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Qualche settimana fa Pietro Citati descriveva su Repubblica l’ennesima violenza edilizia in un centro storico: la costruzione, inspiegabile nella sua assurdità, di un grosso albergo nel bel mezzo di una frazione del comune di San Candido/Innichen (provincia di Bolzano), finora rimasta intatta nella bellezza dovuta, come sempre, a un secolare equilibrio degli spazi e dell’architettura. Messo da parte il mito di un Alto Adige meglio amministrato di ogni altro territorio nazionale dal punto di vista paesaggistico, Citati collocava l’esempio di inaspettato scempio accanto a un breve scenario di rovine ambientali irrecuperabili. Fra queste, la costa ligure per l’intera parte occidentale e, a seguire, la Costa Azzurra (anche lei, la leggendaria nobile signora). Mi ha sorpreso – e soddisfatto – il riferimento alla Liguria perché raramente avevo sentito lamentarne l’attuale condizione derivata da oltre mezzo secolo di estesi interventi edilizi, per decine di milioni di metri cubi in continuità costiera e poi risalenti le colline: per la maggior parte concessi dai municipi, per il resto tollerati e in seguito oggetto di sanatoria. Il Ponente ha mangiato il proprio territorio, ha abolito quel fantastico e necessario paesaggio costituito da centri costieri largamente spaziati fra loro e dialoganti coi paesetti distribuiti sulle colline, questi come guardie del mare dall’alto e tramiti della risalita alle Alpi Marittime. Soddisfatto, dico: poiché alla fine del 2004 in Eddyburg avevo lanciato un avviso proprio riguardo alla Liguria: “è la regione primatista per data d’inizio e per quantità proporzionale della cementificazione costiera eccetto l’estremo lembo sud-orientale prima di La Spezia” cui appartengono le Cinque Terre patrimonio dell’umanità (Abusi incredibili, 24 dicembre 2004; ora in Parole in rete. Interventi in Eddyburg, giornale e archivio di urbanistica, politica e altre cose, Libreria Clup. Milano 2005, p. 169). Peraltro viene da Rapallo – la città a oriente di Genova vessillo della libera costruzione di ogni obbrobrio per seconde case – il terminerapallizzazione, sinonimo per distruzione totale come avvenne a Coventry, la città inglese sottoposta durante la guerra a spietati bombardamenti aerei “a tappeto”: coventrizzazione significa radere al suolo: così varrebbe l’ossimoro rapallese costruire per distruggere.

Torniamo a occidente. Un aspetto, un fenomeno specifico, tanto caratteristico da non trovarne altri di ugual portata nel paese, sono le produzioni floreali. Ricavo la locuzione da una vecchia, quarantennale Guida rossa del Touring club italiano, che impiega giustamente una parola, produzione – che suona fessa riferita ai fiori, a noi ancora infiltrati da infantili nessi fiori/poesia, fiori/gentilezza e così via –, giacché “è la statistica delle produzioni floreali a definire meglio di ogni altra l’economia agricola della Liguria”. Fiori recisi, a cui si aggiungano piante ornamentali, fiori e foglie per profumi, già allora il 73% del valore prodotto in Italia. Colture specializzate, si legge, “notissime le serrette mobili, con vetrate facilmente spostabili”. Ecco, man mano lungo i decenni questa forma di agricoltura che già evidenziava profonde zeppe e contraddittorietà del paesaggio agrario e del paesaggio tout court, tende a specializzarsi sempre più, ad abbandonare ogni componente artigianale, a diventare industria vera e propria priva del benché minimo rispetto del suolo naturale. Le “serrette” di allora diventano grandi serre conquistatrici, alla pari delle nuove case, di una larga fascia costiera da Albenga fino a Ventimiglia; occupano le colline e le poche conche risparmiate dalle costruzione di condomini, ville, casette. Sono esse la forma originale locale dell’espansione e pervasione edilizia aggiuntiva, queste serrone lunghissime, qualcuna isolata qua e là ma per lo più sovrapposte l’una all’altra sfruttando le chine o le balze, e in successione lineare sul pendio e in piano. Ogni fabbricato, perché di questo si tratta, lungo anche decine di metri, alto quanto è necessario, di colore biancastro e opaco come un muro a vederlo da lontano, si salda in alto e in basso, al capo e alla coda con gli altri o agli altri rimanda attraverso brevi vuoti come spazi perduti: per oltre settanta chilometri diverse serie verticali e orizzontali di ammassi di corpi crudamente estranei alle nostre attese di appaganti visioni e sensazioni paesaggistiche, muraglie vetrose o plasticose, in proiezione ortogonale. Un’”agricoltura” tra mille virgolette, senz’altro un grosso affare che ha conquistato i mercati internazionali, ha distrutto altre colture come la vite e l’ulivo, si è affermato a causa della tracotanza di imprenditori grossi medi piccoli nonché grazie al favore degli amministratori locali e al timoroso disimpegno delle soprintendenze.Per tacere del disinteresse degli urbanisti e degli architetti, salvo inascoltate critiche provenienti da tesi di laurea dimenticate. A ogni modo, un esempio unico di decostruzione del paesaggio, un esempio raro di ambiente sostitutivo che più brutto è difficile immaginare, un esempio di coltivazione falsificata lontanissima dalla concezione che identifica la coltura con la cultura, la cura, la ragione (colere artes et studia; curare: rationem habere). Gl’imprenditori turistici e i sindaci lamentano la diminuzione dei soggiorni. Bene. Detratte le cause economiche generali, da sempre scarsamente incidenti, saranno finalmente le masse dei ciechi in occhi, cervello e anima ad essersi accorti dell’imbroglio e a scegliere altrimenti?

Nelle città chioschi di fioristi li vedi a numerosi angoli di strade, nelle piazze, sotto i portici. Vedi mazzi di fiori divisi per specie, ogni fiore identico all’altro, prodotti a macchina in serie, come di plastica. Passi, noti i colori ma non senti il minimo profumo.

Lodo Meneghetti

30 agosto 2005

Passano i giorni le settimane e i mesi; per l’Unione il tempo di presentarsi apertamente agli elettori con un progetto contraddistinto dalla differenza in ogni campo non dall’inesistente progetto della Cdl ma dall’esistente realtà dovuta alla sua diavolesca opera sta scadendo. Tempo perduto negli scontri fra e dentro i partiti, litigi messi in vetrina ad arte o trattenuti senz’arte nello scuro visibile dei retrobottega, tempo impiegato malamente da onesti e imprudenti a cercar di agguantare scivolose pesciformi sirene capitaliste, come a mostrare di essere moderni, innovativi, competitivi (ah! le indecenti parole da vietare nella sinistra), tempo disatteso delle dichiarazioni nette e convincenti circa l’obiettivo di governare svuotando il carbone dalla calza della befana berlusconiana e rivoltarla per riempirla di buoni doni. Ma cos’hanno nella testa i nostri? Che dirigenti abbiamo se non fanno caso ai diversi commentatori politici – quelli seri e amici – quando li avvisano che la vittoria elettorale non è scontata se non risolveranno fin d’ora i conflitti fra le forze principali dell’alleanza? C’è una verità di fondo che non possiamo ignorare. Le divisioni, rapportabili anche a disegni politici altrui e alla propaganda giornalistica (es. Michele Salvati sul Corriere, contraddetto da Furio Colombo domenica scorsa sull’Unità, quel Salvati che ci innervosiva quando scriveva su Repubblica – e oggi vi si aggiunge Mario Monti) in favore della costituzione del CENTRO, sono tali che dovremmo perfino correggere le definizioni. Vi ricordate la diatriba (apparentemente ridicola) su centrosinistra e centro-sinistra (col trattino)? Vinse il primo, quale insegna di formazione unitaria costituita da due anime tuttavia capaci di ritrovare una ragione comune. Oggi dovremmo ritornare al trattino, anzi, più correttamente, alla locuzione centro e sinistra. Cosa designa? Una effettiva divisione culturale, per ora, e politica in prospettiva: là una buona parte delle bianche brattee della Margherita, l’intero inapparente biancofiore martelliano e un bel mazzo di fronde della Quercia; qua il resto dei vegetali, o a dire dei vegetanti. Vorrei solo verificare il modellino in relazione al problema che sta al centro del dibattito in Eddyburg: urbanistica paesaggio ambiente.

Ricordiamolo: la nuova legge urbanistica ultra-reazionaria è passata alla Camera per azione comune di Forza Italia e Margherita, assente, disinteressata, se non furbescamente appartata e consenziente, una sinistra la cui cultura dovremmo poter collegare a una nobile tradizione dell’analisi sociale - territoriale e della pianificazione pubblica per l’interesse della comunità. Qualcuno può citarmi un alto dirigente nazionale del Pds o dei Dl a cui sia scappata per una volta, in un discorso politicoimportante, la parola urbanistica? Come se tutto il discutere di economia, di gran lunga predominante ai piani alti della politica e dell’informazione, potesse approdare a una qualsiasi conclusione astraendo dalle questioni e soluzioni territoriali, alias urbanistiche, così connesse sia per cause che per effetti a economia e società, benché non esclusivamente, contando a pari grado la cultura e la politica. (Nei titoli degli otto capitoli del Progetto dell’Unione l’ambiente appare di straforo nel quinto sub specie di “nuova qualità ambientale”, fortunatamente mescolata a “nuova economia” e “nuova società”). Al contrario, ai piani inferiori, più vicini alla percezione dei cittadini, presidenti e sindaci parlano e soprattutto agiscono anche troppo. Si dirà che da sempre in Italia il livello comunale ha rappresentato la condizione appropriata al progetto urbanistico. La storia dell’urbanistica fino a pochi anni fa si identificava quasi esclusivamente con la storia del piano regolatore comunale. Non è questo il punto. Preoccupano i nuovi eccessivi poteri assegnati dalla riforma di qualche anno fa ai sindaci, ai presidenti, alle giunte…, insieme al privilegio del maggioritario, insomma poteri ampi e controllo consiliare debole. Pericoli e danni, di frequente è proprio il decisionismo urbanistico ed edilizio a provocarli. Abbiamo citato nel sito molti esempi, a partire dal mai abbastanza deprecato caso milanese anticipatore delle modalità previste dalla nuova legge urbanistica: ossia le scelte degli interventi spettano agli imprenditori e agli speculatori immobiliari; i sindaci potenti, i presidenti, i governatori convalidano senza rendere conto a nessuno, contrattano, se va bene, qualche presunto beneficio per la comunità, non obbligando ad alcunché se non già messo in conto dai padroni del territorio; urbanisti e architetti compiacenti disegnano e motivano scrivendo saggini in coerenza e convenienza. Piani non ne esistono, idee di città e di assetti territoriali l’ente pubblico non ne ha né vorrebbe enunciarle. Gli urbanisti che ne abbiano sono tenuti fuori dal salotto buono. Si dirà che, ora, con tante amministrazioni di centrosinistra, è una bella fortuna che siano esse a decretare il destino del territorio e della città. Eh! No. Abbiamo verificato che non è affatto chiara la linea di confine fra politiche urbanistiche di destra e di sinistra, fra i comportamenti delle amministrazioni di opposto colore. Dire che l’urbanistica non può essere né di destra né di sinistra è un falso per giustificare lo sfasciamento del paese avvenuto grazie, appunto, ad azioni da noi ritenute di destra, anche se effettuate talvolta da governi locali nominalmente di sinistra. Distruggere paesaggi consolidati attraverso le cementificazioni denunciate già trent’anni fa da Antonio Cederna, violare con manufatti mostruosi per quantità e consistenza ambienti umani nella città e nel territorio depositari di memorie storiche e forme irripetibili, trasformare coste, monti, rive di laghi e fiumi, colline, pianure agricole attraverso lo scarico di milioni e milioni di metri cubi edili, tutto questo è stato per così dire amministrato; non fare piani regolatori a tempo debito o farli perfettamente adatti agli scopi della rendita fondiaria ed edilizia rappresentano i due corni del binomio regolatore del massacro conveniente a pochi – forse non sempre e dappertutto a pochi. Il primato spetterà sicuramente alle amministrazioni di destra, ma a noi di Eddyburg è capitato più volte di denunciare malefatte di amministratori di centrosinistra. Conterà anche il fascino del potere per se stesso. Di qui il decisionismo, spesso arrogante, rivolto a opere inaccettabili. Un decantato Illy alleato della sinistra: come immaginarsi, prima, che avrebbe concertato con sante immobiliari (vedi nel sito il mio articolo di Ferragosto) e un sindaco di An una repellente edificazione cosiddetta turistica in uno dei pochi e bellissimi tratti di costa italiana restati quasi intatti, la Baia di Sistiana? Non scrivemmo qui una dura lettera di protesta e di proposta per la conservazione del luogo? Ci saremmo mai aspettati di dover intervenire anche noi frequentatori di Eddyburg, alla fine del 2003, contro l’amministrazione provinciale di Napoli per farla recedere dal sorprendente progetto di ridimensionamento del magnifico spazio agrario storico? Un Ptcp che consentiva l’edificazione su due quinti delle aree agricole dell’intera provincia! E quando sentimmo il dovere, trenta professori del Politecnico di Milano, di inviare una lettera all’amministrazione comunale di Campo nell’Elba che intendeva tagliare cento grandi pini a ombrello per “migliorare” il transito su certi marciapiedi, non è a un sindaco dei Ds che dovemmo rivolgerci? Non fu il Comune di centrosinistra a de-regolare, sconquassare la struttura edilizia storica di Venezia concedendo indiscriminati mutamenti di destinazione degli edifici residenziali e ristrutturazioni dei loro begli spazi, a puro servizio di speculatori e di acquirenti alloctoni e a puro danno dei veneziani pregati di accomodarsi in terraferma? Non ci opponemmo con le nostre firme alla logica berlusconiana adottata dagli insospettabili sindaco e giunta di Ravello, cioè modificare la legge del piano approvato per poter far costruire ad ogni costo il famoso auditorium niemeyeriano? (“Sono spaventato, perché la logica è quella stessa di Berlusconi”, Edoardo Salzano, 19 gennaio 2004). Cosa spinge lo stimato presidente della Toscana, Martini, a condividere col ministro Lunardi la decisione di costruire la variante autostradale tirrenica, salvo la preferenza per un tracciato un po’ meno lacerante il territorio collinare? Perché ignora l’unica soluzione plausibile, “di sinistra” nella misura in cui appare logica e leggera dal punto di vista paesaggistico e funzionale, l’adeguamento dell’Aurelia senza eccessi dimensionali (il traffico previsto da calcoli attendibili sarà in ogni caso molto contenuto)? Non abbiamo predicato per decenni la necessità, anzi l’obbligo direi morale di trasferire gl’investimenti primari dalla strada alla ferrovia?

Quanto potrei proseguire? Molto, ma mi fermo perché sento risuonare l’obiezione “tu elenchi certe colpe – se di colpe poi si tratta – e dimentichi i numerosi meriti della amministrazioni di centrosinistra”. Grazie tante. Nelle attuali circostanze politiche e nella personale speranza di ritrovare a breve un centrosinistra effettivo teso a distinguersi totalmente dalla destra e dal desiderato nuovo centro, mi sembra saggio, come consigliato dagli psicologi in ordine alla meditazione su di sé, discutere i difetti riposti piuttosto che vantare i pregi soleggiati.

Lo so, per un Illy che spiana la strada ai mostri abbiamo un Soru che li ricaccia. Spero che siano tutti della Cdl e annessi quei sindaci che offrono in osceno pasto belle terre sarde ancora intatte, come ci racconta Giorgio Todde nei suoi mirabili e agghiaccianti articoli. Lo spero, Body and Soul.

Lodo Meneghetti

23 agosto 2005

Baia di Sistiana nel comune di Duino-Aurisina, la Baia di Rilke (Elegie Duinesi), il più bel tratto della costiera giuliana fino a Trieste, ci ha visti impegnati più volte in Eddyburg. A chi non li aveva già aperti, gli occhi li aprì l’articolo di Francesco Erbani, Colata di cemento nella baia di Rilke (Repubblica, 9 marzo 2003).Si voleva sostenere l’incessante battaglia del WWF e di Italia Nostra triestini in difesa dai reiterati assalti della immobiliare che vuole edificarvi la “Nuova Portofino”, altrimenti detta “Villaggio istro-veneto”, con il consenso anzi l’apprezzamento, anzi la spinta del governo regionale (centrosinistra) guidato da Riccardo Illy e della giunta comunale (destra) di Duino guidata da un sindaco di AN, Giorgio Ret. Ho già ricordato nuovamente la questione nell’articolo del 3 agosto. Inoltre i frequentatori del sito si ricorderanno la lettera sottoscritta da persone qualificate inviata ai due il 4 febbraio scorso (ora nel mio Parole in rete. Interventi in Eddyburg, giornale e archivio di urbanistica, politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005, pp. 182-185). Si richiedeva l’immediata promozione di procedure per stabilire il vincolo di inedificabilità totale e di intangibilità della condizione paesaggistica esistente. La funzione della lettera sarà stata trascurabile, fu ad ogni modo interessante far suonare campanellini nelle orecchie dei potenti, come si vide da qualche articolo de “il Piccolo” di Trieste. Ma dobbiamo alla incredibile volontà delle nominate associazioni, in particolare al WWF, espressa da persone (perché è sempre ragione primaria di persone) come Dario Predonzan, Wilma Diviacchi, poi Carlo Dellabella, Dusana Valecich…, di non mollare giorno dopo giorno la presa del bavero degli amministratori, dei tribunali amministrativi, delle procure, e alla non meno incredibile capacità di ottenere sentenze favorevoli. Breve: salvo la prosecuzione dei lavori nella grande cava, ora sospesi, le autoritarie autorità non sono riuscite finora a far approdare alla riva (è la parola) il loro inciucio edilizio con l’immobiliare Santi Protaso e Gervaso e Santa Sistiana, mistici nomi programmatici di una sperato perdono di peccati mortali. “La cava veniva rimodellata e rivestita di edifici, mentre il piccolo approdo si trasformava in una grande marina” (Erbani) con bordure densissime di altre case e sevizi vari. Particolarmente consolante, a questo riguardo, che le due imprese, artefici dello scempio dei lavori indiscriminati nella cava, ora sequestrata, siano indagate “per aver deturpato e distrutto bellezze naturali” e che il sindaco e un dirigente regionale, firmatari della concessione, lo siano “per abuso di atti d’ufficio”.

