) per i quali invece non esisterebbero alternative al mercato e al capitalismo. Capitalismo che Gallino non voleva distinguere dall’economia di mercato (come cercano di fare ad esempio gli ordoliberali) - il primo problematico, la seconda sempre virtuosa - perché capitalismo ed economia di mercato sono la stessa cosa. Distinguerli - perché dire sistema di mercato sarebbe più tranquillizzante rispetto a capitalismo - è solo «una frode linguistica e concettuale». E tuttavia - mi aveva detto in un’intervista uscita sulla rivista Alfabeta2, nel 2014 - «il superamento del capitalismo mi sembra ancora un obiettivo lontano. Ma disciplinarlo, il capitalismo, questo si può. E si deve. E subito».

Anche perché il capitalismo – scriveva Gallino - avrà a che fare con una probabilità e con una certezza: la probabilità è che il futuro del capitalismo sia una stagnazione senza fine; la certezza è invece la crisi del sistema ecologico, «per contrastare il quale occorrerebbe rivedere a fondo il funzionamento dell’economia e il modo di ragionare su di essa». Ma di questo torneremo a parlare alla fine.

E procediamo con ordine. Partiamo dal lavoro, tema centrale nelle riflessioni di Gallino. Anche qui, la Olivetti era stata una scuola speciale. Lo ricordava - nel libro sotto forma di intervista a Paolo Ceri intitolato L’impresa responsabile (il modello Olivetti, appunto) - citando il padre di Adriano Olivetti, Camillo che ricordava al figlio: «tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dei nuovi metodi di lavoro, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia» – e viene subito da pensare a oggi, quando si parla nuovamente di morte di milioni di posti di lavoro per effetto di quella che chiamiamo già quarta rivoluzione industriale, quella del digitale e del capitalismo di piattaforma, che porta a nuove tecniche di lavoro via rete e nuovi modi di organizzazione del lavoro. O quando, sempre nel testo citato ma anche ne Il lavoro non è una merce, Gallino ricordava come la Olivetti avesse vissuto una crisi di sovra-produzione nel 1953 e di come Adriano Olivetti la risolse non licenziando 500 operai, come suggerito dal management di allora - che in parte licenziò e in parte trasferì - ma assumendo 700 nuovi impiegati commerciali, ribassando i prezzi della macchine e così rilanciando le vendite. Un’autentica eresia, per i modelli imprenditoriali e capitalistici di oggi.

Dunque, il lavoro. Che era un diritto, come è scritto nella nostra Costituzione – Costituzione che forse, ed è una considerazione personale ma che Gallino sicuramente condividerebbe - dovremmo applicare davvero, prima di modificarla malamente e in senso oligarchico.Lavoro che è diventato o è ridiventato – come se il vecchio Progresso si tramutasse in Regresso, per una ennesima eterogenesi dei fini della storia - ciò che non doveva mai più essere, cioè una merce.

Mercificando, reificando non solo il lavoro ma anche i lavoratori. E quindi, ecco il suo libro del 2007, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità. Che aggiornava il saggio del 2001, intitolato: Il costo umano della flessibilità. Libro del 2007 dove subito ammetteva: «mentre in quel saggio del 2001 intravedevo alcuni modi per rendere sostenibile la flessibilità senza intervenire più che tanto sulle sue cause, reputo oggi che sia su queste» – cioè appunto sulle cause della flessibilità – «che occorre porre la maggiore attenzione», perché la tempesta che sta travolgendo le forme novecentesche del lavoro e la considerazione del lavoro come diritto sociale, «deriva dall’aver messo in competizione tra loro, deliberatamente il mezzo miliardo di lavoratori del mondo che hanno goduto per alcuni decenni di buoni salari e buone condizioni di lavoro, con un miliardo e mezzo di nuovi salariati che lavorano in condizioni orrende, con salari miserandi. La richiesta di accrescere i lavori flessibili, è un aspetto di tale competizione».

(…) Aggiungendo subito dopo: «Il problema che la politica dovrebbe affrontare sta nel far sì che l’incontro, che prima o poi avverrà, tra queste due parti della popolazione mondiale, avvenga verso l’alto della scala dei salari e dei diritti, piuttosto che verso il basso». L’auspicio, come sappiamo, si è risolto nel suo contrario – il benchmark è sempre il lavoratore sfruttato dell’Asia o il lavoratore sempre più precarizzato e uberizzato dell’Occidente - e da qui i successivi interventi di Gallino sul tema, e penso al suo La lotta di classe dopo la lotta di classe, del 2012, uscito nel pieno della crisi causata dal capitalismo finanziario oltre che dalla diffusione delle nuove tecnologie.

Per vedere come la tempesta non sia passata, ma si aggravi sempre più – pensiamo al caso di Apple. Azienda leader delle nuove tecnologie ma anche dell’immaginario collettivo, della tecnica come forma o come esperienza religiosa-quasi misticheggiante (per noi feticisti tecnologici), ma che sfrutta i lavoratori cinesi che producono gli iPhone con turni di 12 ore al giorno per sei giorni alla settimana. O agli effetti del JobsAct italiano, per il quale gli ultimi dati evidenziano, ancora una volta che la flessibilizzazione del lavoro non produce occupazione (come vorrebbe il non-pensiero dominante; ancora: neoliberismo & ordoliberalismo) ma disoccupazione e altra flessibilizzazione - e soprattutto precarizzazione del lavoro e quindi delle vite di tutti. O pensiamo ancora ai ragazzi di Foodora, saliti alle cronache di questi ultimi giorni per le loro proteste contro i tagli salariali e la loro precarizzazione lavorativa (l’essere lavoratori dipendenti di fatto, ma essere considerati formalmente come lavoratori autonomi della gig economy, l’economia dei lavoretti, o meglio, come preferisco chiamarla: economia della sopravvivenza in tempi di crisi).

Gallino definiva la flessibilità in questo modo: «si usano definire flessibili, in generale, o così si sottintendono, i lavori o meglio le occupazioni che richiedono alla persona di adattare ripetutamente l’organizzazione della propria esistenza – nell’arco della vita, dell’anno, sovente del mese o della settimana – alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive che la occupano o si offrono di occuparla, private o pubbliche che siano. Tali modi di lavorare, o di essere occupati impongono alla gran maggioranza di coloro che vi sono esposti per lunghi periodi un rilevante costo umano, poiché sono capaci di modificare o sconvolgere, seppure in varia misura, oltre alle condizioni della prestazione lavorativa, anche il mondo della vita, il complesso dell’esistenza personale e familiare».

E per definire meglio il processo in atto allora - e ancora di più oggi - distingueva tra flessibilità dell’occupazione e flessibilità della prestazione. La prima consiste «nella possibilità, da parte di un’impresa, di far variare in più o in meno la quantità di forza lavoro (…) quanto maggiore è la facilità di licenziare o di occupare salariati con contratti atipici e di breve durata». La flessibilità della prestazione si riferisce invece «all’eventuale modulazione, da parte dell’impresa, di vari parametri» quali «l’articolazione differenziale dei salari per ancorarli ai meriti individuali o alla produttività di reparto o di impresa, la modificazione degli orari, il lavoro a turni, gli orari slittanti, quelli annualizzati, l’uso degli straordinari». A questi esempi potremmo aggiungere oggi, e ancora, il lavoro uberizzato, una certa sharing economy, la gig economy.

E dalla flessibilità/flessibilizzazione del lavoro alla precarietà il passo era ed è breve. Scriveva Gallino: «Il termine precarietà non connota la natura del singolo contratto atipico, bensì la condizione umana e sociale che deriva da una sequenza di essi, nonché la probabilità, progressivamente più elevata a mano a mano che la sequenza si allunga, di non arrivare mai a uscirne. (…) La precarietà oggi è dappertutto, scriveva già tempo addietro Pierre Bourdieu. Il lavoro precario ha provveduto a riportare indietro di generazioni» il mondo del lavoro. Deliberatamente, ancora una volta, perché questo serviva e serve a garantire competitività e produttività al nuovo capitalismo che si stava sviluppando con e grazie alla rete; e perché serve a trasformare il mercato del lavoro – orrendo concetto, visto che sottintende un mercato di individui/persone - e a piegarlo alle esigenze economiche ma soprattutto ideologiche del neoliberismo e dell’ordoliberalismo.

Una precarietà che da una parte toglie il futuro; e dall’altro alimenta – e dovremmo ricordarlo, oggi che vediamo nascere o consolidarsi movimenti populisti in molte parti del mondo – l’antipolitica, l’astensionismo, l’indifferenza verso le cose comuni; e dall’altro ancora toglie identità al lavoratore, lo de-soggettivizza (non è più un soggetto, ma un oggetto del mercato) e insieme lo de-socializza, lo aliena dagli altri e da una società dove, in nome della competizione, sono state rottamate l’uguaglianza, la solidarietà e quindi, conseguentemente, la libertà.

Gallino aveva anche distinto (come in Financapitalismo) tra produzione di valore ed estrazione di valore. La prima produce e crea valore ad esempio costruendo una casa, una scuola, producendo un farmaco utile a debellare malattie; la seconda estrae valore e pensiamo alla speculazione finanziaria o immobiliare o al Big Data, con imprese che producono profitto estraendo valore – con il data mining - dai dati che lasciamo gratuitamente in rete. Ma il processo di estrazione del valore, scriveva Gallino è qualcosa che riguarda in parallelo anche l’organizzazione del lavoro, come: «pagare il meno possibile il tempo di lavoro effettivo; far sì che le persone lavorino, in modo consapevole o no, senza doverle retribuire; minimizzare, e laddove possibile azzerare, qualsiasi onere addizionale che gravi sul tempo di lavoro, quali imposte, contributi previdenziali, assicurazione sanitaria e simili» –- e mi piace ricordare gli scritti di Gallino a proposito dell’introduzione, alla Fiat, del Wcm, il world class manufacturing, la nuova organizzazione del lavoro e che fu anche oggetto del referendum tra i lavoratori nel 2010: Wcm iper-moderno secondo la Fiat, iper-taylorista, cioè vecchio - o peggio che vecchio, anche se 2.0 - secondo Gallino, producendo un’ulteriore intensificazione dei ritmi e dei tempi di lavoro, tanto che ben 19 pagine su 36 del documento allora presentato dalla Fiat ai sindacati erano dedicate alla metrica del lavoro; e la flessibilità è anche, ad esempio, in 80 ore di straordinari a testa che l’azienda può imporre ai lavoratori, a sua discrezione e senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso di soli due o tre giorni. L’obiettivo – commentava Gallino - è sempre aumentare la produttività, riducendo anche i tempi morti, come le pause; il modello o l’ideale è invece il robot che non rallenta mai il ritmo, non si distrae e soprattutto non protesta.

Ma perché questa flessibilizzazione del lavoro? Tutto nasce - provo a riassumere brevemente qualcosa che è ancora in corso – con la supposta crisi del modello fordista (fatto di grandi fabbriche, molti lavoratori, produzione di massa di beni standardizzati, lavoro disciplinare e disciplinato secondo l’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, quella che Zygmunt Bauman ha definito la modernità pesante - ma anche il matrimonio di interesse tra capitale e lavoro ovvero più cresce la produzione più crescono i salari, più è possibile redistribuire parte dei profitti) e quindi, poi – nel momento in cui il fordismo sembra entrare in crisi - il passaggio dal fordismo a quello che in troppi hanno definito come post-fordismo.

Post-fordismo dominato dalla produzione snella secondo il modello Toyota; dal just-in-time; dalla esternalizzazione di fasi di produzione ma oggi anche dei lavoratori perché questo è l’uberizzazione del lavoro; dalla auto-attivazione e dalla motivazione dei lavoratori al diffondersi della psicologia del lavoro (che porta a far fare senza quasi avere più l’ordine di dover fare); il passaggio dal lavoro come prestazione in cambio di un salario al lavoro come collaborazione con l’impresa (o con la rete), oggi come condivisione anche in cambio di un salario/compenso decrescente; e poi la personalizzazione dei consumi (vera o meglio: presunta) e dei messaggi pubblicitari; il passaggio dalla modernità pesante alla modernità liquida (ancora Bauman), dove niente ha più forma stabile e durevole (relazioni e amore compresi), mentre il consumatore è libero di muoversi in rete, come pure le stesse imprese e la rete è ovviamente de-territorializzata e de-materializzata.

Ovvero, scriveva Gallino: «La generalizzazione del modello organizzativo fondato sul criterio per cui tutto deve avvenire giusto in tempo conduce all’interiorizzazione da parte del lavoratore d’una sorta di catena invisibile che costringe a lavorare a ritmi frenetici, pur in assenza di controlli ravvicinati da parte dei capi». Il post-fordismo ha fatto cioè introiettare a ciascuno cosa deve fare e come nonché il principio dell’accelerazione continua e dell’intensificazione crescente della propria prestazione.

