Uno dopo l'altro i sindaci, uomini e donne, vanno al microfono e raccontano la loro storia sull'acqua. Siamo a Roma, nel palazzo della Provincia, nella sala dedicata a Don di Liegro, un eroe dei nostri tempi. Di fronte è in corso la manifestazione regionale sugli abusi ambientali, veramente troppi. I sindaci che arrivano da tutta Italia hanno deciso di incontrarsi tra loro per stabilire le basi di un'associazione che serva per raccogliere una grande forza per promuovere e vincere un referendum che sventi la privatizzazione dell'acqua che il governo porta avanti. Il governo, mai come in questo caso comitato d'affari della borghesia o dei poteri finanziari che l'hanno conquistata.
L'ultima è dell'altro ieri (ieri per la discussione). Nella ratifica del cosiddetto decreto Ronchi sugli enti locali alla Camera, si è infilato nel testo un emendamento che elimina con un tratto di penna gli Ato (ambiti territoriali ottimali) dell'acqua. L'iter della legge si concluderà al senato, ma l'esito è sicuro - un voto di fiducia, se serve - non si nega a nessuno. A portare all'assemblea dei sindaci questo ulteriore caso, un vero e proprio colpo di mano, è Corrado Oddi, che rappresenta il Forum dei movimenti. La fine degli Ato, spiega, porterà a un'ulteriore esclusione dei sindaci dai luoghi di decisione. Anche negli Ato i sindaci rappresentano la popolazione, il contropotere popolare. Si tratta di un altro passo verso la privatizzazione dell'acqua, la sua definitiva mercificazione. Le funzioni passeranno alle regioni. E le multinazionali convinceranno la politica che regioni tanto oberate dai debiti e strette dai patti di stabilità non potranno gestire un bene delicato come la rete di distribuzione. Diventerà ovvio, anzi gradito vendere al migliore offerente: le generose multinazionali dell'acqua, le società multifunzione emerse dalle fusioni tra le antiche, carissime, municipalizzate. Anche gli Ato, che nessuno considerava un baluardo del pubblico, lo diventano quando la legge parla in modo arrogante e chiaro. Nel giro di un anno «sono soppresse le autorità d'ambito territoriale... Decorso lo stesso termine ogni atto compiuto dalle Autorità d'ambito territoriale è da considerarsi nullo». Attraverso gli Ato, conclude Oddi, circa metà dell'acqua - 64 Ato - stanno per passare di mano. Tornare indietro sarà impossibile: nessuno mai avrà i soldi sufficienti per farlo.
Tutti i sindaci insistono sulla gestione democratica dell'acqua, sul fatto che l'acqua è di tutti, che occorre conoscerla e non sprecarla, non sporcarla. Intorno a un problema tanto sentito si organizza la società civile, si raggiungono le scuole, si preparano le future generazioni alla difesa dei beni comuni. E i sindaci siciliani insistono sul fatto di rappresentare ormai la volontà di 118 comuni nella sola provincia di Agrigento, un milione e centomila cittadini che oggi conoscono il problema per quello che veramente è.
Qualcuno osserva che «da loro» i politici locali sono latitanti e non solo quelli di destra. Neppure organizzando una manifestazione nei pressi della sede di Palazzo dei Normanni si sono fatti trovare. Parla il sindaco di Povegliano veronese, una giovane donna. Lega il tema dell'acqua ai problemi pratici. «Il patto di stabilità cui siamo sottoposti, essendo in settemila cittadini - il limite è cinquemila - ci impedisce di dare aule ai piccoli». Sarà difficile resistere, non cedere l'acqua e rinunciare al resto, pur così importante. Ma poi suggerisce a tutti i presenti un'altra riflessione, semplice, alta: «L'acqua è vita e la vita è uguale per tutti».
Parla Nichi Vendola in un video; non è una sorpresa che non sia presente. Tutti capiscono come siano giorni di fuoco per lui. Pure parla di acqua. «L'aquedotto pugliese, il più grande d'Europa, è un boccone preferito per il mondomarket» e intende il grande mercato un non luogo gigantesco, totale, nel quale tutto è merce, spesso merce inutile, come certe acque, ma è posta in vendita purché consenta un profitto. Non glielo lasceremo, promette. Difende l'acqua bene comune e altri beni comuni come la terra e la memoria. Tutti devono essere strappati alla «voracità», alla «volgarità» dell'attacco.
Non c'è una vera conclusione alla giornata dei sindaci dell'acqua. Hanno parlato in molti, si sono ritrovati e soprattutto conosciuti, hanno constatato di pensarla in un modo e di agire in modi magari differenti, seguendo esperienze e pratiche dei loro paesi e città. Bengasi Battisti, sindaco di Corchiano (Viterbo), fa il punto, verso la fine. «Il giorno 20 marzo, giornata mondiale dell'acqua, si svolgerà la manifestazione nazionale di Roma. Essa - aggiunge - servirà anche a lanciare la raccolta di firme per il referendum abrogativo delle norme che impongono la privatizzazione dell'acqua. Dovremo inoltre definire l'associazione che legherà i comuni, il forum dell'acqua, tutti insomma. E fondarla, ché viva, dal notaio».
IL 20 IN PIAZZA, POI REFERENDUM
Si annuncia molto partecipata la manifestazione nazionale per l'acqua pubblica indetta per sabato 20 marzo a Roma, alla vigilia della Giornata mondiale per l'acqua (che è il 22 marzo). A scendere in piazza comitati, associazioni e movimenti da ogni parte d'Italia, ma anche le 150 amministrazioni comunali che si sono riunite ieri a Roma. Immediatamente dopo, partirà la raccolta delle firme per il referendum abrogativo delle norme che hanno privatizzato l'acqua. Obiettivo: seicentomila firme entro luglio. «Solo un grande movimento popolare trasversale potrà regalarci una grande vittoria per il bene comune. Sull'acqua ci giochiamo tutto, anche la nostra democrazia», scrive Alex Zanotelli in un appello sul sito del Forum italiano dei movimenti per l'acqua. Per poi concludere così: «Dobbiamo e possiamo vincere. Ce l'ha fatta Parigi (la patria delle grandi multinazionali dell'acqua, Veolia, Ondeo, Saur che stanno mettendo le mani sull'acqua italiana) a ritornare alla gestione pubblica. Ce la possiamo fare anche noi».
Cosa succederebbe se i 4.5 milioni di immigrati che vivono in Italia incrociassero le braccia per un giorno? Cosa è l’iniziativa “Primo Marzo 2010 Sciopero degli stranieri” Cosa succederebbe se i quattro milioni e mezzo di immigrati che vivono in Italia decidessero di incrociare le braccia per un giorno? E se a sostenere la loro azione ci fossero anche i milioni di italiani stanchi del razzismo?La manifestazione “Primo Marzo 2010 – Sciopero degli stranieri” nasce in Francia (con il nome “La journée sans immigres – 24 h sans nous”)con il proposito di rendere tangibile l’importanza del ruolo degli stranieri nell’economia e nella società europea. L’idea iniziale è quella di promuovere un’astensione generale dal lavoro rivolta, in primis, agli immigrati, ma anche agli italiani.
L’iniziativa nasce spontanea e rapidamente si diffonde ad altri paesi europei: si formano comitati in Italia, Grecia e Spagna. Ciascun comitato nazionale promuove il “Primo Marzo” e ben presto nascono comitati locali che lavorano per la buona riuscita della manifestazione.
Man mano che l’iniziativa prende piede appare chiaro come in molte realtà italiane sia molto difficile promuovere un’astensione dal lavoro: primo perché di norma sono i sindacati a indire uno sciopero organizzato; secondo perché in molte zone del Paese la situazione lavorativa degli immigrati non è tale da prestarsi a forme di protesta assimilabili a uno sciopero organizzato. Per questo si è deciso di dare libertà organizzativa ai comitati locali i quali possono individuare le iniziative più opportune per dare localmente risalto al tema che sta alla base della manifestazione: stimolare una riflessione seria su cosa accadrebbe se i milioni di immigrati che vivono e lavorano in Europa decidessero di incrociare le braccia o andare via e, di conseguenza, riflettere sul ruolo concreto degli immigrati nelle nostre realtà.
Chi siamo
La struttura organizzativa di Primo Marzo 2010 prevede un Coordinamento nazionale, formato dalle fondatrici: Stefania Ragusa (www.stefaniaragusa.com), presidente e coordinamento comitati; Daimarely Quintero, portavoce; Nelly Diop, tesoriere; Cristina Seynabou Sebastiani. Il referente per il Comitato di Cagliari è Marco Murgia (mmurg@tiscali.it | cell. 3204186060)
I comitati locali lavorano per estendere le adesioni alla manifestazione, rivolgendosi ad associazioni, istituzioni, singoli cittadini. Chi partecipa all’organizzazione dà il suo contributo in termini di idee, contatti, disponibilità di tempo. I comitati sono contenitori che hanno l’unico scopo di coordinare la pluralità dei soggetti che parteciperanno alla manifestazione. Si sottolinea che i comitati sono coordinamenti spontanei di liberi cittadini e associazioni e che l’iniziativa non sta sotto nessun cappello partitico.
Il Primo Marzo a Cagliari
Il programma del Primo Marzo a Cagliari si articolerà su 3 moduli:
1-Primo Marzo nelle scuole: per tutta la giornata, nelle scuole, nelle facoltà universitarie, nelle sedi delle associazioni, verranno organizzati incontri, proiezioni, dibattiti sul tema dell’immigrazione;
2-Primo Marzo informa: verrà preparato un volantino informativo con informazioni concrete sulla vita degli immigrati in città. Per tutta la giornata il volantino verrà distribuito in diversi punti della città;
3-Primo Marzo in piazza: a partire dalle h 19 organizzeremo un raduno pubblico in una piazza del centro con lo scopo di dare evidenza all’iniziativa e rilevanza al tema attraverso i racconti degli immigrati e degli operatori.
Stiamo esaminando una serie di proposte su iniziative specifiche, all’interno di questi moduli, in modo tale da selezionare quelle più efficaci e quelle più concretamente realizzabili visti i tempi ristretti. Nastrini gialli verranno distribuiti perché siano appuntati sugli abiti il primo marzo: il giallo è il colore del “Primo Marzo” scelto perché è considerato il colore del cambiamento e per la sua neutralità politica.
Link – Ulteriori informazioni sulla manifestazione sono reperibili in rete nel sito del Coordinamento nazionale (www.primoMarzo2010.it) e nel sito francese de “La Journée sans Immigres” (www.lajourneesansimmigres.org/fr/). Il comitato di Cagliari ha aperto uno spazio su facebook (http://www.facebook.com/#!/pages/Primo-Marzo-2010-Sciopero-degli-stranieri-CAGLIARI/288228094829?ref=ts).
MANIFESTO
“Primo Marzo 2010” è un collettivo non violento che riunisce persone di ogni provenienza, genere, fede, educazione e orientamento politico. Siamo immigrati, seconde generazioni e italiani, accomunati dal rifiuto del razzismo, dell’intolleranza e della chiusura che caratterizzano il presente italiano.
Siamo consapevoli dell’importanza dell’immigrazione (non solo dal punto di vista economico) e indignati per le campagne denigratorie e xenofobe che, in questi ultimi anni, hanno portato all’approvazione di leggi e ordinanze lontane dal dettato e dallo spirito della nostra Costituzione.
Condanniamo e rifiutiamo gli stereotipi e i linguaggi discriminatori, il razzismo di ogni tipo e, in particolare, quello istituzionale, l’utilizzo strumentale del richiamo alle radici culturali e della religione per giustificare politiche, locali e nazionali, di rifiuto ed esclusione.
Ricordiamo che il diritto a emigrare è riconosciuto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e che la storia umana è sempre stata storia di migrazioni: senza di esse nessun processo di civilizzazione e costruzione delle culture avrebbe avuto luogo.
La violazione di questo e di altri diritti fondamentali danneggia e offende la società nel suo complesso e non solo le singole persone colpite.
Vedere negli immigrati una massa informe di parassiti o un bacino inesauribile di forza lavoro a buon mercato rappresentano, a nostro avviso, impostazioni immorali, irrazionali e controproducenti.
La parte preponderante degli immigrati presenti sul territorio italiano lavorano duramente e svolgono funzioni essenziali per la tenuta di una società complessa e articolata come la nostra. Sono parte integrante dell’Italia di oggi.
La contrapposizione tra «noi» e «loro» , «autoctoni» e «stranieri» è destinata a cadere, lasciando il posto alla consapevolezza che oggi siamo «insieme», vecchi e nuovi cittadini impegnati a mandare avanti il Paese e a costruirne il futuro.
Vogliamo che finisca, qui e ora, la politica dei due pesi e delle due misure, nelle leggi e nell’agire delle persone.
Vogliamo stimolare insieme a loro una riflessione seria su cosa davvero accadrebbe se i milioni di immigrati che vivono e lavorano in Europa decidessero di incrociare le braccia o andare via. Non ci precludiamo nessuno strumento, ma agiremo sempre nel rispetto della legalità e della non violenza.
Comitato 1 marzo 2010
Anticipiamo un brano da Le città come zona di frontiera, che compare sul nuovo numero di Lettera Internazionale
Rispetto allo spazio nazionale, quello della città è, per la politica, uno spazio molto più concreto. E diventa un luogo in cui gli attori politici non-formali possono entrare a far parte della scena politica molto più facilmente che non al livello nazionale. A tale livello, infatti, la politica passa necessariamente attraverso sistemi formali consolidati, sia che si tratti del sistema politico elettorale sia che si tratti di quello giudiziario. In questo senso, se all’interno dello spazio politico nazionale gli attori politici non-formali sono resi invisibili, lo spazio della città consente al contrario un ampio spettro di attività politiche – occupazioni, manifestazioni contro la brutalità della polizia, battaglie per i diritti degli immigrati e dei senza tetto, politiche culturali e identitarie, politiche gay, lesbiche e queer. Attività che in molti casi diventano visibili in strada.
La maggior parte delle politiche urbane infatti è concreta, è innescata dalla gente anziché dipendere dalle tecnologie mediatiche di massa. La politica di strada rende dunque possibile la formazione di nuovi soggetti politici, e consente loro di evitare il passaggio obbligato per il sistema politico formale. Inoltre, attraverso le nuove tecnologie reticolari, le iniziative locali possono diventare parte di un network globale di attivismo senza perdere, con questo, l’adesione a specifiche battaglie locali. Rendendo così possibile una forma di attivismo politico di natura transnazionale, fin qui inedita, centrata sulla molteplicità dei luoghi che pure sono intensamente connessi.
Secondo la mia analisi, è proprio questa una delle più rilevanti forme di politica critica resa possibile da internet e dagli altri network: una politica locale fortemente differenziata, in cui le diverse località sono connesse a livello regionale, nazionale e mondiale. Il fatto che il network sia di natura globale non significa, infatti, che tutto debba accadere a livello globale. Direi anzi che i network digitali stiano contribuendo all’affermazione di nuove forme di interconnessione che si articolano seguendo topografie frammentarie, locali o globali. Gli attivisti politici possono usare i network digitali per operazioni globali o non-locali e allo stesso tempo per rafforzare le comunicazioni locali e le operazioni all’interno della città o di una determinata comunità rurale. E le odierne città di ampie dimensioni, in particolare le città globali, si impongono come luoghi strategici per queste operazioni inedite. Sono sì un luogo strategico per il capitale globale, ma anche uno di quei luoghi nei quali si materializzano in modo concreto le nuove rivendicazioni da parte di attori politici informali.
Non ci vorrà molto prima che la maggior parte dei residenti delle città cominci a sperimentare il "locale" come una forma di micro-ambiente di portata globale. Molte delle cose che continuiamo a rappresentarci e a esperire come fenomeni di natura locale – un edificio, un luogo urbano, un nucleo familiare, un’organizzazione di attivisti nel nostro quartiere – in realtà non sono collocate soltanto nei luoghi concreti in cui le vediamo, ma anche nei network digitali che avvolgono il globo. E sono connessi con altri edifici, organizzazioni, nuclei familiari che possono essere localizzati all’altro capo del mondo. E che nelle loro attività potrebbero essere orientati più verso queste aree lontane che non verso le loro immediate vicinanze. Si pensi, per esempio, al centro finanziario in una città globale, o alle sedi delle associazioni per i diritti umani, o agli uffici degli ambientalisti, gruppi la cui azione è orientata non verso ciò che li circonda immediatamente, ma verso processi globali.