Il progetto dell’insediamento turistico non è stato mai proposto alla discussione pubblica, si sono visti rendering dimostrativi dell’orrore urbanistico e architettonico (Eddyburg potrebbe pubblicarli, semmai chiedendo documentazione agli amici nominati), Illy ha dichiarato più volte di aver ottenuto (in segreto!) modifiche che renderebbero, secondo lui, il progetto “compatibile”, ma si è rifiutato di sottoporre ad altri una fantomatica ultima versione. Siamo alle solite: il potere locale sprezzante. Ma ora la determinazione delle associazioni nominate ha costretto gli amanti dell’illegalità a ricollocare il progetto in un quadro quantomeno rispettoso delle procedure previste dagli strumenti che loro stessi possiedono. Infatti non può darsi un tale progetto senza un piano particolareggiato approvato appartenente alla cosiddetta variante urbanistica 21 (altra variante è la 18, “modellamento della cava”, scontato preludio all’insediamento). Ebbene, finalmente il Piano particolareggiato è all’ordine del giorno del Consiglio comunale di Duino-Aurisina per il prossimo 31 agosto. A questo punto, come procedere nell’opposizione secondo il contenuto della lettera citata? A mio parere bisogna evitare – mi rivolgo alle associazioni che verranno chiamate a interloquire e a tutti i frequentatori di Eddyburg – di farsi trascinare in una discussione nel merito del piano, per non parlare del progetto nella Baia se mai verrà successivamente presentato, qualsiasi sarà la versione sapendola o zuppa o pan bagnato. Allora? Il Piano particolareggiato dev’essere in primo luogo negato laddove indichi, nelle forme predisposte “opportunamente” dal Comune, la possibilità d’intervento nell’area della Baia e della cava corrispondente a quanto il progetto delle immobiliari ha già anticipato; poi dev’essere smontato per intero il contesto nella misura che sia stato definito in tutte le sue forme proprio in funzione dell’accordo per realizzare la Nuova Portofino. Un diverso Piano particolareggiato potrà essere studiato in funzione del riscatto paesaggistico del contesto duinese, non potendosi eludere, d’altronde, l’obbligo derivante dalla qualificazione di Sic fin dal 2000. Entro il Pp, l’indicazione specifica per la Baia e la cava consisterà in un progetto di restauro del territorio, di riparazione della violenza subita (naturalizzazione della cava), di definizione degli elementi leggeri, non edilizi, utili, ancorché non necessari, a una fruizione turistica e culturale libera, non privatistica, non aggressiva. Si potrà indire un concorso nazionale per il progetto solo se il bando si esprimerà in questo senso. (“La soluzione urbanistica e architettonica riguardo a un ambiente naturale persistito benché leso deve essere il contrario dell’edificazione di qualsiasi tipo, salvo le opere, non edifici destinati ad alcunché, necessarie per la cura: delicate come quelle praticabili su un malato che l’eccesso di medicamenti porterebbe alla morte” – 10 aprile 2003, in idem, pp. 20-21).

Si obietterà che il territorio in causa è di proprietà privata, che gli enti pubblici non hanno armi sufficienti per…eccetera eccetera. Bravo il sindaco Ret a rimpiangere “Ah, se l’avessimo comprata noi la Baia trent’anni fa!” (da “il Piccolo”, 10 agosto). Bravo bene! Non credo che oggigiorno sia davvero impossibile risolvere il mancato dovere di allora, caro sindaco. Provi. L’Unione europea, la Commissione per l’ambiente, distribuisce fior di quattrini per iniziative conformi. Se, soprattutto si ricorresse, penso, all’esproprio: perché non avere il coraggio di dirlo? Utopie utopie…velleità velleità…dite. Ma basterebbero le indicazioni e i vincoli del nuovo progetto conservativo e coerenti ordinanze del Comune o della Regione per l’uso del luogo di proprietà privata. Come nella categoria urbanistica di verde privato di uso pubblico o suolo privato di uso pubblico. Una bella, sostenibile, perdonabile marcia indietro. Beh, in ogni caso, meglio che, procedendo lei, signor sindaco, e il presidente Illy lungo la brutta strada già percorsa per un tratto, finire in una trappola, dopo aver più volte incespicato.

Lodovico Meneghetti

Bonassola, Ferragosto 2005

Il materiale su Baia Sistiana e Portofinto è nella cartella SOS Carso

Un apprezzamento di D’Alema a proposito di lotte, intrighi, scalate attorno a banche e giornali in quest’ultime settimane ha sconcertato gl’ingenui. Il succo del suo giudizio è: …eppure ne conseguono anche effetti positivi poiché si producono in ogni caso plusvalenze (questa la parola magica!). Come se i moderni speculatori investissero le plusvalenze in progetti utili al paese anziché intascarle volgarmente, semmai impiegarle in ulteriori oscure manovre borsistiche (per non dire di borseggio dei risparmiatori) o direttamente nell’appropriazione territoriale e urbana. Magari pagassero il dovuto al fisco, ha osservato Guglielmo Epifani ricordando che, secondo le regole attuali, le plusvalenze, per qualsiasi ammontare, pagano solo il 12,5% mentre i redditi da lavoro sono tassati dal 20 % in su e quelli d’impresa del 33% (nell’Unità del 22 luglio). Ma allora: una volta la posizione della sinistra era chiara verso il peggior carattere dell’economia nazionale: abnorme peso delle rendite, soprattutto fondiarie ed edilizie, rispetto ai profitti da produzione industriale; ugualmente, squilibrio relativo fra eccessivi investimenti fondiari ed edilizi e scarsi investimenti industriali o ad ogni modo socialmente produttivi. Naturalmente non si dava sempre, nella realtà, una effettiva separazione fra i renditieri e i capitalisti in senso classico (coltivatori del solo profitto), anzi; sono ancora note, credo, le vecchie analisi relative all’alleanza fra rendita e profitto, spesso confuse in un’unica impresa industriale se non persona (non ne furono esenti la stessa Fiat e la famiglia di Gianni Agnelli, benché quest’ultimo venga ricordato ancor oggi da qualcuno abbastanza vecchio per il famoso – e falso – attacco ai rentier in un’intervista all’Espresso). Oggi, mentre la decadenza dell’industria italiana nel suo complesso è forse giunta al punto di non ritorno, sembra non esserci più alcun ostacolo alla completa presa del potere non tanto dei finanzieri duri e puri quanto, in un paese che la sa lunga quanto a terreni e “cemento”, degli immobiliaristi e dei costruttori di cose inutili e …distruttive (qualche esempio? L’Alta Velocità Milano-Torino, l’autostrada della Maremma, il ponte sullo Stretto, il Mose, le Nuove Milano firmate che grattano il cielo, le vecchie che ne distruggono la linea, le sfortunate opere torinesi per le Olimpiadi invernali, l’”antropizzazione” della Sardegna – Giorgio Todde nel sito, 25 luglio – , i cento porti e porticcioli turistici e i mille villaggi per vacanze…). Ci sono industriali residuali che ripetono a distanza di trent’anni l’anatema agnelliano, come Diego Della Valle, questa volta scatenato contro gli immobiliaristi (e la Consob): ma perché sconfitto nella turpe e noiosa contesa di scalate e annessi che ha riempito le pagine dei giornali per un mese, e dalla quale lucrerà comunque, come ha calcolato qualche attento commentatore, fior di plusvalenze (250 milioni di euro?). Li investirà nelle sue belle scarpe da bravo cultore, appunto, del profitto? Non sappiamo. Ma che ce ne importa delle Tod’s? Non un posto di lavoro in più è in causa. D’altra parte, sebbene il nostro non appaia membro ufficiale della nuova potente corporazione che ha nelle mani il destino del territorio e delle città italiane, non pare che abbia dedicato una qualche strofa del dichiarato disprezzo verso gli speculatori immobiliari alla difesa, appunto, dall’aggressività dei medesimi anche verso le restanti belle terre ascolane e, più in generale, terre costiere marchigiane.

Intanto gli avvenimenti si rincorrono, sembra che il settimo sigillo stia calando sugli ultimi atti in svolgimento da un quadriennio, a loro volta epigoni di una storia infinita di pene inflitte al territorio nazionale che pare essere stata orchestrata da diavoli e diavolesse. Stefano Fatarella mi ricorda che Edoardo Salzano l’ha già fatta quella inevitabile affermazione che ci siamo tenuti dentro, tutti quelli schierati sul fronte contro l’impero: “abbiamo perso”. Per Pasolini la situazione ambientale italiana era già disastrosa alla fine degli anni Cinquanta. Il film di FrancescoRosi Le mani sulla città, soggetto una Napoli già largamente massacrata dalla speculazione edilizia, risale al 1963. L’invettiva accorata dell’ingegner Martuscelli sullo stato del territorio nazionale compresa nel documento-denuncia relativo alla frana di Agrigento è del 1966. Antonio Cederna ha scritto La distruzione della natura in Italia esattamente trent’anni fa. Sappiamo il seguito. Tre decenni di continue accelerazioni quadratiche come nella caduta di gravità. Ne conosciamo le ragioni, i responsabili, in diversi campi. Negli anni recenti, quando è sembrato inutile o difficile contare sulla buona urbanistica del piano di sinistra (che poi era il piano tout court), abbiamo cercato di lottare con l’unica fornitura bellica che possediamo, le parole. Il gruppo che si ritrova in Eddyburg potrebbe verificare se è valsa la pena di combattere le buone battaglie verbali, almeno per gli effetti a lungo termine di tipo culturale e morale, anche quando si sapeva che si sarebbero perdute. Oggi ci sentiamo circondati da cose, istituzioni, persone, gesti come nemici mortali; siamo come il nostro territorio e le nostre città, il nostro paesaggio qua e là resistito.

Da un lato gli immobiliaristi stravincenti.

Al Tronchetti Provera spetta il primato storico per la gigantesca operazione immobiliare alla Bicocca milanese, ne abbiamo parlato spesso: caso emblematico del rovesciamento dei poteri a livello locale, ossia resa degli amministratori pubblici al nuovo magnate della città; attuazione in anteprima secondo i meccanismi del nuovo commercio urbanistico voluto dalla Legge nazionale Lupi; cinica dimostrazione del passaggio diretto dalla produzione industriale storica (le fabbriche Pirelli) alla rendita fondiaria. E gli spetta anche il primato della estrema modernizzazione, per così dire, dei comportamenti: acquisto della Telecom, abbandono dell’ultima “produzione strategica come i cavi” (Epifani), per approdare – ecco lo scopo finale – alla gestione e commercializzazione degli immobili a scala mondiale mediante la Pirelli Real Estat, cioè Pirelli Beni immobili. A seguire, altre mani si stendono sulla città (potreste rileggere qui Le Nuove Milano estranee. L’architettura servile, 30 ottobre 2004), quelle delle cosiddette cordate in cui ritroverete i Ligresti, le Generali, i Lanaro…, o dei parvenu tipo quel Luigi Zunino che agirà da grande affarista e “sviluppatore” (così lo hanno denominato) in una zona, Montecity-Rogoredo, più estesa della Bicocca, al quale inoltre spetterà la “giunta”, come quando compravamo il castagnaccio toscano, dello scalo ferroviario di Porta Vittoria. Ma c’è posto per tutti e dappertutto alla tavola per mangiare il dessert del suolo nazionale. Un Ricucci immobiliarista sconosciuto fino a meno di due anni fa: come può impegnarsi nello stesso momento a scalare Ambronveneta, Banca nazionale del lavoro, Rizzoli Corriere della sera? Chi e cosa c’è dietro, a parte certi presunti appoggi politici a sinistra di cui si è malignato in maniera anche troppo capziosa? Si legge dei sospetti in direzione del gruppo romano Caltagirone, il potentato nel campo delle costruzioni che, per chi possiede una discreta memoria, ha recitato per decenni la parte di protagonista nel film non girato e non diretto da Francesco Rosi intitolato Le mani sulla Capitale (e altrove) oppure Il penultimo sacco di Roma (vale a dire prima del prossimo che il nuovo piano regolatore permetterà, spiace per Campos Venuti).

Da un altro lato i politici e gli amministratori locali, loro amici.

La nuova legge urbanistica nazionale, ultraliberista, padronale, commerciale, classista, ce la siamo trovata di fronte dopo che quatti quatti la destra camerale e il centro margheritino del centrosinistra l’avevano ben disegnata (Lupi del resto è l’autore del modello milanese) nella totale, colpevole, stupida disattenzione (con punte di inespresso consenso tuttavia!) della sinistra, quasi che quest’ultima niente avesse mai avuto a che fare, almeno dal punto di vista culturale, con la miglior tradizione dell’urbanistica proveniente dalle fertili lontananze di un Adriano Olivetti e un Giovanni Astengo, ma pure dalle esperienze sul campo di quegli urbanisti che si erano duramente impegnati anche nell’amministrazione locale (come l’ultimo Astengo del resto). E vennero i nuovi presidenti di Regione e i nuovi sindaci e i nuovi presidenti di provincia, con le loro giunte costituite spesso da presunti tecnici non eletti e chiamati direttamente dal sindaco, a godere del potere personale e oligarchico concesso da una nuova legislazione (con quell’incredibile premio di maggioranza) che la sinistra avrebbe dovuto boicottare invece che avallare in omaggio al mito della stabilità governativa. I consigli degli eletti non contano nulla, le piccole minoranze diventano patetiche quando recitano l’opposizione già sapendo che il prodotto sottoposto alla falsa discussione per finzione democratica non potrà essere scalfito. Si dirà, ma ora che le amministrazioni sono in gran parte in mano al centrosinistra… Ebbene, quanto al nuovo decisionismo arrogante, quanto al fare e disfare nella città e nel territorio fuor di ogni piano, di ogni regola urbanistica, sulla base dei desideri e delle proposte del padroni dei terreni e delle aziende di costruzioni, le differenze di comportamento non sono sempre evidenti.

A Milano il sindaco e la giunta, dopo l’operazione Bicocca, con le Nuove Milano perseguono sempre la scelta delle aree indipendentemente da un disegno complessivo o quantomeno da un’idea generale della città. Ma credono di scagionarsi chiamando a progettare i “grandi” architetti, peraltro inerti personaggi succubi delle imprese: sono queste a vincere le pseudo-gare trascinando con sé il Nome, autore di rendering e modellini ineseguibili che sarà l’impresa, la cordata di imprese a interpretare e trasformare in tutt’altro progetto esecutivo. Architetti del mercato globale dell’architettura completamente estranei ai problemi di contesto, proprio a Milano dove la nozione e la realtà di contesto, ereditate dal Movimento moderno, è da sempre un punto d’onore della progettazione all’università. E a Firenze, cari miei, non abbiamo sentito mesi fa il potente sindaco Domenici proporre la stessa linea albertiniana quando ha perorato la chiamata, guarda caso, di grandi architetti (insieme alle altrettanto grandi imprese) per donare alla città nuovi luoghi di modernità e alto valore rappresentativo?

Gli immobiliaristi hanno colto il nuovo vento che soffia sulle maggiori città, costituiscono alleanze, si assicurano il legame con gli architetti internazionali, aspettano l’inevitabile chiamata ma spesso, ora confortati dalla legge urbanistica, si muovono prima e sottopongono agli amministratori il fare e l’affare. Dove, nella città? in qualsiasi punto, dove siano minori le difficoltà fondiarie e le prevedibili opposizioni dei cittadini. Dove, nel paese? Ovunque il territorio e il paesaggio sopravvissuti alla rovina generale presentino occasioni allettanti.

Il presidente Illy e la giunta friulana, in alleanza col sindaco di Duino-Aurisina (AN) non mollano la presa su Baia di Sistiana. I frequentatori di Eddyburg conoscono la vicenda più volte raccontata nei suoi sviluppi, conoscono il tentativo di influire sulle amministrazioni col noto documento critico proponente l’intangibilità del bellissimo luogo. Oggi il pericolo della spaventosa costruzione lì di “una nuova Portofino” sembra incombere sotto nuova luce. L’esempio duinese resta uno dei più chiari riguardo alla collusione del potere pubblico con imprese immobiliari particolarmente aggressive. Sono anni che l’impresa sottopone i suoi progetti. Gli amministratori li approvano quando l’ingannevole apparenza di qualche piccola modifica, specialmente parolaia, sembra onorarli quali saggi gestori del territorio.

Ricordate la nostra battaglia contro l’auditorium di Ravello? L’arroganza del sindaco, sprezzatore delle nostre ragioni e violatore delle regole vigenti sul “suo” territorio? Ha vinto, l’opera incompatibile sotto ogni riguardo si fa; quali imprese in campo non so, so che il vecchio Niemeyer è stato usato come un magatello.