Al confronto, Tempi moderni di Chaplin è la preistoria dell’organizzazione del lavoro in rete, ma la rete – aggiungiamo – è solo la vecchia catena di montaggio con altri mezzi o in altra forma.(…) Il punto di arrivo – e l’obiettivo è stato pienamente raggiunto, ma si perfeziona sempre di più - è avere anche un lavoratore che sia flessibile. Just-in-time. Idea apparentemente geniale e apparentemente nuova (in verità l’industria automobilistica americana aveva cominciato a introdurre flessibilità nei suoi stabilimenti fin dagli anni ’30, arrivando a presentare un nuovo modello o un modello aggiornato ogni anno, attivando quelle tecniche di invecchiamento psicologico dei prodotti che tanta parte hanno anche oggi nella motivazione a consumare e nello spingere a innovare sempre e comunque).

Se non fosse che in questo modo – flessibilizzando il lavoro e impoverendo i lavoratori, invece di raddoppiargli il salario come aveva fatto Ford nel 1914 – si impoverisce anche la domanda, generando il circolo vizioso in cui siamo sprofondati non tanto dalla crisi del 2008, ma da almeno trent’anni, quelli appunto dell’egemonia dell’ideologia neoliberista, della globalizzazione e delle nuove tecnologie.

(…) Flessibilizzazione del lavoro e dei lavoratori, per la flessibilizzazione - o meglio la riduzione progressiva - dei diritti del lavoro, del diritto al lavoro e del lavoro come diritto. Un altro degli obiettivi del capitalismo e del mondo dell’impresa, che non hanno perso l’occasione offerta dalle nuove tecnologie individualizzanti per indebolire non solo il sindacato e per ridurre quel poco di democrazia che era riuscita, negli anni ’70, a varcare i cancelli delle fabbriche e degli uffici, ma gli stessi lavoratori.

Facile, riducendo nuovamente il lavoro a merce, nonostante il lavoro e una giusta retribuzione siano diritti universali e quindi inalienabili dell’uomo (oltre che secondo la Costituzione italiana); e nonostante il fatto che la Dichiarazione di Filadelfia del 1944, concernente le finalità dell’Organizzazione internazionale del lavoro – ricordata appunto da Gallino – affermi solennemente che il lavoro non è una merce. E invece sì. Perché questo voleva il neoliberismo – il mercato come unico valore e come unica forma di organizzazione anche sociale. Per una società che deve essere anch’essa flessibile (richiamando Richard Sennett), quindi perennemente attiva, perennemente al lavoro o alla ricerca di un lavoro quale che sia, alzando sempre più l’asticella della produttività e insieme della flessibilità.

Dove individualizzazione e flessibilizzazione sono determinate soprattutto dalle nuove tecnologie, perché: «Senza Itc non sarebbe possibile coordinare unità produttive che non si arrestano mai e che debbono essere collegate in tempo reale con mille altre unità produttive e distributive nel mondo . (…) Esiste dunque una relazione speciale tra le nozioni di lavoro flessibile, società flessibile e società dell’informazione».

E quindi, «all’organizzazione sociale si chiede di assomigliare sempre di più all’organizzazione di un’impresa. Come sappiamo le imprese decentrano, si frammentano in unità sempre più piccole e mutevoli, coordinate da reti globali di comunicazione sempre più efficienti e capillari. L’organizzazione aziendale si appiattisce, diminuendo e fluidificando i livelli gerarchici, generalizzando il lavoro di squadra, puntando a esternalizzare tutte le attività che non attengono alla sua missione primaria». (…). Una flessibilità cresciuta sempre più dall’anno (il 2007) di pubblicazione di Il lavoro non è una merce. I processi di flessibilizzazione, outsourcing, sharing e di individualizzazione dei rapporti di lavoro sono cresciuti a dismisura fino a diventare la norma e insieme la normalità del lavoro e della vita di oggi.

Perché singolarizzazione contrattuale, individualizzazione pseudo-imprenditoriale, retoriche dell’autonomia e della libertà, flessibilità e adattamento come nuova condizione esistenziale (come vocazione-beruf individuale) sono, appunto parte essenziale e insieme premessa (la biopolitica, direbbe Michel Foucault) dell’esplosione, frantumazione e impoverimento del lavoro di questi decenni. Grazie a questo, oggi il capitalismo delle piattaforme e gran parte di quella che si è autodefinita sharing economy (ma non lo è) – così come ieri il capitalismo cognitivo, il mito post-operaista dell’intelligenza collettiva, l’economia della conoscenza - mettono al lavoro e sfruttano (estraendo appunto valore invece di produrre valore da redistribuire) il lavoro dei singoli singolarizzati e isolati e quindi più flessibili e disciplinati, più utili e docili (ancora Foucault) e quindi meglio integrabili nell’apparato.

Grazie (anche) al passaggio – come sosteniamo, usando ed estendendo le riflessioni di Luciano Gallino – non dal fordismo a un virtuoso post-fordismo, ma dal fordismo concentrato delle grandi fabbriche di ieri al fordismo individualizzato di oggi, con una rete (e i suoi algoritmi) che è sempre più mezzo di connessione eteronoma di ciascuno nella grande fabbrica globale digitale. E l’uberizzazione diffusa del lavoro, si dice, consentirà di comprare lavoro e competenze in caso di bisogno (è il lavoro on demand) e a prezzo decrescente, scomporrà ancora di più le organizzazioni d’impresa, flessibilizzerà ancora di più il mercato del lavoro, produrrà migliaia di falsi imprenditori di se stessi – ma questo non è davvero niente di nuovo, se non l’estremizzazione del vecchio just in time applicato alle risorse umane. Ed è lavoro quasi-servile, quindi peggio che fordista. Riverniciato di modernità e di ineluttabilità, dove vince chi è più veloce ad adattarsi.

(…) Ma vi è un aspetto importante sul tema delle nuove tecnologie che vorrei sottolineare. Ricordando che gli anni ’90 del ‘900 sono stati gli anni della new o net economy, dell’esplosione della rete e del tecno-entusiasmo, tutti allora convinti che i vecchi e fastidiosi cicli economici fossero finalmente finiti e che, proprio grazie alle nuove tecnologie fosse iniziata una nuova era di benessere crescente per tutti e che – soprattutto – queste nuove tecnologie avrebbero permesso di lavorare meno, di avere più tempo libero, di fare meno fatica, portandoci nella società della conoscenza e del lavoro immateriale se non alla realizzazione del general intellect marxiano.

Riconosceva invece Gallino, smentendo il tecno-entusiasmo dei molti se non dei più: le ricerche condotte in diversi paesi europei, «descrivono, al contrario, situazioni diffuse di intensificazione (che vuol dire fare più cose nel medesimo tempo) e densificazione del lavoro (che significa, invece, soppressione di ogni tipo di pausa nel calcolo dell’orario)». Il processo è inarrestabile, e oggi siamo arrivati nella società del 24x7, l’intensificazione e la densificazione del lavoro sono cresciute ancora, è caduta la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita, siamo oggetti economici (lavoratori, consumatori, innovatori) in servizio permanente effettivo e siamo felici di esserlo (se non opponiamo resistenza e opposizione vuol dire che accettiamo questo meccanismo), autonomamente o con l’aiuto di un coach o della nuova figura del chief happiness officer, traducibile come capo del servizio felicità di un’impresa. Ovvero, la realtà prodotta dalla terza rivoluzione industriale è stata ben diversa dalle promesse, e tale rischia di essere la situazione prodotta dalla nuova, quarta rivoluzione industriale.

Ancora un passo indietro, dal 2001 de Il costo umano della flessibilità, al 1998 e a un altro libro importante di Gallino: Se tre milioni vi sembran pochi. Sottotitolo: Sui modi per combattere la disoccupazione. Un libro che si schiera apertamente contro il pensiero unico neoliberista trionfante in quel decennio – ridefinito come Pec, pensiero economicamente corretto – e contro le ricette di moda allora, anche nell’Università e sui mass media. Quelle per cui: ci sarà ripresa economica se ci sarà più flessibilità per le imprese di licenziare, i giovani devono adattarsi a questa flessibilità e abbandonare l’idea del posto fisso, le innovazioni tecnologiche creano sul lungo termine più occupazione di quanta ne distruggano nel breve termine e anche questa volta non sarà diverso dalle grandi innovazioni del passato, lo stato sociale è la causa di tutti i mali dell’economia.

Un libro dove si parla anche e necessariamente di nuove tecnologie che, secondo Gallino hanno spezzato il circolo virtuoso tra tecnologia e occupazione del passato e la rottura ha un carattere strutturale e non solo congiunturale. Arrivando all’automazione ricorsiva – «robot che fabbricano robot, computer che controllano la fabbricazione di computer, computer che controllano le attività di computer e di reti di computer, software che controllano la produzione e la riproduzione industriale di software», e oggi, aggiornando quel testo di venti anni fa diremmo: gli algoritmi e il Big Data – alle imprese virtuali alla incessante re-ingegnerizzazione organizzativa, alla esternalizzazione/outsourcing dei processi, alla lean production, all’impresa a rete e alla delocalizzazione. Tutte trasformazioni indotte, prodotte, permesse, facilitate dall’innovazione tecnologica della rete.

E poi, la terza parte del libro, quella appunto propositiva per uscire dall’impasse occupazionale e che riprenderà poi nei suoi ultimi saggi e articoli sui media. Partendo dal fatto che in Italia esiste una autentica miniera di lavoro ancora non sfruttata, dalla difesa del suolo alla tutela ambientale, dai beni culturali alla formazione e ricerca. Un lavoro da creare non tanto per «moltiplicare gli oggetti da avere in casa» (traducibile in ‘più consumismo’), bensì per migliorare la qualità della vita. Per questo, scriveva - denunciando un problema che da allora si è semmai drammaticamente aggravato - è però indispensabile «allungare l’orizzonte temporale della politica», uscendo dalla logica del breve termine, che la politica ha appreso purtroppo dal mondo dell’impresa, su cui sta rimodellando se stessa, uccidendo se stessa.

(…) Ancora un breve passo indietro, questa volta al 1983 e al libro, Informatica e qualità del lavoro. Un libro che mi piace citare non solo perché affronta nuovamente il tema delle tecnologie dell’informazione, allora agli inizi, Gallino osservandole con grande chiarezza nei loro possibili effetti; non solo perché lo stile è tutto diverso dai libri citati in precedenza, qui frasi più complesse con ricca dotazione di tabelle e di schemi; quanto perché pone all’attenzione del lettore un tema che mi è caro, quello del rapporto tra impresa e democrazia e tra nuove tecnologie (la tecnica) e democrazia.

Lavoro e democrazia e fabbrica. Con tutti i problemi che questo intreccio tra doveri e diritti produce in termini di autonomia e di eteronomia, di riconoscimento di diritti e di coinvolgimento dei lavoratori nei processi di lavoro e decisionali, in termini di costruzione dell’organizzazione stessa del lavoro. Dove quindi la distinzione tra autonomia ed eteronomia, tra persuasione e manipolazione si fa sempre più labile, tanto più quando, come oggi, si chiede al lavoratore di interiorizzare e di introiettare i valori dell’impresa per cui lavora - a prescindere dal come questo lavoratore è occupato.

E’ quella che io chiamo alienazione ben mascherata, perché l’alienazione non scompare, ma è ben occultata da meccanismi di coinvolgimento, empatia, auto-attivazione dei dipendenti nella logica d’impresa. Teniamo poi presente che se allora la democrazia in fabbrica era un tema di discussione e non si metteva in dubbio il fatto che nell’impresa dovesse esserci almeno un po’ di democrazia, oggi è condiviso (anche dai miei studenti ed è difficile smontare questa certezza) che nell’impresa non possa e non debba esserci democrazia, perché l’impresa è dell’imprenditore e può farci ciò che vuole.

(…) Le tecnologie dell’informazione, scriveva Gallino nel 1983, stanno cambiando le nostre vite, individuali e collettive e il nostro modo di lavorare, soprattutto per la velocità con cui avvengono. Se in meglio o in peggio, si domandava, non dipenderà dalle loro caratteristiche oggettive, quanto dai criteri che guideranno il loro sviluppo. Ovvero: le tecnologie dell’informazione possono fare molto per migliorare la qualità del lavoro umano, ma le stesse potenzialità della tecnica possono anche asservirlo ulteriormente o impoverirlo in misura mai vista prima; o addirittura per eliminarlo. «Per il momento», scriveva, «varie scelte sono ancora possibili».