Vorrei ora ragionare brevemente su due aspetti. Il primo di questi è che cosa può significare per "la città" contenere una proliferazione di questi uffici, nuclei familiari, organizzazioni, molto localizzati, ma orientati globalmente. Sotto questo aspetto, la città diventa un amalgama strategico di numerosi circuiti globali che la attraversano. E dal momento che le città e le regioni urbane sono sempre più attraversate da circuiti non-locali, inclusi quelli di natura principalmente globale, una gran parte di ciò che esperiamo come locale perché localmente collocato è di fatto già il prodotto di una trasformazione perché intrecciato, embricato, a dinamiche non-locali, oppure perché è una localizzazione di processi globali. Ciò produce uno specifico insieme di interazioni nel rapporto che una città intrattiene con la sua topografia. La nuova spazialità urbana così prodotta è doppiamente parziale: perché rende conto solo parzialmente di quel che succede nelle città e della loro natura, e perché occupa solo parte di quel che tendiamo a pensare sia lo spazio urbano.
Alfano si affida al modello L’Aquila. E il capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta si ispirerà a Guido Bertolaso. Da ieri, con il voto del Consiglio dei ministri, è emergenza per il sistema carcere e non si possono attendere le lungaggini di una riforma. Perciò, in poche mosse, il piano del ministro prevede l’attribuzione di poteri di commissario delegato al capo del Dap e ordina la costruzione, nell’immediato, di 47 nuovi padiglioni. «Mentre apriamo questi cantieri sul modello dell’Aquila, noi evadiamo tutta la procedura burocratica per realizzare nel 2011 e nel 2012 le strutture tradizionali e flessibili a cui daremo vita con tempi e con modelli organizzativi realizzati in Abruzzo», ha comunicato il Guardasigilli fiducioso. Una corsa contro il tempo per tirar su edifici penitenziari che risolvano la questione del sovraffollamento, una situazione drammatica che riguarda, a ieri, 64.670 persone private della libertà.
Ma soprattutto un’emergenza, altrimenti destinata ad abbattersi sul governo con gli effetti di un terremoto. Niente indulto, tanto meno amnistie, dunque. L’autorizzazione a procedere viene dallo stesso presidente del Consiglio che ha affiancato il ministro in conferenza stampa. Ai cinquecento milioni stanziati in Finanziaria, se ne aggiungeranno altri cento distratti dai fondi del ministero della Giustizia, mentre le risorse per la costruzione dei nuovi istituti devono ancora essere individuate. «Se non è un bluff, è quantomeno assai preoccupante », spiega Patrizio Gonnella, il presidente di Antigone, l’associazione che monitora il sistema di detenzione italiano. «Con questi soldi, anche volessero risparmiare, difficilmente si realizzeranno i 21.749 posti in più promessi da Alfano. Ma ciò che davvero ci allarma – incalza Gonnella – è che la partita “emergenza” finisca con la secretazione delle gare d’appalto, creando nuova illegalità economica». Se, secondo le stime dello stesso dipartimento penitenziario, per erigere un padiglione da 200 posti occorrono circa 20 milioni di euro, il piano «è poco credibile» anche per il capogruppo Idv alla Camera, Massimo Donadi, che ha sottolineato come «questo governo ha tagliato i fondi destinati al comparto sicurezza», mentre molto ha impiegato nella «politica degli annunci».
Che si tratti di «un rimedio di tipo comunicativo», come indica il presidente di Antigone, è la tesi comune a molti operatori del settore. Paola Balducci, responsabile Giustizia dei Verdi e autrice di molti scritti sul sistema penale, entra subito nel merito del problema: «Quello delle carceri è un tema che si solleva da sempre e questo Paese continua a attribuire un potere salvifico alla sanzione penale. Ci vuole molto tempo per costruire nuovi edifici, mentre si dovrebbe riformare il codice, depenalizzando quei reati che non sono più tali e incentivando il sistema delle misure alternative». Temi che erano al centro delle mozioni presentate lunedì e martedì scorso a Montecitorio e che ora, dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, devono cedere il passo.
Il premio Nobel a Elinor Ostrom riconosce l'importanza di aver ipotizzato l'esistenza di una terza via tra Stato e mercato. Quella di Ostrom è una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione "comunitaria" possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Una lezione di particolare importanza oggi a proposito dei beni collettivi globali, come l'atmosfera, il clima o gli oceani. Ma molto significativa anche per l'attuale crisi finanziaria, che si può leggere come il saccheggio di una proprietà comune: la fiducia degli investitori.
Uno dei dogmi fondativi della moderna economia dell’ambiente è la cosiddetta “tragedy of the commons”, risalente a Garrett Hardin. Secondo questa impostazione, se un bene non appartiene a nessuno ma è liberamente accessibile, vi è una tendenza a sovrasfruttarlo. L’individuo che si appropria del bene comune, deteriorandolo, infatti, gode per intero del beneficio, mentre sostiene solo una piccola parte del costo (in quanto questo costo verrà socializzato). Poiché tutti ragionano nello stesso modo, il risultato è il saccheggio del bene. Analogamente, nessuno è incentivato a darsi da fare per migliorare il bene, poiché sosterrebbe un costo a fronte di un beneficio di cui non potrebbe appropriarsi che in parte.
UNA TERZA VIA TRA STATO E MERCATO
Il ragionamento di Hardin partiva dall’esempio delle enclosures inglesi, precondizione della Rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni, in questa visione, costituiva il necessario presupposto di una gestione razionale ed efficiente: mentre in regime di libero accesso il pascolo indiscriminato stava portando alla rovina del territorio, il proprietario privato, in quanto detentore del surplus, aveva l’interesse a sfruttare il bene in modo ottimale e a investire per il suo miglioramento.
Quando non vi sono le condizioni per un’appropriazione privata, deve essere semmai lo Stato ad assumere la proprietà pubblica. Solo i beni così abbondanti da non avere valore economico possono essere lasciati al libero accesso; per tutti gli altri occorre definire un regime di diritto di proprietà privato o pubblico.
Il merito di Elinor Ostrom è stato quello di ipotizzare l’esistenza di una “terza via” tra Stato e mercato, analizzando le condizioni che devono verificarsi affinché le common properties non degenerino. Ostrom prende le mosse dal lavoro di uno di quei precursori-anticipatori, troppo eterodossi per essere apprezzati nell’epoca in cui scrivevano: lo svizzero tedesco, naturalizzato americano, Ciriacy-Wantrup, che ancora negli anni Cinquanta osservava che vi sono nel mondo molti esempi di proprietà comuni che sfuggono al destino preconizzato da Hardin, come ad esempio le foreste e i pascoli alpini. Distingueva appunto le “ common pool resources” (res communis omnium) dai “ free goods” (res nullius): nel primo caso, pur in assenza di un’entità che possa vantare diritti di proprietà esclusivi, a fare la differenza è l’esistenza di una comunità, l’appartenenza alla quale impone agli individui certi diritti di sfruttamento del bene comune, ma anche determinati doveri di provvedere alla sua gestione, manutenzione e riproduzione, sanzionati dalla comunità stessa attraverso l’inclusione di chi ne rispetta le regole e l’esclusione di chi non le rispetta.
Su queste fondamenta poggia l’edificio concettuale della Ostrom, la cui opera più importante, Governing the Commons, sviluppa una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione “comunitaria” possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Analisi che intreccia con grande profondità e intelligenza la teoria delle istituzioni, il diritto, la teoria dei giochi, per lambire quasi le scienze sociali e l’antropologia.
Il campo di applicazione delle ricerche sviluppate in questo filone può far storcere il naso: dalle risorse di caccia degli Indiani d’America alle comunità di pescatori africani, o alla condivisione delle acque sotterranee in qualche remoto sistema agro-silvo-pastorale nepalese. Ma come spesso succede, applicare il concetto di base a un oggetto semplice consente di mettere a fuoco concetti e teorie di portata molto più generale.
Non a caso, la lezione della Ostrom è di particolare importanza oggi, a proposito dei global commons, come l’atmosfera, il climao gli oceani. Per applicare la ricetta di Hardin a questi beni, infatti, ci mancano sia un possibile proprietario privato, sia un soggetto statale in grado di affermare e difendere la proprietà pubblica. Il diritto internazionale, in questa prospettiva, altro non è che un sistema di governance applicato a un bene comune, e non vi è soluzione alternativa alla cooperazione tra i popoli della Terra per raggiungere un qualsiasi risultato in termini di lotta ai cambiamenti climatici.
Ma è importantissima anche in quei casi – si pensi alla falda acquifera sotterrane a e più in generale alla regolamentazione delle fonti di impatto ambientale diffuse – in cui un principio di proprietà pubblica è in astratto possibile e nei fatti esistente, almeno sulla carta; ma la sua attuazione effettiva si scontra, da un lato, con l’enormità dei costi amministrativi (in Italia ci sono centinaia di migliaia di pozzi privati che bisognerebbe monitorare per applicare la norma), dall’altro con la difficoltà politica di vietare comportamenti che sono prassi consolidate percepite come diritti.
UNA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA
Il lavoro di Ostrom trova punti di contatto con la teoria dei giochi, in particolare con quei filoni di ricerca che attraverso il concetto di gioco ripetuto mostrano come gli esiti distruttivi e socialmente non ottimali (equilibri di Nash, di cui la stessa “ tragedy of the commons” è in fondo un esempio) possano essere evitati se nella ripetizione del gioco gli attori “scoprono” il vantaggio di comportamenti cooperativi, che a quel punto possono essere codificati in vere e proprie istituzioni. È interessante anche notare come il “comunitarismo” della Ostrom trovi qui un punto di contatto con “l’anarchismo” antistatale; ma Ostrom enfatizza piuttosto l’importanza della comunità, della democrazia partecipativa, della società civile organizzata, delle regole condivise e rispettate in quanto percepite come giuste e non per un calcolo di convenienza.
Non mi risulta che Ostrom si sia mai occupata di finanza, ma è quanto meno singolare la coincidenza del premio con la ri-scoperta dell’importanza del capitale sociale e delle regole condivise per il buon funzionamento dei mercati. Forse anche la crisi finanziaria che stiamo vivendo altro non è che un esempio di “saccheggio” di una “proprietà comune”, la fiducia degli investitori, per ricostruire la quale servirà qualcosa di più di una temporanea iniezione di capitale nel sistema bancario.
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La città nasce con lo spazio pubblico
Si può dire che la città nasce con gli spazi pubblici. L’ uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ ambiente, genera quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, nasce l’ esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’ insieme della società.
Decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’ incontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). Le piazze come i luoghi della mixitè e della libertà.
Nelle piazze i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’ era un evento importante per la città. E il ruolo che svolgevano era sempre correlato alle condizioni della società, al tempo e al contesto cui erano riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un giudizio o una sanguinosa esecuzione.
Le piazze non erano solo dei luoghi aperti. Erano lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il loro ruolo sarebbe stato sterile se non fossero state parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al consumo comune dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis..
Non è pubblico solo il sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’ uso collettivo, ma è pubblico, comune, anche qualcos’ altro. Qualcosa che determina il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengano ordinati.
Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’ intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese.
Dalla fabbrica al welfare
Il conflitto tra dimensione privata e dimensione collettiva, tra momento individuale e momento collettivo si è sempre manifestato nella storia – come quello tra esclusione e inclusione. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese esso assume una configurazione particolarmente rilevante per la città.
Il prevalere dell’ individualismo porta a due conseguenze, entrambe negative. Sul versante della struttura, conduce alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando una base della capacità regolativa della polis. Sul versante dell’ ideologia conduce all’ affievolirsi dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza.
Ma dall’ altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica provocano effetti di segno opposto. L’ inclusione di tutti i portatori di forza lavoro, i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città “la cui aria li renderà liberi” pone le premesse materiali all’ allargamento della democrazia. Contemporaneamente il conflitto di classe che di quel sistema è l’ inevitabile prodotto conduce al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. S’indebolisce la solidarietà cittadina ma nasce e s’irrobustisce la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, germoglia una nuova domanda di spazio pubblico.
Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica nasce la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’ affermarsi della democrazia: attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze entrano nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse.
L’ incontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali riuscì a incidere in modo consistente sull’ allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società.
Lo vediamo nell’ affermarsi del diritto socialmente garantito all’ uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione. Come lo vediamo nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ ambito familiare
Le parole dello spazio pubblico
Nel quadro di questa riflessione, nell’avviare la Scuola abbiamo presentato una serie di approfondimenti e specificazioni del termine “spazio pubblico”, e ne abbiamo verificato ed esteso l’analisi nel corso delle tre giornate. Diamo sempre grande importanza alle parole. Don Lorenzo Milani diceva: “Chiamo uomo chi è padrone della propria lingua”, e sosteneva che chi ha più parole (chi controlla meglio l’uso delle parole e dei loro significati) ha più potere.
In questa occasione l’analisi delle parole ci ha permesso di ragionare sulla molteplicità dei significati del termine e sulla molteplicità dei suoi usi.
Abbiamo esaminato le diverse definizioni di spazio pubblico: a partrire da quella più ampia e intuitiva (luogo in cui a tutti è concesso qualche diritto di accesso, e regolato da un insieme di norme e convenzioni), allo spazio della partecipazione alla vita collettiva, allo spazio dei servizi collettivi orientati al “consumo comune”, allo spazio come “sfera pubblica (cioè area dove si forma l’opinione pubblica, dove si confronta e si discute), allo spazio non intenzionale, anarchico (quello che viene occupato dagli immigrati delle varie etnie, nazionalità, lingue culture, dai non rappresentati, da quelli che non hanno voce, i giovani), come spazio della rappresentazione, come luogo del conflitto e delle differenze (là dove i conflitti si manifestano e trovano la loro composizione, dove le differenze si manafestano e trovano la loro con-vivenza).
Abbiamo poi prroposto alla discussione le condizioni che possono influenzare il carattere pubblico di uno spazio e aiutare a definirne il gradiente di “pubblicità”. Ci sono sembrati rilevanti l’accessibilità/inclusività, la proprietà, l’intersoggettività.
Particolarmente rilevante ci è apparso il primo. Ma abbiamo sottolineato che un luogo può apparire accessibile e inclusivo, ed essere invece condizionato da sottili forme di esclusione e oppressione: esclusione di determinate le attività (protesta, comizi…) o di certi comportamenti o persone, monitoraggio e controllo, ecc. E le barriere possono essere fisiche; visuali e simboliche; sociali, culturali e finanziarie. Il criterio dell’accessibilità/inclusività rappresenta in definitiva la relazione tra potere di accesso e potere di esclusione, tra diritti privati e diritti della collettività in quanto il diritto di accedere esteso a tutti implica la necessità individuazione dei limiti per tutelare il sopruso di potere da parte degli altri.
L’attribuzione di uno spazio pubblico alla proprietà privata o a quella pubblica ha importantiimplicazioni e conseguenze su tipo di restrizioni ed esclusioni che possono essere applicate (in termini di accesso, di attività che si possono esercitare, e del grado di libertà di espressione consentito). Certamente se la proprietà è privata l’accessibilità è a discrezione del proprietario che ha il diritto di disporre di quel bene come meglio crede.
Il terzo criterio, l’intersoggettività, riguarda l’interazione che lo spazio pubblico potenzialmente consente. Esso può porre i partecipanti principalmente come consumatori (di merci o di eventi), può porti come membri di un’audience (lo stadio, il teatro, il festival, ecc.), come co-creatori di uno spazio condiviso (la piazza, la strada, ecc.), oppure infine (ed è il livello più alto) può consentire ai soggetti di avere un dialogo e svolgere un ruolo critico, e quindi di concorrere alla modellazione dell’ecosistema in cui vivono (arene di dibattito culturale e politico).
Abbiamo riflettuto sulla regolamentazione dello spazio pubblico. Questo deve essere sempre regolato, per trovare un giusto equilibrio tra libertà e diritti: tra la libertà per tutti di esprimersi e il diritto di ciascuno di non essere privato della sua voce. Le regole devono essere condivise: un sistema effficace di regole è quello che va sotto l’espressione di “buona educazione”; ma non possono essere le regole di una comunità di eguali, devono aiutare la con-vivenza di soggetti caratterizzati da differenze.
Se le regole condivise non esistono, le testimonianze recate alla Scuola rivelano che prevale o la “legge del branco”, oppure l’ultra-regolazione, a base di divieti, ordinanze, ukase..
Il declino dello spazio pubblico
Dopo l’analisi del significato di “spazio pubblico”, l’analisi del declino. I diversi interventi hanno testimoniato come oggi la situazione della città e l’ orientamento delle politiche urbane siano radicalmente diverse da quelle che la storia della città ci suggerisce, sia che le osserviamo nel lungo periodo che se ci riferiamo ai secoli più vicini.
Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi: è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
Gli standard urbanistici, lo strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi, alle attrezzature, ai servizi d’ interesse comune, sono in decadenza, e se ne propone addirittura l’ abolizione o la “regionalizzazione”: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto.
Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario originariamente rigorosamente destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli “oneri di urbanizzazione”, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.
