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Le città fallite. I grandi comuni italiani di Paolo Berdini ...(continua a leggere)

Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano di Paolo Berdini ha comportato un seguito. Voglio dire che nel tempo trascorso da allora ho ripensato lentamente a un tema suscitato dall’autore. Il risultato è questo articolo.

Berdini comincia il suo intervento in maniera inaspettata, originale, spiazzante. Molto utile però ai presenti fra cui numerosi giovani studenti del Politecnico, che suppongo fossero informati delle ultime vicende urbanistiche e architettoniche della città e conoscessero almeno l’essenziale degli eventi storici. Egli racconta del suo arrivo in treno e della decisione di andare dalla stazione Centrale alla “Nuova Milano” di Garibaldi – Repubblica – Isola. Quella di cui l’amministrazione civica e certi commentatori menano vanto. Quella dei grattacieli gettati lì senza un piano particolareggiato del Comune. Venuta su così per iniziativa liberista e irregolare di società immobiliari, banche, presidenza regionale; non discussa e non controllata in alcun Consiglio pubblico.[1]

Quella che cerca di ingannare i cittadini o di corroborarne la pigrizia sensoriale denominando “piazza” uno spazio indistinto, sbadato, fuggevole, inurbano: per di più dedicato a Gae Aulenti, la collega, l’amica che si sarà rivoltata nella tomba, lei che nell’operare privilegiò, come potette, la finitezza, la riflessione, il garbo. Hanno voluto, tutti gli implicati nel gigantesco fallo urbanistico-architettonico milanese manifestare il loro odio verso le meravigliose antiche piazze italiane depositarie di bellezza e di esemplarità dei rapporti umani che la sottendevano. Loro vogliono cancellare il retaggio storico, vogliono importare i mostruosi paesaggi di Dubai, di Doha, del Quatar… Non è un accidente che proprio questi grattacieli siano finiti alla fine di febbraio in mano agli emiri: impressionante, va detto, la coerenza dei nostri autori.
Il fondo sovrano del Qatar è ora il proprietario unico di questa parte di Milano. Un pezzo di un paese straniero è qui. Straniero non solo dal punto di vista economico (i capitali, si sa, volano attraverso l’aere-mondo e atterrano dove gli conviene, ossia dove desiderosi nuovi sudditi o servi gli aprono le porte), ma per la conformazione degli edifici e degli spazi a imitazione dei luoghi originari. Aveva dato l’annuncio in conferenza stampa Manfredi Catella, il capo di Hines sgr, sprizzando intorno soddisfazione e perfino gioia. Spiegando che il fondo già detentore del 40% scalava la china fino alla vetta (100%), concludeva con veritiero realismo che esso “è il padrone di casa". Quanti milanesi sentirono ghiacciarsi il cuore? Forse pochi, se dessimo ascolto alle cronache di consensi e persino entusiasmi manifestati da certi visitatori.

Berdini dinanzi al borgo del Quatar sbalordisce; dice di essere incredulo, addolorato: perché “Milano è bella”. “Milano è bella”, ripete.

Come dobbiamo interpretare quest’affermazione netta, sicura? Che Milano era bella? Che lo fosse ancora, dopo i fervidi apprezzamenti di Stendhal, prima della grande guerra e ancora negli anni Venti oso dirlo, benché non fossero mancati gl’investimenti anche molto estesi lautamente remunerativi della rendita fondiaria laddove svettava il primato nell’accumulazione dei profitti industriali (comprendenti sostanziosi trasferimenti dall’agricoltura). Rievocando la forma della città, gli elementi urbani costitutivi, la pianificazione, l’architettura nel trascorrere del tempo dal tardo neoclassico all’eclettismo al liberty al primo Novecento, parrebbe resistito una sorta di vincolo a tenere insieme non a slegare la città, anche in mancanza di un obbligo regolamentare a farlo.

Simbolo indiscutibile ne è la strada residenziale, con gli allineamenti degli edifici in base e in altezza nei tracciati sia retti che curvi, quest’ultimi di origine medievale: una costituzione storica che ha segnato le epoche senza perdere nessun germoglio di vita e così assegnare al luogo-strada (parallelamente al luogo-piazza) un compito sociale, di per sé sorgente del bello quando vince l’unione contro la divisione. E dove il modernismo ha cercato nuove costituzioni ben prima della negazione dei razionalisti radicali (“il faut tuer la rue corridor”, Le Corbusier. Tuer = ammazzare, assassinare) non ha disperso le case ma le ha radunate circoscrivendo uno spazio comune. Cito un esempio dei primi anni del XX secolo: seguendo via Porpora da Piazzale Loreto si incontra all’angolo con Viale Lombardia, segnalato anche dalla guida del Touring Club, un quartiere della Società Umanitaria realizzato entro il 1909 su progetto di Giovanni Broglio. I fabbricati di tre o quattro piani, noti anche per nuovi caratteri distributivi delle abitazioni, furono disposti solidalmente attorno a una corte centrale, comprendente i servizi utilizzati originariamente anche dall’attiguo e coevo quartiere dell’Istituto (comunale) per le case popolari ed economiche.

Solo con la revisione del razionalismo schematico, prima da parte di Enrico Agostino Griffini (il più anziano degli architetti moderni attivi a Milano) propenso a un ripensamento storicistico, poi di Piero Bottoni col progetto del Quartiere Gallaratese (1955-56, non realizzato), rinasce l’attenzione all’eccezionale contributo dato dalla strada italiana all’abitare bene, socievole, al di là della funzione famigliare dell’alloggio. Bottoni propone la “strada vitale”, una tipologia che da un lato vorrebbe richiamare la tradizione, dall’altro rappresentare la rottura razionalista: corpi bassi continui lungo i bordi per il commercio, i servizi sociali e culturali, le attività artigianali minute (la “vitalità”, dice Bottoni) e alti volumi per le abitazioni retrostanti ed estesi in lunghezza perpendicolarmente ai corpi bassi, e molto distanziati fra loro. Questa soluzione, sebbene non sembri disponibile a collaborare all’”assassinio”, non può tuttavia vantare una reale parentela con la strada storica. Infatti, manca la residenzialità (e le attività vi si mescolerebbero), mancano le famiglie le persone che vi abiterebbero incrociando le loro vite, i rapporti umani che ne nascerebbero. Quegli alti fabbricati si distaccano in tutt’altra condizione spaziale e sociale, secondo una specie di ritorsione lecorbusieriana.

Ben più duri giudizi meritano tracciati denominati “via”, “corso”, “strada” quando non ne hanno la minima rispondenza storica. La storia l’hanno buttata in frantumi gli autori proprio “assassinando” le vere strade insieme a vasti contesti. Per soluzione famosa – e non lo è troppo! – nomino la “racchetta”, prevista dal piano regolatore del 1934 e malinconicamente non negata dagli architetti milanesi negli anni Cinquanta: Corso Europa, Via Larga, Via Albricci, “balordo stradone”, “stradone micidiale” come lo chiama con disprezzo Antonio Cederna, “arrestato in piazza Missori sopra il cadavere di San Giovanni in Conca”.[2] Grossi edifici in lungo in largo in alto, molti “firmati”, interamente dedicati agli uffici, alla finanza e al commercio; delle migliaia di abitazioni preesistenti nessuno si ricorda, a meno di qualche vecchio (etiam ego) che vide da giovane sbriciolare le sobrie case unite nell’allineamento viario, rappresentative di quella celata bellezza tipicamente milanese che altrove ho definito architettura neoclassica da capomastro. Il sopravvissuto palazzo Cinque-Settecentesco Litta Cusini in corso Europa, debole e smarrito, sembra sul punto di essere schiacciato dalla pressione dei nuovi fabbricati che lo fiancheggiano.

Siamo alla ricerca della città “bella”. Cerchiamo l’essenza umana, la bellezza intima, non quella monumentale di cui peraltro Milano è ricchissima. Dal fascismo al dopoguerra ai decenni corsi uno dopo l’altro attraverso incontenibili cambiamenti strutturali[3], la mala urbanistica e la sorella speculazione fondiaria ed edilizia hanno imperversato fino ad oggi non facendo caso su quale tipo (socio-economico) di città piombassero i danni irreversibili (basti accennare alla perdita di mezzo milione di residenti) spacciati per benefici. Il caso e la coerente azione non potevano che esibirsi dove il successo già ottenuto chiamava, quando sembrava inconcepibile rinunciare alla concentrazione. Doveva essere il centro storico, già prescelto dal fascismo, in particolare il centro del centro vale a dire l’area all’interno della Cerchia dei Navigli, il luogo delle manomissioni che man mano avrebbero marcato sempre più chiaramente la natura e la funzione di Milano: banche, assicurazioni, uffici finanziari e fiscali, sedi commerciali dei prodotti di lusso …

Ma non sempre la manomissione coincide con la demolizione di begli edifici e la costruzione intensificata di nuovi volumi, al peggio accompagnate dalla cancellazione di interi contesti storico-sociali. Talvolta la trasformazione strutturale non comporta pesanti alterazioni esterne. Facciate allineate di case e palazzi di vecchia nobiltà o di borghesia produttrice, oppure resistite case un tempo abitate da ordinarie famiglie milanesi nascondono le nuove realtà: che nulla c’entrano con la vitalità di spazi residenziali posseduti dalle persone e riversata nell’umanità dei rapporti negli spazi pubblici. Forse dobbiamo accontentarci di un’estetica dell’apparenza? Intanto le banche più potenti che già si distinguono per la conquista di interi palazzi da spaccare nell’interno, alle volte preferiscono ostentare inserimenti vandalici di grossi volumi personalizzati da clamorose bruttezze architettoniche.

Camminiamo nelle piccole strade dietro e di fianco alla Scala, nell’intrico fra Broletto, dell’Orso, Verdi, S. Margherita. Siamo nel super centro, in un vecchio tessuto viario. Buona parte delle cortine ci appaiono come descritto sopra, ma non mancano gli accecamenti e i colpi al cuore. Via Filodrammatici (con la piazzetta dedicata a Enrico Cuccia, località e nome simboli indiscussi della potenza finanziaria della città) si presenta decorosa ma laggiù in fondo si staglia uno spaventoso doppio sopralzo. Giriamo, attraverso via Bossi, in via Clerici, per riscontrare la presenza del settecentesco omonimo palazzo esteso lungo la strada; conosciamo i tesori che conserva. Dirimpetto incombe un gigantesco edificio moderno di sorprendente bruttezza, per di più bianco abbagliante come il gesso e con il corpo centrale arretrato per ottenere maggior altezza: ora proprietà della più potente banca nazionale ma costruito a metà degli anni Cinquanta per uffici Olivetti su progetto di noti architetti “di fiducia”, fra cui il giustamente stimato in ambito olivettiano Marcello Nizzoli (di qui la sorpresa).

Inoltre la pesante massa bianca preme lateralmente contro il leggero palazzetto del Circolo filologico milanese, una degna testimonianza di architettura liberty. Se prima di entrare nel palazzo Clerici proseguissimo per la breve via San Protaso sbucando nella larga via Santa Margherita vedremmo incombere ai due angoli dell’imbocco due esorbitanti edifici bancari, perfetto esempio di quell’inserimento vandalico disinvoltamente accettato dall’amministrazione pubblica. Ritorniamo in via Clerici e per estraniarci entriamo nel palazzo antico. Saliamo lo scalone e andiamo a stupirci nella lunga Galleria degli arazzi coperta a volta, stiamo lì sotto il favoloso affresco di Gianbattista Tiepolo (doppio significato dell’aggettivo: per il soggetto e per la qualità). È questa la bellezza che cerchiamo? Essa fa parte della riserva di capolavori d’arte che Milano, a parte la dotazione nei musei e nelle gallerie private, custodisce in qualche palazzo signorile e soprattutto, in gran numero, nelle chiese. Una messe che ogni tanto ci concede di immedesimarci in un altro mondo che non quello dell’inquietudine metropolitana.

Stiamo cercando, come si è visto, un’altra bellezza, quella della città costruita, urbana e umana, per questo abbiamo insistito sul legame tra forma del luogo (strada, piazza...) e residenzialità, tra spazio famigliare e spazio pubblico. In mancanza di tale coerenza, come in gran parte dei quartieri entro la circonvallazione “spagnola” che hanno buttato fuori le famiglie residenti, dovremmo accontentarci di quel che la forma della città offre ancora nelle parti scampate ai vandali, magari ferite ma non assassinate, se non rovinate dagli stessi milanesi.[4] Insomma, dovremmo apprezzare la scena urbana, sapendo che mancano i veri attori e al più vi brulica la “vitalità” nel senso bottoniano. Di tali occasioni Milano ne offre non poche. Ognuno si cercherà le sue, nessuno pretenderà che sciogliamo le complicazioni di questo articolo con un elenco da guida turistica.

Invece invitiamo a ritrovare la bellezza come qui interpretata ai margini esterni della circonvallazione, in zone residenziali (specialmente strade e viali) dove conta il contributo di buona architettura dell’Ottocento e del Novecento ante guerra mondiale. Ora impiego (anche) la prima persona singolare e chiudo dichiarando la mia scelta di luogo esemplare in cui il conto delle diverse parti che concorrono a costruire il tutto torna, soddisfacendo la nostra equazione della bellezza: è un insieme di strade poco al di là dei Bastioni di Porta Venezia. Qui si concentra un gruppo eccezionale di case liberty, magnifiche facciate, sorprendenti particolari d’interni negli accessi, decorazioni ben integrate nell’architettura, sculture, mosaici di ceramica, pezzi di artigianato del ferro …, ogni opera di architetti e artisti contribuisce a costruire una scena urbana unitaria e unica: che, però, non ci basta per distinguere la bellezza urbana.

Percorriamo le strade e capiremo che nelle mirabili case allineate e coese (ah, la sprezzata rue corridor) risiedono famiglie persone, vedremo le stesse mescolate ad altre da altrove provenienti muoversi e incontrarsi; ci domanderemo infine se l’architettura d’autore, così vivida e felice nel caso dell’art nouveau contribuisca a rendere gli spazi dell’abitare, interiori ed esteriori, più sicuramente conformi al desiderio di benestare. Via Frisi, via Malpighi, via Melzo… Hotel Diana (ne sapete la lunga storia). Seguiamo il profumo dell’arte floreale e scopriamo non troppo lontano via Pisacane, l’altra rue dove la bellezza dell’unione residenziale (in un quadrante del piano “ottocentesco” dell’ingegner Cesare Beruto) è sostenuta ancora un volta da una fortissima coerenza dall’architettura liberty in una successione di case costruite al principio del XX secolo.

[1] Un’architetta interpellata da un giornalista ha detto che “Milano ha il grattacielo nel suo dna perché ha eretto la guglia del Duomo con la Madonnina …”.

[2] Antonio Cederna, L’inutile rovina,”Il Mondo”, II°,28 febbraio 1956, poi in I vandali in casa, Laterza 1956; nuova edizione 2006, ridotta, a cura di Francesco Erbani con sottotitolo Cinquant’anni dopo).

[3] Cfr. in Eddyburg il mio Com’era Milano e com’è al tempo dell’esposizione, 22 aprile 2015.

[4] Richiamo all’altro testo da affiancare a quello di Antonio Cederna: L’Italia rovinata dagli italiani. Sottotitolo di copertina Scritti sull’ambiente, la città, il paesaggio 1946-1970. A cura di Vittorio Emiliani, Rizzoli, Milano 2005. Antologia di articoli pubblicati prevalentemente sul Corriere della sera.

Me l'aspettavo, non per questo ho provato meno rabbia. Guardo ora i giornali su internet. Tutti ignorano il successo della manifestazione dei diversi movimenti... (leggi tutto)

Me lo aspettavo, non per questo ho provato meno rabbia. Sfoglio i giornali su internet. Ignorano il successo della manifestazione dei diversi movimenti compatti con i loro slogan contro le grandi opere inutili e costose, contro le scelte neoliberiste del governo. Invece raccontano, fotografano le azioni del “blocco nero”. Nessun giornalista dice chiaro che i blocchisti hanno potuto fare tutto quello che volevano, completamente liberi, senza il minimo ostacolo. La polizia assisteva agli incendi delle auto, alla rottura delle vetrine, agli imbrattamenti e non so a che altro come fosse davanti a una recita teatrale, a una finzione. Più violenza, più convenienza, non è difficile capire per chi. Mai visto scene paradossali come quelle in cui i blocchisti, prima vestiti come tutti, indossavano la divisa tutta nera dal cappuccio alle scarpe tenuta nei loro sacchi e, indisturbati, procedevano come programmato; poi si spogliavano del nerume, riponevano o gettavano, si rivestivano da bravi ragazzi e se ne andavano.

Non voglio apparire dietrologo, ma come non pensare che, quantomeno, i capi della polizia se la godessero. Qualcuno chiede le dimissioni di Alfano. Il sindaco Pisapia gli ha attribuito la responsabilità del mancato intervento. Fortunatamente i poliziotti, che a Genova avevano massacrato gli inermi innocenti, non hanno avuto bisogno di ripetersi. Bastava l'esito della perfetta strategia del laisser faire, laisser passer: come nei processi economici, per i quali questa locuzione di un economista settecentesco rappresenta oggi la necessaria mancanza di qualsiasi vincolo. Ognuno faccia il cavolo che vuole, ogni dirigente nell’economia, nella politica, nella società sia singolo blocchista incappucciato ma riconosciuto nel gruppo. Come il Klu Klux Clan.

Pochi giorni prima il settantennio della Liberazione aveva superato certa stanchezza celebrativa degli anni scorsi. Grande partecipazione di giovani, anziani e vecchi, un corteo lunghissimo, pieno di simboli e di suoni; 150.000 persone per testimoniare la vitalità di un retaggio storico che i rigurgiti di fascismo anche in una città medaglia d’oro della Resistenza non potranno mai spegnere. Saranno questi osceni rigurgiti a essere ricacciati in gola ai vomitanti. Magnifici, antiretorici gli interventi in Piazza Duomo, specialmente quelli di un’insegnante di 33 anni e del presidente dell'Anpi Smuraglia (92!), entrambi incalzante denuncia della condizione gravissima del paese nell’economia, nella politica, negli assetti sociali, nella cultura.

Ricordavamo la manifestazione del 1994, l’enorme corteo sotto la pioggia rispecchiamento dell’opposizione radicale al governo Berlusconi: che dopo pochi mesi cadrà. Ieri nessuno poteva credere che il governo attuale fosse davvero in pericolo, tuttavia nasceva la speranza che un’opposizione sociale di sinistra degna del nome diventasse viva opposizione politica e agitasse la “morta gora” delle alte istituzioni, in verità miranti, vuoi rumorose vuoi quatte quatte, a demolire la Costituzione un pezzetto dopo l’altro.

Intanto si inaugurava l’Esposizione universale. Ne ho scritto l’11 aprile insieme a un po’ di storia sociale milanese (Com’era Milano e com’è al tempo dell’Expo) e lì rimando. Ho visto le immagini dei padiglioni, e dintorni, in una rassegna fotografica: un trionfo inconcepibile del Kitsch. Del resto il Kitsch, ormai, è considerato un movimento d'arte. Un’infestante festa rutilante di forme liberamente scriteriate del tutto prive di un qualche legame con la ricerca architettonica (non basta la scusa della provvisorietà). Ho già segnalato in altra occasione che per simboleggiare la mostra si potrebbe scegliere il padiglione della Thailandia, la cui coerenza al tema agrario (“Nutrire il pianeta…”) consisterebbe nell'averlo costruito in forma di cappello delle contadine.

Dalle prime interviste sembra che i visitatori siano entusiasti dell'”architettura” dei padiglioni. E dell’inverosimile ”albero della vita”? (mi auguro che cada in testa al progettista e agli organizzatori, se si riuniranno lì sotto per adorarlo).

Fra tre settimane gli incolpevoli cittadini milanesi residenti cominceranno a soffrire l’ingiusta pena causata da colpi e contraccolpi dispensati alla cieca dal Moloch-Expo >>>

Fra tre settimane gli incolpevoli cittadini milanesi residenti cominceranno a soffrire l’ingiusta pena causata da colpi e contraccolpi dispensati alla cieca dal Moloch-Expo, col suo corpaccione obeso, le braccia gonfie come in una grassa divinità d’oriente, i tanti lunghi tentacoli come nel polpo gigante abili ad avvinghiare per intero la città e a soffocarla fino all’ultimo respiro di morte.

Cadeva il ventotto marzo il settimo anniversario della votazione che premiava la città governata da una destra berlusconiana impersonata dal sindaco Letizia Moratti Brichetto, ricca moglie di silenzioso petroliere. Come il settimo sigillo appena aperto dall’Agnello «e allora il primo angelo die' fiato alla tromba”, (ma poi “ne venne grandine e fuoco misto a sangue»). Diede, la nostra intrepida, fiato alle trombe (e la fortuna la preserverà dal resto). Un’indefessa azione lobbystica verso gli ambasciatori dell’Unesco aveva sconfitto Smirne (Izmir) che in seguito perdette anche la corsa con la potentissima mostruosa Abu Dhabi per l’Esposizione del 2020. I festeggiamenti di gusto buffonesco li ricordiamo come la patacca che sancirà per sempre il cambiamento, anzi il completo rivolgimento della società urbana. Il corteo carnevalesco lungo Corso Buenos Aires, stradone commerciale per eccellenza, parve dire «questa è la città del vendere e del comprare, la comunità che tratta e scambia e brucia nei consumi e nella speculazione la merce a cominciare dalla più preziosa, il denaro».
La Milano «dei nostri tempi», famosa per essere l’unica delle maggiori città italiane a detenere una struttura industriale articolata in miriadi di settori produttivi, non sottoposta all’egemonia di una sola o poche grandi fabbriche come Torino (private) o Genova (pubbliche) ha resistito per quasi tre decenni dal dopoguerra, quando poteva ancora presentare i cittadini milanesi secondo una struttura sociale ricca per differenze ma anche per unitaria identificazione urbana. Sopravvivevano le due classi dal cui confronto (e antagonismo) proveniva il dinamismo economico e culturale della città: la borghesia produttrice depositaria di un certo sentimento civile, non ancora discesa per sempre nel gorgo dei giochi finanziari e della connessa speculazione fondiaria e edilizia; la classe operaia, forte per numerosità e coscienza di sé (classe “per sé” diremmo riesumando il vecchio vocabolario), non ancora massacrata e disossata dall’imperversante e vittorioso neoliberismo oltranzista; e, non più classe, dispersa in pezzetti residuali negli anfratti dello sprawl metropolitano in cui la città medesima, ormai estranea al retaggio storico, affondava. (Per non dimenticare: nel 1963 la lotta degli operai dell’Alfa Romeo aveva strappato un nuovo contratto in cui l’aumento salariale rappresentava un chiaro spostamento del reddito dal profitto al lavoro).

