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Durante la campagna elettorale qualcuno accenna finalmente al dimenticato tema dell’abitazione. Allora ”il problema della casa” – locuzione cara per decenni alle battaglie della sinistra – sembra esistere ancora. Vogliamo però, nella misura in cui esista, sentir dire con chiarezza che l’abitazione equa deve essere un principio basilare, come il salario adeguato, come l’assistenza sanitaria pubblica per tutti, un impegno attuativo obbligatorio per i governanti d’ogni livello territoriale, dai ministri ai sindaci. Finora, più che commuoversi dinnanzi al problema della casa i politici si sono impigliati a riassestare quella casa della politica fracassata per colpa loro. Per non parlare della Cdl, una “Casa della libertà” che con Berlusconi decantava la fortuna degli italiani diventati tutti proprietari (mentre a sinistra non mancavano i creduloni).

Così, certi avvenimenti sembrano inverosimili. Come quando, poco più di due anni fa, un imponente corteo di inquilini rilanciava nelle strade di Roma vecchi slogan operai e chiedeva provvedimenti urgenti: no agli sfratti, no alla liquidazione delle case popolari pubbliche, no al giogo del debito con le banche, sì a un mercato degli affitti controllato dall’ente pubblico e accessibile ai redditi da lavoro subalterno. O quando pochi mesi prima il candidato sindaco Letizia Moratti aveva incautamente promesso 45.000 alloggi popolari dinnanzi allo scandaloso livello dei prezzi milanesi. Una promessa falsa, una quantità impossibile: si è visto come l’impegno della signora sia approdato a festeggiare l’alluvione di milioni di metri cubi edili privati, lussuosi, cagionata dal predominio di speculatori vecchi e nuovi, compresi noti violatori di leggi e norme (e oggi, immemore, propone genericamente la costruzione di 3.000 alloggi in dispersi terreni comunali periferici da concedere a imprese private disposte all’accordo, procedendo lungo la strada del fare e disfare senza pianificare). O quando al principio di febbraio, di nuovo a Roma, un’improvvisa invasione del municipio da parte di cittadini disperati per la loro condizione abitativa, anzi non-abitativa, era silenziosamente ricacciata e ignorata dai mezzi di informazione. O quando recenti articoli sulla condizione lavorativa di immigrati africani nel Sud, messi a raccogliere patate a tre euro l’ora dagli intoccabili mercanti di bracciantato, potevamo collegarli agli articoli di un anno e mezzo prima che insieme alla condizione salariale raccontavano del loro habitat: certi gruppi vivevano in un boschetto in condizioni peggiori che nei crudeli slum sudamericani e africani.

Per la verità, ogni tanto, per ragioni contingenti dovute ad allarmismi circa la cosiddetta sicurezza scatta un gioco al rimpallo di responsabilità riguardo al bisogno di alloggio di immigrati nelle grandi città, o dei tartassati Rom, o dei senza alloggio per così dire assoluti, quegli homeless la cui morte civile in città come Milano e Roma pare non meno certa di quella dei loro compagni della Bowery newyorkese. Ma niente si attua, oppure si adotta la soluzione criminale (e “finale” secondo il messaggio nazista) del comune milanese di Opera nei confronti dei Rom baraccati, tanto nota da non doverla ricordare qui.

Situazioni di piccole minoranze si dirà, poco significative della effettiva consistenza del problema casa. Perché occuparsene?

E tra le famiglie residenti sarebbero talmente poche quelle non proprietarie dell’abitazione da non doversene interessare? Quante saranno veramente? Tutti proprietari anche i poveri? La proprietà dell’abitazione non significa sicuro benessere sociale, né conformità della misura e qualità dell’alloggio ai bisogni reali primari. Ma il peggio si concentrerà nelle affittanze. L’ultimo censimento della popolazione e delle abitazioni (2001) è troppo lontano, tuttavia da lì si deve partire per le valutazioni odierne senza eccedere in indagini campionarie. Di 27,3 milioni di abitazioni ben 5,6 non erano occupate (quasi il 21%!), 6,2 (29%) erano in affitto o assimilate. Scopriamo inoltre da un confronto semplice che un forte surplus di famiglie rispetto alle abitazioni occupate voleva dire almeno mezzo milione di famiglie coabitanti.

Oggi le abitazioni occupate in proprietà saranno circa l’80 %, un aumento notevole dal 71% relativo a sette anni fa. Le famiglie danno il sangue, si indebitano per ripararsi, mettersi al sicuro dalle vessazioni del mercato a meno che poi il mutuo non diventi un’ossessione e infine una condanna. Il 20% di alloggi in locazione o comunque non goduti in proprietà (una percentuale inferiore a quella degli alloggi vuoti, ora stimati nel 24% dal Coordinamento europeo per l’alloggio sociale), esclusa la piccola parte di famiglie che preferisce l’affitto riguarda le famiglie, cinque o sei milioni, che si arrabattano ogni giorno dentro un mercato dai prezzi spropositati, oltretutto nettamente scisso dal mercato del lavoro, motivo non secondario di penosità del vivere.

Il riformismo socialdemocratico europeo, quando attuava potenti programmi sociali per la casa, sapeva che per lo stesso capitalismo moderno la riproduzione doveva assicurare la produzione e che della prima l’abitazione era una componente necessaria. Ora la globalizzazione disloca la produzione, muove i lavoratori dappertutto, usufruisce della loro riproduzione ma potendo fregarsene di farli abitare degnamente. Non mi meraviglio che anche in Italia i modelli salariali e abitativi possano sfiorare i confini della sopravvivenza, se non valicarli come nella Manchester studiata da Engels.

Allora, vogliamo, sinistra arcobaleno, unica sinistra sopravvissuta al tradimento veltroniano, dar largo spazio anche a tutto questo nello scontro elettorale?

Milano, 4 marzo 2008

Guardo l’apocalisse napoletana da un punto di vista urbanistico generale. Destino del territorio, del paesaggio, degli spazi aperti, di quel poco di campagna produttiva rimasta in Italia. Il nostro territorio consiste in una specie di deposito incustodito buono per tutte le stagioni e per ogni roba. Cosa non facciamo al territorio, cosa non gli scarichiamo sopra e sotto senza chiedergli il permesso. Abbiamo coperto le superfici libere con miliardi di tonnellate di pattume: in primo luogo costituito dai 120 milioni di stanze d’abitazione delle quali più di un quinto vuote (ma capaci di devastare le coste marine e lacustri, le chine montane e collinari), un altro quinto superflue e il rimanente, detratte le case d’anteguerra, responsabile delle rovinose brutture di centri urbani e periferie. E poi tutti gli altri tipi di edifici di cui buona parte abbandonati come gl’inservibili capannoni di industrie in crisi o abolite, come i giganteschi fabbricati per attività terziarie morti per manifesta inutilità. E vari generi di infrastrutture fra cui autostrade clientelari e sbagliate, un affare gonfiato ad arte mediante il sopradimensionamento delle opere, cemento e ferro moltiplicati per tre rispetto al necessario (esempio la ricostruzione della Milano-Torino). E la spazzatura vera e propria, l’immondizia che ogni cittadino produce, noncurante, come fosse un robot dedito a prendere le cose da una parte e a depositarle dall’altra: dove? Diamine, da qualche parte, appunto completando l’occupazione della terra libera. Così la raccolta realizza altri colossali edifici costituiti dalla miriade di prefabbricati che sono le stupide “ecoballe”; costruzioni come gigantesche mastabe che gli egiziani non sarebbero stati in grado di erigere. Oppure disloca sterminati profondi vasconi dove gli strati successivi della ricompressa materia presenteranno agli archeologi del 3000 curiose e pericolose testimonianze di una speciale inciviltà distrutta dalla proprie deiezioni.

E arrivarono i sospettabili inceneritori e i “progressisti” termovalorizzatori (valorizzare, parola la cui sola pronuncia dà ai nervi, figurarsi quando diventa azione concreta). Altri potenti invasori dello spazio libero, altri sovvertimenti territoriali. E’ buona cosa non buttare il calore, è cattiva inferire altri duri colpi al nostro personaggio-territorio che non può sostenerne più. Installazioni come queste sono veri e propri insediamenti industriali complessi, massivi, imponenti, inquinanti ammorbanti infestanti in diversi modi; andirivieni incessante di automezzi, strade per farli muovere, condotte, rumori. Insomma un enorme carico territoriale degli impianti che si trascinano dietro la necessaria violenza di varie infrastrutture.

L’Italia è un paese perso, ha mangiato in gran parte sé stesso. Tuttavia cerchiamo di trasmetterne i lacerti nobili alle nuove generazioni, sperando che circa l’intero paesaggio siano loro ad avviare l’unica azione sensata: demolire demolire demolire, restaurare restaurare restaurare. Per questo dobbiamo ad ogni costo difenderli, quei residui, da ogni insolenza sviluppista. Il tema dei rifiuti e il tema energetico si tengono insieme. Ci domandiamo, per dirne una relativa ai compiti della politica: che fine ha fatto l’impegno per un piano energetico nazionale, effettivo, non parolaio? e perché la sinistra non ha affrontato seriamente il problema della produzione delle merci e del consumo? Parlano di termovalorizzatori e tacciono delle cose da bruciare. Allora, la nozione di spreco e del consumismo riguarda tutto, merci ed energia. Spreco significa consumo superfluo, eppure ridurne anche il più stupido terrorizza a destra e a sinistra giacché il pensiero unico si fonda sulla perorazione di più consumi più consumi più consumi, sembrando questa l’unica scelta possibile per sostenere la produzione. Ricordo l’articolo di Carla Ravaioli del giugno 2005, Energie rinnovabili e capitalismo. Lo spreco è connaturato al modello di sviluppo capitalistico. Per risparmiare energia e merci occorre “un forte e progressivo contenimento della crescita razionalmente pianificato e gradualmente attuato: insomma un modello economico e sociale diverso da quello oggi vincente”. Eh, già; penso che dovremmo rilanciare le vecchie convinzioni. Cominciamo dai peggiori beni di scambio rappresentativi del consumismo: li negherebbero cittadini che aspirino davvero ai più alti livelli di civiltà e, in conseguenza, di autentica modernità. Nelle questioni relative al territorio e alla città serve di nuovo, come cinquant’anni fa, un’analisi di classe in senso marxiano. Non diversamente, circa la prospettiva di produzioni e consumi da cui possa derivare un’effettiva riduzione degli oggetti e dei loro detriti, dei prodotti vitali e dei loro avanzi, connaturandovi il risparmio energetico, vuol dire privilegiare i beni d’uso necessario di per sé limitati di numero. Ma bisogna imparare a disdegnare, oltre ai puri beni di scambio, coloro che ce li vogliono imporre.

Milano, 19 gennaio 2008

I “super-architetti” (definizione di “Repubblica”, 8.11.2007), ovvero gli architetti internazionalisti presenti dappertutto nel mondo con opere di ogni genere, edifici pubblici – musei, auditori, università, stazioni, ponti…, o building privati per uffici e abitazioni (poche) per lo più in forma di grattacielo, parevano immuni da critiche. Chiamati da istituzioni pubbliche e private, da finanzieri e imprenditori per fornire prestigio e rendite mediante costruzioni grandiose o/e fantasiose piuttosto che effettiva soluzione di un problema, detengono un seducente potere individuale volto a segnare il destino di luoghi urbani senza attenzione alcuna ai bisogni sociali prioritari. In Italia i sindaci, non solo delle città maggiori, sembrano contendersi o dividersi le prestazioni di questi speciali progettisti solitamente collegati, o collegabili nel giusto momento, ai consorzi di imprese edili e ai grandi proprietari fondiari. E mai, mai la scelta dell’intervento voluta in comunione dai diversi soggetti in campo ha accettato i vincoli del piano regolatore esistente, o è quantomeno derivata da un’idea di città e organizzazione territoriale dichiarata prima dagli amministratori pubblici.

È superfluo ricordare nuovamente il caso di Milano, peggior esempio più volte discusso in Eddyburg e riassunto esemplarmente da Oreste Pivetta sull’Unità (23 e 28 ottobre). E Firenze? Il sindaco toscano che nel 2005 cerca di copiare il collega milanese perorando la chiamata di architetti stranieri famosi per donare alla città (questo il senso delle sue parole) punti singolari di presunta modernizzazione attraverso forme architettoniche inusitate di certo irriguardose dei tanti problemi irrisolti della città; per esempio il traffico insopportabile o lo sconvolgimento estetico delle strade commerciali. E l’appartata, benché esposta al mare, Savona? Amministratori e speculatori edilizi, davanti alla comunità attonita e forse in maggioranza consenziente, si accordano come uno strumento a suonare l’accettazione di due progetti diversamente firmati – grattacieli sformati e muraglie di palazzi – del tutto avulsi da regole e norme locali: luoghi coinvolti lo storico porticciolo della Magonara e il porto turistico della Torretta.

E quante altre città, regioni e provincie si potrebbero elencare perché sottoposte nel temibile XXI secolo, come in una guerra dei sette anni, alla potenza delle imprese immobiliari e al decisionismo di sindaci e presidenti di regione servile verso le prime anziché servitore del bene sociale? Ma il poderoso intervento edile extra-regole desiderato dai due poteri alleati riesce ad affermarsi, acquisendo anche i titoli per approdare ai giornali e alle riviste, solo grazie alla propensione dei super-architetti ad accettare ogni tipo di incarico professionale senza alcuna incertezza, senza sofferenza, per così dire, riguardo a ciò che sta davanti e dietro allo svolgimento dell’affare; senza alcuna riflessione, poi, verso le immancabili problematicità relative a qualsiasi azione nel vivo della città, ossia della società urbana. Pronti a tutto, si espongono anche al peggior fallo culturale e professionale pur di realizzare una clamorosa testimonianza del proprio divismo, edificare una cosa nulla c’entrante col contesto storico-sociale, dunque spregiativa della città e della comunità. Architettura in definitiva disumana: infatti a nessuno fra autori, esecutori, amministratori e compagnia importa il contenuto. Cosa c’è dietro il vetro? Uomini, macchine, farfalle? Vuoto?

Quali città e territori si salveranno dalla falsificazione della modernità architettonica se persino nello sconosciuto comune di Mola di Bari – già nelle mira di Eddyburg lo scorso anno – i fronti a mare di sud e di nord dovevano essere maltrattati dalle colossali e grattacieliche cubature progettate dall’architetto internazionalista di passaggio? Quali delle poche città ancora dotate di uno scampolo di bellezza d’architettura urbana, vale a dire paesaggio architettonico d’insieme oltre che singolo monumento, se anche Torino dovrà accettare anch’essa obbligatori ma insensati grattacieli non potendo resistere alla necessità del potere finanziario-bancario di rappresentarsi come alto, forte, imponente e prepotente? Perché l’italianissimo progettista del primo gigante a Porta Susa si comporta come fosse autorizzato a trasgredire le buone regole esistenti? Perché ignora un piano regolatore recente? Come può rivendicare una sorta di virtù sacrale assoluta, intoccabile del proprio progetto quando, al contrario, è la città a dover essere interdetta alle azioni promosse all’improvviso senza conoscerne a fondo il corpo e l’anima?

Quei super-architetti possono farne di tutti i colori. Non esistono i critici d’architettura, non vige alcuna autorevole critica paragonabile alla critica d’arte. La dimostrazione di quanto sia vera la frivolezza di certi autori risiede nella incredibile disponibilità ai cambiamenti del progetto riguardo alle forme: solo esse, giacché non si sognano di ridiscutere, poniamo, la volumetria espressione di sfruttamento fondiario speculativo, nemmeno quando spropositata (e lo è sempre per l’intrinseco carattere delle operazioni immobiliari proposte quali alternative a limiti esistenti); o, tantomeno, l’assurdità dell’intervento dal punto di vista urbanistico. Milano, area dell’ex Fiera: i tre progettisti superstar, tra l’altro del tutto estranei alla nozione di contesto così distintiva della scuola milanese di architettura, erano pronti a ridurre appena le altezze dei tre grattacieli su richiesta del sindaco Letizia Moratti rigonfiando altre parti per conservare la cubatura totale. Delle forme definitive non si sa nulla, è probabile che l’edificio sciancato e il pendente lo saranno meno o non lo saranno affatto. La densità fondiaria altissima, essa primario impedimento alla realizzazione di un parco benché piccolo ma non falso come nella menzognera propaganda, è garantita. Sempre a Milano gli edifici previsti nel quartiere Isola (parte dell’operazione immobiliare di Garibaldi-Repubblica) sono cambiati più volte, ma il divieto dell’imprenditore-proprietario di concedere anche un solo centimetro cubo in meno alle proteste degli abitanti è irremovibile. Forse per burlarsi dei mugugnanti, a un certo punto del confronto il rendering di due grattacieli presentava sulla copertura pali e rotori per l’energia eolica. Del resto il divertissementdei rendering relativi al porticciolo della Magonara a Savona è passato da un grattacielo curvo a strapiombo sul mare, una banana di 120 metri, a una specie di tortiglione, come un tubo di plastica semi-rigida tenuto in mano ai due estremi e ruotati in senso opposto così che la parte centrale si deformi stringendosi.

Savona. Seconda proposta di Fuksas

Ci deve essere una qualche sciagurata legge di comportamento nell’impiego del computer per restituire facili immagini in prospettiva di edifici e complessi edilizi. Viviamo in un’epoca della progettazione architettonica in cui troppo spesso, e sempre nel caso delle grandi opere di super-architetti, il progetto di massima è sovvertito. Una volta (e forse ancora oggi presso certi studi organizzati artigianalmente) era elaborazione chiara molto impegnativa per l’autore, già risolutrice delle diverse opzioni, delle contraddizioni e dei ripensamenti, perciò approdava agevolmente al rigoroso progetto esecutivo non demandabile ad altri. Oggi si riduce a figure informatizzate più o meno scintillanti ma generiche, irreali, messe insieme dai mozzi dell’ufficio; per forza prive di principi basilari relativi a proporzioni, destinazioni, funzioni, relazioni con la complessità urbana e la sua storia.

E il progetto esecutivo? Il passaggio non interessa al super-architetto. Varranno le prestazioni di gruppi specialistici abili nei più sofisticati metodi di disegno al computer e nel reperimento delle tecniche “impossibili” atte ad affrontare le forme edili astruse per statica e funzionalità. Gruppi talvolta appartenenti agli atelier professionali del maestro (peraltro un Norman Foster, si narra, è servito da cinquecento dipendenti), oppure impiegati o fatturisti delle imprese di costruzione. Queste, a loro volta, cercheranno di realizzare quelle forme ricorrendo ai più aggiornati espedienti tecnologici. Insomma, cos’è uno qualsiasi degli edifici più insensatamente arditi (per così dire) o il più scompigliato saggio di decostruzionismo? Se non esistesse l’informatica sarebbe una maquette, un oggettino, una scultura, un sopramobile ingrandito cinquecento volte, trasalito a un’architettura priva di visceri, di sangue. Di verità.

Allora in questi giorni vorrei festeggiare: dall’articolo di “Repubblica” citato nella prima riga, titolo “Le grandi opere fanno acqua, vacilla il mito dei super-architetti” (p.31), sappiamo che due dei protagonisti del mercato architettonico mondiale, Gehry e Calatrava, dovranno rispondere a pesanti accuse, denunce al magistrato e richiesta di danni a causa di gravi errori di progettazione ed esecuzione in opere note in tutto il mondo: rispettivamente il nuovo centro Ray and Maria Stata del Massachusetts Institute of Technology e il Palau de les Arts commissionato dalla città di Valencia. Alberto Flores D’Arcais ricorda molti altri casi dello stesso genere. Abbiamo la conferma che l’architettura di moda, come i vestiti le scarpe la biancheria, sembra concepita per la breve durata, scene fragili di uno spettacolo temporaneo, “forme gastronomiche” ha detto qualcuno. Evidentemente i super-architetti (“’star’ come Renzo Piano… Richard Meyer… Arata Isozaki… Daniel Lebeskind…”), noncuranti della solida architettura della realtà, non son fatti della stessa carne di un Brunellesco (benché un sindaco pazzo proprio al maestro del Rinascimento li abbia paragonati); lui che, ci racconta Julius von Schlosser, “sale attivo sulle impalcature” (1929, poi in Xenia, Laterza, Bari 1938, saggi tradotti da Giovanna Federici Ajroldi).

Milano, 14 novembre 2007

Il pianeta degli slum , Feltrinelli 2006. - Ne conoscono qualche immagine, gli studenti avranno visto su giornali e riviste o casualmente alla televisione (che però, lo sappiamo, nell’informare è falsa come Giuda) il modo di abitare e di vivere cui devono soggiacere milioni di persone in molte megalopoli: le gigantesche proliferazioni urbane cancerogene e metastatiche nel Terzo mondo cui sarebbe sbagliato assegnare il termine urbanistico di “espansione urbana”: troppo dolce, troppo collegato al processo normale e per così dire occidentale che la città ha da sempre introiettato nel suo puro consistere. Per la verità il concetto di espansione e la realtà cui è riferibile sono mutati profondamente nel corso del tempo. Oggi per esempio, riguardo al territorio milanese, come a molti altri contesti italiani, europei e americani, designiamo col termine sprawl un tipo di espansione, o di aggressione (per dire che l’una vien da dentro, l’altra da fuori) che non ha niente della tendenziale crescita fisica della città fino a tutta la prima metà del XX secolo. Lo sprawl è la scomposta periferia metropolitana, (to sprawl, propriamente, significa ”adagiarsi in modo incomposto”), il confuso spazio una volta in gran parte campagna nel quale gli abitati non sono più riconoscibili nella loro conformazione storica ma sono mischiati, unitamente al margine della città centrale, in un magma entro il quale non riusciamo più a ritrovare né confini né toponomastica né chiare direzioni stradali. Uno spazio, un’edilizia irragionevoli, privi di dignità civica, estranei ai caratteri della vecchia periferia aggrappata al cuore della città e non del tutto differente. Lo slum periferico è un’altra cosa. Non lo erano le insane e orribili parti delle città industriali ottocentesche descritte da Engels e Marx; né parrebbe del tutto convincente assegnarne il titolo alle strade e vicoli della Napoli descritta da Frank Snowden (Naples in the Time of Cholera, 1884-1911, Cambridge 1995) che tuttavia Davis definisce “pittoresca ma tragica anticipazione della situazione odierna a Lima o a Kinhasa” (p.158), a Città del Messico o a Dakar.

Ad ogni modo per avvicinarsi alla conoscenza del fenomeno slum allo stato attuale della sua manifestazione e delle cause originarie la lettura del libro è, a mio parere, indispensabile. In buona parte del mondo in via di sviluppo (che vorrei tornare a definire sottosviluppo, essendo ormai incontestabile, nel generale processo globalizzante, l’approfondimento del solco che separa i paesi più ricchi da quelli più poveri) la città continua a crescere benché in assenza di capacità di produzione manifatturiera per l’esportazione (che, invece, possiedono Cina, Corea e Taiwan). Persino grandi città con tradizioni industriali come Buenos Aires, Bombay, San Paolo del Brasile… colpite da chiusure di fabbriche e cadute nel noto processo di deindustrializzazione senza contropartita, sono epitome di un fenomeno che peraltro riguarda, benché in forma del tutto diversa, anche città europee e statunitesi: separazione tra urbanizzazione e sviluppo capitalistico. Lo vediamo nel nostro paese: l’esplosione edilizia nell’epoca del decentramento-ridimensionamento industriale e della dominanza del settore finanziario non significa altro che spostamento dell’accumulazione dal profitto alla rendita fondiaria e finanziaria, a costo di produrre edilizia inutile.

Mentre le città del Terzo mondo non riuscivano più a creare posti di lavoro, la politica di deregulation agricola e di dura disciplina nei bilanci economici degli stati e degli enti continuavano a provocare surplus di manodopera rurale che doveva per forza emigrare verso la città, andare ad aumentare la popolazione insediata negli slum o a crearne di nuovi, utilizzando i margini urbani più degradati, privi di infrastrutture e servizi, “inabitabili” secondo qualsiasi canone igienico anche di infima pretesa. Quanto alla “casa”, sappiamo che il termine di “abitazione impropria”, talvolta impiegato nelle statistiche, non solo è insufficiente, ma è ingannevole e capzioso; è difficile immaginare come la soglia del peggio, del più incredibile arrangiarsi con ogni genere di materiali discaricati dalla città possa essere superata per giungere a forme di riparo che nemmeno i nostri fratelli mammiferi accetterebbero.

La ricerca di Mark Davis da una parte conferma che la portata del fenomeno con i tremendi problemi umani che coinvolge è quasi fuori della portata di reale affrontamento. Ci sono paesi nei quali la popolazione urbana è quasi totalmente costituita da slumsman e slumswoman (si accetta questa personale denominazione improvvisata?) e non da townsman e townswoman (locuzione corretta per l’abitante di città). L’Africa detiene il tristissimo primato. Queste le percentuali di popolazione di slum rispetto al totale di popolazione urbana (2003) in Sudan, 85,7, Tanzania, 92,1, Etiopia, addirittura 99,4 (fig. n.6). Vuol dire che in Etiopia pressoché nessuno vive in condizioni abitative anche lontanamente paragonabili alle nostre di cittadini d’Occidente, la parte di mondo che ha storicamente imposto il sottosviluppo ai fini del proprio sviluppo (ripassare, per favore, le note analisi sullo scambio ineguale). In una rassegna di trenta fra i maggiori megaslum (fig. 7) il numero di persone coinvolte va dalle 500.000 di Kinshasa (slum di Masina) alle 800.000 del Cairo (Città dei morti), al milione e mezzo di Lagos (Ajegunle), ai quattro milioni di Città del Messico (Neza-Chalco-Izta).

Da un’altra parte la ricerca offre interpretazioni originali, coraggiose. È impossibile riassumerne il contenuto e il significato anche politico. Mi limito a una specie di sommario:

- in certe città, i residenti in normali case private o pubbliche costruiscono abusivamente nei cortili baracche altri ricoveri, e li danno in affitto a famiglie giovani povere (p.45);

- è assai diffuso dappertutto nel terzo mondo il fenomeno dei “padroni degli slum” che spremono “profitti osceni ancora oggi dalla povertà urbana. Per generazioni le élite possidenti rurali del Terzo mondo si sono trasformate in proprietari di slum urbani”, una “tendenza al latifondo urbano che affonda le sue radici nella crisi e nel declino dell’economia produttiva” (p.80-81);

- da decenni si è affermata nelle maggiori città di Africa, Asia e Sudamerica la concezione di “ostacoli umani”, attributo degli occupanti delle aree marginali che occorre rimuovere per “ridisegnare i confini spaziali a favore della proprietà immobiliare, degli investitori stranieri, delle élite dei proprietari di case e dei pendolari delle classi medie” (p.93). Di qui la politica e la pratica dello “sgombero”che ha riguardato durante quarant’anni centinaia di migliaia di persone per volta, per esempio a Seoul nel 1988, 800.000, Rangoon nel 1995-96, un milione, Harare nel 2005, 750.000 (vedi fig.10, con dodici casi);

- l’equazione marginalità occupazionale = marginalità urbana a partire dal 1980 è dimostrata; la vita penosa dello slum corrisponde al lavoro penoso informale, sommerso o alla disoccupazione irreversibile (p.159);

- sembra ormai senza ritorno il processo tardo-capitalista di “cernita dell’umanità”. Il surplus di lavoratori e di poveri, ovvero (secondo la vecchia definizione materialista) l’esercito di riserva, rappresenta un carico eccessivo nel quadro dell’economia-mondo globalizzata: non sarà mai più compreso nell’economia e nella società, continuerà a sopravvivere ai margini della città e della società come “discarica umana” (p. 47), proprio come l’immondizia discaricata su cui molti slum sorgono. D’altronde, oggi, se arrivano nuovi wretched nel margine urbano “si trovano di fronte a una condizione esistenziale che non si può definire altrimenti che una marginalità entro la marginalità o, con il termine più bruciante usato dall’abitante disperato di uno slum di Baghdad, una ‘semimorte’” (p.178).