Alle piazze reali, caratterizzate dall’ essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana, si sono sostituite le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’ obbligo implicito di ridurre l’ interesse del frequentatore all’ acquisto di merci (per di più sempre più superflue). La piazza, luogo dell’ integrazione, della varietà, della libertà d’ accesso, è sostituita dal grande centro commerciale, dall’ outlet, dall’ aeroporto o dalla stazione ferroviaria (da quelli che sono stati definiti “non luoghi”). Parallelamente il cittadino si riduce a cliente, il portatore di diritti si riduce a portatore di carta di credito.
Le ragioni del declino
Ci siamo ovviamente domandati perché tutto questo sia successo. La ragione di fondo sta nel mutato rapporto tra uomo e società. L’aspetto centrale è la rottura dell’ equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E’ quell’ equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’ abitazione.
In effetti negli ultimi decenni è giunto a un punto di svolta un processo avviato molti secoli fa. Mentre da un lato, infrangendo i tabù dell’autoritarismo e del controllo sociale, si sono liberate le energie derivanti dalla piena esplicazione dei diritti individuali, dall’altro lato si e smarrita la consapevolezza dell’essenzialitò, per lo stesso equilibrio della persona, della dimensione sociale.
Contemporaneamente, l’ uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.
Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’ economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.
Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’ è mai stata un’ amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite. Un’ altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ ogni bene comune che possa dar luogo a guadagni privati: dall’ acqua agli spazi pubblici, dall’ università alla casa per i meno abbienti, dall’ assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.
Una ulteriore componente è la progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti: quando l’ obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “partecipazione”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della democrazia nell’ ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni; quando il crollo delle Twin Towers e il riemergere, in Italia, della xenofobia e del razzismo hanno fornito la giustificazione – o l’ alibi – alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.
Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’ uno e l’ altro versante: la loro consistenza fisica e la loro consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.
Collocarci nella storia
Lo spazio pubblico è stato, ed è tuttora, il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte sconfitte. Lo sarà anche in futuro. Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.
Per comprendere in che modo esercitare la difesa e la riconquista dello spazio pubblico è stata utile la riflessione a più voci sugli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Discorrendo con gli studenti ci siamo resi conto del grave danno provocato da quella rimozione della memoria che è stata compiuta negli ultimi decenni. Cancellare il passato, la nostra storia, è particolarmente grave se ci proponiamo di costruire un futuro diverso dal presente.
Nella narrazione a più voci che abbiamo fatto sugli eventi che hanno condotto al decreto degli standard urbanistici, alla politica della casa con tutto l’arco dei provvedimenti che vanno dalla legge 167/1962 fino alla legge per l’equo cannone, alla generalizzazione della pianificazione urbanistica, all’acquisizione di rilevanti beni pubblici come l’Appia antica. Si è ragionato sulle condizioni che, allora, resero possibili i risultati positivi.
Illuminante è stato il ruolo allora svolto dai movimenti di massa: l’Unione donne italiane e il movimento per l’emancipazione della donna dalla condizione d’inferiorità, negli anni dal 1962 al 1968, le lotte studentesche e quelle operaie dopo il 1968. É apparso significativa la testimonianza del modo in cui nuove esigenze sociali (la liberazione dal lavoro casalingo) abbiano trovato negli esperti le parole mediante le quali esprimersi, nella politica e nelle istituzioni gli strumenti per tradursi in norme e politiche.
Come tener conto oggi dei suggerimenti della storia?. Occorre in primo luogo individuare i nuovi bisogni che nascono dalla società di oggi, e che esprimono la necessità di una società nuova. E bisogna nutrire la speranza che essi possanno essere soddiafetti anche nei tempi che viviamo.
Aiuta in questa direzione il confronto con le esperienze di altri paesi europei. Quelle che sono state illustrate nella Scuola testimoniano come le istituzioni, là dove la politica assume la questione dello spazio pubblico come tema cenetrale, possono fare molto, sia a livello statale che a livello locale. L’Italia appare molto in ritardo al confronto, sebbene non manchino interessanti esperienzedi gestione intelligente degli standard urbanistici, anche nell’indispensabile dimensioe dell’area vasta e del coordinamento intercomunale.
Esistono già domande che si esprimono nel terreno specifico dell’azione della pianificazione delle città e dei territori. L’aspirazione a difendere le qualità del territorio in quanto tali, in quanto “beni comuni” di cui a atutti deve essere garantita una fruizione rispettosa delle regole dettate dalla necessità di difenderne consistenza e valore. Estendere il concetto di “standard urbanistico” ai beni culturali e a tutti i luoghi dotati di particolari qualità è parso un’indicazione utile. Vi sono due insiemi di aree che vanno tutelate e aperte all’uso pubblico: quelle necessarie per lo svolgimento di determinate funzioni urbane, e quelle che meritano la tutela e l’accessibilità pubblica per le loro caratteristiche intrinseche. Due insiemi, che possono anche coincidere in talune parti, in uno dei quali prevale l’esigenza della funzionalità del servizio reso, nel’altro la tutela e la fruizione responsabile delle qualità intrinseche.
Che fare oggi
Infine ci siamo chiesti che cosa fare oggi per uscire dal declino, per difendere e riconquistare lo spazio pubblico.
É alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo, un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Oggi non si può fare affidamento alla politica dei partiti. Nessuno dei partiti esistenti ha le carte in regola.
Oggi dobbiamo ricostruire la politica. Per farlo bisogna lavorare su due fronti, guardare a due tipi di interlocutori.
In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Costituiscono un possibile modo di ricostituire la politica. Sono già “politica”, nel senso proprio di volontà e, non raramente, la capacità di partecipare al governo della cosa pubblica. Le testimonianze già emerse nelle prime tre giornate della Scuola e quelle che emergeranno oggi ci raccontano di questa capacità, degli ostacoli e dei rischi che ne caratterizzano il cammino.
L’ altro interlocutore sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città alla regione e alla nazione, all’ Europa e al mondo.
Siamo convinti che un compito grande spetti agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’ azione. Siamo intellettuali, depositari d’ un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta. E a quelle esigenze dobbiamo saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.
Chiusa per ferie? No, per mancanza di personale. Ma questa volta non si tratta purtroppo di una qualsiasi sala pubblica, all’interno di un ufficio o di un museo, bensì di una sala operatoria: quella dell’ospedale «Santo Stefano», nel comune siciliano di Mazzarino, provincia di Caltanissetta. E chissà quante altre si trovano nelle stesse condizioni nel resto d’Italia, a causa dei tagli alla sanità che possono improvvisamente tagliare la vita o la salute a tanti cittadini, ignari e incolpevoli.
L’ultima vittima è un giovane di 23 anni, rimasto ferito gravemente in un incidente stradale. Si era tranciato una gamba cadendo in motocicletta. Ma non ha potuto essere operato in tempo ed è morto per un’emorragia. Ucciso dalla malasanità, dall’inefficienza e dalla crudeltà di un sistema sanitario che ormai s’ispira alla legge di bilancio più che a quella della solidarietà, umana e civile.
Si può anche morire così nel Paese dei privilegi e degli sprechi, dell’evasione fiscale, delle «grandi opere» incompiute o irrealizzabili, dei finanziamenti a pioggia o dei fondi europei non utilizzati. Per mancanza di personale. Cioè per mancanza di risorse, ma soprattutto per mancanza di un’organizzazione sanitaria in grado di assicurare un’assistenza immediata e tempestiva a chi si trova in pericolo di vita.
Eppure, nel più disastrato bilancio statale d’Europa, quella per la sanità è tuttora la voce maggiore di spesa. Ma non basta evidentemente a impedire un delitto come quello di Mazzarino, a soccorrere la vittima di un incidente stradale, a sottrarre alla morte un giovane che cade in moto e finisce dissanguato. E non tanto o non solo per carenza di soldi, quanto per le inefficienze, gli sperperi, le ingiustizie o le ruberie di un sistema sanitario che, sotto l’ingerenza della politica nazionale e locale, è diventato ormai da tempo la più grande greppia di Stato; la fonte principale del malaffare e della corruzione; la centrale delle concessioni, delle clientele e delle tangenti.
Che cos’altro può fare un povero padre che perde un figlio in tali circostanze, più che incatenarsi davanti all’ospedale per disperazione e per protesta? E che cos’altro possono fare i suoi compaesani, più che scendere in piazza e occupare la superstrada statale in segno di solidarietà? L’indignazione popolare minaccia fatalmente di degenerare nella rivolta contro il potere, contro i suoi rappresentanti e i suoi simboli, quando il potere volta le spalle ai cittadini; ignora le loro esigenze fondamentali; nega di fatto il diritto alla salute e alla vita.
C’è un filo nero che collega questo tragico episodio alla strage dei disperati che ha insanguinato nei giorni scorsi il mare di Sicilia. È il cinismo di una politica disumana che chiude le porte delle sale operatorie come quelle dei centri di accoglienza per gli immigrati, nel culto pagano di un primato dell’economia che finisce per soffocare la ragione, il sentimento, la pietà. Ma quanto vale una vita umana, affidata alla precarietà di una motocicletta o di un gommone? E qual è la gerarchia dei valori e delle priorità che deve orientare le scelte di uno Stato civile?
Dall’altra parte dell’Atlantico, il presidente Obama sta combattendo proprio in queste settimane una coraggiosa battaglia, personale e politica, per garantire al suo Paese un’assistenza sanitaria più equa e solidale. Da noi, invece, nel cuore della vecchia Europa, patria del welfare e dei diritti sociali, l’ideologia del mercatismo penetra perfino nelle corsie d’ospedale e nelle sale operatorie, imponendo il dogma assoluto del profitto. Ma di mercato e di profitto si può anche morire: e non solo per mancanza di personale.
Questa settimana la rubrica dei Cantieri sociali ospita un racconto che viene da Verona. Autrice ne è Tiziana Valpiana, che vive nella città di Flavio Tosi, il sindaco appena condannato per aver detto cose razziste. È una storia piccola piccola, di quelle che piacciono a Carta.
Quasi 500 cittadini e cittadine veronesi hanno proposto «un percorso pubblico per esprimere dissenso verso una città chiusa, discriminante e paurosa e per progettare una città aperta, giusta e gioiosa». Alla fine hanno individuato, come simbolo della città chiusa, discriminante e paurosa l'atto scellerato dell'amministrazione comunale di togliere le panchine dai giardini in cui erano soliti sostare anche stranieri. Togliendo le panchine, si sono ridotti i diritti di tutti: quelli ad una sosta ristoratrice, a giardini pubblici curati, al riposo, alla convivialità, a godere «gratuitamente» della vista della nostra città... Tutti i sabati di maggio alle 12, portando le proprie sedie da casa, i membri del Comitato, e non solo, si sono riuniti nel disadorno e indegno giardinetto di via Prato Santo semplicemente per stare assieme, offrendo a chiunque un aperitivo, una poesia, una lettura, uno spettacolo, a simboleggiare la possibilità di una città aperta, giusta, gioiosa. Il 9 luglio hanno «offerto» a quel giardinetto una verde e luccicante panchina che, certo, non era sufficiente a cancellare il degrado nel quale l'amministrazione lascia questo ed altri luoghi pubblici: ma non era che l'inizio di una riqualificazione voluta e attuata direttamente dai cittadini e dalle cittadine.
La panchina, ben confezionata con elegante fiocco rosso, è stata «scartata» e inaugurata, «a disposizione di chiunque voglia sedersi nei Giardini di Via Prato Santo», recita la targa affissa dal Comitato Verona città aperta.
Visto anche il via vai di giornalisti e fotografi, si sono subito avvicinati dei «curiosi» chiedendoci informazioni e plaudendo all'iniziativa. Molti hanno voluto essere fotografati seduti sulla panchina. Verso le 13 abbiamo acquistato della pizza, delle birre, un po' di frutta e verdura e, contravvenendo ad altra ordinanza, ma sotto gli occhi anche delle forze dell'ordine, abbiamo pranzato lì sulla «nostra» (e vostra) panchina, attirando, nell'ordine, un ragazzo del Senegal che si è unito a noi e sei turisti tedeschi che, stanchi del giro turistico in città e in attesa di andare a vedere Carmen in Arena, avevano cercato un po' di riposo, in mancanza di meglio, appoggiandosi ai tronchi degli alberi. È stata poi la volta di un ragazzo con le stampelle, che sulla panchina ha trovato un po' di riposo.
Al vicino bar, dove siamo andati a prendere i caffè che abbiamo poi sorseggiato sulla panchina, il gestore ci ha fatto presente che in quel giardino mancano anche le strisce pedonali per poterlo raggiungere, pur trattandosi di una meta un tempo frequentata da anziani. Un tempo, perché da quando le panchine non ci sono più - ci aveva fatto notare una signora residente lì vicina che era solita accompagnare il padre in carrozzella - l'accompagnatore è costretto a restare in piedi... C'è stato anche chi (un uomo dal codino grigio) ci ha gridato che su quelle panchine si sedevano anche coloro che «non pagano le tasse», ma quando gli abbiamo risposto che noi le paghiamo, altri non le pagano perché vengono fatti lavorare in nero, altri ancora perché sono evasori, non ha saputo replicare.
Alle 19, ora stabilita per il ritrovo di tutto il Comitato per un aperitivo di inaugurazione, una pioggia torrenziale ha costretto tutti a scappare. Giusto in quel momento è arrivata una macchina dei Vigili urbani, mandati a controllare la «manifestazione», ai quali abbiamo spiegato il senso della nostra azione, lasciandoli stupefatti.
L'indomani mattina, acquistati i quotidiani, abbiamo deciso di andare a leggerli, come si fa in tutte le città del mondo, al giardinetto, sulla panchina...che non c'era più! Su un palo della luce era rimasto affisso un cartello «Come è difficile restare umani. Grazie per la panchina», e come firma un nome di donna. Abbiamo pensato anche al suo grazie quando abbiamo posizionato nello stesso luogo una sedia («A disposizione di chiunque ») e le foto del giorno prima. Sulla sedia abbiamo lasciato un quaderno perché ciascuno possa scrivere ciò che pensa. La prima frase ieri era: «Una panchina è per sempre». Andate a scrivere la vostra fino a quando durerà: un vandalo si aggira per Verona.
L’attacco finale alla democrazia è iniziato. Berlusconi e i suoi sferrano il colpo definitivo alla libertà della rete internet per metterla sotto controllo. Ieri nel voto finale al Senato che ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (disegno di legge 733), tra gli altri provvedimenti scellerati come l’obbligo di denuncia per i medici dei pazienti che sono immigrati clandestini e la schedatura dei senta tetto, con un emendamento del senatore Gianpiero D’Alia (UDC), è stato introdotto l‘articolo 50-bis, “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet“. Il testo la prossima settimana approderà alla Camera. E nel testo approdato alla Camera l’articolo è diventato il nr. 60.
Anche se il senatore Gianpiero D’Alia (UDC) non fa parte della maggioranza al Governo, questo la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della “Casta” che non vuole scollarsi dal potere.
In pratica se un qualunque cittadino che magari scrive un blog dovesse invitare a disobbedire a una legge che ritiene ingiusta, i provider dovranno bloccarlo. Questo provvedimento può obbligare i provider a oscurare un sito ovunque si trovi, anche se all’estero. Il Ministro dell’interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto l’interruzione della attività del blogger, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine. L’attività di filtraggio imposta dovrebbe avvenire entro il termine di 24 ore. La violazione di tale obbligo comporta una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000 per i provider e il carcere per i blogger da 1 a 5 anni per l’istigazione a delinquere e per l’apologia di reato, da 6 mesi a 5 anni per l’istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico o all’odio fra le classi sociali. Immaginate come potrebbero essere ripuliti i motori di ricerca da tutti i link scomodi per la Casta con questa legge?
Si stanno dotando delle armi per bloccare in Italia Facebook, Youtube, il blog di Beppe Grillo e tutta l’informazione libera che viaggia in rete e che nel nostro Paese è ormai l’unica fonte informativa non censurata. Vi ricordo che il nostro è l’unico Paese al mondo, dove una media company, Mediaset, ha chiesto 500 milioni di risarcimento a YouTube. Vi rendete conto? Quindi il Governo interviene per l’ennesima volta, in una materia che vede un’impresa del presidente del Consiglio in conflitto giudiziario e d’interessi.
Dopo la proposta di legge Cassinelli e l’istituzione di una commissione contro la pirateria digitale e multimediale che tra poco meno di 60 giorni dovrà presentare al Parlamento un testo di legge su questa materia, questo emendamento al “pacchetto sicurezza” di fatto rende esplicito il progetto del Governo di “normalizzare” il fenomeno che intorno ad internet sta facendo crescere un sistema di relazioni e informazioni sempre più capillari che non si riesce a dominare.