Al principio degli anni Sessanta Milano è anche città industriale in ogni senso. Quasi la metà dei residenti attivi sono operai (484.000), ma gli addetti all’industria (in gran parte operai), cresciuti continuamente, sono poco meno di mezzo milione sicché il tasso di industrializzazione (rapporto fra addetti, approssimativamente posti di lavoro, e popolazione residente, 1.583.000) tocca il 31%, il massimo dal dopoguerra. Il confronto fra i residenti attivi nell’industria e i posti di lavoro mostra la prevalenza delle entrate in un pendolarismo giornaliero incessante. Vale a dire: si veniva a lavorare a Milano nell’industria oltre che nel terzo settore; un processo storico di lunga durata soltanto interrotto, e non completamente, dai momenti più duri della guerra.

Ai primi anni del decennio Settanta la popolazione residente, sempre aumentata dal 1945, è tanta quanto non era mai stata e mai più sarà, circa 1.740.000 unità (censimento del 1951: 1.274.000). Gli operai che risiedono in città sono diminuiti del 17%, ma all’interno di una popolazione attiva in corso di riduzione anche per ragioni di struttura demografica rappresentano il 41%. Gli addetti industriali, sebbene ancora molti, 435.000, non nascondano sintomi di deindustrializzazione, d’altro canto indicano la persistenza di una forte domanda verso il territorio extra urbano e dunque l’incongruenza del mercato delle abitazioni – in altre parole la mancanza di case popolari – rispetto alla realtà del lavoro e dei diritti dei lavoratori. Eppure vibra ancora nell’aria la parola d’ordine gridata nei cortei del grande sciopero del 1969, “casa servizio sociale”. Intanto diventa sempre più intensa la richiesta di impiegati negli infiniti luoghi del terziario, detto “settore dei servizi” mentre servizio sociale sarà sempre meno e sarà sempre più coacervo finanziario, commerciale, speculativo, persino affaristico mafioso. Le sue sedi invaderanno spazi urbani di ogni genere, dapprima capillarmente edifici residenziali fino a che i noti grandi volumi “firmati”, simboli, per noi, della fine ingloriosa dell’architettura e dell’urbanistica, andranno, come mostri frankensteiniani camminanti attraverso la città, a cercare e a coprire le aree libere più belle, che avremmo voluto destinate al bene comune. La rendita fondiaria intrinseca alle costruzioni si riprodurrà sempre, qualsiasi sia il loro destino, compreso quello di rimanere vuote per mancanza di domanda. Come capiterà sempre più spesso, ci sia o no crisi economica generalizzata..

Con il trascorrere degli anni Settanta e nei decenni successivi a Milano infierisce il sovvertimento demogra­fico che trascina con sé lo squilibrio sociale. La popolazione residente diminuisce senza sosta fino a che al principio del nuovo millennio il censimento rivela una perdita impressionante di 560.000 unità: come se a una persona normale fosse prelevato un litro e mezzo di sangue. Una città ridotta a 1.180.000 residenti, a causa di improbabile scelta anti-urbana di famiglie o di certa espulsione per impossibilità di trovare un al­loggio adeguato al reddito da lavoro, anche per la cronica penuria di abitazioni pubbliche in regime di Aler (azienda lombarda di edilizia residenziale, un’azienda come altre), non può essere la città vera. Che riconosciuta per equa nu­merosità di persone stabili, per equilibrio di settori economici e di attività delle persone, per proporzione fra diversi ceti sociali sarà molto difficile ritrovare. Gli operai “milanesi” per abitazione, occupati in città o altrove che, come si è visto, oltre mezzo secolo fa imprimevano sui residenti un chiaro marchio di classe lavoratrice tradizionale, sono diminuiti assai più velocemente dell’intera popolazione. Il loro peso, già ridotto al 10% all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scotso, ora è trascurabile. Anche la Milano residenziale d’oggi, che esibirebbe tristemente un nuovo sa­lasso di quasi centomila persone se non fosse per il contributo degli stranieri “regolari”, ben 265.000 (anagrafe 31.12.2013, residenti totali 1.354.000), non può ribaltare la propria verità sostanziale. Mostra però che l’antica vocazione a ospitare allogeni non è morta. Grazie a loro potrebbe profilarsi un futuro demografico e sociale meno statico. Solo una speranza.

L’altra Milano, quella del giorno, se così si può dire, con la massa di impiegati pendolari che forse portano la popolazione presente in queste ore a due milioni, neanch’essa è la città vera, giacché non recupera nulla del carattere storico dell’autentica modernizzazione (doveroso ossimoro). Come sbandierava il corteo morattiano: monocultura commerciale dominante con la classe speculatrice che la impersona: contro la ricchezza culturale della città che abbiamo amato e abbiamo perduto. Sarà proprio l’Esposizione a convalidarla. Dal disperato luogo dei padiglioni, tradimento della primaria idea di presentare davvero le coltivazioni dei paesi del mondo, agli assi stradali radiocentrici, al centro-centro della città: i pellegrini si uniranno alle folle durevoli per invetriarsi davanti o dentro le migliaia di spettacolari brutti negozi di abbigliamento e accessori in continuo cambiamento, cuore del riciclaggio mafioso, o di bar aggiustati in falsi ristoranti-pizzerie campioni del risotto milanese fornito surgelato a notte fonda dall’”organizzazione” e rigenerato nel forno a microonde.

Quanti anni sono passati dalla funesta decisione governativa di ammettere l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione versati dai costruttori ai Comuni per le spese correnti...>>>

Quanti anni sono passati dalla funesta decisione governativa di ammettere l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione versati dai costruttori ai Comuni per le spese correnti, gravissima violazione della norma che li destinava solo alla realizzazione dei servizi primari e secondari? Dimenticato, se non da qualche milanese, il nome del meritorio autore, Pietro Bucalossi. A quel tempo ci rimanda Paolo Berdini (in eddyburg 19 febbraio, da una pubblicazione esterna del 17). Anno, 2001; nome e co­gnome del primo responsabile, Franco Bassanini ministro del governo Amato e presunto esperto amministrativo di centrosinistra. Quanti altri responsabili in seguito, se in quasi tre lustri numerosi governi si sono succeduti perdurante fino a oggi il disimpegno generale dinnanzi allo scandalo, salvo le poche voci isolate risonanti qua e là, come in Eddyburg? E ora si sentono giustificati a causa della crisi e dei conseguenti buchi scavati nei bilanci locali dai tagli dei trasferimenti statali. Eppure certi disastri c’entrano poco con la crisi; risalgono a indebitamenti cresciuti lungo anni di gestione negligente e scorretta esercitata da amministrazioni precedenti alle attuali. Ne elenca e commenta alcune Berdini, a cominciare dal caso clamoroso di Roma. Aggiungo Milano la cui giunta comu­nale, non credo accusabile di mala gestione economica, ha dovuto caricarsi dei debiti accumulati nelle due tornate precedenti dominate dal centrodestra, Gabriele Albertini e Letizia Brichetto Moratti i sindaci.

La crisi comincia nel 2008. Dunque dal 2001 per cinque anni l’opposizione del centro sinistra ha taciuto, come se nel suo insieme approvasse le conseguenze laceranti verso un territorio già ridotto a brandelli. La voce, benché flebile, del Comitato per la bellezza lo certifica: quel tipo di finanziamento è un duro colpo alla “speranza di salvezza per il già intaccato paesaggio italiano”. La conquista del governo da parte del centrosinistra suscita in noi, come nel romanzo di Dickens, “Grandi speranze”. Ma non conoscevamo a fondo la vocazione totalmente centrista se non destrorsa dei partiti che lo costituivano. I governi “nostri” (per modo di dire), invece di cancellare la “porcata” bassaniniana, non solo la confermano ma con la legge finanziaria del 2007 la protraggono di tre anni. Nel seguito, dal 2010, nessun politico accenna al problema; se lo facesse “perderebbe il posto”. Infatti la crisi si spande anche sul settore edilizio riducendone l’occupazione, mentre i Comuni, intendo quelli bene amministrati, si arrabattano fra la diminuzione delle risorse finanziarie a meno di aumentare le tasse già alte e la contrarietà a ridurre le prestazioni dei servizi sociali o a lasciarle in mano ai privati, si sa inaccessibili alle famiglie più bisognose.

Eppure non bisogna arretrare dalla posizione contro l’impiego perverso degli oneri. E, insieme, dire chiaro che la diminuzione delle opere edilizie di ogni genere in un paese distrutto dal costruire costruire costruire, come una rapallizzazione globale, sarebbe il principio da rivendicare e poi da applicare (non c’entra qui la ”decrescita felice”). Gli edifici giunti a tale insensata numerosità, dappertutto, da lasciarsi alle spalle enormi scie di costruzioni vuote, si pensi ai famigerati capannoni, agli uffici nelle grandi e medie città, alle seconde terze quarte case (intanto continuavano a mancare le case popolari pubbliche); le infrastrutture di trasporto tanto più inutili quanto più tronfie, si pensi fra una miriade di casi alla mai abbastanza vituperata, per eccesso di assurdità, TAV Torino Lione, o alla nuova autostrada Bre-Be-Mi, ottima per veloci corse coi pattini a rotelle, tanto è sicura stante l’assenza di traffico motoristico (intanto era trascurato e tagliato il fitto e indispensabile tessuto minore, specialmente quello ferroviario, una volta vanto della nazione): tutto questo è materia del nostro tormento per aver perso tante battaglie urbanistiche pur aspramente combattute, è materia inoltre della vergogna di troppi, istituzioni partiti e persone, per poterli elencare qui e riassumerne forse per l’ultima volta le malefatte.

Ricordo la crisi edilizia del 1965. La congiuntura, estesa a tutto il territorio nazionale, fu quella di un settore industrialmente arretrato in cui per due decenni avevano imperversato gli speculatori sulle aree fabbricabili e no, le nuove immobiliari, gli imprenditori di ogni genere, le imprese di costruzioni: tutte aziende e personaggi che avevano fatto guadagni colossali in regime di bassi salari e sfruttamento di immigrati, sottraendo capitali agli investimenti produttivi. Tuttavia, temendo che la pacchia finisse, si lamentavano cercando di incolpare una legge urbanistica che non c’era, ferma al progetto Mancini, il quarto dopo i tentativi di Zaccagnini, Sullo e Pieraccini, peraltro dimenticato da mesi nei recessi del ministero. La verità era che si era costruito troppo, malamente, brutalmente, secondo l’obbiettivo di moltiplicare e intrecciare rendita e profitto il più rapidamente possibile.

Oggi, la crisi generale sembra comprendere inevitabilmente un settore che invece, anche senza questa situazione, doveva flettere perché, come ancora Berdini ci ricorda, “abbiamo costruito troppo”, “abbiamo il doppio dell’urbanizzato” rispetto ai paesi europei a settentrione. Insomma, indipendentemente dall’indecente, benché talvolta forzoso impiego improprio degli introiti da concessioni di costruire, da tempo sindaci e giunte approfittano dei loro enormi poteri decisionali e della generale debolezza del Consigli (conseguenza della radicale riforma voluta da destra e sinistra poco meno di vent’anni fa), poi degli ulteriori poteri trasferiti dalle Regioni ai Comuni in tema di paesaggio, per dispensare concessioni edilizie che distribuiscono ingiuste ma apprezzate, da essi stessi, extra-rendite. Ad ogni modo troppi sindaci hanno mostrato una tale propensione a edificare indistitamente il territorio che certe lacrime per dover ricorrere agli oneri di urbanizzazione ai fini di bilancio sono sospette. Un’infinità di episodi denunciati anche in Eddyburg hanno rivelato il loro fastidio verso gli strumenti costituzionali o consuetudinari o culturali atti a difendere il territorio (il paesaggio) dagli immancabili aggressori: a curarlo, a conservarlo per le generazioni future.

«Probabilmente, se qualcosa merita di essere rammendato, è prima di tutto una seria interdisciplinarità >>>

«Probabilmente, se qualcosa merita di essere rammendato, è prima di tutto una seria interdisciplinarità, che non vuol dire (come succede con certe riviste) invitare qualcuno per un commento collaterale »Questa conclusione di Fabrizio Bottini (Postilla a "Periferie: una rinascita senza ghetti", di Vittorio Gregotti, 5.01.14) che dà la precedenza alla «seria interdisciplinarità» in margine a una discussione sulle periferie («rammendare», Renzo Piano) mi ha fatto riflettere, messo da parte il tema delle periferie, a cominciare dall’esperienza nella facoltà di architettura di Milano. Nel lontano passato, nella nostra vecchia scuola del dopoguerra e in seguito fino alla prima contestazione degli studenti nel 1963, non casualmente avvenuta nel corso di urbanistica tenuto da Luigi Dodi, indiscussa era l’indipendenza di ogni insegnamento sia nei contenuti che nel metodo. Era assicurato, per tranquillità dei professori titolari, l’isolamento di ogni disciplina poiché mancava un vero programma di facoltà volto a costruire una figura di architetto dotato di una cultura professionale capace di riunire le diverse competenze separate in un unicum di ordine superiore.

Quando toccò a noi di insegnare, l’enorme ritardo dell’università di fronte al nuovo rapido mutamento sociale che esigeva conoscenze di inusitata ampiezza, si doveva «eccedere» nel dotare di complessità e ricchezza informativa la proposta didattica: soprattutto nell’urbanistica «contando sulle proprie forze», magari accettando tranquillamente l’accusa di essere rischiosamente totalizzanti e non prudentemente specializzanti. D’altra parte prosperavano, ancora, ambienti di sola, cieca, antistorica specializzazione, per di più a basso livello. Mancava invece un argine sicuro, costruito col contributo di tutti, contro la semplificazione dei problemi, contro l’abitudine a non mettere in relazione un problema con un altro, contro l’ignoranza dei processi economico-sociali che soprintendono alla costruzione del territorio e della città. Contando sulle proprie forze si è cercato di costruire almeno un filare di sacchetti di sabbia.

L’architettura, l’urbanistica, l’architettura degli interni, il restauro e la storia avevano bisogno l’una dell’altra, potevano rompere i propri recinti e guidare gli studenti verso più ampi orizzonti della conoscenza. Per parte sua l’urbanistica doveva aprirsi alle scienze umane (economia, geografia umana, sociologia…) non tanto quale contributo di «esperti» per così dire esterni, quanto per propria capacità di introiettarne l’essenziale: allo scopo di trasformarsi da mediocre tecnica a sapere molteplice e unitario in grado di agire conformemente ai mutamenti continui del reale. Avevamo letto in pochi, alla prima pubblicazione in Italia nel 1964 grazie a Feltrinelli, il saggio di Edgar Percy Snow Le due culture (1959 in Inghilterra). La radicale divisione fra cultura umanistica e cultura scientifica sembrava insuperabile. Snow conduceva un’intensa battaglia affinché esse dialogassero, ma il risultato fu che, dopo un momento in cui «almeno si sorridevano freddamente attraverso l’abisso che le separava, la cortesia è venuta meno – scriveva – e si fanno le boccacce». La scuola aveva la sua parte di colpa, come «l’eccessiva specializzazione degli esami universitari di Oxford e di Cambridge».

Non rinunciammo al nostro compito, cercando di completare in noi stessi l’acquisizione di una cultura composta. L’interdisciplinarità era applicabile da subito, per gli insegnanti di urbanistica (la nuova urbanistica «aperta») e di architettura disponibili al confronto, cominciando dall’unità fra l’analisi e il piano o progetto e dalla compartecipazione delle due discipline non solo nel disegno urbano. Su queste basi fondammo un laboratorio denominandolo Formazione storica, uso e progetto del territorio e impostammo la didattica come intreccio fra l’una e l’altra categoria.

Nonostante i tentativi fatti allora nell’università e qualche riflesso all’esterno raccolto da pochi urbanisti e architetti (i migliori), ora l’urbanistica e l’architettura vivono quanto mai del tutto separate. La prima non ha affatto concluso quel processo di introiezione delle scienze umane che sperimentammo a scuola; la seconda sembra dominata da alcuni autori internazionalisti (stupidamente detti «archistar» dalla stampa corrente e dalla pubblicità) stretti alleati delle più potenti aziende immobiliari per poter realizzare enormi, mostruosi oggetti completamente estranei ai contesti sociali: come fossero derivati da modellini-soprammobili da ingrandire cinquecento volte. (Se c’è un’altra architettura seriamente propensa a ricercare, insieme all’urbanistica, soluzioni ai problemi anziché rappresentare solo se stessa, l’ombra dei suddetti King Kong la oscura, la cancella).

Ad ogni modo è necessario ancora, oggi, selezionare i temi che l’ottica territoriale e urbana (anche nel senso della scala) impone all’attenzione e, ricuperando senza remore la portata dell’interdisciplinarità e della molteplicità, trattare in modo originale la questione del piano-progetto del territorio e della città. L’esame della realtà e della cultura dominante dimostra che quanto a costruzione di un habitat specchio di una migliore qualità della vita in particolare dei ceti subalterni ben poco o nulla è successo. Anzi, il passato è meglio del presente, il futuro potrebbe sancire il pluridecennale disastro.

La trasformazione capitalistica del territorio, nel processo storico, mostra che a dati modi e rapporti sociali di produzione corrisponde una certa configurazione generale. Ogni problema posto nello spazio e nel tempo marca il rapporto che una determinata formazione economico-sociale-politica instaura col territorio, diverso da quello di un altro periodo storico o di un altro luogo. Quanto più si è dato uno sviluppo delle forze produttive, delle forze sociali, dei rapporti di produzione tanto più profonda è stata la modificazione dei paesaggi (vedi il saggio di Lucio Gambi, I valori storici dei quadri ambientali, nella Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1972, I vol. I caratteri originali, pp.5-60).

In Italia la conformazione dello spazio risente del manchevole riformismo della borghesia e della «razza padrona». Altrove ciò è avvenuto, pur senza violazione sostanziale dei processi territoriali compatibili con i rapporti capitalistici. Anche il mutamento del rapporto fra redditi da capitale e redditi da lavoro a favore di questi ultimi, per esempio al tempo dello statuto dei lavoratori, del nuovo contratto all’Alfa Romeo (1963)…, o la variazione di peso fra le forze politiche localmente e nazionalmente non hanno comportato una modificazione apprezzabile del «codice» di appropriazione classista (direi padronale) del territorio. La cultura urbanistica e architettonica e la cultura degli amministratori locali non sapevano indicare traguardi chiari e superiori, inoltre hanno mancato gli obiettivi più scontati: varare più leggi, approvare più piani dedotti da quelle, gestire un’urbanistica in mero senso applicativo di norme e indici quantitativi (standard).

Così un’urbanistica riduttiva anziché aperta come l’avevamo provata nella scuola e un’architettura estraniata da qualsiasi contestualità sopradisciplinare non potevano risolvere nessuno dei problemi territoriali-sociali che la comunità si trovava di faccia. Il piano (come il progetto «edilizio») normativo,«regolare», rappresentazione di un illusorio egualitarismo distributivo avulso da una realtà che si manifesta in termini socio-economici e territoriali di dominio/dipendenza, egemonia/subalternità, ricchezza/povertà, diveniva contributo inconsapevole a coprire le contraddizioni esistenti: quando non a falsificare le componenti quantitative e qualitative dello sviluppo o a facilitare la riproduzione o la restrizione della forza lavoro secondo le esigenze del capitale, e l’espansione o la riduzione dei consumi popolari.
Se si adottano leggi e norme nuove – e in Italia ciò non è avvenuto nei periodi cruciali in cui altri paesi capitalistici vi hanno provveduto, dallo scorcio dell’Ottocento agli anni Trenta – senza che nascano nuove culture degli urbanisti, degli architetti, degli amministratori pubblici, delle masse (oso dirlo) e si confrontino attorno ai nodi irrisolti, ne consegue che non sono superati né l’inefficacia del gestionismo ritenuto oggettivo né l’angustia del «buon governo» né certo burocratismo del controllo edilizio. Sicché non si riesce a fondare le basi di un progetto di territorio davvero conforme ai bisogni (saputi o «insaputi») della grande maggioranza della popolazione.

Il Partito democratico si è rivolto al sindaco Giuliano Pisapia in maniera perentoria se non ultimativa >>>

1°- Il Partito democratico si è rivolto al sindaco Giuliano Pisapia in maniera perentoria se non ultimativa chiedendogli di dichiarare pubblicamente adesso se intenda candidarsi (fra un anno e mezzo!) per un secondo mandato. Il sindaco, sorpreso per la scorretta intempestività della pretesa, l’ha respinta seccamente al mittente. L’episodio non è di scarsa importanza, come è parso ai molti che l’hanno ignorato nei commentari, o sminuito o classificato fra le gaffe dei renziani, bravi allievi del loro maestro. Un breve intervento amichevole, ieri, di un dirigente locale, non ha aggiunto né tolto nulla al senso dell’episodio.

