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Saskia Sassen ha spiegato che cos'è e come funziona la "infrastruttura globale", l'Economist ci racconta del Sesto continente. Stiamo parlando di un altro mondo; che cosa rimane di quella che ancora oggi chiamiamo città? Il Sole 24Ore, 28 ottobre 2016

Il sesto continente. Cosi l’Economist definisce ormai da qualche anno l’insieme degli aeroporti del mondo e delle persone in perenne transito che li abitano, se pur a intermittenza. I numeri dati dieci giorni fa dalla Iata (International air transport association) confermano: nel 2016 i passeggeri sono stati 3,8 miliardi, numero superiore agli abitanti dell’Asia, il più popoloso dei nostri cinque continenti.

La Iata prevede inoltre che per il 2035 i passeggeri raddoppino a 7,2 miliardi, mentre entro il 2024 la Cina supererà gli Stati Uniti come primo mercato aereo e l’India supererà il Regno Unito com terzo.Le previsioni Iata canno di pari passo a quello sullo sviluppo degli aeroporti (i progetti più grandi sono in Asia) e quelli sul travel retail. Al contrario della popolazione di un continente reale, quella del sesto continente è in stragrande maggioranza adulta, ovvero “in età di shopping”.

Secondo la svedese Generation Research, tra le più autorevoli società di analisi del travel retail, nel 2015 il giro d’affari mondiale è stato di 62 miliardi di dollari (circa 57 miliardi di euro), in calo del 2,7% sul 2014 e nel 2016 la cifra dovrebbe essere la stessa: gli attentati e le crisi geopolitiche continuano a incidere negativamente sui flussi turistici e quindi sul travel retail.Se si guarda però agli acquisti di lusso negli aeroporti, il dato è positivo anche per il 2016: secondo l’Altagamma Worldwide Market Monitor curato da Bain&Company, negli aeroporti c’è stata una crescita del 6% a 14 miliardi, a fronte di un calo dell’1% a 249 miliardi del mercato del lusso nel suo complesso.

Tornando alle statistiche generali di Generation Research, si scopre che l’unica categoria a crescere è “Cosmesi e profumi”, con un +2,7% a 18,3 miliardi di euro, con una quota di mercato del 31,4%, quasi il doppio della seconda categoria, Wines&Spirits, che assorbe il 16,4% degli acquisti, in calo del 2,7% a 9,3 miliardi. In calo anche Tabacco, Enogastronomia, Orologi e gioielli, Elettronica e, last but not least, Moda e accessori, terza categoria per quota di mercato con il 14,5%, che ha perso il 3% e vale 8,3 miliardi di euro.Come detto all’inizio, l’Asia-Pacifico è già oggi leader nel travel retail, con una quota del 46,3%, quasi il doppio delle Americhe (seconde in classifica con il 26,7%) e più del doppio dell’Europa, terza con il 23,3%. Secondo la rivista di Singapore The Peak (che nel 2015 ha vinto il premio come Luxury Magazine of the Year), il primo aeroporto al mondo per acquisti è l’Incheon di Seul, con 7,3 miliardi e in Asia-Pacifico ci sono 5 scali con vendite superiori al miliardo. In Europa spicca il più grande degli aeroporti londinesi, Heathrow, il cui Terminal 5 assomiglia a un department store del lusso di ultima generazione, con tanto di servizio di personal shopper, prenotabile nelle lounge riservate a chi viaggia in business o in prima classe.

Le incognite maggiori per le vendite di lusso negli aeroporti (e non solo) sono i flussi turistici, fa notare Fflur Roberts, Head of luxury research di Euromonitor International: «Gli sbalzi valutari, l’incertezza economica e quella politica rendono il futuro del turismo di lusso altrettanto incerto. Basti pensare a Hong Kong: a causa dei disordini e del caos politico, dal 2013 gli acquisti di lusso di turisti stranieri sono scesi dal 15%. Un campanello d’allarme per l’intera regione asiatica e il suo travel retail».

Mentre le stazioni ferroviarie diventano sempre più scomode per i pendolari e inaccessibili per i senzacasa, l'aumento dei passeggeri ricchi ne deforma l'uso e le trasforma in grandi magazzini cattura-portafogli. E' il Mercato, baby. Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2016

L’operazione di Grandi Stazioni è sicuramente il deal più imponente del 2016 nell’ ambito retail, pur non essendo conteggiata nei volumi degli investimenti immobiliari. Non si tratta infatti di una pura operazione real estate, ma con l’immobiliare ha molto a che fare.Così ha fatto capire Paolo De Spirit, fondatore nel 2005 di Borletti group insieme a Maurizio Borletti e prima amministratore delegato di Ungaro, intervenuto ieri al convegno organizzato da Cncc, consiglio nazionale dei centri commerciali.

De Spirit ha parlato delle prospettive dell’acquisto di Grandi Stazioni Retail, la società che gestisce gli spazi commerciali delle 14 maggiori stazioni ferroviarie italiane, realizzato per quasi un miliardo di euro in cordata insieme ai due fondi francesi Antin e Icamap.

“Ogni anni almeno 760 milioni di persone transitano nelle stazioni ferroviarie, persone che hanno una capacità di spesa in aumento - dice De Spirit -. Non solo. Il trend aumenterà grazie all’Alta velocità. Rimane comunque tanto da fare. Di sicuro nel medio termine si possono raddoppiare i metri quadrati di Gla, per medio termine intendo un periodo di 5-7 anni. Bisogna lavorare sul tema di fare diventare un’esperienza il passaggio in stazione, oggi vissuto come un passaggio rapido durante il quale prestare attenzione ai borseggiatori. In futuro dovrà diventare invece un’esperienza shopping, così come sta avvenendo a Roma con il mercato centrale - merito della gestione precedente -, un posto di attrazione per il food con moltissima scelta di offerta che è aperto dalle 7 del mattino alla una di notte e attira oltre ai viaggiatori anche i romani”.L’obiettivo è concentrarsi ora su questa sfida. “Anche se come gruppo Borletti stiamo per aprire un outlet di 25mila metri quadrati” dice ancora. Ma De Spirit sottolinea come la cordata che ha messo le mani su Grandi Stazioni retail sia eterogenea e con orizzonti temporali diversi nelle scelte di investimento. “Siamo tre azionisti molto diversi - commenta - , degli altri due soci il fondo Antin è focalizzato sulle infrastrutture mentre il fondo immobiliare Icamap investe in centri commerciali e fa capo a Guillaume Poitrinal, già amministratore delegato del colosso Unibail Rodamco. Hanno quindi altre necessità di uscita dall’investimento. Noi possiamo restare a lungo termine”.

Il libro di Mauro Baioni, Ilaria Boniburini e Edoardo Salzano, La città non è solo un affare, è stato edito da Æmilia University Press, 2012. Pubblichiamo in chiaro la premessa e l'indice; in calce il link per scaricare il testo integrale in formato .pdf






LA CITTÀ NON È SOLO UN AFFARE
di Mauro Baioni, Ilaria Boniburini, Edoardo Salzano


Premessa
Al cuore della questione
Questo libro trae origine dalle ultime due edizioni dellaScuola di eddyburg - la scuola estiva di pianificazione organizzata dal gruppodi persone che collabora al sito eddyburg.it - dedicate al rapporto traeconomia e urbanistica.
Nelle cinque precedenti sessioni già ci eravamo confrontaticon gli effetti che l’appropriazione privata della rendita e una concezionedello sviluppo piegata all’interesse economico producono sul consumo di suolo(2005), sul paesaggio (2006), sulla città pubblica (2007), sulla vivibilità(2008), sullo spazio pubblico (2009). Nella sesta e nella settima, tenute aNapoli e Riccione nel 2010 e nel 2011, abbiamo deciso di andare al cuore dellaquestione.
Ci siamo quindi interrogati sui meccanismi che determinanola formazione della rendita urbana, sulle conseguenze della sua appropriazioneprivata e sugli strumenti capaci di ridurne gli effetti negativi. Un problemacruciale dell’urbanistica moderna da quando essa è nata, e cioè dallarivoluzione liberale e dall’affermazione del sistema capitalistico-borghese,che da sempre costituisce il cruccio di chi intende operare in funzionedell’interesse generale, e che ha assunto nella società neoliberistaconnotazioni del tutto particolari.
Abbiamo proseguito la nostra analisi critica mettendo inluce l’inadeguatezza del paradigma dello sviluppo, così questo è statodeformato nella società contemporanea, schiacciandosi sull’unica dimensione diun’economia finalizzata alla produzione di merci e di denaro e perdendoprogressivamente ogni orientamento al miglioramento delle condizioniesistenziali degli uomini e all’accrescimento delle loro capacità di conosceree agire nel mondo.
Nel libro non riportiamo i contributi pervenuti dallepersone che hanno partecipato alle due edizioni della scuola di eddyburg,autandoci con i loro saperi ad affrontare le questioni da una pluralità dipunti di vista: Roberto Camagni, Fabrizio Bottini, Maria Cristina Gibelli,Lorenzo Bellicini, Georg Frisch, Paolo Berdini, Righini, Mancini, Anna Marson,Ugo Mattei, Giovanna Ricoveri, Nicola Dall’Olio, Bevilacqua, Gioseppe Boatti,Francesca Blanc, Serena Righini, Lorenzo Venturini, Roberto Vezzosi, Vezio DeLucia, Giovanni Caudo, Chiara Sebastiani. Le vogliamo pubblicamenteringraziare, assieme a tutte le persone (più di ottanta) che hanno frequentatole due edizioni della scuola e che, per brevità, non possiamo elencare. Abbiamo pensato invece di ritornare sulle nostre riflessioniintroduttive e conclusive, per restituire i pensieri in modo più meditato ecompiuto.
La scansione del libro
Il libro è articolato in due parti, così come duplice è lafinalità della scuola. Fin dalla sua prima ideazione, ci siamo resi conto cheera possibile e necessario: da un lato proporre non una mera e compiaciutadescrizione del mondo e dei suoi cambiamenti, ma piuttosto un'analisi criticaespressione di un punto di vista motivatamente orientato, rifuggendo ogniatteggiamento pseudo-neutrale; dall’altro proporre una decisa azione dicontrasto alle tendenze dominanti, fondata sulla riaffermazione dell’insieme divalori, concetti e strumenti che, a nostro avviso, concorrono a sostanziare lapianificazione territoriale e urbanistica.
Per rendere più ricche e solide le argomentazioni, abbiamofatto della scuola un luogo di ascolto e di confronto con un ampio gruppo dipersone, diventate amici e frequentatori duraturi: storici ed esperti dellediscipline umanistiche e delle scienze sociali (economisti, sociologi,antropologi, letterati), esperti delle discipline scientifiche (geologi,agronomi, ingegneri ambientali) animatori e aderenti di associazioni emovimenti, funzionari della pubblica amministrazione, politici e amministratorifuori dal coro.
Ma soprattutto, abbiamo dedicato uno spazio e un’attenzionespecifica, nelle prime giornate della scuola, alle “parole della città”, percomprendere la loro ambiguità, per disvelare l’appropriazione e l’uso distortodei termini da parte dell’ideologia dominante, le potenzialità di un diversoimpiego a fini della rinascita di un pensiero critico e della costruzione diprospettive alternative. I due contributi introduttivi, curati da IlariaBoniburini e da Edoardo Salzano e dedicati allo “sviluppo” e alla rendita,assolvono a questa funzione. La rendita (che è l’argomento del saggio diSalzano), è un elemento decisivo negli usi e nelle trasformazioni della città edel territorio. Tutta la storia dell'urbanistica lo testimonia. Ma essa è comprensibile solo nell'ambito del discorso e ellepratiche dell'economia.
In particolare il ruolo che la rendita assume oggi nella vita del territorio e dei suoiabitanti e in gran parte determinatodalla concezione dell'economia propria dell'ideologia dominante e dallepratiche che ne conseguono. Poiché oggi il paradigma egemonico è quello dello“sviluppo” è da questa parola (che è il tema sviluppato nel saggio diBoniburini) che abbiamo voluto partire.
Durante la scuola abbiamo riservato uno spazio specificoall’osservazione critica delle vicende urbanistiche, evidenziando: losnaturamento, determinato dall'assunzione di una punto di vista prettamentemercantilistico nella definizione delle scelte; la degenerazione prodotta dalleiniziative del governo centrale e di molte amministrazioni regionali, nel lorocomplesso convergenti verso lo smembramento e smantellamento del ruolo e deglistrumenti pianificazione territoriale e urbanistica; l’esistenza di un vero eproprio lato oscuro delle trasformazioni della città e del territorio,sottaciuto o sottovalutato da una parte non trascurabile degli urbanisti,dedicando le giornate centrali all’illustrazione di “casi” finalizzata a capireperché e sotto quali aspetti ‘i conti non tornano’, valutando e comparando traloro non tanto modelli astratti, quanto piuttosto le opzioni in gioco e gliesiti delle trasformazioni.
Con questo spirito, attraverso il contributo di Mauro Baioniche chiude la prima parte del libro, vogliamo offrire una prima riflessionecomplessiva, necessariamente parziale e tentativa, su quanto è accaduto nelterritorio italiano durante l’ultimo quindicennio. Un periodo egemonizzato dalliberismo, deformato dalla parabola di Berlusconi, e caratterizzato da un cicloimmobiliare di straordinaria lunghezza e intensità che possiamo ritenere, aragion veduta, concluso, sebbene il futuro appaia quanto mai incerto e caricodi problemi.
Ed è proprio rivolta al futuro la seconda parte del libro,frutto di una riflessione comune, frutto della riflessione comune dei treautori. Possiamo considerarla come una cerniera tra quanto abbiamo appresonelle sette edizioni della scuola e quanto ci apprestiamo a fare nel prossimofuturo.
I caratteri del conflitto del quale il territorio è oggettosono molto chiari e possono essere riassunti nella seguente antitesi: città deicittadini o città della rendita? Alcune precisazioni lessicali: per cittàintendiamo l’habitat dell’uomo, il quale comprende sia la tradizionale “città”(o territorio urbano) che la tradizionale “campagna” (territorio rurale). Equando parliamo di cittadini ci riferiamo sia a quelli attuali, sia a quellipotenziali, con particolare attenzione a due categorie di soggetti privi deidiritti di cittadinanza: i migranti e i posteri.
Nel nostro scritto, sosteniamo la tesi che le vertenze inatto e l’azione dei movimenti che si oppongono al trionfo della “città dellarendita” diano origine ad una nuova domanda di pianificazione. Una domanda cheha certo numerosi ostacoli al suo pieno dispiegarsi, ma che costituisce ilprincipale elemento positivo cui possono fare affidamento quanti non voglionoridursi alla protesta e alla mera lamentazione per le condizioni attuali. Inaltre parole, per uscire durevolmente dalla crisi occorre adoperarsi peraffermare un nuovo paradigma, che – per quanto riguarda il nostro specificocampo – si sostanzia attorno al “diritto alla città” e alla visione della“città come bene comune”.
Abbiamo voluto concludere questo ragionamento richiamandouna serie di buone pratiche che, per quanto minoritarie e precarie,costituiscono un ventaglio d’iniziative possibili, più ampio di quantosolitamente si ritiene. Essendo in anticipo sui tempi e lontane dal sentirecomune degli amministratori e di gran parte della cultura urbanistica, tali iniziativehanno scontato grandi difficoltà, senza poter fruttare appieno e, soprattutto,senza diffondersi e tradursi in pratiche ordinarie. Sarebbe un errore esizialecondannarle all'oblio per questo motivo, così come riteniamo profondamentesbagliato abdicare ai principi e ai valori in nome di un pragmatismo senzaprospettiva: al contrario, le une e gli altri sono semi preziosi che possonorivelarsi più resistenti alle avverse condizioni in cui ci troveremo negli annia venire.
INDICE
 
Premessa
Parte prima. Che cosa è successo. Perché‚ ha trionfato larendita e con quali conseguenze
I – L’ ideologia della crescita,l'inganno dello sviluppo, Ilaria Boniburini
II – Rendita. Capirla percontrastarla, Edoardo Salzano
III - Città e territorio in Italia: gli effetti di unventennio senza regole, Mauro Baioni
Parte seconda. Che fare percambiare rotta
IV - Nuove domande di e allapianificazione,M.B, I.B, E.S
V Luoghi da cui ripartire, Mauro Baioni

 

 

Qui è scaricabile il testo integrale del libro in formato .pdf

«Dal Trentino alla Sicilia, la lunghezza dei muri dei terrazzamenti delle colline è di 170mila chilometri, venti volte più della Muraglia cinese. Boom dei comitati per fermare il degrado: corsa per salvarli» Ma se non ci fossero i migranti.... La Repubblica, 9 ottobre 2016 (c.m.c.)

Sul versante montano del Canale di Brenta, nel Vicentino, sono una decina i richiedenti asilo che lavorano per fare manutenzione o ripristinare l’imponente serie di terrazzamenti che salgono su fino a 500 metri d’altezza. Vengono da Nigeria, Mali, Togo, Ghana, li ha coinvolti il comitato Adotta un terrazzamento, che da tempo si prende cura di un patrimonio costruito a partire dal Seicento. Troppa era la pendenza per coltivare il tabacco, per trattenere l’acqua e dunque, usando pietra a secco e niente calce, si sono realizzati nei secoli terrazzi che chiamano masiere e che svettano per sette, otto metri.

Dalla seconda metà del Novecento è iniziato l’abbandono, le colture sono sparite, il bosco ha preso il sopravvento, il paesaggio si è banalizzato, è venuta meno una preziosa fonte di reddito e anche la vita comunitaria che lì prosperava si è spenta. Dei 230 chilometri di pietra a secco, ne è sopravvissuto sì e no il 40 per cento. Finché, promosso dal comune di Valstagna, dal gruppo Terre alte del Club alpino italiano e dal dipartimento di Geografia dell’università di Padova, non è arrivato il comitato Adotta un terrazzamento.