Conclusione guardando al polo opposto dell’habitat urbano. I residenti della classi ricche della metropoli cercano ossessivamente sicurezza, isolamento sociale a fronte del pericolo rappresentato dall’assedio dei sottoproletari, indifferente che sia dall’esterno o dal cuore degradato della città vecchia. Nasce la Edge City, l’insediamento suburbano, peraltro usuale da tempo negli Usa, ben protetto da barriere, cinte, cancellate, blocchi stradali. Case come fortezze che uno studioso nigeriano ha definito “architettura della paura” (p.109). A renderla adatta per essere illustrata sulle riviste frequentate dagli studenti, questa architettura, potrebbero pensarci i Libeskind, le Hadid, i Fuksas… e la compagine pronta a fornire la propria immaginosa versione: purché non chiamata a misurarsi con la superata pretesa di coinvolgere nella ricerca dell’architettura la ragione e il sentimento dei contrasti sociali. (Milano, 10 ottobre 2007)

Si veda anche, in eddyburg, B. Vecchi, Viaggio alla fine della città e J. Press, La corsa allo spazio

Cinque anni dal mio primo intervento in eddyburg.it. È passato un lustro da quando, dopo un soggiorno a Venezia, inviai a Edoardo Salzano una copia delle lettere scambiate con l’Istituto veneto di scienze, lettere e arti (Ivsla). Chiedevo all’istituto di ascoltare certi miei rilievi e impressioni relativi ad alcuni orribili aspetti, probabilmente ritenuti minori, della condizione della città; volevo “avere una spiegazione delle ultime sconfitte” e sollecitavo l’Ivsla a promuovere iniziative “per fermare i vandali”, a rivolgersi all’università e a “coloro che conoscono e amano davvero Venezia”. La risposta fu gentile e dichiarante “incompetenza” (!). Né diedero segnali di interessamento l’Istituto universitario di architettura e la Facoltà di architettura di Milano. (Il mio intervento è forse ricuperabile nell’archivio del sito, annata 2002, titolo Mascherata veneziana. Chi possedesse Parole in rete, la prima delle due raccolte dei miei scritti in eddyburg pubblicate da Libreria Clup, lo troverà subito a p.15). Ritornai nel nostro sito (se posso dire così) solo nel 2003, e uno dei primi argomenti fu di nuovo il destino di Venezia. Presi spunto da unarticolo di Francesco Erbani, Se la laguna si trasforma in un Club Méditerranée (Repubblica del 13 aprile). Oggi, nel quinquennale ricordato, mentre forse la maggioranza dei veneziani residui si incanta del ponte di Calatrava (“la grande cazzata”, Salzano) mentre stanno loro sottraendo l’ultima Venezia da sotto i piedi, ho voluto rimettere insieme certi pensieri sulla città conosciuta, e ho deciso di comunicarli ai frequentatori del castello edoardeo.

Il buon piatto di risebisi (così ci suonava risi e bisi)al ristorante-albergo all’Angelo, quasi al fondo di Calle Larga San Marco, pochi passi e si era sul ponte del Rio di Palazzo. Un netto ricordo dell’infanzia, il primo viaggio nella città unica a otto-nove anni d’età, coi genitori e la sorella. Certo non il solo: gli altri, i canali i battelli le gondole, i campielli coi giochi e le voci dei nostri coetanei; correre fra le calli e su e giù per le scale dei ponticelli; stare un’ora almeno sul battello, o sulla gondola lungo i canali stretti guardando scorrere le persone e le case sulle rive; c’impressionava il gondoliere. Ma quel risotto coi grani di riso mescolati ai pallini verdi, un po’ di prezzemolo e di parmigiano (la mamma aveva richiesto di limitare la cipolla) a noi ragazzi era piaciuto specialmente, diverso ma buono per semplicità. Eravamo abituati al risotto alla milanese. Dicevamo spesso alla mamma fa’ il risotto giallo. Semplice, con lo zafferano e senza midollo. Ai bambini non piacevano i cibi ricchi, troppo elaborati. Amavamo il risotto e la cotoletta impanata (senza il “manico” cioè l’osso, una milanese declassata) con le patatine. Sempre quello, giallo. La potente paniscia novarese, coi cavoli e i fagioli, la carota e il sedano, pezzetti di cotica o di costine, solo poche volte all’anno. Risebisi, forse mai più mangiato a Venezia in seguito (dove lo fanno bene, oggi, chiedo a Edoardo).

La città meravigliosa. Presi a frequentarla nel dopoguerra con qualche amico, specialmente in occasione delle Biennali d’Arte. Commissario straordinario della prima edizione postbellica, 1948, era Giovanni (Giò) Ponti che l’anno seguente sarà mio insegnante al corso di Architettura degli interni, arredamento e decorazione. Segretario generale per le arti decorative, Rodolfo Pallucchini. Seguivamo gli avvenimenti dell’arte quanto ci fosse concesso dalle misere condizioni economiche. Riuscivamo a passare qualche giorno a Venezia dormendo in brutte locande e limitando i pasti a quasi niente, mai ci sedevamo a un tavolo di qualche locale, questo fino a metà degli anni Cinquanta. Venezia era piena di segni dell’età e della guerra, ma era dritta secondo la sua storia di città rara e salva per il bene del mondo, non l’avevano ancora rovesciata. La città era vera, non una finzione per turisti; i veneziani esistevano numerosi e resistevano.

Ci tornerò spesso in seguito, potremo (plurale dovuto alla condizione di coppia) goderla senza faticose restrizioni economiche. A un certo punto, mentre tutte le altre città crederanno di aver raggiunto i vertici della modernizzazione riempiendosi di automobili e di veleni, di traffici d’ogni genere invadenti gli spazi civili, Venezia si presenterà alla mente e al cuore delle persone sapienti come l’unica città davvero moderna, la città che si sognava mentre ci si districava nella giungla metropolitana. Mancavano le automobili gli autocarri i camioncini le moto i motorini! Le altre, mortifere, cercavano disperatamente di circoscrivere qualche spezzone del centro (più o meno storico) per renderlo esclusivamente pedonale e non sempre ci riuscivano se non malamente, al contrario Venezia era lì bella e pronta, tutta pedonale, tutta aperta alla persona invece che alla macchina. I canali, poi, come fossero coerenti ai moderni manuali di classificazione delle strade, servivano secondo i mezzi e comunque la cosiddetta motorizzazione per via d’acqua costituiva una taglia, una pena cento volte minore di quella usuale nelle città.

Dal punto di vista urbanistico e architettonico non erano mancati gli obbrobri (per esempio il nuovo Danieli in Riva degli Schiavoni, il Bauer a San Moisè, la Cassa di Risparmio in Campo Manin…), ma la forza coesa dell’organizzazione storica dello spazio, essa stessa totalmente architettura, non aveva perso la guerra contro i vandali come era accaduto a Milano, Roma, dappertutto.

Poi la modificazione da città più moderna del mondo a nonluogo oppresso dal più volgare consumismo estraneo è proceduta senza tregua. Da quando? Ho calcolato, in base alla mia esperienza, a partire da trentacinque, quaranta anni fa. I frequentatori di eddyburg conoscono gli avvenimenti o possono ritrovarne il racconto. Ricordo però che all’inizio degli anni Novanta nacque una nuova speranza. Fu Antonio Cederna a sostenerlo in un articolo su Repubblica del 25 aprile 1990, La rinascita di Venezia (ora pubblicato come “scelto da Luigi Scano” in Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, a cura di Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala, Bonomia University Press). Il piano per il centro storico, “un grande progetto di restauro” varato dalla giunta rosso-verde (sindaco Casellati, assessore Stefano Boato, consulente Scano) sulla base del lavoro precedente avviato da Salzano quand’era assessore all’urbanistica, avrebbe potuto mutare il destino della città, soprattutto fermare l’esodo degli abitanti e riportali almeno a centomila unità (oggi sono meno di settantamila). Sarebbe spettato alla nuova amministrazione dopo le elezioni “attuare il piano e sventare quell’autentica disastrosa calamità che sarebbe l’Esposizione universale del Duemila”. Quest’ultimo, l’unico obiettivo raggiunto. Il progetto è stato tradito e il futuro prossimo renderà irreversibile l’omologazione di Venezia alle altre città. Al posto suo la nuova AIZÉNEV:

- venti milioni all’anno di turisti;

- palazzi storici e belle case normali ristrutturati, fracassati, frazionati, per ottenere alberghi, residence, alloggi da affittare per una settimana o per un week end, negozi e grandi magazzini;

- poche migliaia di abitanti residenti non resistenti, larve atte a “portar fuori il cane” dei nuovi proprietari stranieri;

- laguna sconvolta dal gigantesco macchinismo del Mose (l’“isola intermedia”, il “porto rifugio”, i nuovi moli e le barriere, le paurose “paratoie” diavolesco moloch addormentato sul fondo);

- metropolitana, ossia la terribile “cosa dall’altro mondo” che piomberà (giustamente…) sulla città rovesciata, la più inconcepibile (“incompatibile con la ragione”, Garzanti…et al.) idea che i nemici di Venezia potessero manifestare, fra loro persino l’intelligentone sindaco Massimo Cacciari (non posso capacitarmi pensando alla gente che sale da sottoterra alle previste fermate di Murano, Misericordia, Ospedale Civile, Arsenale);

- e i danni denunciati da me cinque anni fa, continuati fino all’esaurimento della materia da trattare: pareti di edifici di qualsiasi genere dipinti di “rosa e rosa rossi di ogni gamma… assurdi color fragola o giallo polenta… accostamento fra diversi anche su pareti ortogonali” - “finestre in alluminio anodizzato-oro applicate sul filo esterno della muratura al posto dei bellissimi antoni di legno” - “cornici, sporti, segnapiani, colonnine e altri elementi architettonici in pietra d’Istria, rinnovati, anziché con leggera lavatura a getto secondo le buone regole, mediante verniciatura color bianco splendente…”.

(Il cerchio aperto dal corsivo iniziale si richiude su AIZÉNEV: la città da odiare).

12 agosto 2007

Per i biologi e gli ecologi la pianificazione, o comunque le scelte effettuate di volta in volta uniformate solo all’imperativo della crescita illimitata – cui è intrinseca l’enormità della speculazione finanziaria e fondiaria – danneggiano e poi distruggono l’impronta ecologica: la superficie necessaria a garantire le esigenze di una popolazione umana riguardo ai differenti aspetti della sua vita tra i quali hanno importanza prioritaria e i maggiori effetti ambientali la produzione di cibo, lo smaltimento dei rifiuti, l’assorbimento dell’anidride carbonica liberata dai combustibili fossili. Senza territorio aperto agricolo-alimentare, senza il coerente riutilizzo degli avanzi e senza la sintesi clorofilliana dovuta alle stesse coltivazioni oltre che ai grandi spazi boschivi o in ogni modo alberati, vincerebbe la morte, non la vita.

L’impronta ecologica si esprime in termini spaziali. Nella condizione economico-sociale odierna lo spazio in crisi di iper-consumo non è rinnovabile; lo sarebbe solo mediante processi rivoluzionari, ovvero tornando indietro, modificando profondamente i rapporti produttivi, sociali e politici. Il giovane Marx dei Quaderni (taccuini) etnologici pensa che la crisi sociale contemporaneapossa risolversi solo ritornando alla proprietà comunitaria arcaica, e non si spaventa delle parole. Per Fernand Braudel ogni realtà sociale è per prima cosa spazio; gli spazi sono legati da rapporti di dipendenza sia nelle geografie umane vaste sia negli ambienti socio-spaziali piccoli (dunque il giusto progetto, penso, deve mettere in relazione assetti dello spazio e assetti sociali). Marc Augè, nel notissimo Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, sembra lanciare un avvertimento in particolare agli urbanisti e agli architetti: “quando i bulldozer cancellano il territorio […] è nel senso più concreto, più spaziale che si cancellano, con i riferimenti del territorio, anche quelli dell’identità”.

In Braudel e in Augé, come in tutti gli studiosi delle società storiche in rapporto all’identificazione in un luogo, lo spazio è organizzazione consapevole o spontanea volta al bene della collettività; l’opposto di cosa ci racconta la storia/cronaca del contemporaneo nel nostro paese. Scopriamo ogni giorno gli sconvolgimenti territoriali insieme allo scompiglio di piccoli e grandi raggruppamenti sociali (irrilevante se da loro stessi percepiti o no). Impariamo dalla storia, dall’etnologia e dall’antropologia che all’interno di società ben riconoscibili nei caratteri relazionali “l’organizzazione dello spazio e la costituzione dei luoghi rappresentano una delle poste in gioco, una delle modalità delle pratiche collettive e individuali” (Augè). Spazio organizzato, appunto, ossia il territorio vitale per la collettività. Il modo di trattare lo spazio esprime il bisogno della collettività di pensare all’identità, alla relazione e anche ai relativi elementi simbolici. Attenzione: la costituzione dei luoghi non riguarda solo lo spazio d’insediamento fisico aggregato della popolazione, del gruppo, ma innanzitutto lo spazio della necessità assoluta, la base vitale della vastità agro-silvo-pastorale.

Queste constatazioni confermano che il consumo di terra comporta l’abolizione nuda e cruda degli esseri viventi. Si obietterà che l’uomo oggi sta meglio che mai, vive più a lungo. Può darsi che il nostro turno non sia ancora giunto, però segnali ce ne sono, a scala planetaria. Intanto guardiamo nella nostra casa, dove vivono i nostri fratelli mammiferi che ci nutrono. Secondo il Cnr al principio degli anni Ottanta esistevano in Italia 28 razze autoctone di bovini. Vent’anni dopo i nostri fratelli avevano già pagato un duro prezzo alla distruzione delle risorse ambientali. L’Unione europea segnalava che 21 delle 28 razze bovine censite allora erano in via di estinzione.

Osserviamo ora i dati censuari Istat inerenti alle superfici agrarie, sapendo che il territorio nazionale è di circa 300.000 Kmq. Tra il 1981 e il 2000 la diminuzione della Sau (Superficie agraria utilizzata) è stata pesantissima: da quasi 200.000 a circa 130.000 Kmq. Si dirà che la Sat (Superficie agraria totale, comprendente anche i boschi dentro il perimetro aziendale, gli incolti, gli edifici, i fossi, le strade poderali, eccetera) era maggiore (di oltre 60.000 Kmq). Ma è proprio tale differenza a mostrare l’incessante processo di impoverimento. Quanto sarà oggi lo spazio aperto davvero utilizzabile per una buona agricoltura e dunque per fondarvi anche la conservazione incondizionata del restante paesaggio italiano? Quale il ricetto dinnanzi al potere del caterpillar?

Pressappoco nel periodo in cui l’Istat eseguiva i propri rilevamenti, altri avvisarono che si dovevano salvare in prospettiva ad ogni costo almeno 100.000 Kmq netti per coltivazioni capaci di rispondere alla domanda interna e di sostenere la competizione nel mercato internazionale. Quanti saranno oggi? Non lo sappiamo. Sappiamo che il settennio trascorso corrisponde a una decisiva intensificazione dell’ideologia e della pratica di “sviluppo del territorio”, locuzione insensata invece piena di senso reale giacché in questo caso sviluppare significa edificare edificare edificare, occupare terreno con manufatti di ogni genere. Se adottassimo un’ottica valutativa capace di separare il loglio dal grano, vale a dire evidenziare il paesaggio agrario effettivamente in piena salute, una stima intorno alla metà sarebbe forse la più credibile.

Gli economisti, secondo Kenneth Boulding – preciso riferimento di Carla Ravaioli nella sua incalzante critica al modello economico dominante – sono le sirene pazze della crescita economica. Molti urbanisti e architetti sono sirene perfettamente savie della pianificazione o della libera azione incentrate sull’espansione fisica, sull’occupazione di terra libera, sulla crescita infinita dell’ingombro: uguali uguali ai proprietari fondiari, agli impresari edili, agli improduttivi imprenditori di iper-mercati e centri commerciali, ai politici e amministratori pubblici fautori di grandi interventi liberisti e di infrastrutture inutili. E i cittadini, “la gente”? Come hanno potuto accettare la continua sottrazione della risorsa originaria? Il suolo, il terreno, la terra… Jarred Diamond, il biologo fisiologo biogeografo americano autore di Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere (2004, Einaudi 2005) definisce “amnesia di paesaggio” la malattia di intere popolazioni. Vedono mutare il territorio e non si rendono conto “che i cambiamenti sono enormi; ci si abitua giorno dopo giorno e quando il problema emerge è troppo tardi”. Si ignora che per formare un centimetro di quel “suolo utile” perduto occorrono secoli.

Che fare? Potranno nuove leggi incidere decisamente sul futuro del territorio italiano? Ribaltare il destino dello scampolo sfuggito al caterpillar? Il passato e la contemporaneità disegnano il futuro se non avvengono rilevanti fratture politiche e sociali. Non abbiamo già sperimentato condizioni legislative decenti benché incomplete? Non sono state costantemente eluse e negate fin da subito nel dopoguerra? Non è vero che la rovina dell’ex Bel Paese (“Malpaese”, Giovanni Valentini) è dipesa da una triade procedurale, se così posso esprimermi, della quale è parte forse maggioritaria, insieme al piano mancato e all’abusivismo, la pianificazione per lo più locale corredata dalle sue sottomarche indipendenti: il piano parziale, il falso piano particolareggiato, la variante urbanistica, il lottizzamento, le iniziative stampigliate da una miriade di acronimi con base P(piano)… e svariate iniziali appiccicate, fino al singolo stranito progettone edilizio decisionista?

A proposito di consumo o risparmio di suolo, cosa ci ha offerto recentemente la cultura di certi progettisti? L’incredibile proposta della nuova città di VeMa, una scorpacciata nella più fertile campagna padana fra Verona e Mantova. I Comuni e le Regioni, quali politiche territoriali stanno praticando? Come il favoloso serpente mercuriale che si forma nell’acqua e divora se stesso, loro mangiano la propria terra. Un esempio recente proveniente dalla Lombardia: la Regione realizzerà un’autostrada di quasi settanta chilometri a 2+1 corsie per senso di marcia da Broni a Stroppiana (mai sentiti questi nomi, amici non lombardi?) in pieno Parco regionale del Ticino: area di riserva Mab (Man and biosphere) dell’Unesco, Zps (zona di protezione speciale), coltivazioni di altissimo pregio (vigneti e soprattutto risi superfini Carnaroli e Arborio).

Accetto l’accusa “sei ripetitivo, conosciamo i tuoi argomenti “ e non mollo: buone leggi nazionali relative al territorio non servono se non si affronta il problema dei poteri in Regioni e Comuni. I sindaci e i presidenti affiancati da giunte infarcite di tecnici subalterni agiscono sulla base del potere personale e oligarchico assicurato da una normativa condivisa dalla sinistra in omaggio alla mitizzata stabilità di governo. I Consigli? Ferrivecchi, memoria di vecchie battaglie democratiche. Non contano nulla, si torcono fra impotenza e frustrazione. Il nuovo potere fa e disfa nelle città e nel territorio aperto, dentro o fuori dai piani, dentro o fuori dai vincoli ambientali. Il decisionismo indiscutibile è diventato esso stesso il piano. La battaglia a difesa del territorio aperto e del paesaggio deve allargarsi alla necessità di risolvere il problema del potere ad ogni grado dell’assetto democratico. Difficile? Certamente, giacché stanno covando nuovi accordi fra i partiti per garantire poteri molto più ampi anche al primo ministro eletto. Ma valga per la sinistra discordante il principio che le buone battaglie vanno sempre combattute anche se si sa che se ne perderanno la maggior parte, forse tutte.

Questo articolo uscirà nella rivista trimestrale “il Grandevetro”, edita a Santa Croce sull’Arno (Pisa). Può essere letto come completamento riguardo allo spazio aperto dell’articolo Alla ricerca dello spazio perdutoriguardante le piazze della città,apparso in Eddyburg il 25 novembre 2006 e pubblicato sul fascicolo n. 78, marzo-aprile-maggio 2007, della rivista L.M.

Quarant’anni dalla “legge ponte”. Passati come attraverso una lunga guerra, vissuti nel paese dinnanzi a immani distruzioni. In mezzo alle macerie il ponte sul fiume “del tempo e del disinganno” non è stato ancora costruito totalmente. L’anniversario del progetto cadrà il prossimo 6 agosto. Legge 765/1967: seguirà, otto mesi dopo, il decreto “degli standard urbanistici”, così lo denominavamo (l’incipit del testo dice “limiti inderogabili di…”) . Eddyburg se ne è occupato, si è persino discusso dove, in quale anfratto del sito incasellare l’argomento. Ponte: due le interpretazioni: la prima, ponte lungo un anno per collegare i dispositivi della legge fino all’atto della loro concreta applicazione rimandata appunto a un anno dopo; la seconda, ponte lungo alcuni anni o decenni o secoli fino all’approvazione di una nuova legge urbanistica generale a sessantacinque anni dalla legge 1150 del 1942. Per la seconda, tempo pontiere lungo quattro decenni mancante delle ultime pietre o delle ultime gettate di calcestruzzo armato. Non possiamo ancora scendere sull’altra riva. La prima da opinione divenne presto testimonianza allibita di fatti gravissimi, di avvenimenti urbanistici ed edilizi di segno uguale a quelli che l’articolo 17 della legge intendeva bloccare, ovvero un’edificazione rovinosa nei comuni privi di piano regolatore o piano di fabbricazione ma anche, per certi aspetti diversi, nei comuni dotati di tali strumenti. L’inconcepibile anno “vuoto” dal 6 agosto 1967 al corrispondente giorno del 1968, dunque oltre il decreto degli standard del 2 aprile, è stampato nella memoria degli anziani, forse solo in loro, sfortunatamente.

In quei dodici mesi bastava gettare un pilastro di calcestruzzo a caso in un fondo, persino alla vigilia della scadenza, per assicurarsi la costruzione di un edificio, nel caso migliore progettato falsamente. Nel paese imperversava una specie di banditismo edilizio autorizzato; un bislacco comportamento delle amministrazioni pubbliche sguarniva le città e le campagne d’ogni possibile difesa. Altro che “limiti inderogabili” a venire. I provvedimenti legislativi, indipendentemente dal rinvio dell’obbligo, furono comunque facilmente aggirabili a causa della loro gracilità. La decantata fantasia italiana potette scatenarsi nelle forme più ardite, né mancò l’intensa partecipazione dei tecnici campioni di opportunismo e servilismo. Gli speculatori d’altronde proseguivano tranquillamente nella loro azione cominciata prima che la guerra fosse terminata. Fu un diluvio di metri cubi edili, come un’enorme frana da sotto in su, all’incontrario e un milione di volte più vasta di quella di Agrigento (19 agosto 1966, a dicembre la relazione-denuncia dell’ingegner Michele Martuscelli sul n. 48 di “Urbanistica”), ragione preminente della legge 765: da un lato tentativo di tamponare in qualche maniera la ultraventennale libertà concessa agli imprenditori di ricavare dal territorio e dalle città il massimo di rendita e profitto, dall’altro dimostrazione della impossibilità politica di volerlo fare davvero. La costituzione ambientale storica del paese era già in buona parte sovvertita. Antonio Cederna aveva cominciato a scrivere nel 1949 gli articoli su “il Mondo” in seguito confluiti nel libro I vandali in casa (1956) e i vandali avevano già scorrazzato in lungo e in largo, Leonardo Borgese aveva scritto sul “Corriere della Sera” i primi articoli della sua campagna in difesa del Bel Paese fin dal 1946, Cesare Brandi era intervenuto senza tregua a denunciare la distruzione del paesaggio naturale e artistico a partire dal 1956. Il destino di una Napoli come rappresentata nel film di Francesco Rosi Le mani sulla città, 1963, appariva segnato in maniera irrimediabile.

Rileggiamo la conclusione della commissione Martuscelli (con Ambrosetti, Astengo, Di Paola, Guarino, Molajoli, Russo e Valle), per non dimenticare (perorazione a coloro che vi propendono): “la commissione sente il dovere di segnalare la gravità della situazione urbanistico-edilizia dell’intero paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite… E non può non auspicare che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto – deciso e irreversibile – al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico”. Dopo un attimo di sosta attonita, i girgentini, fors’anche ammirati da alloctoni di molle carattere, ripresero la lena e posero mano più ferma anche alla dirimpettaia Valle dei Templi, l’antica e da loro malvoluta Akragàs, reclamandola come proprietà ereditaria e dunque atta ad essere meglio impiegata, invece che mediante il classico statico, mediante il moderno dinamico, ovvero la costruzione in successione di buona edilizia compensativa dell’ingiusta perdita. E vennero mano a mano le 700 costruzioni di vario genere nella Valle a ridefinire il paesaggio, il secondo nuovo dopo il primo dominato dallo spaventoso prospetto dell’insensata espansione urbana destinata al crollo.

Chi potette visitare l’eccezionale ambiente storico e archeologico di Agrigento fino alla metà degli anni Cinquanta non si trovò nella medesima situazione di Alexis de Tocqueville e di suo fratello Eduard che videro, “là giunti, l’immensa cerchia delle mura di Girgenti… e quasi tutto quel che resta dei monumenti antichi schierato sul bastione naturale che dà sul mare” (AdT, 1827). Tuttavia non vide quasi niente di spaventoso. Poteva godere di un paesaggio che giustapponeva la ricca città greca morta e la povera città storica viva in uno scenario nel quale le due realtà parevano ignorarsi ma, a saper ascoltare, potevano dialogare. Quando ritornò ai templi negli anni Sessanta prima della frana cercò di procurarsi ad arte un qualche godimento dando le spalle all’orrida immanenza della città e osservando la residua Akragàs da sud; se non avesse resistito e, come Orfeo, avesse girato la testa, la nuova città non sarebbe sprofondata al fondo dell’Ade come Euridice e lui avrebbe vomitato.

Quale nuova esperienza visiva e percettiva per chi vorrebbe trovarsi lì oggi? Altro ambiente altro paesaggio? La Valle piena di robaccia? Girgenti più brutta di prima? Mettiamo che il visitatore abbia quarant’anni, proprio l’età della legge influenzata dal disastro dimenticato. Sarebbe talmente abituato ad aggirarsi nella merda di città e territorio che troverebbe normalità la merda agrigentina, uguale al fiume puzzolente che ha invaso ogni parte del paese e che scorre ognora più gonfio. Perché insistere sul caso siciliano? Perché voler ricordare la determinazione del bravo direttore dell’Urbanistica al Ministero dei lavori pubblici? Perché l’auspicio suo e della commissione fu subito tradito, la disgregazione e il saccheggio urbanistico, del resto esaltati nel tempo dell’assurdo o del surreale concesso dal legislatore, continuarono come e più di prima, vissero trionfali gli anni, i lustri e i decenni. Ora tagliano il traguardo del 2007 e si fanno ammirare pronti a future avanzate benché sconcertati dinnanzi alla sorprendente scarsità di materia disponibile.

Gli urbanisti democratici confidarono negli standard urbanistici quale soluzione di rottura in contesti privi di adeguate dotazioni di servizi e attrezzature, quale panacea dei mali urbani. Facile calcolarli, prevederli nel complesso e anche distribuirli nel disegno del piano; difficile tradurli nella realtà urbana. La separazione fra intenzione-progetto e mancanza di realizzazione resero più sicura e rapida la privatizzazione della città. Dove i Comuni, specie alcuni delle regioni rosse già propensi alla pianificazione, dedicarono maggior impegno a collegare disegno e attuazione forse ottennero condizioni urbane un po’ più “svedesi” ma non poterono scalfire, da una posizione puramente amministrativa, la contraddizione cruciale che sarebbe stato compito politico della sinistra dipanare. L’urbanistica tradizionale ferma alla cultura delle dotazioni non poteva servire a spostare benefici sostanziali verso la massa dei lavoratori senza collaborare, con mezzi propri dell’intellighenzia, a modificare il rapporto fra classe dominante e classe lavoratrice riguardo, per così dire, all’appropriazione della città e del territorio. Sancita la frattura fra astrazione e concretezza, il fervore dotale dell’urbanistica approdò non sempre involontariamente all’assurdo o alla falsificazione.

Leggo l’intervista di Edoardo SalzanoStandard urbanistici fra tempi e spazi (22 marzo, presa da Eddyburg il 27), con accenni anche all’attesa della nuova legge urbanistica. Mi sembra di ascoltare voci di allora: “Una legge sul governo del territorio deve essere in grado di modificare i rapporti di forza e le regole di trasformazione urbana in favore di chi esprime un uso sociale della città come bene comune”.

Intanto nella Milano una volta epitome di affabilità e generosità (o così s’era dipinta) oggi non esistono asili nido bastanti al bisogno delle giovani mamme. Destino dello standard, quando il tasso di natalità è meno della metà rispetto al 1968.

Intanto altre voci ascoltate nelle ultime settimane, tutte dal suono alto e intenso, ci hanno investito. Voci che raccontano delle ultime violenze d’ogni genere verso le parti del paese sfuggite finora al caterpillar. Una cascata di allarmi e denunce. Ho qui accanto una pila di ritagli dai giornali e stampe da Eddyburg, recenti. Dalle città alle campagne, dalle coste ai territori interni: sembra che lacerti di un’Italia riuscita finora a ritrarsi dalla guerra non ce la facciano più a resistere alle botte, stiano gettando la spugna e accettino il comune destino, la perdita di sé per sempre.