Oggi, in tempi di algoritmi che tutto sanno di noi e tutto determinano in noi, algoritmi che addirittura sono il nuovo imprenditore o il nostro nuovo responsabile del personale (penso ancora a Uber e a Foodora), tutto si è fatto ancora più complicato e difficile. (…). «Quale che sia la struttura dell’azienda, permane il conflitto tra individuo e organizzazione. Esso non è altro che una versione del conflitto tra affettività e norma, tra interessi privati e interessi collettivi e come tale è insopprimibile».

Conflitto insopprimibile, ma la democratizzazione può limitarlo. Anche o soprattutto mediante e mediata dalle nuove tecnologie, scriveva Gallino, «eliminando per quanto possibile, l’accesso differenziale alle risorse, soprattutto l’informazione», e allo stesso tempo riducendo «i tempi di consultazione delle preferenze, l’onerosità e infine i costi del sistema democratico, il che significa, anzitutto, accelerare i tempi di consultazione delle preferenze, di formazione di una volontà generale e di esplorazione di azioni alternative».Democrazia e nuove tecnologie, un matrimonio possibile dunque. Ma perché questo accada, aggiungeva Gallino, occorre «una effettiva volontà di democratizzazione». Che è appunto ciò che sempre più manca, portandoci lentamente verso quella che chiamo l’autocrazia degli algoritmi).

(…) E veniamo agli ultimi anni. Quelli di riflessione sui processi di finanziarizzazione dell’economia, del colpo di stato di banche e governi, di fine delle classi sociali e della lotta di classe perché vinta dai ricchi invece che dal proletariato, delle disuguaglianze crescenti e poi la doppia crisi in cui siamo immersi. Anni spesi a difesa dell’intelligenza, della democrazia vera contro le perversioni della tecnocrazia europea e contro quell’ assolutismo esercitato dal mercato - anzi, dal capitalismo. Contro l’egemonia del neoliberismo e dell’ordoliberalismo, contro la trasformazione della società in puro mercato, contro la de-sovranizzazione del demos ad opera delle oligarchie e degli oligopoli economici e finanziari.

E il colpo di stato di banche e governi. Un titolo forte. Preso – riassumeva Gallino nell’intervista per Alfabeta2 – «dalla scienza politica e applicato alla nostra realtà economica di questi ultimi anni. Scienza politica che parla appunto di colpo di stato quando una parte della società si appropria con la forza di poteri che altrimenti non le spetterebbero. Le Costituzioni democratiche ovviamente escludono l’ammissibilità del colpo di stato (che cancella libertà, democrazia e società in nome di un presunto stato di eccezione). Quello che è successo in Europa in questi ultimi sei anni è appunto un colpo di stato. Contro le Costituzioni dei singoli Stati ma anche contro gli stessi trattati dell’Unione europea.

«Un golpe strisciante, in un certo senso. Perché tutto ciò che è accaduto, era già scritto, era stato iniziato dalla Thatcher e poi sviluppato da Reagan negli Stati Uniti, il loro era il neoliberismo di Milton Friedman e prima ancora di Friedrich von Hayek, poi applicato un po’ ovunque nel mondo dal Fondo monetario, dall’Ocse, poi dall’Unione europea e dalla Bce. Per anni il neoliberismo è stato davvero il pensiero unico economico dell’Occidente e delle sue istituzioni economiche. E sembra che nessuna correzione sia possibile (…). L’Europa è vittima sacrificale di un’autentica teologia economica, di una teologia neoliberale. Secondo la quale il mercato è sempre efficiente, lo Stato è sempre spreco e inefficienza, la competizione è una pratica virtuosa. Sono clamorosi errori. Ma questa teologia è ancora vincente nell’opinione pubblica, soprattutto nelle università, nell’accademia, nei mass media».

Oggi, in Europa, continuava, si sta verificando «un pericoloso arretramento dell’intero processo democratico, di una portata tale da essersi verificato, finora solo quando un sistema democratico è stato sostituito da una dittatura». (…). E aggiungeva: «Sin dal 2010, la Commissione e il Consiglio europeo hanno avviato un piano di trasferimento di poteri dagli stati membri alle istituzioni europee che, per la sua ampiezza e il grado di dettaglio rappresenta una espropriazione inaudita, non prevista neppure dei trattati, della sovranità degli stessi stati».

Che fare? Gallino immaginava un nuovo New Deal. Perché il New Deal «non è cosa del passato. Certo, la realtà di oggi è in parte diversa. Ma l’idea resta validissima. Soprattutto davanti allo scandalo della disoccupazione (…). Ed essere senza lavoro è una condizione ancora peggiore del non avere un reddito, perché mina la stima di sé, minaccia la coesione sociale e non si crea valore perché senza lavoro non c’è crescita, mentre non vale il contrario (come invece si crede oggi). Lo stato allora deve intervenire direttamente per creare occupazione (e Roosevelt, in pochi mesi, diede un lavoro, quindi stima sociale e autostima, a oltre 4 milioni di disoccupati americani). Oggi serve qualcosa di simile. L’ostacolo non è la mancanza di risorse finanziarie, l’ostacolo è ideologico. Oggi l’egemonia neoliberista fa credere a tutti e a ciascuno che la disoccupazione sia una colpa individuale del lavoratore. Che non si adatta, che non abbassa le sue pretese, che non è flessibile. Questo ostacolo ideologico va superato. Perché appunto ostacolo non sono le risorse, ma i dogmi neoliberisti».

(…) E veniamo al suo ultimo libro, quello sulla doppia crisi, recuperando alcune parti di questo suo testamento politico e intellettuale – non saprei come altrimenti chiamarlo – che lui aveva appunto dedicato ai nipoti, ma in fondo tutti siamo oggi in qualche modo suoi nipoti. Un libro amaro, perché, scrive, «quel che vorrei provare a raccontarvi è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale e morale. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza, e quella di pensiero critico». (…) Ma c’è di più: le riforme economico-sociali imposte dall’Europa, «lasciano chiaramente intendere che in gioco non c’era soltanto la demolizione dello stato sociale, ma la ristrutturazione dell’intera società secondo il modello della cultura politica neoliberale, o meglio di una sua variante: l’ordoliberalismo».

E ancora: «Causa fondamentale della sconfitta dell’uguaglianza è stata, dagli anni Ottanta in poi, la doppia crisi, del capitalismo e del sistema ecologico, quest’ultima strettamente collegata con la prima». Perché alla sua crisi a molte facce, il capitalismo («che pare davvero si stia avviando verso la sua fine» – ha scritto Gallino, anche se non sappiamo ancora quando ciò avverrà) ha reagito «accrescendo lo sfruttamento irresponsabile dei sistemi che sostengono la vita, nonché ostacolando in tutti i modi gli interventi che sarebbe necessario adottare prima che sia troppo tardi».

E quindi, la crisi del capitalismo e la crisi ecologica «non sono due eventi che si possano affrontare separatamente».

Gallino chiudeva il suo libro-testamento con un capitolo quinto – scendendo nuovamente nel concreto – dedicato alla ricerca di alternative. Proposte che vanno nella direzione di attuare mutamenti profondi nel modo di produzione, di lavorare e di consumare; nel sistema finanziario; nell’organizzazione dei processi politici, nella distribuzione delle risorse e delle ricchezze, nella rivalutazione della società civile e dei corpi sociali intermedi.

(…) E allora arriviamo al tema delle classi sociali, che sembrano scomparse ma che invece esistono, sosteneva Gallino, solo che – utilizzando la distinzione marxiana – sono tornate ad essere classi in sé (il proletariato, come detto, non è mai stato così numeroso come oggi) ma non classi per sé (sono incapaci di agire collettivamente e progettualmente), hanno perduto ogni possibile coscienza di classe, sono incapaci di diventare soggetto collettivo. (…) Gallino scriveva (in La lotta di classe dopo la lotta di classe) che occorre rilanciare la dialettica all’interno della società, tra capitale e lavoro, tra culture politiche differenti.

Perché coloro che stanno alla base della piramide sociale possano finalmente dimostrare, ai politici di destra ma soprattutto di sinistra, che esistono, che sono stanchi di essere sconfitti e che si stanno ri-attrezzando per cambiare il corso della storia. (…) Qualcosa forse si muove, scriveva. E tuttavia, se una vera forza di opposizione non si formasse neppure ora, «quello che ci attende è un ulteriore degrado dell’economia e del tessuto sociale». E tuttavia: «Nessuno è veramente sconfitto se riesce a tenere viva in se stesso l’idea che tutto ciò che è, può essere diversamente e si adopera per essere fedele a tale ideale». E quindi: «Considerate questo piccolo libro come un modesto tentativo volto ad aiutarvi a coltivare una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa».

E a mia volta concludo dicendo: considerate anche voi questo mio ricordo di Luciano Gallino come un modesto tentativo per coltivare un po’ di pensiero critico nell’età, appunto, della sua scomparsa.

* estratti della conferenza di Lelio Demichelis alla Fondazione Calzari Trebeschi - Brescia, 27 ottobre 2016. Il testo completo su: www.fondazionetrebeschi.it - Lelio Demichelis insegna Sociologia economica all’Università degli Studi dell’Insubria.

«La sua nozione di cultura assimilava concetti dall’antropologia all’etologia, e si riferiva alla tradizione di Carlo Cattaneo, Antonio Gramsci e a Kant dKant e don Milani: un tracciato che De Mauro ha colmato con i suoi studi e una vita militante». Articoli da

la Repubblica, Il Fatto Quotidiano, il manifesto, Internazionale online 6 gennaio 2017 (c.m.c.)

la Repubblica
DE MAURO IL MAESTRO
DELLA LINGUA ITALIANA
di Francesco Erbani

Tullio De Mauro conobbe don Lorenzo Milani a metà degli anni Sessanta, poco prima che il priore di Barbiana morisse. La sua scuola nel Mugello la visitò soltanto dopo. Una volta, qualche tempo fa, descrivendone le povere suppellettili, la carta geografica sdrucita su una parete e andando con la memoria a quella dedizione totale per il fare scuola, portò di scatto le mani al volto e la commozione compressa sfociò in un pianto. Quando si riprese, fece per scusarsi e passò al registro dell’ironia, come a dire: ci sono ricascato. Un po’ di anni prima, infatti, parlando in pubblico della condizione degli insegnanti — forse era già ministro dell’Istruzione — gli era capitato ancora di commuoversi. Suscitando anche commenti non benevoli.

De Mauro, che ieri si è spento a 84 anni — era nato a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, nel 1932 — era fatto così. La tempra di studioso irrorava quella emotiva. La vita lo aveva scosso. Il fratello Franco morì in guerra. Mentre Mauro, l’altro fratello, dopo una giovinezza tormentata, arruolato nella Repubblica di Salò, giornalista d’inchiesta all’”Ora” di Palermo, grande tempra di cronista investigativo, fu sequestrato e ucciso dalla mafia nel 1970 e il suo corpo non è mai stato rinvenuto. Tullio parlava poco di Mauro, riversando però ogni energia affinché sulla sua fine fosse fatta piena luce.

Tullio De Mauro veniva da una rigorosa formazione classica e aveva introdotto in Italia una disciplina non proprio aderente ai canoni dominanti, la linguistica. Possedeva un profilo scientifico indiscusso in ambito internazionale dovuto allo straordinario merito di aver ricomposto filologicamente, nel 1967, il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, fino ad allora conosciuto in una versione fondata soprattutto su appunti di allievi e che però ne riduceva la forza innovativa non solo per la linguistica ma per la cultura tutta del Novecento.

Il rapporto fra langue e parole, l’arbitrarietà del segno linguistico sarebbero entrate, dopo la sua edizione laterziana, nel lessico scientifico e avrebbero emancipato la linguistica dalle sue radici glottologiche o storico-comparative, rendendola una disciplina autonoma, sia di impianto filosofico sia di rilevanza sociale. De Mauro fu il primo insegnante di Filosofia del linguaggio e poi di Linguistica generale. E dalla sua scuola sono uscite generazioni di studiosi.

Ma pur avendo frequentato stabilmente i piani alti della cultura, De Mauro era uno dei pochi intellettuali che non si è mai stancato di percorrere per intero il tracciato della produzione e della trasmissione del sapere, dalle vette più elevate della riflessione fino all’ordinamento delle scuole primarie. Un impegno manifestato anche presiedendo la Fondazione Bellonci, e curando il Premio Strega. Lo interessavano il sapere che produce altro sapere e ciò che accade nella cultura diffusa, convinto che un Paese civile, se ha a cuore la tenuta democratica, deve curare entrambe le faccende. Una rivista che dirigeva all’università di Roma aveva come titolo Non uno di meno.