Quella vicentina è una delle buone pratiche raccontate dal 6 al 15 ottobre a un convegno internazionale che si svolge fra Venezia, Padova e in dieci luoghi segnati dai terrazzamenti: dalla costiera amalfitana alle Cinque Terre, dal Trentino a Pantelleria, dalla Valpolicella all’alto Canavese, da Trieste alla Val d’Ossola. Partecipano circa 250 relatori provenienti da 20 diversi Paesi. È l’occasione per misurare lo stato di salute di questi paesaggi in Italia.

È una salute precaria fotografata dalla prima mappatura mai realizzata (il progetto si chiama Mapter, ed è curato dall’università di Padova). In totale sono 170mila gli ettari censiti attrezzati a terrazzi, un’estensione pari a quella del Veneto. E sono 170mila i chilometri di muri a secco che li reggono, pari a circa venti volte la muraglia cinese.

«È una misura per difetto, realizzata con un sistema, il Corine Land Cover, al quale sfuggono le piccole dimensioni», spiega Mauro Varotto, geografo dell’università di Padova e fra i coordinatori della decina di università coinvolte nella mappatura, autore insieme a Luca Bonardi di Paesaggi terrazzati d’Italia, uno studio in uscita in questi giorni (Franco Angeli editore).

«L’estensione è ben maggiore, ma difficilmente individuabile perché buona parte di questo patrimonio è abbandonato », aggiunge Varotto. Ed è questa la preoccupazione: si sta perdendo un paesaggio attrezzato nei secoli e deperisce un presidio contro i dissesti e le frane. Com’è dimostrato dalla tragica esperienza delle Cinque Terre. Fra le minacce viene indicata anche la meccanizzazione dell’agricoltura. Muretti e terrazzi sono di ostacolo ai trattori che hanno bisogno di salire e scendere lungo i pendii, rendendo prevalente il sistema del “rittochino” che spesso agevola il dilavamento.

Oltre il 30 per cento dei terrazzamenti censiti è diventato preda del bosco, di vegetazione spontanea, e dunque è sottratto alle coltivazioni. Il 6 per cento si è perduto a causa dell’urbanizzazione. Un altro 30, invece, è utilizzato a seminativo, il 19 a uliveto, il 3 a vigneto, un altro 3 a frutteto, limoneto o castagneto.

La regione più terrazzata in proporzione alla superficie complessiva è la Liguria, con il 7,8 per cento del suo territorio così attrezzato (oltre 42mila ettari). Seguono la Sicilia, con il 2,4% (63 mila ettari), e la Toscana con lo 0,99% (22 mila ettari). La Campania vanta 11mila ettari a terrazzi, il Lazio 5 mila. I primi quattro Comuni sono tutti siciliani: Pantelleria, Modica, Ragusa, Lipari. Al quinto posto c’è Genova.

Laddove fioriscono, i terrazzamenti sono rigogliosi di vigneti, come in Trentino, di limoneti, come in costiera amalfitana, o di ulivi e capperi, come a Pantelleria. «Svolgono una funzione sociale fondamentale, perché conservano un bene prezioso e irrinunciabile, la fertilità dei suoli», dice da Trieste Livio Poldini, professore emerito di Botanica. «I terrazzamenti sono l’esito di una conquista di terreni all’agricoltura che ha dell’eroico », insiste Varotto. «È un processo che viaggia in parallelo con l’incremento demografico avvenuto fra la metà del Settecento e la fine dell’Ottocento ». Le pietre conservano il calore quando fa freddo e il fresco quando fa caldo. E negli interstizi, che assomigliano a corridoi ecologici, ospitano una varietà infinita di flora e di fauna.

Esistono norme, anche europee, che preservano i paesaggi rurali storici. Ma il conflitto fra chi vuole tutelarli e chi predilige un’agricoltura meccanizzata permane. In Trentino, per esempio, o in Veneto. Dove però spicca l’esperienza del Canale di Brenta, con i militanti di Adotta un terrazzamento, i quali riescono a convincere i proprietari a concedere loro di liberare da rovi e sterpaglie i preziosi terrazzi abbandonati.

La lunghezza dei muri è di 170mila chilometri, venti volte più della Muraglia cinese Boom dei comitati per fermare il degrado

I barbari...«non occorre essere abili architetti paesaggisti per comprendere che queste operazioni sono proprio quelle che - se non controllate puntualmente - alterano in modo spesso irrimediabile l’aspetto dei nuclei urbani e rurali, come possono insegnare infiniti esempi». Patrimoniosos.it, 30 settembre 2016

Il 7 luglio scorso è stato presentato alla Conferenza Unificata Stato-Regioni-Autonomie Locali (dove è stata “sancita l’intesa”, come con apprezzamento è riferito da varie fonti legate all’industria edilizia) uno schema di Decreto Presidente della Repubblica “recante il regolamento relativo all’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata” ecc.

In parole povere, a seguito di un articolo del cosiddetto Sblocca-Italia, si tratta di un lungo elenco, con norme di attuazione, di interventi edilizi nelle zone soggette a vincoli paesaggistici che non dovranno più essere autorizzati in base al Codice dei beni culturali o, perché ritenuti poco rilevanti, potranno godere di procedura semplificata - una misura in parte analoga già esisteva, ma il nuovo Decreto ne prevede il superamento.

Gli interventi che non dovrebbero più essere autorizzati sono 31, quelli con procedura semplificata 42. Non è qui il caso di ricordare che le lentezze nelle autorizzazioni paesaggistiche (a volte reali, a volte strumentalmente esagerate) derivano quasi sempre da carenze di mezzi e personale degli uffici, dalla mancata adozione dei piani paesistici e dalla farraginosità della normativa - senza volere ovviamente tacere casi di specifiche responsabilità di funzionari e dirigenti.

Il Decreto, per cui sono previsti pareri parlamentari e del Consiglio di Stato - quest’ultimo, formulato in modo ampiamente favorevole, è stato pubblicato da patrimoniosos il 22 settembre - che però raramente incidono in modo significativo sui testi, si inserisce di fatto nella logica di un progressivo svuotamento della tutela territoriale prevista dal Codice beni culturali.

In linea di principio non vi è nulla da obiettare a che interventi di minore rilevanza possano essere autorizzati sulla base di procedure più snelle, e ve ne sono senza dubbio di così modesta portata che ben si può ammettere vengano considerati irrilevanti (negli elenchi non mancano precisazioni abbastanza superflue, come l’esclusione dall’autorizzazione delle opere interne che non alterano l’aspetto esterno degli edifici - per le quali mai è stata necessaria), né il Decreto è privo di norme sensate, ad esempio la prescrizione che laddove gli interventi riguardino edifici sottoposti a vincoli sia paesaggistici sia monumentali la procedura venga unificata. Tuttavia esaminando gli elenchi degli interventi sorgono forti perplessità.

Per quanto riguarda quelli con procedura semplificata - e autorizzazione da rilasciarsi entro 60 giorni, perché “di lieve entità” - vi sono “alterazione dell’aspetto esteriore degli edifici mediante modifica delle caratteristiche architettoniche”, “ascensori esterni che alterino la sagoma dell’edificio”, “caldaie, parabole, antenne su prospetti prospicienti la pubblica via”, “interventi sistematici di arredo urbano”, “autorimesse comprese le eventuali rampe”, “taglio senza sostituzione di alberi”, “strutture e manufatti per spettacoli o per esposizione di merci per un periodo non superiore a 180 giorni”, “verande e dehors”, “cartelli pubblicitari di dimensioni inferiori a 18 mq”, “demolizione e ricostruzione di edifici con volumetria e sagoma corrispondenti alle preesistenti” ecc.

E’ vero che questi e altri interventi sono soggetti comunque ad autorizzazione, ma la ratio del provvedimento è di considerarli di scarso rilievo, tali insomma da meritare una quasi scontata approvazione (quanti funzionari vorrebbero correre il rischio di essere chiamati in giudizio per avere bloccato un “intervento di lieve entità”?). Ma non occorre essere abili architetti paesaggisti per comprendere che queste operazioni sono proprio quelle che - se non controllate puntualmente - alterano in modo spesso irrimediabile l’aspetto dei nuclei urbani e rurali, come possono insegnare infiniti esempi (tante volte purtroppo autorizzati). Nella sostanza, solo le nuove edificazioni e poco altro non viene fatto rientrare nell’autorizzazione semplificata - ma per le opere pubbliche e quelle ritenute importanti ci sono le procedure speciali previste da altre norme…

Quanto agli interventi neppure sottoposti ad autorizzazione, oltre a opere in effetti di scarso rilievo, ne troviamo altre che incidono in maniera significativa sull’aspetto del territorio e dei centri urbani - ancora una volta sembra mancare quell’attenzione alle singole operazioni edilizie che invece hanno una fondamentale importanza nella salvaguardia paesaggistica.

Vengono dichiarati irrilevanti gli interventi “sulla vegetazione arborea” lungo i corsi d’acqua (previsti per ragioni di sicurezza, ma ci sono molti casi tutt’altro che esemplari), l’installazione di tende parasole e insegne commerciali (sia pure con qualche cautela), anche qui strutture e manufatti per manifestazioni e attività commerciali (per non oltre 120 giorni). Soprattutto colpisce che non siano soggetti ad autorizzazione le tinteggiature e il rifacimento di intonaci e infissi: certo si fa rimando ai piani del colore comunali e al rispetto delle caratteristiche e dei materiali esistenti, ma non basterebbe molto spazio per elencare le tante alterazioni soprattutto nell’edilizia rurale e nei centri minori per capire quanto sia necessaria un’opera di controllo (questa sì, magari con procedura semplificata). Su quest’ultimo punto, per fortuna, le nome di attuazione del Decreto escludono in parte gli interventi laddove i piani paesistici o le previsioni dei vincoli non dettino norme specifiche, ma in ogni caso c’è da chiedersi quanto ci si dovrà affidare alla buona volontà dei proprietari o ai tecnici di piccoli Comuni per essere certi che le prescrizioni siano rispettate.

Ma non è finita. Gli elenchi sono preceduti da un testo normativo che contiene alcune disposizioni davvero pesanti. Si prevede che laddove siano vigenti accordi tra Regioni e Mibact, altri interventi - e non dei meno impattanti - siano esclusi dall’obbligo di autorizzazione. Si ammette la possibilità che i piani paesistici introducano disposizioni per facilitare “corrette metodologie” per le opere per le quali non si richiede autorizzazione - sarebbe invece necessario uno specifico obbligo! - ma nel contempo si stabilisce che eventuali disposizioni più rigorose, previste appunto nei (pochi) piani paesistici approvati debbano essere superate da quelle meno rigide del nuovo Decreto. Come dire: se volete fare qualche sforzo, fate pure, ma non cercate di stringere le maglie della rete.

Si può sperare che si riesca almeno di limitare gli aspetti più discutibili del provvedimento? forse se ci sarà pressione qualcosa si potrebbe ottenere

«Lo spazio delle alternative come luogo dei possibili transiti o della possibile rispondenza fra politica e società democratica. Alternative politiche e sociali, in tensione, in interazione, in equilibrio instabile fra loro. Anche in tempi difficili, incerti e rischiosi. Soprattutto, in tempi difficili». Il Sole 24Ore, 28 agosto 2016

L’idea di spazio pubblico è una delle tessere fondamentali di quel mosaico, che chiamiamo forma di vita democratica. In genere, quando pensiamo a una forma di vita democratica, più o meno decente, pensiamo a un regime politico che ospita istituzioni, norme di livello costituzionale e ordinario, procedure per la scelta di chi ha diritto temporaneo a governare, provvedimenti e scelte collettive, interpretazioni politiche alternative dell’interesse pubblico di lungo termine.

E consideriamo tutti questi elementi come elementi fondamentali di un regime di democrazia pluralistica che, grazie a regole, norme e procedure, si distingue da regimi autocratici o autoritari, di differente tipo e natura. La mia tesi è che questo quadro sia certamente fedele ma sia, al tempo stesso, fondamentalmente incompleto.

Sono convinto che uno dei tratti distintivi cruciali di una democrazia politica sia l’ampiezza e la ricchezza del suo spazio pubblico, in cui si esercita la libertà democratica per eccellenza, quella di condividere con altre cittadine e cittadini modi di valutare e proporre soluzioni di problemi collettivi fra loro alternative e confliggenti. Lo spazio pubblico, in questa prospettiva, è uno spazio sociale, e non già istituzionale.

È lo spazio delle voci di cittadinanza. Lo spazio in cui possono emergere potenzialità altrimenti non espresse, bisogni altrimenti non visibili, incertezze e ansie, speranze altrimenti opache e negate. È uno spazio pieno di dissonanze e piuttosto cacofonico. Ma quando i confini di questo spazio sono vietati o ristretti, quando viene meno l’esercizio della libertà democratica o i costi d’accesso allo spazio pubblico di una democrazia diventano terribilmente alti e ineguali per il demos, allora la qualità di una democrazia mostra un deficit significativo e, a volte, severo. E ciò non è riconoscibile o avvertibile se si resta alla prospettiva, decisiva ma incompleta, della democrazia come sistema di istituzioni, norme e procedure. La questione centrale che emerge è quella dell’allineamento o del disallineamento fra spazio sociale e 1 spazio istituzionale. Molti deficit e buona parte delle crisi entro le democrazie contemporanee emergono nelle circostanze in cui le voci di cittadinanza nello spazio pubblico, come spazio sociale, non trovano alcuna rispondenza o trovano debole rispondenza entro lo spazio istituzionale dell’esercizio del potere temporaneo di governo delle società.

Perché la democrazia si avvale nel tempo della connessione, dell’interazione e dell’equilibrio instabile fra lo spazio delle alternative politiche e quello delle alternative sociali. E la qualità stessa della rappresentanza politica e delle sue istituzioni è coerente con la variabile intensità della connessione fra i due spazi. Ora, per gettar luce sulla natura della libertà democratica, che è alla base dello spazio pubblico, può essere utile considerarla come la libertà per le persone di identificarsi e reidentificarsi collettivamente in cerchie di riconoscimento distinte e alternative fra loro nel tempo. La libertà democratica per eccellenza è la libertà delle persone di costituire e ricostituire cerchie di mutuo riconoscimento, religioso, politico, sociale, culturale, etico, selezionando fra un insieme di identità sociali possibili.

È propriamente questa pluralità delle cerchie di riconoscimento e di valore politico a generare quell’ingrediente essenziale di una democrazia che è il suo spazio pubblico. Il luogo in cui idee, credenze e convinzioni differenti e a volte inconciliabili si confrontano fra loro, mirando a ottenere adesione e consenso. Il luogo paradigmatico del parteggiare, del convertire e dell’associare, che presuppone il fatto del pluralismo e del disaccordo, che ho più volte definito quali caratteristiche essenziali per un processo politico democratico. Alessandro Pizzorno ha avanzato una illuminante proposta di indagine sulle trasformazioni dei regimi democratici e ha suggerito di guardare allo spazio pubblico come al «luogo dell’operare di uno Stato alternativo». Nel senso che lo spazio pubblico include funzioni alternative a quelle dello Stato e delle istituzioni. Ciò che si manifesta nello spazio pubblico sono le potenzialità alternative della società. In esso viene in luce ciò che in una società si rivela come ancora irriducibile, o difficilmente riducibile, all’ordine costituito. Lo spazio pubblico diventa allora qualcosa come il laboratorio della non conformità a norme date e della varietà delle identità sociali.

Lo spazio pubblico, potremmo dire, è il cantiere sempre in corso della diversità, delle alternative, degli esperimenti di vita e delle differenti mobilitazioni cognitive. Si può allora prospettare l’idea che lo spazio pubblico sia il luogo dove emergono e portano alla luce le loro disparità le forze potenziali di una società. In questo senso, possiamo dire, il luogo sociale, e non istituzionale, del pluralismo entro una forma di vita democratica. Uno spazio, sottoposto nel tempo a metamorfosi e cambiamenti, entro il quale si generano domande o pretese o aspettative che aprono, se le cose hanno successo, un varco per prospettive, esperimenti di vita e possibilità alternative.

Come ho sostenuto più volte, si tratta di una diversità intesa come carattere persistente, e non congiunturale della forma di vita democratica. Ma vorrei aggiungere: si tratta anche di una caratteristica che è il promemoria della congruenza fra democrazia e incompletezza, nel senso della rispondenza e della resilienza dei regimi democratici alla metamorfosi del paesaggio sociale. È nello spazio pubblico così inteso che si genera una varietà di versioni condivise entro alcune cerchie di riconoscimento, e non in altre fra loro differenti, dei fini di lungo termine della convivenza. E alla politica, nelle circostanze ordinarie, sarà ascritto il ruolo di rispondere con i suoi mezzi e i suoi provvedimenti al mutamento sociale, che è esemplificato dalle trasformazioni delle aspettative e delle identità collettive vecchie e nuove che rispondono, a loro volta, alla metamorfosi di interessi, ideali, bisogni e pretese confliggenti.

Ora, se il terminus a quo di una democrazia politica deve essere preservato nel tempo, è naturale chiedersi se mutamenti – economici, culturali, tecnologici, religiosi, sociali - non possano finire per distorcerne i fondamentali. Possiamo rispondere così: salvo che nei casi di perdita e regressione, che implicano l’alterazione dei vincoli propri del terminus a quo, regimi democratici mutati nel tempo dovranno soddisfare almeno la clausola della loro reidentificabilità sulla base di alcuni punti fissi. E tra i punti fissi possiamo indicare prioritariamente tanto l’esercizio della libertà democratica quanto lo spazio pubblico della controversia e della diversità. Lo spazio delle alternative come luogo dei possibili transiti o della possibile rispondenza fra politica e società democratica. Alternative politiche e sociali, in tensione, in interazione, in equilibrio instabile fra loro. Anche in tempi difficili, incerti e rischiosi. Soprattutto, in tempi difficili.