Ho sollevato il caso delle regioni a statuto speciale nell’articolo del 15 settembre 2004. In una situazione già ricca di privilegi per gli abnormi trasferimenti dallo stato, l’autonomia ha svolto le sue fila in una indissolubile collusione fra amministratori e imprese immobiliari. Cosa ci ha dato di “speciale” la Sicilia è inutile ricordare, lì la mafia ha vinto, ma, per assurdo, non sarebbe occorsa nemmeno questa per denegare l’ambiente siciliano e massacrarlo tutto, città e coste; bastava la megalomania dei presidenti e la volontà popolare, penoso dirlo; bastavano le scorribande delle imprese in qualche modo redistributrici al popolo di pezzi dei trasferimenti statali e briciole delle enormi rendite immobiliari. Diversamente, ma non troppo, lo “speciale” che ci ha dato la Valle di Aosta serenamente amministrata ai due livelli, regionale e comunale, ci mostra che, trasferimenti a parte, per distruggere l’ambiente ereditato sano e bello, ha funzionato un perfetto meccanismo legale: piani regolatori molto compiacenti, relativi a terre sempre più ampie, hanno permesso a speculatori medi e piccoli, qualche volta grossi, di lucrare rendite e reddito edilizio enormi, anche qui redistribuibili par la parte che garantisse il sostegno alla persistenza del modello. Nella valle gli immobiliaristi avevano già vinto la corsa negli anni Sessanta: basta citare il caso di Cervinia, rovinoso e caotico manifesto di urbanistica borghese felice.

A Torino, notizia recentissima, gli enti locali acquistano dalla Fiat per settanta milioni circa trenta ettari di aree a Mirafiori. Ammirevole lo scopo di soccorrere l’azienda malata. Per che farne, di un territorio semi-vuoto? Per riempirlo, per edificarlo, naturalmente secondo le buone destinazioni d’oggigiorno (ricerca, università, rilocalizzazione di imprese, eccetera). Il sindaco Chiamparino ci vuol tranquillizzare: “Non è un’operazione immobiliare”, dichiara all’Unità (31 luglio). Forse per i dubbiosi, che fortunatamente mi sembrano abbondare nel castello di Edoardo, potrebbe essere proprio questo “non è” (perché dirlo?) a preoccupare.

Purtroppo si potrebbe continuare con un elenco lunghissimo di amministratori di ogni colore che, fiduciosi della propria cultura e come eccitati per voler e poter realizzare, edificare, modernizzare, adeguare, vendere spazi, si sono gettati o stanno per gettarsi in mano a imprese che propongono risposte chiavi in mano. In vece, a questo punto, vi invito, cari attivisti di Eddyburg, a rileggere il fantastico e doloroso articolo di Giorgio Todde citato all’inizio, Antropizziamoci, inerente al comportamento di certi sindaci della dimenticabile Sardegna.

Esiste certamente la possibilità di redigere un altro elenco, a scala nazionale, di sindaci et similia preparati, attenti, capaci perfino di difendere il proprio territorio dagli incantatori del fare. Temo che non potrebbe affatto rivaleggiare in lunghezza, benché probabilmente, spero e grazie a Dio, esporrebbe una maggioranza di amministratori della sinistra.

Da un terzo lato collusioni di istituti culturali.

L’Istituto nazionale di urbanistica, il suo presidente, i colleghi iscritti vecchi o recenti, portato a termine il tradimento delle funzioni storiche dell’istituto scendendo la scala della vergogna fino al basso della subalternità inequivoca al governo della destra e ai maestri della rendita fondiaria ed edilizia, sono felici. La legge liberista, che è anche una buona assicurazione per ottime commesse professionali agli urbanisti obbedienti, è stata approvata; manca il timbro del Senato, è vero, ma cosa volete temere dal Senato?

Intanto anche l’università si adegua al vento dello sviluppo inteso come espansione delle costruzioni di ogni tipo e, interattivamente, dell’occupazione di tutti i lotti urbani inedificati e dei terreni esterni aperti e liberi, obiettivo gl’incommensurabili guadagni del tutto indisponibili per reimpieghi socialmente significativi. Incredibile: la Bocconi e il Politecnico milanesi (ricopio dal modello ricevuto) “hanno preparato un programma dedicato al settore immobiliare e che si pone all’avanguardia nel livello internazionale: il “STRONG [sic] Master in Real Estate”, guarda la cinica spregiudicatezza. Proseguo. “Il programma vuole soddisfare la crescente domanda di figure professionali con competenze specifiche in un settore che ha conosciuto nell’ultimo quinquennio una forte espansione, non solo in termini economici, ma anche e soprattutto in termini di complessità delle operazioni in atto”. Ah! Tutto si tiene, i tre lati si riuniscono a formare un triangolo scaleno, come un simbolo gnostico buono per la minoranza di eletti designata all’autentica conoscenza del divino potente.

Lodovico Meneghetti

3 agosto 2005

Il nuovo Moloch denominato Saoc – Sviluppo a ogni costo (vedi Energia, città, paesaggio, 22 giugno) – non demorde, anche in condizioni di recessione economica, riguardo a iniziative che richiedono immediatamente di depositare cose sul territorio senza ascoltare il suo parere, inoltre perforandolo, scavandolo, incidendolo, solcandolo, livellandolo, povero sordomuto disprezzato, odiato e vilipeso se nudo (arborato o no che sia) come la storia materna l’ha lasciato. Il caso dei cavallettoni con palettoni conformi, per catturare energia eolica procede sostenuto dai risoluti privi di dubbi, tanto più dopo la firma di quella specie di protocollo parolaio firmato dagli industriali del settore e da una parte degli ambientalisti. Parolaio: sicuro, parole, le solite che ormai ci fanno innervosire tanto sono insignificanti, …nel rispetto del paesaggio… valutazione di impatto… (la peggiore di tutte)… attenuazione… mitigazione… (dei danni, o bella). Nessuno parla di risparmio energetico, priorità assoluta, per noi, di un impegno da portare subito ad attuazione con provvedimenti mirati e poco costosi, antecedenti a qualsiasi decisione circa le fonti energetiche alternative al petrolio e al carbone: nessuno, intendo, di quelli seduti comodamente ai gradi alti della politica e dell’economia che detengano l’effettivo potere di orientamento e decisione.

La questione dello spreco energetico, sollevata qui dalla Carla Ravaioli come connaturato al modello di sviluppo capitalistico, e da me secondariamente raccontato a partire da esempi locali, pare non interessare minimamente i cultori delle discipline relative al territorio: è da questo punto di vista che oggi propongo la questione. Il territorio è lì, crinali di colline e montagne, pianura ventose (più o meno), coste, dove è, appunto, nudo all’aperto o nudo dentro il bosco, e aspetta. Lo preoccupano, certamente, i profondissimi fori e scassi, lo preoccupano lo schieramento bellico dei giganti a gambe aperte con la chioma turbinante, l’uomo un Grildrig come Gulliver a Lobrulgrud. Teme l’andirivieni dei mezzi, le strade per farli muovere, i condotti dei fili, il rumore, insomma lo sconvolgimento di sé. Ma, cari potenti nazionali e locali, volete ascoltarci? Possiamo andare avanti senza un piano energetico nazionale che la dica tutta sulle fonti, sul calcolo del fabbisogno, a partire dal progetto e attuazione accelerata del risparmio? Oppure è vero che, nonostante spreco significhi consumo inutile, la prospettiva di ridurre un qualsiasi consumo fosse anche il più cretino vi terrorizza, infatti perorate più consumi più consumi più consumi per risolvere (illusi) la crisi produttiva? Non accettiamo la tessera di contrari all’eolico tout court, vogliamo solo che si esprimano ragionamenti, si indichino strategie, attitudine perduta dai tempi della miglior politica dei progetti e dei confronti: oppure si dica chiaro che dobbiamo lasciar tutto in mano al caso, anzi, poiché il caso corrisponde al dominio dei padroni della rendita fondiaria ed edilizia, del profitto legittimo e no, del lucro esoso commerciale, proprio a questi lasciamo tutto in mano.

Analogo al tema dell’energia il tema dei rifiuti e scarti urbani, anzi collegabile direttamente giacché sappiamo che da certo trattamento dei secondi può ricavarsi la prima. Ma il punto, per ora, non è questo. Ancora una volta è in causa il territorio, l’urbanistica, il piano e il progetto dei luoghi. Lascio da canto il problema dello smaltimento in determinate regioni del Mezzogiorno, uno scandalo conosciuto. Anche in quest’ambito, come nella priorità da assegnare al risparmio energetico di contro a pesanti interventi lesivi del territorio e della società, non si deve procederesecondo decisioni non discusse e confrontate, attraverso imposizioni politiche sia della tecnica sia della localizzazione: come giustificati dal colpevole ritardo nel trattamento del problema complessivo a partire dalla diminuzione del consumo giornaliero.

Ho letto cosa sta succedendo in Toscana (pagine regionali dell’Unità). Sorprendente (fino a un certo punto) scontro dentro la sinistra. Firenze e circondario, lì “siamo avanti”, si direbbe. Infatti si tratta di termovalorizzatori invece che di inceneritori dei rifiuti, quasi che il roboante termine composto potesse nascondere che bruciare si deve in ogni modo. Ecco, se il calore non lo si butta via è una buona cosa. Ma nella famosa Piana pratese-fiorentina un nuovo impianto è un altro colpo al nostro personaggio-territorio che già ne ha subiti non pochi. Impianti di questo tipo costituiscono veri e propri insediamenti industriali complessi e massivi, imponenti, senz’altro inquinanti un diversi sensi. Il povero territorio deve tacere. Ma non ha taciuto il sindaco di Campi Bisenzio, mentre una pesante diatriba all’interno del partito dei Ds toscano non poteva essere completamente coperta dall’autorevolezza delle voci del presidente Martini e del potente sindaco di Firenze Domenici. Sarebbe pronto un “protocollo” di intesa fra i Comuni di Firenze, Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio per la costruzione del termoecc. localizzato fra Campi e Sesto, già sacrificati in passato per discariche e primo impianto moderno. Ma il sindaco di Campi, Fiorella Alunni, una donna dei Ds battagliera e ragionante col proprio cervello, sostenuta da quasi tutti i consiglieri della maggioranza di sinistra, ha negato finora la propria firma sul punitivo accordo. Non è convinta di una scelta fatta senza alcun riguardo all’enorme peso territoriale dell’impianto in sé e di tutte le violente infrastrutture che con sé trascinerà, senza la definizione democratica di una strategia almeno a scala regionale, tanto più necessaria quando si voglia essere moderni nella scelta di tecnologie d’incidenza territoriale e sociale assai pesante. Gli altri due sindaci contraenti – Gianni Gianessi il sestese – minacciosi, vogliono firmare da soli e isolare così la troppo cocciuta signora; un po’ di femminilità nel partito va bene, ma deve essere dolce, elegante, un sindaco donna può ben accontentarsi di una tale carica, cos’altro vuol pretendere? Che il termoecc. costituisca uno sconvolgimento territoriale è dimostrato dal mucchio di regalie e di promesse di risarcimento ai comuni di Campi e Sesto. Una pioggia di soldi, titolava un articolo nei giorni scorsi. E il punto nodale della riduzione dei consumi, dello spreco consumistico? Il partito zitto, qualche trafiletto di esterni, come Manconi. Eppure questo dello spreco nei consumi parrebbe un argomento più che mai attuale. Non c’è contraddizione con la pretesa, enunciata da ogni parte, di sostenere e rilanciare la spesa delle famiglie in una fase difficile dell’economia. Infatti non è con il consumismo, vale a dire coi consumi inutili, che l’economia e la società potranno ritrovare l’equilibro fra durevole vitalità dell’industria e benessere ragionevole delle popolazioni. I peggiori prodotti insensati, i peggiori fra i beni di scambio – così le parole ai vecchi tempi – non possono rappresentare la base produttiva sicura e indiscutibile di un paese i cui cittadini aspirino ai più alti livelli di civiltà e modernità. Modernità significa ricupero e rafforzamento dei valori storici sui quali la popolazione ha costruito i propri caratteri migliori, e negazione dei retaggi ignobili (esempio il servilismo, l’opportunismo, il trasformismo). De Lucia scrive che nell’urbanistica serve un’analisi di classe, in senso marxiano (14 luglio). Ugualmente la questione di una produzione e un consumo dai quali possa derivare un’effettiva riduzione dell’usa e getta, alla fine una forte riduzione dei rifiuti e degli avanzi che risparmierà anche al territorio un po’ delle sue pene. Ritorniamo saggiamente a privilegiare i necessari beni d’uso, di per sé quantitativamente limitati soprattutto se di buona qualità; esercitiamo giorno dopo giorno la cultura del disprezzo dei puri beni di scambio, e di coloro che ce li vogliono imporre: a cominciare dagli oggetti materiali e immateriali smaccatamente offensivi delle persone dotate di buonsenso.

Milano, 18 luglio 2005

Il 19 maggio 1984 “la Repubblica” pubblicava una mia intervista, il cui titolo si adatterebbe perfettamente alla situazione d’oggi: Processo al traffico, la parola agli esperti. “Parcheggi in centro un errore”. Un mese prima avevo scritto un articolo per “Polinewsia”, il mensile del Politecnico, Milano uno spazio in sfacelo, nel quale denunciavo fra l’altro l’assurdità di un programma di parcheggi basato sulla costruzione di silo sotterranei nel cuore della città. A quel momento, amministrazione comunale di sinistra, assessore al traffico e trasporti l’ingegner Vittorio Korach, un primo elenco di autorimesse sotterranee in suolo pubblico comportanti la concessione ai privati di un diritto di superficie che denominai “diritto di strato terrestre” parve incredibile, tanto disinteresse rivelava per luoghi milanesi dotati di specifici caratteri urbani: Piazza degli affari, Piazza della Vetra, Via Unione, Piazza Meda, Piazza Liberty, via Croce Rossa, Via Cusani. Intanto erano in costruzione avanzata gli autosilo di Via San Barnaba e di Via Vittor Pisani (quest’ultimo famoso in seguito per essere rimasto semi-deserto). E il programma procedeva oltre: Via Marina (lo spazio alberato che ogni amico di Milano vorrebbe vedere integrato ai giardini di Villa reale e di Via Palestro), Corso Europa, addirittura Piazza Fontana: di nuovo, difficile crederlo. Eppure era ancora fresca la memoria del primo massacro di piazza storica nel centro a causa di una gigantesca autorimessa sotterranea, quella di Piazza Borromeo. Il modello sbagliato già si affermava qua e là. Piazza Diaz, Largo Corsia dei Servi, Via San Pietro all’Orto…

Quanto alle ragioni degli interventi, l’amministrazione svariava da “per i residenti” – quando nella maggioranza dei posti deputati non abitava quasi nessuno – a “per le esigenze del traffico operativo” (ossia gli spostamenti degli addetti al commercio e alla finanza) secondo una curiosa contraddizione: alla domanda fatta all’assessore, perché favorire iniziative tese a realizzare nuovi parcheggi sotterranei privati? Diamine, fu la risposta, per liberare parti delle reti stradali da attrezzare per la sosta operativa…

Comune di sinistra, Comune di destra: non sembrano trascorsi due decenni. Il livello politico culturale è il medesimo: basso, dal punto di vista dei principi urbanistici, perfino sorprendente. Mi spiego. La logica delle autorimesse sotterranee ha comportato una forte accelerazione, giacché, come allora, è il convinto assessore (ora il professor Giorgio Goggi) a spingere senza ascoltare perplessità e critiche, senza mitigare precedenti velleitarismi. Si sono costruiti “per residenti” (presunti) silo sotterranei dotati di un primo piano destinato a parcheggio a rotazione. Le norme definite dal Comune richiedevano una stretta pertinenza fra localizzazione dei box interrati e la residenza dei possessori, sicché si doveva circoscrivere un’area urbana precisa che sancisse i diritti. La prima realizzazione di grandi dimensioni, probabilmente decisa prima dell’insediamento della nuova giunta, fu quella di Via Mascagni, circa 700 box lungo le vere e proprie strade sotterranee che corrono dall’ingresso all’angolo con la cerchia del Naviglio, Via Visconti di Modrone, all’ingresso vicino alla circonvallazione, Viale Bianca Maria. Il rispetto dell’area urbana di pertinenza ebbe un effetto prevedibile: la domanda non era sufficiente. Così si cominciò ad allargare l’area, fino a giungere allo spazio dell’intero comune! Molti acquisti furono man mano solo investimenti per affittare a pendolari. Già nel caso di questa autorimessa, sempre troppo centrale ma in ogni modo al margine del piccolo cuore spopolato, il proposito di servire i residenti di zona (prezzi a parte) appariva in parte pretestuoso. Ora l’inganno sembra provocazione: autosilo interrato in Piazza Meda, già avviato (ma non ci sarà quello nuovo del dismesso garage di Via Bagutta trasformato in grande magazzino?), in Piazza Fontana davanti al Palazzo del Capitano del Popolo… e quali altri luoghi meno abitati e più monumentali dello spazio segnato dalla fontana del Piermarini o dalla scultura di Pomodoro avranno in mente i nostri per fornire all’inesistente residente il suo inacquistabile box? e per abbattere definitivamente qualsiasi speranza di fermare le automobili prima che possano entrare nella navata centrale del Duomo? Che i parcheggi nel centro, monumentale e no delle città, dedicati al “traffico operativo” di korachiana memoria o, peggio, ai turisti costituiscano un richiamo, come una lampada per le farfalle notturne svolazzanti nei dintorni, lo capiscono anche i primini; realizzarli dove dovrebbe vincere la pedonalità o perlomeno il calming traffic diventa una colpa grave nei confronti di tutti, anche di coloro che non si sentono legati a questa povera Milano. Nel frattempo l’assessore, invece di impegnarsi per realizzare i grandi parcheggi esterni d’interscambio col mezzo pubblico, cerca, ancora, di realizzare silo sotterranei per residenti che non li vogliono guarda caso in aree ricche di alberi e prati, o in luoghi come la Darsena che a nessun autentico milanese sarebbe venuto in mente di rinnovare mediante strati di automobili al di sotto delle mai più viste barche.