2°- L’amministrazione comunale milanese vive fra mille difficoltà, deve sbrogliare, oltre a una lunga serie di intoppi d’ogni giorno legati alla condizione materiale urbana e ai bisogni correnti degli abitanti e dei commuters, almeno due problemi giganteschi: il primo, talmente pesante da finirne schiacciati, appiattiti come la sogliola bidimensionale del dottor Robinson, quello dell’Expo; il secondo quello delle case, chiamate popolari in altri tempi, patrimonio pubblico gestito dall’Aler, Azienda lombarda edilizia residenziale, erede immeritevole del rimpianto Istituto autonomo della case popolari (Iacp).

3°- L’ansiosa realizzazione delle opere per l’esposizione universale, questa maledizione (dico fin dal momento della ridicola gara con la debolissima Smirne), caduta su una Milano guidata da una pimpante (allora) Letizia Moratti, raccolta come un obbligo dalla nuova amministrazione sorta dalle elezioni del 15 e 29 maggio 2011, avviene attraverso una vicenda che intreccia ritardi, mancanza di finanziamenti, corruzione, pasticci urbanistici, errori nella scelta delle priorità nel tempo che corre indefesso verso l’inaugurazione. E, sopra di tutto o a comprendere tutto, è valsa ben presto la diserzione da un modello di contenuti che rispecchiasse davvero lo slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Ne è conseguita infine la soggezione dell’ente pubblico a un altro modello: l’obbligazione, come una dura cambiale in scadenza, in primo luogo verso le proprietà, per acquisire l’enorme superficie destinata all’esposizione a un prezzo spropositato stante la destinazione agricola, poi verso le ipotetiche aziende costruttrici per concedere loro un mucchio di metri cubi, al fine di recuperare i soldi spesi.

4°- Lo stato del patrimonio pubblico di abitazioni dopo decenni di abbandono da parte dell’azienda regionale è così grave da richiedere immediati interventi di emergenza, che vorrebbe dire incollare soltanto qualche cerotto sulle piaghe infette. L’Aler, il cui bilancio 2013 presenta un buco di 345 milioni, secondo Nando Della Chiesa presidente del Comitato antimafia del Comune di Milano “è una dei bubboni milanesi”, è “un carrozzone” responsabile di una malagestione di decenni. Come potrà essere ribaltata in una conduzione pubblica ripulita dalle sozzure più inquinanti e in grado di cominciare a risolvere il nuovo “problema della casa” (così ci esprimevamo ai tempi delle lotte)? La malattia è in fase acuta, quasi terminale. Il Comune ora ha deciso di assumersi una piena, decisiva responsabilità superando la gestione Aler dell’intero patrimonio pubblico. Ha ottenuto di scorporare e di accollare a sé le abitazioni popolari milanesi. Sono oltre 28.000 delle oltre 61.000 totali. Proprio quelle contraddistinte da casi materiali o sociali più difficili, che costringono il sindaco e la giunta, esposti agli attacchi insidiosi di leghisti e destromani grondanti razzismo e odio verso gli immigrati, a trattarli senza indugio magari correndo il rischio di sbagliare o di compiere scelte non immediatamente comprese specie dai movimenti sociali. I temi: censimento preciso delle reali condizioni di tutte le abitazioni, piano di ricupero delle case degradate o rese inabitabili, reperimento delle risorse finanziarie, assoluta chiarezza del sistema di assegnazione degli alloggi, diagnosi veritiera sull’acuità della crisi sociale, cioè sfratti, morosità, occupazioni abusive e conseguenti sgomberi (discutibili secondo Libera di Don Ciotti), appropriazione mafiosa di beni comuni, organizzazione mafiosa di un mercato di assegnazioni abusive di appartamenti vuoti.

5°- Ho richiamato per Eddyburg questi due argomenti, Expo e case popolari, già discussi nell’ambito della sinistra in modo più ampio e spesso decisamente critico verso l’amministrazione comunale, per rapportarli a quella mossa apparentemente incomprensibile del Pd (vedi punto 1°). Sono convinto che questo partito, ormai libero da qualsiasi legame con la tradizione socialista, come si può costatare dal comportamento giorno per giorno in mille frangenti della politica e della pratica sociale, non voglia, anzi non possa sottoscrivere prospettive discordanti dal proprio nuovo modello neoliberista e antisindacale. Già perfettamente connotato ora dalla stretta alleanza non solo con una destra spacciata per moderata (Ncd) ma con tutta la destra non leghista, essendovi compatibile e attivamente partecipe lo stesso Berlusconi (FI), corre veloce, attraverso la progressione dell’idiosincrasia dopo che per il socialismo persino per la democrazia, verso la costituzione renziana del Partito della Nazione. Caduta la D risorge una N di Nazionale appartenuta prima a un PNF poi a un’AN e rilanciata ora nel rigiro di una storia che forse, sotto quest’aspetto, ha finito di fare i conti.

6°- Sono convinto che il sondaggio del Pd circa le intenzioni del sindaco di Milano sia meno una gaffe e più una debole copertura di trame che si provino a intrecciare nei retropalchi chiusi della politica dove il gioco dello scambio le esige. Giuliano Pisapia e la sua amministrazione sono nel mirino renziano: potrà sopravvivere un esperimento come quello lanciato nelle elezioni milanesi del 2011 e vivente attraverso prove pesanti, critiche da sinistra anche meritate, ma anche non disattento come le precedenti gestioni Albertini e Moratti al funzionamento razionale della città, meno succube di queste agli attori della rendita finanziaria e della speculazione edilizia, infine assai più sensibile alle domande sociali che si moltiplicano senza sosta nella metropoli? Dobbiamo stare, vecchi e giovani militanti della sinistra, con le orecchie ritte e gli occhi aperti. Non possiamo essere corresponsabili, anche in minima parte, di soluzioni alternative per Milano che, di fatto, mediante trasferimento a livello locale delle alleanze già praticate dal Pd e certamente rafforzate dal futuro Partito Nazionale, sbanchino il campione amministrativo milanese per insediarne un altro adatto ai magatelli obbedienti ai nuovi potenti. Non voglio dire che di qui in avanti dobbiamo evitare qualsiasi critica ai nostri eletti; dobbiamo ad ogni modo farlo come stimolo a ritrovare la soluzione migliore dei problemi circa i quali l’effetto maligno delle esagerazioni e delle menzogne dei nemici talvolta è garantito. Sono sicuro che Renzi e accoliti hanno accettato se non proposto di discutere con gli alleati del destino di Milano alle prossime elezioni amministrative. Probabile candidato sindaco Maurizio Lupi, l’attuale attivissimo ministro “caterpillar” delle infrastrutture, per noi milanesi, per noi urbanisti rinomato emblema di invincibile distruttore del bene comune rappresentato dal territorio e dalla città pubblica. Vi piacerebbe al posto di Pisapia?

Allora scelgo il titolo del pezzo: Difendere difendere Milano

Milano, 25 novembre 2014

Si è cominciato tre decenni fa con i parcheggi sotterranei, inventati da un’amministrazione di sinistra, e si è continuato intensamente >>>

1 - Si è cominciato tre decenni fa con i parcheggi sotterranei, inventati da un’amministrazione di sinistra, e si è continuato intensamente con le giunte di Formentini, Albertini, Letizia Moratti oscillanti fra leghismo e centrodestra. Sono stati presi di mira gli spazi urbani più belli, soprattutto le piazze monumentali e/o alberate, i giardini, certe strade tranquille. Localizzazione preferita il centro storico, la parte di città all’interno della circonvallazione dei bastioni spagnoli, quasi che si volesse, anche, contrastare qualsiasi ipotesi di moderazione del traffico, giacché i garage, giustificati come utili ai residenti, funzionano in buona parte come parcheggi a rotazione per le provenienze extra-moenia e richiamano le auto come una lampada le farfalle notturne.
Luoghi amati dai milanesi per la loro affabilità hanno subito inaudite violenze. Lunghe citazioni servirebbero a poco a chi non conosce Milano. Mi limito a segnalare, fra due centinaia di casi, due fra quelli più scandalosi: il primo dei parcheggi realizzati in pieno centro monumentale, Piazza Borromeo (chiesa, palazzo, tipiche case milanesi), sei piani sotterranei, superficie completamente stravolta dalle rampe e dal forte rialzo per metà piazza, necessario a quei tempi per garantire diverse provvidenze tecnologiche; uno degli ultimi, tuttora in costruzione, quello di Piazza Sant’Ambrogio, pressoché addossato al fianco della basilica. È questo il parcheggio che l’attuale amministrazione non ha potuto o voluto cancellare a causa, si è detto, di obblighi contrattuali fra impresa di costruzioni e municipio. Sant’Ambrogio non ha fatto il miracolo richiesto.
Per qualche altro luogo, incredibilmente prescelto nonostante l’altissima qualità urbana e architettonica, la giunta comunale è riuscita ad ottenere la cancellazione o, per ora, la sospensione del progetto. Come Piazza Lavater, uno spazio contraddistinto da numerosi e grandi celtis (bagolari) sottoposto a un progetto di distruzione dell’inusuale bellezza arborea, però difesa con lotta indefessa dai residenti alla fine vincenti. Come, poi, i due casi di certo noti fuori dei confini milanesi tanto sarebbe stata assurda, spaventosa la realizzazione: il silo sotto la darsena dei Navigli a Porta Ticinese (proprio di sotto all’acqua del “Porto di Milano”, non si vorrà credere) e quello di Piazza Fontana, lo spazio a poche decine di metri dall’abside del Duomo ruotante attorno all’incantevole fontana del Piermarini e al cerchio dell’alberatura.
Onore all’amministrazione comunale per questi successi, ma resta la gran quantità di profonde ferite apportate alla città da una politica insensata e nessuno potrà guarirle.
2 – Come a far da contrappeso allo sconvolgimento di suolo e sottosuolo, vige da oltre tre lustri la politica edilizia del “riutilizzo abitativo” dei sottotetti in origine non abitabili. La quale, sempre più allargata a modalità esecutive liberiste, ha prodotto non solo orribili fastigi su bei palazzi dell’Ottocento e del Novecento ma si è risolta infine in liberi sopralzi di uno e due piani specialmente nel centro storico, memorabili per incoerenza e bruttezza. Dieci anni fa i casi accertati erano circa 4.500; quanti saranno ora che nessuna strada o piazza fra le più pregiate dal punto di vista storico e urbanistico-architettonico è stata risparmiata? Persino la più famosa strada di Milano, Via Dante, che apre l’eccezionale prospettiva verso il Castello, la strada di palazzi ottocenteschi sorta attraverso la pianificazione e il coordinamento delle sue parti architettoniche, non ultima la comune altezza di gronda, presenta ormai diversi sopralzi accettati nelle loro stupide differenze, quasi a porre l'accento su una sorta di liberismo architettonico sbeffeggiante l’esigenza estetica originaria tutta rivolta all’unitarietà.
“La distruzione della linea del cielo milanese”, questo il titolo di un mio articolo apparso in eddyburg il 10 dicembre 2003, poi completato da altre informazioni sotto lo stesso titolo parte seconda il 24 giugno 2004. Sono passati dieci anni, è cambiata l’amministrazione comunale ma niente è cambiato sotto il cielo. La giunta di sinistra non ha voluto ostacolare questo volo di corvi sui bei tetti tegolati milanesi. Anzi, pare favorirlo poiché ora i sopralzi non si riferiscono necessariamente alla presenza di sottotetti, si chiedono uno o due piani in più, in qualsiasi situazione si presenti il palazzo in causa, e si ottengono. Non escludo che abbia funzionato una delle false motivazioni originarie dei legislatori regionali, l’opportunità di “contenere il consumo di suolo” (locuzione che ormai fa raggrinzire la pelle tanto è frusta, inflazionata dall’uso a sproposito).
Ma quale risparmio di suolo. Nell’ultimo decennio, mentre imperversa la devastazione della città storica, spacciata per moderna “densificazione” (altro termine insopportabile), vi si affiancano grandi interventi del tutto privi di definizione e coordinamento urbanistici, per lo più in forma di bizzarri grattacieli e comunque invadenti spazi ben altrimenti restituibili alla forma della città. Così la Milano una volta ricca di senso urbano e sociale è accompagnata verso la sua disintegrazione (City Life – area della vecchia Fiera, Garibaldi Repubblica, l’Isola, Montecity Rogoredo, Pioltello ex Alfa, Cascina Merlata, la Stephenson dai desiderati cinquanta grattacieli, aree presso la zona dell’Expo, l’Expo stessa preludio della futura speculazione immobiliare garantita ai proprietari dei suoli agricoli, diverse altre aree sparse qua e là ma sempre contrassegnate da volumi immensi, irrilevante essendo l’eventualità che restino vuoti.

3 – Ultimo attacco alla bellezza urbana. Un ordine del giorno proposto in Consiglio comunale dalla minoranza di centrodestra, condiviso dal sindaco, da tutto il centrosinistra e dai Consigli di zona vuole imporre la sostituzione con l’asfalto delle antiche pavimentazioni in grossi masselli di pietra (pavé) e mette in discussione persino le strade in cubetti di porfido oltre a quelle, poche e magnifiche, ancora dotate dei ciottoli di fiume e delle grandi lastre di granito per il trottatoio e i marciapiedi non rialzati. Riguardo ai masselli, largamente predominanti, i giunti fra le lastre e le frequenti sconnessioni sarebbero un grave pericolo per le biciclette e soprattutto per le motociclette che, come ho già segnalato in Eddyburg, sfrecciano a sciami dappertutto a forte velocità e invadono anche ogni spazio improprio come i marciapiedi e i portici. L’abolizione delle lastre sembrava inizialmente limitata alle zone fuori dal centro storico per il quale esiste un vincolo della soprintendenza.

Ma i proponenti, forse accortisi della scarsa o nessuna presenza lì di questo tipo di pavimentazione, ora speculano sulla parola “centro” e accetterebbero la conservazione dei masselli solo all’interno della cerchia del Naviglio, il piccolo nucleo “centrale” poco abitato e dominato dalle attività commerciali e finanziarie oltre che dal turismo. Ma poiché è proprio il pavé a identificare una parte rilevante dello spazio compreso fra la cerchia del Naviglio e la cerchia spagnola, è qui che si concentrerà la trasformazione della bellezza lapidea in bruttezza e brutalità dell’asfalto. È sorprendente la mancanza di opposizione a tale programma da parte sia della politica di sinistra sia della cultura urbanistica e architettonica. Nella narrazione di storie milanesi, per l’epoca in cui circolavano biciclette ben più di adesso, come in tutte le città di pianura, non ci sono accenni a proteste contro il fondo stradale ora tanto colpevolizzato.
Perché non scegliere la soluzione più logica e conveniente: una manutenzione accurata della superficie, in particolare riguardo alle sconnessioni e alla verifica dei giunti con eventuale sigillatura. Manutenzione mai effettivamente eseguita a regola d’arte negli anni correnti. Quanto alle motociclette, il mezzo di trasporto che sembra stare più a cuore agli amministratori e alla polizia locale tanto è diffuso l’abuso di comportamento accettato se non favorito: perché non stabilire un basso limite di velocità che ostacoli quell’impressionante correre per il centro come fosse un autodromo in tempo di gare? È questo, non il pavé, il vero pericolo per gli stessi motociclisti e per tutti gli altri utenti della strada.

Milano, 4 aprile 2013

A rappresentare la crisi del mercato edilizio sarebbero la diminuzione dell’occupazione, la caduta del valore dei fondi immobiliari, il rallentamento della costruzione di abitazioni. Si dimentica, al contrario, l’andamento del settore riguardante gli uffici, i centri commerciali, i capannoni-magazzino, le infrastrutture pubbliche e private. Il censimento della popolazione e delle abitazioni (2011) mostra un aumento decennale degli alloggi inferiore a quello dei decenni precedenti. Dovuto in parte alla diminuzione delle abitazioni non occupate, che tuttavia restano a un livello inaudito, quasi cinque milioni. Permangono anzi si aggravano le vecchie distorsioni. I casi di coabitazione costituiscono un primato, se si esclude il periodo del dopoguerra. Infatti, se ne contano, sempre alla data del censimento, un milione, stante l’«avanzo» di oltre 500.000 famiglie residenti rispetto agli alloggi occupati.

Ho altre volte ricordato il fulminante giudizio dato da Pier Luigi Cervellati durante un convegno di quarant’anni fa, lo ripresento qui: «abbiamo prodotto troppe case, abbiamo prodotto le case che non servono». Aggiungendo la pletorica edificazione di quanto non concerne le abitazioni, considerando inoltre l’abusivismo mai morto (forse 30.000 abitazioni l’anno; così una stima relativa al 2008), il risultato è quella «cementificazione» del territorio, quell’enorme consumo di suolo urbano libero e distruzione anche di terreni agricoli su cui si discute anche in eddyburg. Sembra perfetto un titolo in il Fatto Quotidiano: «aumenta il cemento calano le abitazioni» (10.12.12.) intendendo alloggi economicamente accessibili alla gran parte di coloro che, non avendolo in proprietà, lo cercano disperatamente o in acquisto con mutuo o in affitto, comunque l’uno o l’altro proporzionato al proprio reddito. E non lo trovano. Perché, nonostante qualche dato statistico medio indichi una modesta flessione dei prezzi, la realtà della condizione urbana soprattutto nelle città grandi e medie mostra l’opposto, benché il mercato della compravendita non sia più quello esaltato, pazzo di certi periodi. Osservo Milano e noto che né il prezzo di vendita né l’affitto ha ceduto posizioni.

L’affittanza o il mutuo, poi, sarebbero la soluzione per singoli o coppie giovani che lavorano per lo più nel terziario e cercano alloggi di due, tre locali, se non il monolocale. Con stipendi fra i 1000 e i 1500 euro il divieto di accesso è assoluto. Un piccolo appartamento di due locali a Milano o a Roma, in aree periferiche urbane non lontanissime dal centro, può valere 250.000 euro. Leggo di una «prova» inerente a un mutuo trentennale e ai diversi vincoli fissati dalla banca: la rata sarebbe di 1400 euro il mese (Il FQ, idem). Una cifra che sbatte immediatamente fuori del mercato il richiedente, come fosse un pericoloso eversore. Conosco a Milano un gruppetto di cinque giovani neolaureati, impiegati a termine in una stessa azienda, che co-abitano in un alloggio di cinque stanze arredate ma con una sola cucina e che pagano ciascuno 800 euro, così che il locatario se ne ritrova 4000 il mese. Loro ne guadagnano 1400. Intanto la città è stravolta da una spropositata espansione interna o ricostruzione costituita da giganteschi edifici in buona parte di uffici e per il resto appartamenti di lusso, in forma di fantasioso per non dire insensato grattacielo, talvolta firmato dai soliti noti internazionalisti, o di alte muraglie a far da pesante contrappeso.

Area dell’ex Fiera, il Portello (terreno dei vecchi capannoni dell’Alfa Romeo, Montecity-Rogoredo, Garibaldi-Repubblica, Porta Vittoria (ex scalo ferroviario), l’Isola (vecchia Milano spazzata via)…, cui si aggiungeranno altri milioni di metri cubi sempre del medesimo tipo e «stile» nei terreni di altri scali ferroviari dismessi: ecco la nuova Milano, estranea a un principio di metropoli organizzata e a ogni legame con la città reale, che sbeffeggia i lavoratori in cerca di una casa equa per qualità e prezzo. Milano nasconde 50.000 alloggi vuoti e un numero inestimabile ma per così dire certo di uffici sfitti o invenduti. Il grattacielo Galfa, proprietà di Ligresti (l’indescrivibile nonno degli immobiliaristi) vicino alla Stazione Centrale, è completamente vuoto da quindici anni. La rendita fondiaria, lo sappiamo, si riproduce nel passare del tempo indipendentemente dalle vicende vissute dall’oggetto messo sul mercato o tenuto artificiosamente fuori. Intanto a Roma ci sta pensando Alemanno a onorare in misura mai vista la mai smentita fama di «città della cazzuola». Sembra che la giunta si affretti ad approvare, nel breve tempo prima delle elezioni comunali, progetti di nuove costruzioni dappertutto per venti milioni di metri cubi.

Milano, 11 dicembre 2012

Ci affidiamo al grafico e ai numeri pubblicati ieri da Repubblica, che riguardano l’intero quadro nazionale. Lo premetto perché a scala locale il rapporto fra biciclette e automobili evidenzierebbe probabilmente condizioni fra loro diverse. [il riferimento di questa Opinione è ai due articolisul tema ripresi da eddyburg.it - n.d.r] Anzi, un minimo di conoscenza della vita nelle città italiane, anche attraverso la cronaca oltre che grazie al soggiorno o alle visite, mostrerebbe differenze enormi. Per citarne qualcuna: tra una Ferrara, una Parma o una Modena (Augé) e città grandi emblematiche del pasticcio urbanistico edilizio, della deregulation anche socioeconomica. Ebbene, quel grafico e quel numero non dimostrano un aumento effettivo delle vendite di biciclette, che invece diminuiscono decisamente rispetto al vertice raggiunto nel 2007, 1.989.000; semmai una maggiore diminuzione delle immatricolazione delle auto a partire dal livello di 2.517.000 del 2007 (anno prima della crisi, nel 2008 si assiste a un subitaneo crollo riguardo alle une e alle altre).