Segno dei tempi (storti) Il giornale colloca sul servizio l'occhiello "Allarme terrorismo"«Così le ong legate a governi stranieri donano decine di milioni di euro annui ai musulmani per costruire luoghi di culto nel nostro Paese Tra investimenti sospetti e la richiesta di un’intesa con lo Stato per accedere all’8 per mille». La Repubblica, 4 agosto2016

Un palazzone di quattro piani, nel popoloso quartiere di Centocelle a Roma, si prepara a ospitare oltre 800 fedeli. La struttura, un ex mobilificio di Stefano Gaggioli, è stata comprata per quattro milioni di euro dall’Unione delle comunità islamiche d’Italia (Ucoii), grazie a una donazione della Qatar Charity. «Ora aspettiamo altri finanziamenti per la ristrutturazione interna — spiega Izzedin Elzir, imam di Firenze e presidente dell’Ucoii — poi la più grande moschea della periferia di Roma sarà pronta per l’inaugurazione ». I musulmani di Centocelle non sono però i soli a dover ringraziare i milioni di riyal piovuti dal Qatar: oggi in Italia non si aprono moschee senza il flusso generoso di denaro dall’estero. Ma chi sono i principali finanziatori e a chi arrivano i soldi?

I milioni del Quatar

Quella di Centocelle è solo l’ultima delle moschee che l’Ucoii è pronta ad aprire in Italia, grazie ai soldi del Qatar. «In tre anni — conferma Elzir — abbiamo raccolto 25 milioni di euro di fondi grazie alla Qatar Charity. Sono serviti per costruire 43 moschee, tra cui quelle di Ravenna, Catania, Piacenza, Colle Val d’Elsa, Vicenza, Saronno, Mirandola».

Su quella di Bergamo, per la quale l’ong del Qatar ha staccato un assegno da 4 milioni e 980mila euro, la procura indaga per truffa aggravata in seguito a una denuncia della stessa Ucoii e i lavori sono fermi. Ma cos’è la Qatar Charity? Una ong (in verità connessa al fondo sovrano del Qatar) che raccoglie donazioni per interventi umanitari e, come si legge sul suo sito, per «preservare la cultura islamica, attraverso la costruzione di moschee, centri islamici e insegnando alle persone a recitare il Corano ». Il suo protagonismo è dimostrato da alcuni comunicati ufficiali del 2013: «La Qatar Charity sta realizzando un numero di progetti importanti in Sicilia con un investimento di circa 11 milioni di riyal (circa 2.355.430 euro)». Non solo. «La Qatar Charity si sta attivando per finanziare sette altri centri islamici con circa 17 milioni di riyal in alcune città italiane: Mazara del Vallo, Palermo, Modica, Barcellona, Donnalucata, Scicli e Vittoria».

«La Qatar Charity — sostiene Valentina Colombo, docente di cultura e geopolitica dell’islam all’università Europea di Roma — sembra avere il monopolio dei finanziamenti all’islam europeo ed è stata sospettata in passato di vicinanza con ambienti estremisti. La verità è che finanzia quasi esclusivamente la galassia della Fratellanza musulmana, portatrice di una visione conservatrice della religione ». Una cosa è certa, in Italia principale beneficiaria dei soldi qatarini è l’Ucoii. «Noi accettiamo donazioni da chiunque, solo se trasparenti e senza condizioni — chiarisce Elzir — ma se vogliamo davvero dire no ai finanziamenti stranieri, dobbiamo sottoscrivere un’intesa tra lo Stato e la fede musulmana, come previsto dall’articolo 8 della Costituzione. Per poi poter accedere all’8 per mille».

I petrodollari sauditi

«Altro grande finanziatore dell’Islam italiano è l’Arabia Saudita — racconta Maria Bombardieri, sociologa a Padova — a partire dagli investimenti sulla capitale». Un esempio? La Grande moschea di Roma, retta dal Centro islamico culturale d’Italia, che oggi si qualifica come polo dell’Islam “moderato”. Chi la sostiene? «La moschea — si legge in un rapporto interno del Viminale — ha solide relazioni diplomatiche con tutti i Paesi arabi e si regge su un “patto” che comprende sauditi (grandi finanziatori), marocchini (gestori sul piano amministrativo e politico) ed egiziani (su quello teologico, fornendo gli imam formatisi nell’università di Al Azar)».

Il regno dell’Arabia Saudita investe ufficialmente da anni nelle grandi moschee simbolo delle principali capitali europee. Mentre le ricche famiglie saudite finanziano centri più piccoli, tramite contatti informali con singole associazioni islamiche.

Il governo turco, tramite il ministero degli affari religiosi, sostiene invece il Ditib: organizzazione ufficiale dei musulmani turchi all’estero. In Italia hanno tre piccoli centri a Milano, Imperia e Reggio Emilia. Anche i ministri di culto arrivano da Istanbul, per periodi di tempo determinato.

Stessa politica seguita dal Marocco: fornisce imam e finanzia le sue comunità in Italia, tramite la tesoreria di Stato marocchina che ha una voce di spesa dedicata ai luoghi di culto. E la maggior parte dei musulmani d’Italia oggi proviene appunto dal Marocco (quasi 500mila). A rappresentarli c’è la Confederazione islamica italiana, benedetta da re Muhammad VI. Infine il Kuwait: in Italia non risultano grandi investimenti, molte invece le moschee in Germania costruite con i suoi soldi.

Tra collette ed elemosina

«La fonte principale di sostegno delle comunità musulmane restano però l’autofinanziamento e le collette tra i fedeli — precisa Bombardieri — anche perché l’elemosina è uno dei cinque pilastri dell’islam ». Così si finanziano le comunità senegalesi e bangladesi. «Anche la Coreis vive per ora di quote associative — spiega Yahya Pallavicini, vicepresidente della Comunità religiosa islamica italiana — per arrivare all’8 per mille ci vorrà prima un’intesa con lo Stato italiano e per questo è necessario che le associazioni musulmane presentino un bilancio delle proprie attività: solo così si potrà capire chi ha diritto di mettersi al tavolo».

Intanto Pallavicini ha presentato la sua proposta al Viminale: «Sul modello francese, costituiamo una fondazione per le opere di culto dell’Islam italiano, gestita da ministero e associazioni riconosciute, dove far confluire finanziamenti pubblici e stranieri alla luce del sole e senza rischi di condizionamenti ».

Ministri inviati per periodi di tempo determinato e sostegno alle comunità di riferimento: è questa la scelta di Turchia e Marocco. C’è poi il Kuwait: marginali per ora i contributi nella nostra penisola, sono molti invece gli edifici che ha aiutato a fondare in Germania Da anni l’Arabia Saudita investe nei grandi templi simbolo delle principali capitali europee. Come quella di Roma, che oggi si qualifica come polo moderato. Mentre le ricche famiglie del Regno foraggiano i centri più piccoli tramite contatti informali con singole associazioni

«I no della Curia fiorentina alla realizzazione di una grande moschea». Da un NO perentorio, dopo la svolta di papa Bergoglio, la Curia approda a un SI ipocrita che tortuosamente nega un diritto costituzionale. La Repubblica, ed. Firenze, 3 agosto 2016

Mai dire la verità, specie se è ovvia. Lunedì ho scritto che se Firenze non ha una moschea, non è per colpa del destino cinico e baro, ma a causa di una irresponsabile catena di ‘no’ che non è estinta, ma si è solo ipocritamente travestita da ‘sì’. Un ‘sì’ vanificato da troppe condizioni. Le risposte non si sono fatte attendere. Prima è arrivata quella della Curia, affidata al sito del settimanale diocesano «Toscana Oggi». Vi si legge che «non risulta in nessun modo che Betori abbia espresso preclusioni in questo senso».

A me, invece, risulta. Durante l’incontro con la stampa del dicembre 2010, l’arcivescovo disse testualmente: «Non si può pensare Firenze fuori dalle sue radici cristiane. Per fare il loro Duomo a Firenze i cattolici hanno atteso mille anni … La moschea mi piacerebbe che fosse l’esito di un cammino, e non il suo presupposto». La moschea come esito di un cammino lungo mille anni?

L’anno prima Betori aveva emesso un altro altolà: «I modi vanno misurati e verificati su proposte concrete che, a loro volta, devono tener conto anche dei connotati storici della città, piena di simboli cattolici. Dobbiamo essere aperti a altre presenze, ma rispettosi della nostra storia». Nel marzo del 2011, poi, la Nazione sintetizzava così il punto di vista di Betori: «No alla moschea, sì ai luoghi di culto».

E nella lunga intervista al vescovo si leggeva: «Che cosa dobbiamo assicurare? Un luogo di culto? Ma la moschea è soltanto un luogo di culto? … Bisogna essere chiari: la moschea non è solo uno spazio per la preghiera è anche un luogo di cultura, d’istruzione. Non si può equiparare a una chiesa. Ci sono risposte molto articolate: per venire incontro al bisogno religioso non ho bisogno di una moschea, ma di più luoghi di culto».

Poi qualcosa è cambiato: l’elezione di Francesco (marzo 2013) ha reso impresentabile questa linea palesemente ostile. Ma intanto si erano persi anni cruciali.

E a giudicare dal resto della nota di Toscana Oggi la virata è più di forma che di sostanza. Si continua, infatti, a scrivere che «non mancano spazi nella città dignitosi e adeguati per un centro religioso che non può ridursi a un grande ambiente, ma richiede spazi articolati e che siano integrabili con il resto del territorio » (tradotto: no a una grande moschea). E si aggiunge che donare una chiesa sconsacrata alla comunità islamica «suonerebbe come una rinuncia del cattolicesimo alla propria stessa identità ».

Ebbene, da cristiano trovo questa posizione incomprensibile: perché l’unica identità cristiana è l’amore senza condizioni. Così come trovo inaccettabile che un pastore si nasconda dietro una cortina ipocrita di parole: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Matteo 5, 37).

La posizione della Curia non è meno sconcertante dal punto di vista della Costituzione. La nota di
Toscana Oggi condiziona infatti la realizzazione della moschea ad «una chiara adesione di tutte le comunità religiose presenti nel Paese ai principi concernenti la persona e la società codificati nella Costituzione italiana». In perfetta sintonia l’editoriale di ieri di Paolo Ermini sul Corriere Fiorentino: la moschea si potrà fare solo quando la città «la considererà un arricchimento, non un pericolo», e solo «a condizione che i musulmani che vivono e lavorano in mezzo a noi sottoscrivano il patto di lealtà con i nostri principi costituzionali». Una posizione più da Libero che da Corriere della Sera: coerentemente accompagnata dalla censura di Ermini a papa Francesco, accusato di «confondere». Quel che Betori ed Ermini non comprendono è che la Costituzione che credono di difendere riconosce ai cittadini italiani di fede islamica diritti che non possono essere sottoposti ad alcuna condizione.

Un terzo dei compagni di classe dei miei figli sono italiani musulmani dall’accento fiorentino: e nessuno ha il diritto di chieder loro alcunché. Esattamente come nessuno avrebbe avuto il diritto di chiedere alcunché ai cattolici ai tempi del terrorismo nord irlandese. Senza dire che un fantomatico esame costituzionale boccerebbe senza appello molti prelati cattolici (si pensi alla condizione femminile). Solo uno spaventato provincialismo travestito da difesa identitaria può continuare a confondere Islam e terrorismo. Ma il futuro di Firenze guarda altrove.

«A Baratti è costruita con sei blocchi in legno secondo una pianta stellare che ricorda un alveare». La Repubblica, 30 luglio 2016 (p.d.)

«Era una notte buia e tempestosa». L’incipit tanto caro a Snoopy (ma anche a Umberto Eco) è perfetto per raccontare come nacque la Casa Esagono: un monumento moderno che sembra il futuro e la gentilezza fatti geometria abitabile nel bosco, a pochi metri dal bagnasciuga di Baratti.

In una sera dei primi anni Cinquanta due ragazzi fiorentini (Alessandro Olsckhi e Vittorio Giorgini) escono in mare, salpando da Marina di Cecina: ma improvvisamente il tempo gira, e una vera e propria tempesta impedisce loro di rientrare. Così, cercando affannosamente un’insenatura per passare la notte in barca, gettano l’ancora nel Golfo di Baratti. All’alba del giorno dopo il sole non svela solo che il pericolo è passato, ma rivela anche la bellezza mozzafiato di quel tratto incantato di Toscana: la linea di costa gentile come quella di un lago di montagna, l’acropoli di Populonia che si staglia contro il cielo, la necropoli etrusca che degrada, in un verde dolcissimo, fino al mare.

Rientrato a Firenze, Vittorio racconta la storia al suo babbo: che è nientemeno che Giovambattista Giorgini, il grande regista del lancio mondiale della moda italiana. Questi si ricorda di aver comprato molto tempo prima - destino! - dei terreni proprio lì, a Baratti. Così Vittorio, nello stesso anno in cui si laurea in architettura, decide di usarli per costruire il suo primo edificio: la casa di vacanza che ogni bambino sognerebbe.

Ed è così che nasce Casa Esagono (1957). Essa è composta da sei esagoni di legno, disposti secondo una pianta stellare che ricorda molto da vicino la geometria di un alveare. Sei pilastri di legno, che poggiano su basi di cemento armato, sorreggono la struttura: che dunque si libra nell’aria, come una palafitta o un capanno da pescatore, mangiando meno suolo possibile e integrandosi perfettamente con il paesaggio. In origine, un perlinato chiaro rendeva la casa ancora più osmotica con i valori tonali del bosco: ma questo senso di comunione organica, di compenetrazione pacifica con la natura è comunque ancora fortissimo.

Sebbene non avesse né corrente elettrica né acqua potabile la casa era il teatro di appassionanti vacanze estive, durante le quali Giorgini e la sua famiglia accoglievano ospiti anche illustri, come Robert Sebastian Matta, Emilio Villa o Isamu Noguchi, Emilio Vedova o Corrado Cagli. Quell’architettura naturale era la cornice perfetta di una vita semplice: una vita che aveva come naturale compagna di strada un’arte intesa come conoscenza pacifica della realtà.

Pochi anni dopo un industriale tessile di Como, Salvatore Saldarini, acquistò il terreno confinante, e incaricò il suo geniale vicino di costruirgli una casa non meno originale. Grazie alla tollerante fiducia di quel committente (che ormai era anche un compagno di vacanze, interlocutore di interminabili serate e generose bevute), Giorgini inventò quella che chiamò una «membrana isoelastica», cioè una rete metallica plasmata con una forma vagamente organica, che veniva poi rivestita di cemento a presa lenta, diventando autoportante. Dopo averla provata in alcune sculture ancora visibili nel giardino di Casa Esagono, Giorgini la utilizzò per creare Casa Saldarini: una architettura-scultura che sembra un incrocio tra una creatura di Gaudì, le fantasie più sperticate di Le Corbusier e la casa dei Barbapapà, fantasia bioarchitettonica cara ai bambini di ogni generazione.

Questa coppia di singolarissimi edifici daranno in qualche modo l’imprinting a tutta la ricerca che l’architetto Giorgini portò poi avanti soprattutto negli Stati Uniti, dove visse e insegnò a lungo. Quella ricerca, infatti, si può interamente ricondurre al desiderio di costruire senza lacerare il perfetto equilibrio del paesaggio: a partire proprio dal paradiso naturale che aveva incantato il giovane architetto in quella famosa alba dopo la tempesta.

Oggi l’eredità culturale di Giorgini (scomparso nel 2010) è esemplarmente custodita dall’associazione B.A.CO (Baratti Architettura e Arte Contemporanea) - Archivio Vittorio Giorgini, nata per «contribuire all’affermazione di una cultura diffusa del nuovo paradigma dello Sviluppo Sostenibile. Progettare sostenibile è il partire e il condividere una logica di sistema, in cui gli elementi fondanti del progetto sono il pensiero scientifico, la cultura del rispetto del territorio, delle sue risorse, del valore delle relazioni sociali, della sua storia».

Grazie al suo vulcanico presidente (l’architetto Marco Del Francia, collaboratore ed erede morale e culturale di Giorgini), l’associazione B.A.CO ha stretto una sinergia con il Parco Archeologico di Baratti e Populonia e con la Società Parchi della Val di Cornia, riuscendo a riscattare Casa Esagono (che appartiene al Comune di Piombino) da un lungo degrado. Così, mentre Casa Saldarini è ancora privata (e abitata), Casa Esagono è dunque oggi finalmente visitabile.

Salire la scaletta che porta nel suo ventre geometrico serve a comprendere che l’architettura può essere ancora, e nonostante tutto, la continuazione della natura con altri mezzi. Una lezione antica, mai tanto urgente quanto oggi: l’inaspettata scoperta di una stagione di bagni in Toscana.

«La Corte Ue boccia la proroga delle concessioni balneari in Italia. Diritto europeo contrario al rinnovo senza gare». Altraeconomia, 17 luglio 2016 (c.m.c)

A fine aprile l’Agenzia nazionale del turismo (ENIT) ha lanciato su Twitter l’hashtag #WilkommeninItalien (Benvenuti in Italia): è una campagna di comunicazione rivolta ai turisti tedeschi (10,8 milioni di presenze nel 2015), con l’obiettivo di portarli -anche nell’estate 2016- sulle spiagge italiane: una distesa lunga oltre 3mila chilometri di sabbia e ghiaia (sui circa 8mila trecento della linea di costa), su cui insistono lidi attrezzati, chioschi, bar, ristoranti.

Sono circa 30mila le concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa: in cambio di un canone versato allo Stato, i titolari hanno l’obbligo di curare la pulizia del litorale, e affittano ombrelloni, sdraio e lettini, offrendo -spesso- servizi aggiuntivi, come cabine o attività di ristorazione, e assicurando un servizio di guardiania, con la presenza di bagnini. Anche se operano sulla terraferma, le norme più importanti che regolano il loro rapporto con lo Stato sono contenute nel Codice della navigazione: è un testo approvato con Regio decreto nel 1942, quasi 75 anni fa, e oggi si scontra con la legislazione europea, in particolare quella della Direttiva CE 123 del dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno.

Secondo la cosiddetta Direttiva Bolkestein (che prende il nome dall’ex commissario europeo olandese, Frederik) fanno parte di questo mercato anche i servizi legati al settore turistico, e quindi anche le modalità di affidamento delle spiagge: le concessioni devono avere una scadenza, ed essere contendibili.

In questi dieci anni l’Italia avrebbe dovuto prevedere meccanismi ad evidenza pubblica per assegnarle, ma non lo ha ancora fatto, creando una situazione che è “nebbiosa”, come racconta Stefano Gazzoli, presidente di Fiba Confesercenti Toscana Nord, uno dei sindacati dei balneari: «Quattro successivi governi non hanno voluto affrontare un problema, e hanno evitato di andare a confrontarsi con l’Europa come invece hanno fatto altri Paesi».

