La cultura, oppressa da trent'anni di televisione, di marketing e di carrierismo craxiani e berlusconiani torna a prendersi la scena nel modo più impensato: prima con l'occupazione del teatro Valle di Roma e la presa di parola della generazione TQ (i trenta-quarantenni); ora con la forza aggregante di Macao a Milano e, tra le due, e intorno a loro, un'altra decina di occupazioni di cinema, teatri, locali in varie città d'Italia: per "fare cultura". Cultura e arte sono scienza del possibile: potenze che scardinano l'appiattimento sulle necessità imposte dai "fatti compiuti". Il conformismo dei passati decenni era un coperchio su una pentola in lenta ebollizione: una volta sollevato, le spinte sociali sono destinate a esplodere; analogamente a come quattro decenni fa la delegittimazione dell'ordine costituito prodotto dal movimento degli studenti aveva spalancato le porte all'offensiva operaia e sociale degli anni '70.
Nelle assemblee di queste nuove aggregazioni si discute (a volte in modo ingenuo e disordinato: ed è un loro pregio) soprattutto di partecipazione, di democrazia diretta, di regole e garanzie per assicurare a tutti la possibilità e il diritto di esprimersi e di portare il proprio contributo alla crescita di tutti; in modo del tutto simile a quello che ha tenuto occupati per giorni gli acampados spagnoli o i partecipanti di Occupy Wall Street e delle mille repliche che hanno investito gran parte delle città statunitensi; ma anche in tante altre sedi, come le riunioni della per ora ancora piccola Alba. La novità maggiore di questa nuova stagione sta proprio qui: cultura e democrazia, nel senso di partecipazione, coincidono. Non c'è cultura se non ha come suo humus la valorizzazione del contributo di conoscenze, di esperienze, ma anche e soprattutto di vissuto, di sentimenti e passioni, di tutti coloro che vogliono concorrere a un risultato condiviso; e viceversa, la democrazia non è e non può essere un mero insieme di regole - che pure vanno fissate e aggiornate in corso d'opera - ma è un regime di condivisione di saperi, sia specialistici che pratici, "mettendoci la faccia"; e mettendo in gioco i propri corpi, come la modalità delle occupazioni mette in evidenza. È una nuova declinazione del rapporto tra arte e vita.
Dicono a Macao: «Si produce democrazia facendo arte e si fa arte con la democrazia». Mettendosi in ascolto da "esterno" (se non altro per motivi generazionali), cioè attraverso una lettura critica di quanto riportano i media e i social network, più qualche sporadica partecipazione alle assemblee di Macao, ma potendo contare su un background di occupazioni, di esperimenti di democrazia partecipativa e di riflessioni condivise, a me sembra che la vicenda di Macao possa insegnare a tutti alcune cose (senza ovviamente escluderne altre, che sicuramente mi sono sfuggite) che derivano direttamente dalle sue pratiche. Innanzitutto le donne e gli uomini («i ragazzi», come li chiamano i media) di Macao non sono alla ricerca solo di uno spazio in cui rinchiudersi per sviluppare insieme le loro attività (si considerano soprattutto, anche se non in modo esclusivo, "lavoratori dell'arte"). Vogliono «aprire alla cittadinanza» una serie di spazi che la proprietà, sia pubblica che privata, ha tenuto sequestrati per decenni, escludendola, senza alcun tornaconto né pubblico né privato se non quello di nasconderli per procede più liberamente nello scempio della città.
La scelta della torre Galfa è esemplare: un immane spazio per uffici tenuto vuoto dal principale speculatore edile (di Milano e non solo), mentre a pochi metri di distanza è cresciuta - seppellendo sotto il cemento uno dei quartieri storici più popolari e "vissuti" della città - una foresta di grattacieli altrettanto inutili. Tra cui la nuova residenza di Formigoni (con annessa piattaforma megagalattica di atterraggio per la discesa dal cielo del "Celeste"): una scandalosa duplicazione del Pirellone, la cui acquisizione aveva simbolizzato, già trent'anni fa, il passaggio della guida della città dalla borghesia industriale alla casta politica e speculativa; poi il "bosco verticale": un grattacielo alberato progettato dall'attuale assessore alla cultura, già estensore del Masterplan di Expo 2015 (la maggiore "palla al piede" della giunta Pisapia) e di quello del mancato G8 alla Maddalena; oppure il grattacielo Unicredit, che grazie a un vistoso pinnacolo ha vinto la gara di erezione ingaggiata con Formigoni: costruito da Ligresti con fondi Unicredit che glielo ha poi comprato nel tentativo di non farlo fallire, accollandosi l'ennesimo sperpero dei costruttori milanesi in bancarotta. E molte altre torri ancora.
Diversa ma analoga è la storia di Palazzo Citterio: comprato dallo Stato quarant'anni fa per dare respiro alle contigue Accademia e Pinacoteca di Brera, è rimasto vuoto fino all'ingresso di Macao; ma è riuscito a inghiottire decine di milioni (di euro) e di miliardi (di lire) senza farne niente, anche grazie alle cure dell'ex Ad di McDonald's Mario Resca, promosso direttore generale dei Beni culturali, e non senza l'assistenza della cricca Bertolaso, nella persona del sub commissario Mauro Di Giovampaola. Adesso gridano che l'occupazione sta bloccando la ristrutturazione della Grande Brera. Tanto "grande" da non poter più contenere gli studenti dell'accademia, che il progetto confina in una ex caserma fuori mano (rompendo la continuità tra museo e Accademia che è uno dei grandi atout di queste istituzione); per non turbare un quartiere diventato chic nel corso degli anni e per non "inquinare" il vero progetto, dato che l'annessione alla Pinacoteca di Palazzo Citterio, che forse comincerà solo tra un anno, servirà soprattutto per creare spazi per attività commerciali attraverso cui far transitare gli sfortunati visitatori (il famoso concorso pubblico-privato auspicato dal ministro Ornaghi per coprire finanziamenti che lo Stato promette ma non dà). Così Macao ha messo in grado i cittadini di Milano, e non solo loro, di venire a conoscenza di queste scelte e, se vogliono, di discuterne, contestarle e prendere posizione. Con queste premesse c'è solo da augurarsi che Macao cresca e le occupazioni si moltiplichino.
Per questo a chiedere lo sgombero immediato di Macao e la messa sotto accusa di chi tollera l'occupazione, per prevenire "vandalismi" su un palazzo del '700 sono soprattutto i rappresentanti del centrodestra cacciati dal governo della città (i veri vandali di Milano: quelli che l'hanno sfigurata); ma anche la componente più oltranzista del Pd e la burocrazia di Stato che ha in custodia l'edificio e che improvvisamente scopre nell'occupazione una congiura per bloccare lavori fermi da quarant'anni. Ma si riscontra con rammarico una generale ostilità, dai toni accesi e a volte inaccettabili, anche tra molti esponenti di quei comitati per Pisapia (ora trasformati in Comitati per Milano) che hanno portato alla vittoria l'attuale sindaco; perché vedono nell'occupazione una messa in discussione dell'operato della giunta, mentre Macao potrebbe dare una spinta verso forme più aperte di coinvolgimento della cittadinanza; soprattutto per superare l'immobilismo dell'assessorato alla Cultura. In secondo luogo Macao non cerca solo luoghi per il proprio lavoro (di qui gli equivoci sul rifiuto di accettare uno spazio nelle ex Officine Ansaldo, offerto dalla Giunta per «calmare le acque»), ma una vera politica culturale - ora del tutto assente - all'interno della quale si aprano spazi e opportunità per il "saper fare" di migliaia di giovani acculturati, creativi, altamente "informatizzati" e "connessi", oggi condannati alla disoccupazione, al precariato, al lavoro sottopagato negli studi di professionisti che li sfruttano senza dar loro, né essere in grado di dar loro, niente; anche perché nella maggior parte dei casi i loro saperi sono irreversibilmente inquadrati nell'orizzonte speculativo e omertoso dei rapporti di potere vigenti.
Eppure le opportunità per questo esercito di creativi alla ricerca di un percorso da condividere non mancherebbero: basta pensare che le quattro più quotate scuole di design della città (che in qualche modo vuol dire anche d'Europa) erano pronte a entrare nella torre Galfa, se non fosse stata sgomberata, per tenervi dei seminari: e non (solo) per un atto di benevolenza, ma perché sanno che è in processi come Macao che si sviluppa la potenza della creatività diffusa. In terzo luogo gli occupanti di Macao sono effettivamente, in grandissima maggioranza, giovani e molto giovani. E sono stati attratti in migliaia, come da una calamita, a sostenere l'occupazione sotto la torre Galfa e a Palazzo Citterio: questo dovrebbe far riflettere partiti, associazioni e organismi politici, spesso prevalentemente frequentati (compresa Alba) da persone mature o decisamente anziane (come il sottoscritto). Ma il mondo di domani si costruisce in eventi come questo o non si produce affatto (e si sottomette così ai diktat della gerontocrazia finanziaria che governa il mondo: certamente coadiuvata da un esercito di giovani rampanti, da cui non c'è però da attendersi niente di buono).
Porsi in ascolto di processi come questo è indispensabile se si vuole ricostruire un ponte tra generazioni che il trentennio craxiano e berlusconiano ha reso reciprocamente estranee, mettendo alle strette chi lavora a deprimere (e reprimere) una intera generazione, denigrandola come priva di idee, di cultura e di desiderio; e trattandola come prigioniera di pulsioni al godimento senza regole né limiti prospettato dal consumismo. Quella prigione esiste davvero; l'hanno costruita le generazioni precedenti (compresa, in parte, la mia) e vi hanno rinchiuso dentro quelle successive, facendo di quella prigionia un alibi per la propria passività e - spesso - il proprio asservimento. Ma vicende come quella del teatro Valle e di Macao dimostrano che tra le nuove generazioni il desiderio di liberarsi da questa gabbia c'è, eccome; e che è culturalmente più agguerrito di quello che molti pensano.
L'ultimo Rapporto sulla situazione sociale del Paeseproposto dal Censis ha affrontato (con severità e con precisione) una descrizione della società italiana del 2011 divisa per vari settori: dai processi formativi al welfare, dal lavoro ai soggetti economici dello sviluppo, affrontando anche la questione dei mezzi e dei processi (comunicazioni, governo pubblico, sicurezza, cittadinanza).
È su tutta l'introduzione che sarebbe importante meditare. Introduzione che si conclude affermando che «è illusorio pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. Seguendone le indicazioni, si possono fare molteplici decreti di stabilità e austerità, ma neppure un tentativo di progetto». Questioni di cui tutti i mezzi di comunicazione discutono animatamente e sovente in modo drammatico.
Qui, però, io vorrei occuparmi, favorito dal particolare interesse che il direttore del Censis, Giuseppe Roma, ha sull'argomento, del particolare problema affrontato nel capitolo «Territori e reti», dedicato nella sua parte centrale alla questione del disegno urbano e della crisi dello spazio pubblico. Due argomenti che sono nel rapporto concretamente affrontati, non solo come significativi di una condizione di difficoltà nelle relazioni tra soggetto e struttura delle società, ma come campo di lavoro (certo tra i molti) di costruzione di un riscatto da quella stessa condizione di disperata difficoltà.
Ma di chi sono le responsabilità di quello stato di crisi? Per quanto riguarda almeno le difficoltà e le modificazioni positive possibili del fatto urbano si tratta di discutere anzitutto delle opinioni delle categorie professionali pubbliche e private a cui è assegnato il compito di proporre e regolare nell'interesse collettivo (si spera) il disegno degli insediamenti. Quindi alla capacità della loro cultura specifica di produrre opere di qualità durevoli, capaci di offrire proposte eque e positive proprio alle relazioni tra soggetto e struttura della società (e qui risparmio di elencare le difficoltà e le possibilità del loro stato attuale di mutazione rapida e globale).
Ma secondo me, come secondo il Censis, un progetto di architettura deve essere comunque cosciente del fatto che lo spazio tra le cose e il «progetto di suolo» è altrettanto importante delle cose stesse. Si tratta di un progetto capace di porsi in relazione con un contesto storico fisico di uso sociale; un progetto capace di misurarsi con regole comuni e comprensibili, le sole che possono dar valore anche alle eccezioni. Non si può dimenticare che l'ideologia architettonica dominante sul piano del successo mediatico di questi ultimi trent'anni ha proposto invece, nei fatti e nelle intenzioni, una cultura opposta a tutto questo. Una cultura dell'eccezione competitiva, della provvisorietà, della promozione della privatizzazione dello spazio pubblico, della bizzarria senza necessità, e riferita solo agli interessi dei gruppi di poteri sociali transitori, contro ogni memoria collettiva del fatto urbano, contro l'idea stessa di luogo, di antropogeografia, per un'idea di flusso che, in qualche modo, sostituisce il terreno di fondazione delle cose.
Ma non meno responsabili sono stati gli enti pubblici che dovrebbero, al contrario, riprendere coscienza della necessità del disegno urbano per guidare le trasformazioni della città; una tradizione di qualche migliaio di anni, a cominciare dagli esempi prodotti dalla cultura della modernità (come quelli della Lione di Tony Garnier o dell'Amsterdam di Berlage e della sua scuola, soltanto per citare due casi). Certamente ridurre la contraddizione tra piano e progetto richiede anche una profonda revisione culturale della nozione di piano, ma anche una coscienza della relazione esistente tra insediamenti e antropogeografia del territorio con la propria storia. Una storia intesa come possibilità per l'architettura o come una minore ossessione sviluppista a favore di un nuovo equilibrio.
Mi rendo comunque conto della difficoltà non tanto operativa quanto culturale di queste raccomandazioni, che peraltro coincidono in molti punti con quelle contenute nello stesso rapporto Censis. E che anch'io mi rappresento come assai lontane dall'attuale moda architettonica postmodernista per una rappresentazione, senza costituzione di distanza critica, della cultura del capitalismo finanziario globalizzato. Una moda così lontana da ogni tentativo di progetto di equità, come segnala la stessa introduzione del rapporto del Censis.
Diverse studiose e sociologhe hanno formulato una proposta di un "Pink New Deal" che mostra come l´investimento in servizi e infrastrutture sociali potrebbe diventare un volano per tutta l´economia
Che cosa c´è da festeggiare? I femminicidi continuano ad insanguinare le zone più oscure dei rapporti tra gli uomini e le donne. Le giovani donne continuano a fare più fatica dei loro coetanei a stare nel mercato del lavoro in un contesto che è peggiorato anche per questi ultimi. Le lavoratrici con responsabilità familiari lavorano il doppio dei loro compagni, ma guadagnano di meno. La crisi economica di questi anni e le manovre finanziarie dell´ultimo anno gravano in modo sproporzionato sulle donne, come lavoratrici e come principali responsabili del lavoro familiare. Le donne sono viste innalzare di colpo di qualche anno l´età alla pensione, senza che sia aumentata la loro sicurezza sul mercato del lavoro, al contrario. Contemporaneamente si sono viste ridurre fortemente i servizi di cura (per i bambini, le persone non autosufficienti) ed aumentarne il costo. La tenuta di molti bilanci familiari erosi dalla riduzione della occupazione si basa sulla loro capacità e disponibilità ad intensificare il lavoro domestico. Nonostante la presenza di, poche, "tecniche" nel governo l´asimmetria di genere dei costi della crisi sembra accentuata dalle scelte governative. Non va meglio a livello di Unione Europea, al contrario. Con la sua ossessione per il pareggio di bilancio, la UE sembra aver perso il ruolo di importante sostenitore alle richieste di parità e di politiche, anche sociali, necessarie a questo scopo.
Nulla da festeggiare o celebrare, quindi. Piuttosto un ritorno alle origini del senso della giornata dell´8 marzo ed insieme una occasione per ridefinirla. Una giornata non solo di protesta e di bilanci, ma di discussione di una possibile agenda politica ed economica che, prendendo atto della situazione attuale e dei suoi vincoli, proponga alternative realistiche. Ad esempio, diverse economiste e sociologhe hanno formulato una proposta di "pink new deal", che mostra come l´investimento in servizi e infrastrutture sociali (ma io aggiungo anche in ambiente) non aiuterebbe solo le donne, ma potrebbe costituire un volano per l´economia più importante, e più tempestivo rispetto alla necessità di creare occupazione, delle grandi opere. Come la stragrande maggioranza degli economisti a livello internazionale (anche se non quelli che siedono al governo italiano e che dettano le decisioni nella Unione Europea), queste "tecniche" segnalano soprattutto come un eccesso di misure di austerità non solo metta fine alla solidarietà che è stata alla base della costruzione dell´Unione Europea. Può anche uccidere sul nascere ogni possibilità di ripresa – come sta avvenendo per la Grecia.
