Per tributare un riconoscimento che non potrebbe certo ripagare il debito incommensurabile che la mia generazione ha nei confronti di Giorgio Nebbia, forse con Laura Conti il più straordinario innovatore tra quanti hanno colto nella capacità trasformativa del lavoro assoggettato al capitale il pericolo più grave di minare irreversibilmente la natura, la sua integrità, la sua indiscutibile attitudine di alimentare una vita buona sulla Terra, rubo le parole ad una nota con cui un amico mio e di Giorgio – Gian Paolo Poggio – ha annunciato una scomparsa purtroppo da tempo messa in un conto doloroso.
«Sapevo – scrive Gian Paolo - di Giorgio Nebbia attraverso i suoi articoli, in particolare i contributi, molto originali, che apparivano nel bollettino di Italia Nostra. L’ho conosciuto di persona verso la fine degli anni ’80, in occasione della vicenda dell’Acna di Cengio (Savona). Il suo approccio era assolutamente non convenzionale, non era più giovane ma partecipava direttamente agli incontri in alta Valle Bormida, e con lui la moglie Gabriella, sobbarcandosi un lungo viaggio. La sua impostazione del problema era chiarissima e, nello stesso tempo, molto impegnativa. Andava bene contestare la fabbrica per il suo impatto sulla salute e sull’ambiente ma bisognava studiare i cicli produttivi, sapere esattamente cosa produceva e quali erano gli scarichi inquinanti, cosa aveva prodotto nel corso dei suoi cento anni di attività. E questo non per una pur meritevole conoscenza storica ma per poter intervenire in modo efficace, in termini di bonifica, di risanamento dell’ambiente e di controllo sulla salute dei lavoratori e della popolazione. Da allora è stato per me e per la Fondazione Micheletti, l’interlocutore principale, un infaticabile e inflessibile stimolatore di attività, iniziative, il più delle volte invisibili perché dedicate alla salvaguardia degli archivi che hanno a che fare con la produzione, le manifatture, il lavoro, l’energia. Gli studi più rilevanti sono quelli che ha dedicato al ciclo delle merci, definendosi sempre orgogliosamente merceologo, anche quando la merceologia veniva abolita, un po’ come se si potessero abolire le merci. Di cui, anche un po’ per provocazione intellettuale, metteva sempre in evidenza la dimensione materiale, naturale, il carico quantitativo sulle matrici ambientali».
Per quanto mi riguarda ho goduto della sua amicizia e di una curiosità quasi stupita per l’attenzione che un sindacalista - quale ero io allora - dedicava non tanto all’incidente clamoroso sul lavoro, che faceva notizia, quanto alla ricostruzione degli effetti irreversibili che i cicli di trasformazione di materie e energia, fagocitate nel vortice di produzioni spinte alla massimizzazione del profitto, producevano “normalmente e quotidianamente” su un ambiente degradato e sui cambiamenti della biosfera, mai presa seriamente in considerazione come spazio vitale, luogo di riproduzione, bene comune da conservare. “Giorgio – conclude il nostro comune amico - era persona estremamente avvertita, libera da schemi ideologici, appassionato ma estremamente consapevole delle debolezze umane, e però ostinatamente aperto alla speranza. Occorrerà molto tempo per conoscere Giorgio Nebbia nelle sue molteplici dimensioni”. Oggi lo ricordiamo con lo smarrimento che solo l’affetto più intenso può in minima parte colmare.
Laureatosi in architettura, fu stimato docente all’Università di Venezia ed uno dei più autorevoli dirigenti dell’INU, l’Istituto Nazionale di Urbanistica con Astengo, Renacco, Guiducci. La battaglia sul nuovo Piano Regolatore di Torino e sul consumo dei suoli in generale (il rapporto tra metri cubi edificati ed aree libere o destinate a servizi per la collettività) la condusse con grande decisione ed entusiasmo non solo nelle sedi istituzionali ma nei quartieri, nei consigli di fabbrica, nelle scuole di ogni ordine e grado suscitando anche qualche ironica riserva nel fronte amico, dove qualche compagno di complemento lo definì “urbamastico, urbamistico”.
Il “Grigia” non era credente, ma aveva molta considerazione nei confronti delle “moltitudini” per farle crescere, sollecitandole a «istruirsi, istruirsi ed ancora istruirsi», per dirla con Antonio Gramsci. Il suo laicismo non mancava mai di vederlo schierato evangelicamente dalla parte degli ultimi.
L’impegno in questa direzione deve tradursi inuna duplice attività: quella diretta a far sì che in tutti i corpi dello Statoe in coloro che vi lavorano penetrino e si affermino sempre più estesamenteorientamenti ispirati a una cosciente fedeltà e lealtà alla Costituzione esentimenti di intimo legame con il popolo lavoratore; e quella diretta apromuovere misure e provvedimenti concreti di democratizzazionenell’organizzazione e nella vita della magistratura, dei corpi armati e ditutti gli apparati dello Stato. Quest’azione può contribuire in misura assairilevante a far sì che il processo di trasformazione democratica della societànon prenda indirizzi unilaterali e non determini uno squilibrio tra settori chevengono investiti da questi processi e altri che ne vengono lasciati fuori oche vengono respinti in posizioni di ostilità: rischio, questo, gravissimo eche può divenire fatale.
Che fare? In quale direzionedobbiamo cercare noi di spingere le cose? Dalla sommaria ricapitolazione cheabbiamo fatto della composizione sociale e della condotta politica della Dcrisulta che questo partito è una realtà non solo varia, ma assai mutevole; erisulta che i mutamenti sono determinati sia dalla sua dialettica interna sia,e ancor più, dal modo in cui si sviluppano gli avvenimenti internazionali einterni, dalle lotte e dai rapporti di forza tra le classi e fra i partiti, dalpeso che esercitano sulla situazione il movimento operaio e il Pci, dalla loroforza, dalla loro linea politica e dalla loro iniziativa. Si pensi alla vicendapiù recente, quella del governo Andreotti: l’ostilità attiva delle massepopolari, la combattività e l’iniziativa unitaria dell’opposizione comunista,la battaglia del partito socialista e quella di gruppi, correnti e personalitàdella stessa Dc hanno portato allo sfaldarsi della coalizione di centro-destrae hanno creato una situazione in cui la stessa maggioranza di forze internaalla Dc che aveva portato Andreotti al governo, o che comunque lo sosteneva, èvenuta meno. La Dc ha dovuto abbandonare la linea e la prospettiva delcentro-destra.
James O’Connor, nato nel 1930, professore emerito di sociologia ed economia alla University of Santa Cruz in California, è morto domenica scorsa 12 novembre 2017 nella sua casa di Santa Cruz. Accademico e studioso militante atipico e neo-marxista.
James O’Connor è stato da sempre impegnato nelle battaglie per la giustizia sociale nel mondo e per l’integrazione razziale negli Stati Uniti. O’Connor ha scritto testi fondamentali per la comprensione del capitalismo, essenziali per capire e combattere contro la catastrofe chiamata capitalismo. Il più famoso dei suoi moltissimi libri tradotti in tutto il mondo resta La Crisi fiscale dello Stato del 1973, ed.it. Einaudi 1979, prefato da Federico Caffè, dove ha analizzato la natura contraddittoria dello stato, che pretende di essere indipendente dal capitale (dalle classi dominanti), mentre invece ne serve gli interessi, senza svolgere la funzione di mediatore di tutti gli interessi in campo al fine di raggiungere il bene comune generale.
La pubblicazione della rivista Capitalism Nature Socialism (Cns), da lui fondata nel 1988 e diretta fino al 2003, quando ha passato il testimone per ragioni di salute, ha segnato una svolta importante nel suo pensiero e anche nel suo modo di definirsi marxista e neo-marxista nelle mutate condizioni internazionali.
«Nonostante l’ambientalismo costituisca uno dei più importanti movimenti sociali sia negli Stati Uniti sia negli altri paesi, e nonostante la crisi ecologica abbia ormai raggiunto il mondo intero, i marxisti e i socialisti hanno fatto finora pochi e deboli tentativi per dare una spiegazione teorica coerente di questi fatti», affermava O’Connor nel 1988, nella introduzione al primo numero della rivista statunitense, tradotta in Capitalismo Natura Socialismo n.1/1991.
È di questo periodo la formulazione della “seconda” contraddizione, quella tra capitale e natura, seconda rispetto alla prima, quella tra capitale e lavoro – seconda perché emerge dopo la prima in senso temporale, senza tuttavia sostituirla ("La seconda contraddizione del capitalismo: cause e conseguenze", Capitalismo Natura Socialismo n. 6/1992)
La rivista italiana, diretta allora da Valentino Parlato e da chi scrive, e pubblicata nei primi anni da una società de il manifesto, nacque nel 1991 nel contesto di un network di riviste di ecologia politica comprendente anche la Spagna (con Ecologia Politica diretta da Juan Martinez Alier e la Francia con Ecologie et Politique diretta da Jean Paul Deléage), legate dalla stessa lettura della crisi proposta da O’Connor. La rivista italiana ebbe successo agli inizi, perché la critica di O’Connor ai vari marxismi allora esistenti – non a Marx – interpretava quella dei comunisti “dissidenti” italiani di allora e di una parte degli ambientalisti, su tre grandi temi: primo, che la crisi ecologica è causa di crisi economica e sociale, verità scomoda e per questo ancora oggi totalmente rimossa da politici ed economisti mainstream; secondo, che le due crisi sono due facce della stessa medaglia, come oggi afferma Papa Francesco; terzo, che i movimenti sociali – ambientalisti, femministi, urbani e dei lavoratori – sono determinanti al fine di superare la crisi della democrazia rappresentativa nella fase della globalizzazione finanziaria.
Le idee e i valori per cui Jim O’Connor ha vissuto e lottato non si sono certo inverati, ma sicuramente il suo impegno ha contribuito a tenerli vivi, e questo è quello che conta.
Per me è stato un amico leale sin dal nostro incontro a New York, dove lui era già docente di labour economics al Barnard College della Columbia University, e io studentessa di economia.
Non ci siamo mai persi di vista, e la nostra amicizia si è consolidata nella costruzione della rete di Cns, con incontri anche frequenti in Europa e in California, specie nella prima fase di questa iniziativa editoriale.
conques online, 4 novembre 2017. Il 1948 è l'anno in cui comincia ad allargarsi la forbice tra salari e profitti. Lo segnala l'ultimo discorso del grande sindacalista
«La mattina del 3 novembre 1957, poche ore prima di morire,Giuseppe Di Vittorio tiene questo discorso ai dirigenti e agli attivistisindacali di Lecco».
postilla
GiuseppeDi Vittorio assume il 1948 come l’anno in cui, in Italia, la curva dell’aumentodei profitti si distaccò da quelle dei salari e l'ampiezza della forbice aumentò continuamente. Quello fu infatti l’anno in cui la storia registra eventi che modificano profondamente gli equilibri tra ila crescita dei salari da un lato, i profitti e le renditedall’altro. Gli eventi principali, che provocarono la sempre più profondadivaricazione tra ricchi e poveri nei paesi “sviluppati”, furono la rottura, nel mondo dell’unità antifascista che avevasconfitto il nazifascismo, e in Italia lavittoria elettorale della Democrazia cristiana con la pesante intromissionedegli USA, l'estromissione delle sinistre dal pgovernola rottura del sindacato unitario dei lavoratori (la CGIL) con ildistacco elle due componenti CISL (aprevalenza democristiana) e Uil (a prevalenza socialdemocratica e repubblicana,mentre comunisti e socialisti rimanevano nella CGIL.
il manifesto,
Cerignola tornerà ad ospitare l’opera di Ettore de Conciliis dedicata a Giuseppe Di Vittorio. Il murale, sin dalla metà degli anni Ottanta abbandonato in frantumi nei depositi comunali – fu divelto per far posto ai nuovi cantieri di piazza della Repubblica – sarà ricollocato domani 3 novembre in piazza della Libertà. Con il restauro del murale «Giuseppe Di Vittorio e la condizione del Mezzogiorno» si conferma il recupero di una stagione pubblica e sociale della pittura italiana espressa tra gli anni sessanta e settanta del Novecento di cui de Conciliis, Rocco Falciano e le esperienze pittorico-installative del Centro di Arte Pubblica e Popolare di Fiano Romano restano un prezioso riferimento.
A Cerignola, intanto, si assiste ad un miracolo laico. L’opera, ridotta a scoria non più leggibile del nostro Novecento, tenuta in vita da un importante lavoro volontario che, negli anni, durante i vari trasferimenti, ha fotografato e documentato lo stato dei frammenti e permesso una prima catalogazione dei pezzi, ha confermato una straordinaria capacità di resistenza estetica. I lavori di restauro sul murale, in un hangar della zona industriale di Cerignola, sono appena terminati. Seguito dallo stesso de Conciliis, sui pannelli è intervenuto il lavoro Francesco Daddario. Il restauro, oltre al problema della caducità dei materiali industriali, si è presentato difficile per la messa in sicurezza ed il riassemblaggio dei quasi trecento frammenti in cui risultava scomposto. L’opera, completa investiva una superficie pittorica di circa centotrenta metri quadrati. I pannelli in Glasal – un fibrocemento simile all’eternit – accoglievano i colori delle resine industriali frammiste a pigmenti naturali.
L’opera – terminata in laboratorio nel settembre del 1974 e successivamente assemblata sul posto – evitando facili soluzioni agiografiche, racconta le vicende delle lotte contadine. Il volto del capo della Cgil si accompagna a quelli della moltitudine degli operai e dei braccianti. L’ulivo è raffigurato come rizoma ancestrale di un popolo che migra da un Mezzogiorno invaso dalle banconote partorite dal ventre della prostituta Babilonia. L’effetto fu disturbante.
Oggetto di una preoccupante campagna giornalistica, a tre giorni dalla sua installazione i neofascisti mitragliano il murale. Numerose, furono le testimonianze di solidarietà. In un suo scritto Renato Guttuso, ricordando l’esperienza di de Conciliis accanto a Siqueiros nel cantiere del Poliforum, definisce l’opera «generosa, geniale e disinteressata». Ad oggi, dell’originaria struttura installativa risultano quasi completamente recuperati i tre schermi laterali; completamente disperso, invece, quello inferiore.
Ancorati sui tre lati di un tronco di piramide rovesciato, i quattro pannelli, tagliati, a diverse altezze, in forma di bandiera, nel punto più alto raggiungevano, con la struttura metallica tubolare, i dieci metri. Dinamismo e integrazione plastica individuavano la struttura portante come forma significante capace di espandere e continuare la pittura. L’installazione, su tre lati, favoriva una lettura ottica d’insieme mentre, dal basso verso l’alto – con la presenza dello schermo oggi disperso – veniva assicurata la fruizione da un punto d’osservazione ravvicinato.
La possibilità di attraversare l’opera e la sua poliangolarità consentivano una particolare esperienza percettiva che, dal libero movimento dello spettatore, risultava aumentata, moltiplicata nella sua meccanica espressiva dalle infinite alterazioni delle sue possibilità visuali.
Confermata anche dalle letture di Carlo Levi e di Paolo Portoghesi, il murale per Di Vittorio guadagnava, nel suo rapporto con lo spazio pubblico, la coesistenza di valori pittorici, scultorei ed architettonici. La sfida, rinnovata nella nuova collocazione, resta quella di trovare, per un’opera che pittoricamente continua, in maniera aperta, ad interrogarci, il giusto rapporto tra percezione, spazio e invenzione plastica.