Oggi i balneari italiani tengono aperti i lidi grazie a una proroga delle concessioni al 2020 (che è stata dichiarata illegittima dalla Corte di giustizia dell’Unione europea il 14 luglio 2016). «I media hanno affrontato la questione portando all’attenzione del pubblico un solo tema, quello delle ‘aste’, e sottolineando come i canoni di concessione che paghiamo siano troppo bassi (nel 2015 variavano tra 1,29 euro/m2 all’anno per le aree scoperte a 5,73 euro/m2 per quelle occupate da strutture di difficile rimozione, ndr), ma non che in questi anni abbiamo bussato alle porte del governo chiedendo di adeguare, cioè innalzare, i canoni, senza trovare ascolto».

Al ministero del Turismo c’era Michele Vittoria Brambilla. Tra i gestori di beni pubblici in concessione -categoria cui appartengono i ricchissimi signori delle autostrade, i cavatori, chi imbottiglia acque minerali e chi estrae petrolio «a tempo indeterminato»- nessun altro ha mai chiesto di pagare di più.

Per comprendere la vera posta in gioco, dobbiamo tornare al Codice della navigazione: nel 2009 il governo ha abrogato il secondo comma dell’articolo 37, quello che stabiliva un «diritto di insistenza» in sede di rinnovo della concessioni.

«Quando nel 2000 ho acquistato il ‘Bagno Oliviero’, a Marina di Massa, ho fatto un investimento pensando anche ai miei figli -racconta Matteo Campatelli, segretario dell’Associazione Riviera Apuana-: immaginavo che avrebbero potuto ereditare la concessione e il bagno». Con la fine del «diritto d’insistenza» (così lo definisce Gazzoli), il tacito rinnovo della concessione -oggi avviene ogni 6 anni- è però diventato un miraggio. Che si trasforma in un problema macroscopico leggendo l’articolo 49 del Codice della navigazione: alla fine di una concessione, «le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso».

«È una norma fuori dai tempi, e in pratica ci dice che le nostre aziende hanno valore pari a zero» sottolinea Gazzoli, secondo cui il 90 per cento degli operatori del settore è rappresentato da società di persone o srl a carattere familiare. Quanto disposto dal Codice -spiega- «contraddice tra l’altro le valutazioni dell’Agenzia delle entrate, che per calcolare il prezzo di mano uno stabilimento balneare, quando c’è da formare un atto di compravendita valuta tre fattori: la struttura, le attrezzature e l’avviamento, ovvero i clienti e la storia del lido».

Ma i paradossi sono anche altri, e Gazzoli può spiegarli a partire dalla sua storia: «Nel 2006 ho acquistato uno stabilimento balneare (è il Bagno Sara, in località Poveromo, a Massa, ndr) e l’anno successivo ho acceso un mutuo da 600mila euro per la ristrutturazione». Le banche hanno concesso un prestito per 25 anni, «e acceso un’ipoteca sullo stabilimento balneare, ma oggi io non so se sarò ancora qui nel 2032». Tra gli interventi realizzati c’è, tra l’altro, un impianto fotovoltaico da 20 kW, che garantisce al Bagno Sara la totale autonomia energetica: «Il contratto con il GSE (Gestore servizi energetici, ndr) per la fornitura di energia rinnovabile m’impone di restare ‘collegato’ alla rete per almeno 20 anni, e cioè fino al 2028, mentre il Codice della navigazione in caso di mancato rinnovo della concessione mi obbligherebbe a smontarlo, e portarlo via».

380 gestori di stabilimenti balneari toscani hanno avviato un procedimento giudiziario con l’obiettivo di far dichiarare l’incostituzionalità dell’articolo 49 del Codice della navigazione, che «rappresenta di fatto un esproprio» sottolinea Gazzoli. Lo hanno fatto con un Atto di citazione -presso il Tribunale di Firenze-, al quale hanno allegato perizie sul valore aziendale di una ventina di lidi, redatte da tecnici indipendenti: «Il 24 marzo c’è stata una prima udienza, e in novembre dovrebbe essere fissato un confronto con la Corte costituzionale -spiega Stefano Gazzoli-. Le perizie ci dicono che le nostre ‘aziende’ valgono tra i 500mila e i 2 milioni di euro».

Di fronte all’Atto di citazione, la Regione Toscana ha fatto «un passo verso di noi», sottolinea Gazzoli: il Consiglio ha approvato a inizio maggio una nuova legge (la numero 31 del 2016) sulle concessioni demaniali marittime, che riconosce un valore d’indennizzo pari al 90% a favore dell’eventuale gestore uscente.

«È un messaggio al governo» riconosce Gazzoli, che ricorda quale sia la contropartita richiesta dalla Regione Toscana ai balneari, e che il presidente di Confesercenti Toscana Nord condivide: «Viene vietato il subaffitto della concessione: abbiamo l’obbligo di gestirla in proprio. Lo trovo corretto».

In tutta Italia oggi l’affitto è concesso, come spiega l’architetto Corinna Artom, responsabile del settore Demanio marittimo della Regione Liguria, anche se rappresenta una “distorsione”. Fino agli anni Novanta -spiega Artom- «si potevano affittare solo le attività accessorie, come la gestione del bar, mentre il concessionario doveva svolgere l’attività principale». Per dipanare tutti i fili di questa matassa servirebbe, intanto, chiarezza. Il primo passo potrebbe essere un censimento che definisca quante siano le concessioni in essere, quale la superficie media, quanti i subaffitti. «Il sistema informativo delle aree demaniali, gestito dal ministero delle Infrastrutture, non è a regime» racconta Artom. La Regione Liguria coordina il tavolo tecnico della Conferenza delle Regioni sul demanio marittimo, quello che dialoga con il governo in vista dell’approvazione del decreto: «Si è d’accordo sull’esigenza di tutelare i concessionari esistenti», mentre l’esecutivo pare intenzionato a mettere all’asta i rinnovi.

A marzo 2016 la senatrice Manuela Granaiola (eletta a Viareggio) ha presentato un disegno di legge sul demanio marittimo -il cui iter non è nemmeno iniziato in Commissione-, che introdurrebbe nell’ordinamento alcuni elementi “qualitativi” per valutare il comportamento dei balneari, commisurando la durata massima della concessione al rispetto di criteri ambientali e paesaggistici e alla regolarità contributiva e assicurativa del personale. Meccanismi di «premialità ambientale», ragione Sebastiano Venneri, vicepresidente nazionale di Legambiente, che sono «fondamentali nella gestione di un territorio delicatissimo come il litorale italiano: ogni concessione dovrebbe prevedere vincoli ambientali e controlli severi. Eventuali abusi, potrebbero essere puniti con la revoca».

Legambiente Turismo, insieme all’associazione Donnedamare (donnedamare.it), promuove il progetto Lidi sostenibili. «È figlio del nostro manifesto» spiega Beatrice Bolla, una delle 50 Donnedamare, che gestisce i Bagni Mafalda Royal a Varazze (SV). Nel loro decalogo si legge: «I balneari sono le sentinelle del rispetto dell’ambiente delle riviere».

A Castiglion della Pescaia un nuovo giardino che è una molteplice esperienza didattica. Una ricreazione che avvicina alla natura, e insieme ri-crea: conferisce nuova vita agli "scarti" di vite precedenti. La Repubblica, 16 luglio 2016

«Se non tornerete come bambini, non entrerete nel paradiso», cioè nel giardino di Dio. È questa frase del Vangelo di Matteo a martellare la fantasia camminando, in stato di grazia, nel “Viaggio di ritorno”: che è uno spettacolare parco di sculture contemporanee nel sud della Toscana. Il ritorno annunciato dal titolo, infatti, è un ritorno alla comunione infantile con la natura e con l’umanità: e il giardino è capace di infondere una serenità da oasi, appunto, paradisiaca.

Tutto comincia nel 2002, quando Rodolfo Laquaniti — bioarchitetto nato in Calabria, e laureatosi a Firenze, dove si manteneva facendo il modello per le sfilate di Pitti — lascia la città per ristrutturare un casale, nella Maremma di Castiglion della Pescaia. Qui, guardando alla tradizione tosco-romana che porta dal cinquecentesco Parco dei Mostri di Bomarzo al Giardino dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle a Capalbio, Laquaniti decide di far nascere un giardino di statue. Ma non lo fa acquistando i materiali nobili della tradizione italiana, ma andando in cerca degli scarti industriali, raccogliendo i rifiuti che ingombrano e lordano il nostro paesaggio: dalle lamiere alle bottiglie di vetro, dai vestiti ai tubi futuribili piovuti dai caccia militari che decollano dalla vicina base di Grosseto.

Seguendo le regole della bio-architettura — e dunque disposti secondo i punti cardinali, in comunione con la luce e con i venti — , i rifiuti si sono trasformati in grandi e piccole installazioni: la monumentale Balena che incanta i bambini, e che promette di restituirci migliori (come Giona, o Pinocchio) al mare della vita; la Sfera luminosa, alta otto metri, i cui vetri di fonderia si illuminano magicamente al tramonto; l’Arca dei migranti, che fa capire che questo paradiso non è una fuga dalla realtà, ma un luogo dove attingere la forza per cambiare il mondo. E poi una vera rivelazione: dentro un capannone sfilano in silenzio cento figure umanoidi, un esercito di mutanti costruiti di immondizia e guidati da un cavaliere solenne e inquietante. Una schiera imprevedibilmente bella: che ricorda quella degli armati medievali del Museo Stibbert a Firenze, se solo si potesse ibridarla con la fauna intergalattica del bar di Guerre Stellari.

Laquaniti non è l’unico artista che trasforma i rifiuti in arte. Il più famoso è forse Vik Muniz, il cui straordinario lavoro nelle discariche brasiliane è stato raccontato al mondo dallo struggente Waste Land (2010). E fa una certa impressione ricordare che al centro di quel film c’è l’enorme, infernale immondezzaio di Jardim Gramacho, nello stato di Rio de Janeiro, poi chiuso nel 2012. Lì un sobborgo che si chiamava Jardim, cioè giardino, e che era dotato di una preziosa zona umida, era stato trasformato in una delle discariche più grandi del mondo: simmetricamente, nel “Viaggio di ritorno” italiano i rifiuti si trasformano in un giardino incantato.

Tuttavia, quando Laquaniti parla delle sue opere non parla mai di rifiuti, ma di «scarti»: e guarda questi materiali con lo sguardo amoroso di chi ha raccolto un trovatello, di chi ha saputo scoprire il genio negli occhi di un incompreso. È lo stesso linguaggio di colui che potrebbe essere il più appassionato visitatore del giardino maremmano: papa Francesco, che ha fatto della riflessione sugli «scarti» e sugli «scartati» dalla società un perno della sua predicazione. Tanto da volere, negli aulici Giardini Vaticani, le sculture di Alejandro Marmo, un artista di Buenos Aires che è stato scartato lui stesso (finendo tra quelli che il papa chiama i giovani «né né», quelli che né studiano né lavorano), e che si è riscattato trasformando in opere d’arte gli scarti industriali che raccoglieva nelle baraccopoli argentine dove incontrò l’allora arcivescovo Jorge Maria Bergoglio, il quale aveva già bene in mente che «la pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra angolare» (secondo la profezia cristologica del Salmo 117).

Per realizzare il suo giardino, Laquaniti ha lasciato Firenze, che è ormai la capitale mondiale di un’arte ridotta a lusso. Un’arte in vendita, che celebra l’onnipotenza del mercato e il culto del denaro. Remotissima da tutto questo è la frase che Bergoglio disse a Marmo: «Tu hai un dono di Dio, abbine cura e non venderti». Perché — e ora è il papa che scrive — «il ruolo dell’artista è contrastare la cultura dello scarto», e denunciare «la sporcizia più brutta: il dio denaro ».

Conoscere il giardino del “Viaggio di ritorno” significa comprendere tutto questo: perché esiste anche un’altra arte, un’arte che serve a tornare. A tornare umani.

«Reclusione, formazione, coscienza. Altro che spostare i penitenziari dal centro alla periferia. È importante che il carcere sia una presenza visibile nella città, per incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte». Il manifesto 8 giugno 2016 (m.p.r.)

«Vendere San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale in cambio di penitenziari nuovi»; «Il piano carceri: via dai centri storici. Le nuove prigioni solo in periferia»; «Carceri, è polemica. L’operazione vendita non convince tutti». Sono i titoli di la Repubblica del 27 e 28 maggio 2016, mentre il dibattito-convegno tra funzionari e operatori della giustizia insieme a magistrati, avvocati e docenti universitari riguardo ai «cambiamenti nell’area penale per le professioni sociali», tenutosi il 27 maggio presso l’Università di Milano-Bicocca, pone l’accento sulle misure alternative al carcere come antidoto alla recidiva e sui rapporti sempre più stretti che il carcere deve avere con il territorio. Al tempo stesso l’iniziativa del Ministro della Giustizia di dare avvio, nel maggio del 2015, agli «Stati Generali dell’esecuzione penale» ha portato alla costituzione di 18 tavoli tematici a cui hanno partecipato operatori, studiosi e volontari del settore come anche detenuti, per la definizione di «un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto».

Nell’aprile di questo anno il Comitato degli esperti, che ha coordinato a livello nazionale i tavoli tematici, ha presentato e discusso a Rebibbia il documento finale degli Stati Generali, constatando che «il problema dell’esecuzione penale è un problema culturale, prima ancora che normativo» e facendo capire «come sia socialmente ottusa, oltreché costituzionalmente inaccettabile, l’idea che il carcere sia una sorta di buio caveau, in cui gettare e richiudere monete che non hanno più corso legale nella società sana e produttiva». Un percorso dunque attraverso il quale «la società offre un’opportunità ed una speranza alle persone» e dà a se stessa «un’opportunità ed una speranza di diventare migliore».

Affermazioni queste di civiltà giuridica e sociale al tempo stesso, ma che sono in contraddizione con quanto la stampa nazionale mette in luce, riferendosi alla vendita delle carceri situate nei centri storici e soprattutto alla costruzione di nuovi penitenziari nelle periferie. Se la politica dell’esecuzione penale va verso la prospettiva del ridimensionamento delle misure detentive e di un allargamento di quelle «di comunità» e gli operatori tutti ritengono di grande utilità il lavoro di rete sul territorio per la riduzione della recidiva e la progressiva inclusione sociale delle persone detenute, eliminare le carceri dal centro e costruirle in periferia assume il valore simbolico di un disegno che intende, come afferma Luigi Manconi, rimuovere il male, che si pensa essere dentro il carcere, nascondendolo allo sguardo dei cittadini.

È comunque la risposta che si ritrova nelle città di tutti i paesi dove poveri, bambini di strada e persone marginali devono essere nascosti agli occhi del mondo in nome del decoro. Così la società, pur essendoci totalmente immersa, nega la violenza e cerca di allontanarla da sé, nascondendo la propria parte negativa nell’idea di esorcizzarla, ma questa, se non accolta e riconosciuta, ritorna più potente che mai e prende il sopravvento. Si deve allora guardare al carcere come al luogo dove, in certe circostanze e attraverso dolorose esperienze, fare i conti con la propria ombra apre la strada per addentrarsi nei sotterranei dell’anima o del nostro lupo interiore verso un ulteriore percorso, lungo e faticoso, di conoscenza di sé che porta al riconoscimento dei nostri demoni ed alla ricomposizione ad unità delle nostre parti scisse in un gioco di luci e ombre come anche in un andare e venire tra dentro la galera e fuori nella comunità.

Per dare parola alle tante voci della galera, attraverso le quali la città può forse avere l’idea che i delinquenti sono in realtà persone come noi, vorrei dire della mia esperienza pluriennale di docente che tiene corsi universitari in carcere parlando di mediazione con se stessi, di maschera, di ombra e di doppio. Con la firma dell’accordo tra l’Università degli studi di Milano-Bicocca e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia la formazione in carcere assume una rilevanza istituzionale che dà la possibilità di sviluppare attività di ricerca, culturali e didattiche presso alcuni Istituti penitenziari lombardi e presso l’ufficio di esecuzione penale esterna di Milano e dello stesso provveditorato. La convenzione è rivolta a tutto il personale degli istituti penitenziari, alle persone detenute, ai docenti e agli studenti dell’ateneo, con la possibilità di organizzare in carcere corsi, stage, tirocini e laboratori.

Così una mattina entro in carcere con il gruppo di studenti frequentanti e incontriamo il gruppo di detenuti che intendono seguire le lezioni. Si lavora sul conflitto e sulla mediazione con se stessi che significa fare i conti con il nostro doppio, ma anche con la molteplicità delle nostre identità e con le proiezioni delle nostre ombre. Il corso evidenzia come le storie dei partecipanti si intrecciano quasi a sovrapporsi le une alle altre in un altalenarsi tra singoli e gruppi, tra coscienza individuale e coscienza collettiva, come due sguardi differenti che si confrontano. Alla fine del corso la valutazione degli elaborati e la presentazione degli stessi nella forma di una rappresentazione teatrale. Questo corso ha poi dato luogo alla scrittura collettiva, detenuti e studenti, di un libro dal titolo università@carcere. Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono.

Ci si deve sempre ricordare che per andare oltre la sofferenza è necessario incontrarla nella sua dimensione tragica e certamente il carcere è tragedia e le storie narrate nel libro ne sono una viva testimonianza. È necessario, d’altra parte, indicare una via lungo la quale i sentimenti messi a nudo e violati trovano un luogo di mediazione per potersi esprimere e per potere dare e prendere la parola. È quindi importante che il carcere sia una presenza molto visibile nella città per potere incontrare le nostre maschere e quelle degli altri o, in altri termini, incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte.

Si deve quindi investire non in mura o allontanando il carcere dallo sguardo dei più, ma in formazione e lavoro come in attività ludiche per tutti, sia verso la persona detenuta sia verso chi, a vario titolo, lavora nel carcere e nella comunità.