Obama ha vinto le elezioni grazie ad internet? Chi non può farlo pensa bene di censurarlo e di far diventare l’Italia come la Cina e la Birmania.
Oggi gli unici media che hanno fatto rimbalzare questa notizia sono stati Beppe Grillo dalle colonne del suo blog e la rivista specializzata Punto Informatico( http://punto-informatico.it/). Fate girare questa notizia il più possibile. E’ ora di svegliare le coscienze addormentate degli italiani. E’ in gioco davvero la democrazia!
in Eddyburg del 25 novembre 2006, divenuto testo di apertura di Libere osservazioni non solo di urbanistica e di architettura (Maggioli Editore 2008). Il tema della perdita degli spazi pubblici ha impegnato altri colleghi. Valgano, fra i contributi recenti, l’Eddytoriale120 di Edoardo Salzano (20 gennaio 2009) e l’articolo di Marco Romano Archistar fuori piazza in "il Domenicale" e in Eddyburg del 2 febbraio. Constatiamo che l’urbanistica e l’architettura moderne sono state incapaci di trarre insegnamento dalla storia della società e della città, antica e moderna.
Abbiamo perduto sia la piazza che la strada come luoghi di straordinaria manifestazione di socialità e di legame fra questa e l’architettura urbana. Piazze e strade magari ereditate quasi nella veste originaria non entrano più, per così dire, nella pratica intensa di rapporti sociali in spazio pubblico riconosciuto dalla comunità e nello stesso tempo intimamente tuo. Perché quei rapporti non esistono più. Avevano luogo in piazza e in strada ma l’esistenza di queste non ne erano il presupposto, invece costituito dalla data formazione economico sociale; che li determinava, non poteva farne a meno. La strada e la piazza, benché non loro causa diretta, diventavano però spazio urbano, architettonico, funzionale ed estetico che li favoriva, ne assicurava il sostegno e lo scenario. Spazio sociale e, direbbe Marc Augè, simbolico. In definitiva la comunità, come non poteva rinunciare a quei rapporti, così non poteva rinunciare a quel coerente contesto fisico.
Oggi, noi fiduciosi minoritari dell’urbanistica e dell’architettura potremmo forse realizzare strade e piazze belle (intanto non se ne vedono), ben dotate di funzioni richiamanti l’interesse delle persone, ma non possiamo far nulla né può chicchessia politico, sociologo, antropologo, economista riguardo alla rinascita di precedenti relazioni sociali rimpiante. È questa società a negarle, anzi ad averne decretato la morte schiacciate sotto il peso dell’unico moloch venerato: l’individualismo. Questa società non ha la possibilità di ammetterle, di crearle. Non le detiene impresse nei suoi geni.
Eppure dovremmo egualmente (saper) progettare per, dapprima, recuperare e poi realizzare piazze e strade tradizionali, vale a dire spazi incentrati sulla ricostituzione all’aperto del senso di limite, cortina, chiostro, del sentimento di agorà. Senza dimenticare che le piazze e le strade storiche maggiormente vitali furono quelle che insieme a funzioni commerciali, culturali, di servizio pubblico presentavano in larga misura abitazioni. Da tali spazi, se dotati delle destinazioni consolidate dall’uso storico, non per questo conseguiranno direttamente un rapporto comunitario e l’affabilità tra le persone, ma l’andirivieni e l’incontro obbligato in un contesto non solo funzionale ma estetico potranno aprire una falla nella loro solitudine e inserire un soffio di benestare nel cervello e nel cuore. È quello che può succedere quando si vive lo spazio ancora ricco di risorse di una delle sopravvissute magnifiche piazze o strade d’Italia e d’Europa. Non è vero che le ha sostituite l’ipermercato. Qui la frenesia dell’acquisto ad ogni costo divide, aumenta la solitudine di te davanti alla merce spropositata e ai tuoi soldi. E manca l‘influenza essenziale della bellezza architettonica, impossibile perché disdegnata, paventata dagli scopi dell’ipermercatismo.
"Il faut tuer la rue corridor", Le Corbusier. Il movimento moderno ha pagato un alto prezzo quando ha applicato quest’ordine meccanicamente, alla lettera senza capire cosa avrebbe perso la comunità cittadina distruggendo la cortina stradale e risolvendo ogni nuovo intervento urbanistico e architettonico mediante l’"edilizia aperta": corpi di fabbrica separati, distanziati secondo certe norme igieniche, distribuiti più o meno regolarmente nello spazio senza alcuna relazione con luoghi circoscritti di convergenza comunitaria ben distinguibili ("il disastro vero sono i quartieri nuovi delle città europee", Marco Romano). In Italia un protagonista del razionalismo ha cercato di interpretare cautamente il messaggio come gli rispondesse: "tuer? sì ma non troppo". Nacque (ma tardi, nel dopoguerra) il progetto di Piero Bottoni per la "Strada vitale", da un lato accettazione dei principi razionalisti per l’abitazione, dall’altro riproposizione, appunto, della vitalità della strada storica. Costruzioni residenziali relativamente alte perpendicolari al tracciato della strada ed edificio basso continuo lungo i lati per ricostituire l’efficacia della strada storica sia per funzione (tutti i servizi sociali culturali commerciali) sia per forma (la cortina continua). Circa la piazza o il suo parente cortile dell’abitazione il movimento razionalista non ha saputo trarre alcun insegnamento dal passato. Nessuna apprezzabile novità, poi, riguardo ai problemi qui proposti, nel prosieguo delle storie ormai separate dell’urbanistica e dell’architettura.
Dobbiamo ricorrere ad altri momenti del Novecento, soprattutto, per me, al tempo del piano di Amsterdam Sud di Berlage e della sua realizzazione attraverso i generosi architetti della "Scuola di Amsterdam" (Kramer, De Klerk, la Kropholler…). Il metodo berlaghiano di progettazione secondo cui il tutto sia presente nelle parti come le parti lo siano nel tutto – ossia l’urbanistica e l’architettura unite nell’azione – trova completa definizione attraverso un triplice riferimento: alla storia della città (l’isolato edilizio di forma rettangolare allungata), ai fattori istituzionali (le nuova legge del 1901 con regolamentazione promotrice dell’edificazione per blocchi residenziali), ai fattori sociali (la cooperazione, fondata sull’esperienza storica e profondamente radicata nel presente). Gli isolati e i blocchi chiusi concorrono al pieno rendimento del programma d’insieme fortemente coeso entro il quale dominano l’unità architettonica di quattro piani lungo i margini dell’isolato costituente all’esterno cortina stradale e la grande corte interna (50-60 x 100 e più metri), una vera piazza-giardino dei cooperatori e delle loro famiglie accessibile a tutti i cittadini.
Davanti a un pezzo di città moderna formato da strade e isolati Sigfried Giedion, mentore del razionalismo, scriverà: "Se consideriamo l’Amstellaan… ci accorgiamo che essa rientra nella corrente principale dell’urbanistica ottocentesca: la strada domina l’assieme. L’Amstellaan è rappresentativa dell’intero progetto: c’è una riforma, non una concezione nuova". Al contrario per il meno ortodosso dei maestri della generazione degli Ottanta, Bruno Taut, è la strada con gli edifici ai bordi a identificare "il prodigio, la creazione di un’architettura collettiva dove non è più la singola casa ad essere di particolare importanza, ma lo sono le lunghe schiere di case lungo le strade e ancor più l’aggregazione di molte strade in una unità complessa".
Per conto nostro, se pensiamo alla situazione attuale della città e della cultura urbanistica e architettonica, la Amsterdam Sud berlaghiana dovrebbe bastarci adesso. Ottocentesca? Se milanesi dovremmo tenerci stretta volentieri persino una Milano tutta berutiana, mille volte meglio dello sconquasso urbano guidato dagli insensati, spiazzati grattacieli d’autore (per modo di dire).
Milano, 18 febbraio 2009
Da tempo stavamo lavorando a un progetto di mappatura degli spazi pubblici. Nel dicembre 2008 abbiamo valutato la possibilità di partecipare a un bando di concorso, indetto dalla fondazione della Banca etica, per il finanziamento parziale della ricerca. I tempi molto stretti e il periodo dell’anno nel quale cadeva la scadenza (31 dicembre 2008) non ci ha consentito di coinvolgere nella presentazione del progetto tutti i partner che lo condividevano e con i quali contiamo comunque di proseguire la collaborazione. Inseriamo qui di seguito stralci della proposta presentata secondo lo schema stabilito.
Titolo: Conoscenza condivisa, responsabilità sociale, azione solidale. Partiamo dagli spazi pubblici nella città: un’iniziativa pilota.
2. LA PARTNERSHIP
Descrizione della partnership
Obiettivi
La partnership tra Zone, Legambiente Padova ed eddyburg.it ha come obiettivo quello di mettere a punto un modello di mappatura degli spazi pubblici esistenti, previsti e desiderati, delle loro caratteristiche e possibilità di utilizzazione a fini sociali, dei rischi cui sono sottoposti e delle azioni volte alla loro difesa e valorizzazione sociale (sia spontanee che programmate, sia promosse da associazioni, gruppi e comitati sia condotte dalle istituzioni preposte).
Tale obiettivo postula la necessità di costituire una partnership che abbia la capacità di:
(1) impostare un modello di ricerca / azione scientificamente e metodologicamente fondato;
(2) sperimentarlo localmente sul campo mediante un’azione sia di livello tecnico (mappatura dei luoghi e delle loro caratteristiche oggettive) che sociale (coinvolgimento degli abitanti nel riconoscimento dell’identità / utilità / desiderabilità);
(3) raccogliere una serie significativa di casi presenti a livello nazionale, relativi sia a buone pratiche che ad azioni di difesa di beni pubblici territoriali, anche in vista di una propagazione del modello di cui ai punti precedenti;
(4) costruzione di un bagaglio di conoscenze e azioni possibili, cui possano attingere attori e istituzioni che condividano le premesse del lavoro e i principi alla sua base;
(5) disseminare i risultati raggiunti in proiezione di azioni future anche a un livello europeo e mondiale.
Modalità
Nell’ambito del coordinamento generale effettuato da Zone si costituiranno:
(a) un comitato di esperti (di cui in allegato si fornisce la composizione e le competenze), che presiederà alla ricerca di base, all’impostazione scientifica e metodologica e fornirà supporto tecnico ai due team operativi, monitorandone le attività e i risultati;
(b) un team operativo, con base a Padova e coordinato da Legambiente Padova, per la mappatura a livello locale;
(c) un team operativo, con base a Venezia e coordinato da eddyburg.it, per la mappatura a livello nazionale.
La collaborazione / integrazione dei due team operativi avverrà, con il coordinamento di Zone, anche per l’organizzazione delle attività e degli eventi comuni (workshop, seminari, convegni, pubblicazioni, validazione e disseminazione dei risultati e delle conoscenze). Zone sarà responsabile dell’amministrazione del progetto e della sua gestione finanziaria.
Caratteristiche
Legambiente Padova ha svolto con successo numerose azioni volte a individuare i rischi derivanti da tentativi di privatizzazione e commercializzazione di spazi pubblici significativi, a fornire sostegno tecnico ed operativo alle azioni di rivendicazione sociale dell’uso di tali spazi, ottenendo rilevanti successi anche nel confronto con le istituzioni locali. La sua natura di componente di un’associazione di dimensione nazionale consente di offrire un utile supporto sia per la mappatura delle buone pratiche di difesa e utilizzazione sociale degli spazi pubblici presenti in altre regioni italiane, sia per disseminare su campi più vasti i risultati che saranno raggiunti nella ricerca proposta. A livello locale, la sua struttura, gli esperti dei quali può avvalersi e le sue esperienze rendono questa associazione particolarmente idonea a svolgere il lavoro sul campo, a coadiuvare nell’operazione di individuazione e mappatura degli spazi pubblici, per connettere in questa operazione sia le capacità tecniche che le azioni di abitanti, cittadini, gruppi e istituzioni presenti sul territorio.
L’associazione Zone ha svolto una significativa esperienza di ricerca e di lavoro sul campo, affrontando un tema relativo all’organizzazione degli spazi pubblici come strumento di azione sociale in un’area degradata, coordinando diversi gruppi, esperti e associazioni di professionalità, culture e nazionalità diverse. Ha coordinato associazioni ed esperti di diverse nazionalità organizzando convegni, seminari e workshop, su temi attinenti l’argomento della ricerca, al Word Social Forum 2007 (Nairobi) e all’European Social Forum 2008 (Malmö). Può avvalersi di un gruppi di esperti (ingegneri, architetti, pianificatori) soci volontari dell’associazione, e di un coordinatore esperto in attività di direzione di team pluridisciplinari.
Eddyburg.it svolge da anni un’attività di formazione, diretta e indiretta, attraverso:
(a) l’inserimento nel sito di materiali atti a conoscere, comprendere e criticare sia le idee e le pratiche mediante le quali l’habitat dell’uomo viene minacciato sia le azioni promosse o promuovibili per migliorarne le condizioni;
(b) l’organizzazione delle edizioni annuali della Scuola estiva di pianificazione;
(c) la presenza e disponibilità sul territorio dei numerosi esperti che al sito fanno capo, e che collaborano diffusamente con gruppi, comitati e reti impegnati nella difesa delle qualità sociali, culturali e storiche del territorio.
Il pool di esperti di cui può disporre fornisce ampie garanzie sulla serietà scientifica della collaborazione al progetto, e la notevole visibilità del sito nella rete internet è una risorsa rilevante per la discussione e disseminazione dei materiali della ricerca e come strumento stesso di raccolta dei casi studio a livello nazionale. L’associazione tra i tre partner, fondata su forti analogie delle azioni svolte nel passato da ciascuna di esse e da comunanza nelle finalità e nei principi, consente di connettere in un’unica rete esperienze di lavoro, risorse conoscitive e comunicative, capacità specifiche e connessioni con aree culturali diverse, ponendo le basi per ulteriori azioni comuni.
3.2. DESCRIZIONE DEL PROGETTO E ATTIVITÀ PREVISTE
Premessa
Gli spazi pubblici sono un patrimonio sotto il profilo culturale, sociale, economico: essi caratterizzano l’identità di un popolo, determinano le condizioni sociali della vita degli abitanti, sono il prodotto di investimenti e decisioni pubblici, costituiscono il lascito per le generazioni future. Nel passato gli spazi pubblici hanno costituito l’obiettivo di significative lotte sociali, spesso coronate da successo. Oggi, in molti casi, sono l’oggetto di fenomeni preoccupanti di degradazione, esclusione, privatizzazione. Sono al tempo stesso, e sempre più spesso, l’obiettivo di azioni sociali per la loro difesa. In Italia e in Europa cresce il numero dei comitati, dei gruppi, delle associazioni, spesso tendenti ad aggregarsi in reti più ampie, per la loro difesa e promozione. Occorre che gli abitanti di oggi si riapproprino degli spazi pubblici (esistenti, previsti, desiderati) per poterli difendere, conquistare, utilizzare, tramandare. Per riappropriarsene il primo passo da fare è conoscerli: a questo innanzitutto serve la mappatura la degli spazi pubblici che proponiamo.
Obiettivi del progetto
Il progetto propone di elaborare e sperimentare un processo di ricerca-azione di mappatura degli spazi pubblici, che coinvolga associazioni, cittadini, ricercatori ed esperti, diretto a comprendere la condizione attuale degli spazi pubblici nelle sue componenti fisiche, sociali ed economiche, al fine di sollecitare una maggiore responsabilità ambientale e sociale e di innescare un’azione di pianificazione dello spazio sociale, intesa come azione collettiva e solidale. Questo processo si costituisce come progetto-pilota in quanto mira ad essere applicato in altre realtà locali per la costruzione di mappe degli spazi pubblici alla scala comunale e provinciale e ad estendersi a comprendere ulteriori esempi di spazi pubblici a rischio e di buone pratiche (progettazione, uso, gestione, finanziamento degli spazi pubblici) nel territorio nazionale. Gli obiettivi specifici del progetto sono di tre ordini:
(a) Conoscenza.
Il progetto si propone di approfondire la conoscenza della condizione degli spazi pubblici nella società contemporanea italiana, a partire dal sapere scientifico e dal lavoro sul campo con cittadini, esperti e istituzioni. Una comprensione adeguata richiede il concorso di saperi tecnici e saperi locali. I primi sono essenziali per cogliere le caratteristiche oggettive dei luoghi (la storia della loro formazione, le caratteristiche della loro struttura fisica, le suscettività della loro utilizzazione sociale, i costi per la loro formazione e manutenzione ecc.) e per poter comparare spazi analoghi in contesti diversi. I saperi locali sono essenziali per cogliere il modo in cui gli spazi pubblici esistenti sono percepiti dagli utilizzatori, quali caratteristiche sono considerate positive e negative, quali sono le aspettative d’uso e di sistemazione di spazi pubblici previsti e non realizzati, quali sono i desideri in merito a spazi o a usi non ancora riconosciuti come pubblici. Il progetto riconosce nell’interazione tra i due saperi nell’affrontare la conoscenza degli spazi pubblici un contributo al recupero di una convergenza tra intellettuali e popolazione, tra depositari di un sapere speso reso astratto e lontano dal reale e una realtà sociale privata dall’intelligenza critica delle cose.