E fra i maestri ai quali era devoto figurava Guido Calogero, grande studioso di filosofia teoretica, che però, dalla fine degli anni Quaranta in poi, animò il dibattito sulla scuola che poi produsse, nel 1962, una delle vere, profonde riforme italiane, quella della media unificata. «Poco male», aggiungeva De Mauro, «se Calogero per girare l’Italia discutendo di pedagogia, di filosofia del dialogo, non abbia mai completato la storia della logica antica cui teneva tanto». Quasi a dire che l’innalzamento dell’obbligo scolastico a tutte e a tutti poteva anche valere qualche sacrificio scientifico.

La Storia linguistica dell’Italia unita, uscita da Laterza nel 1963, sta in questa linea di pensiero. Il saggio ebbe grande fortuna. Non è una storia della lingua italiana, ma degli italiani attraverso la loro lingua. È una storia sociale e culturale, economica e demografica, narra di un paese che ha mosso passi da gigante, ma in cui nel 1951 quasi il 60 per cento della popolazione non aveva fatto neanche le elementari.

Si parla di città e campagna, periferie urbane, Nord e Sud. Quando nel 2014 pubblicò un prolungamento di quell’indagine in Storia linguistica dell’Italia repubblicana(sempre Laterza), De Mauro specificò che una storia linguistica racconta una comunità che può parlare anche altre lingue. Per esempio il dialetto, che per lui non era per niente morto e anzi arricchiva le modalità di comunicazione. Comunque non si poteva non rilevare il tumultuoso convergere della comunità nazionale verso una lingua unitaria. Un fenomeno che induceva a guardare al nostro Paese senza categorie semplificatorie, tutto bianco o tutto nero, ma distinguendo, analizzando — uno degli attributi fondamentali nell’insegnamento e della pratica scientifica di De Mauro.

Restavano ai suoi occhi e un velo di sofferenza gli procuravano i veri fattori di arretratezza. Le indagini internazionali attestano che in Italia, al di là dell’analfabetismo, solo una quota oscillante fra il 20 e il 30 per cento della popolazione, ma paurosamente declinante verso il 20, ha sufficienti competenze per orientarsi in un mondo complesso.

Per leggere e capire, spiegava, le istruzioni di un medicinale o le comunicazioni di una banca. E dunque per essere cittadini. La scuola, agli occhi di De Mauro, aveva meno responsabilità di quanto si pensasse e di quanto succedeva fuori di essa e dopo di essa. È qui, in famiglie dove non circolano libri, che si disperde quello che la scuola, con tutti i suoi limiti, trasmette. E di qui muoveva la sua invocazione insistente di un sistema capillare di biblioteche o del long life learning, che un tempo si chiamava educazione permanente, educazione degli adulti.

Al fondo delle tormentate indagini di De Mauro c’è sempre la critica a una nozione restrittiva della parola “cultura”, una nozione che vedeva dominante in Italia, una nozione per cui è cultura ciò che ha a che fare con l’erudizione (e De Mauro erudito lo era a titolo pieno). La sua era invece una nozione larga, che assimilava concetti dall’antropologia all’etologia, che si riferiva alla tradizione di Carlo Cattaneo e Antonio Gramsci. E che risaliva al Kant della Critica del giudizio, laddove il filosofo istituiva un continuum fra la cultura delle abilità necessarie alla sopravvivenza e la cultura delle arti, delle lettere e delle scienze. Kant e don Milani: un tracciato che De Mauro ha colmato con i suoi studi e una vita militante.

Il Fatto Quotidiano
DE MAURO, COSI' PARLAVA
CONTRO LA MALALINGUA
di Alessia Grossi

È morto ieri all’età di 84 anni il linguista e ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001 Tullio De Mauro. Fratello del giornalista Mauro De Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970. Era docente universitario e saggista. Tra le sue opere importanti “Grande dizionario italiano dell’uso” e “Storia linguistica dell’Italia unita”. A lui si deve la ricostruzione del testo fondativo della linguistica moderna, il “Cours de linguistique générale” di Ferdinand de Saussurre.

Si prega di non venire “già mangiati”. Se le parole “stanno bene” è anche vero che “non possono essere usate a ‘schiovere’, cioè come viene viene” come spiegava lo stesso Tullio De Mauro. Così già una ventina di anni fa alla domanda se fossero corrette le espressioni come “bevuto”, “mangiato”, “cenato”, “pranzato” utilizzate con “valore attivo” il linguista rispondeva: “Non trovano cittadinanza nei vocabolari (salvo errore), forse perché d’uso prevalentemente parlato e assai scherzoso, lo stesso vale per il cannibalesco ‘mangiato’”.

Secco. Duro. Intransigente, ironico, quando non sarcastico, il professore De Mauro non conosceva quasi l’indulgenza. Perché il suo punto di vista era l’analisi dei dati. Le cifre. Quelle che parlavano degli italiani e dell’italiano, dei dialetti, da riconoscere e rispettare, perché lingua dell’emozione. Delle donne, che abbandonano le lingue locali molto più facilmente degli uomini, più spinte all’emancipazione. Ma anche dell’analfabetismo di ritorno, in quella sua accusa, che poi era semplice constatazione che “gli elettori culturalmente ignoranti” sono destinati ad esprimersi di pancia nelle cabine elettorali. E contro politici e classi dirigenti puntava il dito rimproverando proprio a loro di essere i primi artefici di quell’analfabetismo per cui il 70% degli italiani fatica a comprendere un testo.

Questo “perché il solo presidente del Consiglio italiano che, come succede altrove, si sia preso a cuore lo stato della scuola e dell’insegnamento nel nostro paese è stato Giolitti”, ricordava. La spiegazione, secondo l’ex ministro dell’Istruzione, è da cercarsi nella convenienza del potere a che i propri elettori capiscano il meno possibile. “Cosa molto pericolosa per la democrazia, che – soprattutto nel mondo contemporaneo, pieno di stimoli – per essere esercitata appieno ha bisogno che la realtà sia compresa in tutta la sua crescente complessità”.

A proposito di attacchi al potere costituito, invece, fu lo stesso De Mauro a spiegare a Lilli Gruber in una puntata di Otto e mezzo che Beppe Grillo, il “grande sdoganatore delle ‘maleparole’(come definiva le parolacce) in politica – non l’unico” – ci tenne a precisare – “aveva dimostrato un certo pudore nel fermarsi al ‘Vaffa’, senza completare mai l’insulto nella sua interezza”. Ma le maleparole stando ai suoi studi ormai sono presenti ovunque, anche nella stampa. Strano a dirsi: non tanto nel parlato. Italiani esibizionisti, ma pudichi in privato, o meglio – così li hanno resi, adirati, le condizioni sociali e politiche, cioè il clima degli anni berlusconiani. E di Berlusconi De Mauro ha analizzato il linguaggio fatto di “formule molto semplici dalla presa immediata, simili a quelle di Mussolini”.

Poi l’attacco a Renzi, all’epoca solo segretario del Pd: “Usa un ottimo italiano per dire poco, al contrario di vecchi politici, come Moro, che cercavano di affrontare il groviglio di problemi e di parlarne, di spiegarli agli italiani, anche se il linguaggio in questi casi si fa necessariamente poco accattivante, ma qualcuno c’è riuscito”. Vedi ad esempio Enrico Berlinguer che, secondo Tullio De Mauro “parlava in modo complesso nelle relazioni congressuali, ma poi riusciva a trovare delle formulazioni accessibili a una vasta popolazione”.

Di riforme della scuola ne aveva viste molte, e da docente che amava passeggiare tra i banchi e mai stare in cattedra, con quel suo sistema innovativo della “scuola capovolta” e dell’insegnamento attivo, del testo della “Buona Scuola” di Renzi aveva saputo elencare le mancanze, quei famosi “tre silenzi”di cui aveva scritto per la sua rubrica su Internazionale e che lui aveva segnato con la penna blu: il silenzio sullo scarso livello della scuola media italiana, quella incapacità di rispecchiare l’articolo 33 e 34 della Costituzione che la vuole “libera e gratuita”. E il terzo, quello sul ruolo dell’insegnamento in una società in cui è alta la “dealfabetizzazione in età adulta”.

E seppur fuori dalle “barricate”, contro quella riforma aveva preannunciato una dura lotta in “modo pomposo, quello di Piero Calamandrei che è il modo solenne di occuparsi dei ragazzi”.

il manifesto

IL PRIMATO DELLA PAROLA

SU PENSIERO E PULSIONI

di Marco Mazzei

Esistono due discipline imparentate tra loro che spesso, come accade in ogni famiglia degna di questo nome, si guardano in cagnesco. La prima è la linguistica, scienza rigorosa che punta a una descrizione fine dei più diversi fatti di parola: la sintassi e la grammatica, la trasformazione fonetica o i problemi generati dal lessico di qualunque lingua umana. La seconda, una strana creatura dal nome «filosofia del linguaggio», sembra librarsi, eterea, nel cielo della speculazione teorica. Non di rado questa diffidenza produce una cecità al quadrato. La linguistica rischia di perdersi nel dettaglio, senza riuscire a fornire uno sguardo di insieme circa il significato antropologico di quel fenomeno, umano e multiforme, che chiamiamo «parlare».

Di contro, la filosofia del linguaggio mainstream si ritrova sull’orlo di una crisi di nervi perché cede volentieri alla tentazione di fare filosofia a partire da una lingua, la propria: stranamente le forme più diverse che il linguaggio assume nella vita umana non collimano con le idiosincrasie del parlante di Oxford o della Stanford University. Tullio De Mauro è stata una figura decisiva del Novecento italiano poiché ha puntato a un profondo rinnovamento teorico proprio a partire dall’incontro tra linguistica e filosofia. Ha lavorato con metodo a smantellare la caricatura che contrapporrebbe il linguista pignolo al filosofo evanescente. Ricerche divenute oramai classiche come la Storia linguistica dell’Italia unita (1963) o il Grande dizionario italiano dell’uso (Utet, 1999-2007) rischiano di mettere in ombra una parte decisiva della sua produzione intellettuale.

Tramite la traduzione (con note di commento teorico e ricostruzioni storico-biografiche tuttora imprescindibili) del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (1967), De Mauro ha offerto agli studiosi di tutto il mondo il profilo di un pensatore decisivo per la riflessione sul linguaggio del Novecento. Il titolo dell’opera non deve ingannare. Si tratta di un testo fondamentale non solo per le scienze del linguaggio. Saussure insiste, infatti, nel far vedere perché le lingue siano dei fenomeni storici.

Negli scritti del Saussure esplorato da De Mauro diventa evidente come le lingue siano per molti versi il cardine delle trasformazioni storiche umane e degli assetti istituzionali. Il tempo delle lingue non è il tempo della deriva dei continenti, né quello delle mutazioni genetiche. È il tempo propriamente umano nel quale reale e possibile si intrecciano in modo inscindibile: nel futuro anteriore di chi pensa a come sarà il mondo dopo averlo ribaltato; nel congiuntivo delle Slinding Doors che animano la vita di ciascuno («se quel giorno fossi tornato prima…»), nel presente storico di chi parla del passato come se quel momento fosse qui e ora. Non importa si parli del ruolo della televisione nella diffusione nazionale di una lingua standard, dei problemi presenti nel Tractatus di Wittgenstein o nel rapporto di somiglianze e differenze tra la comunicazione delle api e il linguaggio umano.

La dimensione storica rimane al centro di una produzione teorica multiforme ma null’affatto sfocata. Senza cedimenti al pensiero debole degli anni Ottanta, questo filosofo-linguista continua a far battere la lingua dove il dente ancora duole. Si provi, oggi, a parlare della storia come categoria decisiva per la filosofia del linguaggio e si farà la fine di un centrifugato di verdure: sbarellati tra riduzionismo evoluzionista (gli umani parlano perché conviene), rigidità del logico (l’italiano è brutta approssimazione di un sistema formale) e le suggestioni post-coloniali di chi si perde nella sfumature dello slang, sempre anglofono, di Baltimora.

Senza concedere nulla al relativismo di chi sostiene che in fondo il significato non esiste e tutto è interpretazione, De Mauro insiste su un punto antropologico fondamentale. Non si pensa e poi si parla; non si sente e poi si cerca di mettere in parole sentimenti poiché la facoltà biologica del linguaggio è la lente focale in grado di dare definizione ai nostri pensieri, alle nostre pulsioni e alle nostre azioni. Se si tiene a mente questo nodo, il lavoro di ricerca teorica e di insegnamento accademico di De Mauro mostra con chiarezza la coesione che lo ha animato. La facoltà è biologica, non c’è dubbio, ma senza storia essa è nulla: ben che vada, può condurre allo sgambettio quadrumane di un piccolo d’uomo allevato dai lupi. Le parole, infatti, non sono il prodotto secondario di pensieri precedenti, ma una forma tipica della cognizione umana: lavorare a vocabolari o lessici di frequenza significa spalancare le porte a veri e propri laboratori viventi. Significa guardare dal vivo il modo nel quale pensa, soffre e desidera un gruppo di parlanti in carne e ossa.