«Roma.Il futuro delle carceri. Mauro Palma, garante dei detenuti interviene nel dibattito». La Repubblica, 30 maggio 2016 (c.m.c.)

«Lei mi chiede se è giusto trasferire le carceri dai centri cittadini alle periferie, come ipotizza il piano del governo. E io le rispondo che prima bisogna chiarire un punto: cosa intendiamo quando parliamo di periferia?».

Cosa intendiamo, professor Mauro Palma? Lo spieghi lei, Garante dei detenuti.
«Le faccio un esempio che non c’entra con il carcere: a Roma c’è il Corviale. Lo progettarono bravi architetti, prevedendo che il terzo piano degli edifici fosse dedicato ai servizi. Andò diversamente, con strutture a una tale distanza dal contesto urbano che persero la loro funzione. Lo spazio non è qualcosa a sé, conta il territorio nel quale collocarlo».

Cosa conta per un carcere in periferia?
«Se quello spazio è concettualmente e strutturalmente vicino al resto del contesto urbano. Pensi a Poggioreale: è al centro, ma è collegato a Napoli peggio di Secondigliano, che invece si trova in periferia. Se mancano i collegamenti, la socialità e l’urbanizzazione dei luoghi, allora non funziona».

Quindi non boccia a priori il piano?

«Il punto è che esistono due strade. La prima è migliorare il patrimonio edilizio esistente. Ci sono direttori di carceri che fanno i salti mortali, in spazi anche piccoli. Oppure si può ragionare partendo da quale esecuzione penale vogliamo».

E dove porta questa strada?

«Si decide di organizzare lo spazio in funzione di un modello che punti a una riduzione della recidiva e a reintegrare i detenuti nel sistema, per una pena non solo afflittiva».

In questo caso come si riorganizzano gli spazi? Faccia qualche esempio.
«Carceri con un lungo corridoio centrale non rispondono a questo modello: così non si risocializzano le persone. Riorganizzerei lo spazio abolendo il concetto di mura di cinta: intorno uffici e servizi, al centro le strutture detentive, in piena sicurezza. Con unità più piccole, aggregate: massimo dieci detenuti, con cucina comune, per favorire la socialità. Vede, questo a Regina Coeli non si può fare».

Immaginiamo che le carceri dei centri storici diventino centri commerciali.
«Mi preoccuperei se lo diventasse Regina Coeli. I luoghi portano una memoria, trasmettono un significato. Questo non significa cedere alla musealizzazione. Ma una volta a Copenaghen ho dormito in un vecchio carcere trasformato in hotel: ho avvertito fastidio».

E allora come li immagina?
«Con una funzione sociale: una parte dedicata all’accoglienza, un’altra riadattata per forme di custodia come la semilibertà».

Se il carcere sparisce dalla vista, si rischia di rimuove l’idea stessa del male?
«Sì, però non accade solo in periferia. Pensi al campo migranti vicino alla stazione Tiburtina. Era al centro, eppure il “rimosso” c’era».

Per concludere: l’importante è che la scelta non sia tra celle sovraffollate al centro e nuove asettiche “cattedrali nel deserto”?
«Esatto. Tra l’altro dico sempre che forse è meglio sentire il rumore dei chiavistelli che non sentire niente, come accade in alcune carceri “tecnologiche” europee. Mi spavento quando sparisce ogni traccia di relazione».

«Il regista vincitore con il fratello dell’Orso d’Oro con un docu-film ambientato in carcere parla del progetto di vendere la prigione romana: “Viverci è impossibile però farne un uso commerciale rappresenterebbe un insulto a chi lì dentro ha sofferto tanto”» Intervista diArianna Finos. La Repubblica, 30 maggio 2016 con postilla

Togliete le carceri dai centri storici, ma non trasformatele in alberghi e centri commerciali». Vittorio ePaolo Taviani, registi, sono in sintonia con il piano del governo, anticipato ieri da Repubblica, che prevede l’abbandono delle strutture storiche di Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale a favore di nuovi penitenziari nelle periferie di Roma, Milano e Napoli, ma a patto che «gli spazi siano destinati al servizio pubblico dei cittadini». Da sempre attivi nelle prigioni, i Taviani hanno vinto l’Orso d’oro alla Berlinale nel 2012 con Cesare deve morire, docu-film sulla messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia.

Vittorio, 86 anni, si è appena ripreso dall’incidente dello scorso ottobre, quando fu investito a un’auto in piazza Venezia. E dice: «Per noi di famiglia, parlo anche per mio fratello Paolo, e per il quartiere il carcere di Regina Coeli fa parte dell’orizzonte dei nostri sentimenti. Da cinquant’anni anni conviviamo con quello che ci arriva da là.

Le famose grida romantiche dall’alto del Gianicolo e dalle sbarre, messaggi d’amore e di sostegno. Può capitare, e questo è terribile, che di notte improvvisamente arrivi una voce singola, disperata: “Qui non posso vivere”. Quando c’è una partita dell’Italia, non abbiamo bisogno di accendere la televisione. Se va bene o va male lo sentiamo dalle grida di orrore o gioia che arrivano da lì dentro».

Diverse sono le condizioni di chi è recluso.
«Lo sappiamo bene. Con “Cesare…” io e Paolo abbiamo vissuto un’esperienza a Rebibbia, che è un carcere buono ma con problemi di sovraffollamento. Ci capitava, prima o durante le riprese, di camminare per questi lunghi corridoi e vedere attraverso le porte semiaperte uomini vecchi e giovani distesi sui letti a castello. Immersi, per ore, in un silenzio di morte. Uno di loro mi disse: “Non mi deve chiamare detenuto, mi chiami il guardatore di soffitti”. In questo senso, in quei luoghi, c’è un nulla che distrugge l’energia della vita. Regina Coeli è molto peggio. Perché almeno il carcere di Rebibbia è stato costruito in modo razionale, nella prigione di Trastevere ho visto celle fatiscenti.

Credo che sia venuto il momento che Regina Coeli scompaia, accompagnato, lo dico, dal dolore di tutti noi che viviamo in questo quartiere. È un pezzo della storia di Roma che si fonde con i rumori della città che gli è intorno. Si perderà tutto, ma ben venga se avverrà a favore di un luogo in campagna, con costruzioni innovative progettate da architetti, sociologi e psicologi affinché si trovi il modo per trasformare la pena in un cammino di riscatto. Vivere là dentro è una condizione inconcepibile per un essere umano. Allora, addio Regina Coeli».

Tra le conseguenze più gravi dell’inadeguatezza delle strutture c’è l’immobilismo dei detenuti.
«Quando i nostri carcerati, attori, uscivano dalle loro celle e venivano per alcune ore da noi, dicevano: “Oggi siamo liberi, ci sentiamo persone. Appena torniamo su, perdiamo l’individualità degli uomini, l’energia della vita”. Ci ha sconvolto il loro dover vivere senza un progetto. Alcuni meravigliosi disperati studiavano, prendevano lauree e diplomi, agganciandosi a qualcosa da costruire».

Con i detenuti del vostro film avete mantenuto un contatto?
«Con i nostri attori abbiamo stabilito un rapporto che oggi, quattro anni dopo il film, è d’amore. Li sento fratelli, vorrei baciarli. Lo scorso marzo ho partecipato a una gara di retorica. Ma questo non cancella l’odio per quel che hanno fatto. Io e Paolo rimaniamo in questa contraddizione.

Ci hanno raccontato cose terribili: “Io ho tre orfani sulla coscienza”, “io ne ho ammazzati venti”. Prima li rifiuti, poi lavorando con loro li vedi tirar fuori il dolore che hanno dentro, senza pudori. Uno ha scritto alla moglie: “Vieni a vedermi quando recito perché mentre recito posso perdonarmi”. Il ricordo più bello è la foto che ciascuno di loro ha voluto fare, al centro, tra me e Paolo, con l’Orso d’oro in mano».

Il carcere è anche luogo di reclutamento per l’estremismo jihadista.

«Questo terribile, spaventoso fanatismo islamico trova proseliti tra chi è in carcere. Se fossi un detenuto penserei: “Sì, ho questa colpa, ma è più grave la violenza che mi fa questo Stato, la tortura che mi infligge giorno e notte”. E qualcuno pensa che sia giusto ribellarsi. E Il carcere diventa scuola di sopraffazione. Ha presente che significa essere stipato in una camerata che dovrebbe essere per tre e invece ci si sta in sette? Un costringimento della mente e del corpo».

Come dovrebbero essere utilizzati gli edifici storici?

«Quando arrivammo qui, mezzo secolo fa, ci dissero che il carcere sarebbe diventato una grande biblioteca nazionale. Una biblioteca, un museo. Queste sono le trasformazioni possibili per una struttura nel cuore della città. Non può diventare un grand hotel, un ipermercato. La nuova destinazione deve diventare un omaggio a chi in quel carcere molto ha sofferto. Un destino commerciale per Regina Coeli mi farebbe orrore e il mio quartiere protesterebbe con tutte le forze».

postilla

Vittorio Taviani ha perfettamente ragione nel merito. Ma si illude se pensa che chi ha avuto la grande idea di "valorizzare" le carceri nei centri storici sia ansioso di individuare e promuovere l'utilizzazione più adeguata alle qualità intrinseche (culturali, artistiche, storiche) di quei manufatti. Così come si illudono quanti credono che padroni del governo in carica e Cassa depositi e prestiti abbiano come obiettivo il miglioramento delle condizioni degli infelici incarcerati. L'unico obiettivo è poter disporre di tanti metri cubi da impiegare un una poderosa speculazione immobiliare.

«Il Garante: “Sì se le nuovi prigioni non sorgono nel nulla”. No di Manconi e Sala, Parisi d’accordo». La Repubblica, 29 maggio 2016, con postilla (c.m.c.)

È ragionevole vendere carceri storiche come San Vittore e Regina Coeli per aprirne di nuove in periferia? Il piano del governo irrompe nella campagna elettorale delle amministrative. E divide. «È un progetto giusto che il Comune deve favorire», si schiera subito il candidato sindaco del centrodestra a Milano, Stefano Parisi. «La mia priorità è di trovare una soluzione per mettere a posto quello già esistente - ribatte il suo avversario di centrosinistra, Giuseppe Sala - Una vendita senza vincoli mi fa veramente paura».

E dubbi arrivano anche da sindacati e associazioni, oltre che da un esperto del dossier carceri come il senatore dem Luigi Manconi: «Le condizioni strutturali di San Vittore e Regina Coeli sono pessime - premette - ma penso che la soluzione debba essere una profonda opera di risanamento, ristrutturazione e manutenzione degli istituti. Spostarli causerebbe gravi difficoltà per chi deve raggiungerli: familiari dei detenuti, avvocati, personale e associazioni».
L’idea dell’esecutivo è di vendere le carceri a Cassa depositi e prestiti, che li destinerà al mercato immobiliare.

Un piano non necessariamente da bocciare, sostiene il Garante dei detenuti Mauro Palma: «Per affrontare il problema della qualità della detenzione, è chiaro che la questione dello spazio non è neutrale. Una riflessione su dove collocare il carcere è dunque ineluttabile. L’importante è mettersi d’accordo sul concetto di periferia: l’istituto deve comunque essere parte della città, collegato strutturalmente e concettualmente. Altrimenti non mi trova d’accordo». Cauto, ma senza entusiasmo è anche il primo cittadino di Napoli, Luigi de Magistris: «In questo paese non abbiamo carceri all’altezza di un paese democratico, si è fatto tanto ma ancora tanto va fatto».

Anche il mondo politico si schiera. D’accordo con il piano governativo è Maurizio Lupi (Ncd): «San Vittore è ormai obsoleto». Contrari invece la berlusconiana Renata Polverini - «vendere Regina Coeli sarebbe un insulto a Roma» - e Daniele Farina di Sinistra Italiana: «È un disegno di tutti i governi di centrodestra».

Marco Cappato, presidente di Radicali italiani, è sulla stessa linea: «La proposta del ministro Orlando sembra più rivolta alla speculazione immobiliare che non a rendere vivibili le carceri, che devono restare dove sono». Non basta insomma spostare gli istituti per migliorare la condizione dei detenuti: «Conosco le difficoltà di alcune carceri storiche - rileva Daniela de Robert, del collegio del Garante dei detenuti - ma per favorire il reinserimento dei detenuti costruisci nuovi istituti fuori dal mondo?».

Non la prende bene neanche un’associazione che si occupa di detenuti come Antigone: «Il rischio è creare carceri-ghetto». Chiude il cerchio sempre Manconi: «Alla resa dei conti, si rischia di produrre un’architettura e un’ingegneria della rimozione del male - questo si pensa essere il contenuto del carcere - allontanandolo dallo sguardo dei cittadini. E dunque provocando un’ulteriore separazione».

postilla

Ciò che molti sembrano non aver compreso, nè i giornalisti nè i loro interlocutori, è che l'obiettivo non è affatto migliorare le condizioni dei carcerati, ma fare (e far fare) lucrosi affari con la speculazione immobiliare. Altrimenti non avrebbero affidato l'impresa alla Cassa depositi e prestiti riformata per raggiungere questo obiettivi (c.m.c.)

«Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale i primi istituti, poi altri nove. Li acquisterebbe la Cassa depositi e prestiti, sarà lei a trattare con i Comuni per ottenere le variazioni urbanistiche e poi a sua volta cedere i palazzi ristrutturati». La Repubblica, 28 maggio 2016, con postilla

Dice Orlando: «Il progetto comincia a prendere forma adesso e dopo le amministrative credo ci saranno anche le condizioni politiche per un confronto con le prossime amministrazioni locali. Non appena i nuovi sindaci si saranno insediati partiranno i colloqui».

Che cosa stanno studiando Orlando e Cdp? Partendo dalle motivazioni e dagli obiettivi. È fin troppo evidente che carceri assai antiche – San Vittore risale al 1879 e allora fu previsto in una zona periferica rispetto al centro di Milano; Regina Coeli era originariamente un convento costruito a metà del 1600 e diventò carcere solo nel 1881; più “moderno” Poggioreale realizzato nel 1914 – non possono rispondere alle attuali esigenze di una corretta detenzione. Nonostante lavori interni e migliorie, che pure ci sono state in questi anni, le mura rimangono quelle. Mura invece molto preziose dal punto di vista urbanistico, perché ormai in zone centrali, tali da consentire una trasformazione e una riutilizzo per altre destinazioni economicamente molto vantaggiose. Una valorizzazione commerciale che va dalle residenze per i privati, agli spazi collettivi, agli alberghi.

Orlando, che ha puntato molto della sua gestione ministeriale sul carcere dal volto umano, sulla “decarcerizzazione” ottenuta con pene alternative alla galera, ha già realizzato l’obiettivo di veder calata la popolazione carceraria e con essa la spina del sovraffollamento, per cui l’Italia ha rischiato una multa molto pesante dalla Corte di Strasburgo. Ma non basta qualche metro in più per ottenere una detenzione effettivamente rieducativa. Per questo servono strutture nuove, spazi per il tempo libero, zone per il lavoro.

Spiega il ministro: «Nuove strutture ci devono consentire di superare l’attuale modello italiano, sui generis a livello europeo, perché segnato dalla dicotomia del dentro-fuori. Il detenuto o sta dentro oppure non ci sta. Non esiste, come in Germania o in Spagna una zona grigia, un carcere cosiddetto “di transizione”, in cui dentro si comincia a scontare una pena dura, ma poi si passa a una pena attenuata, anche lavorando».

E qui l’esigenza di Orlando si può saldare con l’esperienza di Cdp. Il ministero potrebbe cedere le tre strutture. In cambio sottoscriverebbe il contratto per la costruzione di nuove carceri che verrebbero realizzate dalla Cassa e diventerebbero di proprietà del demanio. Cdp – cui andrebbe l’utile della messa sul mercato delle vecchie strutture dopo un’adeguata progettazione d’intesa con i Comuni e la conseguente ristrutturazione – potrebbe occuparsi della manutenzione, sempre sotto il controllo del ministero della Giustizia. Ovviamente tutto questo, dal punto di vista economico, sarebbe possibile perché in cambio la Cassa diventerebbe proprietaria delle carceri storiche.

Un fatto è certo, come dice Orlando, «è del tutto avveniristico in Italia pensare a carceri di proprietà dei privati e gestiti dai privati, come avviene negli Usa, dove il business ha avuto come effetti l’aumento del numero dei detenuti. Io sono contrario alla privatizzazione, credo che ci siano anche dei vincoli costituzionali, l’esecuzione della pena non può essere delegata a un altro soggetto. Nel nostro Paese poi, con la criminalità mafiosa, sarebbe addirittura inquietante ». Conclude Orlando: «Con il regime del 41-bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr.) abbiamo riconquistato il carcere, adesso non possiamo rischiare di compromettere la situazione».

postilla
Ecco le parole chiave dell'operazione: «Mura molto preziose dal punto di vista urbanistico, perché ormai in zone centrali, tali da consentire una trasformazione e una riutilizzo per altre destinazioni economicamente molto vantaggiose. Una valorizzazione commerciale che va dalle residenze per i privati, agli spazi collettivi, agli alberghi». Provate a immaginare a quali "spazi collettivi" penserà la Cassa depositi e prestiti; noi che sappiamo guardare nel futuro vi anticipiamo che saranno alberghi, residenze di lusso, a magari qualche lucroso centro commerciale.

Finalmente un articolo che introduce qualche elemento di demistificazione dell'ultimo spot del governicchio totalitario. Distruggono tutto il welfare conquistato in decenni di lotte (assistenza, scuola, sanità, verde e sport ecc.). poi danno un'elemosina. La Repubblica, 17 maggio 2016

MAGARI bastassero le buone intenzioni per risollevare la cronica denatalità italiana. Per riuscirci serve molto di più, a partire da una potenziata capacità di lettura della realtà in mutamento, passando per una maggiore disponibilità a mettere in discussione quello che in passato non ha funzionato, per arrivare ad una più ampia visione e condivisione dell’azione politica.