Un 8 marzo, quindi, per (ri-)cominciare a discutere in pubblico e per proporsi come soggetto pubblico di cui tenere conto. Per rafforzare e continuare la costruzione di un soggetto pubblico femminile. Un soggetto che non abbia la pretesa di rappresentare tutte le donne e di parlare a nome di tutte le donne, ma che si assuma la responsabilità di articolare proposte a partire da una prospettiva che tenga conto in modo esplicito dell´esperienza, variegata, delle donne e dell´impatto sulla loro vita delle decisioni che si prendono. Che si prenda la responsabilità di proporsi come interlocutore nella scena pubblica e nella definizione della agenda pubblica: cercando il dialogo, ma senza temere il conflitto e di disturbare il manovratore.
Un 8 marzo non per festeggiare le donne o parlare di loro, ma per impegnarsi perché le loro proposte entrino nell´agenda pubblica. Perché è urgente disturbare il manovratore prima che il treno deragli.
Riemergono proposte e rivendicazioni antiche, cancellate dalla corsa alla “modernità” e alla “sostenibilità economica”, dalla sudditanza della politica al mercato, e dalla scarsa consapevolezza delle conquiste raggiunte. Del ruolo delle donne nella costruzione della “città del welfare” in Italia ci siamo occupati più volte su questo sito. Si vedano i testi della visita guidata la donna in eddyburg
A contare davvero saranno il talento e la competenza di chi ci lavora. Così si sfida Amazon - La catena Waterstones trasformerà i negozi in punti vendita differenziati, a misura dei lettori che li frequentano, dai bambini agli studenti universitari - La presenza della caffetteria avrà senso se nel quartiere non ce n´è un´altra
In tempi di fatturati sempre più magri e con lo spettro del mercato digitale alla porta, i librai si interrogano sul loro futuro. Lo fa in Italia il libraio indipendente Piero, nella defilata Acqui Terme, ma anche il colosso del Regno Unito Waterstones, che dopo aver aperto e trasformato le sue trecento librerie in supermercati della carta stampata, ha annunciato una clamorosa retro marcia.
Il suo nuovo manager, James Daunt, classe 1963, un riservato e tranquillo esponente della borghesia upper class londinese, intende suddividere la catena di librerie in una quarantina di gruppi più piccoli, diversificati e molto più specializzati. Il che non significa necessariamente abbandonare il modello dei grandi store dall´assortimento prodigioso, i libri di vendita facile o i commessi interscambiabili, ma sicuramente ripensare alla libreria come a un luogo socialmente particolare. «Le singole librerie sono più importanti di Waterstones», dichiara Mr. Daunt, specificando che non esiste un unico modello di catena che necessariamente funzioni.
Perché il vero motivo, oggi, per entrare in una libreria è che si tratta di una buona libreria. La ricetta di Daunt poggia su una rete di manager commerciali responsabili di non più di dieci negozi, che dovranno differenziare e rendere unici i loro punti vendita, in controtendenza, quindi, con le logiche del franchising. Ogni libreria potrà essere diversa: la presenza di una caffetteria avrà senso se nel quartiere dove sorge la libreria non c´è un´altra buona caffetteria, altrimenti non è obbligatoriamente necessaria.
Ci sarà una Waterstones specializzata in libri per bambini (e con scaffali bassi) in quel quartiere residenziale particolarmente popolato di giovani lettori, e una fornitissima di saggistica accanto al Campus universitario. Dare i giusti libri ai giusti lettori, insomma. Una ricetta "mirata" molto diversa da quella che propone il colosso americano Barnes & Nobles, intenzionato, invece, a continuare con il suo modello "generalista", con un fortissimo incremento, però, del reparto tecnologico. L´idea è quella di proporre l´e-book (vedremo come) sullo stesso piano del cartaceo. Con un rischio: quello di mettere il libro, se si allarga l´hi-tech a tutto, nello stesso calderone degli altri strumenti di cannibalismo del tempo libero.
E tra B&N e Waterstones, due modelli opposti, è in corso di definizione un accordo per la diffusione nel Regno Unito del Nook, il lettore e-book anti-Kindle che ha ottenuto un buon successo nel (solo) mercato Usa, e questo perché, dice Daunt, «è evidente che anche noi dovremo vendere libri digitali, dal momento che i nostri clienti li vogliono leggere. D´altra parte lo schermo del computer non è un bel posto dove acquistare libri: è più bello toccarli, sentirli, in un luogo fisico». Ma non basterà esporre Nook a salvare le librerie, così come non lo saranno eventuali aiuti governativi. «Forse in Francia, ma non nel Regno Unito». L´idea del manager di Waterstones è coerente con la reale sfida del momento: nell´epoca della conoscenza e dell´informazione, a fare davvero la differenza sono il talento e le competenze di chi lavora. E di chi sa offrire un sistema coerente di valori fondamentali.
Nonostante tutti gli algoritmi, infatti, i sistemi di suggerimento automatico del "diavolo" Amazon non potranno mai sostituire l´attenzione e la cura di un bravo libraio (come dice Daunt "editori, librai e agenti sono legati: o sopravvivono insieme o resterà un unico ente, Amazon, che rimpiazzerà tutti. Per questo la battaglia è comune"). Ed è proprio nel rapporto umano tra il libraio (e suoi commessi) e il cliente, all´interno di un negozio con una particolare atmosfera, che si gioca tutto. La catena di Borders (fallita) aveva fatto delle librerie dei luoghi dove leggere, bere e mangiare, ma le interazioni personali e le occasioni di arricchimento di un caffè e di un negozio di libri sono completamente diverse. Che cosa cerca infatti il compratore di libri? Stupore e comprensione. Da quando lo conosco, il libraio Piero ordina i quantitativi di libri scegliendoli a uno a uno dai vari cataloghi, e si difende dal marketing imposto dalle case editrici non perché sia particolarmente scontroso o reazionario, ma perché sa prevedere che cosa e a chi venderà.
I Di Giulio di Matera, ad esempio, puntano sulla localistica e sugli autori che possono generare interesse solo in un ristretto numero di chilometri, e questa è un´altra delle strategie annunciate dal management di Waterstones: non tutti i lettori, infatti, si interessano a tutto. Claudio, a Verona, preferisce organizzare le Libriadi con le insegnanti della zona, che saranno più facilmente suoi clienti per lungo tempo, piuttosto che invitare l´autore del momento.
Essere una buona libreria non è però necessariamente una caratteristica degli indipendenti: Daunt stesso dice di ispirarsi al modello di catena vecchio stile, riconoscendo anche in loro una filosofia di incontro culturale con i loro clienti. Occorre diventare sfidanti sulla percezione del luogo, sulla competenza, sulla capacità di scoperta e di suggerimento.
Il buon libraio non ama necessariamente i libri. Ama chi li legge. Roberto Calasso, in una lettera in calce a un saggio per librai (Vendere l´Anima, Laterza), scrisse che «la buona libreria è quella dove ogni volta si compra almeno un libro. E molto spesso non quello o non solo quello che si intendeva comprare quando si è entrati».
I tempi non sono facili: a Bologna rischia la chiusura la vecchia Zanichelli, a Roma dopo la storica Croce e Bibli sta per dare l´addio (lo annuncia il sito Finzioni) Amore e Psiche. Ogni giorno ha la sua pena. Eppure c´è chi, come Daunt, propone dei modelli per resistere. I buoni lettori hanno con le loro librerie un legame simile a quello che si ha con il proprio barbiere: un investimento di confidenza che non si vuole perdere. Che sia la Libreria Central di Barcellona, dove sono presenti le versioni in varie lingue degli stessi romanzi, o la Hatchard´s di Londra, poco importa. Quest´ultima è un gioiellino architettonico specializzato in libri per ragazzi autografati: ogni volta che esce qualcosa di nuovo cerco di passare davanti alla loro vetrina per vedere se ne avessero già una copia firmata. Ecco: c´è scritto che sono librai dal 1797. E poi ho scoperto che è una libreria Waterstones.
Il 23 febbraio del 2002, a Milano, la prima Critical Mass cominciò a pedalare controcorrente facendo della bicicletta il mezzo più efficace per pensare un’altra idea di città. Parla Giovanni Pesce, fomentatore della prima ora
Dieci anni fa, a Milano, un gruppo di pazzi senza meta cominciò a pedalare di sera stravolgendo il ritmo di una città che è cambiata (in meglio) anche grazie all’uso della bicicletta che è ben altro dall’essere «solo» il mezzo per muoversi più moderno e intelligente del mondo. Se qualcuno pensa che Critical Mass sia stata solo un’allegra apoteosi di ruote, telai e manubri per fancazzisti a spasso si sbaglia di grosso. Ne parliamo con Giovanni Pesce, un fomentatore degli albori che questa sera, con un po’ di nostalgia, inforcherà il suo mezzo per il solito appuntamento in piazza Mercanti (ore 22,30). Portate le candeline.
La bici è un’arte e i primi agitatori della Critical Mass l’avevano già capito dieci anni fa. Da allora come si è modificato l’immaginario della bicicletta?
Ciclismo e Artivismo improvvisamente erano diventati la stessa cosa. Critical Mass fin da subito si nutriva di immagini e arte. Flyer, poster, musica, poesia, illustrazioni, performance. Ricordo che a una delle prime CM milanesi si è presentato con la sua bici anche Berry McGee, uno dei padri della street art di San Francisco, adesso è diventato una star. Tra gli Artivisti di CM di tutto il mondo era costante un fitto interscambio di immagini per poster e di altri manufatti artistici che disegnavano una nuova estetica della bici. A Milano, e in seguito anche nelle altre città italiane, nascevano mostre, contest di poesia, rave, video installazioni, l’obiettivo era creare un nuovo immaginario e direi che la missione è perfettamente riuscita. I nuovi ciclisti hanno creato una nuova idea di bicicletta e di società che ha lasciato il segno, contagiando viralmente artisti, illustratori, grafici, designer, il tutto poi si è riversato nella moda, su youtube, nella pubblicità, direi che è stato un tassello molto importante per la creazione di un nuovo stile di vita. Non è un dramma se la bicicletta è di moda, anzi.
La prima sgambatella velorivoluzionaria è stata organizzata in inverno. Geniale questa cosa dell’epica invernale, la bicicletta per domare la città inospitale, non solo per rilassarsi con una scampagnata primaverile in compagnia dei bambini.
Era il 23 febbraio 2002. Dieci anni fa. Uno dei messaggi era che è bello vivere tutte le stagioni senza avere paura, prendendosi anche il vento gelato in faccia, fitness e rivoluzione, urban wilderness dicevamo per scimmiottare gli americani. L’idea era: perché fare gli sportivi solo in palestra o alla settimana bianca e non mentre si va a scuola o a lavorare? Milano è una città nordica che ha perso la propria identità locale fagocitata dal piattume climatizzato del tubo catodico, godiamocela lo stesso, saltando sulla bici anche al freddo e al gelo.
I ciclisti più fichi adesso le biciclette se le costruiscono da soli. Autoriparazione come filosofia scaccia crisi e meccanica ridotta all’osso per puntare all’essenziale, un’altra intuizione geniale questa.
La cultura D.I.Y. (do it yourself, fai da te) ha cambiato radicalmente l’uso e l’immaginario delle biciclette soprattutto nelle aree urbane. Gli esemplari autocostruiti sono bellissimi, la bicicletta è un esemplare unico, da collezione, un oggetto artistico ma alla portata di tutti, ognuno può farsi o ripararsi la sua in una ciclofficina pubblica. Non è un caso se la cultura del fai da te e dell’autocostruzione adesso è in piena esplosione anche commerciale.
Non mi sembra che CM abbia mai avuto a che fare con la politica ufficiale, insomma il vostro cavallo di battaglia non erano le piste ciclabili.
Direi di no. Invece di chiedere le cose direttamente al sindaco – e che sindaco avevamo... Critical Mass si rivolgeva direttamente agli altri cittadini praticando una sorta di lobbying orizzontale. Non era una manifestazione rivendicativa, ero «solo» un gruppo di persone che usciva alla sera per bersi un bicchiere di birra o di vino, sempre in bicicletta e sempre partendo dallo stesso punto, proprio per darsi un appuntamento fisso senza tanti sbattimenti, se ci sei vai ti aggreghi e ti diverti... Sembra una cosa solo giocosa ma non lo è, perché così facendo i ciclisti agivano, e agiscono, sui modelli di consumo: un gesto individuale come quello di prendere la bicicletta e uscire, reso visibile e importante facendo «massa critica», è un gesto molto politico, è servito anche, o meglio dovrebbe servire, ad abbattere un tabù. Anche a sinistra.
Cioè?
Il tabù della supremazia «metalmeccanica». Critical Mass ha aperto un doloroso ma necessario dibattito anche a sinistra, laddove l’automobile è ancora considerata un feticcio, come se questi ultimi decenni di (im)mobilità insostenibile non avessero ancora insegnato niente. Il movimento – mai come in questo caso la definizione è perfetta – ha inaugurato un nuovo repertorio di argomentazioni, che sposta l’accento sulla nostra condizione esistenziale di schiavitù dell’automobile. Lo definirei ambientalismo estetico esistenziale: parla di esistenze recluse (ore e ore per rientare dal lavoro), interi popoli (il nostro soprattutto) che vivono incapsulati in ridicoli salottini semovibili, alienati dal territorio, bambini privati della propria libertà di deambulazione. In fondo lo smog è solo uno dei problemi, forse il minore. La civiltà dell’auto è un modello esistenziale, industriale, antropologico. CM ha cercato di alzare il livello del discorso, altrimenti sempre appiattito solo sulla questione sanitaria, lo smog appunto.
Lo spontaneismo puro del movimento su due ruote non è anche il suo limite?
C’è una profonda differenza rispetto ai tanti movimenti strutturati in comitati, esecutivi, assemblee. CM è una coincidenza organizzata, non una manifestazione tradizionale. La testa della CM non esisteva, decideva chi era presente in quel momento. Lo spontaneismo di strada aveva i pro e i contro, ogni tanto si scivolava nella provocazione pura e semplice, c’era sempre un piccolo atto di prepotenza, ma mai niente di importante, occupare la stada era un po’ come giocare a Davide contro Golia, con uno spirito giocoso, almeno una volta alla settimana.
Questi ultimi dieci anni valgono un secolo, il mondo è cambiato. Credi davvero che CM abbia lasciato il segno?
Sì, la «massa critica», almeno quella su due ruote, ha mostrato il volto epico e poetico della bici, ha ridato dignità ai ciclisti urbani uscendo dal territorio delle rivendicazioni politiche classiche (niente petizioni, presìdi sotto il municipio, lettere al sindaco...). E questo atteggiamento, paradossalmente, le ha dato ancora più peso politico. Come è successo negli anni Sessanta per i Provos di Amsterdam. Sono loro, gli artivisti olandesi che hanno creato le condizioni di consenso per inventare la Amsterdam moderna che ancora oggi è un punto di riferimento per tutte le città che si vogliono europee. A Milano, per esempio, la bici cresce del 20% ogni anno, e questo successo lo si deve anche a Critical Mass.
Titolo originale: The whole economics of the Olympics project have failed absolutely - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Si potrebbero scrivere parecchi libri sull’andazzo delle Olimpiadi. C’è una quantità sterminata di cose da dire a proposito del Comitato Olimpico Internazionale e di come funziona. E anche parecchio più in generale sull’evento su cui varrebbe la pena di approfondire davvero. Io mi sono occupata delle trasformazioni urbane. Non avevo alcun motivo particolare per occuparmi dell’evento sportivo, ma la cosa ha iniziato a interessarmi quando ho capito che era l’occasione di cambiare radicalmente una enorme porzione della città. Un’altra enorme fetta di tessuto urbano, e ancora col medesimo metodo del privato [come altre, i Docklands ad esempio, di cui ho parlato nel mio libro Ground Control].
Secondo i politici britannici quella era una enorme potenziale riqualificazione urbana. Ma quando si parla di riqualificazione in questo paese si intende in realtà trasformare e segregare enormi zone della città. Si è cominciato coi Docklands e pare adesso siamo arrivati a Stratford City. Non credo che si siano spiegate con sufficiente chiarezza le questioni [che stanno dietro privatizzazione e riqualificazione]. Non è un ambito dove si gioca alla pari. Nessuno ha mai detto che ci saranno perdite in termini di superfici pubbliche, certo si ottiene un parco, ma si tratta di un parco totalmente privato. Non è uno spazio democratico. Cose di cui non si discute mai chiaramente.
L’associazione London Citizens chiede più informazioni su questa carenza democratica [ad esempio non si sa a chi è demandata la gestione del quartiere olimpico dopo i giochi]. E le cosiddette consultazioni pubbliche, che assomigliano molto di più a una mostra itinerante dei progetti, di fatto non sono per nulla occasioni di discussione sul piano. Risulta davvero difficile arrivare al punto. Bisogna capire tante cose, andare oltre le espressioni gergali di certi pianificatori. Il modo in cui queste cose sono decise e proposte sul mercato fa sì che non si capisca mai bene cosa sta accadendo. Succede sempre, ovunque, quando si tratta di riqualificazione urbana.