Sulla facciata del Palazzo di giustizia di Milano, in corso di restauro, cono stati montati due giganteschi pannelli pubblicitari (per la Lancia). Ventiquattro riflettori li illuminano in maniera accecante dalle 20-21 (quando è ancora chiaro) alle tre-quattro, quando da ore non transita più nessuno che possa goderseli. Semmai li subiscono i pochi abitanti resistenti (termine che propongo di usare al posto di residenti nei centri urbani spopolati) quasi dirimpettai, se non calano le serrande delle finestre senza lasciare il minimo distacco fra le stecche. Ogni fonte assorbe non meno di 5.000 watt, in tutto si tratta di 120.000 watt impiegati per circa otto ore allo scopo di farci sapere anche di notte, se abbiano il coraggio di alzare lo sguardo, che “loro” (chi, la fallimentare Fiat?) “sono contro il brutto” (questo lo slogan ripetuto sul margine inferiore dei pannelli). Impianti simili, tutti egualmente impressionanti per dimensione e/o per quantità di fari e loro potenza, ce ne sono dappertutto in città, dal centro alla periferia. A Milano l’odierna attività edilizia dominante e diffusa consiste nei restauri-ristrutturazioni, nella pulizia e ridipintura delle facciate, negli orribili sopralzi e trasformazione dei sottotetti in bei palazzi: tutte opere che, quand’anche non implichino lavori particolarmente gravosi, richiedono incastellature a tutta facciata che, appunto, diventano struttura del colossale cartellonismo. Inoltre c’è la piena disponibilità, per pannelli iperilluminati, di migliaia di metri quadri di cesate di cantieri in avvio o sospesi o di aree “in attesa”. Anni fa si cominciò a discutere della terza forma di inquinamento dopo quella atmosferica e quella da rumore: l’inquinamento luminoso, appunto, da considerare sia entro la questione del risparmio energetico, sia riguardo ai danni visivi. E non imperversava ancora in pieno questo tipo di pubblicità. Semmai si lamentavano tre fenomeni: l’eccesso di illuminazione pubblica in certe zone, e di quella privata nelle vetrine; la presenza, al di là di ogni effettiva utilità, degli apparati luminosi potentissimi su pali da venti metri per rendere sicuri – pretendeva l’amministrazione pubblica – determinati incroci, rotonde, cavalcavia, spazi più o meno verdi frequentati da homeless e immigrati (si voleva ostacolare l’uso delle panchine per la notte); la trasformazione dei monumenti più rilevanti in architetture fantasmatiche a causa di assurde luci dirette o riflesse. Tutto è andato in mona. Dell’aria si sa, sono mesi che i livelli dei diversi gas non sono misurati per evitare gl’interventi obbligatori; quanto al rumore (problema peraltro connesso all’uso di energia), non solo non si è adottato alcuna regola, ma si è assistito e si assiste ogni giorno a un incredibile peggioramento dovuto specialmente all’aumento dei motorini fuori legge e di ogni tipo di motociclette. Intanto, in questa città dotata di migliaia di magazzini d’abbigliamento, di altrettanti bar deputati a sfamare gl’impiegati nella sosta del mezzodì, di migliaia di palazzi destinati esclusivamente ad uffici, di grandi cinema, multisala e no, sono partiti gli impianti di condizionamento dell’aria. I quali, se non raggiungono il primato del differenziale fuori/dentro di una Phenix (Arizona), fino a venti gradi!, si battono bene all’italiana con un 10, 15 se la temperatura esterna raggiunge i 35 gradi.

Tutto questo ho pensato dopo aver letto certi articoli e la nuova discussione in eddyburg intorno al problema energetico e al caso particolare dell’ energia eolica. In primo luogo, la deprimente ennesima divisione, se non lo scontro, fra i movimenti ambientalisti. In secondo, il solito gioco delle accuse immotivate di conservatorismo a chi perora cautela nelle scelte, a chi non è disposto ad accettare danni irreversibili al territorio e al paesaggio in nome del dio Saoc (il nuovo Moloch Sviluppo ad ogni costo – economico ma più che altro cementizio). In terzo, contrapposte, la stranezza della posizione di un Edo Ronchi (il responsabile delle politiche della sostenibilità per i Democratici di sinistra), e l’irritazione di un Vittorio Emiliani, il presidente del Comitato per la bellezza. Il primo ha minimizzato la violenza d’impatto dei mulini a vento sul paesaggio italiano a causa della… mancanza di quest’ultimo: vale a dire, non facciamone un dramma, giacché poco resta del Bel Paese. Il secondo ha rimbeccato il primo ricordandogli che qui siamo in “quello che era ritenuto il Giardino d’Europa” e che fortunatamente vi governano regionalmente tipi come i Soru e i Vendola fautori di politiche energetiche non avulse dall’obbligo di tutelare il paesaggio. Da che parte stai? Qualcuno potrebbe domandare. La risposa è fin troppo scontata, stante l’ingenua idiozia della posizione di Ronchi. Tuttavia, se vogliamo utilizzare il pretesto energetico per discutere della bellezza sì/no del nostro paese, dovremmo aprire un’inutile discussione, giacché ampiamente superata da un mucchio di articoli, lettere, interventi, eccetera; per parte mia, poi, metto a disposizione l’intera raccolta degli scritti in eddyburg da quando vi intervengo. Il termine Malpaese, coniato da Giovanni Valentini ormai da un paio d’anni, è entrato nell’uso corrente. Emiliani, poi, rappresenta, insieme a Francesco Erbani, il meglio della cultura dedita a denunciare, come fossero novelli Cederna, le incredibili malefatte che il territorio e le città italiane hanno dovuto sopportare, anzi, che a un certo punto non hanno più potuto sopportare. Ultimo tocco, sul quale meditare, la relazione di questi giorni proprio del presidente Emilani riguardo all’incessante fenomeno di spopolamento e depauperamento di valori umani dei centri storici, contraltato dallo sprawl periferico di raggio sempre maggiore e dalla distruzione pura e semplice del paesaggio agrario. Allora? Dato per acquisito il giudizio su un’Italia disgraziato paese che ha mangiato in gran parte se stesso, è doveroso cercare di trasmetterne i residui nobili alle nuove generazioni (anche se potrebbero non sapere che la bellezza esiste...) e dunque preservarli da qualsiasi insolenza sviluppista, alias sovraimpiego di energia spacciato come irrinunciabile. Non sta a me, qui, non competente in fisica energetica, dare contributi alla soluzione del problema in senso tecnico, ma tengo a dichiararmi completamente in sintonia con la Carla Ravaioli (rileggi Energie rinnovabili e capitalismo, 12 giugno). Come compito generale “individuare la radice dell’insostenibilità sociale non meno che ecologica del nostro paese, e su questa base impegnarci”. Come scelta particolare prioritaria, semplice, pratica, facile da attuare perché non solo diminuisce i danni ma aumenta la qualità della vita, “risparmio energetico”, ma “non solo quello della sola ‘cosiddetta’ efficienza”, bensì “quello di un forte e progressivo contenimento della crescita, razionalmente pianificato e gradualmente attuato: insomma un modello economico e sociale diverso da quello oggi ovunque vincente”. Tuttavia si parta da quella “follia del nostro tempo” di cui fanno parte gli avvenimenti milanesi da me descritti, rispecchianti accadimenti analoghi in tutte le città: purché gl’indirizzi che le autorità deputate dovranno individuare, e i nuovi responsabili comportamenti dei cittadini che dovranno affermarsi non approdino a mere illusioni, dichiarazioni prive di atti davvero incisivi per bloccare e poi alleggerire l’insostenibile pesantezza dello spreco e dell’abuso. Una specie di lotta all’evasione fiscale, la lotta per ricuperare l’energia buttata via senza costrutto; poi per trasformarla in effettivo bene d’uso, coerente al bisogno sociale reale, misurato anche in rapporto alla povertà in buona parte dei paesi del mondo e allo scambio ineguale cui sono costretti dal dominio del capitalismo occidentale. Sperando che i risultati saranno all’opposto di quelli ottenuti nella lotta all’evasione fiscale, condotta senz’armi e soprattutto senza volontà di farla sul serio. Forse temevano, le autorità, che un forte ricupero di risorse monetarie (l’evasione totale ammonta a circa 130 miliardi di euro, cioè oltre 250.000 miliardi di vecchie lire) avrebbe gettato il paese in una condizione deflazionistica, con gran terrore dei produttori, ancor oggi rimpiangenti l’alta inflazione garanzia di esportazione per prodotti mediocri, e degli speculatori d’ogni risma (finanziaria, fondiaria, edilizia, commerciale…). Così, il ricupero energetico di una forte quota di MW troverà molti nemici, dal momento che il modello economico-energetico-sociale d’oggigiorno soddisfa troppi appetiti, è troppo redditizio (la pelle dei cittadini non conta) perché i poteri che contano decidano di limarne gli assetti inaccettabili, tanto appaiono assurdi, stupidi a un cittadino ancora dotato di un barlume di sentimento critico.

Tutto giusto l’intervento di Dusana Valecich (For the benefit of the future generations) dopo la mia “invettiva”. Meglio precisare. Il finto dialogo col ragazzo e la ragazza riguarda l’ambiente, il paesaggio, la città, la bellezza. Poveretti… è vero, come scrive Dusana, a non poter godere dei benefici per mancanza delle cose che a noi ne hanno dispensati quando il diluvio non aveva ancora infangato completamente il paese. Loro non ne hanno colpe, diciamo? Ripeto: loro sono nati e vivono nel contesto così come è, non sanno da quale cataclismatico mutamento provenga, non sanno che avrebbe potuto essere diverso, migliore. Hanno ereditato, ma anche ereditano senza accorgersene giorno per giorno gli effetti delle malefatte del giorno per giorno. Non recepiscono perché non hanno i sensi esercitati? Una completa assoluzione non convince. I crimini commessi nell’urbanistica, nell’architettura, nell’ambiente “naturale” appartengono ad almeno due/tre generazioni precedenti, ma bisognerà pur calcolare i confini, anzi le sovrapposizioni, le sfumature generazionali per evitare un esame per blocchi separati che nella realtà non esistono. Insomma, ci sono tante età di essere giovani. Quelli che vivono secondo totale inconsapevolezza di sguazzare nel fango sono i più giovani, proprio quelli dei telefonini squillanti in classe (leggi le proteste di Mario Pirani in difesa degli insegnanti), delle pance nude esibite in inverno, in breve quelli di cui ci racconta la Dusana, i Peter Pan: evidentemente non ha funzionato la catarsi di qualche manifestazione di massa contro… Ma gli altri, i venti-venticinquenni, i trentenni e oltre, anch’essi poveri sciocchi privi di strumenti, di retroterra informativo, eccetera? Ma. Non appartengono (ma anche i piccoli…) alla consapevole cultura vincente del cinismo e dell’apparire, del denaro facile guadagnato facilmente o, soprattutto, non guadagnato e ricevuto dalla famiglia? Attenzione, però. Dobbiamo distinguere. Di là stanno, in contesti per lo più meridionali, i disperati (pensiamo noi, non sappiamo quale coscienza abbiano loro di sé) tipo borgatari poveri (ma non “belli”), tipo periferici ignoranti intelligentissimi destreggiatori: nuovi sottoproletari figli di sottoproletari o “senza famiglia” anche se ce l’hanno. Di qua stanno i giovani e belli e magri e spesso semi-obesi piccoli medi borghesi e borghesi, sono questi, mi sembra, di cui scrive la Dusana, di cui Pirani ci ha raccontato le sceme gesta scolastiche, per i quali insomma stiamo facendo le prediche circa l’incosciente loro sguazzare nell’ambiente alluvionato essendo questo la loro realtà esistenziale. Ragazzi e ragazze, uomini e donne giovani, pochi statisticamente come classi di età secondo la piramide della popolazione, ma enormi masse se viste o calcolate nella concentrata presenza consumistica urbana metropolitana o turistico balneare o turistico montana o disco-festaiola. Pensiamo alle città che conosciamo bene. Ricchi e pazzi per l’abbigliamento e per lo svago spensierato conformi ci paiono questi giovani. Come reggerebbero in una città quale Milano le centinaia e centinaia di negozi a misura di medio-magazzino dallo specifico look, che si susseguono lungo le strade, non solo del centro canonico e della periferia storica, e continuano a nascere ogni nuovo giorno sloggiando attività precedenti niente affatto fuori tempo ma solo prive dell’ultimissimo grido omologato e omologante? Qui non c’entra la città della moda di Via della Spiga o del quadrilatero teresiano giuseppino, cui si rivolge la borghesia non dico alta, dico straricca, le “signore” lombarde. Di un’altra città si tratta. Ecco, è questo l’ambiente che questi tali giovani, dai 13 ai 35, vedono, frequentano, comprano, ne parlano continuamente (avete mai provato a orecchiare i discorsi delle ragazze transitanti? Vestiti, vestiti, vestiti…). Ambiente urbano. Cosa sanno della città, della metropoli rovinosamente caduta nel puro gioco del vendere comprare dall’altezza delle sue tante capacità del fare, dell’indicare; delle sue dotazioni di coerenza spaziale e bellezza, dei suoi monumenti? Come reggerebbero in una città quale Milano i trecento locali sui Navigli appositamente creati man mano per quei giovani (sempre ulteriori da qualche decennio), e quegli altri locali fratelli ormai pervadenti a decine, e moltiplicatisi mensilmente, spazi noti e anfratti di periferie interne ed esterne, se appunto quei giovani non avessero introiettato il relativo modello comportamentale insieme alla fantastica disponibilità monetaria? Come sarebbero potute proliferare le multisale da 18 schermi nell’hinterland a un tiro di schioppo l’una dall’altra, progettate e realizzate per il nuovo mercato, vale a dire destinate proprio a quei giovani, dotati di soldi, di automobili, del tempo della sera e dei W. E alternativi a mare monti eccetera? A questa stregua, come potrebbe interessargli la natura (perduta), lo spazio aperto (contraffatto), i monumenti (sopportati), l’architettura fine non arrogante? (Ci sono i bravi Boy-Scout, dite, che accendono focherelli sfregando legnetti come gl’indiani…). Senza esserne responsabili, secondo Dusana. Varrebbe il ritornello è colpa della società ampiamente contestato dai sociologi (e psicologi e antropologi)? Nessuno di noi lo crede a questo grado di genericità e generalizzazione. Colpe possiamo distribuirne secondo una casistica da chi più ne ha più ne metta, e non giungeremmo a niente di conclusivo laddove, probabilmente, ci siamo trovati dentro a una inavvertita mutazione antropologica, parallela al complessivo mutamento antropologico del popolo italiano: come, se no, avrebbe potuto instaurarsi un tale mondo nuovo della politica, che, appunto, se ne frega di tutto quanto qui, in questo sito, cerchiamo di richiamare, denunciare, difendere, rilanciare, proporre all’incontrario? Ma c’è un punto secondo cui non è giusto tacere. Anche tutti noi (intendo gli anziani e i vecchi) siamo stati giovani. Altri tempi, altri luoghi, altra società eccetera si dirà. Ma non erano tutti giardini fioriti! Anzi. Cose di tutti i colori ci circondavano. Due condizioni di salvataggio si sono date, le stesse che ritroveremmo oggi in casi minoritari. Una curiosità, un’autodeterminazione, un sentimento che chissà come sorgeva interiore e s’attaccava all’albero della tua vita. Detenevamo certamente modelli buoni acquisiti anche noi inconsapevoli eppur sorpresi, poi, consapevoli. Da dove? Se dovessi individuarne la reductio ad unum, direi dai Maestri, lungo tutto il corso della vita giovanile e oltre. Non ne faccio l’elenco, ve ne lascio il compito, Maestri vivi, Maestri morti ugualmente conosciuti (un vero padre, per esempio). Ciò che mi preme di affermare è che da un certo momento in poi la specie dei Maestri si è rarefatta entro il generale mutamento, soprattutto riguardo alla provenienza familiare e parzialmente scolastica. Ora noi, vecchi insegnanti d’università, rammentiamo la condizione più bella, rara ma non unica, riguardo ai giovani: sappiamo e diciamo, senza spocchia, di essere stati per qualcuno di loro Maestri, di averli visti poi andare per conto proprio, quei pochi, senza tradire, senza dimenticare e conservare l’amicizia vecchio/giovane, raccogliere le vecchie bandiere a nostra volta raccolte sbrindellate dai grandi riformatori dell’urbanistica e dell’architettura d’antan (per esempio un Bruno Taut, per intenderci), raccoglierle, i trentenni-quarantenni, ricucite e rinnovate, e sventolarle davanti alle insorgenti attonite giovani generazioni.

“Per dire la verità, dopo aver immaginato quelle bandiere, so che in questo nostro tempo contraddistinto da consumi inutili e volgari mancano gli ideali. C’è poca cultura vera, e poca urbanistica e architettura sincere, non travolte dal mercato. Si sghignazza sulla questione morale. Si accusa di moralismo (ma è un reato? un peccato?) chi rivendica valori personali e sociali negletti. È per questo che non si riesce a edificare la città reale, dopo averla intrasognata in utopia, umana, bella, vitale, e si accetta, chiudendo gli occhi e uccidendo i sentimenti davanti alle cause del disastro ambientale, l’antiurbanistica e l’antiarchitettura convenienti soltanto ai potenti, ai loro alleati, ai loro vassalli, valvassori, valvassini” (L. M., aprile 1988).