Riferimenti
Per comprendere (o ricordare) chi è stato Giuseppe Di Vittorio leggi l’articoloGiuseppe Di Vittorio e il “New Deal” per l’Italia, con i riferimenti in calce, e la Letterad’un bracciante sindacalista a un conte capitalista
In verità, la nostra vita è costantemente nutrita anche, o forse soprattutto, da chi "non c'è più"e che facciamo rivivere ogni volta che ascoltiamo una musica, guardiamo un'opera d'arte, leggiamo un libro importante avuto in dono – collettivamente- dal suo autore .
Come scienziati sociali, come studiosi di urbanistica e di culture urbane, siamo debitori ad Amalia Signorelli, che si spenta il 25 ottobre, di un patrimonio veramente importante di conoscenze e di strumenti metodologici con i quali leggere "l'esserci nel mondo", le sue trasformazioni, i conflitti sociali e culturali. Del suo maestro, il grande Ernesto De Martino, ci ha aiutato a capire la statura e a decifrarne i pensieri e lo stile, facendolo poi suo in modo autonomo e originale. E' così che ha saputo trasferire le categorie demartiniane nello studio delle dinamiche “indotte e condizionate dall'esistenza di uno spazio urbano costruito, dotato di certe capacità di costrizione e condizionamento dell'agire umano” (in Antropologia urbana, 1996:202).
Con la lente speciale del ben noto concetto di "crisi della presenza" Amalia Signorelli si è inoltrata nel mondo "altro da noi" nel quale siamo tuttavia immersi e che quasi mai siamo in grado di comprendere e spiegare: gli immigrati, i subalterni (gramscianamente intesi) i discriminati nei rapporti di genere.
Tenerissimo il suo gioire di fronte a Concettina, una delle contadine meridionali incontrate negli anni della sua ricerca antropologica sul tarantismo, che si rivolse a lei per chiederle di darle “la medicina per non comprare bambini”, la pillola anticoncezionale, e che Amalia ha interpretato come l'emergere di un'inedita volontà di un futuro “in cui l'eros non le fosse precluso dalla paura delle gravidanze a ripetizione”. E appassionata la sua vicinanza agli abitanti del centro storico di Pozzuoli "deportati"nel quartiere-ghetto di edilizia popolare di Monterusciello.
Ma la "comprensione" la vicinanza politica (quel rifiuto dello sfruttamento, del dominio, dell'alienazione come fatti inevitabili che hanno fatto di lei una donna coerentemente "di sinistra'") non ha impedito ad Amalia di ricercare con rigore scientifico le specificità e i connotati della cultura dei subalterni, della loro concezione dello spazio e delle loro relazioni con lo spazio, radicalmente e irrimediabilmente altre rispetto a quelle dei dominanti, a partire dai professionisti della progettazione urbana e architettonica.
Il suo importante saggio pubblicato sulla rivista "La ricerca Folklorica"(20, 1989) con l'eloquente titolo Spazio concreto e spazio astratto. Divario culturale e squilibrio di potere tra pianificatori e abitanti dei quartieri di edilizia popolare ha dato l'avvio ai successivi studi e scritti sulle città e sull'immigrazione che ci hanno proposto fino all'ultimo interpretazioni originali e decisamente controcorrente, anche rispetto a chi si sente parte della sinistra.
Nell'intervista di Simona Maggiorelli ripubblicata da Left il 25 ottobre, giorno della sua morte, Amalia parla della necessità di oltrepassare sia lo sterile razionalismo sia il decostruzionismo tutto emozionale per rintracciare quel filo rosso che collega tutti gli accadimenti della storia umana. Ma, aggiunge, se quel filo rosso non lo si riesce a trovare, “bisognerà costruirlo e costruirlo credibile”. Lei l'ha fatto e ora tocca a noi continuare.
Nuova Società
Tra i compagni con cui ho avuto modo di lavorare nel mio lungo percorso di impegno politico a livello istituzionale, Raffaele Radicioni occupa un posto particolare dovuto a due precisi fattori: la specificità dei complessi problemi che assieme abbiamo dovuto affrontare ed il suo carattere mite, saldamente impiantato però sulla coerenza ed il rigore del suo pensiero politico e intellettuale. Anche nei momenti più accesi di maggiore tensione del dibattito nella sala Rossa di Palazzo Civico, Raffo (come lo chiamavano gli amici) non ha mai alzato il tono della voce, rispondeva con pacatezza, punto su punto, anche alle accuse più grossolane che gli venivano rivolte, ad esempio, di voler ostacolare lo sviluppo della città, di essere un antiquato conservatore, contro la modernità e la crescita urbana e quindi anche economica.
Ci fu il caso di due consiglieri del Pci irretiti dalle sirene craxiane, molto di moda in quegli anni, che fecero il salto della quaglia, motivandolo perché contrari alla politica urbanistica dell’Assessore Radicioni che ledeva gli interessi della città. Con tono, si potrebbe dire evangelico, nella riunione del gruppo comunista che precedette l’infuocata seduta del Consiglio con all’ordine del giorno il caso, invitò tutti noi alla calma, quasi scusando i due voltagabbana «perché - disse - non sanno quello che stanno facendo, non sono in grado di capire». Non era altezzosità la sua, era una semplice, implicita critica rivolta al suo partito per il non sufficiente impegno culturale nella battaglia delle idee, tra la gente, per spiegare che il diritto alla casa, ad esempio, non significava costruire, costruire, senza regole, anonimi caseggiati alla periferia, privi di servizi in molti casi, come accade negli anni ’50, ’60, addirittura senza la urbanizzazione primaria: strade, fognature, illuminazione pubblica.
Così la modernità di una città per Radicioni non era decretata dal numero di grattacieli. Anche se il problema si pose con l’opera di una star dell’architettura, di un amico, un maestro sicuramente progressista collocato a sinistra, come Renzo Piano, progettista della sede dell’Istituto Bancario San Paolo, per soddisfare l’ambizione, per non dire il capriccio, dell’allora presidente dell’Istituto che ha voluto lasciare un ricordo di sé medesimo, nella città. Noi (uso il plurale perché anch’io venni così considerato) siamo stati definiti, scherzosamente, ma con un lieve senso di irrisione, “urbamistici”, o “urbamastici”. Torino è stata la culla di questa nuova disciplina, grazie al Movimento di Comunità fondato da Adriano Olivetti. Per essermi iscritto ad un corso tenuto dal prof. Giovanni Astengo, presso la sede di Comunità del mio quartiere, fui criticato poiché avevo ceduto al paternalismo del grande capitalista di Ivrea, dimenticando la lotta di classe. Il settarismo non è mai morto.
Infine voglio menzionare in questo ricordo sicuramente non esaustivo, la coerenza di Raffo contro il dissennato consumo dei suoli, contemporaneamente alla mercificazione, con la compra-vendita, delle cubature. I fautori di questo mercato (compresi molti parroci guidati da un uomo della Curia che hanno venduto la cubatura delle loro chiese ai proprietari delle case confinanti affinché potessero sopraelevare gli edifici esistenti) lo hanno giustificato definendolo in sede politica «urbanistica contrattata», in modo scriteriato sono giunti a fare cassa, per finanziare addirittura la spesa corrente, cioè, la parte ordinaria del bilancio.
Caro Raffo, nel rivolgerti l’ultimo saluto, credo di poter dire a nome di tutti coloro che, non retoricamente amano Torino, che la città ti è debitrice di riconoscenza. Tu hai rappresentato concretamente il vero schieramento progressista e riformatore poiché hai operato per un reale cambiamento ponendo quale base, quale comun denominatore, il valore dell’uomo. La sfida, tuttora aperta, è tra la cultura della “prossimità” e la cultura del “rambismo” che ha al centro esclusivamente il profitto e quindi i consumi. È necessario, come tu ci hai insegnato, riproporre questo confronto senza imbrogli e senza ipocrisie, senza temere l’accusa di non essere moderni: avere la capacità, la volontà, l’intelligenza di misurarsi con i reali valori della modernità significa affrontare le grandi contraddizioni presenti nella società contemporanea, per garantire un futuro a questa “macchina” meravigliosa che è la città dell’uomo.
«Per altro non passa occasione che nel nostro partito autorevoli e valenti compagni ci ricordino giustamente come ritardi e sconfitte, registrati dal movimento riformatore sui temi della casa, del governo della città sarebbero imputabili in ampia misura ad una frattura manifestatasi in alcuni periodi fra idee di riforme illuministe, patrimonio di intellettuali, ed esigenze, aspirazioni, di larghe masse popolari. Bene, io mi domando se dalla vicenda che ho richiamato si debba concludere che il tema del controllo sulla acquisizione della rendita (che penso costituisca uno degli strumenti principali del governo della città, se non il principale) sia da considerare ideologico o comunque fuori dalle possibilità di unità fra esigenze popolari per la casa, per la città, per l'equilibrio del territorio e gli orientamenti, le denunce, le esperienze di intellettuali ed amministratori».
«». L'Espresso, 23 luglio 2017 (c.m.c.)
Una società multietnica multiculturale, multirazziale, pluralista... È solo un ritornello, una giaculatoria rassicurante, o dietro questa formula sta nascendo davvero la cultura necessaria per affrontare un problema grandissimo, forse il più impegnativo e decisivo tra i molti che, oggi, si affollano e annunciano ovunque un cambiamento d'epoca?
La manifestazione più appariscente, e drammatica, è sicuramente quella che definiamo razzismo, che riappare in molti luoghi. Se però il razzismo è il fenomeno più noto, l'orizzonte da contemplare è ormai quello di società nelle quali la difficile ricerca di valori comuni e la necessaria coesistenza tra valori diversi rompono la trama degli abituali criteri di riferimento. Le nostre società non sono abbastanza forti né per assimilare l'"altro", né per respingerlo.
Respingerlo non possono, quando si tratti di un profugo o, più semplicemente di un lavoratore indispensabile a colmare vuoti. Assimilarlo non vogliono, non ne hanno i mezzi e la forza: o, spesso, è proprio l' "altro" che chiede un riconoscimento, non l'assimilazione. Chiede di violare il santuario della scuola laica portando il suo chador. Conserva magari l'antropologica propensione a fissare violentemente il rapporto tra i sessi, si porta dietro pratiche antiche e tremende, come l'infibulazione. E malgrado ciò (o proprio per ciò), esige poi diritti e eguaglianze che non stanno nei vecchi schemi, anzi ne rivelano le crepe, le debolezze.
Sono così proprio i nostri modelli più abituali e rassicuranti - la tolleranza, l'eguaglianza, il "melting pot" - ad apparirci bisognosi di ripensamento. È indispensabile vedere se essi sono in grado di comprendere una dinamica dei conflitti che va ben al di là della discriminazione più o meno violenta. Un esempio per tutti. Oggi si propone, giustamente, l'estensione agli immigrati di una serie di diritti civili, sociali, politici. Questa è una via sacrosanta, l'unica a poter impedire almeno le forme più brutali e formali di discriminazione. Ma, superato questo conflitto, se ne profila uno più difficile da risolvere. L'esperienza di molti paesi ci dice che proprio il riconoscimento di una pari cittadinanza agli immigrati scatena reazioni nei gruppi sociali che, socialmente o culturalmente, si sentono minacciati da questa maggior vicinanza di gruppi che escono da qualcuno dei ghetti in cui erano stati confinati. La parità - dovremmo saperlo - spesso annuncia nuovi conflitti.
Ma è la stessa nozione di eguaglianza a esser messa in discussione. La rinuncia alle identità irriducibili al modello prevalente appare la condizione stessa dell'eguaglianza, che si configura così in forme che ammettono un vero pluralismo solo in occasioni e casi determinati. È lo stile dell'America del "melting pot", dove l'essere riconosciuto come eguale dipendeva proprio dalla capacità di omologarsi. Ma è pure uno stile che, in nome di valori dominanti ed esclusivi, ha negato o ritardato il riconoscimento dei diritti delle minoranze.
Da qui il paradosso di una concezione dell'eguaglianza che custodisce il germe della discriminazione. Da qui la necessità di muoversi verso una concezione dell'eguaglianza fondata sul riconoscimento pieno delle identità diverse, che diviene così il fondamento del diritto alla identità, del diritto alla differenza. Da qui lo scolorirsi dell'immagine del "melting pot", sostituita da quella del "salad bowl". Non il crogiuolo nel quale ogni elemento si fonde, perde la sua identità e diviene irriconoscibile. Al suo posto, una "insalatiera" nella quale la mescolanza è possibile, in cui i diversi elementi rimangono riconoscibili.
Lungo questa strada c'è un rischio che viene reso esplicito da chi dice che il riconoscimento del pluralismo non può portare con sé la legittimazione delle idee più arretrate, di simboli di barbarie, di violazione di valori essenziali della civiltà. Ecco, allora, la domanda più generale: la regola del pluralismo è incondizionata o ammette eccezioni? E, se sì, secondo quali criteri? Le risposte sono difficili, e sono il segno della vera difficoltà che s'incontra quando si cerca di convertire l'antirazzismo in accettazione convinta di una prospettiva sociale segnata dalla presenza di diverse culture.
Questo non significa negare o mettere tra parentesi il fatto che sono stati faticosamente costruiti grandi valori comuni, quelli in cui s'identifica (o dovrebbe identificarsi) la nostra civiltà. Quel che si mette in discussione è l'esistenza di una cultura dominante, da accettare senza alcun preventivo confronto e senza ammettere la possibilità che questo confronto possa arricchire lo stesso quadro di valori e di criteri di riferimento nei quali ci siamo finora riconosciuti. In ciò sta la differenza tra assimilazione e integrazione. E quello che oggi ci appare un arduo ostacolo da superare può divenire l'occasione per la nascita di una organizzazione sociale dove proprio la fatica del confronto può far rinascere il senso della comunità. Non è un processo facile. Richiede un apprendimento collettivo, non esclude conflitti.
Né può essere affidato soltanto al fluire delle cose, alla buone volontà. Esige le sue regole, istituzioni, scelte, le sue "forzature". Servono politiche capaci di incidere sulla sostanza della loro condizione, e quindi investimenti in informazione, formazione, strutture, "azioni positive". Integrazione e costruzione di valori comunitari camminano insieme. E il senso di appartenenza a una comunità nasce e si sviluppa solo se si partecipa effettivamente alla sua vita, ai momenti nei quali la comunità si costruisce.
Il vedere l'"altro" insediarsi stabilmente nel proprio territorio produrrà spaesamenti, rifiuti, conflitti. Non c'è dunque una via rapida di pacificazione. Ma non ce n'è una diversa.
eddyburg da una coppia di amici che, avendo conosciuto lei e i suoi "libretti", avrebbero voluto che il suo esempio si propagasse nel mondo
Venise vient de perdre l’un de ses plus courageux lanceurs d’alerte: Marina Zanazzo s’est éteinte, à 61 ans, le soir du 12 juillet, après 18 mois de lutte acharnée contre un cancer du pancréas.
A la clôture de son activité éditoriale, Marinaavait décidé d’effectuer son Grand tour avec pour première étape Paris qu’elleallait contempler à nos côtés, perchée dans les nuages, au 28èmeétage d’une tour près de Montparnasse. Elle avait déjà dans sa poche le billetd’avion, lorsqu’elle découvrit sa maladie. Après avoir tant lutté contre le cancerde la corruption, elle était agressée en son corps par un autre cancer. Elleentama un nouveau combat et, malgré les souffrances, multiplia les projets, trouvala force de collaborer à un épais livre de Lidia Fersuoch, proposa de décorerd’un murales le parloir d’une prisonpour distraire les enfants visitant les prisonniers.
la Nuova Venezia, 13 luglio 2017 (m.p.r.)