L’aspetto più scioccante [se guardiamo alla circoscrizione amministrativa che ospita le Olimpiadi, Newham] è quello della casa. Mi sono interessata di Newham proprio perché volevo verificare quelle promesse di case economiche, a fronte della realtà in un contesto di generali tagli al settore. Ho girato per Newham restando totalmente sconvolta dalla situazione abitativa. Che resta del tutto invisibile. Si guarda una casa dal di fuori e tutto pare a posto. Niente fa capire che in realtà lì dentro ci sono 20-30 uomini che dormono in due in letti a castello, in condizioni orribili, con umido e muffa sulle pareti. All’associazione Shelter mi hanno addirittura raccontato che uno dei loro assistiti dormiva in un frigorifero industriale, e tutto resta completamente invisibile. Non appare evidente, come fosse un ghetto, una baraccopoli, niente di tutto questo. Sta nascosto dietro a quanto ci appare come un edificio normalissimo. Ecco qual è la situazione: condizioni in tutto e per tutto da terzo mondo.
Ma tutta la vicenda delle Olimpiadi è piena di aspetti scioccanti. Mi ha colpito il documento di impegno etico [siglato prima dei giochi ma non riconosciuto poi dalla Olympic Delivery Authority sulla base della sua istituzione solo successiva alla firma] del tutto ignorato per quelli che davvero paiono stupidi cavilli legali. Dov’è finito lo spirito olimpico?. Sparito l’atteggiamento dei grandi eventi nazionali del passato. Il motivo – non si tratta proprio di qualcosa di nebuloso – sta nelle leggi. Abbiamo perso del tutto l’idea del bene pubblico da quando nel 2004 essa è stata in silenzio sostituita dalla [necessità] economia. Una cosa già successa negli Usa, e che lì ha provocato una enorme reazione nazionale, titoli di prima pagina. Qui niente. Neppure nel dibattito sul localismo è riemerso il concetto di bene pubblico.
Ed è decollato il turbocapitalismo. Se al centro ci fosse stato il bene pubblico l’ente di gestione del dopo-Olmpiadi non avrebbe potuto dire che l’offerta del Wellcome Trust [1,2 miliardi di euro per trasformare il parco olimpico in un polo scientifico e tecnologico] non era vantaggiosa. Si tratta evidentemente di un riuso molto più nell’interesse collettivo della proposta invece scelta [il parco ceduto a pezzi, un po’ alla famiglia reale del Qatar, altre parti a costruttori privati]. Il meccanismo economico complessivo del progetto olimpico non ha funzionato per nulla, e quando arriva quell’offerta di 1,2 miliardi di euro loro rispondono: “Ma noi possiamo guadagnarci molto di più”. Proprio l’idea di ritornare in possesso di quello spazio, di fronte alla prospettiva di vendere al miglior offerente a pezzi il parco olimpico, è quello che distingue la prospettiva, il tipo di mentalità che ha fatto respingere l’offerta Wellcome Trust. Verifico spesso come il pubblico concordi con me [sui pericoli di un controllo privato dello spazio pubblico], ma è difficile capire tutte le conseguenze impreviste di una serie di scelte che hanno costruito questo contesto, se non si indaga davvero a fondo. Ed è soprattutto necessario discutere, dibattere il più possibile. Il vero problema è che chi comanda non considera affatto questi aspetti.
Chiusi rispetto all’esterno [recinti, o telecamere a circuito chiuso] si finisce per indebolire le interazioni dirette. E uno spazio si fa meno sicuro, sono necessarie altre misure del genere, e aumentano ancora paura e sospetto. Le cosiddette soluzioni messe in campo negli ultimi dieci anni sono diventate il vero problema. Ci fidiamo così poco dei rapporti umani che abbiamo tentato di risolverli con tecnologie in grado di dirci cosa fare, come comportarci. L’interazione umana al massimo sono azioni punitive. Avevamo una serie di figure rappresentanti glia spetti benevoli dell’autorità, dai conducenti di autobus ai guardaparco. Dotate di autorità anche se non potevano dar multe, né indossavano uniformi autoritarie. Nel nome dell’efficienza li abbiamo eliminati, sostituendoli con una falange di guardie private. Costruendo un modo assai diverso.
(naturalmente, per chi non l’avesse già fatto, l’invito è a leggere anche gli altri contributi di Anna Minton su eddyburg.it e mall.lampnet.org)
Titolo originale: The London Olympics: a festival of private Britain - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
I responsabili dell’organizzazione di Londra 2012 ribadiscono spesso quanto i giochi olimpici di quest’estate siano in grado di lasciare un’eredità del nostro tempo tale da rivaleggiare con quella della Grande Esposizione nel 1851 o del Festival della Gran Bretagna cento anni più tardi. La Grande Esposizione ci ha lasciato musei come il Victoria and Albert, quello di Storia Naturale o della Scienza. Il Festival del 1951 ci ha lasciato il Royal Festival Hall, uno dei più begli edifici pubblici del paese. Eventi straordinari del genere sono un’occasione per verificare lo spirito del tempo, valutare la condizione della società e della democrazia. Come mostrano le recenti crisi, gli scandali, c’è qualcosa che non va nel nostro sistema politico, e nulla lo conferma con più evidenza dei giochi olimpici. Nel 2009 nel mio Ground Control ho descritto le conseguenze della crescente privatizzazione delle città, modello degli anni di crescita economica a base immobiliare e debitoria (si vedano i vari contributi della Minton anche su queste pagine n.d.t.). Un meccanismo iniziato col progetto dei Docklands negli anni ’80, e che col progetto delle Olimpiadi ha raggiunto l’apogeo.
La logica economica sottesa, è che tutte le risorse necessarie sarebbero state raccolte dal privato. Ma con la crisi finanziaria non si è più stati in grado di ottenere prestiti, e così ci ha dovuto pensare il governo ai Giochi, aumentando il contributo pubblico di oltre sette miliardi di euro: il triplo dell’originale. Secondo i calcoli della commissione della Camera dei Comuni, il contributo dei privati alla fine è stato inferiore al 2%. Ma nonostante questo intervento pubblico, Londra 2012 non lascerà in eredità nessun segno di spirito pubblico paragonabile a quelli del 1851 e 1951. Al contrario le trasformazioni saranno totalmente private, e rivendute pezzo a pezzo al miglior offerente. Il Queen Elizabeth Olympic Park – si tratta del primo nuovo parco in Gran Bretagna da oltre 150 anni – non sarà gestito dalla pubblica Royal Parks Agency, ma dai privati; e tutti gli spazi al suo interno, dal villaggio olimpico ai vari impianti, saranno pure privati. Almeno questa sarebbe l’intenzione, anche se la disfatta nella cessione dello stadio pare dimostri la fragilità di questo tipo di accordi.
Poi, l’offerta da un miliardo e duecento milioni di euro del Wellcome Trust, per acquisire Parco e villaggio olimpico, e realizzare una “Silicon Valley Europea” – più due università, museo, case economiche, 7.000 posti di lavoro – è stata respinta dall’Olympic Park Legacy Company. Perché non dava garanzie al contribuente. Adesso il villaggio è stato ceduto a un consorzio guidato dalla famiglia reale del Qatar. Poi c’è l’aspetto, spesso tirato in causa, delle case. Nel progetto di massima del parco olimpico si promettono 11.000 nuovi alloggi. Alla fine non si sa quanti esattamente ne verranno realizzati, l’unica cosa certa è che col villaggio olimpico nel 2013 ne sono garantiti 3.000, metà dei quali di tipo economico. E la definizione di cosa sia una casa economica è tutt’altro che chiara e univoca. Praticamente impossibile da fissare una volta per tutte da quando lo stato non costruisce più le case popolari, e social housing sta solo a significare con sostegno pubblico. Con gli interventi del governo di coalizione gli enti per le case economiche possono arrivare sino all’80% dei prezzi di mercato anche per il social housing, ovvero lo mettono fuori portata per gran parte degli abitanti dell’area olimpica, dove ci sono alcuni dei quartieri più poveri del paese.
Poi c’è la questione del sostegno locale al progetto, che è sempre stata essenziale in tutte le Olimpiadi. Nel 2004, Lord Coe, presidente del Comitato, l’allora sindaco di Londra Ken Livingstone, e John Biggs, vicepresidente della London Development Agency, firmarono un “Impegno Etico Olimpico” con le amministrazioni locali, dove si davano garanzie in termini di posti di lavoro, formazione, casa, e la promessa che almeno il 30% dell’occupazione creata coi cantieri sarebbe stato destinato agli abitanti. Dopo l’assegnazione a Londra nel 2005, l’Olympic Delivery Authority ha rifiutato di onorare l’impegno, con la scusa di essere stata istituita solo dopo la firma del patto. E così la vera eredità olimpica finisce per essere un lungo rosario di accordi saltati e promesse non mantenute da parte di un intrico di enti e imprese. La forte componente di spirito pubblico si sarebbe potuta mantenere solo se l’idea di “bene collettivo” avesse ancora qualche senso nel dibattito politico odierno. Invece tutto è silenziosamente scomparso dagli accordi nel 2004, specchio dell’invasione da parte del mercato del concetto di bene pubblico, del tutto escluso dalla politica. Se gli eventi simbolo rispecchiano le condizioni della società e della democrazia, queste Olimpiadi non sono né sono mai state, in grado di replicare lo spirito pubblico del 1851 o del 1951.
Due mesi fa sono andato a Zurigo per lavoro. Dopo cena decido di fare quattro passi incuriosito da una città che conosco così poco ma di cui, tra architetti, si parla molto. Camminando intuisco quello che potresti aspettarti da una metropoli calvinista, in una serata, a metà settimana, alle dieci di sera, di novembre: un silenzio pressoché assoluto, poche persone che si muovono rapide camminando a testa bassa, le luci calde che traspaiono da dietro le tende delle case intorno a me.
Finché, avvicinandomi a una grande chiesa mi accorgo che l’abside e il suo fianco sono impacchettati da decine di tende, accrocchi di plastica e teloni colorati che si compongono a formare uno strano, fragile, villaggio che prosegue sino alla facciata dove si allargano per ospitare una grande tenda aperta in cui stazionano alcune persone infreddolite. Un riverbero bluastro m’incuriosisce e vedo che all’interno si proietta su un grande schermo Il grande dittatore, ci sono delle sedie, persone che assistono in silenzio, altre, pochi metri distanti, che si raccolgono intorno a un banco che vende prodotti bio e libri.
Mi accorgo di essere appena entrato nel centro degli indignados di Zurigo, a pochi passi dagli uffici della Borsa locale. E tante immagini, video, blog incontrati durante l’anno, prendono improvvisamente una forma fisica chiara, riconoscibile. Una delle cose che più mi ha impressionato durante il 2011 e che, credo, continuerà a produrre conseguenze interessanti anche durante questo nuovo anno è il ritorno evidente della gente a utilizzare gli spazi pubblici come luogo di espressione e di elaborazione politica. Sia Time che Wired-America hanno provocativamente indicato gli indignatos e i riots come “man of the year”, e per me è stato naturale interrogarmi sui luoghi scelti perché tutto questo prendesse forma.
Sembrava che negli ultimi anni le piazze avessero progressivamente perso la capacità di essere quel luogo naturalmente deputato a essere “casa” e “laboratorio” della città e del suo territorio. E’ vero, le piazze sono sempre, naturalmente, usate per festeggiare campionati vinti e feste paesane, per accogliere raduni automobilistici, mercatini natalizi, fiere di qualsiasi genere, comizi elettorali e riti pubblici, manifestazioni e raduni, ma ogni volta avevo la sensazione che quei luoghi fossero sempre più abitati con poca consapevolezza e che tutto fosse consumato in maniera più superficiale e meno identitaria, soprattutto nelle grandi metropoli.
Si è fatto un gran parlare negli anni Novanta dei centri commerciali, dei cinema multisala, degli aeroporti e stazioni, dei cosiddetti “non luoghi”, come degli spazi che le nuove comunità avevano eletto a luoghi pubblici di rapido uso e consumo. Sembrava che le piazze avessero perso anima e significato, che non rappresentassero più, se non per centralità topografica, il cuore sociale di una città, e spesso questa sensazione era confermata da tanti progetti di recupero o di “arredo urbano” inutili, invadenti e fintamente retorici. Sembrava che in un mondo in cui la soglia tra reale e digitale, tra pubblico e privato, tra interni ed esterno, uno spazio tradizionale come la piazza avesse perso il suo senso profondo, la sua qualità più importante, ovvero quello di essere vissuta come una parte importante e riconoscibile nella nostra vita di cittadini.
E, invece, in un momento di crisi profonda che torna a coinvolgere le paure e le emozioni primarie della gente (il lavoro, il cibo, i diritti) le piazze e tanti altri luoghi potenzialmente pubblici ma invisibili agli occhi della gente come i tetti degli edifici, le gru e le impalcature, i ponti, i sagrati delle chiese, tornano ad essere al centro del bisogno di stare insieme, di condividere, di produrre contenuti e di cercare conoscenze comuni. Le piazze degli indignatos spagnoli, Zuccotti Park, i ponti di New York e San Francisco, piazza Tharir a Il Cairo, il sagrato della cattedrale St. Paul a Londra, le decine di micro spazi pubblici occupati nel mondo di fianco ai luoghi simbolici del potere finanziario e politico, i tetti delle fabbriche occupate, sono diventati tanti laboratori urbani capaci di produrre idee, confronti, protesta pacifica e consapevole e, insieme, di entrare in rete moltiplicando potenzialmente su scala globale la loro capacità di produrre cultura critica e consapevolezza sociale.
Non sono state considerate come semplici immagini, quinte momentanee di una scenografia instabile senza significato, ma come casa per tutti, luogo riconoscibile capace di dare ospitalità e senso allo stare insieme e al condividere un bisogno di cambiamento che parte dall’occupare fisicamente e dal vivere insieme un’esperienza di rinnovamento radicale. Se dovessi immaginare quale potrebbe essere considerata la migliore architettura del 2011 e, probabilmente, quella potenzialmente più interessante del nuovo anno, non avrei dubbio nell’indicare la piazza, nella sua straordinaria, universale capacità di essere tornata al centro della vita di una società globale, che spesso confusa e intorpidita nel suo rapporto con i luoghi, è tornata a considerarla un “inedito” centro per produrre anticorpi necessari per affrontare diversamente i tempi inquieti che stiamo vivendo.
Antonella Agnoli è una vera eretica. Autrice di un pamphlet rivolto alle amministrazioni locali in cui spiega perché è necessario investire nella pubblica lettura e aprire i locali a tutti, non solo a studiosi e studenti
La biblioteca è un servizio di base, trasversale, che offre qualcosa a tutte le categorie di cittadini: vecchi e giovani, professionisti e disoccupati, casalinghe e immigrati. Copre un arco di interessi vastissimo e quindi è un sostegno vitale anche per altre strutture culturali come i musei, i teatri, i cinema. Occorre promuovere il coordinamento e l’integrazione fra tutti questi servizi». Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica) è un altro tassello che Antonella Agnoli, bibliotecaria et alia in un paese in cui (quasi) nessuno legge, sottrae al muraglione ideologico che sta intorno all’idea di cultura, di intellettuale e di privilegio culturale e che è il principale fortilizio che soffoca la mobilità tra le classi sociali nel nostro paese. Ed è quindi un altro tassello aggiunto al concetto di democrazia.
Se ne Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà (Laterza, 2009), Agnoli ha scritto che prima di fare cultura è
necessario fare alfabetizzazione e che entrare in una biblioteca in Italia significa, invece e troppo spesso, essere costretti a valutare la situazione sociale nella quale ci si trova, in base all’esperienza in altri ambienti pubblici e all’arredamento e che dunque «occorre pochissimo tempo a un potenziale lettore per capire, grazie a una quantità di indizi, quale sarà il suo posto all’interno dell’istituzione e valutare se rischia di rendersi ridicolo o di perdere la faccia» -, in questo pamphlet si rivolge direttamente alle amministrazioni locali per spiegare e dimostrare come, anche in tempo di crisi, sia possibile e pure necessario investire nelle biblioteche di pubblica lettura.
Perché dire alle persone i libri che devono leggere è ideologia, lasciare che leggano e basta è democrazia. E quindi possibilità di evoluzione ancora prima che di rivoluzione. Le biblioteche di pubblica lettura, al contrario delle biblioteche di conservazione che pure «sono state sempre un oggetto di valore collocato nelle nostra città come un vaso cinese in salotto, che potrebbe esserci oppure non esserci» dal 1972 sono una responsabilità degli enti locali e spesso sono vissute come un «optional affidato alla buona volontà e alla lungimiranza della singola amministrazione» e non come la risorsa energetica che sono. «Nella crisi, la biblioteca è un’ancora di salvezza per i ceti più deboli, i giovani che non riescono a trovare un lavoro, i bambini che hanno bisogno di crescere in un ambiente stimolante e di fare esperienze culturali che in famiglia non potrebbero avere».