Uno dei testi internazionalmente più noti, Introduzione alla semantica (1965), insiste proprio su questo punto. L’obiettivo è la costruzione di una piccola genealogia del Novecento nella quale individuare alcuni riferimenti decisivi per chi concepisce il linguaggio come forma cardine delle istituzioni e della vita umana: «primato della prassi», queste sono le parole con le quali si conclude un libro che mette in fila il linguista Saussure con i filosofi Benedetto Croce e Ludwig Wittgenstein. Per la medesima ragione, ancora negli anni Novanta, durante i corsi universitari alla Sapienza che De Mauro organizza con alcuni compagni di viaggio della cosiddetta «scuola linguistica romana» era possibile fare gli incontri più diversi.

Dalla lettura sistematica de La diversità delle lingue di Humboldt si passava a un seminario sui sistemi di comunicazione dei delfini. Il giovedì mattina il laboratorio per una scrittura comprensibile e chiara (il contrario della mitologica «scrittura creativa») era seguito dalla lettura delle Ricerche filosofiche, dalla discussione della semiotica di Louis T. Hjelmslev, della linguistica di Antonino Pagliaro o del libro Pensiero e linguaggio del sovietico Lev S. Vygotsky. E non vi era nulla di cui stupirsi.
Internazionale online
L’IMPORTANZA DELLE PAROLE

E DELL'ISTRUZIONE

Un’intervista a Tullio De Mauro, girata nei giorni del festival di Internazionale a Ferrara del 2014.
De Mauro è stato un linguista e docente universitario. Tra le sue opere principali il Grande dizionario italiano dell’uso e la Storia linguistica dell’Italia unita. Il suo dizionario è online sul sito di Internazionale.

Una testimonianza utile, poiché conoscere ciò che è stato aiuta sperare che un altro mondo, così come è stato possibile nel passato, può esistere anche nel futuro (certo diverso da quello che fu) .

Il Fatto quotidiano, 31 dicembre 2016

Il mio giudizio su Enrico Berlinguer è un po’ più tridimensionale di quello in voga. Perché non ha una sola faccia, una sola superficie, non è piatto. Già il fatto che ci sia stato un film-documentario di successo su Berlinguer, quello realizzato da Walter Veltroni, in cui c’è un tratto insincero, ti dice come Berlinguer sia disponibile a essere ‘utilizzato’. In questo film c’è uno spezzone del servizio girato dalla Rai ai suoi funerali. Si vede la grande folla riunita in piazza San Giovanni, ma il regista ha tolto l’audio. Se lo avesse lasciato che cosa si sarebbe sentito? L’Internazionale. Perché Berlinguer è l’ultimo dirigente comunista che faceva suonare l’Internazionale. È importante che ci sia questa colonna sonora. E lì non c’è.

C’è un’altra cosa molto interessante in quel documentario. Mentre parla Nilde Iotti e ringrazia il presidente della Repubblica, si vede Sandro Pertini che non riesce a trattenere le lacrime. Al suo fianco c’è il primo ministro di allora, Bettino Craxi, che non riesce a trattenersi dal ridere. Sono proprio a fianco, le due cariche principali della Repubblica. Uno piange e l’altro ride. E questo dice tutto.

Perché la mia opinione è tridimensionale? Perché io sono un anarchico, non un comunista. Sono un anarchico che, per non mi ricordo più quanti anni, è stato iscritto al Pci ed è andato a prendersi la tessera il giorno dopo aver ascoltato il famoso discorso di Berlinguer in cui diceva che non sarebbe bastato arrivare al 51%. E lo diceva perché Salvador Allende c’era arrivato al 51%, ma non gli era bastato. Pensa un po’: un anarchico che si iscrive al Pci perché è d’accordo sul Compromesso Storico. Una roba grossa! Ma bisogna capire. (…) Immagino abbiate presente che cosa sono stati il 1974, il 1975, il 1976: in quegli anni la democrazia in questo Paese è stata veramente in serio e imminente pericolo. E lo dice un anarchico, ancora una volta. Essendo un anarchico, forse non me ne importava nulla della democrazia? No, me ne importava eccome. (…)

Nel 1974 è arrivata la paura, con il tentativo di colpo di Stato, gli attentati. E poi una cosa terribile: il Movimento che si sfascia. Ero abituato all’idea che tutto fosse precario, ma non che tutto fosse perduto. Mai. (…) In quegli anni la mia compagna e io non vedevamo una contraddizione tra Berlinguer e le nostre idee, che pure erano diverse dalle sue. Quando sono andato a iscrivermi al Pci non sono andato alla Sezione Centro, sono andato alla Sezione Nord di La Spezia, che era quella del quartiere operaio, dove se c’era una cosa che proprio non sopportavano erano quelli come me. Però non mi sopportavano come non si sopporta un figlio. E infatti, appena mi sono iscritto, la prima cosa che mi hanno fatto fare è stata quella di scaricare la roba alla Festa dell’Unità, non mi hanno chiesto di elaborare un pensiero.

La mia iscrizione al Pci era veramente un atto di riconoscimento di una necessità, del bisogno di protezione. Che veniva da Berlinguer. (…) Sapevo e so che diceva la verità, soprattutto che diceva una verità che parlava alla mia fragilità, e che il suo Partito Comunista poteva sembrarmi un posto dove potevo stare. (…) Mi dicevo: devo pagare qualcosa alla realtà, altrimenti la realtà mi sommergerà. Mi dicevo: o mi iscrivo al Pci o mi sposo. Mi sono iscritto al Pci. Berlinguer era la realtà più consona a quella che era stata la mia educazione. Quando ho sentito il discorso del 51%, così poco anarchico, così poco sognatore, ho sentito che era il discorso della verità. (…)
Eppure nell’atto stesso della mia adesione c’era il seme della mia dis-adesione. Nel 1974 a La Spezia ci fu una grande assemblea sul Compromesso Storico. Mille persone, mille compagni del Pci in sala, e io sono in piedi nel corridoio, accanto a Paolino Ranieri, comandante partigiano. Mentre qualcuno parla dal palco sento che Ranieri dice: “Sì, però non l’ha mica discusso nel Comitato Centrale”. Nel momento stesso in cui mi affido a Berlinguer, mi rendo conto che mi affido anche, nella sua stessa logica, a uno che non si affida alla democrazia centralizzata, nemmeno a quella. Per inciso, fece benissimo. (…)

Berlinguer è stato sconfitto dal suo partito, perché forse l’unica possibilità che ancora poteva avere la democrazia incompiuta di questo Paese per compiersi era quella del passaggio generazionale, del raccogliere intorno a sé i figli, che non solo avevi messo al mondo ma che avevi fatto studiare e a cui avevi dato la possibilità di scapicollarsi e di essere questa enorme massa viva in totale abbandono. E invece questo salto il partito non glielo fece fare. (…)

Mi ricordo la fine degli anni Ottanta. Per un breve periodo ho lavorato al Comune di La Spezia e vedevo gli assessori che entravano in ufficio con L’Unità nella tasca della giacca, bella in vista. All’improvviso un giorno non c’è più L’Unita ma Il Sole 24 Ore. Quindi i comunisti si mettono a leggere Il Sole senza capirci nulla, perché non erano preparati, non avevano gli strumenti. (…) E poi ovviamente Craxi. Tra Compromesso Storico e giunte con sindaci socialisti il passo nel baratro è stato spettacolare. Craxi ha distrutto, cancellato quel poco di Berlinguer che ancora c’era. Berlinguer era amato dal suo popolo e non solo. Per me era una questione di sensazione, non di conoscenza. Berlinguer era così: le sue parole erano sempre la sua faccia e il suo esempio.

Garibaldi, dopo che con sessantaquattromila fucili puntati contro ha consegnato al re, a Teano, la più grande conquista militare del XIX secolo, viene immediatamente messo, di fatto, agli arresti domiciliari. Scappa, senza dare nell’occhio, va a Londra. Quando arriva a Londra la città si ferma, il porto si ferma, una folla immensa lo festeggia. La regina Vittoria scrive al suo primo ministro Benjamin Disraeli per chiedergli la ragione di questo trionfo. E lui risponde testuale: “Maestà, Giuseppe Garibaldi è oggi l’individuo più potente del mondo. Perché è ciò che dice, dice ciò che fa, fa ciò che è”. Puoi dirlo anche di Berlinguer. (…)

Mi sono iscritto anche al Pd. Sono andato nella sezione di casa mia, a Genova e l’ho trovata chiusa. Fisso un appuntamento, la segretaria si presenta con un’ora di ritardo. Prendo la tessera, ma non mi arriva mai la comunicazione della convocazione dell’assemblea congressuale, la ragione per cui mi ero iscritto. Chiedo informazioni e mi rispondono che me l’hanno mandata in busta anonima (un tipo di busta che normalmente butto via) “per non mettere in imbarazzo chi la riceve”. La sede è ancora chiusa.

Nel 1982 entrai nell’Arci e per me è stata una nuova possibilità. Conobbi Tom Benetollo, cacciato dal Pci. Anni prima, Berlinguer segretario lo aveva mandato al Congresso Mondiale della Gioventù Comunista a Pechino. Tom andò e lesse in un’aula immensa, attonita e silenziosa il testo di Blowin’ in the Wind, di Bob Dylan. Fu l’unico non applaudito in tutti quei giorni. Di nuovo, Tom assomiglia a Berlinguer e assomiglia a Garibaldi. L’idea è ciò che rende un uomo veramente potente. E noi ci crediamo e non smettiamo mai di crederci.

(Dalla postfazione a “Berlinguer. Vita trascorsa, vita vivente”, di Simone Siliani e Susanna Cressati, Maschietto editore, Firenze 2016)

Corriere della Sera, 8 dicembre 2016 (p.d.)

Il testo pubblicato in questa pagina è una sintesi della lectio che Luciano Canfora terrà a Milano il 12 dicembre, nell’ambito del convegno internazionale «Leggere in Europa (XVIII-XXI secolo)». L’incontro, che proseguirà anche il giorno 13, si svolgerà presso la Sala Napoleonica di via Sant’Antonio 12: lo organizza il Centro Apice dell’Università Statale, diretto da Lodovica Braida, che raccoglie e valorizza archivi di editori e autori (www.apice.unimi.it).

«Vorrei avere questi libri: 1° la Grammatica tedesca che era nello scaffale accanto all’ingresso; 2° il Breviario di linguistica di Bertoni e Bartoli che era nell’armadio di fronte al letto; 3° gratissimo le sarei se mi inviasse una Divina Commedia di pochi soldi, perché il mio testo lo avevo imprestato».

È Antonio Gramsci che scrive a Chiara Passarge, sua padrona di casa a Roma (via G.B. Morgagni 25), pochi giorni dopo l’arresto, avvenuto a Roma l’8 novembre 1926. In quel momento, sul fondamento dell’assoluta illegittimità del suo arresto, Gramsci è portato a pensare che resterà in carcere solo per breve tempo. Scrive infatti, poco oltre nella stessa lettera: «Se la mia permanenza in questo soggiorno durasse a lungo, credo ella debba ritenere libera la stanza e disporne». Anche sua cognata Tania Schucht era convinta che l’inverosimile arresto fosse di breve durata: e così scrisse in famiglia a Mosca. La lettera in cui essa così si esprime è stata pubblicata in anni recenti.

La lettera di Gramsci alla Passarge non giunse mai a destinazione perché sequestrata dalla polizia. Perciò quei tre libri non poté averli. Dopo vicende che sono ormai ben note (confino ad Ustica, nuovo arresto e trasferimento «ordinario» a San Vittore a Milano, «processone» durante il quale Gramsci è a Regina Coeli, condanna a 20 anni di carcere nel giugno 1928, trasferimento definitivo a Turi di Bari), Gramsci poté, non senza incontrare resistenze politico-burocratiche, domandare penna, calamaio, e libri di studio. A parte la disponibilità dei libri - spesso inutili o bizzarri - della biblioteca delle varie carceri in cui fu ristretto. Fu una vera e propria lotta, nel corso della quale Gramsci non esitò a scrivere direttamente al «capo del governo», cioè a Mussolini, lettere argomentate e vigorose per difendere il diritto alla lettura. Una battaglia alla quale dobbiamo la nascita dei Quaderni del carcere.