Venezia. Sorriso e determinazione. E una voglia generosa di fare qualcosa per la sua città. Marina Zanazzo, 61 anni, ha smesso di soffrire. Se n'è andata lunedì sera, nel suo letto d'ospedale al Civile, dopo aver a lungo combattuto con la malattia. Era una persona di grande cultura, proprietaria-factotum di una piccola casa editrice, Il Fontego, che ha lasciato il segno nella società veneziana. Pubblicazioni coraggiose, quasi sempre controcorrente.
Oggi tutti inneggiano a Stefano Rodotà. Ieri, invece. Ricordiamo anche questo.
Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2017 (c.m.c.)
«Renzismi - Da “non ho giurato su Rodotà e Zagrebelsky” a “il capo del partito dei parrucconi” fino alle contumelie di Eugenio Scalfari”»
«Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky». Dal livello di illogicità della frase si capisce che l’autore è Matteo Renzi. Era il 2014, e con l’aforisma consegnato al Corriere della Sera l’allora capo del governo voleva dare ad intendere che la Costituzione “chiamasse” la sua stessa riforma ad opera del gruppetto di ambiziosi toscani, e che questa chiamata fosse incompatibile con la battaglia dei professori contro lo scasso della Costituzione.
Dopo aver insultato chiunque gli si opponeva (“gufi”, “rosiconi”, “rancorosi”, “sabotatori”, “frenatori”), lo screanzato continuava: “Non è che una cosa è sbagliata se non la dice Rodotà. Si può essere in disaccordo con i professoroni o presunti tali, con i professionisti dell’appello (Rodotà aveva appena firmato l’appello di Libertà e Giustizia contro la svolta autoritaria, ndr), senza diventare anticostituzionali”.
Fu il “via libera” per bastonare i due giuristi, colpevoli di disturbare il manovratore con le loro “chiacchiere” (“sanno solo criticare”, disse il mai eletto a Porta a Porta). Per la Boschi, «i professori bloccano le riforme da 30 anni». Per i furbi del Foglio, Rodotà era “il capo del partito dei parrucconi”, e il suo nome fu messo in burletta a riprodurre l’invocazione del 2013 (“Rodotà-tà-tà”). Il "costituzionalista del Pd" Stefano Ceccanti tirò fuori su Twitter una proposta di legge del 1985 firmata anche da Rodotà (allora indipendente del Pci) per «sostituire il bicameralismo paritario con il monocameralismo puro»: la trovata, retwittatissima, doveva servire a screditare il Professore prendendolo in castagna.
La Boschi fu mandata a Agorà: «Trovo legittimo che Rodotà abbia profondamente cambiato idea, perché ricordo che nell’85 fu il secondo firmatario di una proposta di legge che voleva abolire il Senato». Inutile far ragionare una legione di stupidi: se gli si faceva notare che Rodotà non era a favore del bicameralismo ma contro la loro riforma anti-democratica, passavano al nuovo pseudo-argomento.
Intanto Renzi sfornava i suoi famigerati insulti: “radical chic”, “accozzaglia”, “professionisti della tartina al salmone”, “archeologi travestiti da costituzionalisti”, e dietro i pappagalli di Twitter, questi bulli con wi-fi autoproclamatisi classe dirigente, per i quali “Professore” è un titolo di demerito.
Pensare che prima della rielezione di Giorgio Napolitano, Renzi sentenziava: «Marini è un dispetto all’Italia, meglio Rodotà». Ma il giorno dopo, nella pioggia di rose tributata al redivivo Re, si sprecarono i rimbrotti a Rodotà, colpevole di essere il candidato alle Quirinarie del M5S. Per il Corriere (Cazzullo e Macaluso), «poteva attendersi un suo gesto di cortesia – il ritiro della candidatura – che però non c’è stato». Su Repubblica, Eugenio Scalfari sibilò: «Rodotà si è pubblicamente rammaricato perché il Pd e i vecchi amici non l’hanno contattato»; beh, «neanche lui ha contattato me». Chissà cosa avrebbe dovuto chiedergli: forse il permesso di pensarsi Presidente con Napolitano ancora vivo, considerato che se Scalfari deve scegliere «tra Gramsci e Togliatti, scelgo Gramsci» e «tra Andreotti e Moro scelgo Moro. Tra Togliatti e Berlinguer scelgo Berlinguer». E tra Rodotà e Napolitano? «Scelgo Napolitano… Il nome Rodotà in questo caso non mi è venuto in mente».
Un ricordo personale. Era la fine del 2010, Wikileaks aveva appena reso noti i cablogrammi dell’ambasciatore Usa: «Berlusconi vuole censurare Internet» per “favorire le proprie imprese” e silenziare “il dissenso”. Il riferimento era alla “legge Romani” e al disegno di legge dell’onorevole Gabriella Carlucci (ogni epoca ha la sua Boschi) per “la tutela della legalità (sic) nella rete Internet”.
Per l’agenzia che produceva il sito di YouDem, la tv della corrente veltroniana del Pd, mi proposi di intervistare Rodotà. I responsabili del sito ne furono entusiasti: a quel tempo il nome di Rodotà gli faceva comodo; ma mi raccomandarono di contingentare le dichiarazioni del Professore in modo da ricavarne “pillole” di pochi minuti, per un videoclip veloce, smart (il renzismo pre-esiste a Renzi). Telefonai a Rodotà. Mi disse che non avrebbe sottoposto la sua riflessione ad alcuna pillolizzazione, e mi invitò, se volevo, a fargli un’intervista degna di questo nome.
Contro il volere del management, mi presentai a casa sua, tra via Arenula e il Ghetto, dove mi accolse con la sua amabilità asciutta e il suo sorriso gentile. Alla fine dell’intervista, durata quasi due ore, disse: «Ci sarà sempre qualcuno che tenterà di limitare i diritti fondamentali coi pretesti più vari. Bisogna saperlo riconoscere».
la Repubblica, 25 giugno 2017 (m.p.r.)
15 ottobre1976
AZIENDE, NON SCHEDATE I DIPENDENTI
Da molto tempo si sapeva che industrie pubbliche e private continuavano imperterrite a schedare i loro dipendenti, violando l’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori che vieta ogni indagine «sulle opinioni politiche, religiose e sindacali dei lavoratori ». Si sapeva pure che alcune aziende si erano rivolte a studiosi di diritto del lavoro per conoscere il modo migliore di aggirare quel divieto e avevano, quindi, adottato la tecnica delle indagini su “attitudini” o “propensioni” dei dipendenti: altre aziende, invece, non erano ricorse neppure a questa finzione ed erano rimaste fedeli ai vecchi metodi.
Questi clamorosi episodi non insegnano soltanto che non basta scrivere una norma per eliminare radicate abitudini alla discriminazione. Spingono pure a riflettere sulle ragioni complessive che hanno finora impedito un’effettiva garanzia della libertà di opinione dei lavoratori.
È vero che un disegno di legge su questa materia venne presentato nel 1974 dal ministro dell’Interno, Taviani; ma si trattò di una proposta fatta senza convinzione e che, soprattutto, ignorava l’ampiezza dei problemi, la necessità di una legge dettagliata e rigorosa, le esperienze degli altri paesi.
Ma, soprattutto, l’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori è indebolito dal restare un’eccezione in un sistema in cui la regola è quella della libertà indiscriminata di raccogliere informazioni su tutto e su tutti.
5 gennaio 1997
SU ABORTO E BIOETICA SERVE PIÙ LAICITÀ
Aborto, famiglia, morale sessuale, questioni in largo senso riconducibili alla bioetica sono i temi di una predicazione che ha assunto sempre più toni da crociata. Così il cattolico in politica, ovunque nel mondo, deve divenire braccio secolare della Chiesa, destinato ad incontrare, in una sorta di permanente trasversalismo, i suoi simili sparsi in tutto l’arco d’un Parlamento. Nella situazione italiana, questa posizione comincia a produrre effetti che incidono anche sulla politica quotidiana. Vi è già una concorrenza tra partiti che spinge ad un integralismo che mai s’era riscontrato nella storia repubblicana. L’insistenza su valori assoluti, non negoziabili, da parte di uno schieramento che scavalca il confine tra maggioranza e opposizione, incide sull’insieme della dinamica politica.
All’interno dell’Ulivo assistiamo ad una sorta di abbandono da parte delle componenti laiche e di sinistra, con una delega ai cattolici per tutto quanto riguarda i valori. Se questo fosse stato l’ atteggiamento della sinistra negli anni ‘60 e ‘70, se fossero state accettate come oggi le interpretazioni della parte più arretrata del mondo cattolico, non avremmo avuto il divorzio, l’aborto, la riforma del diritto di famiglia. V’erano in quel tempo una cultura forte e la capacità di farne un elemento attivo nella società, sì che furono vinte battaglie cominciate su posizioni minoritarie. La questione cattolica, dunque, merita una discussione che finora è mancata, e che coinvolge anche l’altra questione, quella della sinistra.
Quando (Silvio Berlusconi) è “sceso in campo”, aveva già pronto il suo elettorato, frutto di una trasformazione in cui già si potevano cogliere i tratti del populismo: l’appello diretto ai cittadini che, convocati in piazza, venivano aizzati contro il nemico o ossessivamente chiamati a rispondere “sì” a qualsiasi domanda; la riduzione delle persone a “carne da sondaggio”; le donne neppure oggetto rispettabile, ma pura carne da guardare (le premonitrici ragazze di Drive In) o di cui impadronirsi. Non l’“amore per le donne”, ma le donne come suo personalissimo “logo”. Il tratto possessivo di questa antropologia politica è evidente. Il potere come esercizio di qualsiasi pulsione, con una brama proprietaria che non tollera limiti. La bulimia di volersi impadronire di tutto e lo sbalordimento che lo coglie quando accade che gli si chiede di rispettare qualche regola. Proprietario di tutto. Delle istituzioni. Delle persone che lo circondano.
25 febbraio 2016
LE UNIONI CIVILI
E IL RISCHO “EXIT” CULTURALE
La discussione sulle unioni civili era cominciata sottolineando che finalmente era alle porte una legge da troppo tempo attesa, che avrebbe consentito all’Italia di recuperare un livello di civiltà dal quale si era allontanata e che, in questo modo, l’avrebbe riportata in Europa. Ma, avendo perduto troppi pezzi, la legge approvata finirà con l’essere considerata come una nuova testimonianza di una arretratezza di fondo che, anche quando si fanno sforzi significativi, non si riesce davvero a superare. Che cosa vuol dire Europa in una materia davvero fondamentale, non per una forzatura ideologica, ma perché riguarda i fondamenti stessi del vivere? Vuol dire costruzione di un sistema sempre più diffuso e condiviso di principi e regole, che è stato affidato ad un documento comune, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
31 marzo 2017
COME TUTELARE
LA NOSTRA DIGNITÀ DIGITALE
Libertà e giustizia, 24 giugno 2017
Si serra la gola alla notizia che non ascolteremo più la voce ferma, affettuosa e ironica di Stefano Rodotà. E si sente che da oggi, senza quella voce, siamo ancora un po’ meno sovrani: un po’ più indifesi, più soli, più fragili.
Quando capitava di camminare per strada in sua compagnia, invariabilmente succedeva che un cittadino si avvicinasse per salutarlo chiamandolo ‘presidente’. E non si riferiva alle sue tantissime presidenze (per esempio a quella del Partito Democratico della Sinistra, in un’epoca politica che oggi sembra remotissima), ma al fatto che per molti, per molti di noi, Stefano Rodotà era il presidente morale della Repubblica. Non c’erano polemica, o faziosità in questo dolce legame sentimentale: c’era invece un profondo senso di gratitudine. Tutti ricordiamo quell’aprile di quattro anni fa, in cui il nome di Rodotà risuonò per 217 volte nell’aula di Montecitorio dove si eleggeva il Capo dello Stato. E ad ogni lettura l’immaginazione correva verso un’altra Italia: un’Italia più libera, più dignitosa, più solidale. L’Italia della Costituzione e del popolo sovrano.
L’Italia che tante volte è scesa in piazza per questa Costituzione e questa sovranità: e Libertà e Giustizia ricorda con profonda gratitudine, tra tante occasioni di incontro e lotta comune, la presenza di Stefano alla grande manifestazione romana dell’ottobre del 2013 per difendere la “via maestra” della Costituzione.
Il Rodotà politico era la naturale – ma quanto coraggiosa! – conseguenza dello studioso che non ha usato la sapienza del diritto per rendere più potenti i detentori del potere, ma per restituirne un po’ agli oppressi, agli ultimi. Se dovessi indicare il nucleo della sua altissima lezione direi che ci ha insegnato – sono parole sue – «l’irriducibilità del mondo al mercato». La più essenziale delle lezioni di cui ha bisogno il mondo di oggi.
Tra i beni comuni che è vitale sottrarre alla dittatura del mercato, Rodotà ne indicava uno modernissimo quanto essenziale: la rete. «In questo spazio – ha scritto – tutti e ciascuno acquistano la possibilità di prendere la parola, acquisire conoscenze, creare idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, discutere, partecipare alla vita pubblica, costruendo così una società diversa, nella quale ciascuno può rivendicare il suo diritto ad essere egualmente cittadino. Ma questo diviene più difficile, se non impossibile, se la conoscenza viene recintata, affidata alla pura logica del mercato, imprigionata da meccanismi di esclusione che ne disconoscono la vera natura e così mortificano una ascesa che ha fatto della conoscenza in rete il più evidente dei beni comuni». Tra i tanti diritti al cui studio e alla cui difesa Rodotà ha dedicato una lunga vita felice è forse proprio il diritto alla conoscenza quello che oggi appare il fondamento più essenziale, e insieme più fragile, della nostra democrazia.
Il modo migliore per ricordare questo nostro grande amico, per provare ad essergli grati, è continuare a lottare per costruire, con le sue parole e le sue idee, «una società diversa».
Tomaso Montanari, presidente di Libertà e Giustizia
in occasione dell’uscita di un libro "
Diritti e libertà nella storia d’Italia". Left, 24 giugno 2017 (c.m.c)
Stefano Rodotà Diritti e libertà nella storia d’Italia (Donzelli)
Restituire un pezzo di memoria assume inevitabilmente un significato politico e civile, oggi in Italia. Anche se il professor Stefano Rodotà a proposito del suo Diritti e libertà nella storia d’Italia (Donzelli) si schermisce: «non voglio salire su un cavallo bianco -dice- ho solo cercato di rinfrescare il ricordo di certi fatti. Perché negli ultimi dieci anni anche in Parlamento si raccontano cose che nessuno anni fa avrebbe osato, perché si conosceva la storia di questo paese». Un attacco alla storia, (vedi i manifesti scandalo sulle Br in procura) che va di pari passo con l’attacco del Premier alle istituzioni. E non solo. Su questi temi, in occasione della presentazione del libro al Festival Parole di giustizia il 13 maggio a La Spezia abbiamo rivolto alcune domande al professore emerito di diritto dell’Università La Sapienza.
Professor Stefano Rodotà, dopo aver denunciato l’attacco alla Costituzione, ora lei parla di decostituzionalizzazione. Una deriva ulteriore?
«Sì, si usa la riforma della giustizia per eliminare in radice garanzie che la Carta prevede. Là dove, per esempio, è detto che la magistratura dispone direttamente della polizia giudiziaria si leva “direttamente” e si dice “secondo le modalità della legge”. Così una maggioranza qualsiasi potrà far fuori le garanzie sancite dalla Costituzione e protette dalla sua rigidità. E si potrà passare una serie di poteri a maggioranze ordinarie come l’attuale: blindata, che vota qualsiasi cosa. Intanto il Parlamento è stato ridotto a luogo di registrazione passiva della volontà del presidente del Consiglio e l’ altro sistema di controllo, di contropotere, di contrappeso necessario in ogni democrazia- la magistratura- è sempre più preso di mira».