(b) Responsabilità ambientale e sociale
Attraverso una maggiore conoscenza degli spazi pubblici si può stimolare una maggiore responsabilità sociale e ambientale da parte dei cittadini, istituzioni e interessi coinvolti e una maggiore consapevolezza nel far riconoscere a tutti gli abitanti il diritto alla città. Il diritto cioè, oltre che ad usare un’abitazione appropriata, ad accedere e usare tutti i luoghi utili e belli della città: le scuole e il verde, il mercato e l’ambulatorio, il giardino e l’edificio storico, la sponda del fiume e la piazza, il luogo di culto e il teatro e così via, per creare una dimensione collettiva più serena, vivibile ed emancipata. Il progressivo declino dell’uomo pubblico ha fatto smarrire la consapevolezza della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune dove le esigenze e i bisogni dei suoi abitanti sono garantiti, dove è possibile accedere senza difficoltà ai servizi essenziali, dove è piacevole incontrarsi, dove le iniziative culturali consentono di affrancarsi dal pensiero unico ed elaborare un pensiero critico.
Il progetto riconosce nel sistema degli spazi pubblici non solo un elemento fondamentale all’organizzazione di una città e al buon funzionamento di una società, ma anche uno strumento di emancipazione della società stessa. Negli spazi pubblici si riversano le differenze, le contraddizioni e le diverse appartenenze, ma le regole della vita pubblica e la proprietà pubblica, permettono di vincere la sopraffazione di uno sull’altro, di costruire e ricostruire attraverso le trasformazioni della società, nuovi spazi e modi di condivisione, diventando quindi anche luoghi di apprendimento reciproco, in cui diritti e responsabilità cercano equilibrio.
(c) Azione solidale
Il riconoscimento della città come bene comune, oggi non pienamente garantito, richiede uno sforzo di pianificazione affinché le attrezzature di interesse collettivo siano previste in quantità adeguate e localizzate in modo opportuno. La loro progettazione, il loro uso e la loro gestione richiedono sapienza, responsabilità ed etica. Un uso intelligente delle risorse economiche delle amministrazioni locali è sempre più necessario per accrescere la consistenza degli spazi pubblici e migliorarne l’uso. Questo necessita di una capacità e di un impegno da parte delle istituzioni. Richiede inoltre una coscienza collettiva del valore delle risorse comuni, quali sono gli spazi pubblici, e soprattutto di un’azione solidale da parte della popolazione affinché l’impegno delle istituzioni, degli esperti, dei professionisti coinvolti nella progettazione e gestione sia diretto alla cura, salvaguardia, utilizzo collettivo di questo patrimonio senza che ciò significhi piegare a logiche finanziarie ciò che deve misurarsi in termini di equità, benessere e felicità.
Costituire intorno e per la mappatura degli spazi pubblici una rete di gruppi, associazioni, cittadini, esperti che concorrono alla conoscenza degli spazi pubblici, in tutte le loro dimensioni, costituisce la prima azione solidale per la loro difesa, migliore progettazione e gestione.
Metodologia
Il progetto propone di costruire delle mappe degli spazi pubblici esistenti, previsti negli strumenti urbanistici e desiderati come pubblici per le loro caratteristiche intrinseche o per nuove esigenze sociali, con attenzione all’uso sociale degli spazi e ai conflitti che in essi si dispiegano. I criteri adottati per la definizione, descrizione e mappatura degli spazi pubblici saranno individuati al fine di evidenziare elementi fisici (localizzazione, accessibilità, forma, estensione), sociali (fruizione, attività, conflitti), economici (attraverso quali risorse è stata finanziata la loro formazione e lo è la loro gestione).
Tre tipi di azioni strettamente collegate tra loro verranno impiegate: ricerca, sperimentazione e apprendimento-divulgazione.
Ricerca.
Essa mira a costruire le basi scientifiche e metodologiche del processo, approfondendo innanzitutto il concetto di spazio pubblico nella società contemporanea attraverso una ricognizione della letteratura sinora prodotta dai diversi campi disciplinari (urbanistica, sociologia, psicologia, antropologia, storia, geografia) nel tentativo di elaborare definizioni, individuare categorie di spazi pubblici ragionevolmente distinte tra loro, proporre parametri atti a descrivere compiutamente le loro caratteristiche fisiche e sociali. Un‘analisi della normativa e degli strumenti urbanistici disponibili in materia (standard urbanistici e territoriali, specifiche componenti della pianificazione ecc.) sarà inoltre necessaria per comprendere le potenzialità e i limiti di questi nel soddisfare bisogni e desideri e nel far fronte alle difficoltà di vario ordine che sembrano ostacolare, nella società contemporanea, la possibilitò di realizzare sistemi di spazi pubblici adeguati. La ricerca provvederà anche ad individuare una metodologia specifica per i due diversi tipi di sperimentazione.
Sperimentazione
Per cogliere la varietà dei contesti e dei fenomeni in atto in un territorio complesso come quello italiano (complesso per la storia della sua formazione, per le differenze tra le condizioni sociali e amministrative delle sue parti, per la dimensione e localizzazione dei suoi insediamenti), il processo prevede di operare sia alla scala locale, attraverso un progetto di “Mappa degli spazi pubblici locale”, che a quella nazionale, attraverso l’avvio, alla scala nazionale, della costruzione di una “Mappa nazionale degli spazi pubblici a rischio e delle buone pratiche”.
La sperimentazione alla scala locale inizierà dalla selezione dell’area d’intervento e dalla costituzione di una rete dei gruppi, organizzazioni, cittadini. Seguirà il lavoro sul campo di rilevamento degli spazi e dei conflitti attuali o potenziali. La restituzione del lavoro sul campo su una mappa geo-referenziata, collegata a una base di dati contenenti tutte le informazioni raccolte ne sarà l’elaborato conclusivo.
La sperimentazione alla scala nazionale inizierà con la costruzione di una cartella web “Spazi pubblici a rischio e buone pratiche” sul sito eddyburg.it e con la costruzione di una rete di corrispondenti (attuali auto iscritti alla newsletter di eddyburg.it, reti di comitati per la difesa del territorio, siti e referenti di associazioni, gruppi, comitati attivi nel settore ecc.). All’attivazione dei corrispondenti e alla fornitura di un modello di scheda di rilevamento farà seguito la raccolta dei materiali segnalati. Adottando la rete dei corrispondenti si eddyburg si procederà a una valutazione campionaria della loro attendibilità. Una mappa geo-referenziata, collegata a una base di dati contenenti tutte le informazioni raccolte, sarà l’elaborato conclusivo.
Apprendimento-Divulgazione:
Apprendimento e divulgazione sono due facce d’una medesima operazione. Divulgare significa condividere la conoscenza con persone che non hanno partecipato, o non hanno partecipato totalmente, al processo della sua costruzione; apprendere significa aver maturato una maggiore consapevolezza mediante la condivisione della conoscenza.
Saranno protagonisti delll’appprendimento/divulgazione soggetti a diversi livelli: i cittadini che hanno partecipato e quelli che saranno successivamente coinvolti/informati; gli esperti e del settore (studenti, urbanisti, funzionari pubblici), gli animatori sociali (operatori di associazioni, ecc.) che avranno partecipato, e quelli che parteciperanno agli eventi reali e virtuali di disseminazione.
Il programma prevede lo svolgimento di seminari, l’organizzazione di una giornata di studi, dedicata alla mappatura degli spazi pubblici, nell’ambito della Scuola estiva di pianificazione organizzata da eddyburg.it e Zone (V Edizione: “Città e spazi pubblici: declino, difesa, riconquista”) la diffusione di pubblicazioni editoriali e on-line, il coinvolgimento di giornalisti della carta stampata e dell’etere (con particolare riferimento alle testate televisive più sensibili agli argomenti trattati). Si promuoverà l’organizzazione di eventi locali (visita guidata/giornata sul campo, costruzione locale della mappa, serate di discussione, eventi simbolici, contatti con l’amministrazione e i soggetti locali che si occupano degli spazi pubblici; particolare attenzione si porrà ai rapporti con le realtà scolastiche, a scala locale e a scala nazionale).
Attività
(A) Ricerca e Metodologia - Aprile -Settembre 2009 (6 mesi)
A1) Studio preparatorio.
Temi affrontati dalla ricerca: concetti (spazio pubblico, spazio comune, conflitto, rischio, standard, ecc.); gradiente pubblico degli spazi urbani; la norma e gli strumenti urbanistici; categorie e requisiti degli spazi pubblici; usi sociali degli spazi
A2) Metodologia per la mappatura degli spazi pubblici, del loro uso sociale e dei conflitti, sia a livello locale che nazionale. Organizzazione di due workshop in cui verranno discussi i temi affrontati dalla ricerca preliminare e poste le basi per la messa a punto della metodologia. Al workshop parteciperanno gli esperti e i responsabili delle varie attività.
A3) Stesura dei documenti e dei modelli (questionari, schede, ecc.)
(B) Sperimentazione Mappa Locale - Ottobre 2009-Maggio 2010 (8 mesi)
B1) Raccolta materiale esistente, lavoro di tavolino e primi sopralluoghi per la costruzione di una mappa di riferimento su cui lavorare.
B2) Forum sugli spazi pubblici. Preparazione e svolgimento di 4 workshop con associazioni, esperti, e attori per la costruzione partecipata della mappa degli usi sociali e dei conflitti. Raccolta e schedatura delle informazioni. Apertura di un blog di discussione.
B3) Elaborazione dei dati e restituzione cartografica. Costruzione della mappa degli spazi pubblici attraverso la realizzazione di un Sistema Informativo Georeferenziato (GIS)
B4) Organizzazione e svolgimento di due seminari pubblici: uno dedicato all’introduzione al tema degli spazi pubblici e presentazione delle attività di mappatura e un secondo dedicato alla presentazione dei risultati della ricerca e della mappatura finale.
(C) Sperimentazione Mappa Nazionale - Ottobre 2009-Maggio 2010 (8 mesi)
C1) Costruzione della pagina web e della call
C2) Raccolta, schedatura e sistemazione delle segnalazioni ricevute. La call rimane aperta 6 mesi. Contatti con associazioni.
C3) Elaborazione dei dati e restituzione. Costruzione della mappa degli spazi pubblici con utilizzazione del GIS.
(D) Divulgazione - Aprile 2009-Novembre 2010 (20 mesi)
D1) Workshop per la mappatura degli spazi pubblici – Giornata di formazione all’interno della Scuola di Eddyburg 2009.
D2) Pubblicazione su eddyburg.it di 8 aggiornamenti e invio di 8 Newsletter previa costruzione di un indirizzario.
D3) Pubblicazione editoriale dei risultati raggiunti, nei suoi aspetti teorici (concetti, definizioni, metodologia), pratici (la costruzione delle mappe), partecipativi, …
D4) Workshop sugli spazi pubblici /Standard urbanistici alla scala territoriale – Giornata di formazione all’interno della Scuola di Eddyburg 2009.
D5) Convegno Pubblico conclusivo
(E) Monitoraggio - Aprile 2009-Novembre 2010 (20 mesi)
E1) Svolgimento di quattro incontri (settembre 2009, novembre 2009, giugno 2010,
novembre 2010) tra gli esperti, responsabili delle attività e capo progetto.
E2) Stesura relazioni e rendicontazioni
(F) Amministrazione Progetto - Aprile 2009-Novembre 2010 (20 mesi)
F1) Coordinamento
F2) Amministrazione e Rendicontazione
3.3 Obiettivi, risultati attesi e monitoraggio del progetto
Il monitoraggio del progetto e la valutazione dei risultati sarà effettuata secondo criteri qualitativi e quantitativi. Rispetto ai tre obiettivi, si raggiungerà il risultato atteso se:
Conoscenza: (a) la mappatura degli spazi pubblici a livello locale sarà in grado di coprire un territorio comunale (min 20.000 ab.) o un settore urbano che comprenda centro storico e periferia (min.50.000 ab.) e sia in grado di individuare, entro tale territorio, gli spazi pubblici, le loro caratteristiche, e i conflitti ad essi connessi; (b) la mappatura a livello nazionale raccoglierà almeno 50 casi studio tra “buone pratiche” e “spazi pubblici a rischio”; (c) dal convegno e dalla pubblicazione conclusivi emergeranno, espressi con chiarezza comunicativa, metodo, azioni svolte, risultati conseguiti, nonché indicazioni innovative (cioè non ancora descritte nella letteratura del settore) sulle azioni da svolgere.
Responsabilità ambientale e sociale: (a) la mailing list della newsletter raggiungerà almeno i 2000 contatti; (b) le associazioni, movimenti, gruppi, cittadini, partecipanti ai workshop della mappatura locale raggiungeranno le 20 unità (ogni ente conta per uno); (c) i seminari pubblici avranno un’affluenza di almeno 100 partecipanti l’uno; (d) il convegno finale raggiungerà un’affluenza di almeno 300 partecipanti.
Azione solidale: (a) cittadini, associazioni, movimenti, amministrazioni pubbliche intraprenderanno nuove azioni (mappatura secondo criteri analoghi a quella sperimentata, nonché progettazione, difesa, gestione, uso) in accordo con i principi e le premesse che animano questo progetto; (b) centri di ricerca, fondazioni e simili istituzioni attiveranno progetti di ricerca, tesi di laurea e di dottorato, borse di studio e analoghe iniziative per affrontare il tema degli spazi pubblici in modo coerente ai principi alla base di questo progetto.
3.4 IMPATTO SOCIALE ED ECONOMICO SUL TERRITORIO
Impatto sociale
Gli spazi pubblici sono un grande patrimonio (culturale, sociale, economico) messo a rischio dai processi di commercializzazione e privatizzazione dello spazio urbano in atto in Italia (come in Europa e nel mondo). L’appropriazione da parte degli abitanti del loro sistema di spazi pubblici è la migliore garanzia della sua difesa, conservazione, fruizione, valorizzazione sociale e ambientale e della sua utilizzazione per il miglioramento della vivibilità urbana.
L’impatto sociale del progetto sul territorio è costituito dal grado di appropriazione da parte degli abitanti del loro sistema di spazi pubblici, e dipende dal modo e dalla misura in cui la popolazione interessata avrà partecipato alla mappatura, ne avrà condiviso obiettivi e principi, si sarà riconosciuta nei suoi risultati.
Il progetto si propone perciò di saldare strettamente il momento tecnico (fondato sul necessario spessore scientifico e culturale) con quello sociale, scegliendo per quest’ultimo tutta la gamma delle espressioni della società ma privilegiando quelle che, nell’Italia di oggi e nell’area della sperimentazione sul campo (Padova) appaiono più sensibili e attive. In primo luogo, quindi, ci si assicurerà l’adesione di associazioni, comitati, gruppi spontanei di cittadini, lavoratori, abitanti già costitutivi e operanti sul territorio, sia quelli che lo stesso svolgimento del progetto può stimolare ad emergere.
Ma si stabiliranno anche (soprattutto in riferimento alla mappatura di scala nazionale) rapporti di collaborazione con le reti organizzate e con le strutture (quali i Cantieri sociali) nelle quali già convergono strategicamente pluralità di movimenti di base, con quelle organizzazioni sindacali che hanno allargato sistematicamente la loro attenzione dalla fabbrica al territorio, con le istituzioni locali che hanno assunto la difesa e riqualificazione sociale degli spazi pubblici come tema di particolare impegno amministrativo. Costituisce impatto sociale sul territorio anche il sapere prodotto dal progetto, in quanto costituirà fonte e materiale di riferimento per esperti, istituzioni, associazioni che intendano operare secondo i medesimi indirizzi.
Impatto economico
Gli spazi pubblici costituiscono (come si è detto) un grande patrimonio economico. Unpatrimonio realizzato e valorizzato nel corso di decenni e secoli, per le decisioni e gli investimenti di generazioni di uomini. Negli anni recenti questo patrimonio (questo bene comune) sta cambiando di segno: privatizzazione e commercializzazione lo stanno sottraendo al consumo comune, usi contrastanti con la stessa natura degli spazi (le piazze trasformate in parcheggio) li degradano, la mancanza di manutenzione e di cura li deteriorano. La parti aperte e non costruite (i parchi, i boschi, le rive) vengono cementificate e asfaltate.