In una lettera alla moglie del 2 maggio 1927 (dal 9 febbraio era ristretto a San Vittore e in marzo delinea un programma di studio, il celebre für ewig) scrive di aver letto «ottantadue libri» della bizzarra biblioteca carceraria e di avere con sé «una certa quantità di libri miei, un po’ più omogenei, che leggo con più attenzione e metodo. Inoltre leggo cinque giornali al giorno e qualche rivista». Ancora: «Studio il tedesco e il russo e imparo a memoria, nel testo, una novella di Puškin, la Signorina-contadina». Ma - commenta - «mi sono accorto che, proprio al contrario di quanto avevo sempre pensato, in carcere si studia male, per tante ragioni, tecniche e psicologiche».

Le liste dei libri, opuscoli, riviste, di cui Gramsci poté via via disporre negli anni di detenzione (dalla condanna definitiva del giugno 1928 al trasferimento in clinica a Formia il 7 dicembre 1933; dall’ottobre 1934 egli è in libertà «condizionale») sono state pubblicate, dapprima in un bel saggio di Giuseppe Carbone (sulla rivista «Movimento operaio», luglio-agosto 1952) e poi in appendice al IV volume dell’edizione paleografica dei Quaderni del carcere a cura di Valentino Gerratana (Einaudi, 1975). Celebri sono gli episodi del settembre 1930 e dell’ottobre 1931, quando, da Turi, Gramsci scrive reiteratamente a Mussolini e non solo critica le limitazioni arbitrarie alla lettura, ma chiede - e ottiene - un’ampia serie di volumi, che vanno - nel 1930 - dal Satyricon di Petronio al volume di Fülop-Müller sul bolscevismo all’Autobiografia di Trotskij, e - nel 1931 - da «Critica fascista» a «Civiltà cattolica», da «Labour Monthly» alla «Nouvelle Revue Française», dalle opere complete di Marx ed Engels (edizione francese) alle Lettere di Marx a Kugelmann con prefazione di Lenin. Opere che tutte si ritrovano sia nella lista ricostruita da Carbone (p. 669) che in quella di Gerratana (pp. 3.062-3.063).

Gramsci era dotato di una notevolissima memoria, ed è istruttivo osservare come la esercitasse per esempio mandando a mente novelle di Puškin. (i pedagogisti del nostro tempo inorridiscano pure nella loro infantile ostilità allo sforzo mnemonico). Ma è evidente che solo l’accesso ad una così grande quantità di libri e riviste (ne abbiamo citato solo una minima parte) poté render possibile il grande lavoro dei Quaderni, le cui pagine partono molto spesso da uno spunto di lettura. Che si possa lavorare scientificamente in assenza di libri e fondandosi unicamente su ciò che si ha ancora in mente è un mito. È leggenda, ad esempio, che Diderot, incarcerato nel castello di Vincennes, abbia tradotto la platonica Apologia di Socrate perché ne ricordava a memoria il testo. Del resto, lo stesso Diderot scrivendo, anni dopo (1762) a Sophie Volland, dirà: «Avevo con me il mio Platone tascabile».

Il più grande intellettuale del IX secolo, il patriarca Fozio, pur ristretto in cattività perché deposto e condannato su impulso dell’imperatore Basilio I in quel momento incline a dare un’offa al papa di Roma, non si arrende e denuncia, scrivendo all’imperatore, la confisca dei libri che lui e la sua cerchia leggevano e sistematicamente chiosavano. La sua lettera all’imperatore ci è giunta e si può considerare un remoto antecedente delle lettere del detenuto Gramsci a Mussolini. Anche Basilio dovette accondiscendere, almeno in parte, alla richiesta del grande detenuto. E dalla restituzione a lui di una parte almeno dei materiali che la «cerchia» aveva prodotto nacque il più importante, ancorché labirintico al pari dei Quaderni gramsciani, libro del Medioevo greco: la cosiddetta Biblioteca di Fozio.

. Articoli di Simonetta Fiori, Chiara Saraceno, Luciana Castellina da La Repubblica e il manifesto 2 novembre 2016 (c.m.c.)

La Repubblica
TINA ANSELMI
di Simonetta Fiori

«Dalla Resistenza alla militanza nella Democrazia cristiana, nelle cui file fu deputata dal ‘68 al ‘92. Con l’ex presidente della commissione P2 scompare un simbolo della Repubblica, che respinse i tentativi di insabbiare la verità sui poteri deviati nello Stato.»

La chiamavano la Tina Vagante, alludendo alla sua integrità esplosiva rispetto al gioco del potere. Da anni era chiusa nel silenzio dei giusti, il Parkinson e poi un ictus ne avevano consumato le energie intellettive. Ma in fondo parla per lei la sua morte, capitata per curioso destino in un duplice anniversario che ne puntella la biografia politica: il settantesimo del voto femminile e il quarantesimo d’un ministero assegnato per la prima volta a una donna. Quella ministra era lei, Tina Anselmi, una vita da primato vissuta con l’umiltà dei semplici.

A scorrere i quasi novant’anni di vita – era nata a Castelfranco Veneto il 25 marzo del 1927 – ci si imbatte solo in una sequenza di primati, come rileva anche il bel ritratto apparso in un volume del Mulino, Donne della Repubblica.

Tutte le cose migliori della storia repubblicana portano la firma dell’Anselmi. Ma la Tina, come la chiamano dalle sue parti, era antropologicamente immune da qualsiasi vanità. Sorridente, faccia larga, la femminilità trattenuta, concretezza contadina, il rigore morale di chi sceglie di stare dalla parte dei più deboli. Per istinto naturale prima ancora che per coscienza politica. Divenne staffetta partigiana a 16 anni dopo aver assistito all’impiccagione del fratello d’una sua amica ad opera dei nazifascisti. Dopo pochi giorni, con il nome in codice di Gabriella, si lancia in sella a una bicicletta per portare notizie ai resistenti. Ma il carattere della Tina si rivela il giorno della Liberazione, quando nel buio della piazza punta la pistola sulle spalle di un uomo scambiato per un repubblichino: era suo padre, uscito per cercarla nelle ore del coprifuoco. Ne avrebbero riso per il resto della vita.

Tina la tosta. Tina che non si spaventa davanti a niente, specie se si tratta di difendere le altre donne. È iscritta a Lettere – alla Cattolica di Milano – quando comincia la militanza sindacale al fianco delle filandiere e più tardi delle maestre elementari. Poca teoria e molta pratica: per cominciare le bastò guardare le dita lessate delle operaie. Agli amici socialisti del padre preferisce i suoi compagni partigiani cattolici, e le sue stelle polari se le andrà a cercare dentro la Democrazia Cristiana, tra De Gasperi e Dossetti, Moro e Zaccagnini.

Agli anni della guerra risale anche il suo grande amore, l’unico, morto precocemente a causa di una malattia. Ma la Tina preferiva non parlarne, sempre riservata sulla sua solitudine sentimentale. «No, non ho scelto io, ma è la vita che ha scelto per me», rispondeva alla biografa Anna Vinci. «Ha scelto la politica». Nel 1946 non può ancora votare, ma si dà da fare tra le contadine venete perché capiscano l’importanza delle urne. Negli anni Cinquanta la ritroviamo accanto alla socialista Lina Merlin contro le case di tolleranza: la difesa delle prostitute le avrebbe attirato molte critiche. Ma è solo l’inizio, agli attacchi e anche alle bombe si dovrà abituare col tempo.

In fondo è il destino di chi cambia la storia, o di chi ci prova e in parte ci riesce. Da ministra del Lavoro vara la legge di “parità di trattamento tra uomini e donne”: una vera rivoluzione per quei tempi, anche se è rimasta incompiuta. Nel 1978, da titolare del dicastero della Sanità, partecipa all’istituzione del Servizio sanitario nazionale, una conquista che oggi viene studiata dagli storici per spiegare il primato italiano di longevità. Sempre in quell’anno dà prova del suo senso delle istituzioni al di là di qualsiasi fede religiosa: pur avendo votato in Parlamento contro l’interruzione di gravidanza, in veste di ministra firma la legge sull’aborto, resistendo alle fortissime pressioni vaticane.

Non può piacere a tutti, Tina Anselmi. Troppo integra, e anche troppo attiva. Nel 1980 sfugge a una bomba - forse di mano neofascista - che fortunatamente non esplode. Solo a una donna del suo temperamento può essere assegnata nel 1981 la guida della commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2. Prima di accettare, si consulta con il suo amico Leopoldo Elia. Un lavoro straordinario – 198 persone ascoltate, centinaia di migliaia di carte – per far luce sul sistema occulto che condiziona la vita nazionale.

Il dossier conclusivo è una meticolosa controstoria d’Italia che denuncia gli intrecci fangosi tra politica, apparati militari, servizi segreti, finanza, perfino il Vaticano. «Non è che l’inizio», ammonisce l’Anselmi, che invita ad approfondire il marcio rivelato dalla loggia massonica. Esortazione lasciata clamorosamente cadere. Contro la Tina piovvero le accuse di ossessiva visionarietà, ma a farle più male furono quelle della sua stessa parte politica. «Io credo che sia ammalata dopo questa storia», confessa la sorella Maria Teresa a Eliana Di Caro ed Elena Doni, autrici del saggio del Mulino.

Il lavoro sulla P2 non le sarà perdonato. È sotto il governo Berlusconi che, nel 2004, viene promosso su iniziativa della Prestigiacomo un dizionario delle donne italiane. La voce “Tina Anselmi” è un’infilata di cattiverie, «improbabile guerriera», «furbizia contadina», anticipatrice della «futura demonologia politica, distruttiva e futile». Un attacco quanto mai ingiusto e sconsiderato.

Quando esce dalla scena politica, dopo essere stata proposta senza successo per il Quirinale, ritorna nella sua Castelfranco. Può contare su una famiglia affettuosa, tra molti nipoti e due sorelle che l’hanno seguita fino agli ultimi giorni, regalandole il meritato dono di morire in casa. Le amiche come la Vinci - curatrice dei suoi diari segreti sulla P2 - la ricordano ironica, mai scioccamente nostalgica («non è vero che eravamo meglio noi»), insofferente alle contorsioni della politica («ma chi l’ha detto che una persona semplice non sia un buon politico?»), allergica ai narcisismi e all’autoreferenzialità. Diceva sempre noi, la Tina, mai io. E anche ora, composta con una semplice veste blu, appare ieratica ed essenziale, come di chi s’accomiata sapendo di aver fatto la sua parte.

La Repubblica
L’INTEGRITÀ SCOMODA
DI TINA ANSELMI

di Chiara Saraceno

«L’emarginazione dalla politica è poi diventata un lungo oblio. Per molti, troppi anni, ci si è dimenticati di lei“ La Commissione sulla P2 le costò l’isolamento e l’ostracismo da parte del suo partito per l’inflessibilità con cui la condusse»

Ora che Tina Anselmi è morta tutti si ricordano di lei e ne esaltano la figura politica ed umana, il ruolo importante che ha avuto nella costruzione della democrazia italiana fin dalla sua origine, con la Resistenza, e successivamente con il lavoro nel sindacato e poi, da politica e ministra, con il sostegno attivo alla parità tra le donne e gli uomini, al diritto alla salute tramite l’istituzione del servizio sanitario nazionale. E, ancora, come presidente della Commissione di indagine sulla P2, che le costò l’isolamento e poi l’ostracismo da parte del suo partito per l’inflessibile integrità con cui la condusse e la tenacia con cui continuò a chiedere che se ne traessero le conseguenze sul piano giudiziario e politico. Quell’ostracismo che prima la fece emarginare dalla politica e poi è diventato un lungo oblio.

Per molti, troppi anni ci si è dimenticati di lei, ben prima che la malattia la costringesse a chiudere i suoi ponti con il mondo. È vero che ad ogni elezione presidenziale, a partire dal 1992, qualche gruppo della società civile ha fatto il suo nome come possibile candidata. Ma è sempre rimasta una cosa puramente simbolica, senza alcuna eco, e tanto meno sostegno, non solo nei partiti, a partire dal suo e dai suoi colleghi di un tempo tuttora ben insediati nei gangli del potere, ma anche nei giornali e nei media e in parte anche nel movimento delle donne.

Non veniva neppure nominata quando si evocava ritualmente quel gruppo di persone che si amava definire “riserva della nazione” — tutti rigorosamente del sesso “giusto”, anche se non tutti avevano e hanno un curriculum umano e politico dello suo spessore. Non l’hanno fatta neppure senatrice a vita, cosa che io, che non sono mai stata democristiana, trovo personalmente non solo una ingiustizia, ma uno scandalo nei confronti di una persona alla quale la democrazia italiana è molto debitrice e che avrebbe più che meritato di occupare un ruolo designato per chi ha “illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”.