Le parole. Ecomostri lombardi speculazione Fiera Milano speculazione corre sul treno metrò sotto laguna abusivismo e incuria Unesco boccia Toscana infelix quanto cemento intorno Mantova battaglia parco Portofino litiga Liguria sul cemento salvare Monticchiello pesante impatto Napoli 400 appartamenti senza permessi stop cemento mappa degli scempi cemento Orbetello sindaci ignavi fermate cemento salvare Toscana territorio violentato Campania Recco condomini sulla via romana Fuksas fermatelo riviera di torri paesaggio deturpato territorio consumato resa dei conti porticciolo foce Arno San Rossore 200000 mc ecomostro Bologna Romilia Vema Padana orrore Navigli come Bombay senza difesa natura farsa Bagnoli chi ferma cemento ville a schiera nel parco non si demolisce così Paese… la pila è ancora altissima.

Allora. La proposta di legge urbanistica è approdata al Parlamento. Tre a due, per Salzano, il rapporto mi piace/non mi piace. Quali saranno gli esiti alle Camere? Dal punto di vista della questione territoriale esistono posizioni d’ogni genere. Aspettiamo. Tuttavia non possiamo ignorare che la frattura fra realtà territoriale e progetto legislativo nazionale, come nella storia dello standard, è decretata da tempo. Come potrà una legge nazionale, probabilmente attenta agli interessi degli imprenditori, ai cosiddetti diritti edificatori, all’opportunità – magari un po’ meno obbligata che nella legge Lupi – della contrattazionefra ente pubblico e proprietà privata, come potrà imbracciare lo scudo imperforabile a difesa degli ultimi pezzi d’Italia storica dal pericolo di soluzione finale? Ora dominano le leggi regionali; devo ripetere ciò che i frequentatori di Eddyburg conoscono circa il disinteresse o l’ambiguità delle amministrazioni verso la battaglia incondizionata in difesa del paesaggio residuo? Lamentare nuovamente la loro sordità (esemplare il comportamento del governo regionale toscano) verso le critiche per l’irragionevole trasferimento del problema ai comuni grandi e piccoli e piccolissimi? Oggi, oltre ai presidenti di Regione, dominano sindaci e giunte sbeffeggianti i Consigli: coi loro interventi edilizi mangiano il territorio quando ne esista ancora, se ne ingozzano insieme alle imprese di costruzione-distruzione. Tutto legale (più o meno). Come potrà una legge nazionale impedirlo se i partiti politici non vogliono affrontare il problema cruciale – da me più volte trattato – dei poteri nelle Regioni e nei Comuni, le sedi della storica autonomia democratica trasformata in decisionismo personale? Preoccupazione e tristezza prova chi le battaglie per l’autonomia locale le ha fatte ai tempi delle diuturne discussioni nei Consigli e dei duri controlli prefettizi volti, più che al rispetto della normativa, al merito di pubbliche deliberazioni delle maggioranze di sinistra. Questa la giusta battaglia per la democrazia, non la pretesa odierna d’indipendenza in decisioni che, relative alla località, riguardano l’intera comunità nazionale.

La difesa dei beni artistici e paesaggistici è scritta nelle leggi d’anteguerra e nella Costituzione. Come potrà lo stato, con o senza nuova legge urbanistica, rafforzare il proprio compito in questa materia quando una brutta specie di smaccato liberismo non solo si è consolidato nella legislazione e pianificazione locale ma ha impresso la coscienza di politici e amministratori? Cosa gl’importa a quest’ultimi di leggi generali vecchie e nuove mentre possono muoversi disinvoltamente dentro le molteplici occasioni offerte da un’urbanistica falsa designata dagli insopportabili acronimi normalmente indecifrabili dai cittadini? Oggi uno dei più miti dal punto di vista del linguaggio, Pgt, Piano di governo del territorio, costituisce invece la mensa preparata, penso, per l’ultima abbuffata degli obesi imprenditori e proprietari fondiari.

Conoscete gli obiettivi dichiarati dalla giunta milanese, d’altronde in linea con una prassi in atto da oltre dieci anni? “Deregulation… liberalizzazione… autoregolazione del mercato… no alle destinazioni d’uso… sviluppo delle capacità insediative… perequazione mediante la Borsa dei diritti volumetrici (compravendita dei diritti)… volumetrie aggiuntive al legittimo possesso… densificazione… valorizzazione [ah!] delle aree degradate nei parchi… grattacieli…”.

Eh, già… gli standard e i bisogni dei cittadini, la legge urbanistica nazionale, la preservazione del paesaggio, il risparmio di terra, la difesa dello spazio pubblico… eccetera eccetera.

Milano, 1 aprile 2007

Per quattro o cinque decenni fino a oggi la figura di Cesare Chiodi (1885-1969), ingegnere e urbanista, insegnante universitario, autore e attore nel divenire della cultura di città e territorio fra le due guerre, durante la ricostruzione e le successive vicende, sembra non aver ricevuto l’illuminazione necessaria per poter essere ri-conosciuta anche dalle nuove generazioni di studiosi e progettisti. Al Politecnico di Milano è stato costruito l’Archivio Cesare Chiodi, la cui guida, per opera di Renzo Riboldazzi, è disponibile dal 1994. Ma la critica e la relativa pubblicistica hanno trascurato questo professionista milanese, peculiare rappresentante della borghesia liberale produttiva, colta e onesta, ormai scomparsa e dimenticata. Forse ignorato proprio per questo? O a causa di una presunta esclusività localistica dell’impegno culturale? Cercherete invano il suo nome nel primo dei sei volumi del Dizionario enciclopedico di architettura e urbanistica diretto da Paolo Portoghesi ed edito nel 1968 dall’Istituto Editoriale Romano. Chiodi aveva allora 83 anni (morirà l’anno seguente), non era più il suo tempo: non una buona ragione per cancellarne la presenza fra tante altre, molte a mio parere insignificanti.

Oggi il volume Cesare Chiodi. Scritti sulla città e il territorio 1913-1969 (Unicopli, Milano 2006), una mirabile raccolta curata dallo stesso Renzo Riboldazzi, riempie il vaso vuoto, anzi travalica i bordi e va ad alzare il livello nel recipiente della cultura riguardante la città e il territorio. Prima di leggere il saggio introduttivo – “Armonia e calcolo, necessità e bellezza”. Città e progetto urbanistico negli scritti di Cesare Chiodi – conviene impadronirsi anche delle altre parti. Così, proprio gli elenchi esaustivi di scritti editi e di altre forme di partecipazione al confronto pubblico sui problemi territoriali e urbani, suddivisi in cinque parti secondo la loro tipologia, cominciano a stupirci circa l’incessante vocazione dell’ingegnere a porsi con attenzione davanti al torrente di fatti urbanistici, progetti e idee che gli scorre davanti in sessant’anni a Milano, in Italia e altrove: poi scendere la riva e far navigare i propri pensieri nella corrente.

La durata e la portata dell’attività di urbanista (e “architetto”) appaiono differenti, in diminuendo, coerentemente ai periodi in cui le suddivide il curatore: il periodo fra le due guerre, la ricostruzione, gli anni del boom economico. Il lavoro professionale e culturale si infervora nel primo periodo, non presenterà segni di stanchezza nella ricostruzione mentre il tempo dell’impegno sarà relativamente breve stante il rapido fallimento delle speranze, non potrà che offrire testimonianze di alcune personali sensibilità davanti alle contraddizioni e confusioni urbanistiche e al trionfo della speculazione edilizia dalla metà degli anni Cinquanta agli anni Sessanta, con susseguente decadenza della dedizione di tutti al bene sociale.

“Armonia e calcolo, necessità e bellezza” (in Lo sviluppo periferico delle grandi città, in “Rassegna di architettura”, n.7, luglio 1929): la citazione potrebbe rappresentare l’intero senso dell’attività di Cesare Chiodi. Il presupposto dell’operare bene e insieme la conseguenza (almeno per armonia e bellezza) definiscono l’entità dell’urbanistica accanto a “scienza e arte” (idem). Urbanistica come costituzione disciplinare non racchiusa nel ricetto preteso ultra-specialistico, invece sintesi aperta; non luogo d’isolamento ma contrada dell’incontro dove la scienza l’arte il calcolo la necessità l’armonia la bellezza “si danno la mano”(idem). Allora l’urbanistica comprenderebbe le questioni dell’architettura, del paesaggio, dell’ambiente costruito e no. Il disegno del piano regolatore non può fare a meno del disegno urbano relativo al progetto di quartiere o porzione della città, ma anche delle designazioni fondamentali nel contesto geografico dove la città deve misurarsi con la campagna e gli insediamenti del circondario.

Tutto questo è ben chiaro negli scritti del periodo fra le due guerre integrati dalle immagini selezionate dal curatore. Se mai avessimo avuto, prima, dubbi irrisolti circa la possibilità di assegnare la figura dell’ingegnere milanese a un posto di merito nella cultura della prima metà del Novecento, ora dobbiamo renderle il dovuto. Cesare Chiodi è architetto novecentista quando si dedica alla costruzione di case (p. es. l’edificio di Via Podgora a Milano, 1930-34, parente non lontano della Ca’ Brüta di Muzio e Colonnese) o vi collabora con altri ingegneri o architetti, ma è quasi-razionalista nel disegno di quartieri dei primi anni Trenta; non può, nella data situazione culturale nazionale, ottenere un nuovo disegno di piano regolatore della città esistente, come d’altronde non l’ottengono i maestri razionalisti italiani con pochissime eccezioni, ma riguardo alla pianificazione a scala superiore propone il modello territoriale policentrico ispirato alla cultura europea confutatrice dell’irragionevole espansione della città a macchia d’olio. Insomma, anche in questo esemplare rappresentante dell’attivismo professionale e culturale milanese possiamo riconoscere una sorta di reductio ad unum dei problemi urbanistici ed edilizi aperti allora nel nostro paese.

Ancora presente negli anni successivi in ogni principale circostanza della discussione critica, Chiodi è però efficace in special modo con la partecipazione al dibattito prima e durante la ricostruzione. Il grave problema della casa in Italia e soprattutto a Milano mobilita le riflessioni e le proposte di soluzione del nostro non meno di quanto impegni gli architetti milanesi più sensibili a quel dramma sociale: Enrico Griffini, Piero Bottoni, Ernesto Nathan Rogers. A mio parere il famoso saggio del primo su “Edilizia Moderna” del dicembre 1948, comprendente pesanti accuse contro gli errori e gli orrori provocati dall’edilizia disordinata e profittatrice voluta da impresari banditeschi, “conseguenza di decadenza morale e civile”, potremmo rileggerlo quale necessaria ricapitolazione degli interventi dell’ingegnere particolarmente tempestivi: a partire dalla conferenza tenuta al Sindacato ingegneri della provincia di Milano il 2 marzo1944, pochi mesi dopo il più rovinoso dei bombardamenti aerei che la città aveva dovuto sopportare.

Dello stesso libro di Cesare Chiodi, qui su Edyburg vedi anche la recensione di Fabrizio Bottini con pdf scaricabile

Che scoperta! Ci voleva Monticchiello 1 e poi 2 (vedi le ultime notizie sui quotidiani con lo stop a un nuovo lotto di lavori quando ne sono stati approvati e sono in corso di realizzazione i quattro quinti) per mostrare agli italiani che il loro Bel Paese è ridotto a pochi lacerti anch’essi in procinto di essere cancellati? E ieri l’assessore regionale Riccardo Conti, già conosciuto come accorato propugnatore dell’edificazione sull’intatta collina fiorentina di Bellosguardo (ved. nel sito Bellaciao, Toscana!, 4 luglio 2006, ora anche in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano, dicembre 2006), per giustificare il nuovo oltraggio ripete il ritornello del territorio come “risorsa”, l’opposto di un “territorio inerte e imbalsamato” (lettera in Repubblica del 24 gennaio).

Ci voleva Monticchiello per verificare che anche i sindaci, fra i quali in altri tempi molti erano i primi garanti di una democratica discussione consiliare riguardo ai problemi urbanistici, sono diventati caporioni dotati di poteri enormi, grazie a una rivoluzionaria legislazione condivisa da tutti i partiti pensosi della cosiddetta stabilità di governo. Decidono, i nostri, di fare e disfare nella città e nella campagna, ossequienti ai presunti diritti dei privati costruttori. Diritti inoltre valutati puntigliosamente sull’orlo dei minimi buchi nelle disposizioni per la tutela ambientale, nonché sull’indiscusso utilizzo di norme e prassi urbanistico-edilizie “moderne” la cui confusa molteciplicità, coperta dalla miriade di orribili acronimi, fu dovuta alla comune insidiosa volontà dei politici, degli urbanisti, degli amministratori locali, del complesso di autori e attori del teatro edilizio.

Per Monticchiello ferita, quanti non hanno riesumato la banale definizione di Toscana felix, e cominciato ora a lamentare un triste futuro del paesaggio nazionale invero già quasi tutto passato? Una firma come quella di Asor Rosa ha slegato campane nuove. Ma lui, perché non ha suonato prima, molto prima mentre gran parte del paesaggio italiano indifeso veniva riplasmato dalle benne di un milione di caterpillar? Forse perché i bei luoghi scassati erano per così dire d’altri, non suoi, non l’amata Val d’Orcia? Stimo moltissimo Asor Rosa; per questo la mia lamentazione, benché poco o nullacontante, non può, come forse avrebbe dovuta vista l’altezza del nome, fermarsi nel fondo della gola.

Difficile non disperare. Penso: sindaco di Pienza! Saprà che la dimensione del proprio “governar territorio” comprende il luogo pubblico dovuto al più eminente progetto urbanistico della storia italiana? Il miracolo riuscito al Papa Pio II Piccolomini e al maestro d’architettura e d’arte Bernardo Rossellino non ha iniettato il bacillo del dubbio nella mente del nuovo principe di Pienza e dei suoi cortigiani? No. Così, ignoranza da un lato e presunzione dall’altra hanno permesso a lui e ai suoi consulenti di considerare indipendenti due questioni culturali invece intimamente collegate, rappresentative di una questione generale ovunque si presenti: la famosa piazza, una specie di fenomeno misterioso, incomprensibile, per forza intoccabile; la collina di terra libera, un incontrario rispetto a quella, un possesso manipolabile in pro dell’altrettanto famoso principio di “crescita” del territorio, di “sviluppo” del medesimo spacciato come conveniente agli abitanti residenti: quando si tratta di repellente affare di ville e palazzotti progettati da Nonrossellini d’oggi per garantire lavoro ai caterpillar e far guadagnare menefreghisti alloctoni.

D’altra parte, perché scandalizzarsi se il tutor maximus del paesaggio, il rutelliano ministero, ha ripiegato su posizioni di extrema defensio consistente in “correggere”, “mitigare”? (“Mitigazione”, la nuova brutta parola entrata persino nella buona urbanistica insieme all’altra non meno fastidiosa, “valorizzazione”; vedi la proposta di legge urbanistica di Eddyburg, negli articoli 1°/3 e 4°/5).

Altrettanto, e ancor più potenti i presidenti di Regione. In Toscana, poi, i due gradi del potere si tengono saldamente, si alimentano reciprocamente secondo una sorta di scorrevole amicizia. Il potentissimo presidente Martini batté il pugno sul tavolo quando qualcuno mise in dubbio l’opportunità di concedere ai Comuni (ai sindaci e loro giunte) libertà di risoluzione in materia di paesaggio, beni ambientali, eccetera. Il pretesto? I principi di autonomia locale, l’esigenza di democrazia capillare, la garanzia di libertà dai gioghi del controllo superiore. Come affermato nelle vecchie battaglie della sinistra. Eh, no. Quando ci battevamo per una vera autonomia locale erano i prefetti i controllori. Intanto, tutte le deliberazioni dovevano essere approvate dai Consigli. E tutte dovevano sottostare al taglieggio della giunta provinciale amministrativa, alias prefettizio. Controllo di legittimità, la formula. Invece l’oggetto era il merito, e lo scopo ostacolare, respingere le decisioni legittime delle amministrazioni di sinistra (approvate in Consiglio comunale) su pressione delle opposizioni democristiane. Preistoria, certamente; meglio ricordarsene però, e non speculare capziosamente sul tema del cosiddetto esercizio democratico.

Ho scritto di Toscana e ora mi viene in mente Lombardia. Monticchiello da una parte, Milano dall’altra. Non voglio di certo assimilare l’orribile situazione politica lombarda e milanese a quella toscana e senese (l’asse governatore Roberto Formigoni–sindaco Letizia Moratti insegna a regola d’arte come si debba amministrare il territorio in favore di finanzieri, imprenditori, costruttori edili). Case costruite nelle meravigliose colline pienzane finora inviolate, ville previste in uno degli ultimi luoghi non edificati di Milano, il Parco delle Cave: magnifico risultato di un’eccezionale azione di riconquista pubblica di territorio aperto condotta per anni e anni da Italia Nostra.

Eppure. Ecco come, grazie alle nuove diciamo possibilità assicurate dalla normativa urbanistico-edilizia cui mi sono riferito prima, una certa società immobiliare Canova 2000 capeggiata da un certo Lamberto Frugoni potrà realizzare nel Parco, d’altronde inserito nel più noto Parco agricolo Sud, “ville uniche nel loro genere; 180 mq composti da taverna, salone, cucina, lavanderia, tre camere, tripli servizi, box doppio, giardino privato; vista unica dei laghetti del parco, consegna 2008” (dalla pubblicità aziendale). E perché potrà farlo? Semplicissimo: sfruttando la preesistenza di un vecchio capannone industriale ora demolito, e presentando al Comune una richiesta di ristrutturazione (di che, se non c’è nulla in piedi?) insieme alla Dichiarazione di inizio attività (la famigerata Dia – comprensiva del silenzio/assenso di soli sessanta giorni – epitome di quel falso riformismo urbanistico-edilizio volto a facilitare, dicevano, l’iter burocratico delle pratiche edilizie e invece risolto in qualsiasi realizzazione priva di tempestivi controlli. Notate che la destinazione dei 2.500 mq in causa è industriale, non residenziale.

Non si preoccupa l’affarista, che fa il suo mestiere e prevede puntualmente il finale della leggera diatriba col municipio (una diffida rilasciata per merito esclusivo del consigliere dei Verdi Enrico Fedrighini, presentatore di un’interpellanza): “tutto si sistemerà con un accordo sugli oneri di urbanizzazione. Pagheremo di più, quindi pagheranno di più i nostri clienti. Ma le ville si faranno. Abbiamo il pieno diritto… la destinazione d’uso non cambia, visto che lì ci saranno dei laboratori”. Cosa dice l’assessore competente? “Anche se l’immobiliare avesse ogni diritto di costruire dove sta costruendo” (allora i lavori sono già cominciati!) “e questo lo capiremo” (oh bella, nessuno ha mai dato un’occhiata!), “dovremo fare qualche ragionamento sugli oneri di urbanizzazione, in certe aree”. Tutto chiaro, cari miei. (Citazioni da Repubblica/Milano, 23 gennaio 2007)

Milano, 25 gennaio 2007

I begli articoli di Fabrizio Bottini su metropoli megalopoli città esortano a verificare vecchi e nuovi pensieri. Fra molto d’altro ho selezionato, per ora, il tema dello spazio pubblico urbano e ho ritrovato la piazza. Ecco, l’ho sentita così:

Quando e fino a quando vige nella sua costituzione materiale e sociale uno spazio denominato “piazza”? La parola è antica. In greco platêia, sostantivale da platys,‘largo, ampio, vasto’. L’ agorà era assai ampia. Secondo Camillo Sitte (1889) nel Medioevo e nel Rinascimento le piazze urbane avevano una fervida e pratica utilizzazione per lo svolgimento della vita pubblica, e presentavano una stretta concordanza con gli edifici circostanti. Mentre oggi - scriveva - servono tutt’al più come posteggi di veicoli e perdono sovente ogni collegamento artistico coi fabbricati.

A mio parere il momento della fine dovrebbe retrocedere nel tempo. La piazza italiana vivente una straordinaria completezza d’architettura e di socialità culmina nel Medioevo e muore alla fine del Trecento o al principio del Quattrocento, salvo rari sprazzi di vitalità nei secoli successivi: nelle parti popolari della città, ma si tratterà di strada piuttosto che di piazza; non esisterà affatto il senso di platys. Oppure sarà una città eccezionale, Venezia, che esibirà i suoi campi e campielli.

Poteva essere uno slargo, come una lacerazione del tessuto di stradette e case fittissimo, un chiarore desiderato e trovato dalla comunità. Per esempio, a Gubbio, non il magnifico alto terrazzamento prospiciente il Palazzo dei Consoli, ma, appena lì sotto, la piazzetta della Chiesa di San Giovanni Battista. Oppure, come il Campo di Siena o la Piazza del Popolo a Todi, era spazio appunto vasto, conchiuso dalle cortine edilizie, in ogni caso fortemente progettato: perlomeno nel significato di un concerto della popolazione per una comune scelta, diremmo ora “urbanistica”. Uno spazio altamente organizzato e certamente identificato dalle singole persone, dai gruppi sociali, dall’insieme della cittadinanza quale luogo riassuntivo della città intera, quasi fosse esso la città intera.

Il fondamento della piazza posava su determinati contenuti sociali. E’ infatti per la mancanza di questi che oggi non la possediamo, anche laddove esiste uno spazio congruo, persino spazio antico persistito uguale. In primo luogo il recinto di case, talora interrotto solo dalla Chiesa o dal Palazzo Comunale, era intensamente abitato, vi risiedevano numerose persone che vi entravano e ne uscivano da e verso lo spazio comunitario. Le finestre “abitate” erano occhiuta costante presenza. Al livello del lastricato si aprivano miriadi di attività, magari collegate con gli alloggi superiori, artigianato, commerci, trasporti, e ancora stanze per persone... o per animali. C’era andirivieni, incrocio, incontro, conoscenza: gente di lì e gente di altri quartieri contrade sestieri. Si facevano affari, contratti chiacchiere. Non sto mitizzando, penso a cosa abbiamo perduto: la possibilità di praticare rapporti sociali in uno spazio pubblico riconosciuto, appagante e affabile perché intimamente tuo in quanto percepito da tutta la comunità come massima espressione di ricchezza funzionale e infine di bellezza.

Peraltro si dispiegavano quei rapporti non tanto perché esisteva la piazza quanto perché di essi necessitava una specifica formazione economico-sociale che nel contempo li determinava. Oggi non possiamo o non sappiamo praticare rapporti sociali umanizzati e umanizzanti perché la società è costituita in un modo che non li favorisce, anzi li rifiuta. Né costruendo oggi una bella piazza, disabitata o abitata che sia, li determineremmo. Lo spazio-piazza di allora si presentava a sua volta come necessario. La comunità l’aveva voluto perché sentiva di aumentare così le occasioni di espandere se stessa, non solo sul piano economico.

Nell’immaginabile itinerario attraverso le piazze italiane quale potrebbe rappresentare il punto di snodo, anzi di frattura? Emerge un luogo emblematico, La Piazza Pio II Piccolomini di Pienza (potremmo considerarla oppostamente alla Piazza del Mercato di Lucca, altrimenti emblematica). Uno spazio urbanistico-architettonico di grande bellezza, dimostrativo del contrario rispetto alla vera piazza, il modello medievale che ho descritto. Il popolo abitante è sparito. Mancavano quei contenuti, quel modo di esistere sociale funzionale estetico del recinto e della plateia. Palazzo Comunale, Palazzo Vescovile, Cattedrale, Palazzo Piccolomini. Bernardo Rossellino colloca oggetti architettonici nello spazio, li giustappone con raffinata sapienza, li fa dialogare senza troppa familiarità nel loro consistere di massa-volume e composizione architettonica. Istituisce un luogo insigne dei poteri che sembrano trarre forza e accentuare superiorità proprio dall’armonia numerica di rapporti calcolati sul filo d’equilibrio fra reale e irreale. (L’ispirazione dello spazio metafisico di Giorgio De Chirico retrocede nella storia fin qui?). E’ la piazza in cui non si abitava, si andava, per funzioni religiose o civili, per necessità di richieste e di suppliche ai poteri, forse preoccupati e intimiditi...

Ancor oggi si va in piazza, forse disperatamente. A Milano Piazza del Duomo è non-piazza per eccellenza. Singole persone e piccoli gruppi vi si ammassano, nei fine settimana è una folla. Provengono dalle periferie, dal circondario, dalle città prossime (non parlo dei turisti, di giapponesi o svizzeri). Nessuno abita il sito. Tutti sono estranei, tutto lo spazio e tutti gli edifici sono stranieri. Nemmeno i capannelli di immigrati riescono a portare un segno nuovo, anzi antico. Restano seduti sui gradini del Sagrato, qualche parola dentro il gruppo, forestieri, come tutti gli altri.

Di qui potrebbe cominciare un altro discorso. Dal punto di vista adottato in questo commento tutte le piazze esistenti sarebbero spazio perduto e non più ritrovato. Anche la veneziana Piazza San Marco è non-piazza per eccellenza, proprio come la milanese; anzi, l’appartenenza e la frequentazione sono ancor meno riferibili a un qualche residuo di sentimento personale e collettivo della città. “Abitata”, posseduta da cittadini comuni, non i potenti procuratori e i loro subordinati, non lo è stata mai. Mi domando: tuttavia la grande differenza di architettura urbana, o semplicemente la bellezza architettonica di Piazza San Marco e la mediocrità di Piazza del Duomo (la facciata della chiesa è muta, anzi il post-gotico ottocentesco, soprastante alla maniera cinquecentesca tebaldiana, emette suoni falsi, inoltre accompagnati dai versacci del fascistico Arengario) non distinguerebbero una possibilità? Ossia, l’architettura urbana delimitante gli spazi pubblici potrebbe trovare oggi una peculiare capacità di influenzare le occasioni di concordanza sociale, di pensamento collettivo? O è vero che ormai le persone devono rassegnarsi a praticare come piazza deprivata di antichi valori, vale a dire falsa piazza che separa invece di unire, gli spazi interni dell’ipermercato con il loro silente, indifferente ma brutto contorno?

Milano, 24 novembre 2006

Era il simbolo dell’efficienza economica unita al sentimento di moralità; aveva il primato della cultura e dell’arte moderne unito alla ricchezza del tessuto industriale; confidava nell’unica borghesia degna del nome e in una forte classe operaia conscia del proprio compito; era riconosciuta per l’affabilità degli spazi civili e la signorilità delle case e dei giardini, ma anche per la ricchezza del patrimonio pubblico in abitazioni popolari; impressionava il funzionamento dei trasporti pubblici, ma sorprendeva la disciplina del traffico privato; esibiva con discrezione l’eleganza misurata dei negozi e intanto offriva bei locali pubblici tradizionali o popolari aperti agli incontri e a consumi sensati; era orgogliosa del miglior teatro lirico del mondo, anche di altre storiche sale di spettacolo non solo nel centro; il ceto degli amministratori pubblici, benché non esente dai peccati apparentemente inevitabili per una tale categoria, pareva meno propenso a impigliare la città nella confusione fra interessi privati e pubblici; infine conservava ancora qualche tratto dell’eredità in materia di pianificazione non avendo dimenticato, in specie, l’insegnamento del Piano regolatore (1884-89) di Cesare Beruto, ingegnere di reparto nel Comune dal 1877, unitamente alla determinazione del sindaco Gaetano Negri “uomo deciso ed energico che poneva la questione del piano regolatore come uno dei punti centrali del suo programma” (così lo storico).

Chi ricorda questa Milano, ovvero gli anziani dotati di cervello e di memoria, è accusato dai nuovi emergenti degli affari e del governo urbano di esercitare l’arte del rimpianto inutile ostile alla modernizzazione: solo perché si permettono (si deve dire) di confrontare la città odierna con quella di altri tempi: un passato prossimo, non remoto. Infatti gli interpellati si riferiscono alla città durata fino all’inizio degli anni Settanta, secondo la valutazione più favorevole, sebbene pecche in ogni campo, disfunzioni e imbruttimenti fossero germinati da venticinque anni, a partire dall’immediato dopoguerra. Una Milano sentita come propria dai cittadini, compresa e amata, presente anche nei momenti più difficili delle lotte sociali e degli scontri politici, nonostante i terribili episodi di morte e di ingiustizia che non ho bisogno di ricordare. L’innegabile perdita di una buona qualità complessiva della vita milanese è l’oggetto del rimpianto, che giustamente diventa critica e poi protesta intellettuale verso i poteri pubblici e privati che hanno comandato la trasformazione.

La città era fervida e ci teneva a mostralo ma senza troppo battage. Aveva ancora una popolazione residente numerosa, non erano spariti gli operai e le loro abitazioni, e nemmeno altri ceti diversamente produttivi estranei all’esosità e grettezza commerciali che sarà poi uno degli stigmi milanesi. Il salasso di sangue vivo degli abitanti (diminuzione di 500.000) non era cominciato, o se ne intuiva appena un segno: sarà il 1974 l’anno cruciale d’avvio di una crisi demografica in continuo avvolgimento su se stessa per tre decenni. Il contrasto fra la città del risiedere e la città del lavorare – deserto notturno e caos diurno – era ancora lontano dal livello insostenibile attuale, epitome lo spaventoso traffico d’automobili e motociclette. L’assetto sociale e fisico descritto pareva resistere, le funzioni e l’estetica sembravano garantite.