P.s. Sentite tuttavia uno dei Grandi Vecchi inarrendevoli: “Da Sondrio a Milano i lombardi hanno deciso di esporre il brutto e di nascondere il bello, il Lago di Como è scomparso… C’è l’esposizione dell’andante, del finto ricco della classe unica televisiva. E un presentimento di rovina: possibile che un mondo che ha cancellato la bellezza abbia un futuro accettabile? Ai giovani questo mondo brutto può anche andar bene: si spostano di continuo non fanno neanche tempo a vederlo, il loro mondo è fatto di cartelli che sfilano veloci. Siamo noi vecchi a vederne la irreparabile rovina… La gioventù è forte e avida di vita, digerisce tutto, mangia panini osceni e butta giù gazzose. Siano noi vecchi i fregati, ci consolava da Sondrio a Milano la bellezza che ora non c’è più”, Giorgio Bocca in ‘Il Venerdì di Repubblica’, 3 giugno 2005, p.15

Urgente invettiva, sì, perché non se ne può più. Mi scuso se non vi lascio respirare, anzi non lascio raffreddare il pezzo del 22 maggio (Illusioni delusioni).

Se anche il bravo Giovanni Valentini, punto di riferimento giornalistico di tante denunce per le violenze al paesaggio, alle città eccetera, e inventore del termine Malpaese da usare regolarmente al posto del menzognero Bel Paese, predica senza scegliere davanti alla diatriba fra i diversi movimenti ambientalisti (Repubblica di ieri), se cade in una delle trappole sparse, come mine belliche, per cinquant’anni dai falsi profeti in tutto il territorio nazionale (sviluppare sviluppare sviluppare, sostenibilmente sostenibilmente sostenibilmente), se soprattutto accetta il furbo gioco dei falsi medesimi, quello del no e del sì (non si può sempre negare negare negare opere opere opere, bisogna proporre proporre proporre alternative alternative alternative – chissà perché, la vedremo): beh, allora mi rifugio nel mio eremo bello (uno a picco sul mare inquinato), me ne frego di sapere, di capire, cerco di dimenticare il paese paradisiaco ben conosciuto confrontato con l’estraneo infernale attuale, smetto di combattere tutte le battaglie – verbali, si dirà (grazie tante, vorrei vedere te, caro giovanotto o te, cara ragazza che cresciuti nella merda ambientale credete che questa sia la normalità da viverci e viverla, anzi che questa è appropriatezza moderna dunque bellezza, quando non avrete altro che il bastone per sostenervi e non potrete nemmeno coltivare ricordi perché ve ne tormenterà il terribile tanfo e vi rifugerete nel cesso che vi parrà campo di rose al confronto), e leggo rileggo disegno suono stravaganze scrivo neodada, giro sfiancato fra gli ulivi e i pini sopravvissuti.

Valentini non è di quelli che “ma non vorrete mica che non si faccia proprio nulla!” quando qualcuno si oppone alla costruzione di un grattacielo al centro del colonnato berniniano. Certo no. Ma se accede, con apparente entusiasmo, all’ultimo giochetto di parole promosso da Legambiente, il gruppo che annuso sospettosamente dopo aver saputo che si becca bei soldini dal ministro Matteoli per iniziative da me altrettanto sospettate nella misura in cui (ah, caro Enrico…) piacciono all’An-neonato alle passioni ambientaliste, scende di qualche punto nell’ammirazione e stima che gli dobbiamo. Dunque la locuzione degli intelligentoni: se da una parte abbiamo lo sviluppo sostenibile, dall’altra dobbiamo avere l’ambientalismo sostenibile!! Bello, eh! Chiaro, no? Cercano di spiegare, tuttavia. Da una parte è l’ambiente, la natura che devono poter sostenere lo sviluppo prodotto dall’uomo, dall’altra è l’uomo che deve poter sostenere l’ambiente e la natura troppo tali, troppo intatti, troppo cattivi o invasivi, privi, guarda un po’, di umanizzazione (che poi, cari miei, non c’è al mondo un metro quadro di paesaggio non umanizzato, come si suol dire).

Oggi, in Repubblica, Francesco Erbani (anche lui un intollerante radicale ostile al ragionevole far qualcosa?) ci informa del centomilionesimo attacco a un luogo di valore storico, aritistico, paesaggistico. Devastato il paesaggio del poeta [Petrarca]. Lo scempio di Arquà. Siamo nel parco regionale del Colli Euganei. Qua, al Sassonegro, fervono i lavori, scrive Erbani, per 12.000 metri cubi di “villette”, là, nelle Valli Selvatiche, 90.000 metri cubi. Facendo un breve calcolo: qua una trentina di ville, là un albergo che, se di altezza contenuta, tre piani, consisterebbe in un parallelepipedo pieno di 95x95x10 metri oppure in due volumi di uguale impatto ma a corte interna, oppure in uno spezzatino di numerosi parallelepipedi non meno invasivi. E poi annessi e connessi, altre strutture ricettive, campeggio. Erbani ci ricorda l’enorme pregio delle Valli (i canali cinquecenteschi, Villa Selvatico, Villa Emo), e conclude con l’abitudinaria coltellata (nel senso che rischiamo di farci l’abitudine, io no – giacché la rabbia salvatrice non mi abbandona): “Raggiungerlo è difficile [il campeggio]. Poco male: una strada spazzerà via un pezzo del parco di Villa Selvatico, un giardino di ispirazione letteraria, realizzato nel 1816 da Giuseppe Jappelli, ripercorrendo luoghi e immagini del libro VI dell’Eneide”. Amen, come sempre.

Milano 25 maggio 2005

“Niente di nuovo sotto il sole” (che poi c’è, qualcosa di nuovo), scrive Vezio De Lucia (Gli spiriti forti, 19 maggio). Non sorprendenti le differenze fra i tanti gruppi ambientalisti, ma un conto è possedere un’identità, ognuno la sua entro una sperata e condivisa incedibile volontà di difendere il pezzetto d’Italia, disperso qua e là, sopravvissuto alla guerra contro l’oikos nazionale scatenata e vinta dalla politica rozza o corrotta, dall’imprenditoria brigantesca, dall’urbanistica incolta e succube. Vero e proprio tradimento di una patria. Un altro è l’astio, lo scontro: fanno festa a champagne, quei padroni. Ognuno di noi frequentatori di Eddyburg presenta le sue esperienze, i suoi ricordi, considera casi concreti. Da un bilancio traggo una conclusione: i movimenti più affidabili, fra i nominati in questi giorni, sono il Wwf e Italia Nostra, riguardo alla duplice battaglia: difesa secca di luoghi tramandati dai nostri antenati intatti, o solo degradati; proposta di cure certosine per consegnarli vivi alle giovani generazioni. Basta consultare il sito per esibire esempi chiari del loro impegno incondizionato, come quello per impedire la costruzione nella già sanguinante Ravello dell’auditorium niemeyeriano, con annessi e connessi in opere di ogni genere. De Lucia ci ricorda gli ultimi fatti, ci deprime con la notizia della probabile fattibilità dell’intervento, gloriosamente condivisa anzi acclamata da Legambiente, guarda caso alleata di un folto gruppo di entusiasti alleati del sindaco e di Bassolino (!), tutti sprezzanti verso la questione primaria della illegalità della costruzione (e poi, non ci facciano penose lezioni sull’architettura, che ci arrangiamo da soli). La posizione di Legambiente oscilla secondo la convenienza politica. Accusa gli altri di essere capaci solo di negare e non di proporre, per esempio di essere contrari agli impianti per l’energia eolica (giganteschi apparati, del resto) quando, al contrario, chiedono di realizzarli con le dovute cautele paesaggistiche; e addirittura si costituisce in giudizio contro Italia Nostra per la sua opposizione alla linea C della metropolitana di Roma, spazzando via senza discutere la proposta alternativa della metropolitana leggera (vedi notizie in Repubblica del 20). Legambiente: è questa su cui ho potuto ironizzare a proposito della distribuzione delle Vele a spiagge italiane (intervento del 16 maggio 2003, ora in Parole in rete, presentato nel sito): non solo in merito all’esiguo numero di spiagge in causa rispetto agli oltre 6000 chilometri di costa, ma al modo di fotografare le condizioni reali, col paraocchi – ho scritto –, disinteressati al contesto, perfino al vicinato: vale a dire un modo estraneo all’analisi urbanistica e paesaggistica. E quale ambientalista è parso disponibile a farsi ingannare di fronte al progetto dei proprietari per una cosiddetta naturalizzazione delle rovine del Fuenti, comportante pesanti destinazioni d’uso dentro e fuori terra? Non del Wwf, non di Italia Nostra; né del Fai, né della Lipu… Ritorniamo ai meriti indiscutibili. Nessun altro gruppo o movimento o partito si è speso come Wwf e Italia Nostra nella battaglia, ricorsa più volta nelle rassegne di Eddyburg, per Baia di Sistiana, uno dei pochi luoghi bellissimi persistiti lungo le coste nazionali, come fossero, tali luoghi, vecchi e forti personaggi particolarmente ostinati, insensibili a ogni tipo di lusinga. Non ci fosse stato il loro impegno decisivo, noi di Eddyburg che abbiamo cercato di dar loro una mano saremmo qui ad assistere alla costruzione della inconcepibile “nuova Portofino”, voluta con eguale determinazione sia dalla proprietà dei terreni – meglio dire del territorio, sia dal centrosinistra della Regione Friuli Venezia Giulia capeggiato da Illy, sia dall’amministrazione comunale di Duino-Aurisina, centrodestra (taccio del progetto precedente di Renzo Piano). C.v.d. Non hanno mai mollato la presa, i nostri amici triestini. Ancora tre settimane fa, per parare eventuali, anzi sicuri colpi di sciabola dei nemici della Baia di Rilke, hanno presentato un documento straordinariamente preciso al Commissario dell’ambiente della Commissione europea, chiedendo, di questa, l’intervento decisivo per salvare l’integrità di un Sito qualificato come di importanza comunitaria. Intanto, a conferma delle differenze dannose fra gli ambientalisti italiani, in buona parte riconducibili ai vincoli della politica, guardate come i Verdi friulani abbiano privilegiato l’appartenenza al governo regionale, coi relativi ristorni, rispetto all’imperativo di opporsi alle scelte sbagliate e imbarazzanti dell’indiscusso apprezzato caffèttière. Ugualmente, a muoversi decisamente contro il Piano territoriale comprensoriale del Napoletano, fautore dell’edificazione per quasi metà dello spazio agrario, furono il Wwf e Italia Nostra, insieme a Gaia, Coldiretti e all’agronomo Antonio Di Gennaro. Non conosco la fine della storia, ma allora gli oppositori alleati (non inerti anche i Comuni di Napoli e di Castellamare) ottennero il rifacimento del piano. Per il famoso salvataggio dei cento grandi pini a ombrello di Marina di Campo all’Isola d’Elba, a fronte di un’amministrazione comunale di centrosinistra che tentò più volte (mi pare tre…) di abbatterli per ragioni incomprensibili, fu il Wwf a interpretare la parte difficile del crapone che non cede, in una situazione difficilissima in cui perfino la vice-soprintendente ammetteva il taglio, purché le piante fossero sostituite da altre, udite udite, di aranci amari.

Ma non tutto, anzi poco, nella società e nella politica, si svolge linearmente. Se da una parte Movimenti come Italia Nostra e Wwf , liberi da stretti condizionamenti politici, riescono a svolgere il compito per cui sono nati, dall’altra chi è dentro in pieno alla politica deve viverne le contraddizioni. Ciò, naturalmente, non è giustificabile quando diserta il ruolo atteso. Questo riguarda soprattutto i Verdi che sono un partito e forse spiega il mancato loro decollo nel nostro paese. Hanno il pieno titolo di appartenenza al centrosinistra. Ma nella Regione Friuli Fvg stanno con un centrosinistra al potere autore di politiche contrarie alla loro presunta natura e vocazione; a Venezia stanno ora all’opposizione di un governo non diverso, cambiano solo certi caratteri dei “podestà”, Illy e Cacciari; a Milano e in Lombardia sono l’unica formazione nei rispettivi Consigli a contrastare giorno per giorno scelte del centrodestra da manuale del medesimo basate non su un generico anti-ambientalismo, ma su specifici programmi e attuazioni urbanistiche ed edilizie che potrebbero far giudicare inezie, al confronto, i piani e gli atti del fascismo anni Trenta nel territorio e nelle città, Milano in particolare. Il centrosinistra valtellinese in occasione dei mondiali di sci di gennaio-febbraio ha favorito la gioiosa decisione di abbattere gli alberi sopravvissuti allo sterminio di vent’anni prima – stessi campionati – condiviso addirittura dalla “pura” sinistra. Dunque le contraddizioni si inseguono: la Valtellina non è Lombardia? In Toscana la Giunta di centrosinistra Martini vuole l’autostrada tirrenica secondo un tracciato che stravolge il paesaggio “un po’ meno” di quello previsto da Lunardi; i Verdi mugugnano, per forza; gli ambientalisti, del resto, propongono l’adeguamento dell’Aurelia, buona soluzione giacché la statale è già una semi-autostrada. Grazia Francescato visita a novembre i cantieri dell’Alta Capacità Milano-Torino e rilascia pesanti dichiarazioni in merito alla distruzione del paesaggio storico delle risaie, ma i Verdi triestini, sappiamo perché, stanno zitti riguardo alla sconvolgimento del territorio carsico che la realizzazione del Corridoio 5 provocherebbe. Si muovono i soliti “diversi”… Certo, la Francescato non conta più nulla nelle relazioni politiche!

In occasione della crisi e ribaltone all’Istituto nazionale di urbanistica abbiamo discusso di persone. C’entrano, non c’entrano? Dissi, contrariamente ad altri pareri, che è anche, forse soprattutto, questione di persone. Non è una persona il presidente Paolo Avarello, specifica perfetta espressione dei tempi? Non sono persone i colleghi che hanno chinato il testone e non hanno emesso nemmeno un flebile sospiro di perplessità? Non erano persone, in carne e ossa, cervello e sentimenti, Adriano Olivetti e Giovanni Astengo? Quante approvazioni o critiche a determinate scelte politiche, culturali, eccetera rimandano alla evidente responsabilità di singoli protagonisti che con la loro posizione favoriscono o nuocciono una prospettiva condivisa e sperata da tanti? Non vorrei tediare con esempi di oggi, ma potrei farlo con facilità, troppa e avvilente. Al contrario, anche la non amata Legambiente presenta singoli componenti dediti alla causa senza patteggiare con gli avversari. A Milano è cominciato un attacco di imprese immobiliari al QT8, il più importante esempio nazionale del dopoguerra di urbanistica sperimentale, il quartiere dell’ottava Triennale costruito a partire dal 1947 per opera di Piero Bottoni. Approfittando dell’irragionevole processo di privatizzazione del patrimonio edilizio pubblico, case originarie testimonianza di esemplari contributi alla soluzione del problema abitativo da parte dell’architettura moderna corrono il pericolo di demolizione per essere ricostruite con una cubatura molto superiore, altre di essere sopralzate in maniera mostruosa. Gli abitanti storici del quartiere cercano di organizzarsi nella resistenza; chi li orienta è una persona, formatasi in Legambiente ma lontana dalle sospettabili trame della dirigenza. La quale, al contrario del contrario, si fa viva oggi sull’Unità per rispondere acidamente a Giuseppe Chiarante e Vittorio Emiliani, presunti autori (ieri sul quotidiano) di offese per aver definito l’associazione, scrive il presidente Roberto Della Seta, “associazione ricca e compiacente verso i ‘poteri’”. Il quale Della Seta, altro saputello in materia di architettura, rivendica “una tutela del paesaggio e dei centri storici che distingua (come Italia Nostra non fa sempre) tra seconde case abusive e manufatti progettati da grandi architetti”. Ancora c.v.d.; il rovello di Ravello. E allora le seconde case non abusive, prime responsabili del disastro nei territori di maggior valore paesaggistico del paese, vanno bene: ringraziamenti da parte del più redditizio mercato edilizio d’oggigiorno. Leggo in questo momento la lettera di Chiarante ed Emiliani su Repubblica di oggi, chiara nel mostrare Legambiente in conflitto con Italia Nostra e altri. Del resto, ci informano, quella riceve ingenti finanziamenti dal ministro Matteoli.

Cosa illuminerà di nuovo il sole?

Rutelli aureolato d’oro, per grazia di B., come un santo del Trecento.

Milano 22 maggio 2005

Purtroppo il turismo, abbiamo notato, è una delle voci primarie che i nostri amici intendono discutere nella Fabbrica del programma prodiana. Dico purtroppo perché questo fatto, da solo, indica che il centrosinistra considera il turismo soprattutto per le sue possibilità di contribuire fortemente alla "crescita" economica. Mi adeguo ancora, Carla, alle tue denunce e riparto dal mio commento. Temo che i nostri amici pensino (penseranno), copiando a livello governativo nazionale comportamenti già risaputi a scala regionale e comunale: ""impieghiamo le enormi risorse di beni culurali e ambientali, ovunque esse si manifestino, del Bel Paese – credono che esista ancora – per creare posti di lavoro, per aumentare la ricchezza, per distribuirla. Dunque, aumentiamo gl'investimenti in infrastrutture, specialmente strade e autostrade, porti turistici, impianti sciistici, alberghi, attrezzature di spiaggia, espansione di servizi commerciali nei musei, nei teatri, nelle grandi stazioni, e via via secondo un elenco infinito di iniziative private (e di privatizzazioni), mai contestate alla destra e da sostenere in quanto di "necessità" pubblica, o da premiare attraverso concessioni a buon mercato; dunque, inoltre, non ostacoliamo, anzi favoriamo la costruzione ulteriore e ancora ulteriore delle case per vacanze e fine settimana, approfittiamo della scappatoia concessa dalla definizione di residence house. Se non altro, il settore edilizio troverà ragione di sviluppo e domanderà forza di lavoro immigrata, non vedete come si offrono a basso prezzo albanesi, rumeni, marocchini, ottimi sostituti degli spariti bergamaschi? E attenti, voi sinistra radicale, non esageriamo con l’opposizione al ponte sullo Stretto e, sul piano legislativo, alla nuova legge urbanistica nazionale, liberista, sì, ma in fondo moderna affrancatrice dalle troppe regole"". Ma 'sto centrosinistra sa che tutto questo significherà "soluzione finale" per l'Italia già oggi Malpaese? Sa che spetterebbe all’opposizione-futuribile maggioranza spostare il problema del turismo dall'economia alla cultura, dalla speculazione privata alla riforma sociale, dal decantato stonato sviluppo alla stabilizzazione, dall'illimitato al limitato?