Sicché all’ultima data indicata, 2011, notiamo quello “scarto minimo” ma “simbolico” (Tonacci) di sole 1.748.000 immatricolazioni di auto e però di modeste 1.750.000 vendite di bici. Insomma, non mi pare che si possa parlare, per l’intero territorio italiano, di riscoperta della vecchia tradizione ciclistica urbana e rurale, o comunque di grosse novità nell’impiego del silenzioso mezzo a due ruote. Queste ultime parole per ricordare che c’è un altro mezzo antagonista delle auto ma anche delle biciclette, il contrario che silenzioso, invadente e dominatore di cui sembra che pochi se ne accordano, se non i cittadini, pedoni e ciclisiti, di certe città che vi devono fare i conti ogni giorno.

Il mio punto di osservazione è Milano. Tutti conoscono l’attesa riforma del traffico attuata dall’amministrazione guidata dal sindaco Pisapia, proprio come era stata promessa nella campagna elettorale. Il centro della città all’interno della circonvallazione che siamo soliti denominare “spagnola” è accessibile alle quattroruote solo pagando un pedaggio (salvo eccezioni), cioè finalmente si è ricorsi a una congestion charge e non a una pollution harge relativa a troppo poche auto. Tuttavia ne sono esentate le motociclette. Intanto la giunta ha proseguito nella politica di sostegno all’uso della bicicletta, aumentando le postazioni di bike sharing e tracciando dove possibile ciclopiste. Tutto bene? Si vedono molte più persone in bicicletta. Che, insieme ai pedoni, devono subire il nuovo malanno (mi permetto di chiamarlo così) evidente da qualche anno e aggravatosi in maniera certamente sconosciuta in altre città, dell’invasione delle moto.

Questa la contropartita della notevole diminuzione delle auto. Il tema, ora, non è di disquisire se le motociclette nel centro della città sono più dannose delle auto, queste più invadenti diciamo dal punto di vista volumetrico (perché, per tremendo rumore e inquinamento le prime non la cedono alle seconde). Ma è di affermare regole di comportamento, ora mancanti o labili, e anche di assegnare equi spazi d’uso. Oggi, oltre agli sciami di decine di moto per volta che sfrecciano pericolosamente fra le auto e invadono le ciclopiste a raso, per esse il parcheggio è concesso dappertutto, compreso marciapiedi e portici, del resto piroettando senza spegnere il motore. E perché non sperimentare anche per questo mezzo niente affatto moderno come la bicicletta, ossia non conforme ai progetti per una vita migliore, più umana nelle città, un modesto pedaggio per entrare nel suo cuore?

Milano, 2 ottobre 2012

La lettura dell’articolo di Alberto Roccella, I cinquant’anni della legge sui piani per l’edilizia economica e popolare (17.04.2012), con l’accenno al prossimo settantesimo anniversario della legge urbanistica del 1942, mi permette di aggiungere qualche personale breve ricordo dei primi anni Sessanta sulla riforma che ancora stiamo aspettando. Quando, il 18 aprile 1962 fu approvata la legge 167, ministro dei lavori pubblici era Fiorentino Sullo, che puntava su un obiettivo ben più ambizioso, l’approvazione di una nuova legge urbanistica generale (per un’informazione esauriente invito alla rilettura di La proposta di Fiorentino Sullo e la sua sconfitta, di Edoardo Salzano, in eddyburg 12.08.07 – è lo stralcio di un capitolo del libro Fondamenti di urbanistica, Laterza 1998).

«La legge urbanistica nuova giungerà in ogni caso troppo tardi rispetto alla prima fase di sviluppo [dell’Italia], che può dirsi iniziata subito dopo il 1953 appena ultimata la ricostruzione. Se però dovessimo impiegare (come accadde per i contratti agrari fra il 1948 e il 1956) parecchi altri anni per definire legislativamente l’indirizzo urbanistico, tanto varrebbe non farne niente». Parole di Sullo, ormai ex ministro, nel libro Lo scandalo urbanistico, edito (Vallecchi 1964) dopo l’archiviazione del suo progetto di legge ma prima che il processo di svilimento dei temi fondamentali inerenti a una buona legislazione si compisse col secondo governo Moro, ministro dei lavori pubblici il socialista Giacomo Mancini.

Il 24-25 ottobre 1964 si svolgeva a Firenze il congresso dell’Istituto nazionale di urbanistica (Inu). Lo schema di legge governativo, nato dall’accordo estivo dei quattro partiti del centro-sinistra, cozzava contro la decisa opposizione di quegli urbanisti e di quei politici contrari a un provvedimento che non rispecchiasse la volontà di un’autentica riforma, espressa da almeno un quindicennio. Una mozione (prossima ai contenuti basilari, cui accenneremo, del progetto Sullo) che raccolse 196 voti contro i 124 di un documento qualunquista (invito all’Inu «ad affrancarsi dalle ipoteche politicistiche…») rappresentò un atto di viva unità fra architetti e urbanisti quali Samonà, Zevi, Quaroni, Piccinato, Astengo e parlamentari di diverse tendenze come Camillo Ripamonti (democristiano, presidente dell’Inu), Aldo Natoli (comunista), Riccardo Lombardi (sinistra socialista).

Nel 1962 era capo del governo Amintore Fanfani quando il ministro Sullo si dedicò all’elaborazione della sua proposta ispirandosi alle esperienze verificate in anni di pratica nei paesi europei (capitalisti) più evoluti del nostro e anche ricuperando gli studi già effettuati dall’Inu. Alcuni punti cardine del progetto si rivelarono particolarmente incisivi e, nei confronti delle consuetudini nazionali in materia, in grado di avviare quei processi realmente riformatori perché pertinenti agli interessi generali della collettività, e non, come si continuerà a ripetere nei decenni successivi sprezzando il tentativo di Sullo, «troppo» rivoluzionari:

- chiara strutturazione delle competenze delle regioni e degli enti locali in un conteso finalmente costituzionale che assegnasse ai piani urbanistici regionali un ruolo guida,

- coordinamento con la programmazione economica;

- esproprio generalizzato dei suoli urbani ( generalizzato non doveva confondersi con tutti);

- indennità di esproprio nelle aree di espansione delle città commisurata al valore dei terreni agricoli;

- istituzione del diritto di superficie, ossia cessione delle aree dopo l’esproprio e l’urbanizzazione secondo un titolo tale da impedire la formazione di nuove plusvalenze.

Insomma si trattava del primo tentativo di dotare l’ente pubblico di una strumentazione atta a controllare la dinamica urbana sottraendola all’enorme potere da sempre esercitato dalla proprietà fondiaria, dai costruttori edili e dagli alleati finanzieri. Per questo la contraddizione fra la vocazione riformatrice di Sullo e la tendenza moderata assunta dalla politica del centro-sinistra fra la fine del 1962 e l’inizio del 1963 si tradusse infine nell’offensiva dorotea della campagna elettorale per le elezioni del 28 aprile: il ministro fu sconfessato e il suo disegno accantonato.

Tuttavia nell’ambiente governativo non si poteva più sottrarsi all’impegno urbanistico. Si poteva però ridurlo al minimo e comunque rimandare i provvedimenti concreti. Così nel novembre del 1963, col primo governo Moro al quale parteciparono i socialisti, al ministro socialista dei lavori pubblici Giovanni Pieraccini fu assegnato il compito di rivedere il progetto Sullo, vale a dire addolcirlo, cancellargli l’impronta «di sinistra», in altre parole adeguarlo al debole compromesso su cui si basava la nuova alleanza. Sette mesi durò il governo Moro e non si riuscì a presentare alcuno schema di legge né al Consiglio dei ministri né tantomeno al parlamento. Da bozze ufficiose del nuovo testo si percepiva la netta deviazione moderata, benché, rispetto al successivo immediato sviluppo della controversia, ne sortisse che un peggio verso la proposta Sullo si sarebbe rivelata un meglio verso lo schema Mancini. Sette mesi durante i quali la destra economica ebbe buon gioco, sbandierando il pretesto della congiuntura e della nascente crisi edilizia – mentre per quasi quindici anni i padroni del settore edilizio avevano accumulato guadagni giganteschi – per scatenare una violenta campagna contro la regolamentazione urbanistica. Immediato fu l’allineamento dei burocrati ministeriali, pronti a smantellare i principi della riforma fino a sostituirla con uno schema contro-riformatore al quale gli architetti e urbanisti migliori, del resto tenuti a sostenere fermamente l’applicazione dei piani di zona comunali voluti dalla 167, furono del tutto estranei. Quando sopraggiunse la crisi di governo fu subito chiaro che insieme alla modificazione del programma generale e all’accantonamento del progetto economico di Antonio Giolitti anche la legge urbanistica sarebbe stata trattata col metodo centrista doroteo.

Nacque il nuovo testo Mancini del secondo governo Moro (Pieraccini era stato spostato al ministero del bilancio), in maniera semi-ufficiale ma sufficiente per mostrare la resa dei socialisti e provocare l’opposizione dell’Inu al congresso di Firenze. Il processo di smantellamento del progetto riformatore era ormai compiuto, il governo aveva accettato le pressioni e i ricatti delle immobiliari, dei grandi proprietari e dei mercanti di terreni. Il principio dell’esproprio dei suoli edificabili era demolito dalla casistica degli esoneri; le indennità si prevedevano commisurate a valori assai prossimi a quelli del libero mercato, modalità che, secondo la mozione vincente al congresso dell’Inu, avrebbe impedito «l’avocazione in mano pubblica delle plus-valenze» e avrebbe premiato «le rendite patologiche accumulate negli anni recenti»; e il rinvio sine die della definizione di un regime pubblicistico dei suoli ne avrebbe comunque reso illusoria l’applicazione in maniera uniforme sul territorio nazionale.

L’accentuazione della crisi edilizia nel 1965 spaventerà la Democrazia cristiana, tanto che organizzerà un convegno di partito sul tema (Bari, 10-11 luglio). È interessante ricordare che sarà questa l’occasione per sancire il distacco definitivo dei vertici democristiani da qualsiasi ipotesi di riforma urbanistica generale di tipo «socialdemocratico», per quel momento e per sempre. Una volta cadute nel vuoto le critiche di Sullo alla nuova proposta di legge, le sollecitazioni dell’onorevole Ripamonti per adottare un programma di forti investimenti cooperativistici, le osservazioni del professor Beniamino Andreatta sulle debolezze del settore edilizio dovute anche all’episodicità e alla scarsità dell’intervento pubblico, vincerà il doroteismo: superare la fase di crisi e recessione in chiave di facilitazioni all’iniziativa privata e di limitazioni del controllo pubblico legislativo e applicativo, in edilizia come in urbanistica. Mariano Rumor, quegli che sarà cinque volte primo ministro dal 1968 al 1974, dopo aver rivendicato come obiettivo primario della legislazione urbanistica quello di facilitare l’acquisizione della casa in proprietà (sottolineatura mia), dichiarerà che la legge non dovrà intimorire o scoraggiare imprenditori e costruttori prevedendo l’esproprio, poi li inviterà a concentrarsi sulla produzione di case popolari (private) «essendosi ormai saturato il mercato delle case di lusso». Sarà il vicesegretario Giovanni Galloni a trarre le conclusioni del convegno: quattro punti «per assicurare la ripresa»:

- richiesta di uno stanziamento, davvero miserevole (solo dieci miliardi), per contributi pluriennali all’edilizia sovvenzionata;

- perorazione di grosse facilitazioni all’edilizia privata mediante l’anticipazione di norme attuative favorevoli all’edilizia convenzionata e l’aumento degli importi mutuabili fino al 75 per cento della spesa;

- affermazione della necessità di ampliare il credito fondiario a lungo termine «in modo da soddisfare le esigenze dell’edilizia libera»;

-reiterazione, infine, del principio indiscutibile per il partito in tema di legge urbanistica: che non dovrà essere punitiva, non dovrà avere l’esproprio come obiettivo primario, dovrà limitarsi a rendere operante la legge 167 prima di vincolare qualsiasi altro comprensorio.

(Per chi, come si dice, ha una certa età, ora non c’è più tempo nemmeno per attendere…)

Milano, 23 aprile 2012

Alloggi e negozi di proprietà comunale affittati nel cuore di Milano, Piazza Duomo e Galleria. Il municipio ha pubblicato due elenchi riguardanti l’uno gli appartamenti, senza il nome del locatario, l’altro gli spazi commerciali, con la denominazione ufficiale, quella che appare nelle insegne. Precisazione quest’ultima dovuta, giacché chi e quali capitali stiano dietro di esse non è dato sapere (ma sono stati segnalati e denunciati più volte dalla stampa gli investimenti della mafia e della n’drangheta). Gli elenchi che i quotidiani milanesi hanno commentato illustrandoli con tabelle e grafici sono molto interessanti soprattutto perché mostrano come il Comune non sia stato capace di riordinare a dovere una materia, quella dell’impiego delle proprie risorse patrimoniali, del quale dovrebbe render conto all’opinione pubblica oltre che agli organi istituzionali di controllo, mostrando correttezza economica ed equità sociale.

Un analogo elenco di tre anni fa relativo agli esercizi commerciali nella Galleria e in un prossimo tratto di portico sulla piazza rivelava numerosi casi di incredibile privilegio, durato per molti anni. Nessun contratto d’affitto appariva allineato ai valori di mercato, stimati fra i più alti del mondo per questo luogo. Ma ben 17 casi su 38 (quasi il 45%) presentavano importi non solo di molte volte inferiori ma palesemente causati, nonché da colpevole noncuranza degli amministratori, da favori e diritti esclusivi dispensati a certe aziende. La dimostrazione ce la danno gli stessi prezzi convenuti nella revisione del 2010 con la moltiplicazione, in questi 17 casi, maggiore che in tutti gli altri. Tuttavia per i contratti del 2010 (41 di cui 3 nuovi) l’amministrazione comunale non ha per niente ottenuto un generale equilibrio. Mentre i valori massimi non toccano ancora il livello adeguato allo straordinario pregio “mondiale” del sito, sono evidenti gravi disparità nel calcolo dei prezzi unitari, scontate le variazioni attribuibili al diverso peso delle superfici totali. Ad ogni modo i numeri ballano dal basso al medio all’alto per posizioni di assoluta omogeneità. I pochi prezzi unitari più elevati superano i 1.000 euro al metro quadrato e potremmo accontentarci, ma quelli più bassi suscitano sorpresa e scandalo. Il Bar Zucca ubicato in uno degli angoli del voltone d’accesso alla Galleria dalla piazza, forse il bar più famoso della città, paga solo 184 euro al metro, 104.000 euro l’anno per 563 metri quadri, 8.640 euro il mese. Se la motivazione fosse il valore storico dell’ambiente (non sappiamo quale altra se ne possa trovare), non per questo sarebbe accettabile un tale regalo all’attuale proprietà, il cui ricavo giornaliero di sicuro rifiuteremmo di credere vero se ce lo rivelassero. Alcune situazioni sono incomprensibili. Di due dei tre negozi nuovi rispetto al 2007, Abbigliamento Dutti e Abbigliamento Oxus, collocati sullo stesso lato della Galleria e divisi solo dalla storica Libreria Bocca, il primo ha avuto come un regalo, l’irrisoria cifra di 130 euro/mq (31.500 euro/anno per 242 mq), il secondo ha dovuto accettarne 1.193 (129.350 euro/anno per 104 mq). Viene il dubbio che ci sia un errore nella tabella pubblicata. Il negozio di camicie Nara e il Bar Sì che vanta un’incessante frequentazione, sul lato dirimpetto poco distanti l’uno dall’altro, con superfici quasi uguali (80 e 87 mq), pagano il primo 957/mq, il secondo 351. Si vede che i bar, oggigiorno sempre anche ristoranti specie per turisti, numerosissimi in ogni stagione, godono di particolari simpatie presso la giunta comunale, se anche il lussuoso Il Salotto nell’ala verso Piazza Scala esibisce un misero contrattino da 302 euro al metro quadro.

Il panorama disegnato dai contratti attuali inerenti agli alloggi nella Galleria, nelle due strade adiacenti (via Foscolo e via Pellico), nel palazzo sul lato meridionale della piazza (accesso dalla retrostante via Dogana) è contrassegnato da prezzi stracciati. Non si conoscono i nomi dei locatari e questo, come ha osservato il candidato del centrosinistra alle elezioni comunali avvocato Pisapia, “non serve”. Qualche inquilino cinquantennale molto anziano, amici degli assessori, pensionati, enti sconosciuti e affittuari in locali lasciati senza manutenzione: è un coacervo di assurde situazioni incancrenite alle quali non sarà facile metter mano per sbrogliare il pasticcio e render equo il rendimento patrimoniale. I prezzi sono davvero quasi tutti talmente bassi da far apparire bizzarri quei pochi che se ne discostano. Che sono solo quattro (due in Galleria, uno in via Foscolo, uno in via Pellico) in cui il valore annuo al metro quadro varia attorno ai 200 euro e l’affitto mensile per superfici fra 75 e 100 metri va da 1200 a 1800 euro circa. Tutti gli altri alloggi evidenziano prezzi unitari minimi in relazione sia alla superficie sia all’affitto mensile. Un appartamento di 163 mq in via Foscolo paga 32 euro annui al metro e 430 il mese. Nel palazzo sulla piazza cinque appartamenti presentano contratti senza squilibri perché tutti a livello molto basso fra 40 e 50 euro/mq e 300-450 euro d’affitto mensile. Che cosa deve fare il Comune? Non moltiplicare brutalmente e indiscriminatamente l’onere del contratto a tutti ma valutare attentamente ogni caso per evitare di punire qualche vecchio inquilino povero, o di sopravalutare locali degradati che invece devono essere restaurati, o di sottovalutare il contributo di chi abbia fatto eseguire rilevanti ammodernamenti. Comunque, presupponendo appartamenti in buono stato da affittare secondo procedure di massima trasparenza, il canone mensile lordo comprensivo di tutte le spese, salvata la necessità di conservare in qualche caso, per ragioni umanitarie, un canone da casa popolare, potrebbe essere calcolato diciamo al 4% del valore capitale di almeno 10.000 euro al metro (questo è il prezzo minimo per alloggi in ottime condizioni in zone del centro storico anche non prossime a Piazza Duomo): dunque affitto di 400 euro/mq; per un alloggio di 75 mq 2.500.000 euro il mese; vuol dire aumentare l’importo di certi attuali contratti persino di dieci volte.

Milano, 22 gennaio 2011

Per quasi due mesi prima di Natale è aumentato, con altri mezzi, il maltrattamento cui è normalmente sottoposto il centro della città mediante opere permanenti come i sopralzi insensati, i tetti massacrati, le demolizioni con violente ricostruzioni, i parcheggi sotterranei devastatori di piazze e giardini, e, ultima ma non meno importante, l’invasione di superfici pubblicitarie che non rispettano nessun ambiente o monumento, nemmeno il Duomo. Basta la scusa di un nuovo duraturo cantiere di restauro per trasformare la facciata di un palazzo o di una chiesa in un pacchiano cartellonismo con figurazione fissa o, peggio, in movimento, per di più esaltato da riflettori per decine di migliaia di watt ingiurioso omaggio al problema del risparmio energetico.

Ma, a cosa è dovuto questo surplus di maltrattamento? Alla decisione dell’amministrazione comunale e dei commercianti associati di «abbellire» le strade e le piazze maggiormente frequentate con luminarie destinate a influire (credono) sulla psiche di milioni di «viandanti girovaghi» per renderli più propensi all’acquisto di cose inutili. Intanto si concede a Tiffany gioiellerie e oreficerie di impiantare in Piazza Duomo, proprio davanti e vicino alla cattedrale (sprezzate le proteste del parroco), un gigantesco cubico spazio di vendita contrassegnato nel mezzo dal «più alto abete d’Italia come albero di Natale», sradicato chissà dove, ricoperto da centinaia di metri di festoncini luminosi. L’albero morente di Tiffany è come il perno delle disparate installazioni pendule sulle strade o dell’illuminazione su monumenti a fasci di luci colorate e variabili.

Nell’insieme, nella città con la miglior tradizione di design ad alto livello, copiato in tutto il mondo, una sorprendente mancanza di buon gusto, una dimostrazione di basso provincialismo, una schifezza dopo l’altra, un colpevole saggio di disprezzo verso spazi storici e opere d’arte. Fra le luminarie basti vedere le due più belle strade di Milano, Via Dante e Corso Venezia. La prima, quasi ricoperta da centinaia di grosse patate appese, di color marroncino (proprio come le patate vere), la cui visione a luce interna accesa o spenta annienta il piacere di osservare la doppia cortina ottocentesca di palazzi convergenti nella prospettiva incentrata sul Castello. La seconda, poveramente e tristemente festonata da esili filamenti forse alludenti maldestramente a forme di rose; anche qui un pessimo servizio reso alla fuga prospettica dei palazzi e dei Giardini verso i grandi caselli neoclassici di Porta Venezia, a loro volta subissati da lenzuolate di lucine a maglie fitte, fantasiosa cancellazione di un’armoniosa, severa architettura. I giochi di luce su monumenti raggiungono effetti persino peggiori per volgarità, violenza figurativa, disprezzo dell’opera d’arte.

Bastino anche per quest’aspetto due trattamenti esemplari in luoghi-simbolo della storia milanese, Piazza della Scala e Piazza Fontana. Nella prima gli sciagurati ideatori del divertimento natalizio si sono sfogati sul monumento a Leonardo da Vinci, opera di Pietro Magni del 1872. Il maestro e i quattro allievi che lo circondano, Filippo Lippi, Marco d’Oggiono, Cesare da Sesto e Andrea Salaino, sono sottoposti al tormento di colpi di luce a diversi colori (viola, rosso, verde, giallo…), alternati fra Leonardo e scolari come fossero dei fantocci in fiera da mirare e abbattere con le palle, ognuno dopo l’altro quando messi in risalto dall’illuminazione. Un orrore che nemmeno nella provincia più famosa per disamore dell’estetica urbana sarebbe tollerato. Nella seconda è la fontana progettata da Giuseppe Piermarini ed eseguita da Giuseppe Franchi nel 1782, elegante e raffinata composizione di vasche sovrapposte, sirene e delfini, a essere rovinata dall’insana voglia di strafare. Oggetti e figure sono impigliati in una scomposta rete di lucette irrispettose delle forme e poi tramortiti da un botto finale costituito da un’aggiunta sopra la vasca minore di un incomprensibile cesto come di filigrana veneziana. Così si completa per il passante l’abolizione del godimento estetico che l’osservazione della scultura intatta posta al centro del bel cerchio di alberi da sempre assicura.