Tuttavia per essere davvero una risorsa energetica la cultura continua Agnoli ha bisogno di una società che pensa e che ama pensare. Tutto il lavoro saggistico, e tutto il lavoro che Antonella Agnoli ha fatto e fa sul territorio la direzione della biblioteca di Spinea (Venezia), l’ideazione della Biblioteca San Giovanni di Pesaro, il capillare giro di presentazioni de Le piazze del sapere in ogni minimo comune, biblioteca, circolo di lettura, presidio del libro italiano, scuole gira intorno al concetto che il libero accesso ai libri è condizione necessaria e sufficiente alla salute, al mantenimento e all’adattamento, in epoca di accelerazione e manipolazione dell’informazione, del concetto di democrazia e della democrazia in sé. «Non si riflette abbastanza sul paradosso di un pianeta dove l’informazione è (relativamente) alla portata di tutti mentre l’impoverimento culturale della vita collettiva è palese».
Antonella Agnoli, come tutti coloro che sono padroni di un’ortodossia, è una vera eretica, le sue proposte per le biblioteche di pubblica lettura in tempo di crisi spaziano dalla possibilità di usare i locali delle biblioteche di conservazione e di pubblica lettura per matrimoni, feste di compleanno, mercatini di libri usati, come location per pubblicità, tutte proposte che rappresentano la reale possibilità di aprire un luogo considerato storicamente per studiosi, studenti, curiosi e intellettuali, a tutti.
La sopravvivenza di una biblioteca garantisce e leggendo Agnoli si esclama «è vero!» la possibilità, a chi non può consentirselo per ragioni economiche o di lingua, di accedere alla rete, alla modulistica per bollette, pensione, alla possibilità di compilare un curriculum vitae. «Come i sindaci di un secolo fa non avevano dubbi sulla necessità di realizzare le fognie e di portare l’acquedotto nei loro comuni, così oggi si deve guardare alle connessioni a banda larga come a un diritto basilare dei cittadini, un bene comune importante quanto l’acqua».
La biblioteca, è insomma un luogo di confronto, discussione, alfabetizzazione e cultura. «La perdita dell’abitudine a ritrovarsi e confrontarsi in piazza, al bar, dal parrucchiere è uno dei molti motivi che rendono la nostra democrazia un guscio vuoto».
Odio la parola vocazione, tuttavia mi pare che per lei la diffusione della cultura somigli abbastanza a una vocazione... sono stati la scuola, l’università, i libri, le persone?
«Se sono quello che sono lo devo alla politica, non certo alla scuola. Non so bene chi mi abbia insegnato a leggere e scrivere, ma sono sicura che dai 14 ai 18 anni l’unica cosa che mi interessava era andare a ballare. Se dicessi che la cultura è stata per me una vocazione fin dall’infanzia penso che finirei nell’ultimo girone dell’inferno dantesco: dopo la maturità sono andata a Roma e invece che fare l’università frequentavo giovani artisti e la cellula di Potere Operaio (prima che fosse messo fuori legge). L’università, ripresa più volte, non l’ho mai finita, c’era sempre qualche cosa di più importante da fare. Penso che negli anni Settanta il Pci sia stato l’università di un’intera generazione».
Perché ha deciso di lavorare su, con e per le biblioteche?
«La biblioteca l’ho scoperta quando me ne hanno data una da fondare: prima non ci ero mai entrata. Avevo fatto la campagna per il referendum sul divorzio, e poi quello sull’aborto e così avevo conosciuto il sindaco di Spinea, una città-dormitorio alla periferia di Venezia. Non sapevo nulla, ma a me piace fare cose nuove, organizzare luoghi e attività dove le persone possano stare insieme quindi ho iniziato dalla biblioteca per bambini, scommettendo che i genitori che accompagnavano i figli si sarebbero prima o poi accorti che era un posto piacevole anche per loro. Ho cercato di raggiungere le giovani coppie con figli, comprato i libri di Munari e sperato che funzionasse. Ha funzionato. Quando me ne sono andata, nel 2000, era passato in biblioteca il 50% di cittadini».
Nell'immagine: Giuseppe M. Crespi «Scaffale di libri», 1725
Alla ricerca della città vivibile, a cura di Ilaria Boniburini, Alinea Editrice, Firenze 2009; 160 pagine, ISBN: 9788860554161; prezzo di copertina: € 18,00
ABSTRACT
Riqualificazione, qualità urbana, rigenerazione, vivibilità: queste parole sembrano l'obiettivo di molte azioni sulla città. In nome di esse si sono determinati mutamenti consistenti nelle tecniche e nei procedimenti per il governo delle trasformazioni urbane.
Qual è il significato di queste parole, da dove deriva il loro uso e applicazione, quali slittamenti di senso, e quindi di pratiche, si sono verificati? A quali altri aspetti della città e delle persone si collegano questi concetti secondo i diversi discorsi e punti di vista (sguardi) che possono essere assunti per leggere e comprendere la condizione urbana contemporanea? I programmi e i piani concepiti a partire dagli anni novanta hanno impiegato diffusamente queste, ed altre parole, ma in funzione di quali reali obiettivi e interessi? Quali sono gli strumenti adoperati? Al loro impiego ha corrisposto davvero la ricerca di una città più giusta, più sana, più amichevole e più bella? I risultati proclamati sono stati raggiunti? E chi ne ha beneficiato?
Queste sono le domande attorno alle quali hanno ragionato e discusso i docenti e gli studenti della quarta edizione della Scuola di eddyburg a partire da un'analisi dell'idee e dei fatti, e proseguendo con la disamina di alcune esperienze concrete di pianificazione (Bologna, Torino, Cosenza, Napoli e Monaco di Baviera).
I contributi dei docenti sono qui raccolti e articolati in tre parti: le parole, gli sguardi, le esperienze. Essi non danno risposte compiute a tutte le domande, ma aiutano a comprendere meglio ciò che accade in città, a individuare i limiti e gli errori delle idee e delle azioni, e infine a tracciare alcuni percorsi utili per agire nella città e nella società per renderle migliori.
INDICE
Scuola di eddyburg e città vivibile: Parole, sguardi, esperienze, di Edoardo Salzano, Mauro Baioni, Ilaria Boniburini
PARTE PRIMA
LE PAROLE
Linguaggio Discorso e Potere. Perché le parole non sono solo parole, di Ilaria Boniburini
PARTE SECONDA
GLI SGUARDI
Immersi nella città di Giovanni, Caudo
La vivibilità nella città sconnessa, di Paola Somma
La città come con-vivenza, di Elisabetta Forni
Vite a confronto. Il caso dello ZEN di Palermo, di Ferdinando Fava
Città delle differenze e nuove politiche urbane, di Giancarlo Paba
PARTE TERZA
LE ESPERIENZE
Riqualificazione urbana: un’occasione per chi?, di Mauro Baioni
Vivibilità e nuova urbanità nelle politiche e nei progetti di rigenerazione urbana, di Maria Cristina Gibelli
Bologna: la stagione dei programmi complessi di Giulia Angelelli, Chiara Girotti, Graziella Guaragno, Elettra Malossi, Barbara Nerozzi
Torino: La “Spina 3”. di Raffaele Radicioni
Cosenza: Il programma urban. di Giorgia Boca
Napoli: Il piano regolatore, di Roberto Giannì
APPENDICE
Le parole della città, di Ilaria Boniburini
"I litorali su cui insistono chioschi e varie strutture turistiche saranno oggetto di diritto di superficie che dura 90 anni", questo dice il decreto. I Verdi: "In nessun paese d'Europa e del mondo si è arrivati ad una simile gestione del demanio marittimo"
"Le spiagge su cui insistono chioschi e varie strutture turistiche saranno oggetto di diritto di superficie che dura 90 anni", questo dice il decreto sviluppo approvato oggi. In sostanza chi prende in concessione uno stabilimento balneare può andare avanti praticamente a vita. E le rassicurazioni Giulio Tremonti, "le spiagge restano pubbliche" ha detto, non rassicurano ambientalisti e opposizioni che attaccano: "Svendono i litorali italiani". Il presidente dei Verdi Angelo Bonelli commenta: "In nessun paese d'Europa e del mondo si è arrivati ad una simile gestione del demanio marittimo".
"Un decreto sottosviluppo" con all'interno "un piano casa e la privatizzazione spiagge: un regalo senza precedenti a mafiosi, abusivi e speculatori" commenta Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente. "Mai avremmo potuto immaginare di raggiungere un punto così basso - aggiunge Cogliati Dezza - Il Belpaese smembrato e devastato dal cemento, in mano alla criminalità e agli speculatori con l'avallo del governo".
Tremonti, però, difende il provvedimento: "Tutto ciò che è terreno su cui insistono insediamenti turistici (chioschi, stabilimenti balneari) sarà oggetto di diritto di superficie, che durerà novant'anni e dovrà essere richiesto dagli imprenditori che vorranno proseguire la loro attività. Il diritto sarà ovviamente a pagamento e noi riteniamo che sarà pagato molto bene, ovviamente a condizione che ci sia regolarità fiscale e previdenziale". "Abbiamo ritenuto - spiega il m inistro - che un diritto lungo dia una prospettiva di tempo sufficiente per fare degli investimenti e creare lavoro".
Secondo il Codacons il piano spiagge, "concedendo il diritto di superficie sulle nostre coste per un periodo addirittura noventennale, crea le premesse per un "grande" piano di cementificazione del territorio".Positiva, invece, la reazione della Fiba, il sindacato dei balneari della Confesercenti. :"Sul diritto di superficie che interessa gli insediamenti turistici sulle spiagge la posizione di Tremonti è una positiva novità che registriamo con grande interesse".
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico ha inoltrato (5 maggio 2011) un esposto al Commissario per gli usi civici della Toscana, del Lazio e dell’Umbria, al Presidente della Regione Lazio, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli e al Procuratore regionale della Corte dei conti per il Lazio avverso il “piano delle alienazioni di beni immobili di proprietà comunale da classificare nel patrimonio disponibile” del Comune di Capena (RM) che, inopinatamente, include fra i terreni da alienare per far cassa ampie aree in loc. Macchie appartenenti al demanio civico di Capena, fra i boschi, proprio nel sito dove ha avuto origine l’antichissimo borgo laziale.
Il piano delle alienazioni del Comune di Capena è stato approvato con deliberazione Giunta comunale n. 21 del 25 marzo 2011, ai sensi dell’art. 58 del decreto-legge n. 112/2008, come convertito nella legge n. 133/2008 (vds. Corte cost., 16 dicembre 2009, n. 340, che ne dichiara la parziale incostituzionalità) sul presupposto, evidente quanto erroneo, che i terreni appartenenti al demanio civico siano di proprietà comunale – patrimonio disponibile.
Invece, è necessario ricordare che con sentenza del Commissario per gli usi civici per la Toscana, il Lazio e l’Umbria n. 35 del 31 ottobre 2003 veniva riconosciuta l’appartenenza al demanio civico di Capena delle aree in argomento. Tale provvedimento giurisdizionale veniva confermato con sentenza della Corte d’Appello di Roma, Sezione speciale usi civici, n. 11 del 26 agosto 2005 e con sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, 12 marzo 2008, n. 6524 (ord.), proprio sulla Collettività di Capena. E’ chiaro, quindi, che quei terreni in buona parte ricoperti di macchie e boschi fanno parte del demanio civico.
I diritti di uso civico sono inalienabili (art. 12 della legge n. 1766/1927 e s.m.i.), inusucapibili ed imprescrittibili (artt. 2 e 9 della legge n. 1766/1927 e s.m.i.). Ogni atto di disposizione che comporti ablazione o che comunque incida su diritti di uso civico può essere adottato dalla pubblica amministrazione competente soltanto verso corrispettivo di un indennizzo da corrispondere alla collettività titolare del diritto medesimo e destinato ad opere permanenti di interesse pubblico generale.
Inoltre, i demani civici sono tutelati ex lege con il vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.).
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico ha chiesto il diniego da parte della Regione Lazio di qualsiasi autorizzazione alla sdemanializzazione delle aree in argomento, al Commissario per gli usi civici l’emanazione dei necessari provvedimenti per il rispetto delle sentenze già passate in giudicato. Agli Organi inquirenti ordinario ed erariale è stato richiesto lo svolgimento delle opportune indagini finalizzate a evitare la commissione di eventuali reati e il depauperamento dei demani pubblici.
Ulteriori informazioni su http://gruppodinterventogiuridico.blog.tiscali.it
Nella maggior parte degli stati americani i finanziamenti alla cultura sono calati drasticamente e nel Regno Unito i tagli del governo conservatore hanno provocato la chiusura di quattrocento biblioteche. Tocca ai cittadini mobilitarsi per salvare queste «infrastrutture democratiche»
Ci è voluto un cinico giornalista del Financial Times per scrivere nero su bianco quello che tutti pensano ma si guardano bene dal dire in pubblico: le biblioteche sono destinate a morire. In un lungo articolo pubblicato il 16 aprile, Christopher Caldwell ha tracciato un primo bilancio delle chiusure provocate dai tagli del governo conservatore nel Regno Unito: quattrocento biblioteche in meno. Dall'altra parte dell'Atlantico il 15 per cento delle biblioteche americane negli ultimi mesi ha ridotto l'orario di apertura, le altre cercano disperatamente aiuti privati per evitare di farlo.
Dall'osservatorio di Pittsburgh posso aggiungere che in Texas si sta discutendo un bilancio 2012 in cui i finanziamenti alle biblioteche vengono ridotti del 99%, oltre a una perdita di 8 miliardi di dollari in fondi del governo federale. In Florida, il Senato ha eliminato il 100% dei contributi alle biblioteche, il che provocherà anche una perdita di finanziamenti del governo federale, che sono legati a un certo livello dei servizi. In California il bilancio è ancora nel caos e difficilmente i servizi culturali saranno risparmiati.
In competizione con i pompieri
Un'eccezione c'è: la Pennsylvania, dove i finanziamenti dello Stato non calano: l'anno prossimo il Public Library Subsidy rimarrà allo stesso livello del 2011 (53,5 milioni di dollari) al contrario di molti servizi essenziali, come l'università, i trasporti pubblici o la difesa dell'ambiente, che il nuovo governatore repubblicano Tom Corbett ha tagliato senza esitare. Secondo American Libraries, 19 stati su 50 hanno ridotto i fondi per le biblioteche (e dieci hanno fatto tagli superiori al 10%).
Il Financial Times spiega che le biblioteche non attraversano una crisi passeggera ma una fase in cui la loro stessa esistenza è in dubbio. La ragione è semplice: in quanto istituzioni finanziate dai governi locali esse devono subire le conseguenze di una crisi fiscale che non è contingente. Tutti i governi occidentali hanno bilanci pesantemente in rosso e in Gran Bretagna come negli Stati Uniti, ridurre la spesa pubblica è diventato una priorità. Né Cameron né Obama vogliono (o possono) aumentare le tasse, quindi possono soltanto tagliare le spese e non saranno certo quelle militari a essere ridotte, almeno nel breve periodo.
Tra le spese non militari, le biblioteche devono competere con servizi sanitari sempre più costosi e con un sistema pensionistico squilibrato per ragioni demografiche (in futuro ci saranno più pensionati che lavoratori attivi). La crisi continua a mantenere elevate le spese di assistenza ai disoccupati e ai poveri e - sottolinea Caldwell - negli Stati Uniti «le spese locali per il welfare sono spesso obbligatorie per legge mente le spese per le biblioteche sono discrezionali».
La fine della transizione
L'autore dell'articolo va oltre: «Le biblioteche appartengono a un periodo di transizione alla fine del XIX secolo, dopo l'affermazione della democrazia ma prima della crescita del welfare state. Le biblioteche facevano da ponte fra il vecchio stile di governo e il nuovo». Oggi questo periodo di transizione è finito da un pezzo e la biblioteca, come molti altri settori dello stato sociale, potrebbe soccombere alla crisi fiscale.
Esse sono vulnerabili anche perché, al contrario della sanità o della scuola, servono una minoranza della popolazione. Non ci sono famiglie escluse dal servizio sanitario in Gran Bretagna, né famiglie che rinuncino all'istruzione obbligatoria negli Stati Uniti (con modeste eccezioni legate a convinzioni religiose). Le biblioteche, invece, vengono frequentate da circa un terzo dei cittadini in Inghilterra e, in America, il 58% degli adulti sostiene di avere la tessera della biblioteca ma questo naturalmente non significa che poi ci si vada davvero. Gli enti locali devono decidere se tagliare servizi che semplicemente sono irrinunciabili, come i pompieri o la polizia, oppure sacrificare una istituzione utile solo a una minoranza: non è difficile immaginare quali saranno le scelte.