Berlusconi parla di magistrati «eversori», stigmatizza la Corte costituzionale «covo di sinistra». Calunnia, altera la verità, anche quella storica. Perché una parte di italiani continua a credere alle sue falsità?
«Questa è la domanda chiave. Di risposta non ce n’è una sola. Al primo punto c’è l’informazione in Italia. Non dobbiamo cadere nella trappola berlusconiana che addita alcuni talk show come eretici nei suoi riguardi quando tutte le ricerche dicono che l’opinione pubblica si forma soprattutto con il Tg1 e il tg5. Che non riferiscono una serie di fatti oppure ne danno la versione di Berlusconi. Perfino l’Autorità delle telecomunicazioni- che pure non brilla di attivismo in queste materie- ha dovuto dire che non si può diffondere ogni giorno un comunicato o un video di Berlusconi Secondo punto: il Premier ha costruito intorno a sé, non “un sogno” come è stato detto, ma un blocco sociale su interessi come l’evasione fiscale. Per lui "l’evasione fiscale è legittima difesa". Da qui l’abbassamento della soglia di tutte le regole. Così accanto alle leggi ad personam, ecco l’eliminazione del falso in bilancio, di cui B. si è servito. Una “semplificazione” che fa scendere la legalità nella stesura dei bilanci. Parlo di un blocco sociale, dunque, costruito sui peggiori aspetti della società italiana come il non pagare le tasse. Anche se qualcosa comincia a scricchiolare: con questa crisi le piccole e medie imprese non riescono a stare sul mercato, i problemi che devono affrontare sono assai più vasti. Poi a tutto questo va aggiunto un terzo elemento: la debolezza dell’opposizione che, a mio avviso, ha regalato forza a Berlusconi».
Berlusconi dice che la sinistra è triste ed «ha una ideologia disumana e crudele». E alla convention dei Liberal del Pd Bill Emmott risponde che non va sottovalutato: «la sinistra ha una cultura del dolore». Così Enzo Bianco rilancia: «dobbiamo sorridere di più». Perché continuare a rincorrere Berlusconi. sul suo terreno?
«Per lungo tempo è stata sopravvalutata la capacità di comunicazione di Berlusconi. E si è pensato che adeguandosi al suo modello lo si sarebbe sconfitto. Non è accaduto. Proprio per l’asimmetria di potere: se io scelgo il modello media e i media sono di un altro, lotto con una mano legata dietro la schiena. Intanto si è persa la strada storica del rapporto con la società. Qualcosa, però, sta cambiando. La manifestazione delle donne, degli studenti, del lavoro e del precariato ci dicono di una ripresa di reazione sociale. E non sono più «i ceti medi riflessivi» di cui parlava Paul Ginsborg all’epoca dei girotondi. Ora la reazione che ci si deve aspettare dall’opposizione è che trovi i giusti canali di comunicazione con questo mondo che va in piazza e che ha bisogno anche di una sponda politica. Fin qui le reazioni sono state vecchie, impaurite e sbagliate. Si è detto non possiamo arrenderci al movimentismo. Come se non fosse qualcosa che sta avvenendo nella società…»
Dal suo libro emerge l’abisso fra uno Stato ancora in formazione che paventava lo strapotere della Chiesa e gli ultimi quindici anni in cui lei scrive: «si è assistito a pratiche politiche e a leggi che quanto più si avvicinavano alle richieste della Chiesa tanto più si allontanavano dalla Costituzione». Siamo sempre più lontani dal resto d’Europa?
«Nettamente e non è una valutazione preconcetta o ideologica. Prendiamo un dato di realtà: si discute in Parlamento di testamento biologico lasciando strada aperta a una posizione della Chiesa veramente violenta che parla di "indisponibilità della vita e di limiti invalicabili". Ora se noi andiamo in Germania, Francia o in Spagna non solo lì le norme sul biotestamento ci sono e da tempo, ma sono in forme tali che in Italia l’opposizione neanche penserebbe di proporle perché verrebbe accusata di chissà quali nefandezze, Siamo prigionieri di questo meccanismo: da noi vengono presentate come questioni di fede questioni che evidentemente di fede non lo sono come il diritto a rinunciare a idratazione e nutrizione forzata. Quelli della Chiesa diventano da noi punti di vista che pesano nella discussione politica al punto da frenarne l’autonomia e l’intelligenza. Perché c’è una presenza della Chiesa più intensa che altrove, ma anche per una politica debole. Per cui il Pdl si presenta come fedele braccio secolare delle volontà del Vaticano e non per reale adesione culturale, ma per averne sostegno. La debolezza della politica italiana ha aperto varchi enormi all’iniziativa della Chiesa».
Il vice presidente del Cnr, Roberto de Mattei ha organizzato un convegno contro l’evoluzionismo e uno sul fine vita in cui si attacca il protocollo di Harvard. Cosa ne pensa?
«De Mattei è libero di dire ciò che vuole ma rivestendo una carica istituzionale – perché il vertice del Cnr è nominato dal Governo – ha il dovere di rispettare l’opinione altrui e di non usare il denaro e il ruolo pubblico per fare propaganda a tesi che, per usare un eufemismo, hanno uno statuto scientifico molto debole.
«Ormai non c’è più confronto, si rifiuta il punto di vista dell’altro quando non lo si ritiene conforme alla propria particolare situazione. E’ il dato devastante introdotto dalla logica del berlusconismo che ha come regola la negazione dell’altro. Lei lo ricordava all’inizio: “tutti comunisti”, “tutti nemici della famiglia”; con questa premessa non è possibile guardare alla società italiana tenendo aperta la discussione. Il punto drammatico è la regressione culturale, che è anche regressione del linguaggio. Uno non si scandalizza moralisticamente della barzelletta di Berlusconi ma della degradazione dell’altro che c’è nel suo linguaggio, che poi è quello leghista.
«Non a caso si attacca un luogo di formazione del pensiero critico come la scuola pubblica: si vuole azzerare la capacità dei cittadini di valutare. Ma cattiva cultura produce cattiva politica, ed è ciò che stiamo vivendo. Anche per questo quando Donzelli mi ha proposto di rimettere in circolazione quel libretto aggiornandolo ho accettato. In una altra situazione avrei detto no, ci sono molti materiali. Ma oggi si va perdendo anche la memoria dei fatti elementari. Il Premier, per esempio, lamenta di non poter fare provvedimenti.
«C’è un travisamento della realtà istituzionale tanto che si imputa alla Costituzione e al Parlamento l’impossibilità di muoversi. Ma basta pensare che in un solo anno, il 1970, sono stati approvati l’ordinamento regionale, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, le norme sulla carcerazione preventiva, in sequenza rapidissima… E negli anni successivi le norme sulle pari opportunità sul lavoro, l’aborto, la riforma dello stato di famiglia. C’era una cultura politica e in Parlamento si andava per discutere davvero. Non mi meraviglia che un periodo come quello, in cui si attuava la Costituzione per i diritti e le libertà, oggi venga demonizzato».
MicroMega, 23 giugno 2017 (c.m.c)
Stefano Rodotà è stato uno strenuo difensore della Costituzione, di cui era un profondo conoscitore. Ha attraversato il suo tempo con saldissimi princìpi di giustizia sociale e laicità ed è stato al tempo stesso capace di grande modernità, con un’attenzione costante ai diritti civili e alle possibilità e ai rischi delle nuove tecnologie.
Nel secondo dopoguerra il dibattito sui limiti della scienza
e della tecnologia era strettamente legato ai timori di distruzione
del genere umano legati alla bomba atomica. Oggi le nuove sfide sono quelle del postumano, in cui la ‘soglia’ dell’umano viene travalicata aprendo certamente grandi possibilità ma ponendo anche nuovi, complessi interrogativi. Ed è sul terreno del diritto
che si pongono le sfide più importanti: i princìpi di eguaglianza
e dignità devono essere il faro per rimanere umani.
1. Quando, nel 1950, Norbert Wiener pubblica le sue riflessioni su cibernetica, scienza e società, sceglie come titolo L’uso umano degli esseri umani. In queste parole troviamo qualcosa che va oltre la storica consapevolezza dello scienziato per le conseguenze della sua ricerca. Vi è l’eco di un tempo cambiato, e non solo per la percezione lucida di quel che la tecnologia avrebbe determinato e che lo induce a una pionieristica riflessione sui rapporti tra l’umano e la macchina. Siamo a ridosso della seconda guerra mondiale e Wiener è tra gli scienziati più consapevoli dei rischi di una militarizzazione della scienza, tanto che rifiuta ogni finanziamento legato a queste finalità, ogni coinvolgimento in simili ricerche. Negando l’innocenza della scienza, nel 1947, in una lettera intitolata «A Scientist Rebels», ribadisce il suo rifiuto di incoraggiare «the tragic insolence of the military mind», che può determinare appunto usi inumani degli esseri umani, con un riferimento esplicito alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. La riflessione sui rapporti tra scienza e società viene così legata alla responsabilità per gli effetti della ricerca scientifica e tecnologica, e proiettata nel futuro.
Sarà Günther Anders, mettendo al centro della sua riflessione proprio la bomba atomica, a cogliere nel 1956 la radicalità di questo passaggio, chiedendosi nel suo libro più noto se L’uomo è antiquato. E scrive: «Come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si “trascende” sempre di più – e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale».
Questo congedo dall’umano era cominciato trent’anni prima, quando Julien Huxley, al quale si attribuisce l’invenzione del termine «transumanismo», aveva concluso nel 1927 le sue riflessioni dicendo che «forse il transumanismo servirà: l’uomo rimarrà uomo, trascendendo però se stesso e realizzando così nuove possibilità per la sua propria natura umana». Il «trascendere» di Huxley ritorna in Anders, ma nelle ricerche successive l’ancoraggio sicuro nel rispetto della «natura umana» sembra svanire, comunque viene respinto sullo sfondo.
Nelle definizioni più recenti si parla di transumanismo o di postumano con riferimento alla «tecnologia che permette di superare i limiti della forma umana» o, più enfaticamente, al «movimento intellettuale e culturale che afferma la possibilità e la desiderabilità di migliorare in maniera sostanziale la condizione umana attraverso la ragione applicata, usando in particolare la tecnologia per eliminare l’invecchiamento ed esaltare al massimo le capacità intellettuali, fisiche e psicologiche». Postumano è inteso come «meglio dell’umano». Ma queste incondizionate aperture, di cui si vorrebbe l’immediata traduzione istituzionale in un «diritto alla tecnologia», rischiano proprio di eludere la questione pregiudiziale dell’uso umano degli esseri umani.
2. Non siamo privi di princìpi di riferimento, non abbiamo di fronte a noi una tabula rasa, quando affrontiamo oggi un tema così impegnativo, e comunque ineludibile. L’attenzione deve di nuovo essere rivolta al cruciale passaggio dell’ultimo dopoguerra, quando la riflessione sull’arma atomica venne accompagnata da quella, altrettanto sconvolgente, imposta dalla rivelazione dell’estremo uso inumano degli esseri umani avvenuto con la Shoà e con la sperimentazione medica di massa sulle persone, trasformate in cavie umane, come risultò dai processi a carico dei medici nazisti.
Dagli atti di quei processi Marco Paolini ha tratto uno straordinario spettacolo, intitolato Ausmerzen, parola che descrive la pratica di abbattere i capi più deboli in occasione della transumanza delle greggi. Una pratica codificata in particolare dal decreto firmato da Adolf Hitler il 7 dicembre 1941, che prevedeva che ebrei, rom, omosessuali, dissidenti politici catturati nei paesi occupati dalle truppe naziste sarebbero stati trasferiti in Germania, e lì sarebbero scomparsi «nella notte e nella nebbia». Qui viene sinistramente evocato l’Oro del Reno di Richard Wagner, quando Alberich indossa l’elmo magico, si trasforma in colonna di fumo e scompare cantando «Notte e nebbia, non c’è più nessuno». Ma ciò che scompare sono gli esseri umani, non più persone ma oggetti, disponibili per il potere politico e il potere medico.
Una reazione a questo esercizio del potere venne affidata nel 1946 al codice di Norimberga, un insieme di princìpi che si apre con l’affermazione «il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario». È una sorta di rinnovato habeas corpus, che sottrae al medico il potere fino ad allora tutto discrezionale sul corpo del paziente, limitato solo da quel giuramento di Ippocrate che proprio i medici nazisti avevano tradito. Si è detto giustamente che così nasceva un nuovo soggetto morale, che l’umano riceveva un suo essenziale riconoscimento.
Ma la risposta più radicale, e più profonda, si trova nelle parole conclusive dell’articolo 32 della Costituzione italiana: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Viene così posto al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato.
Siamo di fronte a una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, a una rinnovata autolimitazione del potere. Viene ribadita, con forza moltiplicata, la promessa della Magna Charta. Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale «in nessun caso» si può mancare di rispetto. Il sovrano democratico, un’assemblea costituente, rinnova a tutti i cittadini quella promessa: «Non metteremo la mano su di voi», neppure con lo strumento grazie al quale, in democrazia, si esprime legittimamente la volontà politica della maggioranza, dunque con la legge. Anche il linguaggio esprime la singolarità della situazione, poiché è la sola volta in cui la Costituzione qualifica un diritto come «fondamentale», abbandonando l’abituale riferimento all’inviolabilità.
3. Autodeterminazione della persona e limitazione dei poteri esterni segnano così la via da seguire perché l’umano possa essere rispettato in quanto tale, sottratto alle pulsioni che vogliano cancellarlo. Sono criteri ancor oggi adeguati o hanno bisogno d’essere ulteriormente articolati e approfonditi per poter fronteggiare le nuove sfide continuamente poste dalle dinamiche della tecnoscienza?
Prima di cercare una risposta a questo interrogativo, tuttavia, è bene riflettere sul modo in cui la tecnologia viene oggi nominata, anche per gli oggetti di comune utilizzazione. Si parla, per esempio, di «smartphone». Compare la parola «intelligente». E questo non è un dettaglio, un’indicazione di poco conto, perché si descrive un passaggio – quello da una situazione in cui l’intelligenza era riconosciuta soltanto agli umani a una in cui comincia a presentarsi come attributo anche delle cose, di oggetti di uso quotidiano.
Entriamo così nella dimensione dell’intelligenza artificiale, della progressiva costruzione di sistemi in grado di imparare, e così dotati di forme di intelligenza propria. Una prospettiva che inquieta alcuni tra i protagonisti del mondo della scienza e della tecnologia – da Stephen Hawkins a Bill Gates, da Elon Musk a Jaan Tallin – che esasperano i rischi di un’evoluzione che porterebbe a creare sistemi dotati di un’intelligenza che li metterebbe in condizione non solo di creare nuove simbiosi tra uomo e macchina, ma di sopraffare e sottomettere l’intelligenza umana. Si è giunti a dire che si sta «evocando un demone», che ci si avvicina pericolosamente a quella che sarebbe «l’ultima invenzione dell’uomo», dunque a un rischio ben maggiore di quello determinato dalla bomba atomica.
Quattrocento scienziati hanno discusso questa prospettiva. In un documento non catastrofista, si mette in evidenza la crescente apparizione di sistemi autonomi, veicoli autonomi, forme autonome di produzione, armi letali autonome. Ma autonomia rispetto a che cosa? Il criterio di comparazione è chiaro: rispetto a una situazione nella quale le decisioni sono affidate alla consapevolezza e alla indipendenza delle persone, e quindi alla loro responsabilità. Ora, invece, l’autonomia sembra abbandonare l’umano e divenire carattere delle cose, ponendo problemi concreti di responsabilità civile (chi risponderà dei danni provocati da un’auto senza conducente?), privacy (quali garanzie di fronte a una continua e capillare raccolta delle informazioni personali sempre più facilitata, ad esempio, dall’impiego di droni?), futuro del lavoro (sono annunciate fabbriche interamente robotizzate), legittimità dell’uso di sistemi di armi letali (prevedere almeno una moratoria per quanto riguarda il loro impiego, considerando anche l’eventualità di un loro divieto, come già si è fatto per le armi chimiche o batteriologiche?).