E oggi, intendo proprio in questi giorni? Penso che bastino gli articoli riguardanti Milano da me scritti per Eddyburg a legittimare, dopo le critiche e contestazioni, questo lamento. Sì, come una lamentazione funebre, anzi una Leichenreden – dice il poeta – propriamente un discorso, un’orazione davanti alla salma quando dello scomparso si enumerano le bontà e le bellezze. Così sia della nostra città, morta e sepolta.

Milano 27 ottobre 2006

Poco prima di alzarsi dalla poltrona occupata per quasi dieci anni il sindaco di Milano Gabriele Albertini vantava gli effetti degli “interventi urbanistici voluti dall’amministrazione comunale”. Parlò di “enorme processo di riqualificazione” instaurato grazie al “lavoro dei migliori architetti del mondo, i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni” (Corriere della Sera, 20.4.06). A quel momento, in verità, non si potevano ancora giudicare opere compiutamente realizzate nei nuovi luoghi: nuovi rispetto al famoso intervento alla Bicocca concertato quasi dieci anni prima con l’industriale passato immantinente, come si usa dire, dal profitto alla rendita fondiaria e finanziaria. Luoghi designati dalla contrattazione (o, secondo l’attuale termine liberista, negoziazione) fra la giunta comunale e i potenti immobiliaristi che a Milano trovano le migliori occasioni politiche e il miglior spazio finanziario per indisturbate, illegittime operazioni giacché fuor d’ogni piano e regola approvati pubblicamente in precedenza. Parti del territorio comunale come cardini di un affare edilizio che negano la strategia urbanistica motivata da una necessità sociale e d’organizzazione coerente dello spazio urbano. Procedimenti rispettosi, possiamo oggi dire, dell’insegnamento impartito dalla madre della nuova maniera urbanistica e architettonica, appunto l’espansione stupefacente della città sulle aree Pirelli proprietà di Tronchetti Provera. In testa ai nuovi interventi – una cinquina quelli praticamente avviati ma ancora soggetti a proteste o mugugni dei cittadini – sta la molto remunerativa speculazione territoriale e fondiaria sull’area della ex Fiera. Gli altri, già descritti anch’essi in Eddyburg: Montecity-Rogoredo, ex industrie chimiche e metallurgiche (il giovane speculatore Zunino asservisce nientemeno che Norman Foster); Portello, ex Alfa Romeo; Porta Vittoria, ex scalo ferroviario; Garibaldi Repubblica, ex concorso ignorato in favore di un grattacielo (e molto d’altro) desiderato primatista europeo in altezza dal presidente Formigoni per la sede della Regione (pre-progetto, o meglio visione di Ieoh Ming Pei). Lascio da canto, fuor dei confini municipali milanesi: la Fiera a Pero-Rho, frettolosamente inaugurata prima delle elezioni, dove fra gli otto padiglioni l’onda volatile e volubile di Massimiliano Fuksas, illustrata più volte anche sui quotidiani, rappresenta come una festa dell’architettura caduca; la previsione, non ancora in veste progettuale vera e propria, di un grandissimo quartiere a Sesto San Giovanni sull’area della Falk, architetto Renzo Piano.

La vicenda della ex Fiera, nota fino ai penultimi passaggi e raccontata nel nostro sito, sta precipitando in un finale divertente se non ridicolo. Albertini vaneggiava di “nostro Central Park”, uno stretto e sconnesso residuo in mezzo ai grattacieli degli odierni Brunelleschi e Bernini, quando lo storico parco newyorkese misura (mi vergogno di rammentarlo) un chilometro per quattro, vale a dire 400 ettari. I tre architetti neo rinascimentali e barocchi, Hadid, Isozaky e Lebeskind, al servizio del furbo coacervo d’imprese (conviene rinominarle) Ligresti, Generali, Lanaro, Grupo Ler Desarrolos Residentales, esponevano mediante plastici e rendering vari le tre torri personali assistite da diversi edifici medio-alti. A loro non interessa lo spazio pubblico, non il destino di Milano lì, dove è corsa storia urbana, dove ci sono abitanti legati al loro ambiente; non sono in grado di ascoltare la città, se ne fregano del contesto, della concezione di contesto: un perno della cultura architettonica milanese, almeno fino al momento della scissione ideale e pratica fra architettura e urbanistica e di dominio di un’architettura estranea al principio affermato dalla rivoluzione moderna circa la saldatura fra valore sociale dell’architettura, coscienza morale, senso collettivo della professione.

Voglio ricordare agli amici di Eddyburg qual era in altri tempi la posizione dell’architetto di fiducia di Tronchetti Provera, Vittorio Gregotti, progettista dell’insediamento alla Bicocca, un fuor di contesto e di previsione condivisa che più non si può. Iniziava l’anno 1981 e Casabella, diretta da Thomas Maldonado, dedicava il fascicolo di gennaio a Venezia – già proposta tre anni prima – considerata appunto come speciale contesto. L’articolo sottostante al fondo di Maldonado, firmato da Vittorio Gregotti allora ancora esterno alla rivista, titolo La nozione di ‘contesto’, perorava la traslazione dagli studi dell’”ambiente lagunare” ad altri più generali, anche teorici, sulla “nozione di contesto” costituendosi essa “come fatto centrale per la costituzione dell’architettura” (Casabella, n.465, gennaio 1981, p.9). Mutano i tempi, le condizioni sociali, delle arti e delle professioni, le persone cambiano la ragione e il sentimento, la coerenza ad ogni costo non è né un obbligo né sempre un vantaggio; è pero essenziale verificare se non sia troppa la differenza fra il proprio dire e il proprio fare. È interessante, ora, che Gregotti, in occasione della decima edizione della Biennale Architettura, si auguri, secondo le promesse del titolo stesso, Città. Architettura e società, l’abbandono dei “vuoti formalismi delle ultime due o tre edizioni tutte concentrate sulle bizzarre estetiche dell’oggetto-edificio” e invece affronti “le questioni della forma della città e delle sue parti… che sono cruciali per il senso stesso della cultura architettonica” (La Repubblica, 4 settembre 2006). Oh, bene, qui ritorniamo persino ai vecchi tempi della simbiosis fra architettura e urbanistica e della relativa competenza professionale complessa. Quanto all’architettura vuota, formalista, bizzarra tuttora imperversante, giusto sarebbe che il nostro, lo sappiamo capace di fine critica, parlasse specificamente delle opere firmate, per esempio quelle introdotte sopra e quelle che lo saranno nel seguito. Anche per corroborare la fiducia espressa da Edoardo Salzano: “condivido pienamente quello che dicono persone come lui [Gregotti], Carlo Melograni e pochi altri, e che cioè l’architettura svolge il suo ruolo se rende migliore la città” (AL, mensile degli architetti lombardi, n.7, luglio 2006).

Il nuovo sindaco Letizia Moratti, in continuo movimento per rendersi gradita ai milanesi, anche a quelli che non l’hanno votata, sembra reagire alle preoccupazioni degli abitanti. Vorrebbe tagliare un pezzo dei tre invisi grattacieli! Sarà vero? Che novità è mai questa? Si possono correggere pesantemente i “migliori architetti del mondo”? Penso che essi accetterebbero qualsiasi modificazione poiché non terrebbero affatto a difendere ad ogni costo edifici apparentati con l’oggettistica ingrandita duecento o trecento volte piuttosto che con l’architettura. E poi a decidere sono le imprese detentrici dell’accordo; possono variare ogni genere di progetto ma senza rinunciare nemmeno a un metro cubo o a un metro quadro commerciabili sopra o sotto la terra. Probabilmente non vedremo ergersi difficoltosamente il grattacielo tòrto e sciancato, pencolante, della Hadid: forme rientranti in una sottospecie di decostruzionismo se se ne confondesse la pratica con le esperienze di O’Gehry. Il Guggenheim di Bilbao, tuttavia già in regresso accademico per ripetitività altrove, può essere almeno interpretato come propaganda di un nuovo cubo-espressionismo chiaramente legato alla tradizione artistica modernista: si conosce infatti una maquette del monacense Hermann Finserlin per un mausoleo (1919) che pare una familiare antenata del decostruttivo museo.

Hadid non è sola d’altronde. Altri hanno in mente costruzioni insensate, tese solo a sorprendere, a cercare primati nella gara aperta dai sindaci di città grandi e piccole (indifferente l’etichetta partitica). Vogliosi di lasciare segni profondissimi indubitabilmente edilizi, paiono insensibili di fronte alle necessità reali dei loro amministrati e invece eccitati dalla speranza che l’architettura osé funga da richiamo a foranei visitatori ipotetici propulsorî dei commerci urbani. Così leggiamo che in una città appartata anche se prospiciente il mare come Savona potrebbero darsi prossimamente due eventi straordinari: Fuksas contenderebbe all’autrice della scombinata torre milanese la divaricazione dalla verticale del tipo edilizio grattacielo gobbosamente pendulo, a rischio di precipitare in acqua (“intervento… al porticciolo della Magonara al confine con Albissola, con tanto di grattacielo ricurvo a strapiombo sul mare: una specie di banana alta 120 metri”, M. Preve e F. Sansa, in Micromega dal 7.7.06); Bofil si scatenerebbe vicino al porto turistico della Torretta “per un intervento residenziale mastodontico con un crescent (un palazzo muraglia disposto a semicerchio), un grattacielo da quasi cento metri e altre costruzioni sparse” (idem). Allora anche a Savona, come nell’esemplare Milano, architettura nulla c’entrante con il contesto, architettura divistica ossia sprezzante la città, la società, architettura in definitiva disumana. Capita anche nel meno immaginabile dei territori disponibili, se persino a Mola di Bari (l’abbiamo saputo a maggio da Andrea Laterza di Mola Democratica e se ne è scritto) i due fronti a mare, di sud e di nord, saranno sacrificati alle potenti cubature, dotate come al solito di nuovo porto turistico e di grattacielo, ideate da Oriol Bohigas, grazie tante al contesto. Possiamo forse consolarci con quel che c’è di peggio in Europa, progettato e costruito e illustrato (celebrato) su riviste e giornali in questi anni: è il great gherkin di Norman Foster il campione; il grande cetriolo sede della Swiss Re nella city londinese. Un idroponico vegetale che dovremmo assegnare, invece che alla cieca logica della tecnica, alle buone forme della natura? Penso in definitiva a una colossale bomba che potremmo assumere come metafora di un atteso scoppio devastante della falsa architettura di tali autori dal quale rinascerebbe faticosamente, come da un big ben, l’architettura.

I migliori architetti razionalisti attivi nella redazione della rivista Quadrante definivano “arrogante” l’architettura mercantile o tronfiaopposta al razionalismo sincero, cioè l’architettura ragionevole. Sono passati quasi ottant’anni: potremmo, oggi, senza alcuna intenzione revivalistica, affiggere un cartiglio con la medesima parola sulle opere d’architettura (o non-architettura) di cui stiamo parlando?

Leggo qua e là impressioni e commenti sulla decima Biennale. Non posso visitare la mostra. Il bell’articolo di Pippo Ciorra sul manifesto dell’8 settembre (pubblicato in Eddyburg) slarga il cuore. Sembra davvero lontana l’esposizione precedente quando Peter Eisenman (Leone d’oro alla carriera) e Kurt Forster (curatore) non nascondevano il medesimo disprezzo del pubblico e la medesima celebrazione del sé, figure – ha detto un critico che non ricordo – estranee alla funzionalità, al contesto e persino alla costruibilità. La città e l’architettura sembrano finalmente riscoprire i rapporti che la storia della società le ha per così dire obbligate a intrecciare. L’urbanistica e l’architettura riprenderanno l’antica strada comune? Un problema urgente delle nostre città o metropoli che siano è di riconquistare lo spazio pubblico quale spazio civile. Ecco, l’architettura, liberata dalla stupida arroganza d’autore, che infine è grettezza d’animo e bruttezza di forma, diventa architettura civile, appartiene, come da sempre la grande architettura, alla società.

Attenzione, a proposito di metropoli e megalopoli presentate a Venezia. Quegli affastellamenti di grattacieli, quegli ammassi di edifici contenitori degli sbiancati e inanimati operai del nostro tempo – gl’impiegati del terziario commerciale mondializzato – non possono parlare la nostra lingua. Globalizzazione e omologazione delle metropoli, tutto uguale dappertutto – ci dicono certi sociologi e i nostri internazionalisti dell’architettura contraffatta. No, grazie. Le nostre Milano e Torino, benché afflitte dallo sprawl, non sonoShangai o Caracas o Città del Messico.

Milano, 11 settembre 2006

il territorio e le città continueranno, come oggi e non per colpa della mancanza di leggi, a riprodursi secondo procedimenti estranei a un onesto, legale principio di progettazione urbanistica? Estranei a interventi edilizi e infrastrutturali giusti non solo perché previsti nel dato piano vigente ma perché verificati come indispensabili per la società a quel momento o, al contrario, a un corretto malthusianesimo riproduttivo necessario alla preservazione dello stato ambientale raggiunto? Liberi da una concezione provinciale dell’architettura?

Ogni giorno conosciamo novità orribili: sindaci, giunte, presidenti, governatori e così via ai vari gradi dell’amministrazione urbana e territoriale ne decidono di tutti i colori, sbandierano grandi progetti, vantano soluzioni avveniristiche. Se non esiste lo strumento adatto lo creano immantinente, basta un nuovo compiacente Piano urbanistico comunale, oppure – il caso più frequente – scelgono la comoda politica della variante di un piano esistente, oppure ancora se ne impipano di vere o false coerenze strumentali (intanto vige lo scandaloso elenco delle sigle più fantasiose, p…a seguire ) e approvano i progetti per interventi proposti da imprenditori immobiliari spesso collegati a subalterni architetti di gran nome. Pronti, questi, a qualsiasi macello ambientale pur di costruire roba edile grossa e secondo girandole di destinazioni, o gigantesche infrastrutture come fronti a mare connessi al proliferare dei porti turistici, campi di golf in bei territori ancora intatti, grimaldello di desiderate speculazioni edilizie al contorno, “servizi” d’ogni genere purché non poveramente sociali. E avanti così senza respiro nelle città e nei centri grandi e piccoli secondo una specie di gara per richiamare più residenti, più transitanti, più soggiornanti, più studenti (vedi anche le indecenti contese fra le sedi universitarie), più commerci, più danaro, più speculatori.

Urbanistica vilmente contrattata che più non si può, allieva cresciuta del primo insegnamento milanese impartitoci dal Tronchetti Provera e dal sindaco Albertini al tempo dell’operazione immobiliare concertata alla Bicocca. Che ora ci pare modesta mentre scrutiamo l’orizzonte nazionale dei continui soprusi urbanistici pubblici/privati. E quelli, capi politici amministratori con varie etichette partitiche, che vogliono il loro personale tracciato di autostrada, strada, ferrovia, tramvia, metropolitana fuor dall’obbligo di discuterlo, valutarlo sotto tutte le visuali, politiche tecniche sociali paesaggistiche? E che intanto evitano di prendere immediati provvedimenti regolatori dello spaventoso traffico motorizzato privato temendo di perdere qualche voto?

Ma perché lo fanno? Approderà a un traguardo quella specie di gara col relativo elenco? Come potranno diventare realtà utile tanti progetti pretenziosi privi tra l’altro di una serio controllo costi/benefici? Probabilmente pensano al costruire costruire costruire come “sviluppo”, hanno quella visione falsa che lo confonde con l’espansione fisica urbana e territoriale quando la locuzione “sviluppo del territorio” (ci sono persino assessorati con tale titolo) è priva di senso; come può “svilupparsi” un territorio? Abbiamo verificato mille volte che, appunto, l’espansione fisica può coincidere col sottosviluppo economico demografico sociale e comunque non centra nulla con l’effettivo progresso di una società verso mete elevate, vale a dire almeno equamente ridistributive del benestare.

E se fosse che a comandare l’urbanistica del fare tanto e fare presto, un’urbanistica finalmente sciolta dagli ultimi freni morali, è anche il riciclaggio di una parte dell’enorme massa di denaro mafioso che cerca sbocchi dappertutto, in attività commerciali, industriali, finanziarie e piuccheperfette immobiliari? I nostri sindaci, presidenti, governatori credono forse che la mafia investa soltanto in pizzerie?

L’8 marzo 2003 Francesco Erbani ci informava in “Repubblica” che la Baia di Sistiana, comune di Duino Aurisina, ancora pressoché intatta quale residua testimonianza della bellezza costiera italiana, “vista dall’alto del sentiero che porta il nome di Reiner Maria Rilke, [avrebbe dovuto] sembrare una nuova Portofino, con l’insenatura, la piazzetta, il porticciolo, le casette e i portici”. I frequentatori e i collaboratori di Eddyburg conoscono la vicenda. La Baia è ancora lì nella sua veste originaria benché stropicciata e con qualche strappo. Una lunga battaglia condotta senza tregua da Wwf e Italia Nostra, sostenuta anche da alcuni di noi attivi in Eddyburg, ha impedito finora la realizzazione del progetto concertato in torbida alleanza fra le imprese proponenti, l’amministrazione regionale guidata dal pervicace presidente Riccardo Illy, l’amministrazione comunale duinese impersonata dall’altrettanto pervicace sindaco Giorgio Ret. Oggi sappiamo come la triplice stia approssimandosi alla meta. L’incredibile bravura di Dario Predonzan e del suo gruppo (Wwf e Italia Nostra) a contenderle in questi anni ogni passaggio della battaglia probabilmente non basterà.

Perché riproporre qui la questione di Baia Sistiana conosciuta e commentata dalla stampa nazionale? Per proporne un’altra analoga, però mancante finora di risonanza forte nell’opinione pubblica nazionale, riguardo a uno degli ultimi tratti costieri preservati quasi nel loro stato antico, sul mare per così dire simmetrico al Golfo di Trieste, il Mar Ligure. Siamo nella parte orientale della provincia di Spezia: che non sembra appartenere a una Liguria per il resto resa irriconoscibile da quasi un secolo di violenze ambientali d’ogni tipo. Quella che vanta le Cinque Terre patrimonio dell’umanità. Quella in cui c’è l’appartato comune di Framura (Sp) costituito da quattro piccoli centri separati e aggrappati alla china montuosa ricca di pini, lecci, ulivi, viti: uno (Anzo) alto sui primi dirupi a mare, due a mezza via (Ravecca e Setta), il quarto in costa di monte con la chiesa-fortezza (Costa, appunto). Il suo destino sembra segnato a causa dell’avvento, anche lì, del nuovo manierismo urbanistico locale. Riproduco dall’edizione genovese di “Repubblica” del 27 luglio, inserto “Il Lavoro”, il pezzo inerente a Framura di una tristissima rassegna regionale dal titolo “Il nostro mare oggi non vale una pista di motocross”. Scrive Giovanni Maina di Italia Nostra: “Ovunque si presenti un progetto o un Puc (Piano urbanistico comunale, il vecchio Piano regolatore tanto per capirci), o si lavora in deroga alla vigenti norme o si chiede che possano essere abbassati i vincoli conservativi in quanto considerati ‘vessatori’ per i cittadini. Esempio emblematico è proprio il nuovo Puc presentato dall’Amministrazione comunale di Framura. Su un territorio relativamente piccolo sono previsti ben 22 progetti con un rilevante impatto, 4 distretti di trasformazione di enormi dimensioni (due dei quali incidenti su un territorio incontaminato) con una previsione di raddoppio sia della popolazione residente che di quella fluttuante. Su 44 ambiti di intervento in ben 17 si chiede di abbassare i vincoli dettati dal Ptcp. Sul territorio interessato da progetti insistono ben due Sic (Siti di interesse comunitario). Con tutto questo spazio a disposizione come farsi mancare una pista di motocross per gare internazionali?”. In attesa della buona legge urbanistica nazionale. Così sia l’ultimo sigillo sulla realtà del Malpaese.

Bellosguardo, sarebbe troppo facile giocare con la toponomastica e fare ironia sulla nuova visione che ci apparirà se il progetto di costruire case a quattro piani verrà realizzato; se i cittadini, impegnati a difendere l’integrità di un ambiente che non è bene loro esclusivo ma lo è di tutti noi, saranno sconfitti dall’arroganza del municipio fiorentino e di quanti altri poteri pubblici abbiano condiviso se non promosso lo scempio. Molto più giusta l’arrabbiata protesta e denuncia di Stefano Fatarella, urbanista pubblico che sa bene cosa è in gioco quando si tratta di paesaggio, di bellezza degli ambienti storicamente consolidati, in particolare nella amata Toscana. Ma che conosce altrettanto bene le malefatte delle amministrazioni pubbliche in materia di città e di territorio, di pianificazione urbanistica mancata o effettuata, quando non è più la patente di destra o di sinistra a distinguere. Lo ringraziamo (pluralis concordiae) per la lettera del 30 giugno e la chiara documentazione con la passeggiata attraverso “luoghi famigliari a tutti i fiorentini e agli amanti della natura”. E ringraziamo l’articolo di Tommaso Galgani (Tre palazzine a Bellosguardo? I cittadini non ci stanno, l’Unità 30.6.06), che non fa caso, appunto, alla patente di chi guida ma guarda dove costui andrebbe a sbattere (ad ogni modo l’offesa l’abbiamo già subita). Veniamo informati che “nel cuore di una zona protetta… non si potevano nemmeno costruire delle serre o piantare alberi ad alto fusto” e che “pur di concedere la licenza edilizia un paio d’anni fa è stato modificato il piano regolatore”. La soprintendenza è d’accordo, hanno detto. Allora?

Con il caso Bellosguardo siamo in pieno dentro alla tipica italica atmosfera avvolgente persone e istituzioni che accettano qualsiasi comportamento indecoroso quando non si tratti di reato (poi, al contrario, reati ne approvano a iosa declassando preventivamente la violazione delle regole). I poteri locali dei diversi gradi, aumentati enormemente a seguito delle pesanti riforme normative ed elettorali la cui pericolosità non si è mitigata con gli anni trascorsi dall’adozione, usano in maniera perfino provocatoria la possibilità di segnare il destino del territorio e della città a loro piacere. Vale a dire a piacere di chi nella città e nel territorio comanda davvero o è il partner più “qualificato” (doverose virgolette). Dimenticati o rimpianti i tempi degli obbligati dibattiti e controlli dei Consigli.

“A Firenze come a Bologna il nemico delle colline delle nostre città ha un solo nome: speculazione edilizia” (presentazione in Eddyburg dell’articolo di Galgani). Bisognerebbe togliere il termine solo. La speculazione non cade dal cielo come malefica pioggia acida, nasce dal suolo “privato” ma anche “pubblico” previo allevamento nella pancia di politici, amministratori pubblici, industriali e finanzieri, con primaria responsabilità, però, di chi ha il mandato di governo anche sul suolo, si presume secondo gli interessi sociali e culturali della collettività, non di una corporazione o di una cricca o di un caporione, o anche del pur incorrotto partito.

Come sopportare ancora il linguaggio insensato frequente in certa sinistra (o centrosinistra) per mistificare fior di operazioni lesive dell’ambiente storico, di quel poco che resta più o meno intatto nel nostro paese? E’ possibile che in una città ritenuta colta, o quantomeno memore di alta cultura, un multiassessore – Riccardo Conti – ci ricordi che le colline sono aggredite, la rendita immobiliare domina, le seconde case proliferano e poi vaneggi (“si perde dietro cose vane”, Garzanti, p.1918) di valori del passato quali “ingredienti per uno sviluppo sostenibile e per una competitività che si fonda sull’eccellenza e l’innovazione, due obiettivi del nuovo Piano di indirizzo territoriale”? (“Newsletter” dell’assessorato, n. 5 del giugno 2006, avuta da Fatarella – sottolineature mie). Basta con l’ossimoro s.s.! E cosa sarebbero ‘ste competitività eccellenza innovazione in materia di territorio e paesaggio? Cosa fare di un vecchio paesaggio intatto per renderlo competitivo? Diamine, basta ringiovanirlo, modernizzarlo, innovarlo (altra parola d’insopportabile impiego ripetitivo nel centrosinistra), ossia rimpinzarlo di quella roba ben nota che ha cancellato la bellezza paesaggistica italiana.

Ci siamo battuti sempre nei tempi andati per l’autonomia locale contro il sopruso prefettizio e governativo. Che sia giunto lo strano tempo del contrario e di augurarsi interventi di saggi governi nazionali per drizzare vassalli valvassori e valvassini?

Bellaciao, collina toscana; è arrivato l’invasor. È il falso amico tuo paesano. Forza cittadini di Bellosguardo, dategli una botta

Prendo spunto dall’articolo di Vezio De Lucia, Grave errore resuscitare l’abusivismo di necessità, e dalla lettera di Andrea Laterza (Movimento “Mola Democratica”), Progettati nuovi ecomostri a Mola di Bari. Considerati insieme confermano localmente il modello sessantennale dell’urbanistica italiana, la storia moderna del nostro territorio. Abuso e rispetto delle regole, casualità e pianificazione, iniziativa privata e iniziativa pubblica: uno zigzag incessante che ha segnato il destino dell’ambiente, la caduta dall’angelico Bel Paese al diavolesco Malpaese. Ischia e Mola sono il recto e il verso di una moneta tante volte spesa e cambiata. Abusivismo di necessità? Un aspetto secondario e “storico” dell’abusivismo strutturale, il quale, spiega De Lucia, è connaturale al processo di produzione edilizia; anzi, a mio parere, si è radicato ben presto in una specifica forma dell’urbanistica del “fare”.

L’effettivo abusivismo di necessità si manifestò subito nel primo dopoguerra secondo quantità rilevanti, oltre che nella periferia romana, soprattutto a Milano, nei comuni dell’hinterland milanese prossimi alla città centrale. La costruzione (in parte autocostruzione) di casette, tollerata dalle amministrazioni che non sapevano come risolvere il bisogno di abitazione degli immigrati ignorato dal comune di Milano e favorita dai proprietari terrieri attraverso vendite frazionate, produsse il fenomeno insediativo, unico in Europa, definito col nome di Corea (con riferimento all’epoca – Vedi il saggio di Alasia e Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli 1960). Poco a poco i sindaci regolarizzarono gli edifici sulla base di progetti minimi “di sanatoria” presentati da geometri locali. Nacquero come dei quartieri poveri attorno a Milano e addossati ai centri storici dei comuni; case a un piano o due radunate attraverso lotti piccolissimi a configurare “per caso” una griglia più o meno sbilenca. Stradette miserevoli, nessun sevizio primario a un primo momento. Decine di migliaia di meridionali, veneti, bergamaschi delle valli e altri lombardi, sfruttati e sfiancati nel mercato del lavoro, trovarono riparo. Una singola Corea poteva ospitare migliaia di abitanti verso la fine degli anni Cinquanta, addirittura 10.000 la più popolosa, quella di Limbiate a una quindicina di chilometri dal centro di Milano verso nord.

Perché ho indugiato su un fenomeno tipico del Milanese nel tempo dei primi grandi flussi migratori? Perché niente di simile è avvenuto qui o altrove, a sud o a nord, a ovest o a est nei decenni successivi. Niente che potesse giustificarsi come abusivismo di reale necessità. Confermo con De Lucia: esclusa la forma datata relativa ai casi eccezionali di Roma e di Milano, la massa di costruzioni illegali nelle città e nel territorio aperto rappresenta una forma edificatoria intrinseca al processo sociale, parallela alla forma dovuta alla pianificazione urbanistica pubblica e alla gestione comunale dell’edilizia, oppure alla forma voluta dall’urbanistica privata per così dire sostitutiva.

Siamo propensi a identificare l’abuso edilizio con le regioni meridionali, dapprima riferendoci alle grandi città come Napoli e Palermo (pro memoria: il film di Francesco Rosi, Le mani sulla città, è del 1963), poi all’inconcepibile enorme espansione dei centri minori e soprattutto al massacro edilizio delle coste. Ma anche Milano e Roma hanno sopportato una illegalità edilizia silenziosa, nascosta. Testimonio per Milano: lo si diceva nell’ambiente di urbanisti e architetti, poi lo si è scoperto al momento del primo e dei successivi condoni: al di sopra delle linee di gronda delle case esiste un’altra città, intravedibile solo in piccola parte dalla strada, costruita illecitamente (attenzione, non parlo dei sopralzi concessi nel dopoguerra sulla base degli incentivi previsti dalla norme sulla Ricostruzione, né delle nuove oscene elevazioni mediante i falsi sottotetti promossi da certe assurde norme della legge urbanistica regionale). Quando nel 2003 funzionari del municipio contarono “i primi casi di neo-condono in 16.000” dichiararono che intanto “era lontana dalla conclusione la regolarizzazione dell’enorme abusivismo anteriore”. A Roma dev’essere stato peggio se un collega ha potuto ricordarmi che già prima della fase condonistica abitavano in spazi abusivi 500.000 persone, anche lì molte negli “arretrati”.