Studenti in difficoltà
Implicita in questa discussione, ma mai affrontata è la questione di un'altra fase di transizione che le biblioteche hanno estrema difficoltà a gestire. Si tratta della fase iniziata alla fine del ventesimo secolo con la prepotente affermazione delle tecnologie di comunicazione individualizzate. Il computer portatile, il telefonino, ora l'iPad non potevano che generare la sensazione che la fase in cui le biblioteche facevano da ponte fra la cultura accumulata nei secoli e il singolo utente fosse finita. Su questo, qualche riflessione più approfondita sarebbe utile.
I bibliotecari sostengono che le biblioteche sono un servizio necessario per la comunità e nessuno studioso serio lo nega ma i politici, almeno in questi anni tristi, sono indifferenti a ogni ragionamento che vada al di là della prossima scadenza elettorale. Se proprio devono pensarci, diranno che nell'era degli smart phone, del Kindle e dell'iPad nessuno ha veramente bisogno della biblioteca. Magari potranno anche riconoscere che sono molto utili per i pensionati, i disoccupati e gli immigrati ma i primi possono andare a leggere il giornale al bar, i secondi si accontentino di non morire di fame e gli ultimi prima se ne vanno e meglio è.
Non ci sono buoni argomenti che possano convincere cattivi politici a fare ciò che dovrebbero, ma i cittadini hanno varie buone ragioni per mobilitarsi in difesa delle biblioteche, a cominciare proprio da quei grandi utilizzatori di smart phone, di Kindle e di iPad che sono gli studenti universitari. Un rapporto di qualche anno fa sulla loro capacità di fare ricerche su internet finalizzate allo studio e non all'intrattenimento dava risultati poco entusiasmanti: solo il 52% era in grado di valutare correttamente l'obiettività di un sito web, solo il 65% il suo grado di autorevolezza. In altre parole, moltissimi giovani, forse la maggioranza, non sono in grado di distinguere il valore dei materiali di Wikipedia da quello delle pubblicazioni dell'università di Harvard, né sono capaci di trovare ciò che è utile per capire situazioni complesse o problemi politici con i quali non hanno familiarità.
Questo significa che, in assenza di ambienti culturali collettivi che offrano aiuto e guida, le straordinarie possibilità di ricerca offerte dalla rete resteranno delle possibilità, quando non aggraveranno la confusione per l'eccesso di stimoli non filtrati. I gadget elettronici non sono un sostituto né della scuola né della biblioteca.
Confronto tra cittadini
Questa linea di ragionamento, tuttavia, rimane ancora nell'ambito ristretto di una valutazione economicista dell'utilità sociale della biblioteca: se non si vuole che i giovani crescano troppo ignoranti, e quindi incapaci di competere sul mercato mondiale, occorre fornire almeno dei servizi culturali minimi, tra cui le biblioteche. C'è una ragione ben più sostanziale da mettere al centro del dibattito: come scriveva la bibliotecaria Eleanor Jo Rodger in un saggio del 2009, le biblioteche sono una irrinunciabile «infrastruttura democratica» e questo è il motivo per cui Andrew Carnegie spese la sua fortuna personale per costruirne ovunque.
Il problema non è se i cittadini ci vadano o no: è che devono avere la possibilità di andarci. Non c'è teoria moderna della democrazia che ammetta un cittadino disinformato e ignorante. Una biblioteca arricchisce il tessuto democratico rendendo possibile ai cittadini di informarsi non nella solitudine di un computer casalingo ma in un confronto con altri cittadini, altri documenti, altri formati. Di questo lavoro incessante le biblioteche sono un luogo necessario. Anche se ci si va soltanto per leggere la Pittsburgh Post Gazette o il Resto del Carlino.
Spazio Pubblico: declino, difesa, riconquista, a cura di Fabrizio Bottini, Ediesse Editore, Roma 2010; 268 pp., ISBN: 882301509X; prezzo di copertina € 15,00
Abstract:
Negli anni recenti anche in Italia si sono rese esplicite le tendenze verso una concezione autoritaria, mercificata, privatistica dello spazio pubblico. Secondo un percorso che sviluppa anche radici e interpretazioni sostanzialmente reazionarie di teorie come quella degli spazi difendibili (1972) o della cosiddetta finestra rotta (1982), saldandole alla più generale tendenza a cancellare tutto ciò che appare estraneo al puro valore di scambio.
La stessa involuzione si ritrova nell'idea più generale dei rapporti sociali, alla chiusura e frammentazione della famiglia, dell’impresa, della corporazione, di cui le discussioni sul ruolo relativo dei poteri dello stato o della privatizzazione dell’acqua sono solo alcuni degli aspetti più vistosi.
È possibile interrompere questa spirale di deriva autoritaria, mercificata, privatistica, che ci sta progressivamente restringendo un diritto essenziale come quello allo spazio pubblico?
Studiosi di discipline sociali e territoriali, amministratori, sindacalisti, rappresentanti della società civile analizzano la questione, iniziando a delineare un progetto per restituire alla comunità i luoghi deputati alla socialità.
L'occasione per confrontare e intrecciare punti di vista, discipline e soggetti è stata la Scuola estiva di Eddyburg, nel settembre 2009: una settimana di relazioni, seminari, gruppi di lavoro tematici e, infine, un convegno organizzato assieme alla Camera territoriale del lavoro - CGIL di Padova, con il contributo di Legambiente Padova.
Indice
Introduzione: Questo libro: perché
di Fabrizio Bottini
La lotta per lo spazio pubblico come pratica di cambiamento
di Ilaria Boniburini
Definizioni di spazio pubblico
Gli spazi pubblici del neoliberalismo
Verso la costruzione di spazi pubblici contro egemonici
Sfera pubblica, spazio pubblico e democrazia
Società, territorio e vertenze del lavoro
di Oscar Mancini
Stato e mercato: l’Europa
Gli spazi pubblici
Le lotte sociali e il Libro Bianco
La speranza
La domanda che emerge dalle vertenze sociali
Per la rinascita della sinistra
Lo spazio pubblico come pratica di cittadinanza
di Antonietta Mazzette
Preambolo
Che cosa si deve intendere oggi per spazio pubblico?
La città questa sconosciuta …
Conclusioni provvisorie
La guerra per lo spazio pubblico
di Paola Somma
Declino
Rigenerazione
Restituzione
Assedio, tradimento, saccheggio
Riconquista
Spazi pubblici: l’esperienza quotidiana della con-vivenza in città
di Elisabetta Forni
Lo spazio del contatto e dell’interdipendenza
Lo spazio sciolto ( loose space)
L'aria della città rende ancora liberi?
di Maria Cristina Gibelli
La città europea e lo spazio pubblico
Lo spazio pubblico a rischio
Quale ruolo per lo spazio pubblico in epoca di sostenibilità
Come rilanciare lo spazio pubblico: alcuni suggerimenti dalle buone pratiche
Conclusioni
Riportare gli spazi pubblici al centro della pianificazione
di Mauro Baioni
Gli standard urbanistici e la dimensione pubblica della città
Tre temi chiave per l’Italia
La città perduta. Il progetto Fori e una diversa idea di Roma
di Maria Pia Guermandi
Storia del progetto: da Benevolo a Petroselli
Antonio Cederna: un’altra idea di Roma
Storia recente di un’idea tradita
Dal cittadino al turista: senza ritorno?
Il sistema dei servizi nella pianificazione provinciale bolognese
di Elettra Malossi
Inquadramento legislativo
Le dinamiche evolutive nella Provincia di Bologna
L’analisi sulla dotazione di servizi alla popolazione
Politiche e azioni del PTCP per il policentrismo
Esploso Metropolitano
di Fabrizio Bottini
Gli spazi della nuova frontiera
Recintopoli
Prima casa e mezza: l’esurbio metropolitano alla milanese
Ragioniamo sugli anni della conquista degli standard urbanistici. Dialogo con Marisa Rodano, Oscar Mancini e Vezio De Lucia
a cura di Edoardo Salzano
La storia negata
Come eravamo
Per una società non solo maschile
Gli “standard urbanistici”
Un biennio decisivo
Per concludere: tornare dall’Io al Noi
Un’esperienza della Cgil a Padova. Togliere il velo al project financing
di Andrea Castagna
Le ragioni della contrattazione territoriale
Il nuovo ospedale a Padova
Nuovo welfare non è privatizzazione
Esperienze di partecipazione e di conflitto di Legambiente a Padova
di Sergio Lironi
Spazi pubblici e pratiche di cittadinanza attiva
Le battaglie di Legambiente a Padova
Confronti aspri con l’amministrazione sulla perequazione
Riconquista di uno spazio pubblico. L’area Macrico a Caserta
di Maria Carmela Caiola
Cominciò con un’omelia
Il Comitato entra in Consiglio comunale
Si aprono i cancelli (ma per poco)
Cinquecentomila metri cubi nel parco
Nuovi protagonisti dello spazio pubblico nell’esperienza di Torino
di Ilda Curti
Quale spazio per quale città
Uso, usi e tempi dello spazio pubblico
Spazio pubblico, sicurezza e allarme sociale
Politiche dello spazio pubblico
Schede e interventi dalla società civile
Emilio Viafora, introduzione: Perché la CGIL è qui con voi; Mario Agostinelli, Comitati territoriali in Lombardia; Franco Arboretti, Il cittadino governante; Marco Boschini, Associazione dei comuni virtuosi; Paolo Cacciari, AltroVe: La rete dei comitati veneti; Luisa De Biasio Calimani, Associazione Città Amica; Giulia Fiocca e Lorenzo Romito, Stalker Osservatorio Nomade; Giovanni Laino, Arcipelago Napoli; Cesare Melloni, CGIL - Comitato regionale Emilia Romagna; Maria Pia Robbe, Veneziano GAS - Gruppi di acquisto solidale ed esercizi di democrazia; Maurizio Ulliana, Amissi del Piovego
Politica: governo collettivo dei beni comuni
di Chiara Sebastiani
A partire dalla memoria
Lo spazio pubblico come oggetto di politiche pubbliche
Lo spazio pubblico come spazio politico
La città, la società, gli spazi pubblici
di Edoardo Salzano
La città nasce con lo spazio pubblico
Spazio pubblico e città del welfare
Il declino dello spazio pubblico
Tensioni positive verso la riconquista
Che fare per riconquistare?
Bibliografia
In questa stessa cartella anche gli altri libri della Scuola di eddyburg
No Sprawl, a cura di Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano; in appendice: proposta di legge elaborata da un gruppo di amici di Eddyburg “Principi fondamentali in materia di pianificazione del territorio” (maggio 2006), Alinea Editrice, Firenze 2006; ISBN 88-6055-063-7;
ABSTRACT
"Sguaiatamente sdraiato" è la traduzione fedele del termine sprawl che compare nel titolo di questo volume. Nelle discipline territoriali, lo sprawl è un modello di urbanizzazione disperso e a bassa densità che aggredisce la bellezza dei paesaggi sfigurandoli e annullandone le caratteristiche identitarie sotto una massa indifferenziata di elementi artificiali anonimi e spesso volgari.
Ma lo sprawl non è soltanto portatore di danni "estetici"; esso è per sua natura "insostenibile", perché produce elevatissimi consumi di suolo e una crescita incessante della mobilità su gomma, perché sottrae al ciclo biologico risorse insostituibili per l'equilibrio tra uomo e natura, perché esaspera i fenomeni di specializzazione e segregazione spaziale indebolendo la coesione sociale e il senso di appartenenza delle comunità. Si è capito che la frammentazione amministrativa e la deregolamentazione urbanistica hanno costituito una causa decisiva dell'elevata dispersione insediativa manifestatasi in molte regioni urbane europee negli ultimi decenni.
Perciò, in tutti i paesi avanzati il contenimento dello sprawl è oggi considerato un obiettivo cruciale, da affrontare prioritariamente attraverso riforme legislative, strategie e strumenti rinnovati di pianificazione territoriale ed urbanistica. Non è così in Italia dove gran parte della cultura e della prassi urbanistica sembra molto lontana dalla comprensione del fenomeno, della sua rilevanza negativa, della sua portata distruttiva.
In questo volume, studiosi di diversa formazione e specializzazione, ma uniti nella condivisione del progetto culturale di eddyburg.it (e del suo promotore, Edoardo Salzano), restituiscono un quadro, molto articolato dal punto di vista problematico e ricco di dati empirici e di raffronti internazionali, sui rischi della dispersione insediativa e della carente risposta normativa nel nostro paese. Comune agli autori, e ai loro scritti, è la critica perentoria e argomentata all'indifferenza manifestata da molta cultura urbanistica italiana recente nei confronti dei costi pubblici e collettivi associati alla dispersione insediativa, e la consapevolezza della necessità di una nuova stagione di riforme in materia di pianificazione urbanistica e territoriale.
A questo volume è allegato il testo della proposta di legge "Principi fondamentali in materia di pianificazione del territorio" elaborata da un gruppo di amici di Eddyburg nel maggio 2006, data la rilevanza attribuita, nel suo articolato, alle norme per il contenimento dell'urbanizzazione e la tutela del territorio rurale.
Si tratta di una pubblicazione di vasto interesse nazionale, sia per l'importanza degli autori, sia per la presentazione di una proposta di legge sulla pianificazione del territorio elaborata dagli stessi.
INDICE
INTRODUZIONE
Su alcune questioni di sfondo, di Edoardo Salzano
PARTE PRIMA
DESCRIZIONI
Diffusione, dispersione, anarchia urbanistica, di Mauro Baioni
Importanza della storia del territorio in italia, di Piero Bevilacqua
Consumo di suolo e trasformazione del territorio rurale, di Antonio di Gennaro e Francesco P. Innamorato.
Nel cuore verde della megalopoli padana, di Fabrizio Bottini
PARTE SECONDA
INDICAZIONI PER LA PIANIFICAZIONE
La dispersione urbana costi collettivi e risposte normative, di Maria Cristina Gibelli
Politiche per il contenimento del consumo di suolo in europa, di Georg Josef Frisch
Strumenti per interpretare e governare la città diffusa: accessibilità e mobilità, di Alfredo Dufruca
Disposizioni per il contenimento del consumo del suolo nella legislazione regionale, di Luigi Scano
L’esperienza di pianificazione della provincia di Bologna, di Piero Cavalcoli
La cancellazione della campagna romana, di Paolo Berdini
La pianificazione territoriale coordinata e la realizzazione del sistema dei parchi della val di cornia, di Massimo Zucconi
Consumo di suolo: le sfide per la pianificazione. Considerazioni conclusive sulla prima edizione della scuola estiva di pianificazione di Eddyburg di Mauro Baioni
APPENDICE
Proposta di legge. “Principi fondamentali in materia di pianificazione del territorio” elaborata da un gruppo di amici di Eddyburg (maggio 2006)
ROMA - «In nome della sicurezza non si possono espropriare i diritti fondamentali». I costituzionalisti lanciano l´allarme e bocciano l´estensione del Daspo alle manifestazioni di piazza: «Il rischio è di violare le libertà costituzionali». Il divieto di assistere a spettacoli sportivi è una misura restrittiva della libertà personale, disposta dall´autorità di pubblica sicurezza (il questore) nei confronti di una persona ritenuta pericolosa. È una misura di prevenzione - che prescinde cioè dalla commissione di un reato - giudicata legittima dalla Consulta con la sentenza 512 del 2002. Qual è allora il problema?
«Una cosa è comprimere il diritto di tifare Lazio, un´altra limitare il diritto di manifestare contro una riforma universitaria - risponde Michele Ainis, costituzionalista a Roma Tre - in questo secondo caso, infatti, c´è una tutela costituzionale rafforzata, perché esistono diritti funzionali ad altri». Tradotto: «La democrazia non si limita al voto e se prima delle elezioni non potessi manifestare la mia opinione, verrebbe aggredito un bene costituzionale di valore ben superiore al tifo calcistico». Per questo «i beni costituzionali vanno bilanciati e in nome della sicurezza, o della paranoia della sicurezza, non si possono certo espropriare i diritti».
Sulla stessa linea, il ragionamento di Stefano Merlini, costituzionalista a Firenze: «In base all´articolo 17 della Costituzione, le riunioni in luogo pubblico possono vietarsi "solo per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica". Il divieto vale dunque per tutti ed è esclusa la possibilità di impedire a un singolo cittadino di partecipare a riunioni non vietate. Non solo. Sulle misure di prevenzione si discute ormai da anni. Limitare la libertà personale con pronuncia dell´autorità di pubblica sicurezza, e non del giudice, è già al limite della costituzionalità nell´ambito sportivo; se esteso alla piazza travolgerebbe tutto il sistema delle libertà costituzionali, violerebbe la riserva di giurisdizione indicata dall´articolo 13 della Costituzione e rischierebbe di riportarci a una situazione simile a quella originaria del Testo unico di pubblica sicurezza, così come varato in epoca fascista».