In questo modo di affrontare le molteplici questioni poste dalle ricerche e dalle concrete innovazioni legate dall’intelligenza artificiale si coglie un bisogno di innovazione che investe direttamente la dimensione della regola giuridica. Se il tempo a venire è descritto come quello della «nostra invenzione finale: l’intelligenza artificiale e la fine dell’età umana», quale spazio rimarrebbe per quell’attività propriamente umana che consiste nell’agire libero e nel dare regole all’agire? Scompariranno i diritti «umani», e con essi i princìpi di dignità ed eguaglianza, o verranno estesi ad altre specie viventi e anche al mondo delle cose?
Nel ricostruire la dimensione del postumano si insiste sull’assoluta libertà della ricerca scientifica e sull’incondizionato riconoscimento del diritto alla tecnologia, specificato a livello individuale come «libertà morfologica», come diritto all’uso legittimo di tutte le opportunità che l’innovazione scientifica e tecnologica mette a disposizione delle persone. Nessun limite, dunque? Ma, discutendo proprio le tesi di Günther Anders, Norberto Bobbio metteva in evidenza come in esse la fondazione di una nuova morale assumesse un significato assolutamente prioritario e come i rimedi giuridico-istituzionali fossero condizionati dal raggiungimento di quell’obiettivo.
Questi due piani si sono via via sempre più intrecciati nel mutare di un contesto nel quale l’accento si è spostato dalla considerazione della sopravvivenza fisica dell’umanità, qual era implicata dal riferimento alla bomba atomica, a una sua trasformazione così radicale da portare a una sopraffazione dell’umano da parte del mondo delle macchine. Se, allora, si deve guardare nella direzione della costruzione di un contesto istituzionale coerente con la novità dei tempi, sono i princìpi del giuridico a dover essere presi in considerazione in quella loro particolare fondazione ad essi offerta dall’ultima fase del costituzionalismo – in primo luogo quelli di eguaglianza e di dignità, non a caso presenti, direttamente o indirettamente, nell’insieme della discussione che si sta svolgendo.
4. Questi temi sono entrati nel discorso pubblico con il diffondersi delle tecniche di riproduzione assistita e con l’emergere di ipotesi estreme, come quelle delle madri-nonne o della scelta di una coppia di lesbiche sordomute di ricorrere a quelle tecniche per avere figli anch’essi sordomuti. Ma ormai l’orizzonte si è assai dilatato, la definizione del campo del postumano non fa più riferimento soltanto alle innovazioni legate a biologia e genetica, ma è il risultato della convergenza di diverse discipline e esperienze, che vanno dall’elettronica all’intelligenza artificiale, alla robotica, alle nanotecnologie, alle neuroscienze.
Molte trasformazioni sono già visibili e giustificano la considerazione del corpo come «un nuovo oggetto connesso», addirittura come una «nano-bio-info-neuro machine», richiamando quell’«homme machine» di cui nel Settecento parlavano La Mettrie e D’Holbach. Si individua così una nuova dimensione dell’umano, spesso rappresentata come un campo di battaglia dove si combattono visioni inconciliabili. Le trasformazioni assumono così un valenza qualitativa inedita, anche se di esse possono essere rintracciate ascendenze persino sorprendenti, come in quelle Magnalia naturae, che Francis Bacon nel 1627 pone in appendice alla Nuova Atlantide, indicando le prospettive aperte dalla scienza: «prolungare la vita; ritardare la vecchiaia; guarire le malattie considerate incurabili; lenire il dolore; trasformare il temperamento, la statura, le caratteristiche fisiche; rafforzare ed esaltare le capacità intellettuali; trasformare un corpo in un altro; fabbricare nuove specie; effettuare trapianti da una specie all’altra; creare nuovi alimenti ricorrendo a sostanze oggi non usate».
Oggi si discute molto di realtà «aumentata», considerando il modo in cui l’elettronica trasforma l’ambiente in cui viviamo, e noi stessi. Ma Bacon, a ben guardare, ci parlava già di un uomo «aumentato», e questa è la terminologia alla quale ricorrono i tecnologi. Si entra così nel campo dello «human enhancement», di un potenziamento della condizione umana grazie all’eliminazione di vincoli naturali e culturali resa possibile dalla scienza, con un’estensione delle opportunità di vita.
Un uomo aumentato, o spossessato di quei tratti dai quali riteniamo che l’umanità non possa essere separata? Se spostiamo lo sguardo dalle premonizioni del passato alle ipotesi di oggi, ci imbattiamo in anticipazioni profetiche e promesse allettanti. Verrà un giorno, dicono i più radicali tra i transumanisti, in cui l’uomo non sarà più un mammifero, si libererà del corpo, sarà tutt’uno con il computer, dal suo cervello potranno essere estratte informazioni poi replicate appunto in un computer, e potrà accedere all’immortalità cognitiva e l’intelligenza artificiale viene presentata come quella che ci libererà dalle malattie e dalla povertà, dandoci una pienezza dell’umano, liberato dalle sue miserie. Ma questo «meglio dell’umano» può esigere un prezzo elevato, l’abbandono di consapevolezza e indipendenza delle persone, facendo assumere al postumano le sembianze di un’ideologia della tecnoscienza.
5. Ma già viviamo l’eclisse dell’autonomia della persona nel tempo del capitalismo «automatico». Grazie a un’ininterrotta raccolta di informazioni sulle persone, la costruzione dell’identità è sempre più affidata ad algoritmi, sottratta alla decisione e alla consapevolezza individuale. Possiamo dire che stiamo passando da Cartesio a Google. Non si può parlare dell’identità con le parole «io sono quello che io dico di essere», bensì sottolineando che «tu sei quel che Google dice che tu sei».
Partendo da questa constatazione, la persona viene conosciuta e classificata, la sua identità è affidata ad algoritmi e tecniche probabilistiche, si instaura una sorta di determinismo statistico per quanto riguarda le sue future decisioni, sì che la persona, declinata al futuro, rischia d’essere costruita e valutata per sue possibili propensioni e non per le sue azioni. Così, la separazione tra identità e intenzionalità, oltre a una «cattura» dell’identità da parte di altri, conferma una tendenza verso un progressivo allontanarsi dall’identità come frutto dell’autonomia della persona. Diventiamo sempre più «profili», merce pregiata per un mercato avido di informazioni, e sempre meno persone. Si appanna, fino a scomparire, la forza dell’umano nella costruzione del sé, ed è faticosa la ricerca di vie per reinventare l’identità nel tempo della tecnoscienza.
Sono continui gli scambi tra l’umano, il postumano e un mondo delle cose che manifesta una crescente autonomia. Non è senza significato il passaggio dall’internet 2.0, quello delle reti sociali, all’internet 3.0, l’internet delle cose. E il mondo delle cose è trasformato dalla presenza variegata dei robot, sempre meno riferibili alla sola dimensione fisica. Compaiono robot virtuali, appunto gli algoritmi che consentono il funzionamento dei computer che governano determinate attività, e robot sociali, che sarebbero poi quelli ai quali deve essere già riconosciuta «una piccola umanità». Piccola come unica possibilità o primo passo verso un’integrale «umanità» della macchina?
L’umano si distribuisce, esce dall’area che culturalmente gli era stata attribuita, il mondo delle cose si anima, e così a qualcuno sembra che debba essere certificata addirittura l’eclisse definitiva di quello che abbiamo chiamato umanesimo. Una nuova manifestazione di quel conflitto tra le due culture di cui tanto si parlò anni fa? Si annuncia piuttosto una passaggio radicale. Non solo l’assunzione di sembianze di macchina da parte dell’umano. Ma la creazione di sistemi artificiali in grado di imparare, dotati di una forma di intelligenza propria che li metterebbe in grado di sopraffare l’intelligenza umana, di creare una simbiosi macchina/uomo influente sulla stessa evoluzione della specie.
Due situazioni diverse, che tuttavia hanno in comune il problema della soglia, superata la quale si passerebbe da una dimensione all’altra. E in questo intreccio tra dati del presente e proiezioni nel futuro si colloca la faticosa costruzione di un contesto di regole e princìpi, di una RoboLaw in grado di massimizzare i benefici della seconda rivoluzione delle macchine.
Una nuova forma sociale si sta manifestando e, com’è già avvenuto in passato, i suoi effetti vengono subito misurati sul rapporto tra condizione postumana e destino del lavoro. Una società liberata dal lavoro o insidiata da più profonde servitù? Esclusioni crescenti o un «fully automated luxury communism»? Queste domande rinviano a un interrogativo più radicale, che si manifesta sempre più esplicitamente nelle discussioni: queste trasformazioni avvengano all’insegna del profitto o dell’interesse della persona? Per affrontare questo problema, il riferimento non può essere cercato nell’intelligenza artificiale, ma in quella collettiva, dunque nella politica e nelle decisioni che questa è chiamata ad assumere. Il vero rischio, infatti, non è quello di una politica espropriata dalla tecnoscienza. È il suo abbandonarsi a una deriva che la deresponsabilizza, induce a concludere che davvero malattia e povertà siano affari ormai delegabili alla tecnica e non problemi da governare con la consapevolezza civile e politica.
Questa politica non può essere senza princìpi. Lo dimostra, ad esempio, la questione dello human enhancement, del potenziamento dell’umano. Tema tutt’altro che astratto, perché il corpo si presenta non solo come oggetto connesso, ma come destinatario di interventi sempre più invasivi. Un’invasività, peraltro, che non evoca soltanto rischi, ma descrive recuperi di funzioni perdute, accesso a opportunità nuove, arricchimento dei legami sociali.
Chi governa questi processi? Torna qui il tema della libertà e dell’autonomia, essendo evidente che il potenziamento dell’umano non può risolversi nella disponibilità del corpo altrui, quali che siano le sue motivazioni, culturali, paternalistiche o autoritarie. Si è discusso della legittimità della decisione di una coppia di lesbiche sordomute di avere un figlio anch’esso sordomuto. Libertà di scelta, dunque, ma fino a quando le decisioni producono effetti nella sola sfera dell’interessato. E questo mette in discussione l’affermazione postumanista di un diritto incondizionato al ricorso a tutto ciò che la tecnoscienza mette a disposizione.
Il potenziamento dell’umano incontra poi il principio d’eguaglianza. Quale criterio governerà l’accesso alle opportunità offerte dalla tecnoscienza? La logica dei diritti o quella del mercato? Basta pensare al potenziamento dell’intelligenza e alle conseguenze di una situazione in cui questo potenziamento fosse legato alla disponibilità delle risorse necessarie per comprarlo sul mercato o a una situazione di privilegio sociale. Non basta più dire che così nascerebbe una società castale, perché storicamente questa forma sociale era fondata su una discriminazione culturale, economica, sociale, religiosa, che poteva sempre essere eliminata. Quando, invece, è implicato il corpo, nasce una distanza umana, come tale irredimibile. E la disparità delle intelligenze, accettata in nome del suo discendere da fatti naturali, non sarebbe più possibile nel momento in cui diverrebbe fatto socialmente determinato. Il legittimo rifiuto di questa deriva, che allontanerebbe l’umano dall’eguaglianza e dalle dignità, porterebbe a quelle che sono già state chiamate guerre tra umani e postumani.
Alla questione dell’eguaglianza si congiunge così quella della dignità, che ricompare quando le tecniche di potenziamento implicano forme di controllo esterno, permanenti o transitorie, quali possono essere quelle legate all’inserimento nel corpo della persona di dispositivi elettronici in grado di ricevere e trasmettere informazioni. Qui la regola non può essere, semplicisticamente, quella del consenso della persona interessata, essendo ben noti i condizionamenti della libertà di consentire. Quel che può essere ammesso è una modifica o un potenziamento transitorio, dunque reversibile in base alle decisioni dell’interessato.
Queste vicende dell’umano rinviano a una considerazione più generale che muove dall’osservazione secondo la quale l’umanità sembra uscita da due processi nelle apparenze opposti: l’ominizzazione, dunque l’evoluzione biologica, che ha portato all’emergere di una sola specie umana, con un processo di unificazione tendente all’universalismo; e l’umanizzazione, dunque l’evoluzione che si è articolata attraverso le culture, con un processo di diversificazione tendente al relativismo. Universalità e unicità, da una parte; differenziazione propria di ciascun gruppo umano, dall’altra. Nel tempo di un’innovazione scientifica che modifica le modalità della procreazione e costruisce integrazioni nuove del mondo umano con quello animale e con quello delle macchine, queste categorie non ci darebbero più una descrizione delle dinamiche umane adeguata alla profondità del cambiamento.
L’accento dovrebbe essere posto con intensità particolare proprio sull’ominizzazione, poiché la profondità del mutamento dei processi biologici e il loro intersecarsi con l’intero complesso delle innovazioni scientifiche e tecnologiche sembrano indicare una direzione che porterebbe a una diversificazione della specie umana, fino alla creazione di nuove specie. Nei processi di umanizzazione, al contrario, si colgono significativi segni di un movimento verso l’unificazione, di cui è testimonianza proprio il diffondersi di norme giuridiche comuni nei settori in cui l’umano è messo più visibilmente alla prova dalla tecnoscienza. Un radicale rovesciamento di prospettiva, dunque, che è stato anche descritto riferendosi alla speranza che l’umanità riuscirà a sostituire «la casualità del processo evolutivo con una auto-diretta re-ingegnarizzazione della natura umana». Processi che, comunque, ci portano fuori dalla logica dell’evoluzione darwiniana.
6. Possiamo fermarci alla contemplazione di questo orizzonte, che può apparirci smisurato? O dobbiamo guardare oltre, tornando a quell’uso umano degli esseri umani citato all’inizio? Su chi incombe la responsabilità di quest’uso umano? Infatti, anche se si accettasse la tesi una tecnologia tendenzialmente incontrollabile perché produttrice autonoma di fini sempre nuovi, non si potrebbe trascurare un’analisi delle forze concretamente all’opera, che orientano la ricerca, la sostengono e la finanziano, dando ai complicati tragitti tra umano e postumano la funzione di trasformare profondamente gli stessi rapporti sociali.
La diffusione della robotica, come già è avvenuto con l’elettronica, porta a una concentrazione del potere nelle mani di soggetti che ne controllano la dimensione tecnica. Con la sua esasperata enfasi sull’indefinita e libera espansione del potere individuale il progetto transumanista finisce con l’incarnare la logica di una competitività senza confini, di cui ciascuno è chiamato a essere protagonista. Se soccombe, è solo perché non è stato capace di cogliere le opportunità offerte dalla tecnoscienza. La nuova rivoluzione svela così un’anima antica e mostra inquietanti continuità con la logica di un incontrollato mercato concorrenziale.
L’umano, e la sua custodia, si rivelano allora non come una resistenza al nuovo, un timore del cambiamento o come una sottovalutazione dei suoi benefici. Si presentano come consapevolezza critica di una transizione che non può essere separata da princìpi nei quali l’umano continua a riconoscersi, aprendosi tuttavia a un mondo più largo e in continua trasformazione. Non è impresa da poco, né di pochi. Non basta evocare, per i rischi del futuro, la vicenda della bomba atomica, sperando che il tabù che l’ha accompagnata possa essere trasferito nei nuovi territori. L’impegno necessario esige un mutamento culturale, un’attenzione civile diffusa, una coerente azione pubblica. Parlare di una politica dell’umano, allora, è esattamente l’opposto delle pratiche correnti che vogliono appropriarsi d’ogni aspetto del vivente.