È la globalizzazione che impedisce il cambiamento?

Rileggo Il giocattolo rotto che hai scritto appena dopo Il turismo inquinante e cerco di collegare. Non possiedo come te un’alta preparazione socio-economica (tra tanto d’altro); ma qualche lettura indispensabile l’ho fatta. Negli anni ruggenti, al Politecnico, il gruppo cui appartenevo è stato il primo responsabile, per così dire, dell’introduzione nell’urbanistica e nell’architettura delle questioni strutturali (economia e società, per intenderci rapidamente); poi non ho mai rinunciato a perseguire la progettazione con gli studenti mettendo in relazione assetti spaziali e assetti sociali, naturalmente mai traendo conclusioni in maniera deduttiva elementare ma, ammesso di poterlo fare, seguendo linee complicate, anche tortuose. Del resto secondo Fernand Braudel “ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio. Ma gli spazi si incastrano gli uni dentro gli altri, si saldano fra loro, sono legati da rapporti di dipendenza”. Se questi rapporti valgono per la scala a grande denominatore, non valgono meno per i micro-ambienti socio-spaziali, sicchè non è velleitario affrontare l’analisi e il progetto nel senso detto sopra. Quella frase Braudel l’ha scritta nell’introduzione all’edizione italiana de Il sistema mondiale dell’economia moderna, del citato, da te, Immanuel Wallerstein: un testo di trent’anni fa che a me parla ancora. Ecco, mi impone di domandare: è davvero in fase di panne il meccanismo capitalistico? Non è più vero che il whirl del duro capitalismo strangola il mondo? La globalizzazione sta fallendo? Secondo Wallerstein (vedi lo stesso sottotitolo del librone) le origini del sistema mondiale dell’economia (sistema mondiale!) risalgono al Seicento. Nel corso storico, fatte salve le contraddizioni storico-geografiche, lo sappiamo, il globale non ha fatto altro che inglobare. Direi che per ragioni quasi fisico-meccaniche di pura accumulazione di forza e per assenza nella realtà (nel pensiero è diverso) di un modello rivale e vero nemico, il capitalismo mondiale non sta correndo molti rischi di perdere posizioni. E nella politica reale, maggiore e minore, negli stati pesanti, chi è il diverso? Chi l’antagonista? La Russia col suo esangue Putin neonata al liberismo e impotente potenza militare sbeffeggiata? La Cina campione mondiale di produttività operaia del tipo ottocentesco manchesteriano? L’Europa signora seduta sulla propria storia ma dimentica dei retaggi rivoluzionari?

Mi si allargano i polmoni a respirare l’aria smossa dai fiduciosi caparbi esperti cui ti riferisci riguardo al wallersteiniano “bisogno di esplorare possibilità alternative” al mondo attuale, ma poi l’aria mi manca.Certo, non ci si deve accontentare di aggiustare il giocattolo rotto; ma allora non possiamo nasconderci che la “nuova economia mondiale” deglobalizzata (citi Walter Bello), o qualsiasi “punto di partenza” verso una trasformazione del mondo, sarebbe pura e semplice rivoluzione. Magnifico, sarebbe. D’altronde basterebbe rileggere un passo dell’increscioso, se nominato, Engels di Dialettica della natura per immaginare: nel modo di produzione capitalistico, una determinata altezza della produzione di beni genera le crisi di consumo, ossia le crisi economiche cicliche risolte mediante non solo la distruzione dei beni prodotti ma anche di una parte delle forze produttive. La lotta per la vita consisterà nella difesa dei prodotti e delle forze produttive che la società capitalistica borghese ha creato, e nell’attacco contro l’azione distruggitrice dello stesso capitalismo. Cosa significa? Che la massa dei produttori deve appropriarsi della direzione della produzione e della distribuzione sociale togliendole dalle mani della classe dominante. In ciò consisterebbe la rivoluzione socialista. Devi togliere dalle mani per impadronirti. Non è difficile rapportare questa analisi vecchia di centotrenta anni all’oggi, con tutte le cautele del caso è inutile dire. Non vengono distrutti beni? Non vengono distrutte forze produttive? Altro che. Ma come potrebbe la massa dei produttori (nella quale è pur giusto comprendere tutto il lavoro non propriamente operaio-manuale) togliere dalle mani…? Engels pensava che la rivoluzione si fa. La rivoluzione russa si fece. La rivoluzione francese avvenne. Sappiamo come è corsa la storia, per sfortuna di molti cittadini del mondo.

Vedi nel sito i precedenti: Il turismo inquinante e Il giocattolo rotto, di Carla Ravaioli, e il mio Coraggiosa Carla Ravaioli, tutti nella sezione "Le opinioni di..."

“Sinistra radicale”… Discutiamo. Riproponendo il caso delle elezioni comunali a Venezia Edoardo Salzano (Eddytoriale 70 del 24 aprile) ritiene che “nella baruffa quella sinistra si è spaccata nelle due entità antagoniste, tra le quali la destra ha avuto buon gioco a scegliere quella a sé più vicina”. Non c’è, qui, una contraddizione, un’aporia? La parte della sinistra che si è riconosciuta in Cacciari certo non era essa a poter provenire da un fronte “radicale”, giacché solitamente attribuiamo tale qualifica a chi rappresenterebbe un’alternativa vera, nel pensiero e nell’azione, non solo alla destra “sporca” o “pulita” che sia, ma anche al moderatismo centrista suo fratello. Non una complessiva sinistra radicale si è divisa a Venezia, a meno di identificarla (insiemea Rifondazione e altri) con l’intero Partito dei democratici di sinistra: è infatti quest’ultimo che si è spezzato secondo le proprie differenze che vanno dal moderatismo ultra (di un Morando, per esempio) al radicalismo (di un Folena, p.es., che guarda caso è emigrato nel Prc). La preoccupante questione centrale di oggi e di domani è: cosa rappresenta, come si muoverà il Pds? Non possiamo ignorare che sarà il suo peso nell’Ulivo e poi nell’Unione (la quale il suo pezzetto di radicalismo costituito dal Prc e dai Verdi dovrebbe in ogni modo conservarlo, a meno di sorprese trasformistiche) a decidere nel confronto con la Margherita e con qualsivoglia modello centrista – o peggiore – esista nell’alleanza degli oppositori alla Cdl. I democratici di sinistra, dal momento che si sono identificati in fortissima maggioranza con la linea di Fassino (non dimenticabile detrattore di Enrico Berlinguer), hanno ripudiato definitivamente quei connotati storici che, preservati, avrebbero potuto garantire alla società la tutela e il rilancio di quegli “interessi generali” che, una volta, solo la classe operaia, appunto quale classe generale, e il suo mentore Partito comunista speravamo sapessero individuare pur fra mille difficoltà e volgere a nuovi obiettivi concreti, non ideologici: vale a dire alla fine più avanzati nell’andirivieni della storia. Questo fu per così dire necessario a causa della mancanza di una borghesia produttrice erede dell’illuminismo (mai esistito veramente in Italia), capace lei di costituirsi come classe generale.

Parliamo di cultura: quale cultura di riferimento possiede oggi e indica agli altri il Pds? Come potrà misurarsi con la cultura, presente nell’Ulivo-Unione, della corsa al centro, priva di basi storiche se non, per una parte, un vago cattolicesimo sociale? Quale sarà l’influenza di una sinistra effettiva (Pdc) non più riconoscibile in un grande e grosso partito, una sinistra partitica abbastanza debole che deve usurarsi nel difendere posizioni anziché muovere all’assalto? Quale la capacità e volontà dei Movimenti di configurarsi loro come una sinistra nuova – pressoché priva della classe operaia – essendo mescolanza di ceti non propriamente dotati di cultura storica e tenuti insieme dal un sentimento di contrasto a un governo mai visto nell’Italia democratica tanto è indecente? Queste le domande che mi pongo davanti al tema forte dell’Eddytoriale 70, ambiente, crescita, patrimonio di beni italiani… Quanto più allarghiamo l’orizzonte e ragioniamo secondo una visione planetaria, tanto più verifichiamo l’inadeguatezza culturale delle forze politiche menzionate. Il marxismo è innominabile per la stragrande maggioranza degli attori del centrosinistra. Eppure certo studio marx-engelsiano e di conseguenza certa forma mentis avrebbero aiutato a capire, avrebbero forse impedito l’impressionante disimpegno di fronte al problema del rapporto fra l’uomo e la natura (solo lo Tsunami, ho già commentato, ne ha provocato una superficiale, giornalistica riesumazione). Il mondo va in rovina, e i nostri amici politici supposti alternativi non sono riusciti a liberarsi e a liberare gli sprovveduti dai vincoli nominalistici rappresentati dai nauseanti “sviluppo”, “crescita”, “sviluppo sostenibile”, ormai privi di senso umano e, al contrario, pregni degli effetti e dei programmi dell’incontentabile e incontenibile whirl-capitalism. Noi, specie umana, apparteniamo non solo a una nostra speciale storia ma a due storie, la storia naturale e la storia sociale. La piena coscienza “politica” di tale appartenenza, libera dal radicalismo separatore cattolico, avrebbe potuto produrre una diversa acculturazione di massa capace di comprendere l’enorme inganno costituito dallo squilibrio mondiale e locale (fra uomo e natura e nell’umanità) progettato dalle classi e dagli stati dominanti, e dall’enorme loro vantaggio prodotto da un sottosviluppo preservato in quanto funzionale anzi necessario alla veloce accumulazione del capitale. Non diversamente è capitato, se non per riguardo alla scala, nel nostro paese circa la distruzione della natura, del paesaggio, insomma del famoso patrimonio di beni. Come non hanno capito, i nostri, che la costruzione, la trasformazione e la manutenzione del paesaggio (del territorio) è intimamente collegata ai rapporti sociali? Le analisi notissime del marxista e comunista Emilio Sereni: le conoscono? Sì? E allora perché non ne hanno fatto tesoro? Sono analisi vecchie? Ma quali, allora, le nuove loro culture? Che, abbiamo imparato dolorosamente a verificarle nei fatti, mai impiegano parole e concetti quali natura, paesaggio, territorio, urbanistica… nella contesa con la destra principale distruttrice dell’ambiente nazionale.

Se, come scrive Edoardo, la sinistra deve trovare oggi il suo ruolo storico disvelando la contraddizione della ‘civiltà’ attuale (mio il virgolettato) “che ha la sua radice in una concezione oggi rivelatasi errata e mortifera dello sviluppo”, ebbene: vuol dire che il ritardo è spaventoso e che le “battaglie per la difesa di quanto resta [assai poco] del patrimonio accumulato da secoli” saranno ancor più difficili delle precedenti perché estreme. In ogni modo siamo qui per combatterle, coi nostri poveri mezzi.

Milano, 2 maggio 2005

In Eddyburg non è molto frequente il commento diretto di qualcuno a un articolo, una lettera di qualcun altro. Ebbene, sento di doverlo fare, benché in ritardo a causa di una lettura ritardata, in merito al pezzo di Carla Ravaioli Il turismo inquinante. Coraggiosa davvero ad affrontare un tabù, a rompere un idolo, a rischiare pesanti critiche da sinistra: quella sinistra che per parte sua non ha mosso un dito almeno per definire una propria visione del problema e separarla da quella dominante, dei governi succedutisi in mezzo secolo e delle stesse popolazioni. Ugualmente alla mancata costruzione di una politica a scala nazionale in materia di città e territorio, urbanistica e pianificazione. Si dirà che in questo secondo caso la differenza dai poteri vincenti si è affermata a livello locale; è vero in una certa misura e fino a un certo momento, non per l’oggi, quando tutto e dappertutto tende a omologarsi, a tenersi insieme, mentre una legge urbanistica nazionale ultra-liberista sta per essere varata consenziente o dissenziente ma disattenta e silenziosa l’opposizione. Nel campo del turismo le amministrazioni locali coi loro amministrati non sono le meno responsabili del disastro denunciato. Ma città e territorio sono la ragione stessa del turismo come descritto da Carla Ravaioli. Comuni e Regioni hanno permesso e/o provocato il dissesto del territorio nel sanguinoso sacrificio verso il dio che ridistribuisce il dono. Basta consultare Eddyburg per conoscere una mucchio di casi, raccontati da alcuni di noi e da giornalisti esterni, che confermano tale verità. Nel sito ho ripetuto ad arte: del Bel Paese d’antan, oggi Malpaese (Giovanni Valentini), resta non più del 15 % t.c. (tout compris, Messieurs et Mesdames!). Quanto è “colpa” diretta del turismo, oltre che della speculazione immobiliare destinata anche ad altro, e delle infrastrutture? In verità la domanda non ammetterebbe risposta giacché tutta la materia “inquinante” proveniente da diverse fonti si è aggregata in un unico magma lavico che ha invaso lo spazio nazionale e lo ha pervaso nei minimi anfratti. Si pensi, per esempio, all’edilizia: il settore delle seconde e terze e quarte case è diventato da almeno due decenni il più redditizio, prezzi che nelle grandi città possono essere raggiunti solo nelle ridotte aree centrali di massimo pregio (prima dagli uffici, ora dalle residenze di lusso).

Il vecchio slogan che poteva essere considerato di sinistra, turismo sociale, si è dovuto ben presto ritrarre, o si è ripiegato in una mistificazione. Ricordo, a quest’ultimo proposito, gli anni del mito bolognese ed emiliano-romagnolo: si voleva dipingere la costa romagnola come luogo di turismo sociale, ingannati dai prezzi relativamente bassi e da certe capacità organizzative di un’imprenditoria piccola e media. Si doveva dimenticare che, se questo era vero, lo era anche l’enorme quantità di costruzioni susseguentisi per chilometri e chilometri lungo il litorale a designare una “compromissione urbanistico-edilizia” (secondo il linguaggio di allora) che avremmo dovuto considerare all’incontrario, ossia remora alla riforma territoriale che rendesse possibile la riforma sociale del turismo. E non si doveva nominare un mercato del lavoro solo apparentemente separato dalle politiche urbanistiche: 30-40.000 lavoratori stagionali del settore turistico-alberghiero, per lo più immigrati da Puglie, Abruzzo…, sottoposti a rapporti di lavoro e condizioni di vita miserevoli e talvolta degradanti.

Coraggiosa Ravaioli…

Le città violate… Se penso a Venezia mi sento male. Ma i veneziani della città storica o abitanti altrove ma tenutari di commerci o di case lì, sono felici di poter saccheggiare i 12 milioni di visitatori annui o gli ospiti acquirenti. Infatti hanno votato “bene”. Veniamo tacitati e giudicati elitari se dichiariamo disappunto e pena per la visione di quei gruppi che percorrono affastellati gli itinerari commerciali stranoti e bruttati. È proprio impossibile, da nessuna parte del mondo, praticare un po’ di educazione culturale e artistica? La Grand Galerie del Louvre, il potente corridoio dedicato tra l’altro all’aurea pittura italiana, il lunghissimo spazio che precipita nella sala dominata dalla Gioconda, guarda attonito il corteo dei visitatori, moltissimi sempre gli italiani, andare e andare e andare senza sosta, senza accorgersi di emozionanti capolavori, per incocciare laggiù la muraglia umana davanti alla Gioconda. Chi se ne frega della Vergine delle rocce o di Sant’Anna con la Vergine, ilBambino e l’agnello, è Monna Lisa che debbo riuscire a fotografare sollevando la macchinetta al di sopra di trecento teste!

La mobilità turistica… È l’intero sistema di trasporto a volgersi contro, ai turisti e a tutti, invece che favorire la libertà di moto; a “inquinare” non solo letteralmente ma socialmente, poiché favorendo l’interesse individuale contribuisce a svendere il patrimonio di valori comuni. La penalizzazione del trasporto pubblico, nelle città e nell’intero sistema nazionale delle infrastrutture e dei mezzi, è giunta a tal punto da essere irreversibile. Non saranno un’“alta velocità” (peraltro solo “alta capacità”) pagata con l’indecente trascuratezza della rete normale, né poche linee di tardive e costosissime metropolitane in tre o quattro città già ricoperte di automobili e gas e polveri mortali, a introdurre un qualche buon germe di socialità in un turismo spezzato consumistico e, se è per questo, nelle vite dei cittadini.

Viaggi di gruppo organizzati… Molti per mete lontanissime, accettate come si accetta un pasticcino a un tè. È incredibile eppur vero: sappiamo di coppie giovani, del tutto disinteressate a godersi risorse ravvicinate ancora pronte a offrire piacere e insegnamento: eccole in viaggio di nozze, balzano per aereo nei luoghi una volta più strani ora designati da un sistema globale che inserisce il nuovo tipo di turismo nel commercio delle persone come merci, visitano non visitano, si divertono non si divertono, fotografano. Abitano nell’hinterland milanese e non hanno mai visto Sant’Ambrogio, abitano nei dintorni di Roma e non conoscono il Pantheon.