Contro il rischio di generalizzare una misura eccezionale si schiera anche Gaetano Azzariti, costituzionalista alla Sapienza di Roma: «Con una reazione emotiva e poco razionale agli avvenimenti complessi degli ultimi giorni - sostiene il giurista - il governo ancora una volta si contrappone all´autonomia e al ruolo della magistratura, alla quale sola spetta il potere di limitare la libertà di circolazione». E ancora: «Tutto questo è segnale di una cultura di governo più attenta alle questioni d´ordine pubblico, che alle garanzie di libertà dei cittadini, col rischio concreto di disattendere il chiaro quadro costituzionale improntato al garantismo».
Alla cautela invita Federico Sorrentino, docente di diritto costituzionale a Roma, «perché - premette - vanno comprese le legittime esigenze della sicurezza pubblica». Ma non per questo il giurista nasconde la sua «perplessità su una misura grave e di dubbia conformità al quadro costituzionale». L´estensione del Daspo al di là del ristretto ambito sportivo, infatti, «non incide tanto sull´articolo 21 della Costituzione relativo alla libertà di manifestazione del pensiero, quanto principalmente sull´articolo 17 che prevede la possibilità di vietare le riunioni per motivi di sicurezza, ma mai fa riferimento al singolo manifestante».
Una società per azioni con l’obiettivo di costruire nuove scuole al Sud, coinvolgendo anche i privati. Sarebbe questo il progetto allo studio del governo al quale stanno lavorando i ministeri dell’Economia, delle Infrastrutture e dell’Istruzione. Il piano è ancora ai primi passi e sono diverse le ipotesi che sono state esaminate. La proposta iniziale era trasferire alla nuova Spa la proprietà e la gestione dei 42 mila edifici scolastici italiani oggi nelle mani di Comuni e Province. Un’operazione complessa dal punto di vista normativo, che metterebbe in testa ad un unico soggetto la responsabilità di un patrimonio edilizio disastrato (per 10 mila edifici si ipotizza la demolizione). E che, espropriando di fatto gli enti locali, soffierebbe in direzione opposta rispetto al vento federalista. Per questo si sarebbe deciso di limitare l’attività della Spa alla costruzione degli edifici nuovi. E di concentrare l’azione nelle regioni del Sud, dove la situazione è più pesante.
Nelle intenzioni del governo la «Scuola spa» dovrebbe servire ad ottimizzare i flussi di spesa, cioè spendere meno a parità di servizi realizzando, ad esempio, un appalto più grande al posto di tanti piccoli appalti. Ma anche a superare i mille nodi che, con l’obiettivo di garantire il corretto utilizzo del denaro pubblico, in alcuni casi possono allungare tempi e procedure. Una logica simile a quella della Protezione civile spa, il progetto al quale il governo ha poi rinunciato nel pieno della bufera su Guido Bertolaso. Pochi giorni fa era stato il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini a dire che, per l’edilizia scolastica al Sud, il governo stava «studiando il modo per reperire risorse da enti privati». Nel progetto sarebbero coinvolti gli enti previdenziali e le fondazioni bancarie. Ma il grosso delle risorse potrebbe arrivare da quei 416 milioni di euro già destinati e non ancora spesi per la messa in sicurezza degli edifici esistenti.
Il nodo vero, però, è decidere come assegnare gli appalti. Fonti del ministero dell’Istruzione assicurano che si farebbe ricorso comunque alle gare. Resta da decidere, allora, come accelerare i tempi per la realizzazione dei lavori. Critico sul progetto il segretario della Flc Cgil: «Il problema — dice Domenico Pantaleo — non è cercare soluzioni alternative ma trovare i soldi. Ben vengano Inps o Inail ma non i privati. Se c’è un privato c’è un ritorno economico e l’istruzione non va ridotta a mercato».
Sono figlio della città e della guerra. Sono cresciuto a Parigi. Nel 1945 avevo dieci anni. Se provo a mettere in relazione il tema dei miei giochi d´infanzia e quello dei luoghi della città in cui sono cresciuto (in questo caso Parigi), posso supporre, senza grosse possibilità di essere smentito, che le due realtà siano cambiate moltissimo; la cosa più sorprendente sarebbe che i miei ricordi riuscissero a dire qualcosa a un bambino o a un preadolescente di oggi.
Iniziamo con qualche ricordo.
Durante la guerra lo stato maggiore tedesco aveva occupato, vicino al giardino di Luxembourg e al Senato, il "Lycée Montaigne", che normalmente era la mia scuola. Così, fino all´ottobre del ´44, quando il "Lycée Montaigne" tornò alla sua funzione originale, noi bambini eravamo stati smistati in diverse scuole primarie del quinto arrondissement. Avevo nove anni e a scuola ci andavo da solo a piedi partendo dalla rue Monge, risalendo la rue de la Montagne Sainte-Geneviève, discendendo la rue Soufflot e attraversando il giardino di Luxembourg.
I miei primi luoghi di gioco furono i cortili delle scuole e la strada, poi il giardino di Luxembourg. Il mio quartiere, da cui non mi sono mai allontanato se non per ritornarci, l´ho percorso in tutti i sensi, prima accompagnato dall´uno o l´altro dei miei genitori e poi da solo. È il luogo della mia infanzia al quale sono rimasto fedele. Viaggio molto, ma, a intervalli più o meno regolari, lo ritrovo e mi ci ritrovo.
I nostri giochi d´infanzia erano molto fisici e segnati dagli eventi dell´epoca. Le prime classi della scuola elementare erano miste e le bambine avevano i loro giochi, per esempio "la campana" (la marelle), ai quali di solito noi bambini non ci associavamo. Partecipavamo solamente quando cedevamo alla tentazione di mostrare la nostra forza, mettendoci quindi a saltare di casella in casella con un piede solo, cercando di raggiungere il cielo che coronava quella struttura tracciata frettolosamente per terra con il gesso. Di solito noi giocavamo alla guerra. Divaricavamo le braccia e volavamo per il cortile ruggendo come i motori degli aerei. Da buoni piccoli maschi fallocratici ci suddividevamo i ruoli: alcuni di noi attaccavano le bambine, gli altri le difendevano. L´arbitraggio arrivava spesso dal cielo, quando le sirene risuonavano. Era l´allarme, la guerra vera. Ci facevano scendere di corsa nei rifugi sotterranei, che in questa parte di Parigi erano un pezzo delle catacombe. Quando dopo l´allarme rientravamo a casa, cercavamo i frammenti dei proiettili tirati dalla DCA (la difesa contraerea). Erano delle calamite eccellenti ed erano facili da trasportare poiché si fissavano le une sulle altre, formando dei piccoli cumuli irregolari e compatti che laceravano le nostre tasche (...).
Oggi i giochi sono cambiati e c´è sicuramente molto da osservare e imparare a contatto con i bambini e gli adolescenti. La familiarità che la maggior parte di loro ha con gli strumenti elettronici modifica sia il loro rapporto con la solitudine, sia il modo di instaurare relazioni sociali. È vero anche, d´altro canto, che la geografia della città e dell´ambiente si trasforma. Tuttavia, non è detto che la necessità di aprire spazi pubblici per i bambini e gli adolescenti non resti ancora una necessità urgente. Un mio collega, David Lepoutre, ha scritto un libro molto interessante sull´etnologia della città, Coeur de banlieue, pubblicato nel 1997 da Odile Jacob. Lepoutre insegnava, all´inizio degli anni Novanta, nel quartiere della Courneuve e la Cité des Quatre Mille e aveva avuto modo di notare che i bambini, a volte molto piccoli e per la maggior parte figli di genitori immigrati, tendevano a formare delle bande, la cui prima occupazione era di appropriarsi del territorio, del loro ambiente, trasformandolo attraverso l´immaginazione: inventavano frontiere, luoghi straordinari e persino riti d´iniziazione. In queste bande di preadolescenti e adolescenti c´erano ragazzi di diverse età, ed era verso i sedici anni il periodo in cui avveniva la selezione tra chi abbandonava la banda e chi entrava invece nel mondo della delinquenza, sollecitato da traffici di tutti i generi.
Senza la pretesa di paragonare il giardino di Luxembourg degli anni ´50 e le banlieue degli anni ´90 o di oggi, vorrei suggerire l´idea che i temi del gioco, dello spazio e dell´infanzia hanno da molto tempo una portata sociale e politica fondamentale. Uno dei problemi delle banlieue è che gli spazi di cui i giovani cercano di appropriarsi non sono spazi pubblici, semplicemente perché gli spazi pubblici non esistono o comunque non esistono più oggi. L´immaginario corre liberamente senza un ambiente circostante che lo accolga e dunque senza una protezione simbolica. Il miracolo dei giardini pubblici è dovuto al fatto che sono un bene che permane. Le Tuileries o il Luxembourg non sono cambiati da quando Proust o Anatole France li frequentavano da bambini. Ma, dato il decentramento della capitale verso le periferie, questi giardini fungono da spazi pubblici solamente per una manciata insignificante di favoriti.
Uno degli obiettivi del Grand Paris, di cui si parla tanto oggi, dovrebbe essere la creazione, vicino agli edifici scolastici, di luoghi perenni, tra i quali i giardini pubblici restano ancora oggi il miglior esempio. Questi luoghi dovrebbero manifestarsi in modo spettacolare e simbolico come degli spazi pubblici, situarsi in prossimità di edifici pubblici, di teatri o di cinema, non limitarsi alla riduttiva funzione di luoghi di passaggio ma restare aperti, in quanto spazi ludici, alle iniziative dei giovani.
Alla fine tutto è politico. Va bene creare stadi, piscine, luoghi strutturati per la formazione di "corpi efficacemente disciplinati", ma è bene anche lasciare che si crei qualche luogo di libera espressione di sé e di confronto con gli altri in spazi che permettono tutto senza nulla imporre. Recentemente mi è capitato di vedere dei ragazzi molto giovani e di talento che si allenavano con lo skateboard la domenica vicino alla fontana di Trocadéro, sotto uno sguardo vagamente preoccupato ma allo stesso tempo ammirato dei passanti e dei turisti. Spero che potremo ancora per lungo tempo continuare a osservarli giocare e sfidarsi nel cuore di Parigi. È il loro modo per crescere ed educarsi.
Traduzione di Chiara Pavan
Il testo è parte dell´intervento che Marc Augé terrà a "Tocatì", il Festival Internazionale dei Giochi in Strada che si terrà da oggi al 26 settembre a Verona, organizzato dall´Associazione Giochi Antichi e dal comune. Il Paese ospite dell´ottava edizione è la Svizzera
«Chi protesta contro la scuola di Adro dovrebbe protestare anche quando nelle scuole entrano i simboli di sinistra». È il desolante commento del ministro Gelmini a proposito dell´esproprio (del quale lei per prima è vittima in quanto ministro dell´Istruzione) da parte della Lega di una scuola della Repubblica italiana, trasformata in istituto padano. Il ministro finge di ignorare, per superficialità o per pavidità, la natura del tutto inedita dell´accaduto. Non si tratta di una scuola nella quale qualcuno (professore o studente) entri con una falce e martello sulla maglietta, o una svastica tatuata sul bicipite, o altri simboli ideologici o di partito. Si tratta di una scuola che è essa stessa, strutturalmente, un simbolo di partito, concepita e arredata come tale. Un luogo pubblico privatizzato, cioè snaturato, sottratto alle sue funzioni di neutralità e accoglienza. La reazione del ministro fa capire che il governo non ha alcuna intenzione di intervenire: avvalla il sopruso, e amen. Restiamo in attesa di sapere se un prefetto, un magistrato, un ente locale, il Parlamento, il Quirinale, Strasburgo, il pianeta Giove, insomma qualcuno che ha percezione almeno vaga dell´enormità di quanto è accaduto, voglia tentare, almeno tentare di evitare un oltraggio così insopportabile al concetto stesso di "bene pubblico".
Precari sullo Stretto
Primo giorno di scuola
di Manuela Modica
«Invece di spendere soldi per il Ponte, metteteli in cultura, istruzione». Alla vigilia del primo giorno di scuola irrompe ancora la protesta dei precari. Così inizia un anno dalle mille difficoltà. Per loro. Per tutti.
Per chi suona la campana oggi? Per tutti. Per chi riaprirà i cancelli, le aule, e per chi non aprirà neanche la porta di casa. Ma la campana suona anche per chi con la scuola non c’entra nulla: «Perché lesinare sull’istruzione è lesinare sulla civiltà di una nazione». Maria Pina Panella è un insegnate di lettere di 31 anni. Parte sabato sera a mezzanotte da Foggia per scendere lo stivale e partecipare alla grande manifestazione promossa dal comitato dei precari della Scuola di Agrigento, e ricordare che «così non si produce ricchezza morale, né economica». La campana suona per l’Italia intera. «Senza il sapere il lavoro di domani non c'è. Il sapere è tradito in Italia», ha detto a Torino il segretario del Pd, Pierluigi Bersani.
Mezza Italia ieri in piazza a protestare. Da Trapani, Siracusa, Agrigento, Bari – il comitato promotore – che raccoglie tutte le città siciliane, maanche la Calabria e la Puglia, l’adesione di Flc –Cgil, Sel, il Pd. Sono partiti da piazza Cairoli e hanno marciato fino alla riva dello Stretto, per bloccare il traghettamento pubblico per ore, perché «i soldi del ponte sono nostri». Un luogo simbolo, per dire che i tagli «non sono giustificati». E un dispiegamento di forze dell’ordine che produce ben 25 denunce per reati contro l’ordine pubblico. Mentre si appellano al Presidente della Repubblica: «Carissimo Presidente - recita commossa Maria Rita Gadaleta -, siamo qui come comitato perché a 150 anni dall’unificazione vogliamo riscrivere la Storia di questo Paese: non vogliamo un ponte di cemento ma di solidarietà».
Vogliono essere ascoltati, perché si sentono ignorati: «Per le televisioni noi non esistiamo», sottolinea ancora la Panella. Così quando arriva la Rai, i cori si allontanano dalla Gelmini per zoomare su Minzolini: «Vergogna, vergogna», gridano contro le televisioni. Vogliono ribattere a quel che dice Maria Stella Gelmini, «ché lei si può parlare, e menziona sempre queste percentuali: 98 per cento della spesa scolastica va agli stipendi. Così tutti pensano sia giusto che vada meglio bilanciata con la didattica: ma cos’è la didattica senza gli insegnanti?», ripete più volte Samanta Bruno, precaria palermitana: «È importante dirlo perché il ministro indisturbato ripete sempre questa tiritera, intanto, che spostino la spesa sulla sola didattica non ci crede nessuno ». C’è ansia di parlare, c’è il panico, tra questa gente, di non essere ascoltati. Così mentre il ministro della Pubblica istruzione sostiene di fare quadrare i bilanci, 25mila precari, in tutta Italia, mancano dall’inquadratura. Sono venuti qua a rappresentarli sulle due rive dello Stretto, per combattere una «battaglia di civiltà e democrazia». Intonano cori: «Vogliamo un solo disoccupato, ministro Gelmini sei licenziato», è lei la protagonista della manifestazione, quella della «riforma epocale: licenziamento totale». Alla quale chiedono «Manderai tua figlia in una classe di 33 alunni?». Un Ministro che «non viene in commissione», spiega Tonino Russo, del Pd, componente della commissione Cultura della Camera:«Un comportamento che segue una logica di disprezzo delle Istituzioni che parte dal Presidente del consiglio. Si tratta del più grande licenziamento di massa che il Paese abbia mai conosciuto».
Numeri che si declinano in storie, in vite: «Inizia la Scuola e non sappiamo niente di niente. Né io né mio marito: siamo rovinati», racconta Roberta Trombetta, docente di disegno da 20anni.E oltre i docenti anche i collaboratori, i bidelli. Roberto Vinciguerra, si agita, tira per la giacca, parla di corsa, ha paura di non essere ascoltato. Tocca rassicurarlo, può fare con calma, sarà ascoltato, con attenzione, così riesce a spiegare: «A 19 anni, cioè 24 anni fa, ho iniziato. E ora sono senza lavoro: non so che fare. Non ho più niente».