Corriere della sera
ADDIO A RODOTA'
IL GIURISTA DELLE BATTAGLIE
SUI DIRITTI CIVILI
di Maurizio Caprara
Quando tra gli italiani il computer si chiamava ancora cervello elettronico, gli venne di fatto affidato dal Partito comunista italiano una sorta di mandato non ufficiale a dare la linea in materia. Non aveva la tessera del Pci, era deputato dal 1979 di quella famiglia in parte laica e in parte intransigente per vocazione che aveva il nome di Sinistra indipendente, aveva scritto nel 1973 per «il Mulino» un testo intitolato «Elaboratori elettronici e controllo sociale». Sarà stata metà degli anni Ottanta e fece scattare in alcuni dirigenti di Botteghe Oscure una sorta di riflesso condizionato: sa più di noi sull’argomento, ci dirà se l’informatica pone problemi per la libertà e in quale misura apre nuove strade. Cambierà i meccanismi della democrazia? Votare con schede elettroniche ci esporrebbe più a brogli o a occhiuti grandi fratelli orwelliani?
Talvolta questo atteggiamento di delega, di affidamento della ricerca del pensiero considerato più giusto era riservato dai comunisti, su questioni settoriali, agli intellettuali «rossi ed esperti». Ma Stefano Rodotà, nato a Cosenza, morto ieri a 84 anni, padre di Maria Laura, confinava con quel mondo senza rientrare in quel genere di intellettuali. È riuscito a essere di sinistra, anche molto di sinistra, senza che la sua personalità pubblica avesse una connotazione «rossa». Aveva avuto trascorsi radicali, è stato espressione di una laicità liberal-democratica intrecciata con elementi di socialismo. Ed è stato forse questo impasto a frenarlo dal rientrare nel classico rigore, e in una certa rigidità, della tradizione comunista.
Giurista in grado di trattare di diritto penale quanto di diritto costituzionale, garantista ai tempi delle leggi antiterrorismo, risoluto fino al puntiglio nel sostenere le proprie tesi politiche e allo stesso tempo reso morbido da un incedere e una voce tutt’altro che aggressivi, Rodotà, da esterno, contribuì a proporre a Botteghe Oscure una teoria dello Stato della quale il partito aveva bisogno. Nel suo caso, una teoria imperniata sulle libertà.
Nato rivoluzionario, consolidatosi poi nell’edificazione della Repubblica costituzionale, il Pci della fascia di dirigenti trenta-quarantenni legati ad Achille Occhetto avvertiva nella seconda metà degli anni 80 un bisogno di aggiornare il rapporto con le istituzioni impostato da Palmiro Togliatti. Quello lo si sarebbe potuto riassumere in rispetto verso liturgie dell’amministrazione dello Stato e in sostanziale capacità di influenza sui suoi meccanismi anche stando all’opposizione. Occhetto si sporgeva a prendere le distanze dal cosiddetto «consociativismo» che permetteva al partito di essere artefice di decisioni comuni con la Democrazia cristiana. Rodotà, calcando l’accento sulle libertà di scelta dei cittadini, forniva dall’esterno qualcosa di parallelo e diverso da quello che, dentro al partito, avevano maturato due capiscuola contrapposti: il patriarca della sinistra comunista Pietro Ingrao, proiettato nell’evocazione di una democrazia diffusa e «di massa», e il riformista Giorgio Napolitano, attento a spingere Botteghe Oscure verso orizzonti europei e socialdemocratici superando la tradizione comunista.
Intellettuale prestato alla politica per modo di dire — fu nel 1994 che uscì dalla Camera per tornare a tempo pieno allo studio — il professore di Diritto civile aveva una funzione di mente giuridica in quella rete senza stemma e senza inni che era il cosiddetto «partito di Eugenio Scalfari», il fondatore di Repubblica del quale Rodotà era collaboratore con la moglie Carla. Occhetto nel 1989 lo volle ministro della Giustizia e dei diritti dei cittadini nel «governo ombra» messo in piedi per dare al Pci un’aria più britannica prima di trasformarlo in Partito democratico della sinistra, formazione della quale Rodotà fu presidente del Consiglio nazionale.
Due sono stati i suoi bersagli in quegli anni. Francesco Cossiga da presidente della Repubblica: sulle riforme istituzionali e sulla struttura anticomunista Gladio, il giurista di sinistra gli attribuì atteggiamenti da «fasi che annunciano o precedono un colpo di Stato». Il presidente lo ricambiava con sfottò extra-protocollari, come il far sapere di prepararsi a regalargli un paio di pantaloni tirolesi di pelle con fondelli (per presa) rinforzati. L’altro obiettivo di Rodotà, Silvio Berlusconi.
Dal 1997 al 2005, la carica di Garante della privacy. Fuori dalla Camera nella quale era stato vicepresidente e capogruppo, al professore non sono mancate opportunità di ruoli pubblici. Fino all’autentica riscossa sui telegiornali quando nel 2013 venne candidato dai 5 Stelle al Quirinale, traguardo non raggiunto. Rodotà osservò sul Corriere che uno sconfitto era Beppe Grillo, al quale sconsigliava poi una campagna anti-europeista. Il capo dei 5 Stelle gli diede dell’«ottuagenario miracolato dalla Rete, sbrinato di fresco dal mausoleo». Pagina mesta. Incrocio tra due Italie, tra due stili. Che oggi val la pena di ricordare soltanto perché di Rodotà evidenzia autonomia e libertà di pensiero.
il manifesto
UN COMPAGNO,
CHE FU SUBITO PARTE DI NOI SINISTRA
di Luciana Castellina
Perché Stefano non risultò mai esterno e la sua diversità fu quella che Eduard Said ha chiamato «un aiuto fondamentale alla critica di se stessi»
Sapevo, sapevamo tutti, che Stefano era malato da tempo. Ma poiché, sebbene non con la frequenza di sempre, continuava a scrivere e a partecipare, alla fine abbiamo pensato – o ci siamo lasciati illudere dall’idea – che la cosa non fosse grave.Qualche settimana fa era seduto nella fila davanti a me al teatro Argentina per vedere l’ultima opera di Mario Martone. Non posso credere, non ci riesco, che non sia più con noi.
Come parlare di Stefano Rodotà, come ricordarlo, spiegarlo ai giovanissimi che certo lo conoscevano di fama, ma che non possono capire il significato della sua presenza politica in questo ultimo mezzo secolo, nel quale ha giocato un ruolo qualitativamente diverso da ogni atro protagonista di questo tempo, assolvendo ad una funzione essenziale? Una funzione storica. Mi spiego: Stefano Rodotà non era comunista, aveva una formazione diversa da quella del Pci e dalla nostra de Il Manifesto; ma di sinistra.
Qualcuno ha sempre detto di lui che era un liberal democratico, non lo so se era così, era certo un grande giurista ma io/noi l’abbiamo sempre sentito compagno, nel senso più pieno che occorre dare a questa parola. Era entrato nelle nostre vite attraverso quella speciale figura che il Pci nella sua epoca migliore aveva inventato: gli eletti nelle proprie liste non appartenenti all’organizzazione,i c.d. «indipendenti di sinistra». Fu una grande idea, perchè molti di loro ci portarono una folata di nuova e utile cultura. Ma con Stefano fu diverso: ci portò un contributo essenziale alla correzione del nostro modo di essere comunisti. Perché non risultò esterno, fu subito parte di noi, la sua diversità fu quella che Eduard Said ha chiamato «un aiuto fondamentale alla critica di se stessi».
Dovremo, vorrei io stessa, scrivere e spiegare molto di più su chi sia stato per noi tutti Stefano Rodotà. Non posso certo farlo ora perché si tratta di una riflessione storica che non può svilupparsi nei 30 minuti che dall’annuncio della sua scomparsa mi sono dati ora per scrivere. Non posso non aggiungere, tuttavia, il ricordo personale di un percorso che mi ha dato il privilegio di lavorare con Stefano gomito a gomito.
Nel 1980, nel tempo della crisi del compromesso storico e prima del pieno dispiegarsi del craxismo, come risultato di un appello firmato da Claudio Napoleoni e Lucio Magri, nasce Pace e guerra, prima mensile e poi settimanale, con l’intento di dar voce ad un’area di sinistra che tentò ancora un’incontro fra sinistra socialista, comunisti critici del Pci e area della cosidetta “nuova sinistra”,il Pdup innanzitutto. Direttori di Pace e Guerra furono Claudio Napoleoni, Stefano Rodotà e la sottoscritta ( più tardi anche Michelangelo Notarianni).
Con Stefano in particolare abbiamo lavorato insieme quotidianamente per quasi cinque anni, con una redazione fantastica di cui voglio ricordare fra i tanti nomi solo qualcuno che oggi sembra più eterogeneo: Gianni Ferrara ma anche Paolo Gentiloni, Massimo Cacciari, Giuliana Sgrena e Aldo Garzia. ( Ma anche Carla Rodotà, contributo prezioso al nostro lavoro). E una inedita, larghissima partecipazione della socialdemocrazia europea che in quegli anni vide la prevalenza di una splendide leadership di sinistra. Il nostro tentativo fu sconfitto. Sappiamo tutti come e perché. Ma continuo a credere non inutile. Anche se il Pci, sciogliendosi in malo modo, e il Psi con l’avventura craxiana, seppellirono quel tentativo di alternativa.
Ho ricordato Pace e Guerra perché quella esperienza non è per me e per molti compagni solo un ricordo molto importante, ma perché a quel tentativo politico Stefano Rodotà ha coerentemente lavorato per tutta la vita, nelle sedi in cui si è via via trovato ad operare ( non ultima, per importanza, la «nostra» Fondazione Basso, di cui è stato Presidente). Non era utopia, illusione.
Era un obiettivo possibile.Anche recentemente: non ci siamo mai arrabbiati abbastanza per il fatto che la sua candidatura a presidente della Repubblica sostenuta dai Cinque Stelle ( per una volta non ambigua) e da SeL sia stata fatta cadere dal Pd.Ho la massima stima di Mattarella, ma Stefano Rodotà, proprio per la sua storia e la sua personalità, e nonostante i limitati poteri del Qurinale, avrebbe forse potuto contribuire ad evitare il disastro attuale della sinistra.
Ciao Stefano, siamo molto tristi. Un abbraccio a Carla e a Maria Laura.
il manifesto
UN UOMO DI SINISTRA,
AL FUTURO.
di Andrea Fabozzi
«Una grande civiltà. Stefano Rodotà fuori e dentro le istituzioni, per i diritti e i nuovi bisogni, la biopolitica e i beni comuni. Fino alla candidatura al Quirinale»
«Per conto mio, rimango quello che sono stato, sono e cercherò di rimanere: un uomo della sinistra italiana, che ha sempre voluto lavorare per essa, convinto che la cultura politica della sinistra debba essere proiettata verso il futuro. E alla politica continuerò a guardare come allo strumento che deve tramutare le traversie in opportunità».
Sono le ultime parole di un pezzo scritto da Stefano Rodotà, quando – era l’aprile di quattro anni fa – si trovò a dover rispondere a un attacco pubblicato sul giornale per il quale scriveva da quarant’anni e firmato dal fondatore del giornale. Eugenio Scalfari lo accusava di non essersi ritirato dalla corsa per il Quirinale nel momento in cui era tornato «disponibile» (e poi rapidamente eletto) Giorgio Napolitano.
La storia è nota, è la più recente e anche la più clamorosa delle tantissime percorse dal giurista morto ieri all’età di 84 anni. Parlamentare in legislature lontane (dal 1979 al 1992), punto di riferimento per generazioni di giuristi, Rodotà tra il marzo e l’aprile del 2013 si trovò a essere acclamato nelle piazze dai militanti del Movimento 5 Stelle. E non solo da quelli, anche se fu dei grillini l’iniziativa di candidarlo a presidente della Repubblica. Iniziativa malissimo digerita dal Pd, allora a guida Bersani. E «ci si dovrebbe chiedere – scriveva ancora Rodotà rispondendo a Scalfari – come mai persone storicamente di sinistra siano state snobbate dall’ultima sua incarnazione e abbiano, invece, sollecitato l’attenzione del Movimento 5 Stelle».
Ma anche l’attenzione di Grillo finì nell’acido degli insulti, appena il signore del Movimento fu toccato dalle puntualizzazioni del professore sulla non autosufficienza della rete. Dopo averlo candidato al seggio più alto e aver fatto scandire il suo nome nelle piazze, Grillo rapidamente lo degradò «a ottuagenario miracolato dalla rete», così dimostrando che i king maker non sono necessariamente all’altezza dei loro candidati. E per la verità Rodotà non aveva neanche vinto le «quirinarie» inventate da Grillo sul suo blog che – con una partecipazione scarsina – avevano incoronato Milena Gabanelli e Gino Strada prima di lui, però si erano ritirati. Dopo quella polemica Rodotà continuò a scrivere per Repubblica, anche se con meno frequenza e non sempre in prima pagina. Anche perché l’ultima battaglia del professore è stata quella contro la riforma costituzionale e la legge elettorale di Renzi, due leggi che invece il quotidiano fondato da Scalfari ha sostenuto.
Questo suo impegno per il no gli era costato l’accusa, per lui particolarmente insopportabile, di conservatorismo. Prima Renzi poi Boschi individuarono in Rodotà l’avversario perfetto durante tutto l’iter della riforma costituzionale e poi nel corso della campagna referendaria. Era lui il «professorone» per eccellenza, che insieme ad altri aveva firmato (sul manifesto) il primo l’appello contro i rischi di autoritarismo. E quanto fu felice il presidente del Consiglio quando gli fecero sapere che proprio Rodotà nel 1985 aveva avanzato con i deputati della Sinistra indipendente (con Gianni Ferrara, suo grande amico) una proposta di legge per il monocameralismo.
Fece presto Renzi a concludere che Rodotà aveva cambiato idea solo per antipatia verso di lui e la sua riforma costituzionale – e il professore dovette spiegargli che con la legge proporzionale (e i partiti) di trent’anni prima quella sua proposta di riforma aveva tutto un altro segno. «L’Italicum è una legge arretratissima», diceva Rodotà nelle assemblee di quei giorni, sempre attento a non perdere di vista la prospettiva del cambiamento. Qualche volta lo si vedeva intervenire con le stampelle: «Non sono un professore pigro».
Nella sua presenza politica quarantennale c’è sempre stata questa spinta all’innovazione. Civilista più e prima che costituzionalista, lo guidava l’assillo dei diritti e dei bisogni, specie quelli nuovi, da garantire e difendere.
Dalla rappresentanza sindacale – tenne un comizio a Pomigliano, davanti alla fabbrica Fiat che non voleva riconoscere la Fiom – all’acqua, decisivo il suo contributo al referendum del 2011, ai beni comuni: a Roma lo ricordano gli occupanti del teatro Valle e quelli del cinema America. La biopolitica, alla quale ha posto attenzione tra i primi, sempre con un atteggiamento profondamente laico anche rispetto all’invadenza del diritto: «La regola fissa è destinata a essere travolta», avvertiva tutte le volte in cui rispondeva sulle grandi questioni della vita e della morte.
Giurista di grande fama anche all’estero (ha insegnato in diverse università del mondo) Rodotà è stato tra gli estensori della carta di Nizza, la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. E poi è stato anche uno dei più attenti alle implicazioni della nuove tecnologie, sia come garante della Privacy (il primo quando fu istituita l’Authority nel 1997) sia più recentemente da presidente della commissione che, alla camera, ha scritto la carta dei diritti in internet.