Certamente una rassegna esauriente dell’abusivismo strutturale nell’intero paese sarebbe lunghissima e amplierebbe il quadro ottenuto unendo i tasselli forniti da tanti ammirevoli critici succedutisi a denunciare le malefatte urbanistiche ed edilizie, quali i Borgese, i Cederna, gli Erbani…Eppure: leggiamo increduli il programma sviluppista per Mola di Bari; Andrea Laterza ci sottopone un elenco impressionante di opere previste o di piani approvati o in fieri: tutto regolare, tutto legale, tutto desiderato, tutto entro una seria “linea di finanziamento”, tutto rivendicato come necessario: una globale cementificazione direbbe Cederna. Davanti all’esempio di Mola dobbiamo ripetere a noi stessi, urbanisti, architetti, soprintendenti, artisti, amministratori pubblici, politici, imprenditori, che la violazione, la costruzione e infine la distruzione del territorio è stata causata in primis da processi legali, da decisioni ritenute legittime, dal gioco delle parti pubbliche e private in chiaro o in scuro ma sempre infine accettato e convalidato, inoltre consenzienti le popolazioni. Ecco cos’è stato ed è lo “sviluppo edilizio”, stolta locuzione, purtroppo impiegata anche da bravi colleghi, certo non attinente alle opere illegali o abusive. Uguale la responsabilità della pianificazione urbanistica pubblica e dei progetti privati, dell’accordo fra l’una e gli altri.

Tutto in regola, a Mola di Bari. La novità semmai consiste nella partecipazione di un architetto di gran nome (Oriol Bohigas) all’insensato disegno edificatorio anche nel meno immaginabile dei luoghi disponibili . Sappiamo delle scelte milanesi. I “grandi progetti” urbani cari al sindaco Albertini demandati alla triplice alleanza fra impresa, architetto (appunto, per lo più straniero, vedi Hadid, Isozaki, Lebeskind, Foster, Pei) e giunta comunale appaiono “in regola” e ne deriverebbero gigantesche cubature fuor di ogni effettivo bisogno della città reale. Le “Nuove Milano estranee” (così le ho definite altra volta), perfetto rispecchiamento del “rito ambrosiano” (così ha sempre insistito De Lucia) la cui gran madre fu l’operazione Bicocca/Tronchetti Provera/Sindaco, sono considerate legittime perché si è negato l’obbligo di un’effettiva regolarità urbanistica basata su un piano regolatore deliberato o almeno un’idea generale di città enunciata pubblicamente.

Il modo milanese, procedura peculiare per un’edilizia speculativa travestita da architettura coerente a un comportamento definito moderno per non dire liberistico anarcoide, si è diffuso ed è piaciuto anche alla sinistra. Ricordo un articolo di Francesco Erbani del novembre 2004 su Firenze, L’assedio degli architetti. L’esistenza del piano regolatore non pareva distinguere le scelte esecutive. Erano sorti ben quarantasette comitati a difesa del centro storico e di aree verdi minacciate dal caterpillar edilizio mentre il Comune annunciava l’arrivo di noti progettisti stranieri, da Norman Foster a Jean Nuovel, pronti a coprire con il loro nome imponenti operazioni immobiliari proprio come a Milano. E a Roma? Mi sembra che oggi, forse per comprensibili motivi elettorali, vinca il silenzio circa le realizzazioni conseguenti o no al piano regolatore. Conosco poco delle cosiddette nuove centralità. Ho visto tempo fa sui giornali una prospettiva aerea inerente a un progetto per un vastissimo insediamento in un primo di tali luoghi. Destini milanesi a Roma?

Abusivismo sconosciuto e rovina territoriale programmata. Penso al Nord, penso per esempio alla Valle d’Aosta, regione autonoma che potremmo considerare (insieme all’Alto Adige) all’opposto dell’autonoma Sicilia epitome di tutti gli abusi. Una regione a statuto speciale, la Valle, caso perfetto di legalità locale fruttuosa: centomila abitanti tutti ricchi grazie, oltre ai pingui trasferimenti statali, alla rendita e al reddito edilizi, estesi e capillari, assicurati da piani regolatori compiacenti che entrambi i poteri pubblici, comunale e regionale, varano da decenni coerentemente all’obbiettivo economico e sociale. Cosa ha comportato questa legalità valdostana tipica come i residuali prodotti caseari locali? La violazione poi la distruzione dei caratteri storici, paesaggistici e architettonici della regione.

Abusivismo quasi sconosciuto e rovina ambientale condivisa. Penso ancora al Nord, alla Liguria, alle sue coste soggette senza tregua al dilagamento delle seconde case e di ogni genere di infrastrutture al servizio di maneggioni immobiliari grandi e piccoli. Penso a come fu indifferente, dal punto di vista dei risultati, che i Comuni rilasciassero miriadi di licenze edilizie singole, alla spicciolata, approvassero lottizzazioni prive degli elaborati obbligatori o comunque necessari, favorissero ultimamente la realizzazione nei tratti di litorale ancora liberi di finti paesetti progettati da architetti corrivi in “stile ligure” e atti ad ospitare migliaia di foranei con le loro auto, le loro barche, le loro attrezzatureda golf.

Tutto in regola, signori. Come fu in regola la “rapallizzazione” legittimata da licenze edilizie in verità rilasciate in regime di illegalità urbanistica sostanziale. Lo scempio edilizio di Rapallo creò il termine entrato nell’uso per designare, come la “coventrizzazione” riferita ai terribili bombardamenti della città inglese di Conventry, la completa distruzione di una città mediante l’edificazione.

Milano, 10 maggio 2006

Case! (non l’ho visto, ho abolito la televisione da anni), manda una breve nota, La città proibita, (riportata in calce) in cui accenna ai punti essenziali della trasmissione tra i quali l’ingiustizia del mercato milanese dell’abitazione e in particolare la scandalosa politica dell’Aler (Azienda lombarda edilizia residenziale). Danneggiati, anzi dannati e condannati soprattutto “gli anziani pensionati” e le famiglie a basso reddito. In Eddyburg ci sono numerosi miei interventi su Milano lungo gli anni di partecipazione al sito; diversi gli aspetti considerati, anche il problema dell’abitare. Ora voglio allargare la bozza di Stefano.

Milano, intendo lo spazio entro i confini comunali, presentava i cittadini residenti secondo classi sociali differenziate, agli estremi – se così posso dire – una borghesia produttrice ancora depositaria di una certa consapevolezza civile e una forte classe operaia con la quale la prima doveva confrontarsi. Persino durante il fascismo la città non poteva ignorare la sopravvivenza di una cultura locale popolare, doveva preservarne i luoghi deputati – le fabbriche e le case operaie – mentre riconosceva a qualche spezzone di borghesia e funzionariato non corrotti, memori delle tradizioni liberal-umanitarie e socialiste, la capacità di far funzionare la macchina urbana. Nulla tuttavia potette ostacolare l’attuazione di una grave politica demaniale riguardo a una grossa fetta del patrimonio pubblico in terreni, cioè la loro vendita o svendita. Invece nel campo dell’abitazione pubblica l’Iacpmf (Istituto autonomo case popolari milanese – la effe, fascista, apparve tardi), il potente istituto già operante estesamente prima della guerra mondiale, esibiva buoni risultati benché non potesse, o non volesse o glie lo impedisse l’alta gerarchia fascista, provvedere da solo alle condizioni abitative di quegli operai, in parte pendolari settimanali, costretti a vivere in stalle abbandonate, baracche e peggio ai margini della città e nei comuni limitrofi. (Forse per un’astuzia della storia le famose e impressionanti – specialmente grazie all’apparato fotografico – Indagini sul problema delle abitazioni operaie in provincia di Milano, di Piero Bottoni e Mario Pucci, furono loro commissionate nel 1938 dalla fascista amministrazione provinciale e pubblicate l’anno seguente).

Dall’immediato dopoguerra il pretesto dell’urgenza trasforma la ricostruzione in un’edificazione privata d’ogni genere e una speculazione immobiliare che non avranno mai fine, nemmeno quando la città sarà diventata tutt’altra, una sorta di pasticcio urbano, indistinguibile nel retaggio storico, dentro un enorme sprawl metropolitano deposito delle sue contraddizioni irrisolte. Gli architetti razionalisti vedono giusto. Subito, nel 1945, Ernesto Nathan Rogers avverte che “ricostruire con criterio significa rispondere con la tecnica alle esigenze della morale”. Un popolo può dirsi realmente civile se ricostruisce secondo un ordine di precedenze coerente agli interessi della società, ossia se risponde con chiarezza alla domanda per chi ricostruire. Rogers non ha dubbi, si deve ricostruire per i lavoratori, per i loro bisogni, casa e lavoro, ma anche scuole, ospedali, musei. Sulla stessa lunghezza d’onda e nello stesso momento Piero Bottoni pubblica da Görlich il libretto La casa a chi lavora, estensione di un lungo articolo apparso in “Domus” dell’agosto 1941, Una nuova previdenza sociale: l’assicurazione sociale per la casa. La mancanza di abitazioni per i lavoratori è la massima emergenza della ricostruzione e deve collegarsi ai problemi di settore, dall’agricoltura all’industria al commercio all’artigianato. Purtroppo, a chi credeva in un forte rilancio della politica sociale basteranno tre anni per decretarne il fallimento. Il decano dei razionalisti italiani Enrico Griffini, in un saggio su “Edilizia moderna” del dicembre 1948, scrive di orrendo disastro milanese, di decadenza morale e civile, di ordine edilizio sostituito dal caos: “Tutto il problema edilizio è deformato dalle speculazioni con abusi di ogni genere a dispetto delle soprintendenze, delle leggi, dei decreti”. Infine un’invettiva che altra volta invitai ad assumere attualmente per il suo attuale valore pedagogico rapportandola alla sessantennale storia di rovina edificatoria dell’intero paese: “una licenziosa e babelica febbre costruttiva che conduce questa nostra città a imbruttirsi oltre ogni previsione, perdendo tutta la sua organicità e l’unitaria bellezza formata e difesa dai nostri padri nella pazienza dei secoli”.

Eppure, grazie alla fiduciosa vocazione di qualche persona “resistente” in amministrazioni pubbliche o sul fronte della cultura urbanistica e architettonica, la casa popolare cercò, come una buona pianticella che riesca a spuntare e a vivere fra la sgradita lappolosa bardana, di farsi largo nella città. Non poteva contrastare e bloccare l’edilizia privata che sarebbe montata sempre più su se stessa come la marea – uffici di ogni tipo, non solo abitazioni – ma potette occupare quello spazio per così dire inevitabile e pubblico non ancora svenduto o ancora privo di attrattive per le bande armate della speculazione immobiliare. E si sarebbe potuto rilanciare il patrimonio pubblico esistente, anch’esso danneggiato dai bombardamenti o impedito durante la guerra. Tutto considerato, non c’era altra città italiana, forse esclusa Roma, che potesse vantarne proporzionalmente di eguale. Oltre alle case dell’Iacpm, quelle comunali, numerosissime, e degli altri istituti esistenti o nascenti delegati a possederne o a realizzarne. Doverosa, esemplare e bastevole, a questo punto, la citazione della nascita del QT8, il quartiere sperimentale dell’ottava edizione della Triennale, con la nomina di Piero Bottoni a commissario da parte del Comitato di liberazione l’11 maggio 1945. Troppo noto il QT8 per indugiarvi, va detto però che se fossero conseguiti negli anni altri interventi della stessa portata per localizzazione, dimensione e qualità, insieme a una dedizione degli amministratori pubblici uguale a quella che aveva permesso la rivoluzione della funzione stessa della Triennale, probabilmente non saremmo costretti a considerare come scritte oggi le denunce di Rogers e di Griffini. Nuovi quartieri di edilizia popolare se ne realizzarono specialmente negli anni Cinquanta e Sessanta grazie alle leggi note, ma gl’interventi furono ultra-periferici e malamente progettati; unica eccezione il quartiere Feltre, favorito sia da a una progettazione coordinata da Ignazio Gardella sia dalla prossimità del parco urbano del torrente Lambro. Nella raccolta di scritti di Aldo Rossi sull’architettura e la città tra il 1956 e il 1972 (Clup, 1975) troviamo del tutto logico leggere che “l’architettura dei quartieri non è andata oltre la proposta di Bottoni con il QT8 e il Monte Stella [la grande collina-parco costruita utilizzando le macerie dei bombardamenti e i materiali delle demolizioni], così che questi due fatti rimangono certamente come gli esempi più importanti, e senza seguito, della situazione milanese”.

Il drastico cambiamento sociale di Milano nel corso di mezzo secolo è mostrato da qualche dato dei censimenti semplice e chiato. Secondo il primo rilevamento del dopoguerra, 1951, nel territorio comunale risiedevano 1.274.000 persone. La città, pur sospinta verso l’accentuazione del proprio ruolo finanziario e commerciale già significativo negli anni Trenta, presentava una corposa quantità di operai e assimilati oltre che di posti di lavoro industriali: residenti attivi in totale 606.000, attivi operai e simili 329.000, addetti all’industria 366.000. Degli attivi in totale, 47,5% dei residenti, ben il 54,3 % erano operai; gli stabilimenti industriali in città, poi, dovevano richiamare un po’ di forza lavoro da fuori. Dieci anni dopo: forte crescita dei residenti, 1.582.500, diminuzione relativa dei tassi di attività, 45 % complessivo, per circa il 50% operaio (347.000 unità); aumento degli addetti all’industria sicché il tasso di industrializzazione urbano cresceva dal 28,5 al 31% (484.000 addetti. N.b: secondo un’altra fonte questi sarebbero stati addirittura 550.000, per un tasso di industrializzazione del 35%). Milano era (anche) città industriale a tutti gli effetti con notevole pendolarismo in entrata di lavoratori occupati nell’industria e abitanti fuori del comune magari molto lontano. La fotografia dopo altri dieci anni illustra sostanziali novità. La popolazione è tanta quanto non è mai stata e mai più sarà, 1.732.000 persone, gli operai residenti sono solo 288.000 (41 % degli attivi totali a loro volta avviati alla diminuzione), appaiono sintomi evidenti di deindustrializzazione sebbene gli addetti siano ancora quasi 435.000, segno della persistenza di una forte domanda verso l’esterno e dell’assurda estraneità fra i mercati del lavoro e dell’abitazione, è ormai molto intensa la domanda di lavoro del terzo settore che d’ora in avanti sarà sempre più travolgente e sempre meno risolta all’interno della città.

Nei decenni successivi a Milano imperversa il rivolgimento demografico, economico, sociale. Gli abitanti residenti continuano a diminuire, 1.605.000 nel 1981, 1.369.000 nel 1991, 1.182.000 nel 2001 (si darà un’inversione di tendenza negli anni recenti dovuta esclusivamente all’ottenimento della residenza di immigrati extra-comunitari, così che la città riconquisterà una consistenza demografica leggermente superiore a 55 anni prima). Gli operai stabili per abitazione, occupati in città o altrove, che a suo tempo superavano la metà della popolazione attiva e dunque imprimevano un potente marchio di classe lavoratrice “tradizionale”, diminuiscono molto più velocemente dell’intera popolazione e degli attivi totali, così che il loro peso classista e, se permettete, politico, già ridotto al 10 % della popolazione quindici anni fa, risulta oggi quasi trascurabile. L’industria sembra sparita da Milano, vuoi per abolizione pura e semplice vuoi per delocalizzazione, ma il processo di azzeramento lungo gli anni ha colpito molto più pesantemente il risiedere operaio che il lavorare, mentre si susseguivano ondate di terziario che allagavano spazi di ogni specie, in primis quelli residenziali.

I quartieri popolari di una volta non bastavano ma servirono. Al contrario: da un lato, amministratori comunali prima estranei a una cultura del tipo socialdemocratico europeo in materia di case popolari, poi, da tre quinquenni, fedeli interpreti dei principi fondiari ed edilizi ultraliberisti, vale a dire ostili ai diritti dei ceti meno ricchi, da un altro lato la terziarizzazione selvaggia: queste le cause essenziali che hanno provocato l’espulsione da Milano di famiglie e persone di quei ceti ma, ormai avvenuta la rivoluzione strutturale e occupazionale, hanno anche impedito nuovi ingressi in città per risiedervi ai lavoratori del terzo settore che avrebbero potuto diminuire la penosità del rapporto casa lavoro. Non da oggi non occorre essere operai per essere poveri o comunque inidonei a fronteggiare gli oneri imposti da una città come Milano. Il terziario milanese, si sa, è pieno di lavoro a termine, precario, faticoso anche se franco dalla tuta blu sporca d’olio di macchina; se non è provvisorio è comunque spesso sotto la minaccia del licenziamento.

Le famiglie e le persone a cui si riferisce Stefano Fatarella, residenti in città nonostante tutto, rappresentano il rimanente della classe d’antan, non più propriamente “classe” mancando uno specifico rapporto di produzione, infatti sono per lo più pensionati anziani – compresi gli ex occupati in lavoro non operaio ma a basso salario – soprattutto donne. La struttura della popolazione milanese è sbilanciata fortemente verso le fasce d’età elevate. Anni fa, quando la popolazione era maggiore, demografi e sociologi descrissero in maniera fulminante uno dei caratteri dominanti della struttura demografica milanese: essere donne, essere vecchie, essere sole: Le donne sole erano ben l’80 % dei residenti ultrasessantenni soli, a loro volta una presenza relativa forte, pur essendo ancora nettamente maggiore il peso della fasce giovanili in seguito man mano sempre più ridotte per le cause dette. Non disponiamo oggi di statistiche aggiornate. L’amministrazione comunale se ne frega di fornire dati certi per non farsi cogliere in fallo di rigore in relazione alle politiche sociali coerenti ai bisogni reali. A ogni modo sappiamo che entro la decadenza demografica milanese la struttura della popolazione è ancor più squilibrata nella stessa direzione (per ora è troppo scarsa l’incidenza dovuta ai giovani immigrati), la malaresidenza, oltre alla malasanità, infierisce più che nel passato; la proporzione conta più della numerosità assoluta e proprio per questo la città ne risente maggiormente l’effetto. I pensionati, le donne sole anziane, i nuovi poveri, gli ex affittuari di case popolari costretti all’acquisto o ad arrangiarsi in un mercato libero criminoso rappresentano il volto niente affatto oscuro di una Milano che crede di accecarci con le luci violente della moda, delle fiere, delle strade di negozi e atelier in buona parte in mano alla mafia “legale” degli investimenti commerciali e finanziari.

L’Aler (“Azienda” invece che “Istituto”) e il Comune: la prima, traditrice della migliore eredità dell’Iacp, coerentemente al cambiamento del nome, il secondo, guidato da un sindaco industrialotto lombardo, deciso da subito, disse dieci anni fa, ad amministrare il municipio come un condominio: l’Aler ha privatizzato le migliori delle sue case estromettendo i vecchi inquilini mentre ha lasciato degradare quelle affittate alle famiglie dal reddito per così dire inadeguato; la giunta comunale libera (mai verbo è stato così appropriato) begli edifici in zone pregiate affittati da decenni a “popolo” residente con il pretesto di ristrutturarli, poi, trascorsi persino due decenni come nell’incredibile caso dei 157 alloggi di Piazza Dateo, nega il diritto al rientro e decide di guadagnarci vendendoli a prezzi di mercato possibilmente a un unico imprenditore-speculatore: altro pretesto quello di reinvestire in alloggi popolari nell’estrema periferia “meno costosi di tre volte” dice, quando come dove non si sa.

Mi è rimasto impresso un principio sostenuto oltre trent’anni fa da uno studioso di programmi per la riduzione della mortalità nei paesi non ad alta ma a bassa mortalità. Poiché la grande maggioranza delle morti avviene oltre i 65 anni, occorre privilegiare i programmi sanitaricheaggiungono vita agli anni piuttosto che anni alla vita. Allora il problema principale, osservo, è quello di quale vita assicurare agli anni ancora da vivere. Per questo dobbiamo combattere non solo la malasanità ma anche, oggi a Milano soprattutto, la malaresidenza.

Milano, 17 marzo 2006

La città proibita, nota di Stefano Fatarella

Domenica 12 marzo, ore 21,30. Televisione. Rai 3. “Case !” di Riccardo Iacona. Della città proibita, dell’ingiustizia sociale, del diritto alla casa negato. Finalmente qualcuno si occupa di problemi veri, reali, concreti. Di anziani pensionati a 500/700 euro netti al mese e di lavoratori dai salari di fame che vengono buttati fuori dalle loro case dal “mercato”, questo sconosciuto senza volto, perchè poco redditizi. Ci parla di ALER (Azienda Lombarda Edilizia Residenziale) che sfratta e di una gestione del patrimonio abitativo pubblico indegno di un paese civile, di proprietà immobiliare privata che sfratta e che segrega gli sfrattati nelle periferie più squallide di Milano, allontanando uomini e donne dal diritto alla città, dal diritto alla dignità. Ci mostra di istituzioni assenti, di politiche abitative pubbliche di classe, che non si fanno carico di risolvere una questione sociale che solo lo Stato deve affrontare. Ci mostra violenza e sopruso, ci fa vedere il mercato che fa male e rovina gli uomini e le donne. Ci fa vedere la politica edilizia e urbanistica a-sociale e di classe. Qualcuno dirà che questo è un programma fatto apposta in prossimità delle elezioni. Ben venga se la politica tace. Ma non è forse scandalosa e provocatoria la questione dell'immoralità dell'assenza di una politica sociale dell'abiatazione ? Brava Rai 3, bravo Riccardo Iacona. W l’Italia scomoda

Inquinamento atmosferico nelle città causato dal traffico privato. Tutti dicono la loro. Nessuno esige di conoscere dati statistici relativi alla qualità dell’aria più estesi e precisi, dimostrativi dello stato effettivo in un determinato spazio.

Prendiamo il caso di Milano e delle famose polveri sottili (Pm10. Particelle incombuste sospese nell’aria o depositate al suolo e sollevate): nel 2005 la soglia di sopportabilità è stata superata per circa metà dell’anno, mentre il numero di giorni limite stabilito dall’Unione europea è di 35. Quest’anno, poi, lo è stata finora in quasi tutte le giornate, sempre in misura molto superiore al livello ammissibile, spesso di tre, quattro, cinque e persino sei volte. Per i non residenti o non frequentatori darò qualche informazione topografica. Sono solo due le centraline funzionanti anche per il rilevamento delle polveri. Le poche altre controllano gli ossidi d’azoto e di carbonio e l’anidride carbonica, componenti peraltro trascurate; l’attenzione sarebbe concentrata esclusivamente sulle Pm10 poiché ritenute causa di danni particolarmente gravi alla nostra salute (ma gli ossidi e l’eccesso di anidride fanno bene?). Le prime sono situate: l’una in via Juvarra, una bella strada residenziale alberata del quadrante urbano orientale, appena al di là – verso Città Studi – della circonvallazione “filoviaria”, ossia la terza cerchia dopo la cerchiolina interna al centro storico (Naviglio interno) e la circonvallazione “spagnola” che lo delimita; l’altra al Verziere, l’ampio slargo (una volta mercato) per lo più a destinazione terziaria sul quale si riversano gli spazi di Largo Augusto, del municipio (una volta Palazzo dei Giureconsulti), di Piazza Fontana e, di qui, dell’abside del Duomo. Comparando le due serie storiche di numeri si deduce che il primato negativo spetterebbe alla prima strada. Ma non sono certo queste, né di via Juvarra né del Verziere, le arie milanesi maggiormente intaccate dai prodotti di scarico degli automezzi a quattro e due ruote, i massimi responsabili del nostro mal respirare, assai più che le emissioni delle caldaie per il riscaldamento degli edifici (salvo il parere opposto del sindaco Albertini, troppo impegnato a non contrastare il traffico privato). Il passaggio di auto, camion, camioncini, moto, eccetera in Via Juvarra non può essere molto intenso; non ce n’è ragione, vale a dire che la strada non appartiene ad alcun primario percorso obbligato a frequenza ininterrotta. Il Verziere, invece, vi appartiene; ma la frequenza e la “massa” non sono quelle di numerosi altri tragitti o sezioni di transito: infatti la direttrice di provenienza dal circondario metropolitano (est) non riguarda zone d’abitazione e d’attività così dense come altre specialmente di N/O, N, N/E; lo spazio non è racchiuso da quinte d’ogni parte.

Voglio dire che le misurazioni disponibili sono ingannevoli, e lo sono con piena consapevolezza dei poteri pubblici. Sono miriadi i tratti e punti della città dove un’eventuale controllo delle polveri (e altro) rivelerebbe quantità talmente elevate da costringere le autorità comunali e prefettizie a richiedere lo stato di calamità “artificiale”, non c’entrando nulla la natura ed essendo gli uomini gli esclusivi colpevoli, per cosa hanno costruito e per come si comportano. Basti l’esempio della cerchia del Naviglio interno, calibro modesto, nessun albero, senso unico salvo per l’autobus. Il torrente dei mezzi è continuo o ristagna ininterrotto come davanti a una diga, le cortine edilizie corrono sui lati senza interruzioni a designare una tipica rue corridor o, nomen omen, strada canale. Una centralina in Via Senato, il segmento nord-orientale della cerchia, se ne sta inerte davanti all’enorme volume di gas pieni di particelle solide emessi da quante decine di migliaia di transitanti motori ogni giorno non si sa, giacché il Comune, che lo sa o potrebbe facilmente stimarli, non lo vuol comunicare: forse per esonerare i milanesi e i foranei city user dai propri spaventi se non dai complessi di colpa quali avvelenatori autorizzati. Insomma, una strada come Juvarra è giornalmente sbandierata come caso di massimo inquinamento da traffico, un’altra come Senato è ignorata mentre ogni milanese ne percepisce lo stato effettivo gravido di rischio svenimento per lo spaesato pedone (e il bambino nel carrozzino?).

È l’intera città a vivere morendo entro una gigantesca nuvola di quasi-solido smog, con larghi grumi di intensificazione incommensurabile in punti tratti aree che un buon urbanista conoscitore del territorio milanese può elencare facilmente (non occorrono specialisti del traffico, talvolta esclusivi pericolosi amanti di tecnicismi). Analoga è la condizione della cosiddetta – dal governo regionale – area omogenea o area critica, ossia le aree di Milano, Bergamo, Como, Brescia e Sempione; ma sappiamo che è tutta la Lombardia a partecipare all’abbuffata, come hanno dimostrato da un lato il Consiglio regionale votando all’unanimità (assente il presidente Formigoni) la richiesta alla giunta di designare come “area critica” l’intera regione, da un altro lato molti sindaci dichiarando consenso a misure di scala regionale anche drastiche avverso il traffico privato, a condizione che riguardino davvero l’intera Lombardia o un territorio poco meno vasto. D’altronde la situazione di altre regioni è simile e tutte le città italiane sono condizionate dall’eccesso di automezzi privati, anche le piccole che solo vecchi slogan ormai privi di senso fanno ritenere meglio vivibili.

I pareri circa i provvedimenti, a parte i rari e occasionali già presi da autorità pubbliche in maniera da farli sembrare inutili, sono svariati e quasi tutti volti a diminuire l’inquinamento dell’aria come fenomeno in sé e perciò pensando alle automobili appunto quali mezzi inquinanti. Tant’è vero che si discute di marmitte catalitiche e no, di carburanti sporchi e puliti, di motori da Euro 0 a Euro 4-5, di orari di transito, di ticket d’ingresso al cuore della città, di targhe alterne e così via secondo un mucchietto di idee che, anche quando sembrano superare il mero problema dell’aria come il ticket o le targhe alterne, non riescono a precipitare in un progetto semplice ma chiaro e conseguente rapida attuazione. Mi sbaglio, in verità esiste una posizione unificante conclusiva dei dispareri: ognuno dice che la tal misura è solo palliativa, provvisoria, di emergenza, se non inutile in attesa di interventi strutturali, allo scopo, ripeto, di respirare aria migliore. Allora, se tutti i mezzi motorizzati non scaricassero fumi dannosi, se, per esempio, funzionassero ad alcol, o, prospettiva meno irrealistica, se tutte le auto fossero dotate di motori ultimo grido, nessun provvedimento “strutturale” occorrerebbe per limitare il trasporto privato? Ebbene, proprio questa è la pensata degli amministratori pubblici nei Comuni e nelle Regioni, e anche di certi esperti sé-designati e liberisti. Cosa significa “intervento strutturale”? I nostri non lo sanno o, immaginandolo, tacciono.