Intervento
La democrazia è a rischio anche tra i banchi
di Maria (Milli) Virgilio
Non c’è più spazio per confronti aperti e discussioni accese I dirigenti scolastici sono sotto pressione e costruiscono degli ordini del giorno in cui dei problemi non si parla più
È in atto nella scuola pubblica un capovolgimento della democrazia e della legalità costituzionale. Alle illegittimità della Riforma Gelmini/Tremonti (lo ha scritto il Tar Lazio) offrono fedele riscontro le amministrazioni scolastiche periferiche, soprattutto dove la protesta è più forte. Quanto alla democrazia scolastica e al rispetto della legislazione scolastica, possiamo stare tranquilli: sono leciti la presa di parola da parte degli operatori scolastici, l’uso dell’ironia e, come leggiamo sui giornali, i rapporti con la stampa. Peccato che questo valga solo per i superiori gerarchici. Solo per approvare le scelte governative. Solo per sedare le voci critiche e non disturbare il manovratore. Non vale infatti quando a esercitare la libertà di manifestazione del pensiero (che si lega strettamente alla libertà di insegnamento) sono docenti gerarchicamente subordinati che devono svolgere il loro ruolo didattico, educativo e formativo (per legge «attraverso un confronto aperto di posizioni culturali?»), e dunque agire in modo critico e costruttivo.
Quando la scuola pubblica è in crisi e il Governo la affonda, invece di rafforzarla (violando la legge - lo ha scritto il Tar Lazio - e scavalcando il Parlamento), allora vengono silenziati i docenti che non ci stanno. Quando le voci dissenzienti di studenti, docenti genitori, cittadini sono molte, questi momenti divengono conflittuali.
I superiori devono negarlo. Ma gli educatori degni di questo nome (subordinati,ma non supini) conoscono bene lo strumentario gerarchico e burocratico sfoderato contro i non acquiescenti. Per prima vengono stravolte le regole dell’autonomia scolastica e della vita democratica: nei collegi dei docenti e negli organi collegiali chi ha a cuore la scuola come bene comune non può dire quello che pensa, né dentro né fuori la scuola. Gli organi collegiali non vengono riuniti. Il Dirigente costruisce l’ordine del giorno escludendo i temi caldi che interessano i più. Si impedisce la presentazione di mozioni critiche. Viene ostacolata la consultazione dei verbali. Nei confronti di chi non cede si rispolvera il potere disciplinare. Dobbiamo essere consapevoli dicome in questo modo si sta deteriorando la quotidianità scolastica e la funzione stessa promozionale della scuola. Dobbiamo reagire per ripristinare ogni legalità violata. Altrimenti gli enti locali, pressati dalle esigenze concrete, verranno indotti a supplire ai tagli servendosi di servizi convenzionati e estendendo le privatizzazioni (sussidiarietà?). Le Regioni continueranno ad affidarsi solo alla mediazione politica con il governo, limitandosi a salvaguardare per via giudiziaria solo i loro poteri di autonomia legislativa in materia scolastica (federalismo scolastico?). Così riusciranno solo a strappare qualche posto in più, ma non riusciranno a contrastare lo sfascio complessivo.
L’analisi
Gelmini apre l’anno alla scuola del Gemelli. Meglio evitare fischi
di Fabio Luppino
Tanto certa della svolta «storica » impressa alla scuola il ministro Gelmini oggi eviterà accuratamente di andare a prendere applausi al classico Mamiani o al Parini di Milano. Neppure nei disastrati istituti delle mille periferie abbandonate da questo governo al degrado, anche culturale. No, il ministro con un atto di coraggio alla rovescia andrà, secondo indiscrezioni, lì dove nessuno avrà soprattutto la forza di muoverle critiche: nella scuola del Policlinico Gemelli di Roma. Un gesto toccante, indubbiamente. Avrà accoglienze festanti.
Cercare applausi così è l’ultimo atto di una campagna demagogica servita a nascondere una realtà drammatica. Ieri c’è stata anche la copertura di Berlusconi che di certo non mette piede in una scuola da sessant’anni, in una scuola vera, di quelle scrostate, con i banchi segnati e le finestre chiuse da serrande mai riparate perché nonci sono soldi. Più inglese, più informatica, più impresa, più internet? Ma lo sa il premier cosa prevede la riforma del suo ministro? Magari un test Invalsi in merito farebbe capire quanta distanza c’è tra la destra benpensante e la scuola in carne e ossa, derelitta da loro negli ultimi due anni, a partire da chi la fa, i professori. Una umiliazione per i genitori che hanno già ricevuto gli appelli dei capi d’istituto (quando ci sono, perché ne mancano sedicimila e si moltiplica dunque la figura del preside reggente, che per governare un’altra scuola riceve solo 700 euro in più, una miseria) a collaborare per la cartaigienica, le fotocopie, i toner, la pulizia delle aule, qualcos’altro?
La cosiddetta riforma delle superiori stronca vite e carriere. Migliaia di professori a cinquant’anni da oggi rinunciano a lavorare, perché nessuno li chiamerà. E non è affatto vero che saranno riassorbiti nei prossimi otto anni. La matematica non è un’opinione: tra quattro anni, quando la riforma andrà a regime in modo integrale anche nei licei, le ore per insegnare saranno molte meno delle attuali, già drammaticamente ridotte. I precari saranno sempre gli stessi, anzi di più.
La «svolta storica» di Gelmini riguarderebbe anche il merito. Ma come si fa ad assecondare i meritevoli quando in una classe ci sono anche 35 alunni e quasi mai meno di trenta...
Come si fa a garantire il diritto all’istruzione ai disabili e ai non disabili quando il rapporto disabili prof di sostegno si alza, sempre più ragazzi per un docente, a dispetto di certe statistiche usate da giornali ben orientati a suonare fanfare, spesso senza conoscere sulla materia, al rigore fasullo di viale Trastevere.
L’ultima tirata demagogica riguarda la valutazione degli insegnanti. Magari, lo chiedono i professori stessi da anni, perché è certo, come in ogni dove, che a scuola ci sono i furbi e quelli che non si risparmiano mai, che fanno da docenti e da assistenti sociali, da madri e da padri di figli non loro in una società dove non si investe per superare le disgregazioni familiari. Ma come fa a dirlo un ministro che andò a cercare, con spregio del pericolo, la commissione menosevera per accedere alla professione di avvocato?
Flash mob della Rete degli studenti Casco giallo contro «le macerie»
Casco giallo in testa per proteggersi «dalle macerie causate da Gelmini e Tremonti», al suono della prima campanella del primo giorno di scuola gli studenti organizzeranno flash mob davanti alle scuole di numerose città della penisola: lo annuncia la Rete degli studenti.
«NON DAREMO RESPIRO»
«Partiremo con una protesta - affermano- che nondarà respiro al ministro Gelmini e alla sua opera distruttiva. Il13settembre cominceremo a ricostruire quello che le forbici della Gelmini hanno distrutto: saremo davanti alle nostre scuole con dei caschetti gialli da lavoro, per proteggerci la testa dalle macerie che la Gelmini e Tremonti hanno causato e daremo inizio alla nostra ricostruzione». Per «flash mob» si indica un gruppo di persone che si riunisce all' improvviso in uno spazio pubblico, mette in pratica un'azione insolita generalmente per un breve periodo di tempo per poi successivamente disperdersi.
«Non si può considerare la scuola un'azienda in dissesto economico, i saperi un capitolo di bilancio sul quale risparmiare, le nostre vite uno spreco di denaro» protestano gli studenti, che annunciano di voler essere loro, insieme a tutte le componenti della scuola, a «ricostruire pezzo su pezzo le nostre scuole». Oggi, quindi, si comincia con le scuole di Venezia (liceo Foscarini), Torino (via Bligny e corso Dante), Roma(liceo Tasso e liceoMontessori), Frosinone (liceo classico Turriziani) Perugia (piazzale Anna Frank), Grosseto (istituto agrario Leopoldo II di Lorena). per poi proseguire a Bologna il 14 (istituto tecnico Aldini), a Palermo il 15 (VittorioEmanuele III), il 16 a Caltanissetta e il 25 a Lentini. DAVANTI AL MINISTERO Nel pomeriggio di oggi, infine, gli studenti saranno davanti al Ministero della pubblica istruzione a Roma, per continuare la protesta «fino a una grande mobilitazione studentesca in ottobre».
La costruzione della città pubblica, a cura di Mauro Baioni, Alinea Editrice, Firenze 2008, 160 pagine, ISBN: 978-88-6055-321-8; prezzo di copertina: € 20,00
ABSTRACT
Dalla casa ai trasporti, dall'ambiente ai servizi, il soggetto pubblico ha ridotto progressivamente il proprio ruolo, rinunciando non solo all'intervento diretto, ma anche all'esercizio di indirizzo e regolazione. Così facendo, si sono accresciute le disuguaglianze sociali e territoriali e i costi sopportati dai soggetti più deboli, dall'ambiente e dal paesaggio. L'urgenza di un recupero della costruzione della città pubblica appare non più rinviabile: ma come costruire una città vivibile, una città amica delle donne e degli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento?
Nella seconda edizione della scuola estiva di pianificazione organizzata eddyburg.it si è tentato di rispondere a queste domande concentrando l'attenzione su quei temi caldi che legano più direttamente l'urbanistica all'esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l'ambiente urbano. In questo volume, che raccoglie i contributi dei docenti della scuola, sono illustrate le ragioni e le conseguenze del progressivo indebolimento della costruzione della città pubblica e - nella seconda parte - si indicano, a partire da alcune esperienze controcorrente (a Milano, a Napoli, in Toscana, in Puglia e in Emilia Romagna), alcune iniziative possibili, impiegando sia strumenti tradizionali, sia istituti e strumenti innovativi.
INDICE
PARTE PRIMA
Le ragioni della costruzione della città pubblica, di Mauro Baioni
Le parole chiave, di Edoardo Salzano
Il finanziamento della città pubblica, di Roberto Camagni
Case di carta: la nuova questione abitativa, di Giovanni Caudo
PARTE SECONDA
Napoli, l'attuazione di un piano integrato
trasporti-urbanistica, di Giovanni Lanzuise
I parchi della Val di Cornia
Un'idea che si è fatta realtà e chiede coerenze, di Massimo Zucconi
Riorganizzazione degli spazi pubblici e futuro della città: il sistema delle qualità, di Mauro Baioni
Politiche di sostenibilità per l'ambiente urbano: l'agenda 21 locale, di Francesca De Lucia
Politiche europee per la pianificazione integrata e sostenibile dell'ambiente urbano, di Maria Berrini
L'Emilia-Romagna e l'attuazione della legge 20/2000, di Giulia Angelelli, Luisa Ravanello, Maurizio Maria Sani
Riflessioni sull'intercomunalità, di Maria Cristina Gibelli
APPENDICE
Intervista ad Angela Barbanente di Mauro Baioni
Mauro Baioni, urbanista, dottore di ricerca in Politiche territoriali e progetto locale. Si è occupato della redazione di piani territoriali, urbanistici e attuativi (per i comuni di Asolo, Aquileia, Calenzano, Carpi, Duino Aurisina, Imola, Sesto Fiorentino, San Piero a Sieve, Scarperia e le province di Salerno, Lucca, Firenze e Foggia), come consulente e come collaboratore di Edoardo Salzano e Vezio De Lucia. Per tre anni è stato responsabile dell'ufficio di piano di Duino Aurisina (TS). Ha svolto attività di ricerca con le università IUAV di Venezia e Roma Tre. Fa parte dei collaboratori di eddyburg e ne organizza, dal 2005, la Scuola estiva di pianificazione.
Verde privato, verde pubblico
di Ivan Berni,
L’inizio di Via Washington offre lo spunto per una passeggiata istruttiva. Per una volta guardate per terra senza timore di incappare nei soliti souvenir del miglior amico dell’uomo: i larghi marciapiedi vi offrono piccoli tappeti erbosi perfettamente curati, sui quali spuntano ortensie o vasi di fiori.
Un cartello dà voce all’inconsueta presenza verde: «Per favore non calpestatemi! Sono un prato adottato dai cittadini che si stanno prendendo cura di me con entusiasmo. Gli amici cani non la devono fare qui! Grazie, vi offrirò magnifici fiori». Le aiuole parlanti si susseguono ordinate per un centinaio di metri, fino al civico 11. Poi il panorama torna il solito. Al posto dei praticelli, auto in sosta a spina di pesce. Spiazzi polverosi con qualche ciuffo d’erba agonizzante, sacchetti di plastica abbandonati e gli immancabili cumuli di mozziconi. Via Washington è una piccola metafora del tempo in cui viviamo e della pessima concezione dello spazio pubblico, e in fondo del bene comune, che anima chi governa questa città.
La nostra passeggiata racconta che lo spazio diventa realmente pubblico, fruibile, gradevole e curato soltanto quando viene "adottato" dai cittadini. Ovvero soltanto quando qualche "privato" decide di farsi carico di una missione pubblica. All’opposto, quando lo spazio pubblico rimane orfano – ovvero quando resta soltanto nelle cure del Comune, che si chiama così perché la sua missione è occuparsi delle cose di tutti – imperano trascuratezza e degrado. Lo sporco attira sporco. La sciatteria alimenta il disinteresse. Ciò che è pubblico non diventa mai spazio o opportunità per tutti: rimane figlio di nessuno.
Quel che è accaduto in via Washington misura la distanza siderale degli occupanti di Palazzo Marino dal "sentimento" con cui i cittadini vivono la loro città, ma al tempo stesso lancia un importante messaggio a chi spera che le prossime elezioni segnino una decisa inversione di tendenza. Chi vuol prendersi l’onore e l’onere di governare Milano deve fare i conti con una città che vuole tornare a essere ascoltata, che chiede partecipazione e cura. Che domanda ai suoi amministratori un progetto e una visione ma soprattutto la capacità di stare in sintonia col territorio, di intervenire sulle decine di piccoli problemi e trascuratezze che fanno sentire il milanese stanco e disilluso appena mette il naso fuori casa. Quelli di via Washington non si sono chiesti, prima di zappettare e seminare, se il loro sforzo sarebbe risultato patetico o inutile.
L’hanno fatto e hanno mostrato quanto patetica, e dannosa, sia invece una concezione di "bene pubblico" che ha dimenticato il significato della parola civismo e che per recuperare consenso e popolarità non esita a seminare paura e ansie securitarie. Lasciando ai cittadini la convinzione che chi occupa gli scranni del governo lo faccia per coltivare ambizioni e affari propri. E infine la convinzione che il fai da te sia l’unico modo per mostrare che il civismo è ancora vivo e praticabile. Nonostante l’amministrazione civica.
Monte Stella, paesaggio lunare svettano solo i tubi di plastica
di Ilaria Carra
Erba incolta e arida, qualche rifiuto, siccità. Aria da deserto, tutto intorno. C’è un tubo di plexiglas, lo shelter, a imprigionare le piantine. Uno per ognuna, bianco e alto 1,20 metri, o basso e verde, a seconda dell’essenza. Sono migliaia, arrivati nel quartiere tra marzo e aprile, davanti al Monte Stella, a ridosso del Palasharp, dietro al QT8: ontani, ciliegi, querce, noccioli. Piantati fitti fitti, in fila, su quattro collinette. Tutti mini, messi giù giovani. A guardarci dentro a quelle canne di protezione, in almeno la metà si trovano solo ramoscelli rinsecchiti e foglie marrone bruciato. Quattro collinette e un piccolo parco piatto davanti all’istituto delle Suore della Riparazione di via Salerio: cinque cimiteri.
Dopo le centinaia di piante già scheletri a quattro mesi dalla messa a dimora, in zona 7 alle spalle di San Siro, ecco un altro esempio di una buona iniziativa che finisce nel degrado. Eppure questo, tra le vie Benedetto Croce e Sant’Elia, è uno dei boschetti tematici inaugurati a giugno dal sindaco Moratti. "Di benvenuto", li hanno chiamati: un tocco verde per accogliere chi arriva o lascia la città: viale Suzzani, Cascina Gobba, via Pertini, alberi sparsi in zone di frontiera, alle porte di Milano.
La collinetta che se la passa peggio è quella che s’affaccia su via Benedetto Croce, compresa in un giardino più grande di recente creazione intitolato alla memoria dei caduti di Nassiriya. Un parco metà comunale (la zona tenuta meglio, dall’Amsa) e metà regionale (cestini strabordante e sporcizia ovunque). Le piante secche sulla collinetta sono più della metà. Proseguendo lungo via Croce si arriva a un poggio un poco più ampio sul quale le nuove piantumazioni sono state almeno 2.000. Lo spruzzino dall’alto gira lento e bagna, ma evidentemente non basta se il risultato sono arbusti e piantine scheletriche. In zona del progetto non sapevano nulla: «Ce le siamo ritrovati all’improvviso - denuncia Angelo Dani, consigliere Pd in zona 8 - E un paio di settimane fa abbiamo ricevuto un gruppo di residenti infuriati e delusi perché quelle nuove piante sono già tutte morte. Una vergogna».