«Alla mia età mi fa sinceramente piacere che qualcuno si ricordi di me», commentò con un filo di ironia la scoperta di essere il prescelto del blog di Grillo. In quei giorni in parlamento, senza il sostegno ufficiale del Pd, arrivò a raccogliere 250 voti dei grandi elettori; molti di più di quelli dei soli grillini. Ma la diciassettesima legislatura che poteva cominciare eleggendo Rodotà al Quirinale, era destinata a partire invece con la storica conferma di Napolitano per un secondo mandato. È questa legislatura, ormai avviata alla fine.
il manifesto
UN'EREDITA' PREZIOSA
di Norma Rangeri,
Caro professore, perché questo sei stato per tanti di noi, ora che ci lasci capiamo ancora di più quanto ci mancherai e quanto mancherai a tutto il paese. Nella nostra vita abbiamo conosciuto poche persone con il tuo profondo senso della democrazia.
Sarebbe riduttivo sostenere che hai insegnato molto agli italiani nelle battaglie in difesa dei diritti civili e sociali. Perché quel di più che ci hai trasmesso è stata l’importanza della parola «cittadino» accompagnata all’alto senso delle istituzioni. Il binomio cittadino – istituzioni ha caratterizzato il pensiero e l’insegnamento che tu, maestro di libertà, hai portato nella vita politica e culturale, dentro e oltre i confini nazionali.
Da questo punto di vista il tuo essere di sinistra ha marcato una differenza rispetto alla cultura marxista e a quella radicale che pure ha avuto grande importanza nella tua esistenza. Nella cultura marxista sei riuscito a infondere il valore fondamentale dei diritti civili che, ai tempi del Pci, erano praticamente sotto traccia. Invece al mondo radicale hai saputo trasmettere la necessità di impegnarsi anche per le lotte sociali.
Senso delle istituzioni, ruolo del cittadino, lotte per il lavoro, temi etici e diritti civili: tutto questo ti appartiene – e grazie a te ci appartiene, rendendoti perciò unico nella cultura democratica italiana.
Ma c’è un’altra cosa di cui sei stato interprete: il rispetto per l’altro. Nella politica nazionale questa disponibilità a capire le ragioni altrui è sempre stata una rarità perché hanno prevalso gli interessi di parte (e di partito), le lotte di potere, gli schieramenti… Da questi giochi preferivi restare lontano scegliendo di impegnarti sui valori, sui principi e sull’interesse generale.
Per tutte queste ragioni siamo convinti saresti stato un grande presidente della Repubblica, in particolare perché avresti difeso – in nome non di un passato storico, ma di una necessità per il presente e per il futuro – i fondamenti della Costituzione.
È con dolore che ti diciamo addio, caro professore, consapevoli del fatto che lasci una eredità culturale, giuridica, intellettuale e politica diventata bene comune per la sinistra e per la democrazia.
il manifesto
LA PASSIONE
DI UN MAESTRO DI VITA.
di Gaetano Azzariti
«Ciao Stefano. Con lucidità disegnava un futuro migliore e allo stesso tempo "possibile"»
Non è facile scrivere queste poche righe in un momento di profondo dolore per la scomparsa di un amico e di un maestro di vita. Stefano Rodotà non era solo il raffinato intellettuale e il protagonista di trent’anni di battaglie civili, era anche un uomo generoso e appassionato.
Il suo immenso carisma credo avesse molto a che fare con la passione che egli riusciva a trasmettere.
Affascinava e coinvolgeva Rodotà quando, con lucida razionalità, disegnava un futuro migliore e allo stesso tempo «possibile».
Ha iniziato ben presto a rappresentare il cambiamento.Lo ha fatto da studioso, quando giovanissimo ha contribuito in modo decisivo a far cambiare passo alla scienza del diritto civile. Erano gli anni ’60 del Novecento, quando uscirono le sue due prime monografie: una rivoluzione per gli studi del tempo.
Di fronte ad una cultura dei giuristi che ancora si attardava nel formalismo giuridico e faceva resistenza entro uno specialismo che relegava ai margini la costituzione repubblicana, ecco un giovane studioso che dimostrava la necessità del cambiamento. Oltre – e sopra – il diritto civile si staglia la costituzione, l’interpretazione giuridica non può che fondarsi su una legislazione per principi che pone al centro i diritti delle persone reali.
L’attenzione per i diritti ha segnato la vita di Rodotà. Non si è mai sottratto dinanzi alla difficoltà di affrontare certi temi. Dalla proprietà («il terribile diritto») ai beni comuni (una formulazione di cui oggi si abusa, alla quale Rodotà è riuscito per la prima volta e praticamente da solo a dare valore scientifico). Tutti temi trattati con realismo e mai dimenticando la materialità della dimensione dei diritti. In uno dei suoi libri più affascinanti «Il diritto di avere diritti» Rodotà indica la rotta agli studiosi di diritto che si riconoscono entro il progetto del costituzionalismo democratico e pluralista. Bisogna pensare ad un «costituzionalismo dei bisogni», scrive.
Dovremmo meditare a lungo la sua lezione, soprattutto in tempi come i nostri che appaiono dimenticare che è delle persone concrete che bisogna parlare.
Tra le ragioni che hanno portato Stefano Rodotà ad opporsi con grande coraggio e rigore all’ultimo tentativo di cambiare la costituzione v’è sicuramente la percezione che il revisionismo dominante non avesse nulla a che fare con i diritti dei cittadini, semmai ne aumentava la distanza, guardando solo alle ragioni del potere e non invece a quelle dei governati. L’ultima «Carta» di valore costituzionale che è stata scritta porta la sua firma. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel 2000.
È il catalogo più ampio mai scritto dei diritti e il più impegnato tentativo di far mutare rotta all’Europa: «dall’Europa dei mercati all’Europa dei diritti», come ebbe a scrivere. Dopo la sua approvazione l’Europa «ha voltato le spalle alla Carta» (sono ancora sue parole). Ancora una volta la politica si è dimenticata dei diritti. Ma, se i diritti diventano deboli spetta a nessun altro se non a noi difenderli. «il codice di questa impresa – scrive – ha un nome, e si chiama politica.
I diritti diventano deboli quando diventano preda di poteri incontrollati, che se ne impadroniscono, li svuotano e così, anche quando dichiarano di rispettarli, in realtà vogliono accompagnarli a un malinconico passato d’addio. I diritti, dunque, diventano deboli perché la politica li abbandona. E così la politica perde se stessa, perché in tempi difficili, e tali sono quelli che viviamo, la sua salvezza è pure nel suo farsi convintamente politica dei diritti, di tutti i diritti». La lotta continua e Rodotà continuerà a farci vedere la rotta. Sit tibi terra levis, Stefano.
il Fatto Quotidiano
SEMPRE DALLA PARTE GIUSTA,
QUINDI SEMPRE FUORI DA TUTTO
di Marco Travaglio
Un signore e un amico. Da tempestare ogni giorno per interviste, pareri,
consigli. E lui faceva i salti mortali per non farci mai mancare la sua voce
Marco, come sta tuafiglia? Dammi notizie!”. Stava già malissimo, il 5 giugno.
Eppure, appena lesse che la mia Elisa era rimasta schiacciata nella ressa di piazza San Carlo, mi telefonò per avere notizie, con la solita voce squillante e calma, cantilenante e ottimista. Come se stesse benissimo. Stefano Rodotà era anche questo: un vero signore e un amico caro. Mio e del Fatto. Uno di famiglia, da tempestare ogni giorno per interviste, pareri, consigli. E lui ogni volta faceva i salti mortali,tra una conferenza e una galleria (era spesso in treno), per non farci mai mancare la sua voce. Fino all’ultimo, il 23 maggio, quando ci spiegò perché era giusto e doveroso mettere in pagina l'intercettazione dei due Renzi su Consip perché“di assoluto rilievo pubblico”.
Trovava sempre le parole, i toni, gli argomenti giusti. Quando immaginiamo a chi vorremmo somigliare, il primo che ci viene in mente è lui:un hombre verticalintransigente ma pacato, combattivo ma sereno, politico ma etico tanto da non sembrare nemmeno italiano. E quando sentiamo proprio il bisogno di invidiare qualcuno, pensiamo ancora a lui.
Un uomo sempre dalla parte giusta: quella della Costituzione (contro Craxi e gli altri corrotti di Tangentopoli, contro B. loro degno epigono, contro la Bicamerale di D'Alema&B., contro le presunte riforme scassa-Costituzione
di B. e poi di Renzi) e dunque della laicità,della legalità e dei diritti. E dunque, nel Paese più bigotto, corrotto e autoritario d’Europa, sempre fuori da tutto. Non credete ai politici e ai tromboni del cordoglio automatico e del lutto posticcio: a quelli Rodotà non piaceva, e ricambiava.
Il vuoto della sua scomparsa lo avvertiranno molti cittadini, ma i politici e
gl’intellettuali da riporto sentiranno solo un grande sollievo: una spina nel fianco in meno. Quand’era presidente del Pds e nel 1992 fu candidato alla presidenza della Camera, a sbarrargli la strada per conto della peggior partitocrazia fu Giorgio Napolitano. Lo stesso che gli fu naturalmente
preferito nel 2013,quando il popolo della Rete votò Rodotà fra i tre presidenti della Repubblica preferiti alle Quirinarie dei 5Stelle e, dopo le rinunce di
Gabanelli e Strada, Grillo lo candidò al Colle con l’appoggio di Sel e della
base del Pd. Un gesto che, se anche fosse l’unica cosa fatta dai 5Stelle in
tutta la loro storia, potrebbe già bastare e avanzare per non renderla vana.
Per qualche giorno gli eterni padroni d’Italia furono pervasi da
un brivido di terrore: ma come, un uomo colto e perbene che non si
può né comprare né ricattare, un nemico dei compromessi al ribasso,un cultore dei beni comuni, un innamorato della Costituzione e del popolo sovrano, insomma un “moralista”e“giustizialista”(lui, vero garantista a 24 carati) sul Colle? Ma siamo matti?
Quanti di noi,in questi quattro anni, hanno provato a immaginare come sarebbe l’Italia se il Parlamento avesse eletto lui: forse avremmo conosciuto la nostra prima rivoluzione, quella della Costituzione. Certo non avremmo rivisto al governo B., Alfano, Verdini e altre sconcezze. Certo non avremmo questa Rai di regime. Certo avremmo ancora lo Statuto dei Lavoratori. Certo il governo non avrebbe potuto truffare 3,3 milioni di cittadini col trucco dei voucher. L’ultima battaglia referendaria in difesa della Carta fu un onore e un privilegio, anche perché ci consentì di combattere al suo fianco e, tanto per cambiare un po’, vincere.
La sera del 2 dicembre, al teatro Italia di Roma, eravamo tutti insieme per dire che “La Costituzione è Nostra”. Stefano si alzò nel teatro gremito e fu sommerso dai cori“Presidente! Presidente!”. Sarebbe stato un perfetto capo dello Stato, ma anche un ottimo premier, ministro, giudice costituzionale. Tutte cariche dovute, dunque mai ottenute.Grazie, Stefano: sarai sempre il Presidente che non ci siamo meritati.
la Repubblica, 24 giugno 2017 (m.p.r.)
L'UOMO DEI DIRITTI
GUSTAVO ZAGREBELSKY
«Per me è un grande dolore. Per il nostro Paese è un grande vuoto». Il professor Gustavo Zagrebelsky parla di Stefano Rodotà, il giurista stimato e il compagno di tante battaglie a difesa della Costituzione. Nella sua voce c’è commozione e rammarico per un amico di meno.
EMMA BONINO “UN LAICO COERENTE
«Era un laico coerente, non di quelli a giorni alterni. Mancherà per la sua laicità, per le sue battaglie ma soprattutto per la sua coerenza». Emma Bonino, leader radicale, ex ministro degli Esteri, ricorda Stefano Rodotà con il quale ha avuto un dialogo mai interrotto. Rodotà affidò a lei nel 2012 il compito di parlare delle battaglie civili che hanno reso più moderna l’Italia al Festival del diritto di Piacenza, che aveva ideato.
DA BIOETICA A PRIVACY,
Le parole di Stefano Rodotà sono tante, quante ne servono a coprire l’incessante esplorazione in campi diversissimi. Ma non si può comprendere il suo dizionario autobiografico senza un lemma in particolare che ne riassume tutti gli altri. E questa parola è dignità. «Un termine che ha a che fare direttamente con l’umano », spiegava lo studioso. «Il rispetto della persona nella sua integrità».
IL GRAN LETTORE DI BALZAC
L’umanità di uno studioso diviso tra l’analisi realistica su come riuscire a migliorare la vita di tutti i cittadini e l’idea che non c’è vera giustizia senza amore per la gente.
a Repubblica Robinson, 18 giugno 2017 (c.m.c.)
Yona Friedman vive a Parigi, in una casa popolata di pupazzi, maschere, uccelli in legno che pendono dal soffitto, e dove per terra giacciono le sue installazioni confezionate con filo di ferro e legno flessibile.
Nel suo libro L’ordine complicato (Quodlibet, 2008), sembra esserci la chiave per capire come questo architetto novantaquattrenne, ebreo ungherese, professore in diverse università americane, concepisca il mestiere.
Un mestiere fatto di poche realizzazioni, molta creatività e molte riflessioni che hanno fatto di lui un guru. E molte sono le sue espressioni diventate celebri, come la “mobile architecture” o quelle consegnate ad altri suoi libri, da L’architettura della sopravvivenza (Bollati Boringhieri) all’ultimo, Tetti, che uscirà in Italia a luglio (Quodlibet). In Tetti, Friedman si misura con il tema a lui più caro: i modi per coinvolgere nell’architettura le persone che devono usufruirne e per rendere concreta la partecipazione, parola altrimenti avvolta in una cortina retorica.
A lui è dedicata una mostra che si apre il 23 giugno al Maxxi di Roma intitolata “Mobile Architecture, People’s Architecture” (a cura di Gong Yan ed Elena Motisi). Nella mostra, che si inaugura insieme a quelle sull’Italia di Zaha Hadid e sul Teatrino scientifico di Franco Purini e Laura Thermes, si ragionerà di questioni centrali nel lavoro di Friedman, il quale espone un adattamento della sua Ville Spatiale, una costruzione aerea che risale alla fine degli anni Cinquanta composta di abitazioni, strade e altre strutture progettate, appunto, da chi dovrebbe viverle. La mostra comprende bozzetti, installazioni, video e anche una sezione dedicata alla sua casa di Boulevard Garibaldi.
Friedman che cos’è l’architettura della sopravvivenza?
«L’idea nasce dalla ricerca del modo migliore per ridurre l’impatto negativo sull’ambiente di una costruzione, salvaguardando però un buon livello tecnologico e mantenendo i costi il più possibile bassi. È indispensabile riscoprire pratiche compatibili con un modo di vita più sobrio».
Lei ha raccontato di aver maturato quest’idea dalle esperienze della guerra, quando era partigiano in Ungheria, e del dopoguerra.
«Ho visto cosa sono la miseria, le coabitazioni forzate e l’importanza dell’aiuto reciproco. Ma la povertà è la condizione in cui vive oggi la maggior parte della popolazione mondiale. Negli anni Settanta ho visitato l’India e sono rimasto impressionato dalle tecniche di sopravvivenza negli insediamenti poveri della città. Ho imparato che il problema dell’abitare non è relativo alla casa ma ai mezzi di sussistenza. Il cibo e il tetto, insomma. Ho provato a sviluppare questa idea nei libri destinati ai giovani architetti occidentali».
Ma l’architettura contemporanea è orientata a incontrare i bisogni delle persone o solo di pochi privilegiati?