Non l’avrà illustrato in campo scientifico, artistico o letterario, ma sociale sicuramente sì. Non ci hanno pensato né Ciampi né Napolitano, i due presidenti che avrebbero potuto farlo e dai quali ci si sarebbe aspettati la sensibilità necessaria per deciderlo. Rimane il sospetto che non lo abbiano fatto perché era non solo una donna, caratteristica che nel nostro Paese continua ad essere una debolezza quando si tratta di trovare figure rappresentative, ma perché la sua storia politica, proprio per le sue caratteristiche di autonomia e integrità, la rendeva scomoda. Meglio lasciarla nell’oblio.

La sua rimozione dalla narrazione pubblica è talmente riuscita che, quando Elsa Fornero venne designata ministra del Lavoro nel governo Monti, molti, anche nei media, parlarono di prima donna a capo di quel dicastero, dimenticando che c’era stata, molti anni prima, appunto Anselmi, in un periodo altrettanto difficile e quando non era affatto scontato per una donna trattare da pari a pari con i colleghi di governo, con i rappresentanti sindacali e delle imprese.

La riparazione, parziale, a questo lungo oblio è avvenuta solo pochi mesi fa, quando le è stato dedicato un francobollo. Chissà che cosa avrebbe detto, quando era ancora lucida e piena di ironia, di questa monumentalizzazione ex post e quando ormai era fuori gioco, lei che ancora pochi anni fa aveva ammonito: «Lo ripeto sempre, a cominciare dalle mie nipotine, che nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere.

Negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta noi donne impegnate in politica e nei movimenti femminili e femministi, noi parlamentari con responsabilità nei partiti e nel governo eravamo ancora pioniere. Questa parola fa pensare che in seguito saremmo diventate più numerose e avremmo contato di più. Purtroppo, certe speranze sembrano non aver dato i frutti che avevano in serbo».

Aggiungo che per lei «contare di più» non significava solo “esserci”, ma lavorare per migliorare la qualità sia della vita delle persone sia della democrazia.

il manifesto
UN'AMICA E UN COMPAGNA
di Luciana Castellina

Un’epoca in cui l’organizzazione giovanile democristiana era fortemente influenzata dalla sua corrente di sinistra e fra noi giovani comunisti e loro ci si annusava sospettosi ma anche interessati. Ho ancora fra le foto che conservo in un pannello sulla mia scrivania quella di una cena – a Trento – in occasione del loro congresso cui io avevo assistito come «ospite» per conto della nostra federazione.

Siamo ambedue giovanissime, Tina solo due anni più di me, abbastanza per aver partecipato in prima persona alla Resistenza nel suo trevigiano, con il nome di battaglia Gabriella. Entrò nelle sue file – mi raccontò – dopo aver assistito all’ assassinio di 31 partigiani. Diventammo quasi amiche, io credo che ci siamo sentite in qualche modo «compagne», se a questa parola si dà il significato dovuto e che tutt’ora io le do: non la comune appartenenza ad una organizzazione, ma a un comune sentire. Perché così è stato con Tina.

Un giorno la invitai a pranzo a casa e la presentai a mia figlia che aveva pochissimi anni. Quando le dissi che era democristiana Lucrezia mi guardò inorridita: dei democristiani lei aveva sempre sentito dire il peggio e non capiva come fosse possibile che una di loro mettesse piede a casa nostra e conversasse con me come una persona normale. Io e Tina, dello sguardo scandalizzato e perplesso di mia figlia ridemmo di cuore, Lucrezia rimase invece a lungo diffidente.

Poi lei diventò deputata, mentre io rimasi a lungo militante delle organizzazioni povere della sinistra: la Fgci, l’Udi, poi il manifesto. La cosa aveva riflessi ferroviari: la incontravo spesso, nel mio girovagare, alla stazione di Padova e lei mi diceva: «Vien, vien, che tiro zo un leto». E così venivo ospitata nel suo vagon-lit , evitando lo scomodissimo sedile dello scompartimento cui il mio biglietto mi destinava.

Non voglio dire qui che tutti i dc erano come Tina. Purtroppo no. Lei è stata una persona davvero speciale, ma che aveva comunque un tratto analogo a quello di un settore di quel maledetto partito che tanto abbiamo – e giustamente – combattuto. Una sua ala popolare e in qualche modo anticapitalista. No, non ho certo nostalgia della Dc, né del compromesso storico, che purtroppo fu un’intesa con ben altra Dc. (Ma forse anche voi lettori vi ricorderete che Luigi Pintor per molti anni metteva sempre un postscriptum ai suoi editoriali, per dire, sconsolato: «Moriremo democristiani». All’ultimo, ricordo, aveva aggiunto: «Magari»).

Anche se i miei ricordi personali di Tina sono precedenti al suo ingresso nei governi Andreotti, vorrei aggiungere che sono stata molto contenta quando è diventata ministro. Come capo del dicastero della sanità, Tina contribuì infatti non poco a dare esito positivo alla lunga lotta per l’istituzione in Italia del Servizio sanitario nazionale. Se posso aggiungere una considerazione che si riferisce ad una questione politica calda, il referendum costituzionale (cosa che di solito non si fa nel contesto di una commemorazione funebre) vorrei aggiungere che quella vittoria popolare, fu possibile, come altre in quegli anni – statuto dei lavoratori, divorzio, aborto, ecc. – perché c’erano spazi per l’espressione dei conflitti e canali affinché trovassero riflesso nelle istituzioni.

La forza dell’opposizione sociale, accompagnata alla presenza di una forte minoranza in parlamento a quella strettamente legata ai movimenti di lotta, consentì quella dialettica democratica che sfociò in compromessi anche molto avanzati (e che non a caso oggi siamo qui a difendere coi denti). Alla democrazia – e dunque alla società – non serve un esecutivo reso efficiente dall’assenza di intralci – ma un conflitto tanto forte da imporre un dialogo. Certo il dialogo con Tina è stato altra cosa che quello con Andreotti. Ma lei era una «compagna».

La
Alberto Menichelli, che farà 88 anni a dicembre, s’interrompe e si rivolge alla figlia Laura: “La fiaschetta l’ho conservata da qualche parte”. Non aspetta la risposta. Si alza, si dirige verso un mobile del soggiorno e lo apre. “Eccola qua”. Una fiaschetta per liquori, rivestita di unUn'itervivita all'autista colore argento e dal collo nero, consumato. “Pensa un po’, è ancora piena”. Whisky. Una fiaschetta che è una reliquia. Ci beveva Enrico Berlinguer. Un sorso prima di ogni comizio. “Quando vedeva quelle folle sterminate, Berlinguer aveva una stretta allo stomaco. Fu il suo medico, Ciccio Ingrao, a consigliargli questo rimedio. Io la riempivo, ma allungavo il whisky con l’acqua. Pensa un po’, è ancora piena. Senti che odore”.

La nostalgia per Enrico Berlinguer è come l’odore che proviene da questa antica fiaschetta dal collo morsicato. È un profumo forte, che si sente ancora. Menichelli ha vissuto tre lustri con Berlinguer. Molto più di un autista. Fu il suo angelo custode dal 1969 al 1984, l’anno della morte del compagno segretario del grande Partito comunista italiano. Menichelli faceva parte della Vigilanza del Partito, tutto con la maiuscola e fu assegnato a Berlinguer quando questi era stato da poco scelto come vicesegretario e successore di Luigi Longo, al posto del favorito Giorgio Napolitano. Era il 1969. Romano di borgata, Menichelli era arrivato alla Direzione, nel mitico Bottegone, nel 1964. La sua sezione Pci, quella di Villaggio Breda, fece una lettera di presentazione. In una riunione del comitato direttivo era stata esaminata “la biografia del compagno Menichelli Alberto” e l’esito fu positivo: “Il comitato direttivo dà parere favorevole, considerandolo un compagno serio, onesto (identico giudizio si dà sulla famiglia)”. Più di mezzo secolo dopo, Menichelli presiede l’associazione culturale intitolata a Berlinguer nel suo quartiere romano, a Cinecittà.

Quanti iscritti avete?
Trecento. L’altro giorno abbiamo chiuso la mostra.

Ovviamente dedicata a Berlinguer.
È un’iniziativa partita nel 1990 a Pescara, adesso va a Latina. Tantissimi sono venuti a vederla in sezione.

Sezione?
Circolo, mi scusi, sono abituato a chiamarla sezione. Sono anche presidente del comitato del No e leggo il Fatto perché siete rimasti voi a difendere la sinistra e i lavoratori.

La passione per Berlinguer è senza partito, ormai.
Alla mostra, mi ha colpito la presenza di molti giovani. È un dato incredibile se pensa che Berlinguer è morto 34 anni fa, quando loro non erano ancora nati.

Il suo impatto con lui come fu?
Ero teso, Berlinguer non voleva l’autista, fu costretto dal Partito, nel ’69 c’era stata la strage di piazza Fontana, cominciava un periodo di grandi paure. A lui piaceva guidare. Aveva una Fiat 1100. Era pignolo, quando arrivava a Botteghe Oscure parcheggiava da solo e saliva su.

Allora lei gli portò via un piacere quotidiano.
La prima settimana fu di silenzio totale. Solo “buongiorno” e “buonasera”. Ero timido, lui riservato.

La giornata tipo?
Al mattino ritiravo la mazzetta dei giornali e alle 7 e 30 ero da lui. Lo trovavo in pigiama, preparava la colazione per la famiglia. All’epoca abitavano ancora in viale Tiziano.

Una volta, Forattini fece una perfida vignetta con Berlinguer in pigiama.
Sì, la ricordo. Con questa storia del pigiama c’era un fotografo che mi perseguitava.

Immagino.
Voleva rifilarmi una macchinetta speciale per fotografare Berlinguer in pigiama. Diceva: “Famo un sacco di soldi”.

Prima dei soldi, c’era la lealtà verso il Partito.
Quello che diceva il Partito non si discuteva. Per me era un onore accompagnare Berlinguer, era l’uomo che rappresentava noi comunisti italiani.

Il rito dei quotidiani come si svolgeva?
A questo punto, Menichelli declama l’ordine di lettura dei quotidiani come se fosse una formazione di calcio). Leggeva Unità e Paese Sera. Poi Messaggero, Popolo e Tempo; Avanti!, Avvenire e Secolo d’Italia; Corriere della Sera, Stampa, Giorno e Umanità. Aveva anche due giornali francesi: Le Monde e L’Humanité. Nel frattempo accompagnavo Marco e Maria a scuola (due dei quattro figli di Letizia ed Enrico Berlinguer, ndr) e quando tornavo alle nove lo accompagnavo alla Direzione.

I vostri discorsi in auto fecero progressi?
Dopo due mesi avevamo preso confidenza. Berlinguer era una persona schiva ma non triste come è stato detto. Era essenziale e di un’onestà esemplare. Una mattina cominciammo a cercare i cartelli con su scritto “Affittasi”. Doveva lasciare la casa di viale Tiziano e cercava un nuovo appartamento.

Berlinguer cerca casa.
Andai da Cossutta, che all’epoca guidava l’Organizzazione. Era il 1974. Gli posi il problema così: “Vi sembra normale che il segretario del Partito (Berlinguer divenne segretario nel 1972, ndr) debba cercare casa da solo?”

E Cossutta?
Mi rispose: “Mica lo sapevo”. “Ecco adesso lo sai”, gli ribattei. Attivò il compagno dell’Economato. Prima gli proposero una villetta alla Camilluccia, ma lui rifiutò: voleva un appartamento più modesto. E così venne fuori la casa di via Ronciglione 12. A una condizione però.

Quale?

Doveva pagare lui l’affitto, non il Partito, altrimenti avremmo continuato a cercare noi i cartelli “Affittasi”. Così ogni mese io portavo una busta coi soldi a Botteghe Oscure.

In tempi di Casta, lei ha descritto una scena lunare.
Berlinguer era questo. Se non eravamo fuori Roma, cenava sempre a casa. Ogni sera, prima di ritirarci, comprava un litro di latte. Un giorno glielo chiesi: “Perché prendi il latte?”.

Cosa rispose?

Mi disse: “Mi premunisco, a quest’ora il frigo è quasi sempre vuoto”.

Il frigo vuoto!
Pagava il latte coi soldi sempre ciancicati, perciò gli regalai un portamonete. Una volta lo trovai seduto per terra nel salone. Attorno a lui tanti libri. Gli dissi: “Ma che stai combinando?”. Lui brusco: “Stai zitto che non mi ricordo più in quale libro ho nascosto 50 mila lire”.