Postilla. Dopo aver subito la solita cura mortale, si è infine salvata la grande scultura «L’ago e il filo» di Claes Oldenburg e di sua moglie Coosje van Bruggen in Piazza Cadorna (inaugurazione 2000). Già imbrigliata inopinatamente in tutt’altri fili luminosi, se ne è infine liberata grazie alle dure proteste dell’architetto, Gae Aulenti, che l’aveva prevista nel riassetto della piazza alla fine degli anni Novanta.

I rom, privi di un’abitazione che non sia una baracca accomodata alla meglio, sono cacciati di campo in campo. A Milano si sono susseguiti gli sgomberi mentre è bloccata la consegna di quindici appartamenti di edilizia pubblica già assegnati mediante contratti regolari. Ai rom è negata la casa popolare, che intanto è impedita a un ben maggior numero di famiglie che aspirano a un’abitazione decorosa a prezzo proporzionale al reddito.

In questo novembre 2010 ripenso al novembre di cinque anni fa quando una grande manifestazione di popolo a Roma fece improvvisamente riscoprire l’esistenza di un problema che il diffuso e menzognero ottimismo berlusconiano faceva credere risolto. La questione delle abitazioni giaceva sepolta sotto la massa delle case in proprietà (il 71 % al censimento del 2001). Le famiglie non proprietarie sembravano una minoranza troppo debole, perciò, sosteneva anche la sinistra, il tema non sfondava nella politica. Sorprese allora il successo del grande corteo di inquilini che occupò le strade di Roma rilanciando slogan di trentasei anni prima sul diritto all’abitazione gridati durante lo sciopero generale per la casa.

Era, quel novembre 2005, un momento difficile per chi non poteva contare sulla protezione di un buon alloggio in proprietà o in affitto equo e duraturo: sfratti facili, non più ostacolati dalla legislazione sociale, mercato banditesco comandato dalla speculazione edilizia, prezzi in aumento, precarietà anche degli affittuari di alloggi pubblici in via di privatizzazione (cartolarizzazione). Ma il fuoco della protesta si spense, né si è ravvivato negli anni successivi per la scarsa condivisione se non l’insofferenza della politica e dell’opinione pubblica; anche perché il problema della casa, oggi, può essere percepito come collegato a quello dell’immigrazione (4,5 milioni i residenti stranieri) e, si sa, quando si tratta di extracomunitari o di romeni il sentimento nazionale non è esente da disinteresse intriso di razzismo.

Proviamo a ricominciare da qualche dato statistico. Come si distribuiscono oggi la proprietà e l’affitto? Ha ragione Berlusconi che ha assegnato più volte alla prima l’80%? Ben nove punti in più rispetto alla percentuale del 2001. Aumento improbabile poiché la popolazione totale, in minimo aumento per due decenni (56.557.000 unità nel 1981, 56.885 nel 1991, 56.995 nel 2001), ha avuto un balzo dal 2001 al 2009 (+ 3.350.000) dovuto esclusivamente al saldo migratorio positivo. Non è plausibile un nesso fra questi due aumenti (proprietà e immigrazione); invece lo è una relazione fra immigrati e case in locazione. Tuttavia, nel gioco delle stime, prendiamo in parte per buono il ritornello di B., riconosciamo che la tendenza all’acquisto sia un segno permanente, ma inevitabilmente rallentata dalla stessa altezza della proprietà, e valutiamo che l’attuale percentuale di abitazioni possedute dagli occupanti sia del 75%.

Affitto (o altri titoli simili) al 25% vuol dire in valori assoluti circa 6.250.000 abitazioni. Una minoranza le famiglie locatarie, ma tanto ampia da rendere il mercato delle affittanze, oggi, in regime di prezzi liberi, molto appetibile per investimenti. Chi possiede alloggi ha meno convenienza a vendere che affittare. Le famiglie di lavoratori sono vittime dei costi sproporzionati e delle condizioni abitative forzatamente ristrette. Non hanno possibilità di scelta essendo il tipo di abitazione strettamente dipendente dai redditi familiari, ora stagnanti o addirittura in diminuzione.

Intanto perdura, né avrà mai fine, il fenomeno dell’enorme quantità di abitazioni non occupate. Se applichiamo lo stesso aumento percentuale delle abitazioni occupate, 15%, rispetto al dato del 2001 di 5.640.000 unità (e saremmo cauti giacché numerosi indizi mostrano che quella delle seconde case è la porzione del mercato che si è espansa di più), risultano quasi 6.500.000 alloggi, 21% del totale come nel 2001. Non tutti sono alloggi secondari, una parte minoritaria corrisponde al «vuoto» specialmente per l’affitto che le mie precedenti stime indicano in 5-6 punti (seconde case 15-16%). Nelle grandi città questo indice non corrisponde alla reale utilizzabilità perché le case inabitate comprendono quelle tenute apposta fuori mercato dalle immobiliari per produrvi maggior tensione così da tenere alti o far aumentare i prezzi delle case affittabili. Analogamente a come avviene nel mercato del lavoro, quando gli imprenditori restringono l’occupazione generando disoccupazione in modo da far crescere la pressione dell’offerta abbondante di mano d’opera sulla scarsità di domanda da parte dell’impresa, così da tener bassi i salari.

A Milano, la città che ha inventato i sistemi urbanistici e edilizi più «moderni» per liberare più speculazione e più rendita, gli appartamenti vuoti al momento del censimento 2001 erano 50.000. Ora la stima corrente è di almeno 60.000 (p. es. Luca Beltrami Gadola, arcipelagomilano.org), entità che comprende una larga fetta di «vuoto artificioso», se così si può dire. Nonostante la crisi i prezzi non diminuiscono e il mercato è chiuso a chi non abbia un guadagno sicuro e molto superiore alla media dei redditi da lavoro, quando poi è sempre più difficile usufruire del cumolo fra almeno due redditi. Il prezzo di 1.000 euro/mese per due buone stanze è quello usuale fuori dal centro e da altre zone pregiate. E non è di 1000 euro/mese il salario medio del lavoratore precario (a progetto, a termine, a chiamata, eccetera). Intanto è pressoché sparito il compito svolto dagli istituti per l’edilizia pubblica.

L’Iacp, diventato da anni Aler (Azienda regionale per l’edilizia residenziale – eloquente l’abolizione dell’aggettivo popolare e l’introduzione di azienda) è impegnato soprattutto a privatizzare il patrimonio e a lasciar marcire situazioni di degrado, di abbandono, persino di gestione criminosa. Il Comune di destra, altrettanto, non esprime alcun interesse a intervenire nel mercato, coerentemente ai principi ultraliberisti fautori della massima deregolamentazione dei rapporti in ogni campo, lavoro e casa soprattutto.

In una diversa condizione politica e culturale, come potrebbe darsi, dopo la disastrosa vicenda della giunta Moratti, con una nuova amministrazione milanese guidata dal vincitore delle primarie del centrosinistra, Giuliano Pisapia, si potrebbe «tornare indietro» e ricostituire i ruoli originari di un istituto per l’edilizia residenziale pubblica, in meno e vecchie parole: per le case popolari.Da destinare all’affitto e non alla vendita né all’assegnazione a riscatto. Scrive Vezio De Lucia «Con Pisapia superiamo il “rito ambrosiano”» (in eddyburg, 16 novembre 2010). Vuol dire cancellare l’attuale Piano di governo del territorio (ammesso che sia approvato prima delle elezioni) nel quale il problema della casa è del tutto trascurato e adottarne uno diverso incentrato sulla domanda sociale, in primo luogo quella dell’abitazione commisurata ai bisogni di chi lavora. Come fossimo nell’immediato dopoguerra (è una guerra quella combattuta dal municipio reazionario contro i ceti privi di alti redditi), quando Piero Bottoni pubblica il mirabile progetto La casa a chi lavora, «l’assicurazione sociale per la casa» (Görlich, Milano 1945).

E perché non ritenere possibile che dopo Berlusconi un governo di centrosinistra possa varare una legge di disciplina degli affitti richiamandosi al limite delle forme d’uso della proprietà (articolo 42 della Costituzione)? «Il fatto che il costo dell’abitazione rimanga […] elemento di profonda e generale discriminazione sociale rende attuale il richiamo al limite generale del diritto di proprietà qualora si accerti che una delle forme di proprietà oggi diffuse [, quella dell’abitazione,] è l’ostacolo a un miglior godimento individuale del bene casa» (Renzo Stefanelli, La questione delle abitazioni in Italia, Sansoni, Firenze 1976, p. 29).

«Non ci piace la Milano brutta, trasandata, lontana dagli standard di vivibilità delle metropoli europee», Valerio Onida, 25 ottobre 2010.

Milano, “capitale economica e morale” (si diceva) funzionava bene in ognuno dei suoi organi e nel loro insieme coeso, come un corpo sano. Ora, capitale – con Roma – della speculazione immobiliare e degli affari mafiosi, rifugge da tutte le buoni funzioni indispensabili per la buona vita degli abitanti, residenti o frequentatori. Era città madre della borghesia produttiva e della classe operaia, ora le due classi antagoniste e protagoniste, ragione primaria dell’organizzazione urbana razionale e conveniente per la comunità, sono sparite. Al posto dei borghesi non eredi dell’illuminismo – inesistente in Italia – ma illuminati, un ceto finanziario, proprietario, commerciale; al posto degli operai, impiegati (i nuovi operai?), negozianti, pensionati. Era città di industria caratteristica per diversificazione della produzione e della dimensione. Ora, distrutte inopinatamente tutte le fabbriche, è centro di due abnormi mercati improduttivi, quello della merce più preziosa, il denaro e quello dei terreni.

Milano esibiva belle case della borghesia e anche del ceto medio allineate nelle eleganti strade dell’Ottocento e del Novecento – benché non immuni da eccessi di densità fondiaria – e dignitosi quartieri popolari semiperiferici, specie dell’Istituto autonomo case popolari. Ora è sottoposta alla più smaccata deregolamentazione edilizia: violente alterazioni nel patrimonio esistente; costruzioni mostruose, specie in forma di grattacielo, laddove ci sia un’area vuota di cui la fasulla urbanistica comunale, nemica della pianificazione, esige il riempimento edilizio privato anziché la destinazione a parco comunale. Gli enti pubblici detenevano una parte del potere e non erano, come adesso, dipendenti in toto dai poteri economici; un Istituto come l’Iacp svolgeva i suoi compiti con una certa autonomia, persino in epoca fascista. Del buon funzionamento urbano era parte fondamentale e famosa la rete di tram, un mirabile sistema unico in Italia ed esemplare in Europa. Poi la politica municipale del trasporto, compiacente verso l’abuso dell’automobile, dopo aver abolito intere linee o averle sostituite con autobus solo in alcuni casi, ha raggiunto l’auspicato, dai liberisti, traguardo dei tagli bruti, della riduzione dei percorsi, dell’abolizione del collegamento più moderno, quello da periferia a periferia passando per il centro.

La città richiamava nuova popolazione, fattore essenziale di un riequilibrio demografico necessario alla vita urbana. Oggi, dopo la perdita di residenti cominciata a metà degli anni Settanta, ne ha quasi mezzo milione di meno e solo l’arrivo di immigrati non comunitari l’ha arrestata ma non ha potuto ancora ripianare lo scompenso strutturale, causa di gravi distorsioni nel mercato del lavoro, nel mercato delle abitazioni e nei servizi sociali. Il vecchio piano regolatore generale sancì la fine della pianificazione urbanistica. Presto cominciò a perdere i pezzi sotto la mannaia delle varianti pubbliche per favorire la ricostruzione privata della città tutta rivolta alla speculazione e non alla risoluzione dei problemi sociali. Milano, approdata al dominio dei capitalisti rentier, ha cambiato profondamente se stessa qua e là, così cambiando la totalità, attraverso l’erezione insensata di cubature edilizie enormi avulse dai contesti urbani e dalla domanda sociale: volumi destinati in buona parte all’inoccupazione ma tuttavia capaci di riprodurre plus-rendita nel processo incessante di compravendita. Esisteva un’architettura della città compatta. Accantonati gli spropositi edilizi del dopoguerra dovuti alla lassista legge sulla ricostruzione, Milano riusciva a superare gli errori mediante l’”affermazione ed evoluzione del razionalismo” (Piero Bottoni) e le opere degli architetti succeduti alla generazione dei maestri.

Ora è sottoposta a una doppia vessazione compendio di un’ulteriore novità nel passaggio di millennio e nel ventunesimo secolo: in basso parcheggi sotterranei multipiano in spazi pubblici di alto valore storico e sociale, piazze, slarghi ricchi di alberi (tagliati con gusto perverso), giardini intatti; in alto sopralzi di ogni genere, uno, due e più piani sfruttando cavillosamente la famosa legge per il falso riutilizzo dei sottotetti e la incredibile “regola” della Tslp, ovvero Traslazione di superficie lorda di piano (demenziale norma, secondo la quale si è potuta ottenere in una cortina stradale costituita di edifici a tre piani la riedificazione di una singola casa fino a otto piani). Intanto sorgono dappertutto, dentro e fuori della cerchia spagnola, gli oggettoni pseudo architettonici degli internazionalisti, non veri autori indipendenti ma attenti servitori degli imprenditori di turno ai quali garantiscono il perseguimento fino all’ultimo centimetro cubo della smisurata volumetria concessa dall’amministrazione comunale.

Non sorprende l’ultima trovata dell’assessorato “allo sviluppo del territorio” (locuzione programmatica): “realizziamo una nostra Defense” sui terreni di Ligresti prossimi alla zona destinata all’Expo (via Stephenson, periferia nord-ovest): cinquanta grattacieli per uffici. Superficie territoriale 400.000 metri quadrati, volume totale 3.600.000 mila metri cubi, probabile altezza dei grattacieli 140 metri (la guglia con la Madonnina è di 108,50), una densità di fabbricazione mai pretesa nemmeno dai più famelici speculatori del dopoguerra.

La città non funziona ed è brutta. La bruttezza, inseritasi nella città storica e dispiegata all’intorno, è peggiore della disfunzione perché irrimediabile. A Milano si stava bene.

Ho notato in particolare il ricordo degli anni Sessanta e Settanta. Ho provato a ritrovarli da un mio punto di vista.

La legge 167 del 1962 concernente i piani per l’edilizia economica e popolare diede luogo a numerosi progetti spesso di ampia dimensione nei comuni governati dalla sinistra (in qualche raro caso addirittura molto aggressivi verso il cuore della città); ma ebbe troppo scarso riscontro in coerenti realizzazioni di alta qualità, per la difficoltà di acquisire tempestivamente le aree, per la mancanza di risorse finanziarie, per la scarsa vocazione dei municipi a destinare quote di bilancio alla formazione di un demanio di terreni, per la reticenza a integrare il progetto urbanistico in una chiara visione anche architettonica.

Il decreto del 1968 sugli standard, applicativo degli spunti regolatori insiti nella “legge ponte” del 1967, accontentò chi credeva fosse la rigida normativa delle quantità spettanti nel piano alle varie destinazioni funzionali a risolvere il dissesto urbano. La bandiera dello standard sventolerà sempre più sui Comuni di sinistra: lo standard urbanistico riferito in specie ai servizi sociali come panacea dei mali urbani, come soluzione ritenuta di rottura in contesti carenti appunto di questi servizi. In Italia, particolarmente nelle grandi città, mancavano il verde, le scuole, eccetera. Perciò la rivendicazione delle relative necessarie quantità ebbe un senso persino ovvio. Era effettivo l’obbligo per l’urbanistica progressista di esigere dalla classe dominante di comportarsi in maniera un po’ più “svedese”, tanto più di pretenderlo dalle amministrazioni di sinistra. Avrebbe invece dovuto prevalere il problema di misurare le rivendicazioni con un’analisi convincente di una realtà in cui i ruoli sociali e la loro distribuzione sul territorio, in altre parole l’iniqua suddivisione di città-territorio fra capitale e lavoro, rappresentavano il risultato storico dei rapporti e degli scontri di classe. Così sarebbe potuta emergere la vera natura della realtà socio-territoriale e delinearsi un comportamento della politica e dei governi locali volto non tanto a tappare i buchi più grossi nella sovrastruttura dei servizi non colmati dal bulldozer capitalistico, quanto a collegare la pianificazione alla strategia generale per una trasformazione dei rapporti fra le classi in relazione, per così dire, all’appropriazione e al consumo del territorio. Tra l’altro, riguardo a certe situazioni economico-sociali drammatiche, come nel Sud, si sarebbe potuto mettere in luce, attraverso puntuali analisi qualitative, la contraddizione fra condizione reale e idealismo astratto dell’approccio urbanistico, contribuendo così, almeno, alla formazione di una conoscenza locale capace di dare un contributo alla contesa per mutare convenientemente gli assetti sociali e territoriali.

Gli effetti delle lotte alla fine degli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta provocarono anche una più ricca articolazione del fronte dell’urbanistica. Ed era merito del movimento operaio e del movimento studentesco la scoperta dei nuovi livelli dei problemi e del conforme impegno culturale. Il salto qualitativo circa l’annosa questione delle abitazioni, per esempio, con la rivendicazione “casa uguale a servizio sociale”, derivò non dalle elaborazioni della cultura urbanistica e architettonica, bensì dalle analisi e dalle esperienze dei sindacati operai, dalla loro capacità di mobilitare attorno a un obiettivo realmente nuovo l’intera massa dei lavoratori italiani (sciopero generale dell’ottobre 1969…). Molti di questi acquisirono coscienza del fatto che rompere un nodo della loro condizione materiale come quello dell’ingiusta situazione abitativa avrebbe avuto forti riflessi, più dell’aumento salariale, sul complessivo assetto sociale.

Le lotte di massa in una prospettiva di unità operai studenti proposero una nuova figura di intellettuale e influirono sulla revisione dei ruoli culturali nelle università, in particolare in quelle di architettura dove le contestazioni erano sorte (a Milano fin dai primi anni Sessanta) proprio dalla messa in discussione dei compiti dell’urbanistica. Tra le posizioni dei docenti molto differenziate nella facoltà di architettura milanese, si distinse quella che affidava all’impegno nella didattica e nella ricerca l’approfondimento circa i compiti dell’insegnante: assumendo i nuovi temi che le lotte operaie e studentesche andavano enunciando e collegandoli alla questione generale del territorio e della città; sperimentando nei fatti, giorno per giorno, la funzione nuova dell’università, ossia, come recitava uno slogan studentesco, l’“uso sociale dell’università”.

Intanto, a scala delle istituzioni politiche e amministrative non mancarono certi effetti dovuti alle mobilitazioni di massa e anche alle annose richieste della parte migliore degli urbanisti. La legge sulla casa 865 del 1971 cercava di ricucire organicamente i fili del discorso legislativo a cominciare dal provvedimento del 1962 sull’edilizia economica e popolare e dalle disposizioni del 1967-1968, per sboccare infine nella legge Bucalossi del 1977 sul regime dei suoli e sulla “concessione” all’edificazione. In queste circostanze le sinistre svolsero una tenace azione di stimolo e, anche troppo, di compromesso “governativo”. Alcune Regioni iniziarono a svolgere i compiti nel campo urbanistico che il trasferimento di determinate funzioni dallo stato prevedeva. Furono sollecitati i piani regolatori comunali, si stabilì, per questi, qualche indirizzo circa la stesura per lo più in senso quantitativo. La vittoria delle sinistre nelle elezioni amministrative del 1975 e la conseguente conquista del potere anche in molte città grandi e medie si tradussero nel perseguimento del “buon governo” e, quindi, del “buon piano” urbanistico. Nacque un più diffuso rapporto fra architetti e urbanisti di sinistra e istituzioni democratiche, proliferarono i piani regolatori, i piani per l’edilizia economica e popolare, i piani pluriennali di attuazione. Raramente, però, si trattava di un rinnovamento profondo della concezione culturale e della politica per gli interventi. L’influenza delle linee di ricerca emerse nell’università di architettura fu assai scarsa. Gli architetti e ingegneri che lavoravano per i Comuni, a parte i mai morti praticoni dell’urbanistica, appartenevano, nel caso migliore, alla concezione del “tecnico critico” e della “committenza alternativa” che non si discostava dalla vecchia rivendicazione tutta riferita al momento distributivo-quantitativo: lo standard dei servizi, la “parificazione” (Keynes), senza riguardo alla realtà dei rapporti sociali di produzione. Oppure restringevano i problemi dell’assetto territoriale al momento della gestione, sostantivo che divenne rappresentativo, nel suo abituale abuso unito all’aggettivo democratica, di un modo quasi funzionaristico con cui una parte della sinistra, nell’amministrazione e nella professione, intendeva l’operare urbanistico (e non solo questo).

Intanto, il perdurare della crisi respinse ai margini le riforme. Primeggiava nuovamente il problema dell’occupazione e del salario, le rivendicazioni non potevano non muoversi in questa direzione. Lontani i tempi in cui la lotta per la “casa servizio sociale” sembrava potere aprire nuovi scenari nel confronto-scontro fra capitale e lavoro. La cronica distorsione di un mercato delle abitazioni del tutto sfavorevole ai ceti popolari ripropose il problema puro e semplice della possibilità di procurarsi comunque un’abitazione; così come per i giovani, le donne, gli emarginati, gli immigrati premeva la preoccupazione di procurarsi comunque un lavoro. Le ipotesi di modificazione della vecchia logica nella produzione sociale e nella conformazione territoriale sfocavano nel regno dell’utopia.