Sabato scorso il ministro Costa, intervenendo ad un convegno del Forum delle associazioni familiari, aveva mostrato grande apertura verso il “fattore famiglia”, una misura ispirata al “quoziente familiare” francese che mira a rendere più equo il sistema fiscale riducendo il costo dei figli a carico. Il giorno dopo il ministro Lorenzin ha rilanciato in tutt’altra direzione con il bonus bebè, presentato come principale soluzione al crac demografico. Il ministro Padoan, come raccontano le cronache, sembra sia rimasto tiepido. Palazzo Chigi ha successivamente precisato che il bonus è in realtà solo una delle misure prese in esame. Come indica anche il rapporto del think tank Volta, si dovrebbe partire da un organico ripensamento degli strumenti di welfare.

Questa vicenda, mostra come il tema demografico sia sentito nella sua urgenza, ma mette anche in luce tutti i limiti della politica nel dare una risposta all’altezza della sfida. È giusto preoccuparsi. La popolazione italiana è come un edificio sul vertice del quale aggiungiamo continuamente nuovi piani, per il fatto che si vive sempre più a lungo, ma con parte inferiore e fondamenta sempre più fragili, per l’erosione prodotta dalle nascite. È però sbagliato trattare i temi demografici con la logica dell’emergenza, siano essi l’immigrazione, l’invecchiamento o le trasformazioni familiari. Un figlio, in particolare, è un’assunzione di impegno a lungo termine. Per mettere in campo politiche efficaci è allora necessario prima di tutto far chiarezza sui meccanismi che frenano o favoriscono tale scelta e sulla capacità dei vari strumenti di policy di intervenire con successo su tali meccanismi.

Questo è ancor più vero oggi. Nelle società moderne avanzate “l’onere della prova” delle decisioni riproduttive si è invertito. Se in passato l’atteggiamento di base era quello di avere figli e per non averne si doveva operare una scelta esplicita, da qualche decennio la condizione di partenza è invece l’assenza di figli, che rimane tale se non si attiva una scelta deliberata sostenuta da condizioni positive. Di conseguenza, se un Paese vuole ridurre le nascite, non è necessario che disincentivi le persone a fare figli, è sufficiente non favorire il crearsi e consolidarsi di condizioni adatte. Viceversa, se si considera auspicabile che la maggior parte delle persone non rinunci a realizzare il numero di figli desiderato è necessario mettere in campo azioni ad esplicito e solido supporto di tutto il processo decisionale. In primo luogo, il desiderio deve poter trasformarsi in vero progetto di vita. Tale progetto deve poi poter trovare possibilità di effettiva e concreta realizzazione. Infine, è necessario che vi sia la ragionevole aspettativa di un successo nell’esito finale. Tutte queste fasi sono oggi entrate in crisi. Le difficoltà legate alla continuità di reddito e all’accesso alla casa hanno fatto crollare la fecondità degli under 30 su valori tra i più bassi in Europa. L’età tardiva del primo figlio e l’eccesso di complicazioni nella conciliazione tra famiglia e lavoro frenano poi la possibilità di andar oltre.

Il bonus bebè non sembra in grado di intervenire efficacemente su nessuno di questi meccanismi. Per come è configurato più che favorire la natalità può essere utile come contrasto al rischio di povertà, particolarmente alto in Italia per le famiglie con oltre due figli. Indicare obiettivi chiari e misurabili, oltre a dar conto dell’impatto del bonus precedente prima di rilanciare nella stessa direzione, aiuterebbe a capire se al di là delle buone intenzioni c’è davvero un serio impegno della politica a restituire fiducia e vitalità al Paese.

Alessandro Rosina è docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano e curatore del “ Rapporto giovani 2016” dell’Istituto Toniolo Twitter: @ AleRosina68

Le Apuane: un drammatico problema aperto, che richiede soluzioni non semplici, ma rapide. Una proposta operativa per ricucire le troppe lacerazioni, una proposta operativa per costruire nuove relazioni tra Ecologia, Persone, Società, Economie, Natura e Luoghi (m.p.g.)

Tutto sulle Apuane è lacerato: a partire dalle montagne attaccate in ogni loro parte, alle cave devastanti, all’abbandono dei pascoli e dei boschi e della fragilissima agro pastorizia, e similmente alla condizione dei paesi disabitati, e all’invecchiamento della popolazione. Ma all’origine di tutte queste lacerazioni sta l’industria del marmo, nelle sue varie finalità estrattive, tutte comunque multinazionali globalizzate. Il marmo è ormai solo una materia prima come l’oro o il rame o i diamanti, le montagne un luogo da distruggere, le persone una popolazione da sfruttare, anche fino alla morte. Ma a differenza dei paesi del terzo mondo dove la popolazione è umiliata e indifesa, qui la popolazione è in parte consenziente, pensando di avere le briciole (in nero) di questa rapina e si fa addirittura promotrice della svendita delle terre collettive e del loro ambiente, travisando una tradizione di lavoro che peraltro ormai non esiste più.

Questa lacerazione, economica, sociale, mentale, storica e pratica, è pericolosissima sia in sé che nei confronti di ogni alternativa possibile. Anche la realtà delle terre civiche estese a tutta la Montagna, che il Centro Cervati difende e propone come alternativa strategica, invece è misconosciuta e travisata sia dalle leggi vigenti, anche quelle paesistiche, che dagli utenti, provocando un’ulteriore lacerazione nella situazione generale già così tanto frammentata.

Anche per questo emerge un’altra lacerazione, quella tra le associazioni, su chi difende il Piano Paesistico, anche sulle Apuane, così come è stato approvato, modificato dai ‘cavatori’ e dalla Regione, e chi vorrebbe riportarlo al Piano originario e alla legislazione nazionale. In base alla posizione che si intende assumere le attività conseguenti sono diverse. E ciò perché la legge ora vigente legittima interventi distruttivi inaccettabili, fino al paradosso di rendere “paesaggio ufficiale” proprio la distruzione della montagna, resa addirittura struttura paesistica “sovra ordinata”!

Di fronte a tutte queste lacerazioni, che si estendono anche alle città pedemontane (per tutte Carrara) a loro volta straziate e devastate dalle lacerazioni, urbanistiche, ambientali, sociali, culturali,economiche, e ai loro territori di pianura (Versilia) o di fondovalle (valli del Serchio, o del Magra) sempre più intasati e “periferizzati”, o ancora le lacerazioni dei fiumi e quelle della desertificazione dei ravaneti e del carsismo, di fronte a questo mondo esposto a grandi pericoli e ferito in ogni sua parte, ma ancora vivente e ancora più drammaticamente coinvolgente, fantastico, ed appassionante l’opposizione non può essere che articolata, complessa, ma anche creativa

Una Prima opposizione in atto è puntuale, puntigliosa, cava per cava, fiume per fiume, paese per paese, città per città.U na seconda opposizione coglie ogni anche minimo segnale di vitalità che si manifesti tra le lacerazioni e che spinge a cercare di rilanciare una produzione di cibo, di accoglienza, di riscoperta dei luoghi, di continuazione della vitalità comunitaria, di economia giovanile, e di mettere questi fattori tra loro in comunicazione, tramite flussi di relazioni sempre più ampie.
La terza opposizione mette in atto un salto ecologico/ mentale complesso: I Laboratori socio-paesistici della “Città/Natura”. Non megapiani o cabine di regia, ma processi partecipati sperimentali viventi, organizzati sulla base di un pensiero evolutivo e concreto, quello di nuove relazioni tra Ecologia,Persone,Società, Economie, Natura e Luoghi

I Laboratori aprono la prospettiva di una nuova condizione per questo territorio e per i suoi abitanti: una nuova CITTA’/NATURA, una simbiosi tra insediamenti, ancora separati nella loro individualità di piccole città, borghi, paesi e frazioni, ma poi tutti ricollegati in un “effetto città” complessivo che entra in relazione con tutti i frammenti di Natura e di ambiente a loro volta riconnessi in un sistema ecologico unitario, progressivamente sempre più strutturato.

Così Natura e Città,oggi super/lacerati vengono posti di nuovo in relazione, e al loro interno ricomposti, ed aprono nuove correlazioni tra loro pervenendo ad un nuova configurazione interattiva, ad un Nuovo AMBIENTE DI VITA (una vita naturale, sociale, culturale, e anche virtuale) dove servizi urbani, teatri, scuole, mercati, ma anche orti, campi, prodotti biologici di qualità, boschi, ma più che altro fiumi e montagne, così come il mare, divengono componenti attive di un Luogo per Abitare e per produrre secondo natura e secondo creatività sociale.

La prima proposta operativa: dalla Montagna al Mare Il LABORATORIO PANIE- VERSILIA
Per operare e creare una tale configurazione e verificarne la fattibilità stiamo costruendo un contesto di esperienza e sperimentazione, di conoscenza e nuova elaborazione, di scambio paritario tra le diverse componenti che abbiamo chiamato Laboratorio Panie-Versilia.

La Versilia, le Panie e le Apuane meridionali sono ancora in grado di costruire questa alternativa, con le Panie che svolgono il ruolo di cattedrale della Città/Natura, con la Versilia, bassa e alta, una bonifica e un giardino territoriale/ paesistico che diviene Ambiente di Vita di tutta la popolazione, ospiti compresi, estensibile anche alle valli del versante del Serchio.
Si è verificato che un tale contesto crea le condizioni per fare incontrare le diverse esperienze spontanee già in atto, sia in termini di contrapposizione ai fenomeni dominanti, sia in termini di creazione e promozione di attività inedite.

L’assunzione dell’Ambiente di Vita Montagna-Mare che proponiamo trova riscontro anche nella definizione degli ambiti paesistici del Piano Paesistico Regionale con un ambito che si estende dal Crinale Apuano al Mare Tirreno, e che così fornisce un importante riferimento legislativo nella normativa vigente, sviluppandola peraltro con modalità innovative ed evolutive.
Ma proprio qui nasce la contraddizione con il Piano nelle sue parti modificate, perché esse risultano in aperto contrasto con l’evoluzione del Piano da noi praticata.

Vi invitiamo tutti a partecipare ai nostri Laboratori socio paesistici della “Città/Natura”, recentemente lanciati a Seravezza, e fondati su un lungo lavoro pluridecennale.
Personalmente oggi mi recherò a Firenze alla manifestazione contro l’Inceneritore e l’Aeroporto nella Piana della Città Metropolitana, l’altra grande contraddizione presente nel Piano Paesistico così come,approvato con conseguenze disastrose per la città, il suo ambiente e per tutta la Toscana.

L'autore è Presidente del “Centro Cervati per l’Uso Civico” - Seravezza

« La protesta della campagna "Roma non si vende" si è trasformata nella proposta "Decide la città": una carta dei diritti in dieci punti che sarà sottoposta ai candidati sindaci sabato 14 maggio». Il manifesto, 6 maggio 2016 (c.m.c.)

Quelli di «Decide Roma» sono gli unici oggi a riuscire nell’impresa impossibile: manifestare a Roma con 20 mila persone. È successo il 19 marzo scorso e questo resterà un evento nella campagna elettorale più deprimente della storia della Capitale. Da mesi c’è un tam tam in città: 860 spazi (centri sociali, atelier, associazioni) rischiano lo sgombero.
L’altra faccia di Mafia Capitale
Il pericolo riguarda Esc, Auro e Marco o la Torre, palestre popolari come quella di San Lorenzo e associazioni come «Il Grande Cocomero», il centro riabilitativo di neuropsichiatria infantile protagonista dell’omonimo film di Francesca Archibugi. Così è nata la campagna «Roma non si vende» che ha l’obiettivo di ripensare gli spazi pubblici e i beni comuni in una città dove la giunta dei commissari guidata dal prefetto Tronca ha dato attuazione alla delibera 140 voluta dal sindaco defenestrato Ignazio Marino. Reti sociali, solidali e di prossimità saranno messe sul mercato immobiliare. L’obiettivo, stando al Documento Unico di Programmazione (Dup) approvato da Tronca, è quello di incassare 15 milioni di euro all’anno per i prossimi tre. Un modo per fare cassa nella città da 12 miliardi di euro di debito.

Il costo sociale di questa operazione è immenso: destrutturazione capillare delle reti associative, culturali, dell’autogestione che a Roma rappresentano un’eccezione. In passato, la prima giunta Rutelli cercò – inutilmente – di mettere ordine con la «delibera 26»: canone «sociale» e regolarizzazione delle occupazioni in città. Oggi si chiedono gli arretrati a prezzi di mercato, ignorando gli accordi precedenti: alla Torre 6 milioni di euro, al grande Cocomero 116 mila euro.

È l’altra faccia di Mafia Capitale: con la scusa del caso «affittopoli», del ritorno alla legalità, per cancellare la stagione degli «affidamenti diretti» che tanti guai e corruttele ha portato, si è scelto un rimedio peggiore del male: il bando che favorisce la privatizzazione delle politiche sociali e la vendita del patrimonio pubblico. La campagna «Roma non si vende» è cresciuta, si è coalizzata e ha maturato una discreta fiducia in se stessa. Qualche risultato lo ha raggiunto: gli sgomberi sembrano essere stati messi in stand-by. Nel frattempo la protesta è passata alla proposta. Da settimane ci sono assemblee nei quartieri della Capitale dove si sta scrivendo la «Carta di Roma Comune» in dieci punti.

Una carta in dieci punti
Il principio è chiaro: il patrimonio pubblico non è alienabile e a Roma devono tornare in vigore i principi della carta costituzionale stabiliti negli articoli 42-45: quelli che parlano di «finalizzazione sociale della proprietà», di «socializzazione dei beni produttivi e dei servizi di interesse generale» e di «tutela della cooperazione mutualistica». Nella carta si parla, inoltre, di «autogoverno».

Singolare esperienza di diritto dal basso, nato dall’incontro tra docenti, attivisti, ricercatori precari e abitanti dei quartieri, la carta di Roma Comune conta almeno su un precedente: lo statuto della fondazione del teatro Valle Bene Comune. Elavborata nel corso delle assemblee nel teatro occupato tra il 2011 e il 2013 e in una consultazione online, oggi è un’esperienza che ha sedimentato alcuni argomenti-chiave e una serie di argomenti decisivi.

Nel testo di “Roma Comune” si parla di diritto sorgivo: “Il diritto non è solo quello prodotto dall’autorità dello Stato. Il diritto nasce dalle pratiche, dalle convenzioni, dalle consuetudini, dagli usi. Questo diritto sorgivo reclama un riconoscimento da parte delle istituzioni, ma è già diritto, prima di questo riconoscimento. Nessuno potrà più cancellarlo”.

I nuovi corpi intermedi
Il riconoscimento di questo diritto rappresenta un problema politico e genera un conflitto. Questo, in fondo, è un problema ordinario nel diritto: l’istituzionalizzazione di un processo o una pratica, di un’invenzione normativa o di un comportamento diffuso investe ad esempio il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali, in particolare il loro diritto ad amarsi e unirsi in matrimonio. Nella carta romana il diritto vivente viene declinato in tutti i campi della vita sociale e dei servizi pubblici: acqua, mobilità, istruzione, cultura, casa, governo e amministrazione della città, partecipazione ai processi decisionali.Si parla di beni comuni urbani: “Gli spazi sociali, le associazioni virtuose, i centri culturali, le fabbriche riconvertire e le nuove esperienze di lavoro cooperativo, quei “corpi intermedi” e quelle forme di democrazia popolare che si oppongono allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.
Essere autonomi, oggi
Il valore fondamentale evocato è quello dell’autonomia: “Significa “darsi le regole da sé”. Ma autonomia è anche apertura della singola entità o comunità autonoma alla relazione con l’altro. Per questa ragione, prima di ogni delibera o regolamento imposti dall’alto, hanno priorità e precedenza le scritture collettive dei singoli statuti di autogoverno”.

Di questa visione coraggiosa, e senz’altro innovativa rispetto a un dibattito stagnante e a dir poco mediocre, si possono rintracciare l’origine in alcuni passaggi degli ultimi libri di Stefano Rodotà, Il diritto ad avere diritti o Diritto d’amore. Anche in questo caso si ragiona sul concetto di autonomia e sull’incontro con i movimento sociali.

L’incontro con i movimenti serve al diritto per «conoscere se stesso, il proprio limite, l’illegittimità di ogni sua pretesa di impadronirsi della vita – scrive Rodotà -. Emerge così uno spazio di non diritto nel quale il diritto non può entrare e di cui deve farsi tutore, non con un ruolo paternalistico, ma con distanza e rispetto». Dal punto di vista dei movimenti, il diritto serve a riconoscere e a coltivare una tensione nel darsi regole che possono cambiare, seguendo una geometria delle passioni interna alle relazioni tra il soggetto e la sua vita.

La “Soluzione ponte”
Concetti lontani anni luce dallo stato di eccezione in vigore in città e dall’autoritarismo della «democrazia decidente» renzian-craxiana. Gli attivisti della campagna hanno invitato i candidati sindaci della Capitale a un incontro sabato 14 maggio a San Lorenzo. In quella sede sottoporranno l’ingegnosa proposta di una «soluzione ponte» per l’affidamento in custodia temporanea di tutti gli spazi del patrimonio pubblico presenti in città.

Il testo, scritto in punta di diritto, propone di ricomprendere tutte le realtà che “svolgono comprovate attività socialmente utili di interesse cittadino o municipale” in un nuovo elenco. Tale elenco sarà un supporto utile per definire il “Regolamento sulla gestione del patrimonio” e ristabilire il criterio per l’accesso alla disponibilità dei beni pubblici e di interesse sociale”. Alla base c’è un altro principio costituzionale, quello della sussidiarietà orizzontale stabilito dall’articolo 118 che favorisce “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singolie associati”.

Ancora un volta, si cerca un rapporto virtuoso tra i movimenti sociali e Costituzione, il testo che è stato cambiato dalla riforma renziana per un buon terzo. Ma questa è un’altra storia.

«Città&campagna. Si aprirà il 20, al Lingotto di Torino, il 53/mo Congresso mondiale dell’International Federation of Landscape Architects. Un'intervista con Anna Letizia Monti, alla guida dell'Associazione italiana di settore». Il manifesto, 16 aprile 2016 (c.m.c.)