Un materialista poco attento alle cose materiali.
Completamente disinteressato. Un giorno dovevamo andare a Torino. C’era uno sciopero aereo e fummo costretti a prendere il treno. Peraltro io avevo paura di volare. Berlinguer mi prendeva in giro: “Hai messo il paracadute?”. Quel giorno avevamo preso uno scompartimento, eravamo alla stazione Termini di Roma e io aspettavo sul binario il resto della scorta. All’improvviso vedo un poliziotto venire verso di me. “Che c’è?”, gli faccio. Lui mi risponde: “Il segretario ha due scarpe diverse”. Così salgo sul treno e vado da lui. Mi guarda e io: “Le scarpe sono spaiate”. Lui portava sempre i mocassini.

Partiste?

Crto. Chiuse la questione a modo suo: “Non sono tanto diverse, nessuno se ne accorgerà”. Un’altra volta perse il cappotto. Era un paltò verde talmente consumato che le asole erano diventate buchi. Lo dimenticò alla Camera per la fretta di tornare a Botteghe Oscure. Pensai: “Meno male, così ne prende uno nuovo”.

Invece lo ritrovò.
Esatto. Per dirle che persona era. Non gliene importava nulla. Anna (Azzolini, la storica segretaria di Berlinguer, ndr) mi raccontò che un famoso stilista dell’epoca, Litrico, aveva mandato una lettera. Voleva vestire gratis il segretario. Berlinguer rifiutò senza pensarci.

Nonostante tutto, piaceva molto. Anche alle donne.
Reichlin lo invidiava: “Le donne vengono sempre da te”. Ma lui era timidissimo. Ricordo che ad Avezzano fece una conferenza stampa in piazza. In prima fila c’era una signora matura, molto piacente. La rividi a Roma, a un comizio. Lo dissi a Tatò: “Quella signora era anche ad Avezzano”. Decisi di avvicinarla. Era un’americana, affascinata dal personaggio di Berlinguer.

Riferì al segretario?
Sì e gli dissi: “La prossima volta te la presento”.

Accettò?
Per niente. Mi fulminò: “Aho che porti!?!”.

Un monaco.
Per nulla triste, ripeto. Scherzava spesso e si preoccupava sempre per noi della Vigilanza. Abbiamo festeggiato tante volte Natale e Capodanno insieme, con le nostre famiglie, alle Frattocchie (la zona dei Castelli Romani dove il Pci aveva la sua “scuola”, ndr). Poi c’è l’episodio di Parigi.

Racconti.
Eravamo all’aeroporto De Gaulle, per tornare in Italia, e mi fa: “Vogliamo portare un regalino alle nostre mogli?”. Così entriamo in un negozio di profumi. La commessa ci indica una boccetta e ci spiega che è molto richiesta dalle signore italiane. Diciamo che va bene e andiamo alla cassa. Ci prese un colpo: costava 18 mila lire, un quarto del mio stipendio di allora, ma nessuno dei due disse nulla, per il timore di apparire provinciali. Pagammo e zitti.

I viaggi lunghi in auto come si svolgevano?
Lui si sedeva avanti. Gli avevo predisposto un tavolinetto per lavorare. Non staccava mai, si preparava tutto e scriveva a mano. Non parlava a braccio, non improvvisava come oggi Renzi. Quando poi doveva fare relazioni o discorsi di una certa importanza si rifugiava dalla zia Ines a Grottaferrata. Gli articoli per Rinascita sul compromesso storico li scrisse lì, dalla zia Ines, che per lui era come una mamma.

Il 1976 è l’anno decisivo.
Fu l’anno in cui aumentò la scorta a Berlinguer. Per le Br era un obiettivo e cominciammo a girare con due auto qui a Roma. Io ero sempre con lui, insieme con Lauro Righi. Davanti, nell’altra auto, c’erano Dante Franceschini e Pietro Alessandrelli. Ogni volta un percorso diverso. A causa dei terroristi cambiammo anche il lattaio. I terroristi avevano studiato la zona vicino a casa sua e così iniziò a prendere il latte da Vezio (leggendario bar comunista, a Botteghe Oscure, ndr).

Che auto era?
Un’Alfa 2000 blindatissima. La scorta di Moro ce la invidiava.

Già.
Berlinguer e Moro fecero due incontri segreti, sempre a casa del segretario del leader democristiano. Il secondo finì alle quattro di mattina. Vedemmo la lucina accendersi sopra il portone e ci preparammo. Era Moro che scendeva. Uscì e s’infilò per sbaglio nella nostra auto.

Un tragico lapsus preveggente.
Nelle lunghe ore di attesa, conobbi il maresciallo Leonardi, il capo della scorta di Moro. Volle vedere le nostre auto dall’interno e mi confidò che gli rinviavano sempre la richiesta di un’auto blindata. Io e i miei colleghi maturammo una convinzione.

Quale?
Se lo portavamo noi, Moro, non succedeva nulla. Con le nostre due auto, le Br non avrebbero mai potuto fare l’azione di via Fani.

Invece finì con la Renault rossa in via Caetani, tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, sede della Dc.
Il giorno del ritrovamento, Berlinguer mi chiama e mi dice: “Dall’Unità dicono che bisogna cercare un’auto rossa qui vicino”. Io vado da Vezio al bar e lui mi manda da un suo amico al primo piano. Saliamo e mi affaccio. Ero al telefono con Berlinguer per descrivergli tutto. E quando vedo la polizia aprire lo sportellone della Renault, lui attacca senza dire più nulla. Aveva già capito. Da quel momento cambiò per sempre. Nemmeno nel 1970, quando dormivo spesso a casa sua per la paura di un colpo di Stato, l’avevo visto così.

Inizia il cosiddetto “ultimo Berlinguer”.
Gli sentii pure dire che era assurdo che il segretario del Pci fosse a vita, che bisognasse aspettare la sua morte.

Una profezia su se stesso.
Quel giorno a Padova mi fece anche uno scherzo.

Stava bene.
Benissimo. Eravamo pronti per andare al comizio ma lui non scendeva dalla camera d’albergo. Vado su e non lo trovo. Ritorno giù, trafelato, e lo vedo spuntare nella hall, che rientra da una passeggiata. Mi dice: “Stavolta t’ho buggerato”.

Dopo l’interruzione del comizio, rientraste persino in albergo.
Sul palco, gli misi l’impermeabile sulle spalle e lui mi sussurrò di prendere i suoi appunti. In albergo era già in coma.

Trentaquattro anni fa.

Il mio Partito morì allora.

il manifesto e Corriere della Sera, 14 ottobre 2016 (m.p.r.)

Il manifesto

IO NON SONO UN MODERATO!
di Dario Fo

Il manifesto scritto da Dario Fo nel 2006 per presentare la sua candidatura a sindaco di Milano

Se cercate un moderato state attenti a votare per me,
perché con me si rischia!
Ma veramente volete un sindaco moderato?
Il moderato è forte con i deboli e debole con i forti.
Il moderato finge di risolvere i problemi senza
affrontarli!
Il moderato chiude un occhio sulle speculazioni edilizie.
Il moderato caccia gli inquilini dalle case in centro
e poi le rivende ai magnati della speculazione.
Il moderato trasforma in ghetto la periferia.
Il moderato accetta una scuola per ricchi e una per i
poveri.
Il moderato lascia intristire la città, e applaude ai
grattacieli.
Il moderato teme di dispiacere ai cittadini che contano
E non concede la parola a quelli che non hanno voce.
Il moderato non cambierà mai nulla.
Il moderato non risolverà il problema dell’inquinamento
di Milano, non salverà i polmoni da settantenni dei
bambini di 5 anni.
Il moderato non vi libererà dal traffico, dal milione
di automobili spernacchianti che hanno trasformato la
città in una camera a gas.
Oggi sembra che non essere moderati sia un difetto o un
delitto; oppure che sia un privilegio dei giovani.
Ma ci vogliono tanti anni… per diventare veramente
giovani!
Milano, se la mi musica è troppo forte, allora vuol dire
che stai diventando troppo vecchia.
Nessun moderato ha mai fatto la storia,
e nessun moderato ha mai preso un Nobel.
Io non sono un moderato!
Sarò un sindaco che rischia.
Perché credo che il rischio del cambiamento sia l’unica
risposta corretta per chi investe il suo voto in un
progetto per Milano.
Se scegliete di votare per me, rischiate molto… rischiate persino di trovarvi finalmente a vivere in una
città migliore!
Coraggio Milano!


Corriere della Sera
LA SINISTRA ANARCHICA, IL PCI, GRILLO

LA POLITICA DI FO, PASSIONE ESTREMA
di Marco Imarisio

«Alle fine dell’ultima Guerra mondiale, nel giorno della Liberazione, ci fu una festa come questa. C’era tanta gente come voi, felici, pieni di gioia. Credevano che si sarebbe rovesciato tutto, ma noi non ci siamo riusciti. Fatelo voi, per favore».

Era il tardo pomeriggio del 19 febbraio 2013, piazza del Duomo era piena che non ci stava neanche uno spillo. Quel comizio, e quella folla, furono il segnale di ciò che sarebbe accaduto alle elezioni politiche. Dario Fo aveva già manifestato la sua simpatia per il movimento creato dall’amico Beppe Grillo. «Ci conosciamo da quarant’anni» ripetevano entrambi, anche se nessuno dei due ricordava l’anno esatto del primo incontro. «In fondo siamo due giullari, fatti per capirsi» ripeteva spesso il Premio Nobel.

L’enfasi di quel discorso fatto dal palco a ridosso della statua di Vittorio Emanuele II non fu dettata solo dall’entusiasmo del momento. L’estremismo declinato come completo abbandono alla causa sposata di volta in volta è sempre stato la cifra del suo impegno politico. Nell’ideologia di Fo c’erano ingredienti diversi e spesso non amalgamabili tra loro.

Anticlericalismo e antiautoritarismo, democrazia diretta, anarchismo, maoismo. Un rapporto di amore e odio con il Pci, più il secondo del primo. Si spese molto, con studenti, operai, movimenti extraparlamentari. Sbagliò altrettanto, a cominciare dalla campagna denigratoria contro il commissario Luigi Calabresi, definito commissario Cavalcioni con esplicito riferimento alla finestra dalla quale precipitò l’anarchico Giuseppe Pinelli. Nel 1974 fondò Soccorso rosso, associazione nata per dare assistenza legale ai militanti ma spesso accusata di aiutare personaggi in odor di terrorismo, compresi i tre autori del rogo di Primavalle.

La sua Milano rappresentò ancora una volta il debutto ufficiale di una nuova passione politica. Fino a quel momento aveva oscillato seguendo i propri umori e mai una linea precisa. Nel 2005 si presentò alle primarie milanesi del centrosinistra contro il candidato ufficiale del Ds, Bruno Ferrante. A sostenerlo c’era anche il gruppo «Amici di Beppe Grillo», un embrione di M5S.

Persino in quel 2013 il suo sostegno venne diviso a metà con la Rivoluzione civile di Antonio Ingroia. La matrice della militanza pentastellata di Fo è sempre stata chiara. In alto a sinistra, talvolta salutava così i giornalisti che lo disturbavano al telefono. «Non sono un moderato e non lo sarò mai» era un altro dei suoi tormentoni. Le sue poche uscite pubbliche in disaccordo con Grillo sono avvenute su quelle che lui stesso definiva come scivolate a destra del comico ligure, a cominciare dalla questione dello ius soli . «Compagno Dario, che ci facevi su quel palco?» gli chiese il disegnatore Vauro dopo il Vaffa day genovese del dicembre 2013, durante il quale Grillo parafrasò Mussolini con un «Vincere, e vinceremo».

Il successo dei Cinque Stelle alle politiche del 2013 lo prese alla sprovvista. Fo si era sempre trovato su posizioni minoritarie. «Adesso scopro che siamo quasi maggioranza. La mia prima volta, a 87 anni...». Negli ultimi tempi, dopo il passo di lato fatto da Grillo e la morte di Casaleggio, un uomo che lo ha sempre incuriosito molto, era diventato un punto di riferimento per consiglieri comunali e regionali lombardi che gli chiedevano lumi e consigli. Aveva organizzato una vendita dei suoi quadri per sostenere i candidati alle ultime elezioni comunali.

La sua ultima uscita in pubblico con Grillo risale allo scorso 6 agosto a Cesenatico. I Cinque Stelle organizzavano una serata in spiaggia per parlare di Costituzione. Lui era reduce dalla presentazione di Darwin, la mostra delle sue opere recenti. Era stanco. Si era comunque seduto tra il pubblico sorbendosi fino all’ultimo tre ore buone di dibattito. Fo ha rappresentato l’anima di sinistra del Movimento. M5S non perde soltanto il suo volto più conosciuto nel mondo, ma un pezzo della sua identità.

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