Un bell’articolo di Guido Viale (Repubblica del 21 gennaio, p.18) la dice finalmente giusta in materia di inquinamento urbano e di traffico. Non potrebbero essere considerati interventi strutturali – ossia risolutivi, ma anche urgenti – né parcheggi sotterranei (una mania milanese, annoto, che sta contagiando altri Comuni) o in elevazione, né semafori ‘intelligenti’, né sotto o sovrappassi: tutte soluzioni “che non fanno altro che richiamare più auto, più congestione più inquinamento”. Né serve discutere ora di idrogeno o metano, cioè rinnovo di parco macchine e di reti distributive fra 15-25 anni. L’inquinamento dell’aria non è di per sé il principale nemico degli abitanti della città, lo è soprattutto “l’occupazione delle strade da parte delle auto”, in movimento e, ancor peggio, parcheggiate. Insomma “è il traffico privato a essere incompatibile con la vita urbana e l’unico intervento strutturale che può funzionarie è ridurre – il più drasticamente possibile, anche se in modo graduale – il numero dei veicoli in circolazione”. D’altra parte, in vista di probabili crisi energetiche “i blocchi del traffico potrebbero essere una scuola per allenarsi e abituarsi gradualmente al mondo di domani”. In questo modo i mezzi pubblici attuali potranno muoversi agevolmente e nuovi moderni mezzi a richiesta rendersi disponibili, gli abitanti ritornare a camminare e a pedalare, penso su ciclopiste facilmente realizzabili grazie alla riconquista di spazio stradale. Bisogna “sperimentare, un po’ per volta , come far funzionare bene – e meglio – le nostre città; anche senza obbligare i loro abitanti a possedere e utilizzare un’auto propria”.

Musica per le mie orecchie o festa per i miei occhi l’articolo di Viale. Ritorniamo a Milano. Già oltre vent’anni fa entravano in città ogni mattina attraverso i confini comunali 500.000 automobili. Fu la giunta di sinistra, allora, a resuscitare la politica dei parcheggi sotterranei nel cuore urbano (dopo la costruzione negli anni Sessanta dell’orribile silos multipiano sotterraneo nella storica piazza Borromeo) attraverso concessioni di diritto di superficie su suolo pubblico a imprese private. Non ci fu possibilità di far capire agli amministratori comunali il colossale errore, dal momento che costruire parcheggi in centro significava richiamare sempre più traffico automobilistico nelle aree dove avrebbero dovuto limitarlo se non espellerlo. Oggi si discute se le entrate di auto superino di molto o di poco le 500.000, due anni fa funzionari della vigilanza urbana parlarono di 800.000. La giunta di centrodestra, da dieci anni dedita a una politica uguale ma assai più energica, tuttavia rallentata dalle contestazioni degli abitanti, l’ha intensificata dal 2004-2005 con una decisione e violenza costruttiva che pare terrorismo urbanistico e ambientale (si può leggere nel sito l’articolo Perché no, un parcheggio dentro il Duomo?, 25.6.05).

Poiché il traffico dei mezzi privati, inquinanti o no, è il nemico numero uno della vita urbana, le amministrazioni comunali che vogliano identificarsi con una politica progressista, opposta al moderatismo liberista che ha lasciato le nostra città in loro balia (contrassegno dei governi locali di destra ma non solo), dovrebbero da subito prendere le seguenti misure, inquadrandole però nella riaffermazione della pianificazione urbanistica e nella prospettiva dell’istituzione delle aree metropolitane:

-negare la politica dei parcheggi sotterranei, ma anche di superficie, nel cuore della città;

-localizzare parcheggi esterni in relazione alle diverse zone periferiche, al circondario extra-comunale e alle direttrici stradali, realizzarli evitando terreni agricoli e scegliendo gerbidi o aree di risulta non recuperabili né per agricoltura né per giardini, oppure integrarli nella ristrutturazione a destinazione sociale di eventuali aree dismesse;

-abolire l’obsoleto principio di “far scorrere, facilitare” le automobili, invece ostacolarle, render loro la vita difficile, se così posso dire; regolare ordinatamente il loro transito dove è plausibile accettarle adottando il metodo del calming traffic, evidentemente sconosciuto in Italia e applicato in diversi contesti europei e americani;

-impedire ogni forma di parcheggio non regolamentata e non onerosa, prima di tutte l’occupazione dei marciapiedi e dei parterre nei viali;

-realizzare aree pedonali in ogni quadrante della città ammettendo il transito dei soli mezzi pubblici, e zone semi-pedonali destinate a calmino traffic;

-costruire, utilizzando anche lo spazio sottratto alle automobili, piste ciclabili come rete di effettivo trasporto alternativo capace di assorbirne almeno il 10-15 %;

-rifondare la rete e i mezzi del trasporto pubblico, vale a dire aumentarne l’estensione, la durata e la frequenza sulla base di alcuni punti fissi: riproporre, come nella tradizione migliore, linee interperiferie passanti per il centro città; evitare linee troppo corte attestate nel centro; proteggere i percorsi dal traffico privato; impiegare mezzi di capacità di trasporto non troppo elevata, contraddittoria rispetto alla frequenza (questi punti rappresentano l’esatto contrario delle scelte attuali di Milano e certamente di altre città);

-ricorrere alle targhe alterne, alle giornate franche dai mezzi privati e ai ticket d’ingresso nel cuore urbano finché non si sarà ottenuta una forte diminuzione della loro circolazione;

-contrastare, esigendo il rispetto delle regole e delle limitazioni, un doppio anarchismo non secondario nemico della vita urbana: di motociclette e motorini, di mezzi commerciali per il carico e lo scarico delle merci (per Roma Milano Napoli Firenze Bologna… si possono accusare i municipi di tolleranza scandalosa).

Milano, 1 febbraio 2006

Cerco di non pensare, ma poi penso, ai principi che contraddistinguevano la posizione della sinistra tanti anni fa, sia quando ci accingevamo alla lotta per la conquista di un Comune, sia quando esercitavamo, per così dire, il potere nell’amministrazione municipale: potere che peraltro doveva misurarsi con determinate forti limitazioni oggi sconosciute. Anzi oggi, a seguito delle norme varate unanimemente dai partiti anni fa, i poteri di sindaci e giunte (di presidenti e giunte di Regione) sono talmente ampi e spesso non confutabili da suscitare preoccupazione in merito all’esercizio della democrazia.

Da un lato, allora, le assemblee comunali erano luoghi e tempi reali del dibattito e nulla, nessun problema, nessun progetto poteva essere sottratto alla discussione pubblica e al controllo democratico dei Consigli; da un altro lato l’occhiuta rappresentanza locale del governo, il prefetto, più che verificare l’ammissibilità legale delle deliberazioni, cercava ogni modo per interdire le scelte democratiche adottate dalle amministrazioni di sinistra quando tali scelte, distinguibili per essere “qualcosa di sinistra” (come richiese il regista Moretti ai dirigenti diessini di dire durante una famosa manifestazione dell’opposizione), non erano gradite al governo centrale e, specificamente, al Partito democratico cristiano locale.

Altri tempi, altre condizioni si dirà. Vero, ma chi ha agito nelle battaglie politiche di allora e nel confronto consiliare secondo principi che non sono stati travolti dalla corrente della storia giacché principimoralmente alti, deve oggi sopportare un doppio disagio: per l’eccesso di poteri concentrati in persone e gruppi ristretti, di destra o di sinistra che siano; per essere ricorso, il centrosinistra a Milano, a un ex prefetto quale candidato a sindaco. Attenzione: l’ex prefetto milanese Ferrante, per quanto si conosce, è una persona ed è stato un funzionario statale estraneo ad atteggiamenti e azioni scorretti. Ma: è sorprendente e tristissima cosa che i due maggiori partiti del centrosinistra abbiano dovuto rivolgersi al di fuori della cultura progressista dopo l’affossamento della candidatura dell’uomo di scienza Veronesi; è imbarazzante, per me e tanti altri, dover per così dire negare il sentimento del passato come arcaico rottame per accedere al “nuovo” presente. E’ chiaro che sarà Ferrante il prescelto alla fine, soprattutto dopo il recente esplicito invito (un ordine per gli iscritti) dei dirigenti Ds, irriguardoso verso gli altri candidati, a votarlo alle primarie del 29 gennaio. Tuttavia, per non ridursi a uno stupido rito, l’occasione di tale votazione può essere colta al meglio, vale a dire non trascurando l’apporto di tutti i designati a illustrare e poi attuare il programma per un’altra Milano da quella odierna dominata da finanzieri, immobiliaristi, commercianti, personaggi e classi rispecchiate perfettamente nell’attuale amministrazione e senza dubbio da una temuta futura giunta Moratti.

Così, propongo di votare alle primarie Dario Fo, che, a parte il sostegno direi ovvio di Rifondazione comunista, rappresenta l’alternativa più autentica agli attuali amministratori. Questi, pericolosi decisionisti illiberali per parte loro o spettatori verso l’appropriazione della città da parte dei detti personaggi e classi, l’hanno ridotta a quel coacervo di abbandono produttivo, decadimento commerciale, dissoluzione sociale, disordine urbanistico e bruttezza ambientale che può valutare solo chi ha conosciuto l’affabile Milano d’antan e oggi può illustrarla ai giovani inesperti e disattenti.

Dario Fo, conoscitore della nostra città come pochi altri, non ha bisogno di essere raccontato, lui il più grande narratore esistente in Italia, premio Nobel meritato per eccellenza d’arte letteraria e d’impegno sociale, spesso offeso dai piccoli quaracquacqua di qui, raduna nelle sue proposte elettorali (che sono già note, anche per la passione con cui le ha diffuse) ciò che la sinistra culturale, in mancanza di una forte dedizione di quella politica, ha dichiarato necessario attuare, per risolvere, senza velleitarismi, le attuali difficoltà vitali di gran parte dei cittadini, non solo quelli a minor reddito.E’ certo, lo ripeto, che dalle primarie sortirà Ferrante quale rivale di Letizia Moratti. E, a quel momento, gli altri candidati del centrosinistra e noi tutti lo sosterremo con la massima decisione. Ma il voto per Dario Fo, a mio parere, può rappresentare molto di più che un gesto amicale e sentimentale; potrà servire per spingere la futura formazione di centrosinistra se al governo della città a pensare e a realizzare quel ”qualcosa di sinistra”, appunto, con tutto ciò che questo oggi significa, che tanti non ne possono più di aspettare.

Milano, 13 gennaio 2006

Non un bilancio, un semplice richiamo alla memoria, per annotazioni quasi cronologiche, di casi e cose da me e altri proposti in eddyburg, per ragionarvi brevemente ora, Capodanno 2006.

-Dopo l’esplosione dello tsunami molti sembrano riscoprire l’esistenza del rapporto fra l’uomo e la natura secondo un senso dimenticato, quello del rispetto dovuto dal primo verso la seconda. Ciampi nel discorso di fine d’anno accenna chiaramente al “dovere di difendere la natura”, una pratica in disuso.

Sorprendente, riguardo al problema improvvisamente imposto dalla tragedia, la mancanza di una sostanziosa rielaborazione della sinistra, quantomeno quella parte che non aveva negato totalmente la formazione culturale marxista. Furono Darwin e Marx-Engels a trovare il centro della questione uomo/natura e, chiudendo la porta a determinismo, meccanicismo, necessarismo, a offrire la possibilità di porsi in modo nuovo davanti alla storia del mondo.

Dov’erano, penso, i capi eredi della “vecchia sinistra” (Salzano)?.

-Forzisti, fascisti, centristi, moderati e riformisti accusano l’Unità e in particolare il direttore Furio Colombo di essere gl’istigatori del lancio del treppiedi a Berlusconi. Silenzi o consensi di troppi giornalisti. Colombo verrà presto “licenziato”. Saranno i vertici dei Democratici di sinistra a esigerlo, su indiretta (o diretta?) richiesta del capo del governo. Furio dirà che, secondo loro, il giornale era troppo radicale.

Non sopportavano che fosse impegnato senza riguardi e senza sosta a denunciare le malefatte di B. e dei suoi. C’è persino qualche diessino importante che non può attaccare Berlusconi dal momento che ne dipende indirettamente: per esempio il senatore collaboratore fisso al settimanale “Panorama”.

-La Baia di Sistiana, il golfo più bello della costiera giuliana, è sempre sull’orlo del pericolo di gigantesca edificazione, anche se il WWF e Italia Nostra ottengono dal Tar la sospensione dei lavori nella parte occupata dalla cava di pietra. Ma l’orribile progetto di una “nuova Portofino” tornerà alla luce. È nota la collusione fra gl’imprenditori, il Comune di Duino (centrodestra) e la Regione FVG (centrosinistra), tutti decisi ad accordarsi in pro dello “sviluppo”.

Il presidente Illy propende a dire e a fare cose di destra, non di sinistra.

-Corridoio 5 dell’Alta velocità. Il prevedibile massacro di un buon tratto del Carso non richiama l’attenzione della sinistra. Anzi, il centrosinistra della Regione FVG sembra trovarlo inevitabile.

Oggi, mentre la Val di Susa è in subbuglio a causa dei lavori per la Torino-Lione, la sinistra, o il centrosinistra, invece che presentare una Mercedes irragionevole sostenitrice, dovrebbe negare decisamente un’opera di tale natura in un paese dove è l’intero sistema ferroviario “normale”, linee secondarie comprese, incompleto e in stato pietoso, ad aver bisogno urgente di interventi secondo un programma politicamente e tecnicamente preciso.

-Il centrosinistra locale vuole ostinatamente il porto da 500 barche, con relative case per 150.000 metri cubi, alla foce dell’Arno presso la tenuta di San Rossore. Esce un documento di opposizione radicale al progetto firmato, fra altri, da Salzano, Cervellati e dal soprintendente Paolucci.

Intanto la Regione Toscana, in specie il suo presidente diessino, rivaleggia col ministro Lunardi non per contrapporre l’adeguamento dell’Aurelia alla sua variante autostradale tirrenica che sconvolgerebbe il paesaggio collinare; ma per proporre un proprio tracciato che lo ferirebbe e corroderebbe un po’ più vicino alla costa.

Cosa c’è sotto l’attuale silenzio?

-All’Isola d’Elba, Marina di Campo, i cento grandi pini a ombrello già noti per minacce precedenti di abbattimento non hanno pace. L’amministrazione di centrosinistra vorrebbe, di nuovo, abbatterli adducendo ragioni cretine (danni delle radici, disturbo delle fronde…).

Le piante sono ancora lì, oggi. E’ forse servita, insieme alla mobilitazione degli ambientalisti locali, la lettera di protesta e opposizione inviata, già prima, da una trentina di professori del Politecnico di Milano.

Invece, sui monti di Bormio e della Valtellina, gli alberi sopravvissuti allo sterminio del 1985 voluto per favorire i campionati del mondo di sci, furono abbattuti grazie al nuovo campionato. Come prima la sinistra, è il centrosinistra ad aver rilasciato il decreto di morte.

-L’urbanistica sarebbe una cosa, i beni culturali sarebbero tutt’altra. La nuova normativa non scandalizza l’opposizione politica. Si mobilitano gli urbanisti “buoni” sollecitati da Vezio De Lucia, ma persino il nuovo presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica, neo-liberista, critica la legge delega per l’ambiente. La sinistra sembra non accorgersi che la nuova legge urbanistica Lupi è pensata al servizio degli imprenditori e speculatori privati. Anzi, nel centrosinistra sotto sotto non mancano consensi e compartecipazioni al progetto. “La forte integrazione fra urbanistica e tutela paesistica” (Fabrizio Bottini), negata dalla legge Lupi, appartiene alla migliore tradizione dell’urbanistica italiana dagli anni Trenta.

I nostri amici della politica non ne sanno nulla. La nuova legge, sostenuta esplicitamente da alcuni dei Dl e non ostacolata decisamente dalla sinistra, ha ottenuto l’approvazione silente della Camera. Spero che le vicende preelottorali costringano a rimandarla alla prossima legislatura. Vedremo.

-Un gruppo di urbanisti, professori universitari, ambientalisti, allarmati per il temuto destino di Baia Sistiana, scrivono al presidente Riccardo Illy e al sindaco di Duino Aurisina Giorgio Ret. Chiedono per l’immediato: negare ogni ripresa dei lavori alla cava di pietra, accantonare qualsiasi progetto di intervento nel luogo e nel contesto territoriale, avviare le procedure per conseguire il vincolo di inedificabilità totale e di conservazione assoluta della situazione paesaggistica esistente.

Sappiamo ora che né la Regione né il Comune hanno abbandonato l’alleanza con le imprese per realizzare l’orribile insediamento turistico-residenziale con relativo porto. Solo il WWf e Italia Nostra non mollano, ricorsi e controricorsi al Tar, campagna di stampa, mobilitazione incessante. Pensate a cosa costringe la condivisione del potere: i verdi friulani, alleati di Illy, hanno dovuto sostenere sempre la bontà dell’iniziativa.

-“Turismo inquinante”, Carla Ravaioli rompe un tabù cui soggiace da sempre anche la sinistra. La quale nel corso dei sessant’anni dal dopoguerra non è riuscita a delineare una chiara visione del problema turistico diversa da quella trionfalista e populista dei governi; del resto non è stata capace di costruire una propria politica nazionale riguardo a territorio città pianificazione. Distinzione della sinistra e del centrosinistra a scala locale? Troppe amministrazioni comunali e regionali hanno permesso anche loro vasti dissesti territoriali dal momento che non si volevano creare ostacoli alla ricca domanda.

Oggi tutto va avanti come sempre. Anzi, il forte decisionismo concesso a presidenti, sindaci, giunte dalla legge sui poteri locali di anni fa ha leso il diritto ai controlli democratici dei vecchi consigli; e il fascino del potere politico-amministrativo semi-assoluto ha talora travolto gli enti nella collusione con gli speculatori immobiliari.

-In evidenza la domanda: quale cultura possiede e trasmette il Pds? E quale la sinistra detta radicale, alias Rifondazione comunista? Osservatori che ragionano secondo una visione ampia dei problemi sociali e ambientali notano l’inadeguatezza culturale dei politici presunti di sinistra cui affidare il proprio consenso. La denegata politica culturale del Pci, si domandano, non contava molto di più entro il divenire sociale del paese e non aveva permesso di superare il modello del moderatismo e confessionalismo democristiano?

I nostri amici politici, presumendo di collocarsi nella modernità, si lasciano incantare da “sviluppo!”, “crescita!”, “sviluppo sostenibile”!: nauseanti nominalismi che vediamo ancor oggi coinvolgerli in discussioni economicistiche nulla c’entranti con la necessità di indicare una prospettiva riferita, anziché alla fuorviante aritmetica del Pil, all’effettiva diffusione di una buona qualità dell’esistenza per tutti.

-Estesi timori che l’opposizione, sinistra compresa, non colga la vera portata distruttiva del programma governativo, già in via di realizzazione, che definisce l’impiego delle enormi risorse di beni culturali e ambientali, ovunque esse si manifestino, per creare posti di lavoro, aumentare la ricchezza, distribuirla, così mentono. Dunque, crescita degli investimenti in infrastrutture, strade autostrade porti turistici, in impianti sciistici, alberghi, attrezzature di spiaggia, poi espansione di servizi commerciali nei musei, nei teatri, nelle grandi stazioni, e via via secondo un elenco infinito di iniziative private (e di privatizzazioni), da sostenere in quanto di "necessità" pubblica o da premiare attraverso concessioni a buon mercato. Collateralmente, inoltre, nuovi favori all’ulteriore proliferazione di case per vacanze e fine settimana, approfittando della scappatoia offerta dalla definizione di residence house.

Sentiamo il vagito del 2006 ma non ancora il rumore di una protesta montante e di una battaglia ad armi pesanti del centrosinistra per impedire il sacrificio dell’ultimo pezzo di ex Bel Paese. Solo sporadici moti di sorpresa, come da increduli di fronte a un avvenimento troppo sconvolgente per essere vero.

-Vezio De Lucia ricorda l’incessante lotta del Wwf e di Italia nostra nella difesa dell’ambiente: come quello speso a suo tempo per impedire la costruzione nella già sanguinante Ravello dell’auditorium niemeyeriano. Purtroppo vale la notizia circa la probabile fattibilità dell’intervento, gloriosamente condivisa anzi acclamata da Legambiente, il movimento finanziato dal ministro Matteoli, guarda caso alleato di un folto gruppo di entusiasti alleati del sindaco e di Bassolino (!), tutti sprezzanti verso la questione primaria della illegalità della costruzione.

Non mollano la presa, i nostri amici triestini del Wwf e Italia Nostra. Per parare eventuali colpi a sorpresa dei nemici della Baia di Rilke a Duino-Sistiana (la Regione illyana, il Comune di centrodestra e le imprese edilizie) hanno presentato un documento straordinariamente preciso al Commissario dell’ambiente della Commissione europea, chiedendo, di questa, l’intervento decisivo per salvare l’integrità di un Sito qualificato come di importanza comunitaria.

Ugualmente, a muoversi subito, alla fine del 2003, contro il Piano territoriale comprensoriale del Napoletano, fautore dell’edificazione per quasi metà dello spazio agrario e voluto dal centrosinistra, erano stati il Wwf e Italia Nostra, insieme a Gaia, Coldiretti e all’agronomo Antonio Di Gennaro.

-Ultimo gioco di parole promosso da Legambiente (il gruppo sospettabile giacché riceve finanziamenti dal ministro Matteoli), condiviso dall’ingannato, evidentemente, Giovanni Valentini e non dispiaciuto agli sviluppisti di sinistra: da una parte starebbe lo sviluppo sostenibile, dall’altra l’ambientalismo sostenibile! Spiegano: l’ambiente, la natura devono poter sostenere lo sviluppo prodotto dall’uomo, l’uomo deve poter sostenere l’ambiente e la natura troppo intatti, troppo invasivi, privi di umanizzazione (non sanno che non c’è al mondo un metro quadro di paesaggio non umanizzato?).

Ecco, di nuovo, è una cultura dialettica che avrebbe potuto insegnare ai nostri la giusta posizione svelatrice di una tale assurdità. Invece sembra che ne accettino le conseguenze, culturali e applicative.

-Nuove discussioni in merito alla questione giovanile. Per Giorgio Bocca, un mondo che ha cancellato anche la bellezza difficilmente avrà “un futuro accettabile”. C’è un presentimento di rovina. Ma “ai giovani questo mondo brutto può anche andar bene: si spostano di continuo, non fanno neanche tempo a vederlo, il loro mondo è fatto di cartelli che sfilano veloci. Siamo noi vecchi a vederne la irreparabile rovina… La gioventù è forte e avida di vita, digerisce tutto, mangia panini osceni e butta giù gazzose”.

Un grande partito come il Pci comprendeva un corposo settore giovanile. Insomma, i giovani di sinistra agivano politicamente come giovani, loro problemi loro specificità, e come uomini e donne appartenenti a una linea politica generale. Tutto questo, all’inizio del 2006, pare preistoria, mito. L’estraneità dei giovani dai partiti e, tutti lamentano, dalla stessa politica, non è essa stessa causa della mancanza di progetto sociale futuribile? Pasolini, scrivendo intorno alla condizione italiana dei primi anni Settanta, riconobbe che “gli unici che si battono ancora per una cultura e in nome di una cultura, in quanto si tratta di una cultura ‘diversa’, proiettata verso il futuro, e quindi al di là, fin da principio, delle culture perdute (quella di classe, borghese, e quella arcaica, di popolo) sono i giovani comunisti. Ma per quanto potranno difendere ancora la loro dignità?” (in “Corriere della Sera”, 1° agosto 1975). La risposta l’abbiamo avuta.

-Evidenza in Eddyburg del problema energetico. Curiosità: Edo Ronchi, responsabile della “politica della sostenibilità” [ma cos’è questa pds?], ritiene irrilevante l’impatto sul paesaggio delle macchine per la produzione di energia eolica poiché tanto, dice, di bei paesaggi non ce ne sono quasi più; così provocando l’irritazione di Vittorio Emiliani, il presidente del Comitato nazionale per la bellezza. Ingenuità, se non sprovvedutezza di Ronchi. Il paese ha mangiato in gran parte se stesso, ma bisogna preservarne a ogni costo gli avanzi buoni, difenderli dalle pretese sviluppiste reclamanti eccessivo impiego di energia e dunque proliferazione di impianti stravolgenti gli equilibri del territorio e dei paesaggi.

A ogni modo il primo punto di un progetto di sinistra per l’energia deve consistere nel risparmio energetico. Poi, parole chiare sui diversi sistemi, a partire dalla esclusione di un ritorno alle centrali atomiche.

-L’energia tiene banco. Non si può accettare così a lungo la mancanza di un piano energetico nazionale: quali fonti, quale calcolo del fabbisogno, quale attuazione accelerata del risparmio. Spreco significa consumo inutile; si lasci agli economisti (personaggi ormai pericolosi) di perorare più consumi, sempre più consumi per risolvere la crisi produttiva. Idioti. Dovrebbe essere per prima la sinistra, una volta madre del principio di pianificazione, a prospettare strategie. Per i liberisti è il caso a provvedere alle soluzioni; ma il caso corrisponde al dominio del profitto anche truffaldino, della rendita fondiaria ed edilizia, del lucro esoso commerciale.

Ad ogni modo è in causa anche il destino del territorio. Ugualmente il problema dello smaltimento dei rifiuti e degli scarti, a partire dalla diminuzione del consumo giornaliero: ambiente, urbanistica, piano e progetto dei luoghi vi sono implicati strettamente. Lo scontro nel Pds toscano in merito a un termovalorizzatore preteso dai compagni di Firenze e rifiutato da quelli di Campi Bisenzio la dice lunga sull’arretratezza di elaborazione anche a sinistra.

Oggi, 1.1.2006, niente di nuovo sul fronte.

-Sconcerto e rabbia fra le persone di sinistra ingenue. D’Alema sembra apprezzare certi intriganti finanzieri speculatori scalatori: dai loro affari, dice, conseguirebbero anche effetti positivi poiché produrrebbero in ogni caso plusvalenze. Come se quelli le investissero in progetti utili al paese anziché intascarle volgarmente, o impiegarle in ulteriori oscure manovre oppure direttamente nell’appropriazione territoriale e urbana. E al fisco pagano al massimo solo il 12,5%. Una volta la sinistra, con tutto il suo forte peso, era ostile alle rendite, soprattutto fondiarie ed edilizie, e criticamente attenta alla qualità dei profitti da produzione industriale. Ora, mentre la decadenza dell’industria italiana è forse giunta al punto di non ritorno, sembra non esserci più alcun ostacolo alla completa presa del potere di finanzieri troppo spregiudicati e, soprattutto, di immobiliaristi e di costruttori di cose inutili e …distruttive. Un Ricucci, immobiliarista sconosciuto fino a meno di due anni fa: come può impegnarsi nello stesso momento a scalare Ambronveneta, Banca nazionale del lavoro, Rizzoli Corriere della sera?

Siamo agli ultimi atti di una storia di pene infinite inflitte al territorio nazionale. Edoardo Salzano, a proposito delle lunghe battaglie degli urbanisti di sinistra per difenderlo, scrive: “abbiamo perso”. D’altronde: per Pasolini la situazione ambientale italiana era già disastrosa alla fine degli anni Cinquanta, il film di Francesco Rosi Le mani sulla città risale al 1963, l’invettiva dell’ingegner Martuscelli circa il disfacimento del territorio nazionale compresa nel documento-denuncia relativo alla frana di Agrigento al 1966.

Gli immobiliaristi colgono l’ultimo vento che soffia sulle città e sul territorio aperto residuale, costituiscono alleanze, si assicurano il legame con gli architetti internazionali, aspettano l’inevitabile chiamata; anzi, confortati dalla legge urbanistica in approvazione, si muovono prima e sottopongono il fare e l’affare agli amministratori, nuovi presidenti di Regione, nuovi sindaci e i nuovi presidenti di provincia. Questi, con le loro giunte cui appartengono anche presunti tecnici non eletti chiamati direttamente, godono del potere personale e oligarchico concesso da una legislazione (con quell’incredibile premio di maggioranza) che la sinistra ha avallato in omaggio al mito della stabilità governativa. I consigli degli eletti non contano nulla. Le piccole minoranze diventano patetiche. Ma ora che le amministrazioni sono in gran parte in mano al centrosinistra… Ebbene, quanto al nuovo decisionismo, quanto al fare e disfare nella città e nel territorio fuor di ogni piano, di ogni regola urbanistica, sulla base dei desideri e delle proposte dei padroni dei terreni e delle aziende di costruzioni, le differenze di comportamento non sono sempre evidenti.