Nella dichiarazione programmatica del 53/mo Congresso mondiale dell’International Federation of Landscape Architects, organizzato dall’Associazione italiana di architettura del paesaggio, la presidente Anna Letizia Monti si dice certa che «anche a livello nazionale i politici, gli amministratori, l’opinione pubblica stiano finalmente riconoscendo che il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante per la qualità della vita delle popolazioni». Le abbiamo rivolto qualche domanda nei giorni che precedono l’arrivo a Torino di oltre mille specialisti del settore.

Il paesaggio è spesso considerato soltanto come qualcosa da ammirare e tutelare. L’incontro torinese pone l’accento su un progetto che lo collochi operativamente al centro delle attività di crescita e sviluppo del paese. Come si conciliano questi diversi punti di vista?

Non è più il tempo di pensare al paesaggio come elemento iconico e celebrativo. È una realtà dinamica, che si evolve, muta e si trasforma. È parte integrante della vita quotidiana dei paesi e delle popolazioni e partecipa con essi al mutare delle necessità, ai nuovi usi. Il paesaggio si fruisce in molteplici modi e funzioni, si può declinare come spazio urbano e periurbano per favorire rapporti e relazioni; area cittadina e rurale con impianti arborei finalizzati alle attività ricreative e al miglioramento della qualità dell’aria; sito denso di stratificazioni e destinazioni passate che si rinnovano per produzioni alimentari di contiguità o per poetiche partecipative. L’Italia è in ritardo su molti di questi temi, ma è giunto il tempo di (re)agire. Il Congresso ha anche questo obiettivo: evidenziare le necessità, risvegliare gli animi, suggerire soluzioni per poter avviare coscientemente e sistematicamente realizzazioni paesaggistiche che siano parte integrante delle politiche di questo paese che – purtroppo – è in ritardo di decenni sulla realizzazione di normali progetti di paesaggio, reali e possibili.

In questo tipo di consessi c’è spesso il rischio di parlare a se stessi invece di assumersi il rischio di dettare, quasi imporre al dibattito, alcuni temi forti. Quali sono le ragioni della scelta di un titolo come «Tasting the Landscape»?

Si è scelto di indagare gli ambiti del progetto di paesaggio a tutto tondo: la risignificazione sensibile dei luoghi, le criticità delle aree marginali, le coltivazioni di prossimità, i paesaggi stratificati, le poetiche del vivere quotidiano. A Torino si ragiona sui «paesaggi condivisi»: le aree fra città e campagna, residenza e coltivazione agricola, produzione industriale e abbandono. Sono paesaggi che possono e devono creare legami e riconsegnare valore a luoghi, persone, idee e produzioni; sono le aree per l’agricoltura urbana, sono i periurbani non più in attesa di essere urbanizzati ma che risorgono a vita nuova.

Ci confrontiamo sui «paesaggi connessi»: quelle infrastrutture verdi e blu, che servono per creare connessioni, unioni, continuità fra territori e persone contigue. Territori in cui coesistono produzioni e attività sportive, resilienza e turismi. Si affronta poi il tema dei «paesaggi stratificati»: il dialogo delle storie e le mutazioni dei siti. Quelli in cui passato e presente hanno codici di relazione precari e per i quali il paesaggista deve individuare semantiche per la complementarietà e la coesione. Si studiano infine i «paesaggi d’ispirazione»: aree dove si concretizza una risignificazione dell’esistente o si declinano nuove poetiche per il vivere.

Vista la pluralità degli interventi e dei progetti che verranno presentati, può descrivere alcuni casi concreti dai quali vi attendete suggestioni, soluzioni tendenze per il futuro?

I lavori vedranno l’intervento di figure di primo piano del dibattito internazionale come Raffaele Milani, docente di estetica e filosofia del paesaggio; Henri Bava, paesaggista francese che ha all’attivo numerosi piani di riqualificazione di paesaggi degradati; Saskia Sassen sociologa ed economista statunitense che indaga da anni il tema della città globale. La novità, se tale la vogliamo considerare, è che non sono ormai soltanto i paesi europei e gli Stati Uniti ad avere politiche e consuetudini attuative per il progetto di paesaggio. A Torino verrà presentato un «programma» di mille ettari di agricoltura urbana a Pechino, ci saranno contributi dell’università di Teheran, piani di valorizzazione dei paesaggi turchi nell’entroterra di Mersin, piuttosto che del sud ovest della Nigeria: è lampante la sensibilità e la determinazione di molti paesi a realizzare politiche paesaggistiche cogenti, con finalità strettamente economiche e/o turistiche o per fare proprie le suggestioni e gli stimoli che provengono dai cittadini.

Qual è in Italia lo stato dell’arte e il destino attuativo del progetto di paesaggio? Si può rilevare l’attenzione delle istituzioni e dei rappresentanti del potere politico?

Esempi virtuosi ci sono in tutto il territorio nazionale. Ma non fanno sistema. Non ci sono politiche stringenti e iter procedurali semplici per proporre e realizzare progetti di paesaggio. Si parla molto, ma sempre in maniera generica. Non si realizzano cose elementari, come la detraibilità fiscale per le opere a verde: un sistema adottato per caldaie, infissi, acquisto dei mobili e che non è riuscito a rientrare nella legge di stabilità di quest’anno, nonostante la mobilitazione coesa di tutta la filiera di settore: vivaisti, progettisti, aziende di opere a verde.

I politici di ogni schieramento discettano di paesaggio, ecologia, sostenibilità, promozione turistica del patrimonio paesaggistico, ma le azioni si limitano a pianificare e al «racconto», senza passare alla realizzazione. I progetti di paesaggio implicano investimenti di denaro esigui, a volta addirittura minimali rispetto alla maggior parte delle opere pubbliche. Occorre poco per fare molto: si investe in idee, alberi, arbusti, semi e terra e si ottengono ossigeno, benessere, turismo e presidio del territorio. È una situazione quantomeno paradossale che non si riescano a realizzare opere che hanno queste caratteristiche ma forse è proprio per i tempi lunghi che la natura richiede (che sono più lunghi di un mandato elettorale) e la minimalità economica di queste opere che a nessuno interessa sviluppare e promuovere un settore che – evidentemente – ha budget troppo esigui per essere interessanti, soprattutto per coloro che mirano a far girare molti denari. È un’affermazione grave la mia, ma Aiapp non ha paura a gridare che, in Italia, da troppi anni il re è nudo.

Si parla di un documento conclusivo di sintesi che va in direzione di una complessiva maggiore responsabilizzazione di tutti i soggetti protagonisti? Può anticipare i suoi termini?

Il manifesto focalizza in pochi punti le questioni salienti: qualità dei paesaggi e qualità progettuale, necessità di politiche di governo del paesaggio cogenti, formazione adeguata a tutti i livelli: dall’università, all’aggiornamento professionale a tutte le scale, dai tecnici delle amministrazioni pubbliche ai liberi professionisti, dall’operatore al dirigente.

Un significativo episodio di lotta per la riconquista della città: atti di resistenza contro la gentrificazione e contro l'appropriazione mercsntile di un'arte pensata e realizzata per tutti. Articoli di A. Di Genova,A. Del Lago, G. Stinco, R. Ciccarelli e un filmato di Wu Ming. Il manifesto, 13 marzo 2016

QUELLO DI BLU
È UN GESTO POLITICO
di Arianna di Genova

La street art nasce in strada, è pubblica, democratica, allegra, provocatoria, ribelle, clandestina, fruibile in ogni momento senza bisogno di pagare nessun biglietto «d’entrata». A volte, anzi spesso, è pure anonima. È questo, d’altronde, il suo Dna.

Un murales è di tutti, della città stessa, neanche dei proprietari delle mura e dei palazzi dove appare. Un graffito poi non è un affresco medievale che va conservato altrove per evitare che l’umidità mangi e polverizzi il colore. Esporlo nei musei significa negare la sua stessa storia e renderlo esangue, normalizzare la sua dirompenza delle origini. E tirarlo via dai muri, dalle periferie anche degradate dove è nato (non a caso) è una sottrazione indebita nei confronti di una comunità che può goderne ogni giorno.

Il gesto di Blu è politico, si fa così la politica vera: richiama alle origini di una forma d’arte e neguna qualsiasi appropriazione altrui. E cosa dire poi dell’ipocrisia dei vari governi? Che prima condannano un writer per atti vandalici e, secondo convenienza, trasformano quegli stessi atti vandalici in capolavori, da far circolare nel mercato. È importante che l’azione radicale e dolorosa di Blu venga seguita anche da altri street artisti. Sarebbe una lezione di civiltà per tutti.


BOLOGNA
SEMPRE MENO ROSSA
E SENZA BLU
di Giovanni Stinco
Lo street artist cancella le sue opere dai muri di Bologna. Una protesta contro una mostra in cui verranno esposti disegnai staccati dai muri delle case. «Così si privatizza l’arte»

«A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà più finché i magnati magneranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi». Non scrive o aggiunge altro lo street artist Blu, che ieri ha cancellato tutte le sue opere in città. Conosciuto e celebrato in tutto il mondo, Blu aveva già in passato cancellato una sua opera a Berlino, ma questa volta l’azione è stata sistematica. Sotto le Due Torri ogni traccia dell’artista è stata fatta scomparire da decine di attivisti e volontari, organizzati in squadre e armati di rulli, spatole e martelli.

L’ultima pennellata di grigio alla sua opera forse più conosciuta in città, il grande murales sulla facciata del centro sociale Xm24, è stata data nel pomeriggio. E così in poche ora l’epico affresco dal sapore tolkeniano è sparito, sparite le bici della Critical mass, gli attivisti, i contadini armati di zappe e gli studenti del book bloc che si scontravano alle porte di Bologna con bottegai, politici corrotti, banchieri e poliziotti a cavallo di draghi. Tutto è stato ricoperto da uno strato di vernice grigia. Resta solamente, e non è un caso, il frammento di città in fiamme col Cassero di Porta Santo Stefano, la sede dei collettivi punk e lgbt di Atlantide sgomberati nell’ottobre 2015 per volontà del sindaco Merola.

Le spiegazioni di un’azione così eclatante Blu le affida al collettivo di scrittori Wu Ming. «Il 18 marzo – si legge sul sito del collettivo – si inaugura a Bologna la mostra Street Art. Banksy & Co. Tra le opere esposte ce ne saranno alcune staccate dai muri della città, con l’obiettivo dichiarato di ’salvarle dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo’, trasformandole in pezzi da museo». Una mostra che nasce per volontà di uno dei potenti per eccellenza della città, l’ex rettore ed ex numero uno della Fondazione Carisbo Fabio Roversi Monaco. «Ho un’età venerabile e non penso di poter fare molte altre cose, voglio salvare i graffitti dall’abbandono e dalla distruzione», aveva spiegato il diretto interessato.

«Non stupisce – si legge sul sito dei Wu Ming – che ci sia l’ex-presidente della più potente Fondazione bancaria cittadina dietro l’ennesima privatizzazione di un pezzo di città. Questa mostra sdogana e imbelletta l’accaparramento dei disegni degli street artist, con grande gioia dei collezionisti senza scrupoli e dei commercianti di opere rubate alle strade. Non stupisce che sia l’amico del centrodestra e del centrosinistra a pretendere di ricomporre le contraddizioni di una città che da un lato criminalizza i graffiti, processa writer sedicenni, invoca il decoro urbano, mentre dall’altra si autocelebra come culla della street art e pretende di recuperarla per il mercato dell’arte. Tutto questo meritava una risposta». E la risposta è arrivata «per sottrazione», perché «di fronte alla tracotanza da governatore coloniale, di chi si sente libero di prendere perfino i disegni dai muri, non resta che fare sparire i disegni» e «rendere impossibile l’accaparramento».

Così è sparito il murales dell’Xm24, sotto gli occhi spesso increduli dei passanti. Se le squadre di cancellatori hanno deciso di non rilasciare dichiarazioni lasciando parlare i fatti, c’è stato chi ha discusso lungamente con amici e sconosciuti incontrati sul posto. «Mi chiedo se quell’opera sia ancora nella disponibilità dell’artista, una volta che la regali alla città poi puoi decidere di cancellarla?», si è chiesta una signora dispiaciuta per quel che stava accadendo. Poi i tanti solidali con l’operazione: «Blu ha fatto la cosa giusta, adesso nei musei ci mettano questo bel muro grigio».

Di sicuro l’azione di Blu, allo stesso tempo performance e atto politico, è stata uno schiaffo alla mostra e nello stesso un modo di ricordare che la street art per sua natura è mutevole come lo è il panorama urbano, e non si fa ingabbiare nelle sale di un museo. «Un atto forte che farà riaprire il dibattito in una città che però ora si ritrova più povera», dice a caldo l’assessore alla cultura Davide Conte. Quel che è certo è che la politica locale non potrà più dirsi orgogliosa, come spesso ha fatto, per le opere che hanno fatto parlare di Bologna in tutto il mondo. Tenta di restare sopra le parti il sindaco, secondo cui «le scelte che riguardano l’arte non possono essere divise a priori tra giuste e sbagliate. Cercare la ragione e il torto in questi casi è un esercizio inutile e non mi interessa schierarmi con nessuno».
La risposta alla mostra sulla Street Art non ha riguardato solo il murales di Xm 24. In via Capo di Lucca sono spariti gli inquietanti animali che Ericailcane, Dem e Will Barras realizzarono nel 2009 per sostenere l’occupazione dell’ormai defunto collettivo universitario Bartleby. Sparito anche l’elefante giallo dipinto da Blu in via Zanardi, all’interno degli spazi allora occupati nel 2008 dai militanti del collettivo Crash. Proprio in via Zanardi tre militanti di Crash sono stati identificati e denunciati per invasione di terreni e imbrattamento mentre stavano cancellando l’opera di Blu. Secco il commento del collettivo: «Quanto sa essere sciocco il potere quando ci si impegna? Con questa ci conquistiamo la denuncia più stravagante e imbecille dell’anno».
BLU RIVOLTA
di Alessandro Dal Lago

Blu a Bologna. Cancellando le sue opere, Blu ha risposto che la città appartiene anche e soprattutto agli artisti e ai soggetti anonimi che modificano l’estetica urbana indipendentemente dal profitto, dal potere e dalle burocrazie urbane
Dietro il conflitto sulle opere di Blu a Bologna c’è un problema enorme, che non riguarda soltanto il writing o la street art, ma l’estetica urbana come fatto politico e oggetto di scontro sociale. Anzi, il diritto di espressione, artistica e non, contrapposto alla cultura degli assessori e al gigantismo spesso trombonesco e manipolatorio degli eventi sponsorizzati. Da un anno circa sui muri delle città tedesche si può leggere la scritta: Wem gehört die Stadt? («A chi appartiene la città»?).

Ai grandi interessi immobiliari? Alle amministrazioni elette magari da maggioranza di sinistra –e immediatamente impegnate a ripulire le città in nome del decoro urbano, come a Milano? Alle associazioni dei commercianti che cacciano gli ambulanti dai marciapiedi? Alle banche che deturpano le facciate di palazzi quattrocenteschi con insegne enormi? O magari ad associazioni di maggiorenti o critici che fiutano l’affare dei graffiti?

Cancellando le sue opere, Blu ha risposto che la città appartiene anche e soprattutto agli artisti e ai soggetti anonimi che modificano l’estetica urbana indipendentemente dal profitto, dal potere e dalle burocrazie urbane. E poiché le ha realizzate lui, a suo rischio e pericolo, è suo pieno diritto impedire che finiscano nelle mani di qualche mercante che sa guardare al di là del proprio naso. L’aspetto inquietante – agli occhi dei poteri locali – dell’arte di strada (graffiti, murali, stencil ecc.) è che non è in vendita, che la sua grazia risiede nella gratuità, e persino nel gioco a rimpiattino dei writer con le autorità e la polizia, che inevitabilmente li scambiano per teppisti, trattandoli di conseguenza. Miseria delle categorie ingessate del controllo sociale che vede infrazioni, deturpamenti e violazioni dei codici in un gesto, il dono di un’opera alla città, che evade dalla cultura del profitto. Così Blu può essere denunciato per aver realizzato un graffito oppure per averlo cancellato.

Un’altra writer di fama mondiale, ALICè, è condannata a 800 Euro di multa per un’opera murale che altrove sarebbe vanto di una città. E così via, in una sequela di schizofrenie giudiziarie, corteggiamenti estetici, burocratismi comunali, strepitii di risibili associazioni anti-graffiti, che spediscono ragazzini innocenti a imbiancare i muri – salvo scoprire che magari quello che ricoprono potrebbe valere milioni, come è avvenuto al celebre Banksy.

Che poi un writer come Blu esponga alla Tate, come ipocritamente gli ha rinfacciato qualcuno, non cambia la sostanza del problema. E non solo perché sono fatti suoi. Da che parte si sta? Da quella di chi deturpa per mesi la facciata di una cattedrale con una pubblicità di dieci metri per dieci? O da quella di chi dice la sua, con una bomboletta, sull’ordine che ci circonda?
Ma forse è più onesto chi reprime i writer apertamente, alla luce del sole, di chi strappa un’opera al suo luogo naturale, l’aria aperta, per trascinarla nell’aria stantia di un museo.


BLU, LA RIVOLTA CONTRO
LE CITTÀ ZOMBIE
di Roberto Ciccarelli

Street art. Ritratto di un artista anonimo conosciuto da Los Angeles a Berlino. La battaglia contro la gentrificazione e il diritto alla città. Quelle di Blu non sono «opere», ma atti di cittadinanza: popolano lo spazio, creano immaginario, fanno movimento. La storia di Kreuzberg, quando decise con Lutz Henke di cancellare i murali visitati in processione dai turisti-hipster

Di sé, Blu, non parla. Parlano le sue opere super-iconiche, affreschi colossali, concepiti per proteggere da uno sgombero l’ex magazzino dell’Aeronautica militare in via del Porto Fluviale a Roma, occupato da 450 persone in emergenza abitativa o l’ex mercato ortofrutticolo occupato dal centro sociale Xm24 a Bologna, una delle opere cancellate ieri per protestare contro la mostra «Street Art. Banksy & Co» dove Blu è stato esposto. E museificato nel mercato dell’arte che ha coniato un termine specifico, «muralismo», per indicare una pratica pacificata, una professione rispettabile.