Che fare? domanda Carla Ravaioli. Per oggi le sue risposte, no imporre la categoria della quantità, no puntare sull’aumento del turismo per la ripresa economica, no affermare che il turismo non inquina, sono le negazioni necessarie poiché rappresentano la base di una politica generale completamente diversa da quella vincente finora. Chi l’attuerà? Prodi Fassino Rutelli Bertinotti? Facciamo tanti auguri a noi stessi.

Milano, 22 aprile 2005

Che cosa succede nell’insegnamento universitario. Al Politecnico di Milano, particolare Facoltà di architettura civile di Milano Bovisa.

Ormai acquisito il discutibile schema 3 + 2, laurea breve e laurea specialistica, il problema più grave di oggi è la consistenza e la qualità del corpo insegnante. Voglio dire che mentre stiamo contestando il disegno Moratti teso a spezzare definitivamente il legame fra docenti e scuola, ad abolire l’incompatibilità fra professione privata o vs privati e impegno istituzionale, inoltre a ricattare gl’insegnanti circa la stabilità del posto di ruolo, sta funzionando da qualche anno ed è in corso di definitiva stabilizzazione un sistema locale dequalificato, perfino oltranzista in confronto all’ipotesi morattiana: la quale non doveva sorprendere giacché privatizzazione e liberismo nell’università rappresentano lo stesso ribaltone applicato o applicabile nei musei, nei maggiori teatri, nelle grandi stazioni ferroviarie, nelle infrastrutture di ogni tipo, e ancora, nel territorio, nella casa, nel mercato del lavoro. Si vuole svellere l’università, e il resto, dai cardini così come si vuole scardinare la Costituzione.

Il modello locale del Politecnico milanese ha anticipato e giustificato la riforma. È difficile dire come e quando, esattamente, abbia cominciato a prender forma e si sia poi irrigidito in una struttura che sarà impossibile demolire e ricostruire. È certo che il penultimo rettore del Politecnico e l’entourage dei professori più potenti fossero fautori della soluzione più facile di fronte alla scarsità di professori e ricercatori causata, per un lato, dall’”opportuno” sostanziale blocco dei concorsi, per un altro dalle norme europee relative al rapporto studenti/docenti, specificamente nelle facoltà di architettura e, qui, nei laboratori di progettazione. Pensarono: se mancano professori (veri e propri, aggiungo) prendiamo persone dall’esterno, dal mondo professionale e incarichiamole di insegnamento mediante contratti annuali di diritto privato; inoltre utilizziamo allo stesso modo quei disperati collaboratori volontari interni che stanno invecchiando senza speranza in un futuro migliore; comunque è bene che il personale di ruolo non superi la metà dell’intero organico (proprio in questo senso si esprimerà poi la Moratti); il vuoto sarà riempito da quegl’altri.

Non c’è nessun ostacolo legale a che i contratti di diritto privato per incarichi su discipline come quelle presenti al Politecnico a Ingegneria e ad Architettura – la dizione legale esatta: “settore scientifico disciplinare dell’insegnamento” – possano proliferare senza limiti. Sostenevano, i riformatori/demolitori: imitiamo gli Stati Uniti, dove le università migliori si contendono i cervelli acquistandoli, appunto, attraverso contratti. Sapevano benissimo che il paragone e l’ipotesi erano ridicoli. Là, negli istituti maggiori (privati), la contesa avviene attorno a remunerazioni da capogiro, per noi. Qua le cifre sono da miseria, di che cavolo di contesa potevano parlare?

Osservo meravigliato la facoltà che ho contribuito a fondare, leggo un elenco relativo all’anno accademico 2004/05:

professori ordinari 23

professori straordinari 6

professori associati 25

totale insegnanti veri e propri 54

professori fuori ruolo 4

ricercatori 33

totale insegnanti istituzionali (ammesso che i fuori ruolo e tutti i ricercatori siano titolari) 91.

Proseguo:

professori incaricati con il contratto di diritto privato168

insegnanti istituzionali 91

totale insegnanti 259

Così i contrattisti rappresentano il 65 % del corpo docente: un successo come privatizzazione edequalificazione della scuola; un successo come insignificanza del ruolo effettivo di professore.

Quanto vengono pagati? Approssimativamente secondo le ore assegnate, da un minimo di 900 a un massimo di circa 5.400 euro netti per i responsabili/direttori dei laboratori di progettazione, il cui peso didattico è ben conosciuto. Tale rimunerazione del lavoro va interpretata insieme al senso a al valore che assume il titolo di “professore a contratto”.

Per i giovani e meno giovani che non posseggono uno studio professionale o che, in ogni caso, non possono essere considerati dei professionisti, e che da un certo tempo svolgono compiti didattici in maniera per lo più, ma non sempre, subalterna, il titolo pare quasi un inganno verbale. Resta quel po’ di gratificazione che la parola professore concede, oltre alla modesta ricompensa da aggiungere agli occasionali pagamenti derivati da altre mansioni nei progetti di ricerca (benché sempre più rari e meno ricchi) assegnati a docenti di ruolo. Ma per i migliori, quelli che nella pratica e nello studio hanno imparato a insegnare in modo superiore al semplice compito di tutor, quel compenso può far aumentare la rabbia o la latente depressione per la duale condizione: insicurezza del lavoro e aspettativa delusa.

Per i numerosissimi professionisti esterni (specialmente architetti, poi ingegneri e qualche raro specialista in discipline necessarie ai piani di studio) la rimunerazione rispetto al reddito professionale conta poco o nulla; al contrario vale molto il titolo di “professore”. Premetto che per gli studenti, del tutto ignari riguardo al meccanismo sottostante al quadro da loro percepibile, qualsiasi persona insegnante si trovino di fronte nel corso o laboratorio sempre professore è, come d’altronde appare nominativamente, salvo le irricevibili sottigliezze istituzionali, nella corposa guida dello studente (fanno eccezione i pochi professori “famosi” per i quali è sempre risuonato nelle aule e nei corridoi al principio dell’anno accademico il tam tam informativo). Naturalmente non manca qualche professionista in grado di insegnare al di là del puro trasferimento della propria esperienza pratica, specialmente se ha goduto del rinnovo contrattuale per parecchi anni consecutivi e ha cercato di integrarla col sapere teorico e pedagogico. Ma in ogni modo a quel titolo tutti o la maggior parte ambiscono, eccome, giacché possono esibirlo, senza abuso legale se corredato da “a contratto”. Lo indicano sulla carta da lettera. Altri possono presentarli ad altri quali “professor …”. Soprattutto, la bella qualifica serve in particolare per le commesse da parte degli enti pubblici, in ulteriore particolare per gli incarichi urbanistici nei piccoli comuni: un pianetto regolatore, un piano particolareggiato a scala di disegno urbano, un progetto per la sistemazione di una piazza.

Così l’università funziona da cassa di ridistribuzione delle committenze e in definitiva del reddito.

P.s.- “…una delle leggi-omnibus approvate in questi giorni ha sottratto risorse al già esiguo fondo destinato alle università statali per aumentare del 7% lo stanziamento per le università private, recentemente aumentate di numero… Alla vigilia delle scadenze previste una circolare del 18 marzo (Prot. 91/Segr/Dgu) esenta le università non statali dal rispetto dei requisiti minimi…”, Giunio Luzzatto, in ‘l’Unità’, 27 marzo 2005, p. 27.

Condivido le tue valutazioni. Ero favorevole al progetto di Luigi Berlinguer e all’articolazione dell’apprendimento in più cicli, ma subito alcuni di noi rilevarono che la riforma degli ordinamenti didattici, per dar luogo a quella vera rivoluzione che era il passaggio dalla formazione tradizionale all’apprendimento continuo, richiedeva investimenti molto consistenti di risorse e modifica dello stato giuridico dei docenti, con una scelta decisa per il tempo pieno dei docenti. Ciò non avvenne. La privatizzazione dell’università, tenacemente perseguita da questo governo, ha trovato perciò un terreno fertile su cui applicarsi. Le conseguenze sullo stato generale dell’economia del paese e sul suo futuro sono ormai evidenti a tutti, ed altrettanto evidente è la condizione di marginalità cui sono condannati gli aspiranti docenti e ricercatori: risorse gettate a imputridire da una concezione distorta dello sviluppo.(es)

Lo scandalo (perché di scandalo si tratta) che le vicende delle ultime settimane relative alla Scala di Milano – per tacere, ora, di quelle, annose, legate alla ri-costruzione bottiana, 300 miliardi delle vecchie lire – hanno sbattuto in faccia agli allibiti milanesi e al ristretto ambiente nazionale e internazionale della cultura lirico-teatrale non ha trovato la dovuta forte risonanza sui mezzi di informazione. Le pagine locali dei quotidiani hanno raccontato ai lettori con precisione, per quanto possibile data l’oscurità di fondo della scena, la funesta commedia recitata da diversi personaggi, parlanti mormoranti strepitanti o muti (ah…). Le pagine nazionali della Repubblica (un articolo lungo una volta) e del Corriere – l’Unità ha pubblicato un buon articolo il 27 febbraio – benché non avare di informazioni, a mio parere non hanno sollecitato a sufficienza i cittadini italiani a un’attenzione convinta e preoccupata in merito a quanto è realmente in gioco, a quel che la crisi del più importante (o solo più famoso, oggi…) teatro lirico del mondo rappresenta nella cultura musicale e nella cultura tout court, nella politica, nella società. Sappiamo che oggi la Scala è sull’orlo del burrone in cui potrebbe cadere trascinando con sé la memoria e il senso di una lunga storia, certamente impareggiabile anche se non sempre mirabile. Il teatro milanese per la nazione vale (o dovrebbe valere) molto di più dei decantati modisti con le loro quattro settimane di sfilate annuali. Non sta a me, qui, certificare la classifica dei colpevoli; direi tutti i componenti del Consiglio di amministrazione con alla testa il nostro sindaco, l’antipatico Albertini detentore del primato di arroganza e autoritarismo. Rivalità di poteri (Cda, sovrintendente, direzione artistica, direzione musicale…), soprattutto ignoranza, davvero incredibile, e disinteresse circa le pesanti conseguenze che provocherà la perdita dell’altissima funzione e rappresentatività culturale detenuta dalla più nota istituzione milanese. Ma anche il silenzio, assoluto, ininterrotto per settimane del maestro Muti (fare il pesce in barile davanti a tanto sconquasso!) non può essere capito e condiviso. Sta anche a me, però, ai fini di mostrare il valore generale e simbolico della vergogna scaligera, ricordarvi in primo luogo che il teatro milanese è dal 1996 una fondazione come le altre tredici fondazioni lirico-sinfoniche nazionali, a cui lo stato assegna la parte più consistente del Fondo unico per lo spettacolo. L’idea fondazionista, neoliberista si basa sulla fiducia che l’ingresso dei privati nei Consigli porti con sé fior di contributi al finanziamento. Che poi la tradizionale propensione degli industriali, finanzieri, commercianti italiani a spendere poco o niente per la cultura deluda in molti casi le attese non è che una conferma di caratteri storici a stento mutabili: capita così nei teatri meno famosi. Invece la partecipazione maggioritaria nella politica di un grande teatro può essere una straordinaria occasione di affermazione, poco costosa o comunque suscettibile di contropartite di enorme valore, finanziario o no o non solo: è il caso della Scala. Comprenderete al volo la situazione gestionale e del potere leggendo di seguito i nomi dei membri privati del Consiglio di amministrazione: Fedele Gonfalonieri, capo di Mediaset, braccio destro di Berlusconi (come ci fosse questi in consiglio), Vittorio Mincato, presidente dell’Eni, Bruno Ermolli, vicepresidente del Cda, altro braccio di Berlusconi per le strategie, poi, più che primus inter pares, Marco Tronchetti Provera, l’ex industriale passato armi e bagagli alla rendita fondiaria: autore con il sindaco e la giunta della più grande operazione immobiliare che Milano ricordi sui terreni Pirelli ex industriali della Bicocca, guarda caso proprio attorno al concerto pubblico/privato per l’edificazione dell’Arcimboldi, il teatro alternativo durante i lavori di ristrutturazione della madre Scala, oggi e dopo non si sa; in questa crisi nessuno programma, nessuno sa nulla. Schizzo di panna sulla torta spartita infine: rappresentante delle Regione Lombardia è l’avvocato Paolo Sciumé di Comunione e liberazione, implicato nelle indagini per il crollo della Parmalat. In ogni modo da quando il teatro è diventato una fondazione di diritto privato, ha scritto Repubblica, “si trova in una situazione simile alla Mediobanca dell’età aurea di Cuccia: il sindaco presiede, gli enti pubblici coprono la stragrande maggioranza delle spese, i privati comandano” (Anselmi, 3 marzo). Potere dei privati, ecco, e la Scala discende sé medesima. Ma se il teatro va in rovina, cosa guadagnano costoro? La condizione è simile a quella delle squadre di calcio col presidente ambizioso, presuntuoso, mentitore e dilapidatore delle risorse, tanto ciò che conta è il marchio, è la partecipazione al set “teatrale”nazionale e internazionale, è la pubblicità di sé e del proprio logo. Una condizione simile a quella di Berlusconi e del suo governo che stanno trascinando il paese sempre più in basso nella scala (eh…) dei valori civili e umani. La indecente commedia scaligera: dapprima stentiamo a crederla realtà, poi la percepiamo come riflesso e nel contempo emblema delle vicissitudini politiche e sociali dell’Italia intera, specchio della totale mancanza di predisposizione della classe dirigente a impiegare al meglio – onestà intellettuale insegni – le risorse del paese, la cultura alta e popolare, delle persone e delle libere istituzioni sociali sindacali politiche, quelle già espresse e quelle latenti. Governano la Scala e il paese personaggi senza cultura né storica né sociale né artistica, la loro dote principale è l’immodestia, se non l’impudenza.

E non dico nulla della cultura musicale per carità di patria, pur dissertando di Scala,. Del resto, anche per colpa e per scelta dei poteri che si sono susseguiti in un secolo e mezzo alla guida della nazione, il popolo, quanto a conoscenza, sensibilità, frequentazione musicale, è a livello dello zero assoluto. Se penso che l’unica riforma “musicale” è stata promossa dalla ultra democristiana e tanto denigrata ministro signora Falcucci, che ha introdotto minimi esercizi musicali nella scuola media dell’obbligo creata nel 1963 !

(29.1.05) sulla bellezza e il paesaggio dopo avere in precedenza contestato “la soluzione prevista dal nuovo, terrificante disegno di legge urbanistica nazionale della maggioranza che esclude dall’urbanistica la tutela, e quindi la bellezza, e quindi il paesaggio”. Anche altri hanno chiamato gli urbanisti a schierarsi. Accettando subito l’invito di De Lucia, Fabrizio Bottini ha scritto un articolo molto bello (Et in Arcadia…Lego, 31.1.05) che intende confortarci mostrando come “la forte integrazione fra urbanistica e tutela paesistica”, la percezione del paesaggio o degli elementi naturali con le loro modificazioni da parte dell’uomo fossero già interiori alla parte migliore dell’urbanistica italiana dagli anni Trenta. A proposito dei casi nazionali di prima o durante la guerra, mi par giusto aggiungere e riconoscergli uno speciale risalto, anche per affiancare “milanesi” a citati “romani”, il Piano regolatore della Valle d’Aosta (1936-37): passo intermedio fra i traguardi raggiunti, nel 1933-34, dal CM8 (il Piano di Como firmato appunto dagli “otto”, Bottoni, Cattaneo, Dodi, Giussani, Lingeri, Pucci, Terragni, Uslenghi) e dopo dal Piano AR per Milano (1944-45) quando gli Architetti Riuniti lavorarono mentre la città respirava appena dopo i pesanti bombardamenti e pensarono, pur partendo dal piano urbano, in termini di territorio vasto, di paesaggio regionale. Quanto alla Valle, sotto la guida di Adriano Olivetti sette architetti (Banfi, Belgiojoso, Bottoni, Figini, Peressutti, Pollini e Rogers), un ingegnere (Italo Lauro) e il direttore pubblicitario dell’Olivetti (Renato Zveteremich) produssero quegli Studi e proposte preliminari per il piano regolatore della Valle d’Aosta a cui in seguito venne riconosciuto un primato nel campo della ricerca e documentazione di analisi e di progettazione (450 le tavole, oltre ai diversi apparati) riferibili a un ambito esteso per il quale la questione della natura e del paesaggio rapportati al problema della pianificazione urbanistica e anche del progetto a scala pre-architettonica (V. i quattro piani particolareggiati) doveva erompere con forza dalla stessa realtà, non ancora massacrata e ridotta a campione di bruttezza dagli inconcepibili interventi urbanistici ed edilizi dal dopoguerra.

Non su questo, in verità, volevo indugiare. Leggendo De Lucia e Bottini pensavo alle fonti sopranazionali della modernità cui si sono abbeverate un’urbanistica e un’architettura sensibili alla presenza immanente del paesaggio, naturale, artificiale, agrario, terra e acque, anche in occasione del piano urbano ritenuta la meno favorevole. Da dove veniamo? Domanda a cui ho risposto da molto tempo e allo stesso modo di molti altri. Sicché ridurrò a una singola dichiarazione il pensiero (luogo) comune stampato e detto. In inciso, rivolgendomi a Bottini e scusando l’autocitazione: Et in Arcadia Ego di Nicolas Poussin (1639) è la prima delle illustrazioni di Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri.