…E, negl’ultimi giorni dell’anno, ci siamo sentiti di nuovo come disorientati, benché non fossimo così inesperti da credere in un effettivo ripensamento di un D’Alema, per il coinvolgimento suo e di altri massimi dirigenti del Pds in casi di finanza incauta. Dobbiamo rivolgerci al bravo Scalfari (31 dicembre) per leggere un richiamo alla figura di Berlinguer, alla sua supremazia morale. Purtroppo la speranza che i nostri lo ascoltino, il richiamo, è molto tenue.

-Notizie da Baia di Sistiana minacciata da una “nuova Portofino”. Eccezionale determinazione di Wwf e Italia Nostra triestini nei confronti degli amministratori, dei tribunali amministrativi, delle procure. Le autoritarie autorità regionali e comunali non sono riuscite ancora a completare il loro inciucio edilizio con l’immobiliare Santi Protaso e Gervaso e Santa Sistiana. Il progetto dell’insediamento turistico non è stato mai proposto alla discussione pubblica, si sono visti rendering dimostrativi dell’orrore urbanistico e architettonico. Illy dichiara di aver ottenuto (in segreto!) modifiche che renderebbero, secondo lui, il progetto “compatibile”, ma si rifiuta di sottoporre ad altri una fantomatica ultima versione.

Il solito potere locale sprezzante. Ora la Baia di Rilke è ancora salva; ma in Italia i promotori dei massacri ambientali sanno aspettare, hanno pazienza, tanto più quando trovano gli alleati fra chi dovrebbe contrastarli…

-La nuova legge urbanistica reazionaria passa alla Camera per azione comune di Forza Italia e Margherita, assente, disinteressata, o forse appartata e consenziente, una sinistra che dovrebbe distinguersi nell’analisi sociale-territoriale e nella pianificazione urbanistica pubblica per l’interesse della comunità. Tante nuove amministrazioni di centrosinistra: sembrerebbe una bella fortuna che siano esse a decretare il destino del territorio e della città. Invece non è affatto chiara la linea divisoria fra politiche urbanistiche di destra e di sinistra, fra i comportamenti delle amministrazioni di opposto colore. Che l’urbanistica non possa essere né di destra né di sinistra è un falso principio enunciato dai falsi liberali per giustificare lo sfasciamento del paese avvenuto grazie, appunto, ad azioni da noi ritenute di destra anche se effettuate talvolta da governi locali nominalmente di sinistra.

Sta scadendo per l’Unione il tempo di presentarsi apertamente agli elettori con un progetto contraddistinto dalla differenza in ogni campo, urbanistica esplicitamente compresa, non tanto dall’inesistente progetto della Cdl quanto dalla realtà dovuta alla sua quinquennale opera. Ma, circa l’urbanistica, come fidarsi dopo l’inghippo sulla legge Lupi?

-A Milano l’amministrazione comunale procede ad assegnare fior di luoghi a imprenditori/imprese e a loro servili architetti “internazionali” per realizzare le “nuove Milano”, colossali interventi fitti di metri cubi, di grattacieli, di infrastrutture, e poveri di parchi. Il sindaco si vanta di poter esibire nomi risonanti di autori che, poi, di Milano non sanno nulla. Così vanno le cose in questa città irriconoscibile rispetto alla sua storia sociale e architettonica. La sinistra ha contestato fino a un certo punto, anzi, in merito a questi interventi non ha saputo distinguersi, come non si era distinta al momento della rivoluzione fondiaria ed edilizia alla Bicocca sulla base del famoso accordo fra Tronchetti Provera/Pirelli e il Comune, chiara anticipazione dei meccanismi liberisti previsti dalla legge Lupi.

È bene ricordare che il sindaco diessino di Firenze, forse geloso del sindaco milanese forzista e delle previste opere di regime “firmate”, oltre un anno fa annunciava orgogliosamente la “svolta” nella politica urbana, “con l’arrivo di grandi progettisti, da Norman Foster a Jean Nuovel”. Ma…”sono ben quarantasette i comitati sorti a difesa del centro storico e di aree verdi minacciate” (Francesco Erbani, L’assedio degli architetti, Repubblica 20.11.04). E il dibattito democratico? E la ricerca del consenso? E il compito della sinistra per restituire la città rapita dagli speculatori e affaristi ai suoi veri cittadini?

-Esplode sulla stampa una nuova attenzione al problema della casa: riguarda le famiglie che non solo non possiedono un’abitazione propria ma nemmeno ne trovano una in affitto per un canone accettabile. Grande corteo di inquilini a Roma. Risuonano vecchi slogan sulla casa come diritto se non servizio sociale. Il sindaco della decima circoscrizione comunale viene sottoposto a indagine giudiziaria perché requisisce case a Cinecittà per fronteggiare l’emergenza della quale, dice, poco si occupa la politica. Il sindaco Veltroni sembra sorpreso. Un problema che riguarda una minoranza? Sì, ma nel paese le famiglie in difficoltà sono cinque o sei milioni.

La “questione delle abitazioni” ha da sempre richiamato l’elaborazione teorica e l’impegno sul campo della sinistra. Ma la diffusione della proprietà della casa, dapprima lenta poi quasi precipitosa, dimostrazione della necessità delle famiglie di proteggersi col primario bene rifugio dalle difficoltà vitali, ha prima diminuito poi quasi cancellato l’una e l’altro. Al contrario, la sinistra deve riappropriarsi del ruolo perduto e guidare la ricerca della soluzione in senso pubblico del problema, a partire dalle città dove partecipa all’amministrazione o dove incalza i sindaci con una forte opposizione. (Nelle metropoli come Milano e Roma ci sono addirittura migliaia e migliaia di Homeless, figura prima sconosciuta se non nella veste dei pochi barboni milanesi che sembrava creata apposta per poter essere protagonista in belle canzoni di Jannacci).

- Il moto popolare valsusino, forte di un’inaspettata unità e di molte ragioni sociali, ambientali e urbanistiche contesta la ferrovia ad alta velocità Torino Lione (un ventennale sconvolgimento del territorio e della vita) quale scelta sbagliata nel quadro dei progetti e degli interventi prioritari.

Buona parte della sinistra, confondendo, evidentemente, il giusto primato da assegnare al “ferro” avverso alla “gomma” con l’opportunità di non discutere comunque le opere “ferrose”, sembra non sapere che non può, non deve imporsi un’opera siffatta in un paese che: 1) ha continuato ad abolire o a sotto-utilizzare al limite della cancellazione normali ferrovie ritenute secondarie, bollate con la stupida e pretestuosa definizione di “rami secchi”; 2) che negli ultimi dieci anni ha menato colpi di scure su tutta la rete considerata principale, tagliandone parti, chiudendo stazioni, massacrando quelle grandi storiche mediante orribili interventi di commercializzazione degli spazi, gettando la conduzione dei treni – salvo la guida – nelle mani di pochi poveri giovani precari; 3) che ignora di detenere tratte fondamentali della rete dotate di un solo binario, e altre non elettrificate lasciate, come una qualunque strada, all’impiego di vecchi motori diesel.

Vogliamo che la sinistra trovi unità attorno a un programma appunto di sinistra per le infrastrutture di trasporto che vuol dire, per esempio in merito alle ferrovie, dedicarsi primariamente e risolutivamente alla drammatica situazione di cui ai tre punti qui indicati.

- “Distorta filosofia” della destra in materia di territorio, rendita, urbanistica condivisa nella sinistra (Salzano). Forse troppi dirigenti alti e bassi rappresentano una mutazione genetica rispetto ai caratteri degli antenati; così sono in linea coi tempi e i comportamenti producono effetti omologanti il modello di società dominante. Da anni, riguardo al tema città/territorio/pianificazione urbanistica si notano posizioni a sinistra noncuranti del rapporto con la questione sociale e, quindi, della necessità di contrastare i padroni privati del territorio, i manovratori del mercato fondiario ed edilizio. Una sorta di revisionismo edilizio-urbanistico ha portato all’accettazione di violazioni di leggi e norme, alla mancanza di un’opposizione incondizionata al massacro ambientale del paese.

Tutto questo pare coerente al generico revisionismo storico dichiarato dai massimi dirigenti del Pds. Fassino nel suo Passione cerca di sminuire la figura di Enrico Berlinguer, Violante riconosce ai fascisti di Salò ugual diritto che ai partigiani di essere celebrati quali combattenti leali, ancora Fassino accusa la sinistra di doppiezza nel caso delle foibe e D’Alema deplora l’uccisione di Mussolini. Infine, le confessioni di appartenenza alla fede cattolica o il desiderio di meditarvi.

Allora, speriamo nella revisione del revisionismo.

- Bella discussione in eddyburg nello scorcio d’anno su Pil, crescita, sviluppo… parole incomprensibili se rapportate a determinate situazioni reali delle persone e dei popoli. Criticare i modelli che rappresentano, dire parole diverse, dichiarare significati opposti: decrescita, benessere sociale, qualità di vita… Disvelare l’inganno di locuzioni assurde, insensate come quella di “sviluppo sostenibile”. E’ solo il famoso “pazzo oppure economista” di Kenneth Boulding che può credervi.

Tale ossimoro non può appartenere alla cultura della sinistra. Preoccupa che essa si lasci ingannare e manifesti acquiescenza o disattenzione di fronte al credo liberista.

Un sincero augurio di Capodanno ai dirigenti insieme all’invito di farsi un’altrettanto sincera autocritica e così predisporsi al meglio per governare il paese all’incontrario.

Lodo Meneghetti

Capodanno 2006

Pil, crescita, sviluppo… parole finalmente in crisi d’impiego. Quantomeno messe in discussione quali rappresentative di modelli ritenuti incontestabili o fenomeni indubitabilmente positivi. Risuonano altre parole, contrarie, altri significati, oppositivi: decrescita, benessere sociale, qualità di vita… Il monologo ultra-liberista si è inceppato. I frequentatori di Eddyburg sanno (da Pierluigi Sullo) che il settimanale “Carta” e il mensile “Carta. Etc.” diffondono il pensiero di Serge Latouche, uno degli attuali sostenitori della decrescita, appunto. Ora possono leggere Piero Bevilacqua il cui articolo, L’economia conosce la natura?, li rassicura, se si sono liberati dagli incantamenti dello sviluppismo economico, l’insolente economicismo “naturalmente” distruttivo.Hanno potuto leggere qualche giorno fa nel sito la relazione di Carla Ravaioli alla presentazione dell’associazione Rosso Verde il 4 dicembre a Roma, dal titolo programmatico: La sinistra non vede il pianeta terra, un quadro delle gravissime conseguenze sociali, dei danni all’uomo e all’ambiente provocati da un capitalismo che si rispecchia nell’insensato “sviluppo sostenibile” che poi, penso, è a sua volta pena del taglione per i popoli vittime del sottosviluppo e dello scambio ineguale. La sconcertante acquiescenza del centrosinistra verso l’ossimoro s.s. è segno di arretratezza culturale dunque politica. Per questo preoccupa. La stupefacente intuizione di Kenneth Boulding, citata da Carla Ravaioli – “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo oppure un economista”, in un testo parte di una raccolta collettiva uscita nel 1966 (!!) per la Hopkins University Press a Baltimora – è come un seme che dapprima ci pare non aver fruttificato per lunghi anni. Ma negli ultimi sembra che altri semi ne siano derivati, prima un brulicare disperso sotto la superficie percorsa in lungo e in largo dai topi saputi del neoliberismo, infine affiorati per unirsi con la vecchia madre in un globulo consistente che i topi hanno qualche difficoltà a rodere. Insomma, posizioni antagoniste si manifestano ognora di più e si tengono fra loro. Ancora. Lo storico Renato Monteleone ci offre una antologia dal titolo anch’esso emblematico, Il Novecento. Un secolo insostenibile. Civiltà e barbarie sulla via della globalizzazione (Dedalo 2005). Il vertice Onu di Rio, 1992, perorava per ecologia e ambiente uno sviluppo “sostenibile” quando l’intero secolo era trascorso senza che nessuno spiraglio si fosse aperto in questa prospettiva d’altronde falsa per definizione. Gli ossimori non sempre funzionano, anzi quasi mai. Torniamo al principio di Boulding per collegarci a un altro nodo del filo rosso che unisce i critici dello sviluppismo. Anche il biologo, fisiologo e biogeografo Jared Diamond ci avvisa che il nostro habitat è minacciato di distruzione; che stiamo perdendo le nostre limitate risorse; che siamo, noi moderni dei paesi ricchi, irresponsabili ignoranti consumatori-distruttori; che, se posso così esprimermi, ne facciamo di tutti i colori. Anche in questo caso il corposo libro, “una pietra miliare – scrive il recensore – che non potrà essere ignorata” (Einaudi 2005, originale 2004), ci investe con un titolo ben chiaro, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere. A essere sostenibile non può essere lo sviluppo bensì la decrescita. In una intervista Diamond, al consueto ammonimento di non cadere, rivolgendosi alla gente, nel cosiddetto effetto Cassandra, sbotta in una risposta stupenda: “ma vede, in primo luogo Cassandra aveva ragione...”. Il recensore (il geologo Mario Tozzi, in “L’indice” n. 12, dicembre 2005) mette in evidenza due passaggi che dovrebbero apparire originali e fondamentali a chi partecipa, anche in Edddyburg, alla battaglia contro la sessantennale vessazione cui è stato sottoposto il territorio del nostro paese e cui lo sono state, peraltro, le terre le acque e l’aria del mondo intero. Abbiamo continuato a perdere suolo utile, ignoriamo che per formarne qualche centimetro occorrono secoli. E i nostri ghiacciai, fonte di vita e di equilibrio per tanto suolo fertile? Lo scienziato americano racconta nell’intervista di aver osservato nel Montana il fenomeno della scomparsa dei ghiacciai: “l’ho chiamato ‘amnesia del paesaggio’ perché chi ogni giorno vede mutare lentamente il territorio non si rende conto di cambiamenti che sono invece enormi, ci si abitua giorno dopo giorno, e quando il problema emerge è troppo tardi”. Allora. In Italia, come altrove, non ci siamo accorti o ci siamo accorti in ritardo dei mutamenti lenti e continui, ma sarebbe stato facile occuparci delle trasformazioni macroscopiche, opporci a quelle palesemente scriteriate perciò dannose, vale a dire quasi tutte. Il signore del consumo irragionevole di suolo dal dopoguerra a oggi non ci ha dato tregua e procede incrollabile, proprio una crescita infinita, o finita allorquando il signore non troverà più terraferma e s’inabisserà e percorrerà il fondo marino. Aver dedicato la scuola estiva in Val di Cornia al tema del consumo di suolo è stato giusto, anzi un atto dovuto. La superficie dell’Italia è poco più di 300.000 Kmq. Quanti ne sopravvivono ancora relativamente liberi valutabili come suolo agrario o in qualche modo recuperabili a un utilizzo ecologicamente corretto e alla preservabile bellezza paesaggistica?. Non lo sappiamo; sappiamo che da quando si affermava che se ne dovevano salvare ad ogni costo, in prospettiva, almeno 100.000 netti per coltivazioni capaci di rispondere in primo luogo alla domanda interna e anche di sostenere la competizione nel mercato internazionale, è passato un mucchio di tempo durante il quale si sono imposti l’ideologia e il fatto di sviluppo del territorio. Locuzione ancor più assurda di altre dette. A Milano quello che una volta era denominato assessore all’urbanistica è diventato assessore allo sviluppo del territorio. Cosa significa sviluppare il territorio? Parole vuote, per un corretto uso della lingua, invece imbottite di un senso di credibile realtà giacché sviluppare coincide con edificare, occupare terreno con ogni genere di manufatti. Come gli economisti sono le sirene pazze della crescita economica, così troppi urbanisti confondono pianificazione territoriale con inevitabile occupazione di terra libera, aumento di ingombri, aggiunta di un più mai un meno, lo stesso che contraddistingue da sempre i proprietari dei terreni, gli imprenditori edili e fondiari, i commercianti di qualsiasi settore merceologico. Oggi non solo non possediamo di certo quella dimensione agraria altamente qualificata, ma abbiamo distrutto o rovinato gravemente quasi tutti quegli spazi ad ogni modo necessari per utilità ecologica e valore/funzione paesaggistica. Penso a due aspetti esemplari: l’immane sconvolgimento edilizio delle coste, negate per sempre a un progetto di cauta regolazione d’uso; il trattamento criminoso riservato alle montagne mediante migliaia e migliaia di impianti sciistici accompagnati dal corrispettivo alpestre dello “sviluppo” edilizio costiero, con effetti di devastazione finale di boschi e foreste, e delle terre storicamente destinate a pascolo da cui conseguivano prodotti peculiari. Se osserviamo l’entità della costruzione di edifici, limitandoci alle sole abitazioni, notiamo subito che il marcio della Danimarca è in Italia, non lì o altrove. Invito a rivedere, avendone voglia, l’articolo sulle abitazioni pubblicato nel sito il 10 novembre. L’enorme quantità di abitazioni non occupate – oggi quasi sei milioni – in stragran parte seconde case detentrici del primato europeo assoluto e relativo, collima con un ampio tratto dello sfacelo del territorio: che poi è stato maltrattato non poco dalle case supposte necessarie e invece dilagate ben al di là dell’utile. Cos’è infatti un’area metropolitana come quella milanese se non la dimostrazione di uno “sviluppo del territorio” come dilagamento di edificazione distruttiva del medesimo? Perché lo storico meraviglioso policentrismo milanese e lombardo si è trasformato in un magma orribile coprente ogni terra, negatore dei luoghi e dei loro nomi, quando sarebbe bastata un po’ di cultura “olandese” per comprendere quale modernità presentasse la conformazione territoriale donata dalla storia e che su questa si dovesse ricostruire l’habitat? Perché il nuovo piano regolatore di Roma, pur riconosciuto meritevole per il puro fatto di esserci, si è infine smollato a spandere troppe volumetrie a destra e a sinistra preventivando un largo nuovo consumo di terreno? Uno studio di Georg Frisch e Andrea Giura Longo del 2002 (Il consumo di suolo. La dinamica insediativa a Roma e il nuovo Prg) illustra l’andamento del consumo di suolo in quattro decenni. Non sembravano esserci ragioni convincenti di proseguire lungo la stessa strada, semmai contraddizioni anche rispetto al semplice parametro dell’andamento demografico. Temo che le numerose vaste aree per cosiddette nuove centralità, pensate come sperata garanzia di qualità dell’investimento immobiliare, costituiranno invece i cardini di quel processo secondo il quale perdiamo, attraverso mera speculazione edilizia, suolo utile, per formarne qualche centimetro del quale, ci dice Diamond, occorrono secoli. Intanto la maggioranza degli italiani, non solo la classe dirigente politica e imprenditoriale, sembra aver perso del tutto il sentimento del paesaggio, ossia è malata da tempo di quell’“amnesia del paesaggio” che preoccupa lo studioso americano. Se così non fosse non ci arrovelleremmo ogni giorno per scoprire dove persista qualcuno dei paesaggi aperti o urbani conosciuti al vero e ora, talvolta, reperibili solo nei dipinti. A ogni modo il Marchio Italia, ci informa Vittorio Emiliani, “è ancora primo nel mondo per due segmenti: l’arte e la storia. Mentre sta ormai tra il 10° e 15° posto per la natura ed è scivolato al di sotto del 15° per le spiagge”, cioè “laddove (natura e spiagge) si è molto distrutto, cementificato e asfaltato” (in “l’Unità” del 3 dicembre, in Eddyburg la stessa data).

Lodo Meneghetti

Milano, 16 dicembre 2005

Leggo l’afflitto eddytoriale n. 82 centrato sulla rendita immobiliare, fondamento della legge Lupi. Forse mi meraviglio meno, provo meno “sorpresa e amarezza” di Edoardo Salzano davanti alla “distorta filosofia” della destra condivisa nella sinistra. Appunto: se la mutazione genetica di buona parte della sinistra è avvenuta, se i gruppi dirigenti ai diversi gradi nei partiti e nell’amministrazione – dagli alti funzionari e dai parlamentari fino al trascurato sindaco dell’appartato comune – costituiscono oggigiorno un insieme antropologico in linea coi tempi, ossia estraneo ai caratteri degli antenati, allora pensiero e azione ne sono coerenti e possiamo aspettarcene di ulteriori.

Sono anni che notiamo l’incessante succedersi dei nuovi comportamenti, che ne denunciamo gli effetti omologanti il modello di società dominante. Riguardo al tema città/territorio/pianificazione urbanistica, e pure architettura, posizioni divelte dalle radici socialiste, ossia noncuranti del rapporto con la questione sociale e, di conseguenza, della necessità di contrastare i padroni privati del territorio, gli esclusivi ordinatori del mercato fondiario ed edilizio. “Facile” sì sarebbe “fare l’elenco degli episodi” dimostrativi del nuovo corso, ma sarebbe troppo lungo. Che poi nuovo non è: risalendo nel tempo troviamo che la collusione tra finanzieri-speculatori e politici-amministratori, o quantomeno la benevolenza dei secondi verso i primi, attinse sorprendenti risultati quando la sinistra non solo abbandonò ogni retaggio culturale ma anche il vantato primato di moralità. Restammo tramortiti, poveri fiduciosi milanesi di sinistra, dal colpo infertoci da qualche “compagno” che si allineò con i corrotti e corruttori nella Milano craxiana, dovendo poi sopportare l’onta di Mani pulite. (Non a caso Milano, dove l’architetto Lupi è ancora consigliere, anticiperà di anni una legge nazionale ultra-liberista attraverso la semplice abolizione di ogni pianificazione pubblica in favore e in onore delle scelte imprenditoriali nemmeno contrattate seriamente col sindaco e la giunta). Mele marce, si disse allora e in seguito. Non solo di questo si tratta, non delle singole violazioni della legge.

La dissoluzione del sentimento naturale di moralità comportò il rovesciamento delle teorie e della pratica sociale, la condivisione delle idee e delle pratiche lassiste, la subalternità ai poteri forti quando la classe operaia e il sindacato persero numerosità e potenza. Esisteva una volta un’urbanistica di sinistra. Un revisionismo insidiosamente giustificato con certi errori e rigidità (comprensibili queste!) della pianificazione e le difficoltà di tempestive attuazioni (questa, poi, altro che giustificata in un paese non da ora troppo riguardoso verso la proprietà privata) ha portato rapidamente all’accettazione o al tacito gradimento di violazioni di leggi e norme, infine alla mancanza di un fiera opposizione al massacro ambientale, dappertutto, città campagna coste monti. Salzano, davvero sconfortato, non riesce a designare che Renato Soru e Nicki Vendola quali eccezioni della sudditanza agli immobiliaristi; ci invita a segnalarne altre. Ma a che serve citare il bravo sindaco di Vicolungo? Secondo un’altra prospettiva, come avremmo potuto credere che l’Inu, l’istituto di Olivetti e di Astengo, sarebbe caduto nelle mani di colleghi consenzienti anzi sostenitori della totale privatizzazione dell’urbanistica?

Revisionismo della sinistra in urbanistica: in accordo col revisionismo storico latente e infine dichiarato ad alta voce dai dirigenti. Fassino nel libro Passione cercò di screditare la figura di Enrico Berlinguer, emblema indiscusso di moralità unita al prestigio. Proseguì Violante riconoscendo ai fascisti di Salò ugual diritto che ai partigiani di essere celebrati quali combattenti leali. Poi salgono in cattedra di nuovo Fassino per accusare la sinistra di omissione nel caso delle foibe e D’Alema per deplorare l’uccisione di Mussolini. E che dire dell’adeguamento all’andazzo odierno di confessare l’appartenenza alla Fede cattolica o il desiderio di meditarvi?. Perché proprio ora? Perché questa mancanza di riserbo? E taccio del papismo annidato nel centro e nella destra del centrosinistra.

“Segni di speranza”? conclude Edoardo. Speriamo speriamo. Con molti se e molti ma.

28 novembre 2005

“Che succede in Val di Susa”?, “Ragioniamo: a che serve la TAV?”, “Sotto il treno”, “Ma io dico no all’Alta velocità” La Grande Opera che ha provocato la sollevazioni degli abitanti e delle istituzioni locali apre belle discussioni: Edoardo Salzano la mette in un modo, Carla Ravaioli in un altro, Guglielmo Ragozzino e Giorgio Bocca in un altro ancora. Non credo che la virtù stia nel mezzo tra i favorevoli e i contrari, benché non mi senta affatto propenso, in generale, a rispondere solo sì o solo no a certe domande a meno che ciò sia l’unico modo di dichiarare la propria posizione. Voglio dire che non possono aver ragione entrambi, oppositori valsusani e sostenitori illuminati. Salzano fa benissimo a sollevare il problema della mancanza di democrazia nella decisione, quindi a ricordarci i fondamenti della pianificazione democratica: insomma le popolazioni, un po’grette difensori del bene locale devono essere convinte saggiamente dai riformisti agenti secondo gli interessi di tutta la nazione. Questa volta non mi schiero con te, caro Edoardo. Nessuno di noi urbanisti, sociologi, politici e altri, frequentatori permanenti del sito è sospettabile: per semplificare: stiamo tutti dalla parte del ferro contro la gomma – come si diceva una volta – e ci siamo battuti a favore di una politica delle infrastrutture che privilegiasse in assoluto la ferrovia/treno invece dell’autostrada-strada/auto, così come nelle città una politica del trasporto pubblico, in particolare i tram, avverso alle auto per ogni dove. Ma cerchiamo di non trascurare le domande del povero territorio nazionale come fosse una persona che implora con un filo di voce di salvargli le poche residue parti sane del corpo. Per parte mia ho anche pubblicato un pezzo sul sito, un anno fa (16 novembre 2004), del quale ripropongo il titolo programmatico Alta velocità. Morte delle ferrovie (e del paesaggio), alias morte del sistema arterioso, come dire morte del paese. Carla Ravaioli, con la consueta eleganza problematica, riconosce naturalmente l’obbligo del confronto democratico (chi di noi non lo vorrebbe?), tuttavia svolge un filo di pensiero molto originale che, sotto forma di una serie di punti interrogativi secondo un suo modo di dissertare che ben conosco, inerenti a un’alternativa “strutturale” (così le ho detto) nello scambio delle merci in territori ristretti anziché nel territorio globale, lascia intravedere la propria sostanziale opposizione intellettuale all’opera. Da Bocca e Ragozzino, soprattutto dal primo forse per la comune origine piemontese, mi sento ben rappresentato nel negare totalmente l’opportunità di una ferrovia che può sembrare in teoria non così assurda, direi provocatoria e fin da subito condannata come il ponte sullo Stretto o il veneziano Mose, ma che lo diventa nella data condizione del paese – di storia, di società. E di tempi. Come per le metropolitane concepite così in ritardo da renderne aleatoria la realizzazione oggigiorno per puro spavento davanti ai costi del tube svincolato dai tracciati stradali (a parte il prezzo della corruzione come nella craxiana linea 3 milanese), abbiamo perso il tren dell’avvenir e dobbiamo prenderne uno nostro, locale eppur senza cimici. Contestiamo l’AV (in verità denominabile ufficialmente AC – alta capacità – poiché il modello italiano, già verificato tra Firenze e Roma, non permette lo sfruttamento dei 350 Km/h alla francese o alla tedesca, bensì al massimo di 250) quale scelta sbagliata nel ventaglio dei progetti e degli interventi prioritari. Non può essere prioritaria un’opera di tale natura in un paese che ha continuato ad abolire o a sotto-utilizzare al limite della cancellazione normali ferrovie ritenute secondarie, bollate fin dal tempo del centro-sinistra democristiano/socialista con la stupida e pretestuosa definizione di “rami secchi”; un paese che negli ultimi anni ha menato colpi di scure alla cieca (anzi a occhiacci ben aperti da assassino) su tutta la rete considerata primaria, tagliandone parti, chiudendo stazioni, massacrando quelle grandi storiche mediante orribili interventi di commercializzazione degli spazi, gettando la conduzione dei treni – salvo la guida – nelle mani di pochi poveri giovani precari. Altro che nuove tratte “europee” superveloci finalmente anche per noi italiani! Avrebbero dovuto i governi, non se ne salva nessuno, farli rifiorire tutti quei rami, varare una vigorosa operazione di riassetto, completamento e modernizzazione dell’intera rete esistente (cominciando da elettrificazione, doppio binario, negazione delle motrici diesel sulle tratte considerate minori, eccetera). Sapete, cari amici, che, esempio a caso, uno dei trasporti ferroviari fondamentali per le relazioni Italia-Francia-Spagna, da Roma a Port Pou, non usufruisce del doppio binario per intero fra Genova e Ventimiglia? In ogni modo il completamento della rete normale è un obbligo anche per risolvere antiche discriminazioni verso vasti territori e popolazioni: la Calabria e la Sicilia, non prive di tracciati storici funzionanti meglio cent’anni fa (“ il treno si mosse. Vi fu il rauco segnale d’una tromba, poi lo strappo agli attacchi tra carro e carro, lo strappo alla ruote, poi un opaco chiarore che passò entro il vano di una porta, e poi la nera stazione già passata, la nera torre del serbatoio per l’acqua già passata. Comiso già passata nella nera notte di fichidindia cha passava via da sinistra a destra”, Elio Vittorini, La garibaldina); la Sardegna poi, dotata di servizio ferroviario quasi una finzione, tanto che gli abitanti, evidentemente abituati a ignorarlo, non sembrano nemmeno disponibili a protestare e a rivendicarne una riforma. Infine bisogna da una parte migliorare le comunicazioni ferroviarie trasversali nello stivale, dall’altra recuperare o reinventare la coerenza territoriale dei tracciati locali spesso di origine privata pervadenti capillarmente il territorio e persino risalenti le valli specialmente in Piemonte e Lombardia, man mano lasciati degradare, rovinare, sparire e, in qualche occasione dovuta a salvifico clientelismo politico, sostituititi malamente da un’esistente strada percorsa da un autobus affondato nel traffico automobilistico. Quest’ultimo recupero o ricostruzione contribuirebbe soprattutto a mitigare, e di molto, il patimento sopportato da una massa di pendolari per lavoro o studio.