L’impatto economico del progetto è costituito dalla difesa stessa di questo patrimonio,condizione sine qua non per poterne godere oggi e per poterlo tramandare alle future generazioni. La sua permanenza, il suo accrescimento e miglioramento sono d’altronde condizioni essenziali per la qualità della vita sociale. Una città dotata di spazi comuni abbondanti e ben distribuiti, organizzati per una fruizione libera e aperta da parte di tutti gli abitanti, ricchi di funzioni collettive e di spazi naturali, luoghi d’incontro e di ricreazione, di rigenerazione psico-fisica e d’interrelazione sociale, sono essenziali per il benessere degli abitanti, per la loro salute, per la loro felicità.
L’approfondimento della conoscenza degli elementi del patrimonio costituito dagli spazi comuni può infine suggerire (come ulteriore elemento dell’impatto economico del progetto) modi più sapienti di utilizzarli nell’interesse sociale. Ad esempio, l’uso integrato di risorse per utilizzatori appartenenti a diverse fasce di fruizione (esempi: le attrezzature delle scuole aperte a tutti i cittadini nelle ore extrascolastiche, gli uffici pubblici utilizzati per la ricettività studentesca nei periodi di ferie), l’integrazione pubblico-privato per determinati spazi d’uso promiscuo (esempio: l’uso pubblico di aree agricole di proprietà privata) possono ridurre le spese di gestione ed allargare le possibilità di fruizione.
3.5 CONTINUITÀ E REPLICABILITÀ
Ilmodello di mappatura sperimentato sul campo (livello locale) sarà formulato in modo tale da essere applicabile a realtà diverse: per dimensione, per caratteristiche territoriali e sociali, per natura dei soggetti che intendano utilizzarlo. Se esso avrà successo e se i risultati saranno diffusi con l’ampiezza necessaria esso potrà essere utilizzato in molte altre parti del territorio italiano.
I partner che condividono questo progetto hanno già definito alcune ulteriori aree di collaborazione nell’ambito della Regione Veneto, allargando la partnership ad altre analoghe strutture con le quali solo ragioni di tempo non hanno consentito di avviare fin d’ora la collaborazione (Cantieri sociali Carta, Rete delle Camere del lavoro – CGIL). Anzi, nel corso stesso del processo di ricerca / azione ci si propone (avvalendosi delle reti di contatti dei tre partner) di attivare anche in altra realtà processi analoghi.
É ipotizzabile che in alcuni comuni che hanno in corso la redazione di strumenti di pianificazione si imposti il lavoro sugli spazi pubblici (ad esempio, nella redazione dei “piani dei servizi” previsti da alcune legislazioni regionali) adottando criteri e metodi proposti dal progetto. É ugualmente probabile che alcune delle realtà associative con cui si prenderà contatto nel corso della “mappatura degli spazi a rischio e delle buone pratiche” (livello nazionale) concorreranno alla ricerca non solo trasmettendo informazioni sulle loro esperienze, ma partecipando alla sua implementazione adottandone sperimentalmente il modello per effettuare operazioni sul campo.
La continuità e la replicabilità non sono previste solo dopo la conclusione del progetto, ma nel corso stesso della sua realizzazione. La continuità e replicabilità successive avranno invece una portata più ampia. Ci si propone di informare sul progetto e sul suo svolgimento partner stranieri per un suo sviluppo a scala europea, giovandosi dei contatti già attivi da parte dei soggetti promotori. Un primo canale già aperto è quello costituito dal Forum permanente sul Diritto alla città, di cui è già avviata la formazione all’indomani dello svolgimento del Forum sociale europeo 2008 (cfr. http://openesf.net/projects/urban/project-home).
Se tanti nuovi quartieri residenziali italiani fanno schifo, una ragione c’è. Antistorica. Se le nostre città sono coronate da piazze – che altre civiltà ignorano – non è per un caso bensì per un meraviglioso retaggio etico ed estetico. Una sfida durevole a mostrare quel che valiamo. Chi vuol progettare faccia i conti col passato, con la sua tensione estetica e umanistica
Il disastro vero non è lì, nelle opere talvolta stravaganti e sempre molto costose degli archistar, che con il tempo verranno innocuamente dimenticate come le riviste patinate che le rincorrono, il disastro vero sono i quartieri nuovi delle città europee, dove la cittadinanza dei cittadini è stata disperatamente vulnerata e che purtroppo dureranno invece centinaia di anni.
Quartieri di solito disegnati da professionisti di minore notorietà e qualche volta proprio da questi architetti che, pur rinomati per le loro opere architettoniche, non resistono alla tentazione di firmare anche qualche vasta lottizzazione allineata con gli altri disastri.
Il nuovo quartiere di Santa Giulia a Milano, firmato da sir Norman Forster. Il progetto del nuovo quartiere della Falck a Sesto San Giovanni, firmato da Renzo Piano. Il quartiere fiorentino, firmato da Marco Casamonti e ora sotto l’occhio della magistratura. La collina di Erzelli, a Genova, nelle versioni di Renzo Piano e di Mario Bellini. Eccetera.
Che questi architetti, quando viene loro chiesto il disegno di un brano di città, invece di ritrarsi e riconoscere la loro modesta competenza, siano pronti ad applicarsi in un campo del quale sanno nulla, mostra come l’antica e nobile arte di progettare le città – quella che le ha fatte così belle – è diventata da cinquant’anni un campo così privo di principi solidi, di una dottrina condivisa, di un insegnamento universitario fondato su manuali, di un mestiere riconoscibile e incontrovertibile, che chiunque ritiene di potervi impunemente scorrazzare, qualsiasi nuovo assessore all’urbanistica e qualunque architetto cui un committente privato richieda il piano di lottizzazione dei suoi terreni: molto spesso è il medesimo architetto cui chiederebbe il progetto della propria villa ma altrettanto spesso quello la cui notorietà aiuta a legittimare operazioni immobiliari di dubbia congruità.
Perché sono disastri? Chi autorizza un giudizio così perentorio, che peraltro molti condividono, come Oriol Bohigas?
Uno spazio libero e intimo
Da molto tempo molti lamentano la carenza di una soddisfacente vita collettiva e l’attribuiscono alla mancanza di spazi nei nuovi quartieri, tant’è vero che qualche anno fa il Comune di Roma lanciò il programma di “cento nuove piazze” per rivitalizzare la periferia, e cento nuove piazze si propose di realizzare di lì a poco anche il Comune di Torino, ma i risultati di tanta buona volontà furono agghiaccianti.
Il fatto è che la condizione essenziale di una piazza è di essere tale, cioè di essere costituita da uno spazio libero circondato e delimitato da case abbastanza alte perché alla vita collettiva occorre riconoscibilità e intimità. Ora, i quartieri progettati dopo il 1950 sono fatti di corpi di fabbrica disposti liberamente – vale a dire senza un criterio in qualche modo riconoscibile e consolidato e condivisibile – intorno a spazi vuoti privi di una specifica destinazione, se non talvolta per il gioco dei bambini o per altre modalità connesse all’uso residenziale: che ora, cresciuti i bambini, restano desolati monumenti all’insipienza dei progettisti, come sottolineava qualche anno fa il film L’odio (La haine, 1995, regia di Mathieu Kassovitz).
Dunque le nuove piazze erano di fatto spazi informi che l’arredo avrebbe dovuto riscattare: e ovviamente alla irrimediabile desolazione dei luoghi venne così aggiunta l’evanescenza delle loro nuove sistemazioni.
Se dessimo dunque ascolto a quanto sembrano reclamare i cittadini o comunque a quanto le amministrazioni comunali sembra percepiscano dei loro desideri – se avviano codesti programmi è forse perché ritengono che lo slogan delle cento piazze abbia una qualche favorevole risonanza nel loro elettorato –, ci sarebbe da attendersi che almeno nei nuovi quartieri venissero evitati gli errori del passato: ma invece non sembra sia così, sembra che coloro cui ne è affidato il progetto non possano liberarsi dall’idea moderna che la città nuova non debba per principio assomigliare all’antica.
Questa sorta di schizofrenia produce mostri, produce appunto l’epocale disastro europeo dopo le dittature del secolo breve.
Se invece ci proponiamo di riprendere il filo interrotto della città europea, se riteniamo cioè che le piazze debbano ridiventare, come un tempo, uno dei temi costitutivi della bellezza di una città e forse l’occasione perché le persone riconoscano, nel confronto con gli altri, la propria identità di cittadini, allora occorrerà disegnare piani regolatori che abbiano al loro centro ideale sequenze non di spazi pubblici generici – come recita una volgata insipiente – ma precisamente le piazze, che sono prima di tutto temi collettivi e solo secondariamente sono anche spazi pubblici. Anche i cessi stradali, i vespasiani, sono pubblici, ma non a quelli veniva affidata la bellezza della città e nemmeno – se non in forme marginali e notturne – la socialità cittadina.
Ma nel ricorrere alle piazze occorre conoscerne il senso, perché le piazze – una originalissima invenzione europea che invano cerchereste nelle città dell’Islam o nella lontana Cina – hanno ciascuna un proprio tema sociale, un proprio nome.
Tutti sappiamo riconoscere la piazza principale di una città, sappiamo cercarla perché siamo certi che in tutte le centomila città europee – villaggi o capitale che siano, da Edimburgo a Trapani e da Siviglia a Cracovia – la troveremo, proprio come troveremo la chiesa principale e il palazzo municipale. Se poi guardiamo meglio, vedremo le piazze dei conventi che nel Duecento i frati degli ordini mendicanti pretendevano davanti alle loro chiese, per sottolineare sul piano simbolico che la loro predicazione non era un compito da portare a termine nel cerchio chiuso della loro chiesa ma era diretta a tutta la cittadinanza, soprattutto agli eventuali eretici che vi sarebbero transitati, magari per caso.
E l’occhio amorevole e attento vede la piazza del mercato, dove venivano concentrate le bancarelle e, sotto i portici, le botteghe, per evitare di vederle nella piazza principale, di fronte al palazzo municipale, dove avrebbero intaccato la sua dignità, mentre il vescovo non aveva nulla in contrario ad averle di fronte alla cattedrale.
Così noi riconosciamo i portici delle botteghe, a Venezia, nella piazza davanti a San Marco, mentre la piazzetta davanti al Palazzo Ducale era la piazza principale dove quanti ne erano interessati tessevano i loro intrighi politici.
Poi riconosciamo la piazza della chiesa, concepita quando Alvaro da Cordoba divulgò la Via crucis nel Quattrocento, ma anche la piazza monumentale, con i palazzi privati o pubblici più prestigiosi ma senza botteghe – come piazza della Scala a Milano – o addirittura programmate con un’architettura rigorosamente unitaria, come le place royale francesi o le plaza mayor spagnole o come piazza san Carlo a Torino, piazza Mazzini a Catania o Piccadilly Circus a Londra.
E poi, dall’Ottocento, le piazze dedicate alla gloria della nazione, con le banche, gli istituti nazionali (l’Inps, l’Inail, ecc.), ma anche i monumenti ai cittadini che più si sono distinti nella sua costruzione culturale e politica, Raffaello a Urbino piuttosto che Pietro Vannucci a Perugia, e Vittorio Emanuele II o Garibaldi quasi dovunque.
Beninteso, la loro riconoscibilità non impedisce che la medesima piazza sia insieme – come piazza del Duomo a Milano – una piazza principale (perché tutti i cittadini vi accorrono spontaneamente quando un avvenimento mette in gioco l’appartenenza alla comunità), la piazza della chiesa, la piazza del mercato (perché è circondata da portici sotto i quali vengono aperte le botteghe), una piazza monumentale (perché scena di palazzi con la medesima veste architettonica) e infine una piazza nazionale con al centro la statua di Vittorio Emanuele II.
Queste piazze sono poi connesse tra loro dalle strade tematizzate (la strada principale con i suoi negozi, la strada monumentale con i palazzi dei maggiorenti, la strada trionfale con il suo fondale prospettico, la passeggiata alberata con una larghezza fuori del consueto, i boulevard uno di seguito all’altro, e i viali che ci accompagnano verso le altre città), strade, come le piazze, ben distinguibili una dall’altra.
Nel corso dei secoli i cittadini delle città europee hanno impresso il desiderio di fare della città un’opera d’arte, di farne la culla della bellezza, disponendo con una persistente e grandiosa volontà estetica le piazze e le strade tematizzate, in una loro deliberata successione, in sequenze che fino al 1950 raggiungevano i quartieri più nuovi e più lontani evitando così la loro emarginazione simbolica. Ecco per esempio a Firenze la strada monumentale, gli Uffizi, in sequenza con la piazza principale, piazza della Signoria, seguita subito dalla strada principale, via dei Calzaioli, dalla piazza del Duomo con il Battistero, dalla strada monumentale fatta di palazzi privati, primo di tutti il palazzo di Cosimo de Medici, poi la piazza del convento davanti a san Marco e infine la piazza nazionale, piazza della Libertà, circondata da un colonnato uniforme che la rende monumentale.
Desiderio divino della bellezza
Queste straordinarie sequenze, che riconosciamo subito in ogni altra città, sono il frutto di una deliberata volontà estetica dei cittadini europei che per otto secoli hanno dovunque dato forma alla loro urbs. La nostra città non è infatti l’esito del desiderio di condurre una vita piacevole accanto alla corte del sovrano, come sosteneva nel Settecento Cantillon, o delle convenienze commerciali, come sostenevano i positivisti dell’Ottocento, e neppure è un congegno meccanico, una machine à habiter con il medesimo rigore funzionale di una fabbrica vera e propria come, con terribili conseguenze, sosteneva Le Corbusier, ma è prima di tutto una creazione dello spirito, del desiderio divino della bellezza.
Progettare una città per gli uomini, per i suoi cittadini, è cosa semplice che non richiede il gesto geniale di un architetto famoso che forse la storia ricorderà, ma è un modesto lavoro, un mestiere che non richiede genio ma comporta invece, piuttosto, una conoscenza specifica dei cittadini e delle altre città.
Di costoro nessuno ricorda i nomi. Se molti sanno chi ha progettato la cupola di San Pietro a Roma, nessuno sa bene, neppure la Guida rossa del Touring, a chi dobbiamo il sublime tridente di piazza del Popolo, a chi dobbiamo l’invaso del campo di Siena, e chi ha progettato la croce di strade di Palermo, che l’ha resa una delle città più belle d’Europa, è molto meno noto di John Soane, che ha progettato nell’Ottocento a Londra la banca d’Inghilterra.
Chi disegna un nuovo quartiere sappia tutte codeste cose, sappia per averla riconosciuta in tutte le città europee questa antica e radicata sapienza, e sarà allora in grado di dare una risposta rigorosa alla domanda che in questa nostra società va emergendo, nelle richieste e nei programmi stessi delle nostre amministrazioni comunali, nella nostra collettività, nella nostra civitas.
Ed è questa grandiosa e pervasiva volontà estetica, sedimentata nei secoli nelle città europee, che dovrebbe essere al centro di una politica della bellezza, di quella bellezza della quale oggi un ministro dichiara di voler promuovere la ricerca e la protezione.
Le note che seguono sono una sintetica presentazione di alcune prime lettura che si consigliano ai frequentanti la Scuola di eddyburg 2008. Riguardano argomenti che saranno sviluppati nelle lezioni,oppure premesse a una loro piena comprensione. I titoli in neretto corrispondono a testi che si possono scaricare dall’elenco in fondo a auqesta pagina. Quelli sensibili sono link ad altre pagine di eddyburg.
L’analisi dell’equilibrio/squilibrio tra vita pubblica e vita privata è illustrato nella trilogia di Richard Sennett: Il declino dell’uomo pubblico, Palais-Royal e La coscienza dell’occhio.
Il primo saggio, pubblicato per la prima volta nel 1974, è una storia sociale della città, con particolare riferimento alla città del XIX e XX secolo. Nel capitolo “La fine della cultura pubblica” si descrive come l’uomo pubblico sia divenuto sempre più ‘privato’ e passivo nei confronti di una società ‘relegata’ nel reame intimo del nucleo familiare e dove il discorso politico diviene inquinato da psicologismi ‘fatti in casa’.
Nel secondo libro, un romanzo ambientato nella Parigi e nella Londra degli anni 1830-40, si racconta di due fratelli in cerca della propria personalità e riconoscimento sociale. Sennett mette in evidenza come la complessità di una città arricchisca la vita degli individui che la società definirebbe ‘falliti’ secondo la scala di valori del mondo che li circonda.
Il terzo testo è di nuovo un saggio che mira a porre in relazione l’architettura, la progettazione urbana e la pianificazione di una città con la sua vita culturale.
La città di Batman di Elisabetta Forni indaga sulla complessa trama che lega i bambini e la città e “prova a far parlare i bambini del malessere e delle violenze di cui sono vittime in una società che ha riprodotto ovunque un modello urbano adultocentrico e segregante.”