Ci risiamo. Nuovo verde che arriva, poche cure, piante secche che se non si riprenderanno da sole sono condannate. Accade anche al miniparco in piano: «Erano delle dune così belle, bastava curare il prato - ricorda una suora che vive lì di fronte - invece ogni anno mettono giù nuove piante che poi non resistono. Per fortuna sono venuti almeno a tagliare l’erba settimana scorsa: sembrava una giungla e qui avevamo paura delle bisce. Ma sono venuti solo perché ha preso fuoco un pezzo di parco, c’è stato un incendio. Se no di gente qui a lavorare ne vediamo di rado». Non va meglio in via dei Missaglia, al quartiere Terrazze: qui le nuove piante a fusto già alto sono un’ottantina e, percorrendo la strada, si nota come la metà sia già color terra bruciata. «Più acqua», è la cura banale suggerita da qualche residente che passa e allarga le braccia.
Se in via dei Missaglia è il consorzio Coges che dovrebbe pensarci, il nuovo verde davanti alla Montagnetta dei milanesi è in carico all’Ersaf, l’Ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste, che, secondo una convenzione con Palazzo Marino, ha realizzato, appunto, i boschetti "di benvenuto". E per il primo anno deve occuparsi anche della manutenzione, di queste piantine che vengono dal vivaio certificato di Curno: tutti semi prodotti dalle foreste lombarde. Poi si vedrà. Spiega il direttore di Ersaf, Sauro Coffani: «È stata una stagione tremenda, è piovuto poco: c’è criticità ma è nella norma, siamo al 10 per cento di morìa stando ai nostri tecnici. Spesso se ne piantano di più perché si va per diradamento naturale, anche la metà a volte. Gli impianti d’irrigazione vanno giorno e notte. Le piantine che dovessero morire entro l’anno saranno sostituite».
Gli alberi di Abbado uccisi dalla fretta
di Anna Cirillo
Chi vorrebbe nel proprio giardino una pianta che muore? Eppure questo è lo spettacolo che si presenta a Milano, dove molti dei giovani alberi piantumati in primavera sono in vera sofferenza, in parte già estinti. E anche se, come dice l’assessore al Verde Maurizio Cadeo, «il monitoraggio del Comune sulle piante è quotidiano, la moria fisiologica che abbiamo constatato è al 6 per cento, quando il limite fissato dalla facoltà di Agraria è dell’8», alla Coges, il Consorzio gestione servizi che si occupa del verde urbano, qualcuno non la pensa così. Quelle piante, messe a dimora in fretta e furia - decisione a febbraio e piantumazione a marzo - per dare una prima risposta al maestro Abbado (i famosi 90 mila alberi chiesti per tornare alla Scala) «sarebbe stato meglio piantarle in autunno. Poi gli alberi vanno in letargo, così possono preparasi meglio alla successiva primavera» dice un agronomo del consorzio che lavora da una vita nel settore. Invece, senza impianto di irrigazione e bagnati a mano, molti di questi alberi non hanno resistito all’estate particolarmente torrida e sono sotto forte stress. Anche perché l’autobotte per l’irrigazione a mano costa 800 euro al giorno, una bella botta.
La Coges, contratto con il Comune scaduto a giugno e prorogato fino a fine anno, è un consorzio di cui fanno parte sei ditte (Gaslini e Baronchelli di Milano, Rappo di Cusago, Premav, Santamaria e Malegori di Monza) che ha diviso la città in zone. Ogni ditta ha la sua: chi piantuma deve poi seguire le piante e abbeverarle. Ma è il consorzio che risponde al Comune e paga una penale se la moria è superiore al 10 per cento. E che deve, per contratto, sostituire la pianta che non ce la fa, senza chiedere altri soldi all’amministrazione. La piantumazione non è, però, esclusivo appannaggio del consorzio: la fanno, per esempio, anche le imprese che costruiscono case o box, e pagano con una parte di verde gli oneri di urbanizzazione, oppure l’Ersaf, l’Ente regionale per i servizi alla agricoltura e alle foreste, responsabile dell’impianto disastrato a Monte Stella.
L’assessore Cadeo difende il lavoro fatto puntualizzando che «la piantumazione è stata fatta da novembre a marzo, stagione agronomicamente corretta». Ma più di 5mila alberi, per esempio in zona 7, sono stati messi a dimora a marzo e tra questi molte le querce (quercus rubra) che, dice sempre l’esperto del consorzio, «non sono più adatte al clima ormai troppo caldo di Milano. Infatti sono quelle che muoiono». Per quel che riguarda gli impianti di irrigazione «li facciamo dove è possibile, altrimenti i costi sarebbero insopportabili - conclude Cadeo - . E comunque i conti si faranno a fine stagione. Vedremo quante piante andranno sostituite». «Il verde in città non dovrebbe essere una operazione di marketing e pubblicità - commenta invece Maurizio Baruffi, consigliere comunale del Pd - . Noi più volte abbiamo chiesto che ci venisse fornito un resoconto chiaro delle operazioni in campo. Mai avuto risposte. L’impressione è che ci si muova in maniera confusa e casuale. Sulle piantumazioni ci vuole una nuova attenzione, che sfugga al dibattito quantitativo su quanti alberi si piantano e punti, invece, alle condizioni necessarie per farli vivere meglio».
E nemmeno la città di pietra se la passa bene, come ci ha ricordato Vittorio Gregotti
Spero sia cosa ovvia affermare che la pratica di chiudere qualche gruppo sociale entro un recinto di muri sia la rappresentazione simbolica della paura delle comunità altre e del suo fantasmatico antidoto, cioè la sicurezza soggettiva o di una comunità in cui si pensa di riconoscersi. Non si può dire certo che manchino anche nella storia antica del nostro pianeta esempi della questione, anche se gli esempi dei nostri anni hanno allargato notevolmente le antiche motivazioni di difesa militare della costruzione delle mura della città, e della loro coincidenza con il limite città-campagna che ne definiva l'insediamento. Il borgo medioevale era sovente un luogo specializzato ma al servizio della città; persino la specializzazione funzionale degli insediamenti predicata dalla Carta d’Atene negli anni 30 del ventesimo secolo si presentava come un modo di essere della organizzazione della città senza recinti murati.
Ma gli esempi di oggi, con giustificazioni diverse, investono l’intero pianeta in modi nuovi: motivazioni di contese territoriali, motivazioni religiose, razziali, di censo, di protezionismo economico, ma anche di difesa di privilegi o di vere o supposte identità comunitarie, di cultura, di lingua, etc etc. Si va dai muri che dividono palestinesi ed israeliani (muri dimentichi delle terribili tradizioni dei ghetti ebraici) sino a quelli frammentari che chiudono nei paesi d’Europa gli immigrati clandestini. Sono anche ben noti i recinti controllati che definiscono negli Stati Uniti (ma anche in alcuni paesi sudamericani) gli insediamenti per ricchi, a partire ad esempio da Lewittown sino ai numerosi casi californiani: per scendere alle nostre provinciali imitazioni come «Milano Due».
Una delle motivazioni (o se si vuole delle coperture ideologiche) più diffuse è quella del «controllo urbano» nella prospettiva del suo indispensabile funzionamento nei confronti degli spostamenti di popolazione (più o meno clandestina) nei paesi più ricchi dai paesi più poveri; l’altra quella dell’immigrazione della manodopera dalla campagna alla città, con le diverse motivazioni relative.
Di recente sono emersi a questo proposito i provvedimenti presi in alcune grandi città cinesi per regolare gli insediamenti di periferia, conseguenti al fenomeno dell’inurbamento delle campagne, con la costruzione di insediamenti definiti da muri e cancellate sorvegliate, da cui si entra o si esce mostrando un documento, recinti che circondano interi quartieri come quello di Daxing alla periferia di Pechino. È pur vero che in Cina la tradizione del recinto sorvegliato èmolto antica anche se è oggi rotolata dall’antica «città proibita» sino all’isolato con ingressi sorvegliati, un principio fatale al destino dei nuovi insediamenti cinesi. Sono tutti segnali che la relazione tra città e cittadini si è fatta sempre più instabile e provvisoria. La città più che accogliere seleziona, produce scarti sotto forma di quantità crescente di immondizie ma anche di esuberi umani che il potere tenta di contenere in recinti.
Il recinto, lo spazio sorvegliato (ricchissimo o poverissimo) è quindi un’idea che va molto di al di là del tema della sicurezza, è il principio di una concezione della stessa città come somma di «accampamenti» reciprocamente impermeabili. Ciascuno provvede alle proprie necessità primarie e forse, in futuro, oltre che ad una propria polizia, ad una propria giustizia. Ciascuno è visto come nemico del gruppo opposto.
Scrivo di «accampamenti» perché essi, nella mobilità socio-finanziaria dei nostri anni, sono aree che negano qualsiasi possibilità di stratificazione storica, non si propongono come luoghi componenti di un insieme urbano riconoscibile. Proprio a partire dal suo isolamento e dalla sua autonomia relativa l’accampamento (anche multipiano ed esteticamente decorato) è nel suo insieme pronto ad essere sostituito tra un trentennio da qualcosa d’altro, più redditizio o meglio localizzato; non fonda cioè in alcun modo l’idea di contesto civile, non conta come tessuto urbano consolidato, non contiene funzioni aperte e necessarie al resto della città; le sue variazioni interne sono solo provvisoriamente estetiche o duramente connesse alla pura sopravvivenza.
Ancora una volta, quindi, neofunzionalismo immobiliare, riduzione delle parti urbane a gettoni da giocare al momento giusto in funzione speculativa. Contro, un’immagine della città come luogo del mutamento, della mescolanza, della possibilità, della libertà come progetto aperto di relazioni urbane, ci si muove in direzione opposta della postmetropoli senza forma.
postilla
Giustamente Gregotti individua aspetti fortemente simbolici di certe forme insediative che spesso diamo per scontate, e/o che molti suoi colleghi progettisti praticano, insegnano a giovani ahimè assai plasmabili, impongono in quanto emissari di grandi operatori immobiliari.
C’è naturalmente dell’altro, sopra, sotto e oltre l’aspetto puramente spaziale dei fenomeni descritti, e ha a che fare direttamente col potere, col nostro futuro, con le possibilità che abbiamo di incidere concretamente anche nella qualità concreta di questi ambienti, oltre che nei valori che rappresentano.
Nel corso delle edizioni 2008 e 2009 della Scuola di eddyburg, a proposito sia della vivibilità che dello spazio pubblico, abbiamo rivolto un'attenzione particolare alle politiche e ai progetti urbani che mistificano il concetto stesso di spazio pubblico (e quello di città) promuovendo segregazioni, recinzioni, frammentazioni, sconnessioni fisiche e sociali. Che cosa possiamo fare per tutelare, riconquistare, ampliare un vero spazio pubblico aperto, accessibile, politicamente praticabile a tutti?
Le riflessioni di studiosi, operatori, società civile, sui temi della Scuola di eddyburg sono raccolte in libro. Oltre a quelli già pubblicati (a proposito di sprawl, di città pubblica, di vivibilità) è disponibile fra pochi giorni quello dedicato allo spazio pubblico: declino, difesa, riconquista (f.b.)
Alcuni anni fa, ho utilizzato il termine «nonluoghi» per designare quegli spazi della circolazione, del consumo e della comunicazione che si stanno diffondendo e moltiplicando su tutta la superficie del pianeta. Ai miei occhi, questi nonluoghi erano spazi della provvisorietà e del passaggio, spazi attraverso cui non si potevano decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva. In altre parole, erano tutto il contrario dei tradizionali villaggi africani che avevo studiato in precedenza e nei quali le regole di residenza, la divisione in metà o in quartieri, gli altari religiosi delimitavano lo spazio e permettevano di cogliere nelle loro linee essenziali le relazioni tra gli abitanti.
Questa definizione di nonluoghi ha però due limiti. Da una parte, è evidente che una qualche forma di legame sociale può emergere ovunque: i giovani che si incontrano regolarmente in un ipermercato, per esempio, possono fare di esso un punto di incontro e inventarsi così un luogo. Non esistono luoghi o nonluoghi in senso assoluto. Il luogo degli uni può essere il nonluogo degli altri e viceversa. Gli spazi virtuali di comunicazione, poi, permettendo agli individui di scambiarsi messaggi, di mettersi in contatto tra loro, non possono facilmente essere definiti nonluoghi. Si tratta, in questo caso, di interrogarsi sulla natura della relazione che si stabilisce tramite determinate tecnologie della comunicazione per chiedersi anche come sia possibile che in questo mondo definito «relazionale» gli individui si sentano così soli.
Le immagini che ci vengono presentate danno una prima risposta a questa domanda, o più precisamente permettono di riformularla perché gettano una luce cruda sulla faccia nascosta della globalizzazione e, allo stesso tempo, mettono in evidenza un’altra dimensione dei nonluoghi. Quello che ci permettono di scoprire, infatti, non è l’anonimato di quegli spazi in cui si passa soltanto, la solitudine provvisoria del viaggiatore in transito o la libertà alienata del consumatore medio nei reparti dell’ipermercato, ma lo scontro tra due mondi ognuno dei quali si presenta come il negativo dell’altro. Coloro che fuggono davanti alla miseria, alla fame o alla tirannia, alle violenze della natura e della Storia, e che si gettano a volte in mare mettendo in pericolo la propria stessa vita, vivono in una logica del tutto o del niente, del «si salvi chi può», e tagliano ogni legame con il luogo d’origine, anche se agiscono nella speranza di poter aiutare in seguito quelli che hanno lasciato a casa.
È il momento della fuga insensata. L’esercito disordinato dei sopravvissuti sbarca sulle spiagge dell’esilio già ingombre dei cadaveri che il mare ha rigettato: strano paradiso, quello che in genere, molto rapidamente, prende la forma di campi di internamento.
L’altro mondo, quello al quale vorrebbero accedere e che continua a sfuggirgli, non riescono mai a raggiungerlo. Resta un miraggio, anche per chi riesce a penetrarvi clandestinamente. Non c’è niente di più tragico del destino di questi individui presi in trappola tra due negazioni: quella dell’origine e quella del presente, ma condannati a sperare, tuttavia, o piuttosto a ripetere, per sfuggire al nonsenso totale. Finite, allora, o rinviate a più tardi, le sottili distinzioni tra nonluoghi empirici e nonluoghi teorici, le considerazioni sfumate sulle varie relazioni che si possono avere con spazi diversi.
Le immagini che abbiamo sotto gli occhi ci mostrano innanzitutto individui che hanno perduto il loro luogo senza averne trovato un altro, individui doppiamente assegnati ai nonluoghi, in un certo senso. Spesso gli africani in fuga strappano i loro documenti di identità per evitare, una volta presi, di essere rimandati nel Paese d’origine: come non-persone hanno una maggiore possibilità di aggrapparsi un po’ più a lungo ai nonluoghi sui quali sono andati ad arenarsi. Del resto, sono proprio due mondi quelli che si scontrano: un mondo da cui bisogna fuggire per sopravvivere e un mondo che fa di tutto per respingere questa invasione della miseria, erige muri per contenerne gli assalti, fa pattugliare le frontiere dalle forze dell’ordine, raffina i metodi di indagine e apre campi per parcheggiarvi coloro che sono riusciti, malgrado tutto, ad arrivare.
Da un lato, quindi, i nonluoghi dell’abbondanza (aeroporti, autostrade, supermercati). Dall’altro, i nonluoghi della miseria: rifugio, a volte (quando accolgono, come accade in Africa, le masse in fuga a causa dei massacri e della repressione), e prigione (quando vi si rinchiudono quelli che hanno infine messo piede sulla terra promessa). Sempre, contemporaneamente, rifugio e prigione, oggetti, allo stesso tempo, del controllo poliziesco e dell’assistenza umanitaria.
Che cos’hanno in comune questi due tipi di nonluoghi? Più di quanto non sembri, forse. Perché è evidentemente proprio nei punti di contatto e di passaggio da un mondo all’altro — gli aeroporti, i grandi assi stradali, i porti — che si mettono in atto meccanismi di difesa. Inoltre, sono i mezzi di trasporto più caratteristici della nostra epoca (gli aerei e i loro carrelli d’atterraggio, i grossi camion e i loro container) a fornire al clandestino un veicolo e un nascondiglio.
Gli aeroporti hanno le loro sale di detenzione e gli espulsi vengono caricati su aerei di linea o su charter. I punti di passaggio hanno un’importanza strategica. È là che si dispiegano i mezzi di sorveglianza più perfezionati, ma è sempre là, nel punto di congiunzione tra i due mondi, che passano i turisti. Attratti dall’esotismo, dalla sabbia, dal sole o dal sesso, vi si affollano per recarsi nei Paesi che i migranti cercano di lasciare.
Questi due movimenti che vanno in senso inverso (il turismo e la migrazione) si incrociano e si ignorano. È inevitabile pensare, vedendo una coppia occidentale distesa sotto l’ombrellone, intenta a rilassarsi contemplando il mare a due passi da un cadavere arenato sulla spiaggia, che l’immagine è emblematica della nostra epoca.