Si osserverà: allora si doveva contestare anche la Bologna-Firenze e altro. Abbiamo condiviso la lotta degli amici triestini del Wwf contro la tratta che massacrerebbe il Carso. La prima invece poteva essere sostenuta quale radicale alternativa alla variante autostradale, sperando che davvero lo spostamento di gran parete delle merci dalla gomma al ferro potesse avverarsi: anche mediante una forte spinta politica, oggi assai dubbia, non bastando certamente di per sé la nuova occasione ferroviaria a convincere gli autotrasportatori. Peraltro non tutti i casi sono uguali. Circa la Milano Torino, oggi perfettamente verificabile nel tratto da Novara al capoluogo piemontese, Giorgio Bocca ha mille, un milione di ragioni, non meno che circa la Val di Susa. Non ripeto qui le sue vive denunce che sarebbe indecente attribuire a un suo presunto piemontesismo. Ma almeno questo voglio ricopiare: “per risparmiare un quarto d’ora di viaggio si è piantata nella più fertile e bella pianura d’Italia una gigantesca linea Maginot”. Mi ero mosso nello stesso senso scrivendo il pezzo a novembre dell’anno scorso. Inaccettabile non è solo la devastazione del paesaggio agrario, di sparizione di un larghissimo nastro di storiche risaie da Galliate a Santhià, ma anche il surdimensionmento ferro-cementizio delle opere d’arte per la ferrovia e il rifacimento di tutto il complesso autostradale che per lo più la fiancheggia: sovrappassi, entrate e uscite coi loro bravi quadrifogli, trifogli, anelloidi come nemmeno nei vecchi album di Gordon e l’imperatore giallo Ming, bordure, barriere, muraglie, pannelloni, reti, pilastroni tanto fitti da reggere non una rampa o un sovrappasso ma una petroliera carica: uno spettacolo impressionante di costruzioni palesemente inutili o esagerate al puro fine di distribuire o incassare denaro. Quindici minuti, forse solo dodici dicono tecnici non collusi con le imprese e certi politici non tutti di destra. Pagati cari.

Andate, andate a vedere; percorrete l’autostrada attenti a non spiaccicarvi perché distratti da tanto teatro dell’orrore. Poi spedite una e-mail a eddyburg.

Quanto alla Val Susa, se avrete l’età adatta la percorrete fra vent’anni potendo scegliere fra nuova e vecchia ferrovia, l’autostrada, due strade statali, varie strade locali, controllerete i tempi. Se vorrete potrete farmi conoscere le vostre impressioni telefonandomi o inviandomi un messaggio scritto: in paradiso naturalmente.

Lodo Meneghetti

11 novembre 2005

Non se ne parlava più, o pochissimo. Pareva che il problema della casa in Italia fosse stato risolto. Se capitava di leggerne sulla stampa notavamo la soddisfazione con la quale si pretendeva di collegare la presunta risoluzione alla diffusione della proprietà dell’abitazione, davvero notevole nel nostro paese. Si tendeva a esagerarne la portata trascurando la maggior precisione che la consultazione dei quadri statistici avrebbe permesso, così da rendere dubbioso chi volesse ragionare sul corso della condizione socioeconomica negli ultimi anni secondo cui è aumentata rapidamente la povertà e soprattutto il divario, giunto a livelli inaccettabili, fra i decili o i quintili o i terzili di famiglie più facoltose da un lato e più indigenti dall’altro. Poveri sì ma proprietari, dunque protetti e ben sopravviventi… Intanto si è consolidata lungo il tempo un’immagine convenzionale del paese che sociologi e giornalisti ci avevano più volte illustrato, un’Italia cosiddetta del 70 e del 30 %. Vale a dire una nazione in cui una bella maggioranza di persone o di famiglie costituirebbe un insieme molto differenziato ma che comprenderebbe, discendendo dal gruppo dei ricchissimi lungo la scala dei redditi – meglio dire delle classi o dei ceti – quelle in grado di vivere con parsimonia ma senza troppe rinunce ai consumi imposti dal modello economico-sociale dominante. Fuor del confine la minoranza estranea al gruppone, anch’essa disposta scalarmene fino all’ultimo gradino della pura sopravvivenza.

La proprietà dell’abitazione a partire dalla seconda metà del Novecento, riconosciuta importante componente appunto protettiva dell’esistenza produttiva e riproduttiva, non rappresenta automaticamente e totalmente appartenenza ai ceti abbienti, né, specialmente, coerenza della misura e della qualità dell’alloggio ai bisogni. Troppi sono i fattori variabili e le domande da introdurre nel tema dei bisogni entro la questione abitativa per affrontarlo qui. A ogni modo si può esser sicuri che una certa quota di alloggi posseduti non corrisponda a un buon abitare anche se il peggio sarà concentrato nelle affittanze.

E, dimenticate le celebrazioni della proprietà, ecco esplodere improvvisamente sulla stampa una nuova attenzione al problema della penosità abitativa, che, si sa, riguarderebbe coloro che la casa non ce l’hanno non solo come propria ma nemmeno mediante un canone accettabile. A Roma un grande corteo di inquilini invade le strade e rilancia i vecchi slogan sulla casa come diritto se non servizio sociale; chiede il blocco degli sfratti, denuncia le distorsioni del mercato: la speculazione edilizia, il fermo alla costruzione o al riutilizzo di case popolari, la cartolarizzazione di beni pubblici che ha prodotto nuovi inquilini precari, il crescente debito delle famiglie con le banche a causa dei mutui. Sembra di tornare indietro nella storia urbana. Non siamo alla battaglia di Corso Traiano a Torino né al successivo sciopero generale per la casa (1969, altri tempi, altre situazioni), ma riguardo alle grandi città qualcuno suona l’allarme. Il sindaco della decima circoscrizione comunale romana viene sottoposto a indagine giudiziaria perché requisisce case a Cinecittà per fronteggiare, afferma, l’emergenza della quale poco si occupa la politica. Il Cresme diffonde i risultati di uno studio: l’affitto è una difficile alternativa alla proprietà dal momento che se il costo dell’acquisto è fortemente aumentato, non lo è di meno il prezzo dell’affitto, anzi nelle aree metropolitane ha potuto toccare l’85% di aumento fra 1998 e 2004 contro il 65% inerente agli acquisti. Affittare alloggi da privati potrebbe significare fra breve una taglia, in media, del 40 % per redditi di 20.000 euro. Quasi una coincidenza, in tutt’altro ambiente sociale: pochi giorni prima ad Alghero filosofi in convegno sul tema dell’abitare avevano riflettuto su una crisi vista, invece che soltanto come scarsità, quale perdita dell’appartenenza al luogo, a una “patria”-radice, un habitat. Pensiamo: chi più sradicato, o in pericolo di esserlo, di chi dis-abita nella paura di non conquistare o di perdere un diritto primario, chi deve lottare per poter vivere in pace in un suo piccolo spazio indubitato (“titolo di godimento” a parte)?

Osserviamo i rilevamenti del Censimento 2001. Forse non è un caso che la ripartizioni degli alloggi fra proprietà e affitto-più-“altro titolo” (gli alloggi relativi a quest’ultimo potrebbe mostrare persino una minor qualità) corrispondesse quasi a quel sociologico 70/30: nel totale nazionale 71, 4 % la proprietà, 28,6 l’affitto più l’”altro titolo”. La proprietà, secondo certe stime recenti, sarebbe faticosamente cresciuta ancora di qualche punto, specchio sicuro della difesa ad ogni costo avverso il ricatto dell’affittanza in una fase storica del moderno in cui il patrimonio abitativo pubblico disponibile sul mercato degli affitti tende a ridursi sempre di più. Faticosamente, ho scritto, pensando alle famiglie che danno il sangue alle imprese e alle banche e riducono tutti i consumi non essenziali – in primo luogo quelli culturali e di svago – per il possesso della casa (non illusorio, spero).

Minoranza tuttavia i privi di proprietà; perciò, mi dicono, il tema non sfonda nella politica nazionale. Se è per questo, nemmeno al centro di quella locale, come dimostra l’avventura romana di un semplice amministratore di circoscrizione. Destino delle minoranze. Che poi possono costituire una massa, come mostrano i numeri assoluti anziché relativi: il totale nazionale delle abitazioni in affitto al momento del censimento ammonta a 4 milioni e 325 mila; aggiungendovi gli alloggi occupati ad altro titolo siamo a 6 milioni 190 mila. Se procediamo dentro i dettagli dei rilevamenti e facciamo qualche semplice operazione, scopriamo il surplus di quasi 200 mila famiglie rispetto agli alloggi occupati, che significa quantomeno 400 mila coabitazioni, peraltro indicate cautamente in altra fonte in circa di 240 mila secondo la dizione “abitazioni con due e più famiglie”. Infine l’Istat, portata secondo una lunga tradizione democristiana a dipingere di rosa la situazione del paese, indica in 22 mila i senza casa definiti compuntamene “non in abitazione” (dove, se no? Baracche, rottami di tende, cartoni, sottoponti, portici, androni e così via): homeless che di certo era difficile contare nella loro presenza/residenza effettiva e che l’osservazione diretta urbana ci dice essere stati molti di più, allora, ed essere aumentati vertiginosamente negli anni successivi.

“Abbiamo prodotto troppe case o, meglio, abbiamo prodotto le case che non servono” disse Pier Luigi Cervellati al Convegno nazionale del Pci su Casa esodo occupazione tenuto a Venezia nel 1973. Era già vero e in seguito diventerà sempre più vero. Una gigantesca edificazione privata diretta alla moltiplicazione della rendita fondiaria e del profitto improduttivo in edilizia, che cedeva opportunisticamente la realizzazione della casa equa, per così dire, agli enti pubblici: invece sempre meno votati a un ruolo di questo genere e finalmente ridotti a non costruire più nulla e semmai a vendere i propri patrimoni immobiliari. Dobbiamo forse rimpiangere l’attività degli Istituti autonomi per la casa popolare (Iacp) prima e persino durante il fascismo, per esempio a Milano e a Roma?

La contraddizione più evidente del mercato in Italia è l’eccezionale quantità di abitazioni non occupate, cresciute senza soste dai primi anni Cinquanta in avanti secondo un andamento che in certi decenni ha provocato l’appropriazione di più dell’intero aumento degli alloggi. Un fenomeno impressionante, un primato: il Coordinamento europeo per l’alloggio sociale (Cecodhas) indica nel 24 % la quota odierna di appartamenti vuoti, quando la media europea sarebbe solo dell’11,8 % e quella relativa alla Francia addirittura di un misero 6,8% (notato sui quotidiani del 20 ottobre). Ma, per maggiori informazioni, torniamo al censimento e leggiamo anche i dati assoluti. 5 milioni e 640 mila le abitazioni non occupate, circa il 21 % del totale. Dunque una certa stabilizzazione proporzionale rispetto a dieci anni prima (21,3, grazie tante) con un ulteriore aggiunta di quasi 400 mila unità. Nuovo scatto negli anni fino a oggi, se ci affidiamo alla stima dell’ente europeo. In ogni caso mancano le parole per designare tale ennesima distorsione economica e sociale del paese. Il fenomeno è dovuto solo in piccola parte alla fisiologia della compra-vendita e degli affitti. La fetta di case vuote nelle città e al loro contorno comprende un patrimonio reso dalle immobiliare artificiosamente indisponibile al fine di provocare un effetto di compressione sulle abitazioni pronte per la vendita o l’affitto, così da aumentarne il prezzo. La stessa funzione svolge la trasformazione della destinazione – reale o formale – da abitazioni a uffici nei periodi convenienti. Ma l’insieme degli alloggi vuoti nelle città, nelle aree metropolitane e nelle aree non turistiche, insomma quelli non definibili “seconde case”, anche le case definitivamente abbandonate, per esempio nel mezzogiorno e dappertutto sulle montagne, non supera il 5-6 %, che del resto non è poco. (A Milano, da tempo maestra di deregulation, siamo quasi all’8 %, nella provincia al 6,7, nella regione lombarda a oltre il 14 %, evidente riflesso della presenza di ampie aree turistiche). Dunque la stragran parte del parco alloggi statisticamente non occupato è imputabile alle seconde, e terze, e quarte… case, cioè alle abitazioni che il linguaggio statistico definisce quali “destinate a vacanze e fine settimane” (ma l’Istat le conteggia erroneamente, in maniera incerta e insufficiente). I quasi cinque milioni di tali abitazioni accreditate per l’oggi, dopo cinquant’anni di recita da protagoniste del mercato, rappresentano l’essenza dello spreco, delle “case che non servono” e indicano un ulteriore divario sociale. Da una parte i possessori di una casa primaria, un’altra al mare, spesso una terza in montagna o ai laghi o in collina; da un’altra i poveracci che scendono in piazza e gridano dimenticati proclami del movimento operaio. Osservazione demagogica? Chiedo il permesso di immaginare un crudo contrasto fra una famiglia dei primi e un’abitazione-vita di un’altra che si adatta in un basso di Napoli, oppure una donna anziana sola, pensionata, che si arrabatta in una stanza di un’ultima residuale casa a ballatoio col cesso sul medesimo nel quartiere Ticinese-Genova a Milano: ormai tutto in mano ai padroni di un mercato rivolto alle élite che invadono le zone ex-popolari della città.

Lodo Meneghetti

9 novembre 2005

Pasticci, contraddizioni, assurdità nella protesta di un gruppo di architetti italiani contro gl’incarichi assegnati in questi ultimi anni ad architetti stranieri (vedi nel sito gli articoli riprodotti da giornali, gl’interventi, i documenti, date 10, 11, 18 settembre a partire dagli articoli di Pierluigi Panza sul “Corriere della sera” del 7 e 8). “Grandi” architetti contro “grandi” architetti, meglio “grandi” nomi contro “grandi” nomi? Sì e no. Infatti qualche firmatario dell’appello appartiene egli stesso, come i noti stranieri disputati, al jet set internazionale dell’architettura; il nome di qualcun altro, poi, è piccolo. Altri italiani non sottoscrittori (come Fuksas e Bellini), pieni di incarichi anche all’estero, vantano un proprio disinvolto internazionalismo privo di dubbi spendendo banalità sulla globalizzazione, un po’ mitigate da una certa differenziazione dai colleghi riguardo a questioni rilevanti, come la mancanza di opposizione all’abusivismo e ai condoni (dice il primo) o l’avvertimento a non cancellare le soprintendenze ma a riformarle e a qualificare maggiormente i concorsi (dice il secondo). Mi fermo subito alla motivazione più sconcertante contenuta nell’appello, appunto l’accusa alle soprintendenze di essere loro specialmente responsabili del mancato “sviluppo in Italia della nuova architettura”. Questa è davvero grossa. Qui si fanno carte false. Quali sarebbero le “molte opere significative rimaste sulla carta” a causa del “diritto di veto dei soprintendenti”? Non credo che a tal proposito si debba distinguere fra italiani e stranieri, e bado ai fatti. Una delle ultime contese ha riguardato, dal principio del 2004, la costruzione dell’auditorium progettato da Oscar Niemeyer per Ravello. Ampie discussioni in Eddyburg, documenti pro e contro, firme e controfirme… Per quasi tutti i frequentatori del sito l’opera violava le regole urbanistiche esistenti, inoltre danneggiava gravemente la funzionalità e la bellezza dell’ambiente, per parte sua già oltre i limiti della sopportabilità edificatoria. La soprintendenza, davanti all’arrogante decisionismo del Comune sostenuto da tanti nomi non tutti belli della cultura, del giornalismo, del management insofferenti della legalità, lasciò fare, l’auditorium vinse la partita. All’estremo opposto temporale una delle prime contese a vasta risonanza, quella relativa al progetto di Wright per il Memorial Masieri sul Canal Grande (vedi anche nel sito il mio Pirani non docet, 7 maggio 2004): un caso completamente diverso. Si intendeva inserire un edificio di modeste dimensioni in un breve tratto della cortina lungo il Canale. Le istituzioni locali e no, soprintendenza compresa, bocciarono il progetto, meravigliosamente (wrightianamente) ispirato alla storia alla natura ai sentimenti, accecate dal pregiudizio verso un’architettura moderna ritenuta comunque offensiva di un presunto inesistente stile del Canale: quando la cortina, lo sappiamo, espone architetture di cinque o sei secoli che è solo la forza della continuità e della partecipazione della strada d’acqua a tenere insieme. Fu il Comune, ossia la grettezza degli amministratori, più che la soprintendenza, a manifestare da subito il vero e proprio odio verso il progetto. Stessa sorte, per la medesima ragione, ebbe in seguito il progetto di Le Corbusier per un ospedale. Non è possibile un discorso risolutivo sui presunti impedimenti delle istituzioni contro la modernità in architettura. In sessant’anni è successo di tutto nel nostro paese, oggi lo abitiamo come fosse passata una terza guerra. Che ha devastato e soprattutto, come in un ossimoro, ha costruito costruito costruito, case e cose, al 99 per 100 estranee alla buona architettura e al disegno intelligente se non emblemi di inutilità, bruttezza e corruzione morale. È questo semmai che rivela la debolezza o la atarassia o l’opportunismo di certe soprintendenze, vuoi superate dai poteri dei politici e degli amministratori locali, vuoi strette anch’esse nel cerchio dei favori, delle collusioni e degli imbrogli pilotati dai proprietari fondiari e dagli imprenditori coi loro affidabili alleati dei governi e delle amministrazioni. La buona architettura, pochissima per definizione, praticamente invisibile girando il paese, si è introdotta dove ha potuto e le soprintendenze c’entrano poco. Tuttavia non sono mancati funzionari indipendenti, liberi e coraggiosi che hanno praticato la difesa a oltranza contro i nemici dei beni architettonici e artistici. Filippo Ciccone cita giustamente Adriano La Regina, il difensore di Roma inviso ai potenti (ha lasciato la carica, quasi costretto, a giugno dell’anno scorso), il difensore dei soprintendenti decentrati il cui “potere totalmente autonomo” (nell’appello), inaccettabile per gli appellanti sorprendentemente disinformati, non è più tale da anni a causa delle riforme strutturali (per esempio l’istituzione di direttori regionali di nomina politica) e delle forme di neo-centralismo governativo che però un “ministero ormai allo sfascio” (Ciccone) non riesce a gestire: La Regina, il soprintendente ai beni archeologici ritenuto inflessibile che in definitiva ha accettato la nuova sistemazione dell’ Ara Pacis in base al discutibile progetto di Richard Meier, anni fa membro di un gruppo il cui linguaggio fu definito da certi studiosi iper-razionalista.

Vado avanti con gli esempi. Il bravo architetto ticinese Mario Botta, straniero per modo di dire, condividendo l’appello, candido o furbo apprezza il centralismo e sprezza la figura del soprintendente. Grazie tante. Un po’ di pudore per favore! Jacopo Gardella, nell’articolo del 18 settembre in “la Repubblica” qui riprodotto, denuncia (senza far nomi, chissà perché) la scorrettezza, anzi la sostanziale illegalità dei due più importanti “interventi monumentali di questi anni” a Milano, la ristrutturazione della Scala e il nuovo teatro Arcimboldi, definiti e attuati senza concorso pubblico. Botta ebbe l’incarico comunale per la Scala su promozione di Sgarbi quando questi era sottosegretario, vale a dire del potere centrale, centralistico si vorrebbe dire. Ora, ripeto ciò che pochissimi nel nostro ambiente hanno osato obiettare: nessuna soprintendenza gli impedì di costruire la grossa inutile torta cilindrica che ci godiamo dalla piazza, volgendo le spalle a Palazzo Marino, di fianco all’imponente volume scenico e al di sopra del tetto del palazzo ex Biffi-Scala. Ma, si sa, criticare l’assurda costruzione vuol dire essere bollati come incapaci di comprendere la validità del linguaggio moderno parlato legittimamente accanto all’antico o ad altra lingua; inoltre è raro un giudizio critico da architetto ad architetto se entrambi appartenenti al gruppo ristretto degli italiani migliori e/o noti. Inutile, perché l’esigenza rappresentata dal volume destinato genericamente a sevizi era superata dall’acquisto dell’edificio in Via Verdi confinante con il complesso scaligero e perfetto, nella sua bruttezza da rimediare attraverso un bel progetto di riconfigurazione, per contenere quei misteriosi servizi (e perché misteriosi? Perché anche nelle visite guidate che la Scala offre la visione del cilindro all’interno è semplicemente non è ammessa). Suona male, caro Botta, il ricordo del vecchio divieto veneziano. Intanto, nel disinteresse delle soprintendenze ma anche degli architetti supposti colti, universitari e no, Mario Botta compreso, era stata distrutta la deliziosa Piccola Scala, opera Novecento di Piero Portaluppi indispensabile per le opere liriche appunto piccole, per quelle in forma di concerto e così via.

L’atteggiamento di Gregotti, progettista del teatro Arcimboldi oltre che di un intero pezzo di città sensazionale esempio di espansione urbana fuor di ogni piano o idea complessiva preventivamente dichiarata (più volte oggetto di riflessioni in Eddyburg), rivela le contraddizioni e le ambiguità che l’imprudente ricorso ad affermazioni radicali e corporative costringe a vivere. Lui firma l’appello, poi si mette da parte avvertendo l’esagerazione di aver incolpato le soprintendenze per un presunto mancato “sviluppo italiano dell’architettura” e ne richiede soltanto minor burocratizzazione e maggior qualificazione culturale, penso verso l’arte e la società: dotazione quest’ultima che forse non è troppo abbondante in suoi colleghi italiani o stranieri e che invece dovrebbe esigere, lui che colto è, quando osino dar lezioni di comportamento. Poi anche Gregotti dà un saggio di candore o di strana schizofrenia: la causa principale dell’invasione straniera, accanto al basso livello culturale di molte amministrazioni pubbliche, sarebbe dovuta alla “struttura dei concorsi”. Quale struttura quali concorsi, quand’egli, come ricorda Jacopo Gardella, ha partecipato all’infrazione delle regole europee e dell’etica professionale attraverso l’assegnazione privata del progetto Arcimboldi. Ad ogni modo il tema dei concorsi è quello sul quale gli appellanti avrebbero dovuto mobilitarsi seriamente e non solo per quei capestri verso i giovani denunciati ancora da Gardella. Mi riferisco soprattutto ai falsi concorsi come quello indetto dal Comune di Milano per l’area della Vecchia Fiera: non un confronto fra progetti autorali veri ma una gara fra imprese invitate che offrono un prodotto col suo prezzo quasi chiavi in mano (ma che poi potrà essere molto diverso). Ogni impresa o gruppo di imprese trascina con sé un architetto necessariamente famoso a scala di mercato globale dell’architettura (è questo che probabilmente fa privilegiare il ricorso a nomi stranieri altisonanti), lo utilizza come un’effige pubblicitaria, assume i suoi rendering o modelli quali informazioni figurative più o meno fantasiose per épater la impropria giuria dell’improprio concorso. Gli architetti avrebbero dovuto attaccare pesantemente il risultato: quell’indecente progetto Hadid-Isozaki-Lebeskind, i tre famosi al servizio della cordata vittoriosa Generali-Ligresti-Lanaro-Grupo Lar Desarrolos Residentiales: le tre torri ora note a quasi tutti i milanesi grazie all’impressionante battage della giunta municipale e contestate dai residenti nella zona, tre ognuna per sé dalle forme insensate, che non sanno organizzare lo spazio, che accettano l’incredibile scarsità di verde (altro che nostro Central Park propagandato dal sindaco Albertini), che rivelano la totale incapacità di ascoltare Milano, la sua storia, la sua crisi (per un quadro degli interventi in ballo a Milano vedi nel sito i miei Le nuove Milano estranee. L’architettura servile, 30 ottobre 2004, e Non- architettura a Milano, 19 luglio 2004). Ecco il punto debole che i più bravi architetti italiani e in particolare i milanesi, purché irreprensibili nei loro gesti professionali e culturali, dovrebbero denotare in colleghi stranieri chiamati da imprenditori e imprese di costruzioni a servirli: l’impreparazione o l’inettitudine a capire il contesto del progetto e dell’opera, a introiettarne la storia i valori e i sentimenti mentre lo si avvicina fin dal principio: non bastano le visite sul posto per risolvere il problema. Si obietterà che lo stesso varrebbe per architetti italiani molto attivi in altri paesi, come i globalisti Fuksas, Bellini, Benini… Beh, se rivendicano un internazionalismo architettonico indifferente, vuol dire che dei contesti se ne impipano. Le contraddizioni non hanno fine, peraltro: come può un Gregotti, che al massimo riconosce se stesso in un “internazionalismo critico”, formula di comodo d’altronde, progettare intere città in Cina? (Non so, apriamo finalmente una vera discussione sull’architettura, che forse è morta davvero come è morta l’urbanistica dalla quale si era separata, perciò indebolendosi anziché rafforzarsi come si era potuto credere: “è morta quale mestiere civile comunitario di lotta o almeno di avvertimento verso l’individualismo che ignora il contesto sociale-spaziale e pretende solo l’esaltazione del sé – anche quando il risultato appare, a chi esercita i propri sensi e dunque sa riconoscere proprietà e bellezza, irrimediabile errore e inopinabile bruttezza”, La partecipazione in urbanistica e architettura. Scritti e interviste, Unicopli, Milano 2003, p. 82. Cade a proposito qui il ricordo della pesante critica – finalmente! – dell’oscillante Gregotti ai progetti per Ground Zero: “… tutta la vicenda architettonica che ha accompagnato con solerte e interessata prontezza la tragedia dell’11 settembre è stata una rara collezione di stolti esibizionismi personali… sotto l’insegna del Guiness dei Primati – ha vinto naturalmente chi ha proposto il grattacielo più alto [Daniel Lebeskind] – e dell’assenza di ogni sobrietà espressiva”, in “la Repubblica”, 2 marzo 2003. Spero che l’autore del duro giudizio non se lo sia concesso stante la foreignness dell’architetto). Non peroro alcun regionalismo architettonico; ma non dimentico che la crisi del Razionalismo italiano ed europeo fu dovuta anche o soprattutto all’omologazione di uno stile internazionale posto al di sopra della storia e dello spirito dei luoghi, un pensiero senza sbocchi di fronte alle pressanti domande poste agli urbanisti e architetti dalle città, salvate o disastrate, appena finita la guerra.

Imprenditori/imprese e architetti: gli appellanti, invece che sparare su nemici inesistenti, dovrebbero combattere contro il predominio, purtroppo oggi ben consolidato, degli immobiliaristi e quindi denunciare l’umiliante sudditanza degli architetti sia in occasione dei falsi concorsi o gare, sia quando vengano scelti come da un padrone il suo maggiordomo. Come accettare, per esempio, la volgare arroganza di un qualsiasi Luigi Zunino, giovane personaggio inesistente per i cittadini se non i pochi attentissimi agli intrighi finanziari e fondiari e borsistici, arrivato tardi sulla scena milanese esibendo il mestiere di “sviluppatore”, che vanta di “scegliere il meglio”, di qua un Norman Foster di là un Renzo Piano quasi fossero marionette appese al filo? (articolo del “Corriere” dell’8 settembre). Si obietterà che è destino degli architetti, da sempre, di essere prescelti dai potenti e dai governanti per i maggiori progetti. Sì, ma Zunino o Ligresti o Lanaro o Tronchetti Provera non sono Giulio II o Sisto V, e il lombardo governatore Formigoni, che ha scelto Ieoh Ming Pei per il personale “grattacielo più alto d’Europa”, non è l’urbinate duca Federico di Montefeltro.

Milano, 22 settembre 2005

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