In particolare nel capitolo “La crisi dello spazio pubblico urbano” affronta il tema centrale del libro: la declassificazione degli spazi pubblici a luoghi di conquista dei più forti, dove l’auto ha la meglio sui pedoni, dove l’uso commerciale si appropria e recinta spazi che oramai solo nominalmente sono pubblici. Si veda anche in eddyburg la recensione di Giancarlo Consonni.
Il punto di vista femminile è raccontato nel libro curato da Antonietta Mazzette “L’Urbanità delle donne”. Un percorso del fare e vivere la città al femminile in cui si raccontano luoghi e vissuti assumendo come punto di vista le pratiche urbane delle donne. Nell’introduzione, “Trasformazioni urbane e vissuti delle donne”, vengono riassunti i tre grandi temi assunti per analizzare le esperienze di riqualificazione e rigenerazione urbana avvenute in Italia negli ultimi due decenni:
- La creatività e professionalità femminili come elementi di rigenerazione femminili
- Le fatiche del vivere in città
- Le nicchie di potere delle donne e l’organizzazione della città.
Tempo, accessibilità e mezzi di trasporto nella città contemporanea sono affrontati da Maria Rosa Vittadini in “La città accessibile”.
Henri Lefebvre, nel brano “Livelli di realtà e analisi”, tratto dal libro “Il diritto alla città” propone un modo di leggere la città per livelli, da quello globale legato ai processi generali esterni ed interni alla città, a quello più prossimo legato alla quotidianità, al modo di vivere, abitare; per ordini e dimensioni.
Edoardo Salzano, in "Paura in città", ragiona sulla percezione della paura, la difficoltà di rapportarsi con il “foresto”, l’affievolirsi della dimensione pubblica e la necessità di rivendicare gli spazi pubblici per superare tutto questo.
Nel libro “La Metropoli Consumata” di Antonietta Mazzette e Emanuele Sgroi, il capitolo conclusivo, “ Quali politiche urbane per quali effetti sociali”, svolge riflessioni e considerazioni sulle politiche urbane, in particolare quelle di rigenerazione e riqualificazione dei centri urbani, e sui loro effetti controversi. Gli autori si domandano se le politiche urbane siano regolatrici del consumo o invece siano anche esse rivolte alla promozione del consumo, dell’acquisizione e dispersione d risorse tra cui il suolo, la qualità ambientale, il territorio. Si veda anche in eddyburg la recensione di Fabrizio Bottini.
Quei non-luoghi sono espressione e, a un tempo, strumento di una profonda trasformazione del mondo che è azionata oggi da quel complesso di poteri che trova del neoliberismo la sua ideologia-non ideologia. Una trasformazione che sta riducendo ogni bene a merce, ogni cittadino a consumatore, e ogni diverso a nemico. E non a caso i due requisiti più apprezzati dagli outlet villages vestiti da finti paesi o da baracconi da fiera, come dalle “cento piazze” delle ferrovie e degli aeroporti, sono costituiti da dallo shopping e dalla sicurezza.
Qualcuno definisce i non-luoghi come “spazio democratico”. Ma democrazia significa essere padroni del proprio destino, mentre la “gente” che affolla i non-luoghi assomiglia alle folle del film Metropolis: massa di soggetti schiavi di un potere che, benché invisibile e impersonale, non è per ciò meno autoritario.
Bisogna governare i super-spazi, si dice. Ma per farlo occorre in primo luogo rendersi conto che essi, oltre a essere espressione di quella trasformazione del mondo, ne sono anche strumento. Favorirne la crescita, renderli più accattivanti, significa accrescere la potenza d’uno strumento di per sé malevolo. Governarli deve significare invece riprendere e rinnovare gli strumenti del controllo pubblico delle trasformazioni, a cominciare dalle utilizzazioni delle diverse parti della città: arricchire di spazi comuni e di luoghi aperti dello scambio (non solo mercantile) le periferie; restituire alla complessità e alla ricchezza sociale della vita urbana, gli spazi pubblici; ripristinare in ogni parte della città quella mixitè che ne è l’attributo più rilevante. Privilegiare, insomma, gli obiettivi sociali del governo della città su quelli mercantili.
Nella speranza che i cittadini, grazie a una democrazia rinnovata, siano più potenti della WalMart, dell’Ikea e delle altre multinazionali, le quali pianificano e progettano la città di un domani inquietante.
Sull'argomento vedi anche Mazzette su eddyburg, Erbani su Repubblica del 31 ottobre 2007, Tozzi su il manifesto del 23 ottobre 2007, e il testo di Agnoletto, Delpiano e Guerzoni
Carissimo Eddy, il tuo intervento sul tema della paura in città è veramente centrato e chiaro. Proporrò all’Amministrazione di utilizzarne lo spirito, nel documento preliminare al PUC.
Condivido l'importanza della creazione di spazi pubblici, per i quali a volte non servono nemmeno altisonanti e griffati interventi architettonici. Nel caso del mio Comune abbiamo concluso un piccolo intervento in questa direzione: si è trattato in gran parte solo di togliere (traffico d'auto, parcheggi, spazzatura).
È un intervento che mi rende felice, perché è stato un po’ attuare quello che ricordi sempre tu citando Calvino: “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
In definitiva si è trattato di recuperare lo spazio all'interno del centro storico, sede della vecchia ferrovia,togliere 100 posti macchina, mettere qualche albero panchina, e il paese ha cambiato volto. Prima era uno sporco intestino, ora è un tinello e soggiorno , i bambini giocano ovunque ,ci si dà appuntamento e si discute di politica e anche di urbanistica.
Come dici tu non è che con la creazione di spazi pubblici si possano risolvere i problemi dell'integrazione e della paura , ma intanto una città più vivibile si frequenta e si ama di più.
Allego alcune immagini, che rappresentano lo spazio com’era, e come è diventato.
Cara Carla, le immagini che mi mandi (e che allego in un .pdf in cui le ho montate) sono molto efficaci. Se dappertutto, in ogni città, invece di pensare a grattacieli e a monumenti pensati per épater le bourjois si lavorasse nella direzione di un recupero della civiltà (perché di questo si tratta con gli interventi come il vostro), credo che alla fine anche la società cambierebbe un poco. È una grande responsabilità quella che noi urbanisti abbiamo. Non è sufficiente predicare che occorre tornare dall’oggettistica al’urbanistica: bisogna anche saperlo fare, dove è possibile farlo nel concreto, e utilizzare queste possibilità per far comprendere ai cittadini che una città a misura di società è possibile. Magari lavorando con loro.
Per la città le piazze sono importanti: lo erano nella sua storia, potranno esserlo per il loro futuro. Le piazze sono i luoghi grazie ai quali privato e pubblico, le due dimensioni essenziali della vita umana, trovano il loro equilibrio. Sono la cerniera tra la città e la società: tra le pietre dell’urbs e lo spirito della civitas. Sono la rappresentazione e l’anima della città poiché sono il luogo dello scambio: della compresenza di persone appartenenti di ceti, età, mestieri, condizioni sociali diversi, e quello dell’incontro con il “foresto”, il diverso, quello da cui si può apprendere e a cui si può insegnare, e attraverso il quale la nostra comprensione del mondo aumenta e la nostra vita diventa più ricca.
Senza la piazza la città sarebbe un mero aggregato di case, di edifici privati. Aperte al mondo, pubbliche, luogo dove si svolge con quotidianità un gran numero di funzioni urbane: questi i tre requisiti essenziali della piazza. Una “piazza” chiusa, riservata solo ad alcuni ed esclusa ad altri non è una piazza (se vi piacciono gli anagrammi potete dire che è una pazzia). Una “piazza” che non appartenga alla comunità cittadina ma a un privato, il quale possa disporne a suo piacimento, è anch’essa una pazzia. Come lo è una “piazza” ridotta a luogo di passaggio, o a deposito di automobili, o a mera esibizione di merci uguali dappertutto.
Eppure è un questa direzione, nella direzione della mistificazione e dell’alienazione, che gli eventi, e le forze che li governano, dirigono le nostre piazze. Due esempi. La pubblicità per l’operazione “Centostazioni: cento nuove piazze italiane”, dove la sicurezza e lo shopping sono le due connotazioni delle “nuove piazze”. La recente manifestazione bolognese “la civiltà dei superluoghi”, dove si proclama che “outlet, centri terziari dell'interscambio, aeroporti, stazioni ferroviarie, fashion district, centri commerciali, sono gli spazi di successo della nostra società” e che quindi bisogna “comprendere e non rifiutare questi ambiti nel progetto della città futura”. Una città a misura di mercato.
Oggi per portare la vita nelle piazze (quelle che si riesce a liberare dalle automobili, per sempre o, più spesso, per la durata dell’evento) bisogna lavorare, inventare, spendere, organizzare. Una volta non era così. Le piazze erano naturalmente il luogo nel quale tutti s’incontravano, quale fosse la loro età o il loro genere, il loro ceto e il loro mestiere: perché erano tra le case e le botteghe, punti focali delle città, dei quartieri e dei borghi di cui erano l’ornamento; perché ai loro margini o al loro vertice erano collocati i luoghi della vita pubblica; perché erano gli spazi, animati e tranquilli, di una comunità che in essi si riconosceva.
Non è difficile comprendere perché questa trasformazione è avvenuta, e perché la stragrande maggioranza delle piazze d’Europa è quella ereditata dal passato nelle parti più antiche delle città. La piazza era la cerniera tra le famiglie e la società; era il luogo in cui gli abitanti diventavano cittadini, in cui si vivevano gli interessi, le necessità, le emozioni comuni a tutti. Adesso tutto questo è cambiato. Le cerniere, se ci sono, sono altrove, e collegano una moltitudine (non una società, non una civitas) di consumatori (non di cittadini), sempre più priva d’identità, a delle “piazze”, reali o virtuali, sempre più massicciamente dominate dagli interessi mercantili della globalizzazione: dalla tv degli spot pubblicitari ai mall e ai “centri commerciali”, recintati ed esportati fuori dalle città.
Non illudiamoci. Non basta imporre la costruzione di piazze nelle periferie, non basta preoccuparsi del loro aspetto fisico, delle loro forme e dei loro arredi. Occorre al tempo stesso lavorare perché cambino i valori e le regole, gli interessi e i poteri, che caratterizzano la società, e la rendono capace di volere le piazze, e perciò anche di viverle.
1) Per quali ragioni, a tuo avviso, l’iter parlamentare delle proposte inerenti il governo del territorio e l’urbanistica è accompagnato da un così gran silenzio? Manca la coscienza diffusa del ruolo determinante che città e territorio sono chiamati a svolgere per il benessere di tutte e tutti? Oppure nessuno crede più che il destino di questa risorsa collettiva così preziosa ed esauribile possa essere salvaguardato dalla mano pubblica?
Una legge ma non solo
Oggi siamo di fronte ad una forte e diffusa consapevolezza che territorio e insediamenti nelle loro diverse espressioni, sono un bene comune e che tutte le trasformazioni del territorio progettate e volute oppure prodotto indesiderato o semplicemente non previsto, hanno sempre un effetto sulle vite di chi quei territori li abita o in qualche modo li attraversa. E c’è anche la consapevolezza del diritto di tutte le persone coinvolte in qualità di abitanti, a partecipare ai processi decisionali e quindi alle scelte. Assunzione del territorio come bene comune e partecipazione alle decisioni da parte degli abitanti “subalterni”, è possibile solo e soltanto se si modificano i rapporti di forza e le regole del gioco, visto che esistono gruppi sociali, quelli definiti forti, che decidono in base ai propri interessi personali o di gruppo, arrivando spesso a nasconderli dietro falsi interessi comuni. Esiste quindi una domanda diretta o indiretta, esplicita o implicita, di nuovi esisti territoriali e quindi di nuove regole del gioco. Come modificare i rapporti di forza e le regole non è tuttavia scontato. Infatti la mano pubblica ha delegato e sta delegando in modo diretto o indiretto il governo della cosa pubblica e in particolare del territorio a enti e agenzia private, quando non addirittura a consorzi di imprese (privatizzazione del governo del territorio). Nessuno sembra responsabile e le leggi tendono a rendere flessibile e negoziabile l’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni. La flessibilità dei piani urbanistici e la discrezionalità delle scelte è da sempre lo strumento principe della valorizzazione immobiliare. Infatti la mancanza di regole a favore della razionalità sociale (contrapposta a quella economica) rende scontato l’esito: vincerà l’intervento più lucrativo, quello presentato dai soggetti imprenditoriali che di volta in volta (spesso sono sempre gli stessi) si dimostrerà il più forte. La pratica della vittoria del più forte viene congelata nella legge attraverso la flessibilità e la discrezionalità: da strapotere e connivenza diventa legalità, si trasferisce alla legge.
Siamo di fronte ad un dilagare di leggi sul governo del territorio inutili, non cogenti e anche di piani urbanistici e territoriali molto flessibili che lasciano le decisioni a chi di volta in volta, fra gli imprenditori, avrà più forza, come dire che sono i rapporti di forza che scelgono quali trasformazioni urbane avverranno, non certo la giustizia. Insomma le regole che dovrebbero proteggere i beni comuni se esistono possono essere stracciate, in base al solito diverso peso e diversa misura. Oppure si possono elaborare regole che rendono lecito e legale quello che non lo era. Certe descrizioni di cosa sia la governance assomigliano in modo sconcertante alle procedure proprie degli accordi illeciti di tangentopoli, come dire una legalizzazione dell’illegale. Non c’è limite all’asservimento di certi pseudo-intellettuali.
Tutto questo credo crei poca fiducia nella redazione di una legge. Un altro limite di ogni legge è che qualsiasi generalizzazione e inclusione di istanze sociali in una legge, sconta il fatto che il particolare viene ridotto e tagliato, svilito, quando diventa universale-generale, e molto viene perso. Questo non vuole dire che le leggi e i piani se opportunamente elaborati non possano contribuire a modificare i rapporti di forza e le regole del gioco. Leggi e piani possono essere usati per salvaguardare e far crescere i beni comuni, solo che dobbiamo essere noi “tecnici” a tradurre le istanze in norme e piani e dobbiamo essere noi (che conosciamo tanti trucchi) a farli diventare chiari e stringenti, fastidiosi per gli speculatori e i cacciatori di profitti e rendite, mai così intrecciate ed indissolubili come oggi. In questo contesto sta a noi essere chiare sulla posta in gioco e sui suoi limiti. Sta a noi definire come una legge sul governo del territorio possa assumere queste domande sociali di partecipazione e di qualità urbana e territoriale decisa e prodotta collettivamente.
Le lotte dei tanti comitati dei cittadini contro l’ennesima speculazione immobiliare, le lotte contro la TAV e la base USA al Dal Molin di Vicenza, decise in modo dittatoriale, alla faccia di tutte le false chiacchiere sulla democrazia e sulla partecipazione, mostrano quali problemi vanno affrontati; quali carenze sono presenti sui nostri territori e cosa manca. Le leggi devono inscrivere quelle norme che rispondano a quei bisogni e impediscano risultati socialmente deleteri.
2) Condividi, del tutto o in parte, l’idea che la scrittura della legge urbanistica nazionale potrebbe offrire una occasione per ribadire la responsabilità pubblica in materia di dotazioni territoriali minime e nel contempo per riflettere sui limiti degli standard urbanistici (spesso non applicati o applicati solo come mera quantità, senza nessuna attenzione alla qualità dei servizi, alla loro localizzazione, diffusione, accessibilità, tempi di realizzazione, ecc.) al fine di ridefinirli radicalmente anche alla luce dei cambiamenti che hanno attraversato la nostra società?
Le infrastrutture sociali del territorio: ovunque e dappertutto
Le dotazioni di infrastrutture sociali obbligatorie ed inderogabili devono essere riconosciute come elementi di qualità del territorio: nella legge sul governo del territorio, nella cultura e nelle pratiche delle pubbliche amministrazioni. Una responsabilità pubblica inderogabile. Gli standard urbanistici prescritti dal DM 1444/68 hanno costituito per molte amministrazioni un fastidioso obbligo da assolvere: spesso in modo formale e non sostanziale, come vincolo e non come servizio effettivamente predisposto. “Ho gli standard” per molti comuni significa averli sulla carta e non nella realtà, come se uno abitasse nell’immaginario e non nel territorio concreto.