Il famoso piano decennale della casa rivelò subito, all’avvio dell’attuazione, i suoi limiti e le sue contraddizioni, per non dire i suoi inganni. L’inflazione mangiava gli investimenti, mentre nelle regioni l’assurda distribuzione a pioggia degli interventi, inoltre inficiati da metodi clientelari, impediva di ottenere soluzioni che fossero cardine di una nuova visione dell’organizzazione territoriale.

D’altra parte la scoperta, tardiva, dell’Italia sommersa della produzione industriale fu anche scoperta di incredibili modelli territoriali spontanei in cui predominava il “privato” talmente che il “pubblico” pareva elemento di disturbo. Modelli contrapposti a quelli ipotizzabili dalla sinistra politica, sindacale, culturale per una nuova società e un nuovo territorio perseguibili attraverso l’aggregazione di un ampio blocco sociale, con al centro la classe operaia, fiducioso nel cambiamento.

Ma oramai arrivavano, per affossare ogni speranza, gli “orribili anni Ottanta” (Salzano)...

Milano, 24 settembre 2010

A Milano non esiste una chiara opposizione alle politiche urbanistiche e edilizie della giunta guidata da Letizia Moratti. Ben prima dell’attuale strano accordo sul Piano di governo del territorio, il Pd ha lasciato campo libero a ogni operazione che ha portato benefici a imprese e speculatori fondiari e danno alla Milano dei cittadini. Ne cito due fra tante riguardanti la città esistente (non le nuove spaventose edificazioni «firmate»), maggiormente destinate a rovinare gli spazi e le case della città centrale: gli enormi sili sotterranei (con relativi volumi fuori terra) in belle piazze e giardini alberati, spazi considerati beni pubblici unici, fra tutti quello immenso quasi appiccicato a Sant’Ambrogio; il sopralzo di uno o due e più piani motivato all’origine dal recupero abitativo dei sottotetti e diventato poco più tardi puro pretesto per nuove aeree costruzioni, ora ancor più cresciute a causa della dissennata regola denominata traslazione di superficie lorda di piano.

Non si è sentita nessuna protesta proveniente dal Pd, nessuna denuncia della doppia devastazione arrecata nel basso e nell’alto della costituzione urbana. Centinaia, anzi riguardo ai sopralzi migliaia di episodi sono passate sotto gli occhi attoniti degli abitanti e dei commuter non solo senza opposizione ma con il consenso, o al meglio il disinteresse di quelli che a fronte di questi progetti degli amministratori, smaccati liberisti, avrebbero dovuto impiantare un duro contrasto per così dire all’americana (in Usa la minoranza fa di tutto per metter in difficoltà e battere la maggioranza su qualsiasi problema). Non è sorprendente, allora, il contorto avallo concesso al più deregolante piano che si sia mai visto nel paese. Il Pd ha dichiarato che voterà contro il Pgt ma dopo aver ritirato quasi tutti gli emendamenti (1400 all’origine, diventati 1150 e infine ridotti a un centinaio) e aver concordato la data, 28 giugno, per il varo del piano. Regalando così alla destra la certezza dell’approvazione finale entro il termine della legislatura, ossia prima delle elezioni. «Semplicemente incomprensibile», scrive il commentatore su Repubblica/Milano (r.rh., 1 giugno 1010).

Il Partito democratico, oltre a non aver ancora trovato un candidato sindaco affidabile (e stanno cercando verso destra…), non potrà proporsi agli elettori con l’autorevolezza di una formazione indiscutibilmente alternativa, ma dovrà farlo con la debolezza di chi ha giocato sulla doppiezza degli accordi fatti per davvero e negati per finta. Troppi dirigenti del partito appartengono all’ideale e alla politica dell’urbanistica privatizzata, comandata dai proprietari, dagli imprenditori finanziari e dagli impresari edili per lo più anche proprietari (come Ligresti, Cabassi, Caltagirone…). Se c’è una scena milanese in cui vige una recitazione bipartisan, è quella di un’inesorabile cementificazione della città.

Circa i contenuti del Pgt l’informazione è circolata abbondantemente in eddyburg. Nella trattativa del Pd con l’assessore Masseroli nulla ha scalfito l’ipotesi di un aumento della cubatura edilizia di 100 milioni di metri cubi (vedi la denuncia del presidente dell’Inu, Repubblica, cit.). Poi, due questioni considerate dapprima dal Pd basilari, il dimezzamento dell’indice di edificazione (da 0, 20 a 0, 10 mq/mq) nel Parco Sud concernente la perequazione da attuare in terreni urbani e la cancellazione della previsione del demenziale tunnel di 15 chilometri fra Linate ed Expo – Cascina Merlata, con sette uscite nella città, non hanno trovato benevolenza. Peraltro anche un indice di 0,10 è assurdamente elevato trattandosi di aree agricole, per le quali nei piani regolatori d’antan non quasi un terzo di metro cubo al metro quadro si indicava ma almeno dieci volte di meno, e solo per interventi strettamente riferiti alla conduzione agricola. Si capisce, occorre, attraverso la perequazione, remunerare la rendita al livello preteso dagli speculatori, ma, diciamo, est modus in rebus.

Quanto al tunnel, che aumenterà in misura insopportabile l’assalto delle auto dentro la città, l’accantonamento temporaneo scaltramente concesso dall’assessore è una presa in giro e i nostri dell’opposizione dolce lo sanno. Infatti, si è inteso che il progetto sia riproposto nel piano urbano del traffico. Nessun dubbio che sarà approvato sotto la spinta degli interessi finanziari e immobiliari che gli stanno dietro e delle arroganti convinzioni dello stesso sindaco.

Termino accennando a un aspetto creduto secondario del piano, scorso tranquillamente come fosse acqua sulla pietra e invece estremo emblema della cancellazione dell’urbanistica e del favore alla cattiva architettura. È scomparsa dagli obblighi la destinazione d’uso degli edifici, che siano molti nel progetto o uno solo non conta. Non è più necessario collegare contenitore e contenuto. Si progettano involucri astratti dalle ragioni funzionali e sociali, dal rapporto con la città e il contesto di appartenenza. È abolita per legge una delle motivazioni profonde del costruire; sparisce la domanda di, come diceva Rogers, per chi costruire. L’indifferenza e l’aleatorietà distruggeranno il senso stesso della città.

Milano 11 giugno 2010

Era meraviglioso intatto paesaggio archeologico in un contesto di pianura agraria espanso fino all’arco della vicina costa sabbiosa dove sfocia il Sele, altrettanto incontaminato. Eppure Paestum diventaterà uno di quei luoghi che ci vietiamo a un futuro ritorno, tanto sono stati sconquassati da inconcepibili interventi al contorno, tanto sono cambiati così da cancellare, se non possiedi memoria sicura, l’immagine e il sentimento originari.

Al contrario, il giovane neolaureato in visita non trova scandaloso ciò che vede; non riesce a collegare l’eccellenza urbanistica e la perfezione architettonica dei tre templi a un’esigenza di insieme coerente, partecipe dell’unitaria bellezza di paesaggio e architettura. Paestum profanata è normalità, consuetudine. Il giovane non si smarrisce, non si inquieta. È abituato. Quand’era bambino il territorio italiano si presentava in condizione molto avanzata della propria distruzione. Nemmeno se lo incontrassimo ad Agrigento, il più spaventoso esempio di rovina in ogni senso - dalla città franata e peggio riassestata alla Valle dei Templi ripiena di obbrobri edilizi - avrebbe un moto di disgusto. Guarda tranquillo l’attualità per lui oggettiva e indiscutibile, né bella né brutta; nulla sa dei viaggiatori del XIX secolo che vedono «là giunti, l’immensa cerchia delle mura di Girgenti… e quasi tutto quel che resta dei monumenti antichi schierato sul bastione naturale che dà sul mare» (Alexis de Tocqueville, 1827) e non colgono alcuna discordanza nella musica del luogo. Potevano ammirare un paesaggio unico al mondo che opponeva equamente la ricca città greca morta alla povera città storica viva in uno scenario nel quale le due realtà del tutto diverse, a saper ascoltare, parevano dialogare.

Il nostro giovane è cieco e sordo, per lui va bene così. Anche se ha studiato, non distingue; dovrebbe gettar bombe contro questa verità menzognera, per così dire, invece non ne è minimamente infastidito. È talmente assuefatto ad aggirasi nel fango becketiano di città e territorio che trova naturale e godibile il fango agrigentino.

Esiste un peculiare silenzio giovanile entro il generale silenzio della popolazione dinanzi al sovvertimento dell’ambiente italiano; ininfluenti, eppur notevoli, le battagliere piccole minoranze che denunciano e protestano. I cittadini hanno apprezzato, spesso sospinto politici, amministratori pubblici, imprenditori, costruttori, progettisti che guidavano il caterpillar contro l’intero patrimonio di territori, città e monumenti che la storia sociale e materiale aveva assicurato. È vero che la gigantesca operazione (mistificata per sviluppo) a favore delle classi detentrici della rendita fondiaria e finanziaria ha concesso una modesta o ingannevole redistribuzione ad altre classi ma una formidabile funzione l’ha svolta il consumo inutile intimato alle masse. Il consumismo, assuefazione a una forma aberrante di consumo, unito all’impressionante mancanza di cultura crea la condizione disarmata per il consenso a ogni scelta dei poteri di cui sopra; nello stesso tempo il consenso incontrastato è causa del consumo acritico.

I giovani sono campioni in massa dell’acquisto esagerato di ogni cosa voluto dai padroni del mercato anche perché partecipi del consenso: più o meno convinto, forse soprattutto noncurante. Loro non hanno sospinto, hanno tranquillamente accettato la distruzione del Bel Paese. Invece i consumi di cose superflue o disperatamente nuove sono imposti a tutti, ma non si dice che i giovani le acquistano in maniera entusiasta ed eccitata, come in festa.

In una città come Milano, ricchi e pazzi per l’abbigliamento e per il divertimento leggero, spensierato, conformisti consumisti consenzienti ci appaiono questi giovani. Come potrebbero reggere le centinaia e centinaia di magazzini dallo specifico look giovanile che si inseguono l’uno dietro l’altro lungo le strade del centro storico, i grandi assi radiali e persino nella periferia storica, che si moltiplicano ogni giorno sulle ceneri di precedenti commerci privi dell’ultimissima merce omologata dal desiderio? Come in tanti spezzoni di città esclusivamente loro, questi tali giovani o giovani-maturi, dai tredici ai trentacinque anni, frequentano vedono comprano, ne parlano (le ragazze discorrono sempre di vestiti). Cosa sanno della ridotta città vera, che pur esiste ancora, o della metropoli discesa nel pozzo del puro gioco commerciale e finanziario dall’altezza delle proprie capacità di creare cultura oltre che merce-denaro? E le centinaia di locali creati apposta a Porta Ticinese e sui Navigli o in anfratti di semi-centro e vecchie periferie: come potrebbero vivere e riprodursi se non fossero totalmente disponibili quei destinatari tenuti a condiscendere, mai a contestare? se questi non avessero interiorizzato il modello comportamentale che unifica silenzio consumo consenso?

Articolo pubblicato anche in il Grandevetro n. 197, gennaio-febbraio 2010

(e riprodotto in eddyburg) «Caserme, castelli e spiagge saldi di Stato per il territorio» riguarda il trasferimento di questi beni agli enti locali («federalismo demaniale»), che provvederanno alla loro commercializzazione. Non è una novità quella della distruzione del patrimonio immobiliare pubblico attraverso varie procedure. Né, in tempi di predominio della cultura liberista contraria a qualsiasi sorta di pianificazione, l’andazzo è sorprendente. La vecchia urbanistica, che rivendicava l’indispensabile legame, nel piano regolatore, fra esistenza di riserve immobiliari di proprietà pubblica e possibilità effettiva di attuare il piano (e teorizzare di pianificazione non illusoria), è stata sconfitta. La pratica odierna è coerente con la supremazia politica della destra e con la debolezza della sinistra se non della sua rinuncia ai propri modelli che ne giustificherebbero l’esistenza stessa. Tuttavia sorprende, della sinistra, l’assoluta mancanza almeno di un contrasto, di una qualche barriera alla smaccata liquidazione, totale in prospettiva, del demanio di ogni livello istituzionale. Purtroppo lo stesso principio di «privato è bello» si è introdotto non furtivamente fra i suoi ideali.

Penso agli anni fra i Cinquanta e i primi Sessanta del Novecento. Erano i Comuni allora detti «democratici», in accordo con i progettisti di sinistra o da questi sollecitati, a voler preservare la proprietà pubblica di suoli e di edifici destinati a funzioni sociali e culturali o a residenza (case comunali, dell’Iacp e di altri istituti); nei casi migliori a volerla aumentare mediante precise indicazioni nel piano urbanistico non solo dei servizi singolarmente definiti, ma anche di aree vincolate a una nuova esplicita destinazione appunto a riserva demaniale. Forse lo permetteva il contesto politico culturale poi contraddistinto dalla legge 167 e dai Piani di edilizia economica e popolare per la parte relativa all’acquisizione dei terreni al prezzo vigente due anni prima della deliberazione consiliare. Qualche progettista osò infatti prospettare nel piano regolatore, a parte le consuete e larghe dotazioni di servizi, aree vincolate a «Centri di iniziativa pubblica» (CIP), da acquisire per mezzo di esproprio o conveniente accordo bonario, per fronteggiare future esigenze non al momento prevedibili. Appunto, una riserva demaniale. Ora tutto questo è sepolto nella memoria di pochi e nessuno nel centrosinistra ma nemmeno nel residuo della sinistra si sognerebbe di proporre, anziché alienazioni, incremento di demani statali e locali.

Trasferimento di beni dello stato a Comuni, Province Regioni: fosse solo questo. La realtà locale rispetto alle proprietà pubbliche mostra che i Comuni stanno provvedendo per conto loro a vendere se stessi. Il giornale «Milano finanza» del 19 dicembre scorso illustra un «piano di alienazioni immobiliari» dei Comuni e ne seleziona sedici in una tabella in cui i valori immobiliari riferiti ad ognuno di essi derivano dai bandi delle aste previste per il triennio 2009-2011. Vale la pena di elencarli, casi emergenti di un insieme più numeroso che certamente risulterà ben presto: Aosta, Bari, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Padova, Perugia, Pescara, Pisa, Reggio Emilia, Trieste, Venezia, Verona, Viterbo. Il malloppo totale, al quale appartengono sia i «gioielli di famiglia» appetiti dai grandi speculatori, sia buone occasioni per qualsiasi imprenditore o anche semplice cittadino abbia a disposizione qualche milione o persino poche centinaia di euro, è di 5 miliardi e 638 milioni. Quale il piatto più ricco dell’intero servizio? Naturalmente quello di Milano, ben 4 miliardi e 700 milioni.

La giunta ha deciso di disfarsi entro il 2011 di 134 immobili ubicati dentro o fuori la città. Fra essi, palazzi di altissimo valore finanziario, funzionale e simbolico in pieno centro cittadino, come l’enorme sede dell’anagrafe in Via Larga prossima a piazza Duomo, la sede centrale dei vigili urbani in piazza Beccaria/piazza Fontana, ossia l’ex palazzo dei Giureconsulti di origini cinquecentesche, l’esattoria comunale di via San Tomaso a due passi dal Castello. E così via: nodi strategici di una rete di luoghi della città pubblica vengono sciolti per ridurla a magazzino delle aste per i migliori affari del mercato. Venezia è, dopo Milano e, a grande distanza per valori in causa, Verona, l’inatteso terzo «fronte immobiliare». Su 230 milioni di euro di dismissioni, dopo il conferimento di diverse proprietà per un valore di 82 milioni al Fondo immobiliare Città di Venezia, «Est Capital si è aggiudicata tramite gara l’intero pacchetto in vendita, comprensivo di numerosi edifici non residenziali, tra cui alcuni di prestigio o strategici per lo sviluppo della città, oltre a terreni dove sono previsti importanti interventi residenziali». Fra il resto: basta un’offerta di 81 milioni di euro per aggiudicarsi l’intero complesso dell’ex Ospedale al Mare.

Nessuno può sapere quale sarà il destino urbanistico (per modo di dire) ed edilizio di questo violento passaggio dalla città pubblica alla città privata, se non che si assisterà all’ennesima vicenda disastrosa dal punto di vista degli interessi sociali cittadini. Nessuna condizione, nessun vincolo sulla destinazione futura e sulle trasformazioni fisiche regola le vendite. I Comuni fanno cassa in questo modo per pareggiare i bilanci, anziché, fra le azioni possibili, pretendere dal governo la restituzione dell’Ici. E gl’immobiliaristi, grandi medi piccoli come i pupazzi di Dario Fo, si sentiranno sempre più liberi, col ringraziamento dell’autorità pubblica, di continuare e portare a compimento il programma di appropriazione della città, dunque anche di abolizione di quel che rimane del sentimento di comunanza urbana vantato dagli abitanti.

Milano, 8 gennaio 2010

1- Italia povera di parchi, solo il 12% del territorio nazionale contro, per esempio, il 59% della Germania. Solo ventiquattro i parchi nazionali; poco più di un migliaio tutti gli altri per lo più istituzionalmente deboli o privi di un’effettiva gestione oculata, troppo piccoli o dai confini troppo intricati.

2- Parchi sconciati. Portofino perde i tre quarti della propria superficie; al Circeo si restringe la zona protetta; al parco naturale di Bracciano vince la cubatura (30.000 mc) nella tenuta di Vicarello e nella riserva Odescalchi; il parco del Ticino cede alla vessazione autostradale: bretella Boffalora Malpensa, terza pista dell’aeroporto, autostrada Broni Mortara (e non è finita).

3- Destra e sinistra unite in Liguria per l’ultima mazzata a quel che resta di buono e di bello lungo la costa dopo un secolo di “sviluppo edilizio” e di rapallizzazione. Il Pdc, “Partito del cemento” fatto di politici, imprenditori, banchieri in azione da Ventimiglia a Sarzana, al loro servizio architetti internazionalisti come Bofill (Savona), Fuksas (Magonara/Savona), Consuegra (Albenga), Botta (Sarzana e Albaro), Piano (Genova/Erzelli), insensibili al tema della conservazione e cura del paesaggio residuo

4- Autostrada della Maremma fra Grosseto e Civitavecchia: silenzio sull’unica alternativa possibile per non distruggere il paesaggio maremmano: l’adeguamento dell’Aurelia.

5- Progetto di un nuovo hotel e di quaranta posti auto nell’intangibile borgo di Portofino.

6- Primo concorso degli ecologisti per fotografie degli ecomostri lombardi. Dalle montagne dell’Aprica a Mandello Lario un museo degli orrori.

7- Scempio di Arquà Petrarca. Villette di fronte alla casa del poeta, costruzioni sulle colline del Sassonegro, 30.000 metri cubi nella Valle a sud del centro antico, 90.000 metri cubi nel territorio delle Valli Selvatiche , tra Villa Selvatico e Villa Emo dello Scamozzi.

8- Per incuria, manomissioni, abusivismi: dal Veneto alla Sicilia siti italiani messi in discussione dall’Unesco: ambiente delle Ville Venete, Cinque Terre, San Gimignano, Amalfi, Ercolano, Cilento, Lipari, Piazza Armerina, Agrigento…

9- Gran notorietà nella Toscana non più felix per le lottizzazioni rovinose a Monticchiello di Pienza e a Castelfalfi di Montaione: e la sconosciuta Grassina di Bagno a Ripoli, coi gruppi di case a schiera proprio davanti alle antiche mura?

10- “Quanto cemento intorno a Mantova” (Erbani). Grosso insediamento di fronte alla città, con relativo paradosso fra i democratici: la dimenticata lotta del bravo sindaco Fiorenza Brioni contro la propria maggioranza “disponibile”.

11- La realizzazione del programma per la ferrovia ad alta velocità costerà almeno sessantasei miliardi, una cifra spropositata, che non risolverà il vero problema, quello dell’arretratezza della rete normale e dei relativi treni.

12- Persa la lunga battaglia per salvare l’integrità di Baia Sistiana a Duino Aurisina (“la baia di Rilke”); sorge la “Nuova Portofino”, ignobile falso paesetto “istriano”.

13- I sindaci paiono ignari di fronte a un mare di nuove costruzioni in Valpollicella, intanto incassano gli oneri di urbanizzazione…

14- L’ecomostro di Alimuri a Vico Equense sulla costa sorrentina e il complesso alberghiero abusivo di Castelsandro in Cilento: resteranno lì nonostante le vecchie proteste di Rutelli?

15- “Questa Italia di cemento” (Asor Rosa): negli ultimi dieci anni si è costruito in ragione di 53 metri cubi per ogni cittadino. Che significa un totale di circa 3 miliardi e 200 milioni di metri cubi! Come dire 200.000 corposi edifici da 15.000 metri cubi ognuno.

16- Esiste un disegno di legge del luglio 2007 (poi approvato o no?) riguardante venti paesaggi rurali (caratterizzati da colture di pregio) da salvare, anzi da “valorizzare” (ehm ehm…): dalle campagne valdostane (ma dove sono intatte?) al Tavolato degli Iblei in Sicilia. Scelta molto pericolosa. Se questi sono paesaggi da salvare sembra che non lo siano altri reperibili nel mare magno del territorio nazionale pur in buona parte rovinato in varie maniere. E “valorizzare” sappiamo cosa vuol dire, poco meno che edificare quanto più possibile per “far rendere” turisticamente il posto.