«La nostra attenzione deve essere destinata ai bisogni delle persone, in particolare di quelle più povere. Questo, almeno, è evidente per me, ed è evidente che questi bisogni non sono diversi in Europa come in Asia o in Africa».
Lei insiste per la partecipazione delle persone ai processi di costruzione. Ma concretamente questo come può avvenire?
«Il coinvolgimento degli abitanti sta in primo luogo nel lasciar decidere a loro quali problemi sono importanti. In secondo luogo, devono poter decidere quali tecniche sperimentare. E quindi occorre lasciarli fare e consigliare quando necessario. Ma la maggior parte degli architetti è gelosa del proprio ruolo e vuole mantenere lontano dalla progettazione chi abiterà l’edificio».
Come ha concepito l’idea della “Ville Spatiale”?
«Ho immaginato una situazione in cui le persone potessero progettare liberamente edifici a più piani senza imporre vincoli. Un modo per vedere come un’architettura pensata da chi deve abitarla alimenti l’improvvisazione».
E dove nasce la “mobile architecture”?
«È la base teorica della “Ville Spatiale” perché le scelte degli abitanti possono cambiare periodicamente. E dunque l’architettura deve essere flessibile, assecondando i bisogni che via via mutano».
Molti suoi colleghi vanno alla ricerca di effetti spettacolari. Cosa pensa delle “archistar”?
«Il termine “archistar” è esattamente l’opposto del mio mondo concettuale. Potremmo non escludere che gli architetti diventino artisti, ma l’architetto-artista è un equivoco. Io non penso che l’architettura come arte voglia dire realizzare su larga scala mediocri sculture. Gli architetti-artisti dovrebbero essere “scultori del vuoto”, perché l’architettura differisce dalla scultura in quanto la osservi dall’interno. E gli interni sono più importanti dell’esterno, perché è l’interno ad essere usato. L’esterno è solo il segno dello status sociale del proprietario».
Nella gelida Europa della Restaurazione, mentre l’ancien régime prova a soffocare la marea populista – così la chiamerebbero oggi – scatenata dalla Rivoluzione Francese, viene alle stampe nel cuore di Londra un’opera a suo modo sconvolgente, i Principi di Economia Politica di David Ricardo.
Era il 19 aprile 1817. «Il sistema di Ricardo è un sistema di discordie che tende a generare ostilità tra le classi sociali e tra le nazioni» tuonerà nel 1848 l’economista americano Carey, che denuncia Ricardo come il padre del comunismo ed il suo libro come «un vero e proprio manuale del demagogo, che punta al potere attraverso ruralismo, guerre e saccheggi». Ma come ha potuto un ricco borghese liberale, quale Ricardo era, farsi alfiere della lotta di classe?
Il «grande significato di Ricardo per la scienza», afferma Marx, sta proprio nell’aver spinto l’analisi oltre la superficie delle apparenze fino a svelare la «effettiva fisiologia della società borghese». Alla superficie del sistema economico possiamo vedere solo i prezzi delle merci, che ci offrono un’immagine opaca delle relazioni economiche sottostanti: le classi sociali si contendono infatti le quote di un prodotto il cui prezzo varia con la suddivisione stessa, cosicché appare possibile immaginare che gli interessi di capitalisti, lavoratori e proprietari terrieri possano convergere intorno all’obiettivo comune della crescita, una crescita capace di accontentare tutti – alimentando contemporaneamente profitti, salari e rendite.
Nelle parole ironiche di Marx, «se poi per caso si viene alle mani, come risultato finale di questa concorrenza tra terra, capitale e lavoro si avrà che, mentre essi litigavano sulla ripartizione, hanno totalmente accresciuto con la loro rivalità il valore del prodotto, a ognuno ne tocca una fetta più grande, cosicché la loro concorrenza stessa non appare che come la stimolante espressione della loro armonia».
Questo suggeriva l’allora indiscussa teoria del valore di Adam Smith, e questo ripetevano gli economisti conservatori come il reverendo Malthus, impegnati ieri come oggi a difendere gli interessi dell’establishment attraverso una narrazione che li descrive come interessi generali e non particolari: se esiste un bene comune (la crescita), il conflitto di classe appare come un elemento deleterio per la società nel suo complesso, perché impedisce la cooperazione pacifica tra le sue diverse componenti.
All’epoca di Ricardo, l’establishment era rappresentato dai grandi proprietari terrieri, ma una borghesia capitalistica in ascesa stava conquistando sempre maggiore potere economico e politico. Sarà il conflitto tra queste due classi a scatenare il dibattito scientifico tra Ricardo e Malthus, dibattito che sfocerà nella redazione dei Principi.
Malthus stava conducendo una battaglia in difesa dei dazi sulle importazioni di cereali, che avrebbero mantenuto elevato il prezzo dei principali prodotti agricoli (eredità delle guerre napoleoniche) garantendo così ampi guadagni alle rendite.N ella narrazione di Malthus, neanche a dirlo, tutti avrebbero usufruito dei guadagni derivanti dai dazi perché, argomentava il reverendo, i maggiori consumi dei proprietari terrieri avrebbero a loro volta arricchito l’intera società.
Chiave di volta del ragionamento di Ricardo è la relazione inversa tra i salari e profitti: dal momento che i lavoratori consumano quanto appena sufficiente alla loro sussistenza, il maggiore prezzo dei prodotti agricoli si trasferirà interamente sui salari facendoli crescere proporzionalmente, e quindi i profitti riceveranno una quota minore del prodotto.
Questa rappresentazione plastica delle relazioni tra le classi sociali mette a nudo il contenuto puramente politico del problema, svelando gli interessi particolari dei proprietari terrieri nel mantenimento dei dazi.
Nonostante avesse dimostrato la sua superiorità sul campo delle idee, Ricardo perderà la sua battaglia politica con Malthus: i dazi e gli altri principali privilegi dell’aristocrazia terriera inglese resisteranno per oltre trent’anni agli attacchi della borghesia capitalistica inglese.
Tuttavia, l’eredità di Ricardo andrà ben al di là del suo tempo, travalicando persino gli interessi della classe sociale a cui l’autore dei Principi apparteneva. Una volta strappato il potere all’aristocrazia terriera, infatti, la borghesia sarà chiamata in causa dal nascente proletariato, le cui aspirazioni troveranno una legittimazione e una spinta proprio in quello stesso paradigma teorico che aveva aperto la strada all’abbattimento dell’ ancien régime.
Possiamo ora comprendere i timori di Carey, secondo il quale «le opere di Ricardo sono un arsenale per anarchici e socialisti, per tutti i nemici dell’ordine borghese». Un arsenale di cui ignoriamo il potenziale ogni volta che rinunciamo ad interpretare l’economia a partire dal conflitto di classe che anima la nostra società, fuori dalla retorica pacificante del bene comune.
comune.info, 2 giugno 2017 (c.m.c.)
Fabrizio Silei e Simone Massi Il maestro Orecchio Acerbo editore, Roma 2017, p.48, € 15
È possibile e ha senso raccontare ai ragazzi di oggi la scuola di don Milani? Ci provano Simone Massi e Fabrizio Silei, in un libro che trovo utile e bello. Ho nominato l’illustratore per primo perché il segno che caratterizza Il maestro, edito da Orecchio Acerbo, arriva in primo luogo dalle immagini graffiate di Massi. Quelle pagine inchiostrate col nero delle vecchie serigrafie evocano un tempo lontanissimo dal nostro. Sono passati solo cinquant’anni, ma chi ricorda le case contadine senza bagno e luce elettrica, a cui si arrivava solo camminando per sentieri o strade bianche? Quali ragazzi possono immaginare quel buio e quella povertà, se non arrivano dal sud del mondo?
“La scuola sarà sempre meglio della merda”, disse Lucio che aveva trentasei vacche nella stalla. Non si può comprendere nulla della radicalità di quella proposta educativa – che prevedeva dieci ore di scuola 365 giorni l’anno – se non si considera che l’alternativa era passare lo stesso tempo a spalare nelle stalle e a faticare con gli animali.
Fabrizio Silei racconta la scuola di Barbiana dal punto di vista di un ragazzo che non ci voleva andare e che vi fu trascinato dal padre analfabeta, offeso per come lo aveva ingannato e irriso il suo padrone. Il suo è un avvicinamento lento e guardingo al “prete matto”, come lo fu certamente quello di molti contadini del Mugello, sorpresi dalla presenza in parrocchia di quella meteora incandescente. Con scrittura piana e non retorica incontriamo l’amore di Lorenzo Milani per la parola che fa uguali e la pratica del leggere il giornale insieme, con attenzione, in ogni sua parte.
Edoardo Martinelli ha di recente raccontato a un gruppo di insegnanti come si imparava la storia lassù, confrontando le posizioni del Saitta con quelle dello storico inglese Mack Smith, e i due testi con le testimonianze orali dei genitori contadini che raccontavano l’orrore delle trincee della prima guerra mondiale. È quel modo di ricostruire la storia, confrontando posizioni diverse, che fornì a quei ragazzi gli strumenti per ragionare sulla lettera dei cappellani militari contro l’obiezione di coscienza.
Viene così evocato un nodo bruciante della relazione educativa: in che misura è lecito educare alla trasgressione di leggi ritenute ingiuste? E in che modo? «Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla», sostiene il Priore.
«Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sostengono il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (…) E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».
Lorenzo Milani fu condannato e per arrivare alla legge che permette l’obiezione di coscienza al servizio militare ci vollero anni. Ma quella conquista la dobbiamo a lui e a testimoni persuasi come lui. È figlia di un maestro capace di insegnare con l’esempio ad avere coraggio, convinto che i ragazzi «bisogna che si sentano ognuno responsabile di tutto».
». il manifesto, 26 maggio 2017 (c.m.c.)
Negli ultimi mesi il nome di don Milani è risuonato in maniera quasi ossessiva sui principali canali d’informazione nazionale. Polemiche spesso vuote o comunque pretestuose, ma anche contributi di grande qualità e rilevanza, come l’opera omnia pubblicata in due tomi nella collana dei Meridiani di Mondadori e diretta da Alberto Melloni, a cui hanno collaborato Anna Carfora, Valentina Orlando, Federico Ruozzi, e Sergio Tanzarella. A quest’ultimo, docente di Storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, dobbiamo anche la pubblicazione del libro Lettera ai cappellani militari. Lettera ai giudici (Il Pozzo di Giacobbe, pp. 168, euro 14.90). Si tratta di due testi particolarmente importanti nella produzione di Milani, Tanzarella li inserisce nel loro contesto storico e nella biografia del prete di Barbiana.
Nel primo dei due testi sono parole scritte quasi a caldo, dopo la lettura insieme ai suoi ragazzi del «comunicato stampa» pubblicato dai cappellani militari in congedo della regione Toscana. A Milani quell’accusa di viltà rivolta ai giovani obiettori che hanno pagato con il carcere la scelta di rifiutare la divisa è risultata intollerabile, soprattutto per la sua provenienza clerico-militare, quasi un simbolo del sistema di potere. Da qui la decisione di impegnare la sua scuola nella preparazione di un documento collettivo che viene inviato a più di 800 quotidiani.
Come è noto, la lettera ruota attorno al problema del diritto alla disobbedienza alla leva, ma il ragionamento si snoda in più direzioni che toccano alcuni nervi scoperti: la legittimità di un potere ingiusto, la possibilità stessa della guerra nell’età atomica, e poi l’utilizzo strumentale che è stato fatto dell’idea di patria per mobilitare le masse in difesa delle oligarchie. Milani propone quindi un excursus storico – dalle guerre risorgimentali, passando l’«inutile strage» del ’15-‘18 e le imprese fasciste – che individua nella Resistenza l’unica «guerra giusta», cioè «non di offesa delle altrui Patrie, ma di difesa della nostra», una guerra particolarmente significativa perché combattuta da un esercito che aveva disobbedito. Quindi entra nel merito dell’attualità italiana, uno dei pochi paesi cui l’obiezione rimane ancora reato grave.
In questo clima la decisione del settimanale comunista «Rinascita» – di cui è vice-direttore responsabile Luca Pavolini – di pubblicare la lettera fa esplodere il caso. Milani e Pavolini vengono denunciati da un gruppo di ex-combattenti per apologia di reato e istigazione a delinquere. Come emerge in maniera chiara dalla ricostruzione del curatore, l’arcivescovo di Firenze Florit non si mostra certo solidale e a Barbiana arrivano anche vere e proprie lettere di ingiuria e di minaccia (spalleggiate dalla campagna denigratoria della stampa fascista).
Esprimono vicinanza invece personalità di rilievo quali Giorgio La Pira e soprattutto Aldo Capitini, teorico della nonviolenza e organizzatore nel 1961 della prima marcia Perugia-Assisi, che decide di attivare una rete di solidarietà. Grazie alla ricerca di Tanzarella, fondata su una serie di fonti inedite (comprese, in particolare, le fonti processuali) sappiamo che Milani si era rivolto anche al giurista Arturo Carlo Jemolo e a Giorgio Peyrot, responsabile legale della Tavola Valdese a Roma, che lo avrebbero aiutato a organizzare la strategia difensiva. Il risultato sarà quella Lettera ai giudici che Milani, ormai gravemente ammalato, fa pervenire al Tribunale e distribuisce alla stampa nazionale.
È una testimonianza alta di moralità educativa (e sacerdotale), una lezione sulla disobbedienza civile che mette in discussione il potere di giudicare chi si batte per una legge giusta, chi si fa precursore dei tempi annunciati dalla trasformazione italiana, dal Concilio Vaticano II, ma non ancora recepiti dalla legge.
Dopo che i processi di Norimberga e Gerusalemme hanno sancito il dovere alla disobbedienza contro i crimini della guerra – scrive Milani – «condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li ha comandati». Sulla base della tradizione della Chiesa sul primato della legge di Dio, della Pacem in terris e, soprattutto, della Gaudium et spes, che ha riconosciuto le ragioni degli obbiettori e invitato il legislatore a tenerne conto, Milani difende poi la propria ortodossia e rilancia la battaglia sul duplice piano della riforma della Chiesa e della società, chiamata a tenere fede a quell’art. 11 della Costituzione che utilizza in maniera quasi profetica il verbo «ripudiare».
L’autore dichiara di non voler scendere sul piano delle disquisizioni dottrinali, ma nei fatti propone una revisione profonda in piena sintonia con quei padri conciliari che hanno dichiarato ingiustificabile la guerra nucleare.
Sul terreno politico e giuridico si muove invece la condanna di quell’accusa di viltà che, in virtù delle ricerche di Peyrot (ora ricostruite da Tanzarella), Milani può dichiarare estranea allo stesso linguaggio dei tribunali militari e dunque irricevibile. Il Tribunale gli darà ragione, ma la sentenza verrà ribaltata in Appello che condannerà Pavolini, ma non il parroco di Barbiana, deceduto il 26 giugno 1967.Il successivo ricorso in Cassazione porterà all’annullamento della sentenza di condanna perché il reato contestato era stato estinto dall’amnistia del 3 giugno 1966.
Nelle ultime battute della sua ricostruzione, Tanzarella ricorda la breve introduzione scritta da Milani, ma pubblicata in forma anonima, all’edizione delle due lettere del 1965 uscita con il titolo Il dovere di non obbedire. Questa scelta era presentata come più consona a «esprimere meglio le tesi fondamentali di queste pagine»: a più di cinquant’anni di distanza, e con alle spalle l’approvazione della legge Marcora del 1972 sull’obiezione, le lotte della Lega degli obiettori e la legge del 1998, gli interventi del magistero contro «le guerre umanitarie» e i passi avanti del diritto internazionale, possiamo pienamente dargli ragione e continuare a leggere le due lettere con lo sguardo rivolto al nostro presente di guerra e ai conflitti del futuro.