Alcuni aspetti della normativa del DM1444/68 vanno modificati. E non mi riferisco agli standard per esempio delle scuole, in nome del fatto che nascerebbero meno bambini: una previsione, falsa e tendenziosa, visto che alcune amministrazioni le scuole se le sono vendute per far cassa e ora si rende necessario costruirne delle altre. Previsione smentita quindi, e che comunque non tiene conto del bisogno di istruzione permanente. Si potrebbero usare le scuole anche per altri utenti ed altre funzioni. I discorsi sulle prestazioni dei servizi e degli spazi collettivi residenziali avrebbero dovuto servire anche a questo: a capire che ci possono essere usi contemporanei, se sono compatibili, e che solo per fare un esempio, spazi usati al mattino e al pomeriggio dagli studenti possono essere usati da altri la sera. Le scuole possono essere pluri-funzionali, ed essere utilizzate anche per l’istruzione permanente, e le palestre, e le sale riunioni potrebbero essere utilizzate anche di sera. E non va dimenticata la grave carenza, rispetto alla domanda, di asili nido e scuole materne.
Nel DM 1444/68, va eliminata la differenziazione nell’obbligo di rispettare gli standard (rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi) fra zone omogenee A (agglomerati urbani storici), B (aree totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A) e C (aree destinate a nuovi complessi insediativi). Infatti tutte le zone devono garantire i minimi di legge, anche le aree A e B. L’articolo 4 del DM prevede che le aree a servizio, per gli interventi in zone A e B, cioè in aree edificate del tutto o in parte, siano computati in misura doppia rispetto a quella effettiva, per rispondere ad una presunta difficoltà a reperire spazi per gli standard per esempio in un centro storico. Questo poteva avvenire “qualora sia dimostrata l’impossibilità – per mancata disponibilità di aree idonee…”. Se una qualche giustificazione poteva darsi in certe condizioni certo non è vera adesso, quando si liberano aree dismesse produttive e terziarie nelle aree edificate e gli interventi speculativi coprono tutto lo spazio disponibile e quello per i servizi pubblici alla persona non si trova mai. E’ successo che si liberasse spazio negli stessi centri storici ma invece di utilizzarlo per gli standard sono stati concessi nuovi interventi abitativi, uffici, commercio mentre i servizi sono stati spostati altrove, in zone meno appetibili e pregiate.
Va eliminato il “di norma” che precede la ripartizione delle quantità degli standard (“tale quantità va, di norma, ripartita”; art.3 secondo comma) che ha permesso ai comuni di limitare i servizi a parcheggi e verde magari sulla copertura del parcheggio, lasciando gli abitanti privi della qualità urbana di cui dovrebbero aver diritto. In una logica di stato non confessionale, le chiese vanno eliminate dagli standard: non solo perché ce ne sono già davvero tante, ma anche perché in base a questa norma la chiesa cattolica riceve dai comuni i fondi derivanti dagli oneri di urbanizzazione, quando mancano servizi essenziali come quelli per gli anziani (autosufficienti e non autosufficient) e i centri sociali e culturali pubblici. Gli edifici delle diverse confessioni vanno costruite a spese dei loro credenti. Compito dello stato è offrire gli spazi e i servizi universali cioè per tutti.
Ma abbiamo bisogno anche di nuovi spazi per servizi, oltre a quelli elencati nel DM, ed escluse come già detto chiese ed oratori. Case per anziani con lavoratori contrattualizzati cioè con orari di lavoro definiti e con tutti i diritti fondamentali da statuto dei lavoratori: anche assumendo le badanti straniere che così non si troverebbero da sole di fronte ai datori di lavoro, né sarebbero soli gli anziani, costretti ad andare al supermercato per vedere qualcuno. Luoghi di cura e di incontro per gli anziani nel mezzo degli insediamenti urbani per favorire l’incontro con gli altri di tutte le età: mai più soli.
Creare le nuove cattedrali laiche della cultura, della comunicazione, dello spettacolo, totalmente pubbliche. Imparare, insegnare, comunicare, discutere, decidere, progettare, assistere a spettacoli e guadare mostre, guardare gli altri, leggere, non da soli. Le scuole per tutti, lo spazio per l’istruzione permanente. Uso pubblico delle palestre. Centri sociali e case delle donne come spazi pubblici gestiti dai fruitori. Servizio alla persona universale significa che tutti devono poter accedere e che bisogna rompere la logica del servizio costruito dall’impresa privata che è disponibile a realizzare solo i servizi che rendono. Basti pensare al project financing che prevede siano attuati solo i servizi in grado di produrre reddito per ripagare che li realizza (e così si realizzano e sono davvero obbligatori solo i parcheggi a pagamento). Anche i mezzi pubblici e gli spazi pedonali fanno parte delle infrastrutture sociali urbane da rendere obbligatorie.
3) Il movimento delle donne ha già da tempo indicato la strada per ampliare il contributo dell’urbanistica alle politiche di welfare, andando ben oltre l’approccio delle “dotazioni territoriali minime”. Per quali ragioni, a tuo avviso, le tematiche legate alla qualità dei tempi e degli spazi di vita (le cosiddette politiche spazio-temporali) così come quelle relative alla sicurezza urbana, rimangono un ambito di riflessione, ricerca ed azione di alcune reti circoscritte ed animate soprattutto da donne?
Non ci sono tempi senza spazi. Tanta fatica per nulla: il problema non è facilitare l’assolvimento del ruolo ma liberare dai ruoli imposti. Solo per libertà.
Non ci sono tempi senza spazi. Senza nuovi servizi non ci possono essere politiche spazio temporali che rompano le discriminazioni. Le politiche su tempi e spazi che si focalizzano sulla conciliazione dei tempi rischiano di congelare e di dare per scontata una divisione dei compiti che non ha nulla di naturale né di immodificabile. Per qualcuno la politica di genere sembra sia caratterizzata dall’accorgersi delle discriminazioni e dei lavori delegati alle donne, ma invece di incidere con politiche efficaci su questa ingiustizia, si usano palliativi per rendere meno oneroso il doppio lavoro, senza cercare di superarlo e di individuare modi concreti per superarlo. Questo approccio lascia la dicotomia dei compiti attribuiti in base al genere a sé stessa e non propone altro che di “far correre meglio” di qua e di là le donne, ma non pensa minimamente che certi compiti dovrebbero essere una funzione sociale, attribuita a servizi pubblici. La famiglia viene incensata mentre le vengono attribuiti compiti abnormi rispetto alle sue forze: la cura degli anziani anche non autosufficienti, solo per fare un esempio, in nome della solidarietà, ma in realtà in nome del risparmio sul welfare. Un risparmio attuato per liberare risorse per un eccesso di autostrade e opere pubbliche non sempre così necessarie (alta velocità), oppure finalizzate allo sviluppo economico, di cui sarebbe più logico si facessero carico direttamente imprese e aziende che di quelle infrastrutture hanno bisogno per i loro spropositati profitti/rendite.
Le politiche spazio temporali hanno senso se se ci sono spazi da connettere e se ad essere connessi sono opportuni luoghi per nuovi servizi altre a quelli tradizionali, invece mancano elementi fondamentali di infrastruttura sociale come gli spazi pubblici e collettivi per l’incontro e la cultura. E ogni scusa è buona per eliminare quei pochi che ci sono. Se gli spazi da connettere sono solo i negozi, quelli, per vendere sono disposti ad essere aperti a qualsiasi ora. Allentare la rigidità dei tempi dei servizi, se i servizi non ci sono, non ha un gran senso.
Bisogna liberare gli spazi perché possano accogliere ed ospitare la creatività individuale e collettiva. Liberare gli spazi significa affrontare il nodo della rendita fondiaria e dei profitti immobiliari. Se non si cambia logica da quella del valore di scambio al valore d’uso, dalla razionalità economica a quella sociale, non avremo spazi da connettere, ma solo brandelli, sempre più piccoli di spazio privato (più piccoli perché i prezzi fanno ridurre lo spazio abitativo consentito).
Se la preoccupazione dei tempi riguarda le corse per far convivere lavoro domestico, di cura, la riproduzione, con il lavoro retribuito, fino a che sono le donne a farsene carico, chi altro dovrebbe occuparsene?
Altri problemi nel regolare i tempi attengono al fatto che il tempo di lavoro e la stessa occupazione tende ad essere sempre più flessibile. Come si fa a regolamentare? Il tempo di lavoro è sempre più faticoso: flessibile per i datori di lavoro, rigidissimo per noi. Tempi di lavoro e tempi di vita devono essere compresi e affrontati insieme. Altrimenti di chi e di che cosa stiamo parlando?
Quanto alla sicurezza urbana, il problema è che questo termine mette insieme significati troppo diversi, che creano gravi fraintendimenti. Una accezione di sicurezza, quella che ci interessa in una prospettiva di genere, è che le donne devono poter girare dappertutto, anche di notte, senza rischiare molestie, intimidazioni e violenze: il termine “sicurezza” non descrive questo bisogno di libertà di usare la città e il diritto alla inviolabilità e all’autodeterminazione delle donne. Infatti sicurezza urbana significa anche altro: per esempio ordine pubblico, spesso ingiusto, cioè debole con i forti e forte con i deboli. Non credo di dover fare degli esempi. Bisogna imparare ad usare i termini corretti per esprimere un concetto, in altri termini chiamare le cose con il loro nome, e sicurezza urbana non ha in sé la capacità di rappresentare la libertà delle donne nel muoversi nello spazio urbano. Anzi il rischio dell’uso del termine sicurezza urbana è che fa sembrare che la nostra libertà di donne si ottenga espellendo gli emarginati dallo spazio pubblico, mentre molti nostri nemici (sessisti) hanno soldi e sono apparentemente “per bene”, nessun vigile o poliziotto li fermerebbe mai per un controllo di ordine pubblico.
4) Cosa si potrebbe e/o dovrebbe fare perchè questo tipo di politiche, che peraltro sono state oggetto di alcune buone legge regionali, siano finalmente assunte da donne e uomini come politiche centrali da inserire con forza nelle scelte e nell’azione del nuovo Governo nazionale, contribuendo a ridisegnare le coordinate di un nuovo sistema di sicurezze e garanzie sociali (il cosiddetto welfare)?
Servizi pubblici e collettivi e la costruzione della città in comune
Una legge sul governo del territorio deve essere in grado di modificare i rapporti di forza e le regole di trasformazione urbana in favore di chi esprime un uso sociale delle città come bene comune. Bisogna liberare lo spazio dalla logica immobiliare e sviluppista, nel senso che deve prevalere il suo uso sociale su qualsiasi ipotesi di sfruttamento. Solo escludendo gli usi che producono rendita fondiaria – profitto immobiliare in favore di quelli di cui c’è davvero bisogno, potremo avere spazi in grado di ospitare nuovi modi di abitare, spazi comuni, collettivi, pubblici in cui possa svilupparsi la creatività sociale. Da un lato quindi va ottenuto spazio per quelle funzioni che sono oggi carenti nelle città: abitazioni a prezzi commisurati ai redditi (flessibili e fluttuanti) da lavoro e al mancato reddito dei disoccupati, servizi alla persona, spazi per l’istruzione permanente e per la cultura…
Ma un vero stato sociale, che in Italia non è mai esistito in pieno, oggi non può non porsi il problema del reddito per tutti. Se non c’è lavoro per tutti, tutti hanno bisogno di vivere. Luciano Gallino nel libro del 1998 “Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione” afferma che in Italia esiste una vera e propria “miniera di lavoro” che non viene sfruttata. Le aree di crescita occupazionale secondo lui sono molteplici: la difesa del suolo e dei cittadini, i beni culturali, i trasporti, la formazione e la ricerca. La strada che Gallino individua non è quella di moltiplicare gli oggetti da tenere in casa o in ufficio o addosso, ma bensì di creare lavoro finalizzato al miglioramento della qualità della vita. Quante attività di cura sono necessarie e quanto bisogno hanno le città e le metropoli di una riqualificazione ed infrastrutturazione sociale che non è fatta solo di spazi ed edifici pubblici e collettivi ma anche di persone che danno loro senso e contenuto. Il lavoro di riproduttivo, di cura delle persone, deve diventare centrale, ma deve essere retribuito in modo diretto o indiretto. Se ho il reddito di cittadinanza posso fare lavoro sociale e di cura, ma anche culturale ed artistico senza sottostare alle logiche elitarie e segreganti del mercato capitalistico.
Non solo produzione ma anche riproduzione, non tanto produzione di oggetti ma produzione di relazioni e di cultura, e perché no, di felicità. Ricordate? Un salto di paradigma.
Nota
Il sito Tempi e spazi, Laboratorio sugli spazi , ospita un servizio a cura di Fanny Di Cara e Silvia Macchi (marzo 2007) su “Standard urbanistici fra tempi e spazi: verso quali scenari di welfare urbano?”.
In esso:
- un contributo di Marisa Rodano , che ha traccia “la storia del percorso intrapreso dal movimento organizzato delle donne, in particolare dall’Unione Donne Italiane, fra la fine degli anni ’50 e inizio anni ’60, per dotare le città di un minimo obbligatorio di servizi e per renderle rispondenti alle esigenze reali della popolazione”,
- le risposte di Patrizia Colletta, Marvi Maggio, Rossella Marchini, Anna Marson, Angela Scarpano alle domande sul tema: “Standard urbanistici fra tempi e spazi: verso quali scenari di welfare urbano?”
Inviamo il comunicato stampa relativo alla prospettata vendita, da parte del Comune di Modena di alcuni campi da calcio ubicati all'interno della città, Il Direttivo della Sezione di Modena
Modena si adegua alla controriforma urbanistica?
Legambiente è insorta e parla di “un’operazione che definire una porcheria è elegante”. Edoardo Salzano, l’urbanista che ha ispirato le migliori e più avanzate politiche territoriali nella nostra regione, “spera che la notizia sia smentita, perché è una notizia bruttissima”. Di che si tratta dunque? Nel quadro della delibera del consiglio comunale che approva il “piano triennale di dismissioni”, anche i campi di calcio esistenti di proprietà comunale sono messi sotto osservazione “per verificarne la migliore collocazione all’interno del territorio nell’ottica di realizzare possibili spostamenti che conducano a un miglioramento della dotazione sportiva della città”, perché, “una volta individuata la nuova collocazione, si potrà procedere alla modifica delle destinazioni delle aree occupate attualmente dai campi e alla vendita delle aree stesse in modo da finanziare l’operazione di spostamento dei campi”. E via intanto alle “verifiche di piano regolatore per la maggiore valorizzazione dei beni oggetto di alienazione”. Tutto qui. Un’operazione, allora, patrimonialmente e urbanisticamente a saldo attivo?
Crediamo francamente di no.
Le attrezzature sportive programmate e integrate entro i più recenti insediamenti anche residenziali della città costituiscono, così intenzionalmente collocate, non solo un essenziale servizio, ma anche un ineliminabile elemento di equilibrio, come spazi inedificati, nella composizione urbana. Non possono dunque in alcun modo considerarsi incompatibili con la residenza che ora le circonda (per usare l’espressione della delibera consiliare) e lì è insediata non certo casualmente ma per atto responsabile di pianificazione. Rimuovere (come una presenza spuria) i campi da calcio oggi in uso alle polisportive, confinandoli dunque all’estrema periferia, per recuperare alla edificazione gli spazi abbandonati, immessi nel mercato delle aree secondo la dichiarata logica privatistica della massima valorizzazione, è operazione urbanisticamente in vistosa perdita. Che coglie anzi il Comune in un singolare vizioso conflitto, giacché la nuova destinazione di quelle aree sarà decisa in conformità all’interesse del Comune-proprietario al più elevato realizzo e contro l’interesse del Comune-urbanista a contrastare il riempimento, con un denso edificato fuor di un disegno organico e con ovvi effetti di congestione, di vaste aree pubbliche dal piano regolatore volute libere e integrate in funzione di servizio nel circostante insediamento.
Italia Nostra invita quindi l’Amministrazione Comunale a riconsiderare il problema, rifiutando le soluzioni che appaiono espressione di quegli spiriti di controriforma urbanistica, che è agevole constatare ma è doveroso contrastare, negli anni recenti sempre più diffusi nel nostro paese.
Il direttivo della sezione modenese di Italia Nostra Grazie, modestia a parte. Per favore tenetemi informato. Una parte del mio cuore sta nell'urbanistica modenese. Conoscevo e stimavo Rubes Triva, e dall'urbanistica modenese, quando ero studente, ho imparato molto. Sono amico di Ezio Righi, urbanista comunale per molti anni, ed ero molto legato a Piercamillo Beccaria, che concluse la sua vita come sindaco di Modena; lo avevo conosciuto a Roma prima che decidesse di trasferirsi nella vostra città. Era lui che mi aveva illustrato il progetto di realizzare centri polisportivi con una forte caratterizzazione associativa e un forte ruolo democratico, basati sulla proprietà pubblica del suolo come garanzia di base. Mi dispiacerebbe molto se anche questo finisse con gli altri patrimoni comuni liquidati, divorati dal nostro tempo di lupi.
Buon lavoro.