17- Abusi edilizi scoperti persino nel parco delle Cinque Terre, a Rio Maggiore e a Vernazza. Ma si può? Certo, tutto è possibile nel nostro disgraziato paese.

18- Il business delle isole Eolie. Nuovi alberghi in barba all’Unesco. “Se il piano regolatore delle Eolie salta come un’onda, anche il piano paesistico è facilmente aggirabile, fra leggi, leggine e siculi intrighi” (l’Unità).

19- Non suona più l’allarme alla foce dell’Arno, vicino alla tenuta di San Rossore? Porto di cinquecento barche, alberghi, ristoranti appartamenti… e l’ampliamento dell’ippodromo dentro la tenuta con massacro di alberi e compromissione del terreno…

20- Giorgio Bocca: “Ma io dico no all’alta velocità. La pianura padana da Torino a Novara è stata squarciata, devastata, cementata dalla linea ferroviaria dell’alta velocità… Per risparmiare un quarto d’ora di viaggio si è piantata nella più fertile e bella pianura d’Italia una gigantesca linea Maginot”.

21- Persiste l’abuso edilizio diffuso nel paese? 10% nel 2006; 331.000 unità, 30.000 abusive. Infrazioni per chilometro di costa: media nazionale, 2,6, Campania 5,9, Veneto 5,4, Romagna 4,3, Lazio 3,7. Difficile che sia drasticamente diminuito in un paio d’anni.

22- Minacciosi eventi all’orizzonte del sistema di parchi della Val di Cornia. I Comuni, come spesso accade, in disaccordo con i fermi principi di tutela custoditi dal presidente Massimo Zucconi.

23- Secondo Mario Pirani noi Italiani, non avendo statue di Budda da distruggere ci sfoghiamo sui paesaggi intatti, come quelli ancora esistenti in Toscana. Dove, tra l’altro, dovremmo guardarci dalla cosiddetta “conservazione attiva”, tanto cara a troppi amministratori pubblici.

24- Il trucco delle Rta (Residenza turistico alberghiera). Si chiedono e si ottengono permessi per costruire alberghi, che diventano seconde case grazie all’ambiguità della definizione, voluta dal legislatore.

25- Un altro elenco dai giornali dei paesaggi “più” minacciati: Parco di Monza, Lago di Garda, Area delle Ville venete, Paesaggio palladiano, Parco del Delta del Po, Campagna senese, Parco dell’Appia Antica, Necropoli di Tuvixeddu (già massacrata…), Murgia Materana, Paesaggio dello Stretto… Ne mancano mille...

26- Ma il Delta del Po è già in mano ai costruttori di villette e di “regni del kitsch”.

27- Dietro ai piani del governo per battere le crisi mediante il business del mattone, a cominciare dal’incredibile (in un’Europa civile) piano casa, non c’è altro che l’ennesimo, forse più violento “sacco edilizio”.

28- Ad ogni modo il mondo della speculazione immobiliare ha vinto sui settori produttivi, instaurando una indissolubile alleanza tra politica e affari. Le amministrazioni locali, in contatto immediato con gli imprenditori, “possono spostare ingenti ricchezze” (Berselli).

29- Muore il fiume di D’Annunzio, fango, veleni e colate di cemento. Speculazioni ed ecomostri sulle rive del Pescara in Abruzzo.

30- Le velleità speculative sulle montagne lasciano macerie. Impianti abbandonati, alberghi chiusi degradati, condomini mai finiti (deprimenti foto su “Repubblica”).

31-Una notizia buona: rivolta della gente contro il grande edificio a forma di mezzaluna (architetto Riccardo Bofill) che chiuderebbe, come una nuova Punta Perotti, il mare di Salerno.

32- Un tentativo di censimento regionale degli abusi edilizi in Calabria: 5210 edifici illegali sul mare, uno ogni 150 metri di costa.

33- A proposito dell’Italia governata dai re degli appalti, il giornalista Statera ricorda il fulminante slogan di Manlio Cancogni “Capitale corrotta = nazione infetta” (gennaio 1956).

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Appendice urbana. Una sola segnalazione, fra le centinaia possibili, per ognuna delle due città diversamente simboliche ma entrambe “città della cazzuola” (vecchia denominazione di Roma):

34- la lobby romana del cemento, che ha speculato con eccessi di opere inutili sui campionati mondiali di nuoto lasciando un buco di otto milioni, si appresta a nuovi vandalismi per le auspicate Olimpiadi del 2020. Abbiamo sperato che Milano perdesse la gara per l’Expo 2015, facciamo fervidi auguri per una sconfitta nel caso di competizione cui partecipasse Roma. Ma intanto i piatti alla romana che danno da mangiare agli immobiliaristi sono sempre ben pieni; l’ultimo in offerta l’intatta Riserva di Decima-Malafede (88 ettari), pronta per il fiero pasto (vedi Giuseppe Pannuccio in eddyburg 30.11.09);

35- la lobby milanese del cemento, già sempre in festa, è in gran giubilo per i piani dell’amministrazione comunale che prevedono un aumento di 700 mila abitanti nel comune, ossia 70 milioni di metri cubi di sole case. Sì, settanta Milioni!

Milano, 3 dicembre 2009

Leggendo Alle sorgenti della Metropoli di Fabrizio Bottini su eddyburg (24.10.09) torna in mente il modello insediativo di William Morris, come traspare da News from Nowhwere (1), che ci autorizza a parlare di dimensione metropolitana mentre non ci importano le altezzose accuse di ingenuo utopismo che gli sono toccate. Nell’«Inghilterra comunista» immaginata al 2003 non sarà più necessaria l’abnorme concentrazione della popolazione nei termini propri della grande città industriale poiché la renderebbe inutile il radicale mutamento nello sfruttamento della forza meccanica. Il movimento della popolazione fra le grandi città e la campagna porterebbe a nuovi equilibri tanto per organizzazione territoriale che per rapporti fra le componenti sociali. Si ridimensionerebbero le città enormi come Londra, invece diventerebbero cardini del sistema territoriale «socialista» le città piccole, ricomposte in modo da collegare strettamente le periferie alle aree agricole, da conservare ampie fasce separatrici di «campagna integra» e da assegnare al centro anche le funzioni di «giardino». L’alternativa deriva la propria certezza da una dura critica della realtà di allora e nello stesso tempo presagisce le nostre odierne valutazioni di determinati processi sociali e territoriali. Già anni prima Morris aveva scritto:

«Pensate alla dilagante congestione di Londra, che inghiotte con la sua detestabilità e campi e boschi e brughiere senza pietà e senza speranza, che divide i nostri deboli sforzi per fronteggiare anche i suoi mali minori quali il cielo fumoso e i fiumi torbidi; […] la stessa campagna aperta viene invasa da miserabili costruzioni che scacciano le solide e grigie costruzioni che ancora esistono […]. In breve, il cambiamento dall’antico al moderno comporta la certezza di un peggioramento nell’aspetto del paese» (2).

Morris incontestabile anticipatore: è infatti vero che oggi le città sono dilagate e che le aree metropolitane, laddove siano tali per essere luogo di relazioni complesse, consistono in detestabile distruzione dello spazio agrario, e laddove manchi tale complessità presentano agglomerazioni anche peggiori per uso dello spazio e dell’edificazione; è infatti vero che a deboli sforzi è corrisposto un aggravamento dei mali e che il problema ecologico appare insolubile; è infatti vero che le costruzioni invasive nella campagna sono, ora, miserabili, da un punto di vista diverso da quello di allora ma coincidente coi principi morrisiani se il giudizio riguarda la qualità urbanistica e architettonica nelle nuove sterminate periferie: volgarità, squallore e arroganza si alternano e si intersecano, così esaltando la dignità delle vecchie costruzioni e dei coerenti insediamenti storici in pericolo di essere travolti dall’aggressione edilizia. Il progetto, possiamo denominarlo così, del socialista inglese assume significati ancor più stimolanti le nostre attuali meditazioni se lo osserviamo attraverso l’ottica del rapporto fra l’uomo e i tempi e i modi del vivere: il lavoro, il tempo libero, il riposo…

«William Morris è il primo pensatore socialista che ha introdotto la filosofia del lavoro e del tempo libero direttamente nelle questioni di formazione degli insediamenti» (3).

Non vige contrapposizione fra lavoro e tempo libero nella misura in cui il lavoro debba essere degno di essere eseguito in condizioni ambientali appropriate e il tempo libero possa contenere tempi di lavoro piacevole e utile alla società; in altri termini: le necessità e i diritti dell’uomo si articolano in lavoro onorevole, ambiente circostante confortevole e bello, riposo per la mente e il corpo. L’armonizzazione delle funzioni vitali in un unitario senso della vita corrisponde all’organizzazione territoriale. Il modello, come possiamo ricostruirlo teoricamente e perfino disegnarlo, è policentrico e come tale oppositivo al dilagare della grande città e alla distruzione della campagna. Il ruolo sociale e spaziale della grande città ridimensionata e delle circostanti città piccole (e medie, pare a noi) assettate, diremmo ora, a misura d’uomo, si risolve nel contrario di quello di «divoratrici dei campi»: entità ben delimitate, secondo un disegno che non temiamo di definire propriamente urbanistico relativo sia alle relazioni fra edificato nelle diverse funzioni e la campagna, sia fra le diverse realtà urbane costituenti l’ordine policentrico emergente dal contesto agrario.

fot f. bottini

Ordine che sarà «il vecchio tricheco baffuto Ebenezer Howard» (Bottini) a prospettare in maniera più circostanziata e non meno convincente. Mi riferisco non alla città giardino di per sé ma all’ipotesi di sistema insediativo mediante «grappoli di città», cioè non l’espansione a macchia d’olio da una città madre, ma un decentramento secondo entità urbane distaccate di misura contenuta, riproducibile quando si tocchino determinate soglie limite. Ne sorte una struttura policentrica integrata da sistemi di trasporto pubblico e da spazi ben definiti di città e di campagna. Una dimensione metropolitana alternativa a quell’abnorme crescita così ben descritta da Morris con l’esempio di Londra che inghiotte «campi e boschi e brughiere…». Una dimensione e un’organizzazione territoriali non rinunciatari dei valori urbani, anzi apportatori di nuove e maggiori possibilità di utilizzo proprio grazie alla ricchezza del policentrismo e al connettivo agricolo che lo garantisce. Rifacciamoci al «Diagram» (4) di Howard.

Come si sa, il grappolo, ripetibile più volte, sarebbe costituito da una città-campagna centrale di 58.000 abitanti e da altre sei di 32.000 dislocate all’intorno. Nell’insieme un organismo urbano-rurale di 250.000 unità in cui «ogni abitante del complesso, pur vivendo in una piccola città, sarà in realtà l’abitante e potrà godere dei vantaggi di una città grande e bellissima; e tuttavia le fresche delizie della campagna saranno a pochi minuti di cammino o di carrozza» (5). La rapidità di spostamento è garantita da una rete ferroviaria (“metro”) che unisce tutte le città satelliti fra loro e a quella centrale. Più grappoli possono designare un ampio territorio, sempre policentrico, a scala grande-metropolitana e regionale. Facciamo un po’ di conti per smentire il luogo comune relativo a presunti difetti consistenti in una densità umana troppo bassa.

Prendiamo uno dei satelliti di 32.000 unità, 30.000 appartenenti al territorio urbanizzato vero e proprio e 2.000 insediate nella campagna produttiva. Secondo lo schema howardiano la città, 1.000 acri (400 ha, 4 kmq), presenterebbe una densità di 7.500 ab/kmq, circa quella del territorio comunale di Milano. La densità propriamente territoriale media dell’ insieme di città e largo spazio agrario pertinente, 6.000 acri (2.400 ha, 24 kmq), sarebbe di 1.143 ab/Kmq, un indice né troppo basso né troppo elevato che esteso a tutto il complesso metropolitano di 250.000 abitanti e alla relativa moltiplicazione a scala regionale rispecchierebbe, insieme alla notevole densità urbana, la straordinaria attitudine del modello policentrico ad assicurare urbanità e ruralità ugualmente forti. (Come la proposta howardiana abbia influenzato l’urbanistica inglese dagli ultimi anni di guerra, poi diversi piani di Mosca e tutta quella pianificazione in Europa rivolta a decongestionare la grande città mediante centri satellite, è ben noto).

Cosa mi risponderebbe «il vecchio tricheco» se potessi raccontargli che avremmo potuto realizzare in Lombardia e nel Milanese un magnifico sistema metropolitano policentrico, operando al tempo giusto (almeno dall’immediato dopoguerra), senza bisogno di fondare dal nulla varie Garden City (o Concord…), ma valendoci del persistente eccezionale policentrismo storico distribuito nella vasta campagna secondo diversi ordini di grandezza dei centri urbani? E che, invece, abbiamo realizzato l’osceno sprawl?

Milano, 11 Novembre 2009

(1) News from Nowhwere, Pubblicazione a Londra 1890, a Boston 1891. Edizione Italiana Notizie da nessun luogo, Garzanti, Milano 1984.

(2) W. Morris, Architettura e socialismo (1881-1892), Sette saggi a cura di M. Manieri-Elia, Laterza, Bari 1963, p. 119.

(3) E. Golzamt, L’urbanistica dei paesi socialisti (1971), Mazzotta, Milano 1977, p. 177.

(4) E. Howard. Garden Cities of Tomorrow(1902). Edizione italiana L’idea della città giardino, Calderini, Bologna 1962, p. 121. La prima pubblicazione dell’opera avvenne nel1898 con un titolo completamente diverso e forse più significativo: Tomorrow, a peaceful path to real reform.

(5) Ivi, p. 118

Ho conservato il bell’articolo di Guido Viale in Repubblica del 21 gennaio 2006 dedicato al traffico nella città. Viale afferma che il primo nemico degli abitanti, più dell’inquinamento dell’aria, è l’occupazione delle strade da parte delle auto in movimento e, peggio, parcheggiate; che è di per sè il traffico privato a essere inconciliabile con la vita urbana. Unico provvedimento veramente «strutturale» (parola della quale abusano i nostri amministratori e i loro tecnici), sarebbe ridurre drasticamente il numero dei veicoli.

Noi milanesi verifichiamo ogni giorno che lo spazio pubblico, dalle strade ai marciapiedi, dalle piazze ai parterre dei viali, è asservito ai signori della motorizzata guerra giornaliera. Penalizzato pesantemente il trasporto pubblico. Non si contano le volte che il tram rimane bloccato, e non per pochi minuti, dall’ingombro di autoveicoli privati; non si contano questi ultimi parcheggiati in doppia fila, persino sui due lati stradali, così da restringere la carreggiata e da impedire il passaggio degli autobus. È consuetudine la sosta sulle righe bianche che vieta il passaggio al frastornato pedone, o la presenza irregolare dei famosi «camioncini».

I signori della guerra automobilistica combattono fra loro ma prima contro le persone appiedate, o anche in bistrattata bicicletta, poi contro i mezzi pubblici. Vincono sempre perché protetti dall’amministrazione comunale (anche se una buona parte non sono residenti in città) e non perseguiti dai vigili urbani mediante giuste contravvenzioni, almeno, o con l’aborrita (da questi) rimozione del mezzo. La ragione non è solo la ricerca del consenso elettorale, è anche l’arretratezza culturale, la condotta urbanistica estranea agli effettivi problemi della vita sociale urbana e succube di imprenditori edili, finanzieri, padroni della moda che disprezzano qualsiasi ipotesi di isola pedonale. Tutte categorie che se ne impipano delle difficoltà dei comuni cittadini afflitti dall’insostenibile pesantezza del traffico privato.

Oggi, a distanza di quasi quattro anni dall’articolo di Guido Viale, alla questione del predominio nello spazio urbano delle automobili in movimento o ferme in spazi illeciti bisogna aggiungere quella di motociclette e motorini, presenti in massa. Aumentate in progressione geometrica, non hanno eguali, riguardo all’occupazione dello spazio circolando o parcheggiando, per violazione delle regole e dei comportamenti ragionevoli. Quando sono in movimento, diventano sempre un pericolo a causa dell’eccesso di velocità e, soprattutto, dell’abitudine a infilarsi in ogni minimo vuoto fra le auto, gli autobus, i tram, le biciclette, gli stessi pedoni. Quando sono ferme, se ne stanno, a parte i posteggi destinati e segnalati, dappertutto: marciapiedi (che peraltro percorrono a motore acceso per trovar posto), piazze e sagrati, sotto i portici (idem come i marciapiedi). Chi non vive o frequenta Milano non può immaginare quanto gravemente incida sulla vita urbana il trattamento abusivo, tollerato anzi favorito, dello spazio pedonale da parte delle «due ruote» a motore («due ruote»: così i nostri amministratori amano mischiare in un unico calderone biciclette e moto, mezzi che più diversi non potrebbero essere riguardo al modello di «città affabile» che avremmo voluto conservare).

Come può accadere che, fra automobili e motociclette, certi spazi pubblici storici diventino da ambienti per star bene, grazie alla loro riservatezza e bellezza, luoghi da scappar via afflitti? Come sopportare, per esempio, lo stato di Piazza San Sepolcro con la chiesa e la biblioteca Ambrosiana, di Piazza Belgiosioso col fastoso palazzo e la Casa del Manzoni, di Piazza Sant’Alessandro con la grande chiesa barocca, dello slargo con la Cappella della Pietà di Santa Maria presso San Satiro (e parcheggio segnalato…)? Vedere le fotografie scattate in un giorno qualunque.

Allegato un Power Point di quattro immagini. Cfr. nel sito i miei articoli «È l’auto il nemico numero uno della città», 2 febbraio 2006 e «Smog e traffico, a Milano non cambia nulla», 19 gennaio 2009 (l.m.)

“Nnpp”, il nuovo movimento “Non ne possiamo più” che Vittorio Emiliani ironicamente propone (l’Unità14.6.2009) riguardo a certe mene postelettorali nel Pd, vorrei applicarlo alla pertinacia con la quale architetti internazionalisti fra i più noti squadernano progetti grandiosi e insensati in ogni luogo che gli capiti sottomano. L’ultima denuncia è di Francesco Erbani su Repubblica del 13 scorso (vedi anche in eddyburg): progetto di Ricardo Bofill per il lungomare di Salerno. Un “Crescent alto come un palazzo di dieci piani visto dal lungomare avrà l’aspetto di un immenso paravento solcato da colonnine che gli danno un marchio postmoderno (ma molto in ritardo)”, cui si aggiunge una manciata di altri edifici per un totale (cito ancora Erbani) di oltre 150.000 metri cubi. Ciò che colpisce in episodi di questo genere da molti anni ricorrenti in diverse città e cittadine, si divide in almeno tre ragioni (a parte l’ovvia domanda dell’imprenditore e/o proprietario): un sindaco (eventualmente sostenuto da una giunta o da un Consiglio comunale) che aspira a iscrivere il proprio Comune nel Guinness dei primati relativi alla tronfiezza architettonica e all’arrendevolezza urbanistica, sindaco che addirittura, come nel caso salernitano, diventa fanatico sostenitore al di là da ogni ragionevole dubbio; un architetto disponibile non solo a realizzare un’opera completamente avulsa dal conteso fisico-sociale per enormità di apparenza e di inconsistenza sostanziale, ma a garantire l’ottenimento senza sconti della montagna di metri cubi edilizi richiesti dallo speculatore di turno colluso «culturalmente» con l’amministrazione pubblica; un architetto, il medesimo, propenso a proporre continuamente la stessa soluzione, come se non sapesse che il problema dell’architettura si presenta ogni volta in maniera diversa e secondo diverse condizioni ed esigenze urbanistiche, solo deciso a imporre la figura manifesto della propria superiore arroganza. Il Crescent di Bofill (lasciamo perdere la pretesa di uguagliarsi alla mirabile opera di John Wood il Vecchio a Bath) passa, lo nota il soprintendente, da Cergy Pontoise a Savona a Montepellier. E, annoto, deriva dall’ormai vecchio ipercolonnare “Les Echelles du Barocque” di Parigi/Montparnasse. Tutto questo non ha niente a che fare con la coerenza d’artista; consegue alla pretesa di reclamare la validità dell’architettura come oggetto in sé e per sé, come forma individuale, a prescindere dalla città, dall’ambiente fisico e sociale, dal paesaggio. Quando poi si tratti di mare e costa sembra che non ci sia scampo: in eddyburg abbiamo denunciato il caso incredibile di Mola di Bari “il meno immaginabile di territori disponibili” coi due fronti a mare “sacrificati alle potenti cubature ideate da Oriol Bohigas, grazie tante al contesto” (Falsificazione dell’architettura e privazione dell’urbanistica, in eddyburg 11.09.2006. Quando l’architetto si innamora di una forma astratta diventata maquette sul suo tavolo da lavoro o rendering di computer, sembra reticente a mollarla caschi il mondo, qualsiasi sia la localizzazione. Riguardo alle città di mare forse è meno noto un caso recente apparso sulle pagine locali di Repubblica/Genova. Mario Botta propone per Sarzana (Sp) una specie di torraccione a fungo, gonfio e altissimo, cilindrico due volte; ma cilindri contraddistinguono anche un suo progetto per Boccadasse a Genova. E prima fece scalpore, nella ricostruzione della Scala di Milano, il volume cilindrico ellittico (di cui non c’era bisogno) come fosse posato sul tetto del neoclassico Palazzo del Biffi e che, nella visione dalla piazza, guardiamo spaesati affiancare il colossale cubo scenico del teatro.

Nnpp. Non dovremmo denominare architettura queste cose e cosone. D’altronde un altro carattere le distingue come oggetti estranei ai contesti: la mancanza di indicazioni circa una attendibile e utile destinazione. Insomma cosa conterranno tali enormi volumi edificati è indifferente. Il corretto, ben studiato, prevedibile utilizzo degli spazi, punto d’onore di ogni progetto legato a una propria necessità, non interessa né allo speculatore, né al sindaco vanitoso, né al progettista famoso. Il “mostro”, come usa chiamarlo, inverato ridistribuirà comunque proporzionati vantaggi alle tre parti.