Da dove veniamo? Per me, la vecchia fonte buttante allora dai torrenti del materialismo, zigzaganti fra le bandiere del rapporto uomo-natura piantate ad ogni ansa, è William Morris, soprattutto il suo lato mentale e corporeo meno esposto, meno illustre dal quale venne il saggio News from Nowhere. Non interessa la diatriba circa il suo utopismo, semmai ricordare la complessità della figura nella misura in cui radunò l’artista, il poeta, l’operaio-artigiano, l’architetto, l’urbanista, il socialista. Interessano le premonizioni in quel testo: la dilagante congestione della grande città “che inghiotte campi e boschi e brughiere senza pietà e senza speranza… il cielo fumoso e i fiumi torbidi… la campagna invasa da miserabili costruzioni”. Tutto vero per l’oggi. Ed è facile poi ricavare, perfino disegnare, il modello di organizzazione territoriale che denominerei il progetto di città e campagna. Una incredibile anticipazione: ricuperare un equo rapporto fra l’uomo e la natura nella società moderna vuol dire riequilibrare il rapporto molteplice uomo / lavoro / tempo libero / riposo, allo stesso tempo e modo che risolvere il divario fra città e campagna. Ne sorte la chiara rivendicazione tripartita – lavoro onorevole e appropriato, riposo per la mente e il corpo, ambiente confortevole e bello – coerente all’altra triade relativa all’intrinseco abitare, “buoni alloggi, ampio spazio, ordine e bellezza”. Infine, il convincente disegno di uno spazio ‘regionale’ avverso al moloch-città smisurata: potrebbe sembrare il medesimo che avremmo voluto si inverasse nel destino delle nostre metropoli, vale a dire un modello nettamente policentrico: centri urbani spaziati nella campagna, paesaggi urbani e paesaggi degli spazi agrari e naturali come due aspetti della funzionalità e bellezza di un unico paesaggio umano. Ma sembra che la storia non abbia insegnato nulla, se non a pochissimi, in questo disgraziato paese, “malpaese” secondo il bravo giornalista Valentini. Eppure tale fantastico sistema policentrico rappresentava la realtà che possedevamo tramandataci dalle vicende storiche, specialmente in Lombardia e nel Milanese. Lo hanno, l’abbiamo in gran parte distrutto, specialmente riguardo a Milano e largo circondario dove il progetto territoriale si è risolto al contrario della nostra visione lotta speranza. Le città immaginate da Morris, paragonabili alla miriade di centri milanesi e lombardi, una volta tutti piccoli e medi, separati da larghe e perfino vastissime fasce di campagna o di boscosa brughiera, sfruttano una potenzialità basata anche sulla bellezza dell’ambiente costruito storico: una risorsa che si esalta nel rovescio della “grande città divoratrice dei campi”. Alla nitida delimitazione urbana corrisponde un’organizzazione spaziale interna come concerto armonioso fra le parti edificate e i “giardini”, mentre la campagna “integra” addossata ai margini potrebbe collegarsi ai giardini interni attraverso idonei varchi e interstizi.

Invece oggi ci aggiriamo in uno spaventevole dilagamento dello spazio edificato, una disgustosa poltiglia di case e insensate strade, augéani non-spazi dove abbiamo perduto l’identità di noi stessi insieme all’identità di luogo.

… poi vennero gli altri, figli e nipoti e parenti e amici e conoscenti, persone singole o riunite in Movimenti. A loro, tutti o molti di noi amici in Eddyburg, ci siamo ispirati in qualche modo e in qualche tempo.

… e intanto si dipanava l’altro corso dove insegnava l’altro padre degli urbanisti e architetti moderni, Hendrick Petrus Berlage. Ne uscirono bravi architetti olandesi e no. Anche a noi tutti insegnò molto.

Per concludere rischiosamente: dico che i giardini dentro i grandi blocchi cooperativi del piano per Amsterdam Sud li vorrei collegare idealmente ai giardini urbani di William Morris. In fondo l’inglese, per data di nascita, avrebbe potuto essere padre giovane dell’olandese.

Ci sono giorni nei quali il desiderio di comunicare agli altri una tua reazione a certi avvenimenti o una notizia saputa/letta di particolare gravità diventa un dovere irrinunciabile. Oggi sto scrivendo di politica, dell’ennesima manifestazione di intolleranza, autoritarismo, repressione del dissenso, aggressione verbale da parte del potere tanto da rendere sempre più evidente il passaggio, che stiamo vivendo nel nostro paese, a una democrazia finta, costituita dai puri numeri maggioritari. I quali, di fatto, negano il parlamentarismo costituzionale, vogliono sovvertire l’intero nostro ordine istituzionale e approderanno in poco tempo a un regime fuori dell’attuale costituzione se il pesante passo dei mostri non sarà fermato. Il fondo sull’Unità di ieri, Il Potere del Potere, autore Furio Colombo, ci informa del nuovo tremendo attacco che il giornale sta subendo, dopo tanti altri del passato, ma molto più pericoloso nella misura in cui c’è come un’azione di accerchiamento costituita dai mezzi di informazione, televisione, quotidiani, settimanali…, verso l’unico giornale di autentica, incessante opposizione alle malefatte del governo e centri di potere alleati, e di tutte le televisioni con minime eccezioni. Il punto origine è l’incredibile accusa lanciata dal vicecapogruppo forzista Malan all’Unità, un cui articolo di fondo sarebbe stato la causa diretta del colpo di treppiedi sferrato da Del Bosco. Ma a preoccupare profondamente tutte le persone dotate di onestà intellettuale è il seguito: il silenzio dei partiti, di giornalisti seri delle testate nazionali, delle persone televiventi, e, al contrario, il rumoroso consenso dei tanti, tantissimi giornalisti lacché dei nuovi potenti. Scrive Colombo (da quando dirige l’Unità , da quando è riuscito a darle un ruolo chiaro e a farne luogo di effettiva libertà d’espressione è sottoposto a ogni genere di vessazioni morali): “La cosa strana però non è Malan… La cosa strana è che nessuno – sulla stampa o nei talk show di un grande Paese europeo – vi presti attenzione. Ciò che sta accadendo all’Unità è una regressione alla teoria lombrosiana, applicata in questo caso allo scrivere. Si tracciano i parametri di ciò che è accettabile o non è accettabile dire. La tracciatura avviene nei luoghi del potere. Niente di strano, il potere prova sempre a farlo. Il caso è che la tracciatura viene osservata scrupolosamente da tutti.Ovvero la descrizione lombrosiana di Malan (l’articolo e l’attentatore si assomigliano, dunque l’attentatore è l’articolo) non fa scandalo né notizia”.

Vogliamo, noi scandalizzati nel nostro cortile, manifestare a Colombo la nostra solidarietà? Intanto Edoardo pubblichi oggi stesso (se non l’ha già fatto, non ieri) l’intero articolo di fondo.

Lodo Meneghetti, 10 gennaio 2005

Qualche giorno fa, leggendo le osservazioni e le proposte di Stefano Fatarella sulla riforma di eddyburg, avrei voluto ragionare di nuovo intorno alla questione dei rapporti urbanistica / architettura (ne ho scritto o parlato o mostrato la pratica molte volte nel passato in diverse occasioni, ). La mia proposta di inserire la parola architettura non era così “accorata” come scrive Stefano, né soffro, come lui teme, per il troppo rapido rifiuto. Ora mi limito a pregare Edoardo di difendere il cortile da invasioni estranee alla sua “costituzione” o, come gli ho già scritto, barbine. Non rinuncerò a riparlarne. Ho deciso però di rinviare l’argomentazione perché troppo coinvolto mentalmente – come tutti, penso – nei terribili avvenimenti di questo scorcio d’anno; e di proporvi alcune considerazioni in merito a un tema che ho visto scorrere, esplicito o implicito, nei sevizi giornalistici descrittivi di un’apocalisse in continua enorme crescita su se stessa: il tema del rapporto fra l’uomo e la natura.

Prendo spunto da un articolo di Alain De Bottom (la Repubblica, 29.12.04) che ricorda Seneca e la posizione degli stoici di fronte alle catastrofi naturali come i terremoti.

So che lo stoicismo è considerato – da un senso comune privo delle cognizioni indispensabili per comprendere la realtà e le relative interpretazioni – una forma di accettazione, appunto detta “stoica”, di ogni accadimento imprevedibile e incontrollabile. Lo stoico sarebbe per così dire inerte, succube, sopporterebbe ogni dolore. Le cose non stanno così. Lo stoicismo, a mio parere, è una filosofia vitale che definirei della consapevolezza.

L’uomo consapevole sa, deve sapere, soprattutto oggi che è pieno di orgoglio per aver raggiunto grandi successi nel progresso scientifico e tecnologico, di non essere affatto onnipotente, anzi di essere fragile davanti alle manifestazioni violente della natura, più di tutti gli altri animali compresi i mammiferi grandi e piccoli eccetto quelli resi schiavi dall’addomesticamento. Sa, l’uomo moderno, deve sapere che determinate applicazioni tecniche sono loro stesse così violente verso la natura da provocare la sua rivolta: se non è il caso dei terremoti, sono gl’infiniti casi di frane, crolli, alluvioni, tifoni, siccità e quant’altro potremmo elencare a partire dalla prima rivoluzione industriale (tanto per fissare un cippo della storia moderna, considerando deboli, o più deboli, tutte le tecniche precedenti); o, diversamente, da provocare un netto peggioramento del corso vitale nell’indifferenza apparente della natura: inquinamento dell’aria e dell’acqua, avvelenamento superficiale della terra, disintegrazione della coesione del suolo profondo. E, fuori da questo quadro, cosa dire dell’uomo insipiente deciso a rischiare gravissime conseguenze di errori enormi commessi al puro scopo di raccogliere profitto o accumulare patrimoni immobiliari persino illegali? Mi riferisco agli insediamenti in luoghi inadatti, già valutati in tal senso dalla consuetudine ragionevole o dalla legislazione. Circa alcuni insediamenti costieri nei luoghi colpiti dal maremoto qualche perplessità è legittima quando si notano certe modificazioni, attraverso opere antagoniste e invasive, di terre basse lambite dal mare una volta intatte nel loro assetto naturale: come in molte isole e isolette dotate o meno di barriera corallina. Da sempre all’attività, all’operosità dell’uomo è corrisposta una modifica dei paesaggi, da un minimo a un massimo secondo le epoche e i luoghi, secondo il grado di sviluppo delle forze produttive, potrei affermare: ma non basta: occorre distinguere fra necessità vitale della comunità “consapevole” insediata e, al contrario, decisione oligarchica del gruppo dominante “inconsapevole” interessato solo al proprio vantaggio, talvolta consenzienti altrettanto inconsapevoli subalterni. Quanto alle costruzioni in luoghi totalmente inadatti, abusive o, peggio, concesse dall’autorità, nel nostro paese siamo maestri: dalle aree golenali di fiumi e torrenti alle pendici instabili di colline e montagne, ai versanti alpestri esposti alle valanghe, ai suoli urbani a rischio di sprofondamento: c’è una ricca antologia inserita nella ben più corposa antologia della “distruzione della natura in Italia” (tutti voi conoscete il libro di Antonio Cederna, scritto trent’anni fa!). Eppure, si potrà obiettare, gli uomini sono andati a insediarsi dappertutto, anche in territori di difficile e pericoloso accesso. È vero, nel passato: quando piccoli gruppi o addirittura singole famiglie allargate andavano alla disperata ricerca di un minimo di risorse per sopravvivere; oppure quando corpose popolazioni già a un buon livello di organizzazione sociale sapevano valutare un rischio anche grave in rapporto a un beneficio risolutivo dei loro bisogni. A esempio della prima condizione posso nominare i piccoli, sparsi nuclei di uomini e animali in valli alpine isolate e su scoscendimenti impossibili; della seconda, visti anche certi richiami notati sulla stampa in questi giorni, posso prendere la piana vesuviana (non le pendici del monte!) tanto fertile e generosa di prodotti agricoli da rendere trascurabile il timore delle eruzioni. (L’esclamativo inerente alle pendici del Vesuvio me lo sono concesso allo scopo di poter dichiarare l’assurdità, direi la sorprendente balordaggine dell’idea bassoliniana: evacuare dalle dette pendici 500.000 abitanti a causa della cosiddetta priorità della sicurezza, uno dei tanti modi di essere più realisti del re divenuti una moda nel paese. La proliferazione delle costruzioni lì appartiene a uno degli episodi più funesti della storia nazionale e partenopea dell’espansione edilizia urbana. Ma questa non è una buona ragione per aggiungere violenza a violenza.

Rapporto fra l’uomo e la natura: binomio oggi riscoperto da tutti in un senso dimenticato, quello del “rispetto” dovuto dal primo verso la seconda, che diventerebbe immediatamente “dovere di difendere l’ambiente”, un sentimento e una pratica poco coltivati in Italia (virgolette legittime giacché quasi letterale citazione dal discorso di fine d’anno del presidente Ciampi, davvero consolante per tutti noi difensori per lo più sconfitti). Cerchiamo il significato più profondo. Ritorniamo agli stoici, alla loro saggezza. Non succube accettazione, inerzia di fronte a ogni manifestazione della natura, ma consapevolezza, ho scritto. Cerco però di precisare la definizione: per gli stoici occorrerebbe trovare la miglior forma possibile di adeguamento alla natura, vale a dire rifiutare la pesantezza d’azione e praticare la sostenibilissima leggerezza dell’essere e del fare (del resto, quale personaggio più “leggero” di Seneca nella storia dell’uomo tout court, non solo della filosofia?). Ma l’affascinante uomo stoico non poteva trovare il centro di una questione che potrà essere trovato solo dal pensiero scientifico rivoluzionario. Né avrebbe potuto trovarlo il pensiero cattolico che, nella lunga gestazione dei difficoltosi tentativi di rinnovamento, non ha mai superato il limite originario riguardo alla divisione irriducibile fra uomo e animali, fra uomo e natura.

… e vennero Darwin e Marx-Engels primevi a offrirci le chiavi per chiudere la porta all’ideologia deterministica e meccanicistica, aprire quella della “dialettica senza dogma” (Robert Havemann) e, dunque, darci la possibilità di porci in modo completamente nuovo davanti alla storia del mondo.

Riduco il ragionamento all’osso: ci sono due storie, la storia naturale e la storia sociale. L’uomo appartiene a entrambe ma tende a dimenticare la propria naturalità (animalità, si vorrebbe dire darwinianamente; materialità, marx-engelsianamente) quando e quanto più crede di poter trasformare la natura a proprio piacimento, di poterla dominare. La latente perenne schizofrenia fra lo stato di homo biologicus e quello di homo faber precipita così in un inesorabile sbilanciamento verso uno stato prometeico, prossimo alla deificazione, cioè il peggior grado dell’ideologismo: che niente può condividere con la “naturale” laboriosità del faber, cara al materialismo dialettico antidogmatico.

Ritorno nel cortile dopo molto tempo quasi tutto impiegato nel Ssn.

L'editoriale 61 del 22.12 è totalmente condivisibile, è ovvio dirlo. Quanto abbiamo già scritto contro l'"orrida legge in corso di discussione"? e contro il nuovo Inu? L'esclusione dal testo di qualsiasi riferimento all'ambiente, al paesaggio, alla loro tutela, ecc. ecc. mi sembra logica visto l'andazzo della nuova banda inuista e quello nel governo, nei ministeri interessati, e anche, ne sono convinto da tempo, nella maggioranza della popolazione, una forte maggioranza. Della parola "sviluppo", da te giustamente collocata nell'incultura governativa e urbanistica, sono stato nemico fin dagli anni Cinquanta-Sessanta. Nell'insegnamento, ai miei studenti era vietato usarla nel senso purtroppo ancor oggi gradito anche a urbanisti non collusi con la nuova gestione. Una brutta abitudine, viva anche nei tempi migliori di "Urbanistica".

Intanto non si fermano le violazioni paesaggistiche, benché una piccola consolazione possa venirci dalla nuova sentenza del TAR circa Baia Sistiana, per me una delle prime occasioni, insieme a quella relativa a Venezia, di intervento in eddyburg e di dialogare, oltre che con te, Eddy, con altri frequentatori del cortile, Dusana Valecich per esempio. Ma, come scrive il WWF, il posto è stato intaccato dai lavori iniziali e non abbiamo certezza circa la conclusione davvero... conclusiva della vicenda. E del male già fatto, come si potrà rimediare?

Due cosette, forse mica tanto -ette, rilevo in questi giorni.

La prima: l'Assemblea regionale siciliana (invito qui a rileggere il mio pezzo sui poteri locali, 15 settembre 2004) ha varato una normativa che punisce le sovrintendenze con il silenzio di 120 giorni uguale ad assenso per opere da realizzare in zone soggette a vincolo paesistico o inerenti a immobili di interesse storico-artistico (Ved. una lettera in "Repubblica" del 23.12, p. 19).

La seconda: in Liguria che, dobbiamo dircelo a fronte delle pur giuste prediche nordiste al Sud abusivista e massacratore del territorio, è la regione primatista, per data d'inizio e per quantità proporzionale, della cementificazione costiera eccetto l'estremo lembo sud-orientale prima di La Spezia, "è successo qualcosa" (Joseph Heller, 1974) di molto grave proprio qui: addirittura alle Cinque Terre - patrimonio dell'umanità, in pieno Parco nazionale:

- nei giorni scorsi agenti del Corpo forestale dello stato hanno scoperto tre abusi edilizi nei comuni di Vernazza e di Riomaggiore(bravi i forestali a notare costruzioni inesistenti nelle foto aeree di qualche anno fa) e hanno denunciato tre persone;

- verso la fine di novembre i carabinieri di Monterosso avevano individuato diciannove costruzioni fuorilegge e denunciato tredici persone. Cito da "Il Secolo XIX", p. 23: "...per lo più manufatti abusivi spacciati per pollai o rimesse per attrezzi che potevano però essere comodamente ampliati fino a diventare villette e già predisposti per ospitare persone". In questo caso, oltre alle vecchie foto aeree per il rilievo fotogrammetrico hanno testimoniato le attuali fotografie scattate da un elicottero.

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