Il significato letteraledi sentire nell’accezione estesa è: avere coscienza delle impressioni ricevute attraverso i sensi, o avvertire una sensazione fisica e psicofisica, o essere sensibile a una sollecitazione affettiva o morale, o avere un’impressione confusa, o, infine, essere in grado di apprezzare, comprendere appieno qualcosa: sentire implica una generale animazione dei sensi: ma anche nel significato del solo ascoltare può spezzare l’unicità delle relazioni. La stessa funzione di udire, in apparenza nodo stretto a una pura funzione d’organo, si apre a ventaglio verso le altre, in primo luogo appunto al vicino ascoltare, la cui proprietà originale è udire con attenzione. Di qui l’ulteriore apertura ai più straordinari e in parte misteriosi effetti prodotti dai suoni della natura, del paesaggio, dell’architettura e specialmente della musica-musica. Sentire udire ascoltare la musica rimanda al valore più alto di tali verbi, poiché la ricezione (sapendo), richiede una mobilitazione sensoria molto complessa.

La musica è architettura non solo in forma traslata, lo è in quanto costruzione, struttura: basi e sostegni, finiture e decorazioni. John Cage aveva proposto di mutarne il nome in “organizzazione dei suoni”; noi architetti abbiamo introdotto per l’architettura la funzione “organizzazione dello spazio”; peraltro il compositore americano aveva composto Construction I, Construction II, Construction III. La musica è paesaggio sonoro come la natura, talora calmo e a linee semplici, orizzontali o a leggere ondulazioni (Calma di mare e viaggio felice, di Mendesshon Bartholdy...), talora accidentato, a linee contrastanti, guerra e pace insieme, violenza e dolcezza (le sinfonie di Mahler, la settima “di Leningrdo” di Schostakovic...). La musica sentita agisce sul cervello, sull’animo-cuore, sul corpo. Questi reagisce al ritmo (lascio da parte la danza, naturale suo rispecchiamento, e accenno appena alle discusse vibrazioni provocate dal rock più pesante; temi entrambi al di fuori del senso del presente scritto), prova brividi e stupori, avverte umidore agli occhi. Tutto ciò quando la musica è, ci intendiamo, “buona musica”. Identiche espressioni potrei usare circa la natura, l’architettura e le arti figurative, avvisando inoltre che la sindrome di Stendhalè un fenomeno reale.

Ognuno ha sperimentato la differenza fra l’ascolto di un disco e la partecipazione all’avvenimento musicale. Nel primo caso gli effetti non sono molto intensi. Nel secondo tutto si esalta, ancor più poiché interviene la visione. Ai concerti con l’orchestra esposta vedi la struttura architettonica di questa, approntata secondo gruppi timbrici o, qualche volta, speciali incroci; vedi, mentre li ascolti, l’origine dei suoni, altezze e timbri, che confluiscono, separati o in diversi insiemi, nella progressiva costruzione dell’opera: la nascita di un paesaggio da elementi primordiali crescenti fino alla compiutezza di forme appagate della loro evoluzione. La funzione visiva è importante anche se l’esecuzione riguarda pochi strumenti, perfino uno solo. Nella musica il vedere rende completo il sentire. Nell’architettura il vedere accresce la sua ragione dall’ascolto dei suoni silenziosi che l’architettura ci invia se sappiamo ascoltarla, vale a dire amarla. Del resto il silenzio in musica ha pari dignità del suono: nella notazione alle figure di durata determinata delle note corrispondono altrettantente figure omonime di pari durata delle pause.

Infine nel teatro lirico musica e architettura non abbisognano di metafore per presentarsi coniugate. Il trinomio di Giancarlo Consonni Teatro corpo architettura forse trova nel teatro lirico occasione di affermazione unificante maggiore che nel teatro di prosa, poiché là c’è la musica, che aggiunge frasi sonore al commosso dialogo fra il corpo e l’architettura.

Diciamo armonia parlando sia di architettura che di paesaggio, armonia fra opere dell’uomo e opere della natura. Di armonia ed equilibrio fra arte e natura scrive Pietro Citati per spiegare la propria commozione davanti alla foresta di Founteins Abbey in Inghilterra. Non si fraintenda: tali parole, è la musica a insegnarcelo, non significano consonanza, proporzione, equilibrio come in fisica quando le risultanti delle forze applicate a un corpo e dei loro momenti sono nulle; poiché vale anche il contrasto, la differenza, il contraddittorio fra le parti, perfino il caos (Cage, ancora), sia nelle forme artificiali che naturali. Sappiamo che non esiste la regola assoluta della bellezza. Non sono ammissibili pregiudizi qualificativi “di massa” basati sulle divisioni a priori, per esempio in musica fra tonale e atonale, fra consonante e dissonante, fra melodismo facile e quello creduto difficile perché liberato dalla sottomissione alla tonica e alla dominante. Nell’accoglimento dell’arte l’alternativa è: pigrizia e inerte acquiescenza, sotto la cappa di modelli pietrificati, o disponibilità selettiva al godimento spirituale e corporeo grazie alla conoscenza e all’educazione dei sensi, e ai conseguenti netti ripudi.

L’armonia in musica, intendo la specifica scienza e arte degli accordi, semplice o enormemente complessa organizzazione di suoni simultanei sovrapposti in verticale, è in sé costruzione architettonica: lo si comprende ascoltando e, potendo, osservandone il disegno nello spartito. Si ritiene l’armonia struttura di sostegno della melodia, ma una composizione può consistere in una pura successione di accordi, come quando in architettura non esista un sovrappiù di rifinitura: i clusters, p.es. Volumina di Ligeti, titolo volutamente architettonico: musica per organo solo le cui molteplici misteriose costruzioni sonore rinviano a un segreto interposto fra architettura e natura, a un paesaggio arcano non visibile eppure vero all’ascolto.

L’armonia secondo Adorno è colore in quanto arte della strumentazione che la realizza appieno. Colore in musica come colore in architettura se intrinseco al processo costruttivo-compositivo e non orpello. Wagner è un precursore ed è con la musica contemporanea che “la scelta del colore non dipende da alcuna regola ma si prova solo con le esigenze concrete dello specifico contesto compositivo, per la dimensione armonica e per la costituzione della melodia”. Il colore perciò, appartenendo in primo luogo all’armonia-strumentazione, non è per definizione un’aggiunta superficiale. A questo proposito, in architettura si impone Bruno Taut perché con lui il colore, ingrediente primario di quella natura a cui egli improntava il suo pensiero e il suo progetto, entra nell’ineluttabilità architettonica, e la supera per espandersi in un totalizzante paesaggio urbano: colore strutturale della città intera. Taut inoltre, ne tratterò più avanti, è l’architetto che comprende nella sua sintesi, oltre all’architettura e al colore, la musica, non quale metafora o parziale pedagogia per l’architettura, ma effettivo elemento pari agli altri due. Da un punto di vista storiografico poi, attribuisco particolare importanza al dialogo fra Le Corbusier e il giovane Piero Bottoni nel famoso scambio di lettere del 1927-28. Ponendo a confronto il modo impiegato nel quartiere di Pessac-Bordeaux, superfici del parallelepipedo edilizio a colori puri differenti (“intervenire energicamente nell’affermazione stessa del volume delle case”, scrive L-C nella lettera) coi Cromatismiarchitettonici bottoniani (intervento sulle pareti degli edifici nelle strade e piazze della città per mezzo di colori digradanti di diverso tono sfumanti l’uno nell’altro), il progetto di Bottoni pare originale e avanzato grazie al ricorso a un sistema di relazioni fra colori e loro intensità, tono, posizione, digradazione (tutte locuzioni queste proprie del linguaggio musicale) tale da moltiplicare le possibilità di raggiungere determinati scopi in ordine alla percezione dello spazio-volume, della “struttura” del costruito. A questa stregua il ‘sinfonismo’ e l’’effetto lirico’ di cui scrive Le Corbusier è già oltrepassato. Non è casuale l’uso della parola ‘cromatismo’, che ci propone il confronto fra le enormi risorse della scala cromatica temperata e la relativa ristrettezza della scala diatonica-naturale. Bruno Taut procede dall’architettura alla musica. Moisej Ginzburg, come Taut, trova nella musica radici e ragioni dell’architettura, o le simiglianze o, questa è la novità, l’arte a cui ricorrere per fare architettura per così dire completa, senza vuoti di significato. Fra le proprietà grammaticali della musica Ginzburg utilizza soprattutto il ritmo, quasi come manualistica perl’architettura. Penso che egli ragionasse più o meno così: se l’architettura contiene elementi propri della musica (nella storia dell’evoluzione umana i suoni hanno preceduto l’edificazione), conoscerli diventa essenziale per realizzarla. Bruno Taut invece, con Der Weltbaumeister. Spettacolo architettonicoper musica sinfonica (1920, due anni prima del testo di Ginzburg) pratica un rovesciamento: non la musica supporto, ma l’architettura fondamenta della musica, come rivela quel per. In realtà si tratta di completa pariteticità: infatti nella sceneggiatura disegnata e scritta si susseguono le immagini e scorrono insieme le precise indicazioni sonore e la descrizione dell’evolversi di forme colori luce. La sintesi sognata da Taut con Der Weltbaumeister è un particolare del grande quadro dei progetti utopici, sintesi naturale di architettura e paesaggio, nient’affatto in contraddizione, col sentimento del Taut realizzatore di quartieri popolari. Partendo dall’architettura egli scopre che la musica doveva essere strumento indispensabile per conquistare quell’unità artistica superiore che possiamo ritenere essere ai vertici del suo pensiero anche quando si occupa dell’architettura concretadelteatrod’opera. Chi fra i compositori, partendo dalla pura musica al di fuori del teatro lirico, ha cercato di pervenire a un’unità artistica superiore? Ho scelto il moscovita Alexander N. Skriabin, colui che più di altri riuscì a realizzare con le opere sinfoniche un fantastico, onirico eppur vero paesaggio d’arte totale. La musica procede verso un’architettura di suoni e di colori reali, non allegorici; un’atmosfera e uno spazio luminosi policromi. Poème divin, Poème de l’Extase e Prométhée-le”Poéme du feu” sarebbero dovuti sfociare nel Misterium destinato a rigenerare l’umanità attraverso una mistica comunione dei sensi prodotta dalla sinestesi delle arti, il contrario della scissione sensoriale secondo le funzioni delle singole forme d’espressione artistica, e dalle relative corrispondenze cosmiche (il cosmo era ancora, all’inizio del Novecento, il più naturale e misterioso dei paesaggi non-umani).

Prométhée, se ascoltato e visto nell’integrità della sua concezione sinestetica, avrebbe prodotto sensazioni nuove e assai più complete di quanto avesse mai potuto la musica sinfonica da sola: questa la certezza utopica di Skriabin.

“Luce” è il nome di una parte supplementare della partitura notata meticolosamente come le altre, ma rivolta, anziché a uno strumento acustico, alla tastiera di controllo di un impianto elettro-luminoso capace di inondare, come gli splendori policromi nel Weltbaumeister di Taut, l’ambiente dell’esecuzione di una luce diversamente colorata nei diversi momenti del processo compositivo, tinte prescritte accuratamente come le note. Sul piano musicale, ormai sottratto al sistema tonale, primeggia, al posto della funzione dell’accordo di dominante tipica dell’armonia tradizionale, il “suono centrale”, l’“accordo Prométhée”, un accordo sestuplo, imponente costruzione architettonica, una stratificazione di cinque intervalli di quarta: per l’artista reductio ad unum di tutta la sua filosofia, ma anche simbolo del caos originario da cui sortirà, nel farsi della composizione, l’opera d’arte totale.

Scrivo in merito al progetto e, ormai, alla realizzazione del restauro (se si più definire così una cosa che non lo è o non lo è per gran parte) del Castello visconteo-sforzesco e della cinta spagnola. Dalla abbondante documentazione ricevuta mi era già chiaro quale sarebbe stato il risultato. Inoltre la rassegna stampa e le diverse discussioni o prese di posizione mostravano che il problema, benché grave, non era approdato alle pagine nazionali dei grandi quotidiani, insomma non era diventato un caso paragonabile a tanti altri simili susseguitisi lungo i decenni della storia urbanistica e architettonica del nostro paese dal dopoguerra. Storia di un disastro, del resto, se lo si guarda sapendo come l’Italia era prima.

Sì, era intervenuto Sgarbi, nel suo solito modo teso a scompigliare un po’ le carte con apparente anticonformismo e rientrare presto nei ranghi (fa sempre così a Milano in rapporto alla stantia anzi reazionaria posizione culturale del sindaco e della giunta di cui fa parte). Sì, s’era notata qualche firma di architetto “di nome” a favore del progetto (i “ben 37 famosi architetti” li lasciamo, meno quei pochi, all’opinione del giornalista), ma, a leggere le scarse motivazioni, sembrava posta affrettatamente senza aver troppo approfondito la questione (si poteva dubitare che sarebbe stata in seguito confermata alla verifica della realtà). Unica evidenza di rilievo nazionale quella di Italia Nostra. L’associazione si era rivolta al presidente del Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici, Salvatore Settis, e ai diversi Comitati presumibilmente interessati al tema in causa, manifestando decisa opposizione al progetto e nel contempo riaffermando l’importanza del Castello quale storica fabbrica dalla “struttura complessa”, dunque da toccare, se mai lo si dovesse, molto cautamente.

Struttura, tuttavia, da sempre ignorata negli itinerari culturali e turistici: la guida dettagliata del Piemonte del Touring Club nell’edizione 1961 dedica ai resti dell’antica costruzione una riga e un quarto; la Guida Rapida d’Italia – Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, ed. 2002 – un po’ di più, giacché accenna a qualche data e alle opere degli spagnoli sotto il cui dominio la città decadde per crisi demografiche ed economiche. Forse l’unica notorietà per così dire extra-provinciale la città l’ebbe quando Sebastiano Vassalli pubblicò con Einaudi (1990) il bellissimo romanzo La chimera: una Novara degli anni a cavallo del 1600, proprio l’ultimo tratto del periodo in cui gli spagnoli eressero la cintura fortificata sventrando il contesto urbano e distruggendo i borghi. Certi personaggi diventarono famosi nei circoli letterari, l’Antonia o “la strega di Zardino” (Zardino, villaggio sulla Sesia sparito nelle nebbie della storia o della favola), il vescovo Bascapè, il boia Sasso, i poveracci, “i camminanti”…

Allora. Il Castello, la Piazza dei Martiri della Libertà, una volta dedicata a Vittorio Emanuele II il cui immancabile monumento sta lì al centro. Guardiamola, questa piazza, questo grande spazio tipicamente piemontese anch’esso retaggio della storia della città interna lambita dai bastioni spagnoli. Fortunata soluzione urbanistica insieme all’ampio parco, col nostro bel rudere a far da legaccio e da tramite quando lo si potrà attraversare. Dal dopoguerra mai si è discusso tanto circa il destino del sito dei conquistatori e vessatori dopo l’epoca del libero Comune. Prima i colonizzatori milanesi, poi gli occupanti e sfruttatori militareschi spagnoli. I novaresi sempre inerti e mugugnanti? E quando venne Mussolini, di quanto l’entusiasmo dei cittadini che si assieparono nella piazza copriva il fondo di antifascismo che c’era, già vitale e che sarebbe affiorato e poi esploso con la lotta partigiana e la Liberazione? Ah, la piazza piena di bandiere, quasi tutte rosse, quelle che in questi tempi pochi osano ancora sventolare. La piazza dei grandi comizi nell’immediato dopoguerra, poi nel ’48 (ricordate la “Madonna pellegrina”?), nel ’53 la battaglia contro la “legge truffa” (pensate, siamo daccapo, ora c’abbiamo la “porcata” !); e le forti contese delle elezioni comunali? L’indimenticabile sindaco socialista Pasquali, l’amministrazione democristiana del discusso sindaco Allegra, la riconquista della sinistra nel 1956...

Ecco, il 1956 è una data cruciale nella storia moderna della piazza. Pochi possono ricordarlo, pochissimi non anziani lo sanno: in quel momento l’insieme urbanistico e architettonico fu in gravissimo pericolo di sovversione. Descriviamolo, il quadrilatero: lato sud, i resti del Castello; lato est, il Teatro Coccia, un impianto che nella la storia del melodramma “dato” nelle città di provincia non è meno significativo dei più conosciuti teatri di Parma e di Reggio Emilia; lato ovest, il Palazzo ex Assicurazioni Venezia, realizzazione di tipo stilistico, alta almeno un piano più dell’ammissibile, progettata da un Angelo Crippa che perlomeno divise il corpo di fabbrica in due parti così da lasciare in mezzo un passaggio dalla piazza all’Allea e un buon volume d’aria e di luce; infine lato sud, dirimpetto al Castello il Palazzo del Mercato, l’edificio insigne, magnifico esempio di architettura neoclassica del secondo ventennio dell’Ottocento, di solito designato come Palazzo Orelli dal nome dell’architetto progettista: una vasta, compatta ed elegante costruzione a sua volta quadrilatera, completamente porticata, dotata di un solo piano al disopra delle arcate e di un potente stilobate atto a ripianare le differenze di quota del terreno lungo i fianchi e il lato di Corso Italia (quello con la doppia scalinata).

Ebbene, l’amministrazione di sinistra appena insediata si trovò a sfogliare l’inconcepibile progetto di sopralzo di un piano del Palazzo Orelli per l’intero quadrato; progetto voluto e approvato dagli amministratori precedenti e pressoché avallato in maniera definitiva dal Direttore generale delle antichità e belle arti presso il Ministero della pubblica istruzione, Guglielmo De Angelis d’Ossat. Sandro Bermani era il nuovo Sindaco, chi scrive giovane assessore a “tutto” ciò che concerneva urbanistica, lavori pubblici, edilizia privata. Comunque la battaglia per “tornare indietro” fu subito iniziata col pieno sostegno dei nostri compagni della maggioranza consiliare e dovette implicare anche un difficile e non poco imbarazzante confronto romano del sindaco e dello scrivente col principe dei soprintendenti. Come si vede e spero si vedrà per sempre passeggiando nella piazza ammirando il palazzo (incresciosa presenza delle automobili permettendo), la battaglia fu vinta. Davvero un successo incredibile, eppure i rapporti di forza a livello politico nazionale non erano favorevoli.

Se il Palazzo sopraelevato consistesse lì, ora, irremovibile vilipendio della bella architettura e della buona urbanistica, mi occuperei della ricostruzione del Castello? Non me ne importerebbe un fico! La piazza rappresenterebbe da mezzo secolo uno dei peggiori casi di rovina dell’ambiente urbano nazionale, del tutto in accordo con la generale rovina dei paesaggi naturali, dei territori agricoli, delle coste, delle montagne e via a elencare fino, da ultimo, a dire di un piccolo lacerto d’ambiente dimenticato dal caterpillar che cerchiamo di conservare come in una teca di cristallo antiurto per lasciarlo all’esame curioso delle future generazioni.

Dopo la visione delle immagini del plastico, in diversi passaggi a Novara ho potuto consolidare in certezza le prime impressioni. Quel che rimane solo a livello di queste ultime è relativo all’edificio nuovo previsto lungo il lato occidentale del quadrato. Secondo Italia Nostra (a cui mi unisco) e altri certo non meno competenti dei “famosi” esso non c’entrerebbe nulla con le indicazioni in pianta di un corpo preesistente e irreparabilmente perduto. Tuttavia non è questo l’aspetto che mi preme marcare, ma un altro, ossia la resa del progettista e del committente alla mania d’oggigiorno di trasformare pretesti di restauro in ristrutturazioni pesanti e inserimenti di volumi nuovi giustificati mediante le più varie e fantasiose destinazioni indicate col noto disarmante linguaggio (valorizzare… far vivere… far rendere…) senza sapere se l’eccesso di roba estranea al motivo d’esistenza del manufatto storico servirà davvero.

Mentre aspetto il resto, è la nuova torre che non riesco a sopportare. Non ritengo di entrare nella diatriba, vecchia come il cucco, circa l’eventuale inserimento di opere moderne accanto o ad assetti spaziali e architettonici di alto valore storico estetico o in ogni modo degni di forte attenzione e rispetto. Concedendomi un altro accenno autobiografico cito la presenza nel centro storico di un edifico con la facciata in ferro e vetro inserito nella cortina di case in Via San Gaudenzio: opera (1960-61) dello scrivente, associato prima a Novara e poi a Milano fino al 1969 con Vittorio Gregotti e Giotto Stoppino, pubblicata in diverse riviste di architettura.

Macché torre! Perché questa invenzione presuntuosa? Perché un tale falso di 24 metri d’altezza? Perché voler disturbare lo stare e muoversi in piazza, guardare e ascoltare lo spazio attorno, obbligandoci a volgere gli occhi verso un perno su cui si vorrebbe farla girare, la nostra piazza? La torre insensata, sarebbe un buon titolo. Senza senso, dunque senza sentimento, quella parte in alto con gli orecchioni; di certo non si sapeva in qual modo concludere un volume già di suo forzoso. Senza senso quel parallelepipedo, e quell’altana un formalismo scriteriato (una stüpidada – la signora Franca Ciampi la direbbe “deficiente”, così bollò la televisione) priva di destinazione: cosa potrebbe essere? Un osservatorio fra tre muraglie erette per volere essere molto alti mentre si è piccoli e inguaribilmente provinciali? Una visione dall’alto ma vietata su tre lati?

Altri tempi rispetto a mezzo secolo fa, quando salvammo Palazzo Orelli. Peggiori.

Milano, 20 marzo 2008

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