I suoi sono invece atti di cittadinanza, non opere da esporre in vetrina, quelle di un museo o sulla superficie legalmente autorizzata. L’ultima moda della «gentrificazione»: decorare lo spazio urbano come un salotto con le foto di famiglia in cornici argentate.

Blu rivolta Bologna

Tre le righe dedicate sul suo sito da Blu agli organizzatori della mostra: «A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà più finché i magnati magneranno per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi». Laconico, questo è lo stile dell’artista nato a Senigallia, cresciuto artisticamente a Bologna, street artist di fama mondiale.

La cancellazione dei murali bolognesi non va intesa solo come una difesa dell’indipendenza dell’artista o una protesta contro la riduzione della street art a arte decorativa. Ieri si è risvegliato un conflitto sociale sul futuro delle città. Era tutto rappresentato nel murale all’Xm24 che, ormai postuma, è diventata famosa.

Rappresentava il colossale scontro tra la città opulenta contro la città che lotta contro l’ingiustizia. Le munizioni: da un lato, enormi tranci di mortadella; dall’altro, cocomeri e zucche. L’affresco di una guerra contadina, una jacquerie combattuta con armi alimentari. Uno scontro epico, chiaramente dualistico, dal sapore tolkeniano. Si guerreggia per conquistare un anello, posto al centro dell’affresco. A Blu non manca l’umorismo.

Le parti in gioco sono chiare: da un lato c’è l’ideologia del decoro urbano che trasforma i quartieri in salotti ed eventifici; dall’altro lato, i movimenti sociali dal G8 di Genova ai No Tav; il gigantesco biker che schiaccia le automobili a Lambrate, la battaglia quotidiana contro la gentrificazione e per l’autorecupero urbano.

Wu Ming racconta Blu. #OccupyMordor


Berlino, la città dei non-morti

Non è la prima volta che questo artista anonimo decide di cancellare un’opera, trasformandola in evento di un arte che concepisce come politica. Lutz Henke, co-autore nel 2008 del secondo muro in Cuvrystrasse a Kreuzberg, ha raccontato come un murales può diventare un’attrazione turistica contro lo stesso parere degli artisti.

È successo a Berlino dove l’affresco del manager con i polsi incatenati che mostrano un orologio d’oro e quello delle figure rovesciate che si smascherano sono diventate l’attrazione della città «povera e sexy» visitata da torme di turisti e hipster. Lo scontro sociale è diventato un’estetica della resistenza per le campagne di marketing territoriale.

Blu e Henke hanno deciso di cancellare gli affreschi, oggi sostituiti da un altro con un gigantesco dito medio: «Fuck You Gentrification». «Senza volerlo – ha scritto Henke in un’articolo sul Guardian nel 2014 – abbiamo creato una rappresentazione visiva ideale per una città che offre spazi giganteschi abbandonati per una vita a basso costo e una sperimentazione creativa tra le rovine della sua storia. Gli artisti scoprono di essere i loro principali nemici». Il vicinato protestò contro il turismo che è il primo passo della gentrificazione.

Gli artisti capirono: «Berlino ha bisogno del suo brand artistico per restare attraente, tende a rianimare la creatività che disperde, producendo una città non morta». Henke parla di una «zombificazione» che rischia di trasformare Berlino in una città riverniciata.

Il punto è un altro: «Reclaim your city», rivendica la tua città.L’evocazione di un diritto alla città era scritta a caratteri cubitali accanto a una delle teste delle sagome in Cuvrystrasse. Non lasciare, invece, senza risposte la domanda che molte volte è stata ripetuta in questi anni: «Chi governa questa città? Di chi credi che sia?»

Un’arte fugace

Ieri abbiamo compreso che la duplicazione di un’opera di Blu in una mostra a Bologna rischia di negare il senso di un altro spazio vissuto e recuperato, fuori dal suo centro-vetrina. La cancellazione è un atto che rafforza la funzione sociale di un intervento artistico sulla città, lì dove altre forme di azione politica si rivelano poco efficaci.

«Sin dal primo momento i murali di Blu sono destinati a scomparire – sostiene Henke – è la natura della street art occupare spazio per celebrare la sua incertezza, cosciente della sua esistenza fugace». È anche accaduto che un’opera di Blu sia stata cancellata dal suo committente.

È accaduto al museo d’arte contemporanea di Los Angeles – il Moca – nel 2010. Il direttore Jeffrey Deitch non gradì il pezzo pacifista che rappresentava le bare dei soldati caduti in una guerra americana rivestite di dollari e non con la bandiera Usa. Vicino al museo c’era un ospedale per veterani di guerra e un monumenti ai caduti nippo-americani.

La reazione di Blu fu determinata, ma serena. Parlò di «censura» e disse: «Mi capita spesso di dipingere soggetti forti – scrisse Blu – ma lascio sempre l’interpretazione aperta allo spettatore. La reazione delle persone è la cosa più interessante. Alcuni veterani hanno gradito il murale, trovandolo veritiero. La mia posizione è fare un passo indietro e guardare le reazioni».

Blu: street art globale

Sul sito del manifessto trovare altri filmati e immagini che non sappiamo inserire qui. Chi si contenta gode, e chi vuole godere di piu si abbona al manifesto online.

Prosegue il tentativo del governo Renzi di rendere vano il referendum indetto da cinque regioni per dare un segnale forte nella direzione giusta sulla difesa dell'ambiente e del nostro futuro. Il Fatto quotidiano, 12 marzo 2016

Vietato parlare di referendum sulle trivellazioni in Consiglio comunale. Quando a Menfi cinque consiglieri hanno avanzato la proposta di ordine del giorno sono rimasti di sale: la prefettura di Agrigento, che riprende una circolare del ministerodell’Interno, dice no. E pensare che a Menfi, Sciacca, Porto Empedocle, insomma, in quella Sicilia che teme di vedere l’orizzonte costellato di trivelle, se ne parla eccome. Ma nelle aule della politica non si può. Tanto che i sindaci, lasciata magari per un attimo la fascia tricolore, hanno deciso di riunirsi. Di studiare forme di mobilitazione prima del 17 aprile.

“Non è una censura sulle trivelle. Succede così prima di tutte le consultazioni elettorali”, giurano dalla prefettura di Agrigento. E ti mostrano la circolare del ministero dell’Interno: “È fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni”. Ma poche righe dopo ecco si apre lo spiraglio in cui vogliono infilarsi i sindaci siciliani: “Si precisa che l’espressione “pubbliche amministrazioni” deve essere intesa in senso istituzionale... e non con riferimento ai singoli soggetti titolari di cariche pubbliche, i quali possono compiere, da cittadini, attività di propaganda”.

Insomma, fatta la legge trovato l’inganno. Anzi, è lo stesso ministero che te lo indica. Anche perché in Sicilia quasi tutti i sindaci sono contrari alle trivellazioni. A cominciare da Vincenzo Lotà di Menfi: “Ci stiamo organizzando. Qui siamo tutti preoccupati, i comuni costieri e quelli dell’entroterra. Ci sono comuni come Sciacca che sorgono in zona vulcanica”. Gente combattiva, qui a Menfi. Come racconta Vito Clemente, il presidente del Consiglio Comunale: “Ho dovuto dire di no al consiglio dedicato alle trivelle, perché me lo imponeva la legge. Ma io sono per il “Sì”, cioè per l’abrogazione della legge che proroga le concessioni”. Tipico dell’Italia, bisogna dire “Sì” per dire “No” alle trivelle. Ma Clemente aggiunge: “Qui ci siamo già battuti contro chi voleva portarci via l’acqua; contro chi sperava di costruire una centrale a biomasse; per non dire delle pale eoliche e ora delle trivelle. Ma noi puntiamo su uno sviluppo che rispetta l’ambiente”.


I Comuni e sindaci non possono parlare di referendum. Nel Municipio, perché basta varcare la porta e tutto cambia. Vale per Menfi, ma anche per altri comuni no-trivelle. Per esempio Frisa (Chieti), in Abruzzo. Racconta il sindaco Rocco Di Battista: “La battaglia è partita anche da qui. Noi abbiamo votato contro le trivelle mesi fa. Ma anche adesso, come privato cittadino, continuerò a schierarmi per il “Sì”. Evidentemente si vuole impedire ai cittadini di esprimere la propria volontà”. Comune che vai, usanza che trovi. Racconta Andrea Quattrini (consigliere M5S ad Ancona): “Lunedì in consiglio comunale è in calendario una mozione per impegnare il Comune a ribadire la propria contrarietà alle trivelle e invitare i cittadini a votare “Sì”. Vorremmo che il Comune aderisse come sostenitore al coordinamento anti-trivelle”. Chissà se anche ad Ancona interverrà il prefetto.

Non è la so-la anomalia
un po’ italia
na: le Regioni,
infatti, non
sono sottopo
ste al divieto. “Non si poteva impedire alle Regioni di fare la campagna per il “Sì” – ha spiegato al Fatto Quotidiano Piero Lacorazza, presidente del consiglio regionale della Basilicata – visto che siamo gli unici comitati promotori”.

Ma il referendum sulle trivelle rischia di scavare una voragine anche nel sindacato, aprendo la questione ambientale. Due giorni fa Emilio Miceli, segretario Chimici Cgil, si era schierato apertamente contro il referendum e a fianco delle trivelle: siamo ancora lontani, aveva detto, da un “superamento dell’energia da fonte fossile”. Ma nella Cgil si stanno confrontando diverse anime. “Quattrocento dirigenti di diversi settori hanno firmato un appello a favore del ‘Sì’”, racconta Simona Fabiani della Cgil Ambiente.

Legge nel documento: “Come sindacalisti siamo convinti della necessità e dell’urgenza della transizione a un nuovo modello energetico, democratico e decentrato, con il 100 per cento di efficienza energetica e di rinnovabili, con grande opportunità di crescita economica e di nuova e qualificata occupazione per il nostro Paese” è scritto nell’appello. Che aggiunge: “Le trivellazioni, il petrolio, le fonti fossili rappresentano un passato fatto di inquinamento, dipendenza energetica, interessi e pressioni decisionali delle lobby, conflitti, devastazione ambientale e della salute, cambiamenti climatici”.

«Aravena viene da un mondo in cui «si lavora con scarsità di mezzi e non si può fare quel che si vuole, ma bisogna sempre spiegare perché lo si fa. È un importante filtro contro l’arbitrarietà.Vivere e lavorare in città che si espandono slums dopo slums, deve aiutare a cercare soluzioni, progetti, dispositivi fisici che attenuino la sofferenza». La Repubblica, 23 febbraio 2016



Venezia. È una Biennale che non espone. Propone domande e fa sfilare esperimenti e soluzioni possibili. È la Biennale architettura firmata da Alejandro Aravena, la quindicesima della serie. Durerà sei mesi, dalla fine di maggio alla fine di novembre e non sarà una rassegna di soluzioni formali prodotte da architetti e destinate ad architetti. «Dalla corte degli architetti al pubblico», sintetizza Paolo Baratta, presidente della Biennale. Cambia lo statuto. Da una disciplina che ambisce a realizzare oggetti singoli, stupefacenti e spiazzanti, a un’altra che si misura con una quindicina di espressioni chiave. Fra le altre: disuguaglianze, periferie, disastri naturali, emergenza abitativa, migrazioni, trasporto pubblico, spreco... Sono le questioni che da una quindicina d’anni impegnano Aravena. Cileno, quarantanove anni, camicia bianca fuori dai pantaloni, capigliatura arruffata ma con cura, Aravena viene da un mondo in cui «si lavora con scarsità di mezzi e non si può fare quel che si vuole, ma bisogna sempre spiegare perché lo si fa».

E aggiunge: «È un importante filtro contro l’arbitrarietà». Ma vivere e lavorare in città che si espandono slums dopo slums, deve aiutare a cercare soluzioni, progetti, dispositivi fisici che attenuino la sofferenza. E ad essi Aravena dedica gli sforzi che lo hanno portato, nel gennaio scorso, a vincere il premio Pritzker, il nobel dell’architettura, completando con il proprio nome una galleria di luccicanti archistar. Anche qui un cambio di statuto.

Reporting from the front - questo il titolo della prossima Biennale - chiama a raccolta una novantina di espositori, un terzo dei quali sotto i quarant’anni. Mostreranno come hanno interpretato le espressioni chiave indicate da Aravena. Non ci sono immagini che anticipino i progetti. Salvo una, introduttiva: una foto scattata da Bruce Chatwin che ritrae un’archeologa tedesca, Maria Reiche, sopra una scala d’alluminio che osserva i tracciati di pietre del deserto peruviano di Nazca raffiguranti uccelli, giaguari, alberi e fiori. Spiega Aravena: «Nessuno di noi stando a terra vede altro che pietre, ma da lassù le figure appaiono evidenti: ecco cosa chiediamo a chi espone alla Biennale, chiediamo di fornire proposte, interpretazioni che non riusciamo a percepire ». Saranno presenti molti giovani (fra i quali anche il gruppo inglese Assemble e l’indiana Anupama Kundoo) e anche i più smaglianti Peter Zumthor, David Chipperfield, Herzog & de Meuron, Kazuyo Sejima, Kengo Kuma, Norman Foster, Rem Koolhaas, Richard Rogers, Eduardo Souto de Moura, Tadao Ando e poi Renzo Piano con il gruppo G124, i giovani professionisti che Piano finanzia con lo stipendio di senatore a vita.

Una concessione allo star system?
«No - replica Aravena - non tutto delle cose che questi progettisti realizzano c’interessa, ma perché non mettere a disposizione la loro creatività quando si confronta con i temi che abbiamo scelto?».

E il pensiero corre a Piano e al lavoro nelle periferie di alcune città italiane. Le periferie sono il suo humus culturale. Le periferie di una città e anche la periferia latinoamericana.
«Vivere ai margini rispetto ai grandi flussi consente di non avere un padre da uccidere, un’ombra che sovrasta ogni passo. Però incombe il rischio di accettare tutto quel che arriva da fuori senza dare valore a ciò che è più prossimo. Il luogo di margine impone di essere molto informati su quel che accade al centro del mondo e contemporaneamente di capire le pratiche virtuose che lì e non altrove si attuano. La periferia non è il luogo dove il mondo finisce, diceva Iosif Brodskij».

L’altra costrizione da cui proviene la sua architettura è la dittatura di Augusto Pinochet.
«L’ho vissuta da studente universitario, quando si forma il carattere e si è ribelli per natura. Noi dovevamo essere doppiamente ribelli».

Una volta laureato, è venuto in Italia. Perché?
«Sono venuto a Venezia. Era il 1992. Volevo conoscere le architetture che avevo studiato solo in fotografia. Volevo andare alle fonti. Camminavo per le calli e misuravo edifici. E la stessa curiosità mi ha spinto in Sicilia e in Puglia».

Quindi è tornato in Cile.
«Sì e ho iniziato a lavorare. Ma ho incontrato solo clienti orribili. Per due anni ho lasciato i tavoli da disegno e ho fatto il barista. Poi di nuovo la passione mi ha catturato. Ma stavolta la direzione di marcia era tutt’altra. All’inizio del Duemila ho fondato Elemental, uno studio dedicato all’edilizia sociale. Il primo progetto rilevante è un complesso per un centinaio di famiglie a Iquique. La dotazione pubblica copriva spese per 7.200 dollari. Trecento dovevano metterli le famiglie. Si poteva fare solo una piccola, disagiata e miserevole abitazione. Invece abbiamo progettato metà di un appartamento, l’altra metà era a carico dei residenti. Quando ho vinto il Pritzker è venuta a trovarmi una donna che era stata fra le prime abitanti di Iquique. Mi ha raccontato che alcuni di loro avevano venduto. Ho chiesto a quanto. A sessantacinquemila dollari, mi ha risposto».

Che seguito ha avuto quell’esperienza?

«Quel progetto, che risale al 2003, è stato replicato decine e decine di volte. L’ultimo risale al 2010 ed è stato realizzato a Constitucion, dopo il terribile tsunami. Non venne fornito solo un alloggio, venne data l’occasione per generare una ricchezza che avrebbe consentito ai figli di quei pionieri di studiare e di avviare un’attività. Iquique è l’esempio di un luogo che produce comunità, lo spazio pubblico è curato come un bene prezioso che dà altro valore alle case. Elemento centrale è stata la partecipazione: tante domande, tanti bisogni espressi e un architetto che con carta e matita offre una sintesi».

Quali altri strumenti ha l’architettura per attenuare le disuguaglianze?
«Può progettare un buon sistema di trasporto pubblico. L’America Latina mostra esperimenti encomiabili. A Bogotà e a Medellín si è drasticamente ridotto il tasso di criminalità giovanile perché le immense favelas sono state meglio collegate fra loro e con il centro da sistemi di funicolari e di tram. Quel che genera i conflitti e la rabbia non è la povertà in sé quanto la disuguaglianza. La povertà è ridotta nel mondo, è peggiorata la disuguaglianza. La redistribuzione non basta a colmarla. Perché sia efficace ci vuole molto tempo. La città offre occasioni per diminuire le disuguaglianze se fornisce un trasporto pubblico efficiente e di qualità. Come l’investimento in spazio pubblico. Sono interventi in cui l’architettura ha un ruolo decisivo».
L’OPERA
Qui accanto l’Innovation Center dell’Università Cattolica di Santiago del Cile realizzato da Alejandro Aravena ( nella foto in alto)
Una sacrosanta risposta alla proposta del ministro renziano ai beni e alle attività culutrali di tagliare i monumenti dalle città e dai territori mercificandoli: "Quod non fecit Bondi fecit Franceschini". La Repubblica, 24 gennaio 2016
La domanda: ci conviene mettere a biglietto tutto il Patrimonio storico e artistico della Nazione?(articolo 9 della Costituzione) é saggio far pagare chi desidera andare a deporre una rosa sulla tomba di Raffaello, o un pensiero su quella di Vittorio Emanuele II, entrambi sepolti nel Pantheon di Roma, che contemporaneamente un monumento archeologico, una chiesa consacrata, un sacrario civile? La modernizzazione comporta necessariamente biglietterie all’ingresso di tutte le chiese storiche, dei conventi, delle biblioteche, degli archivi, degli ospedali monumentali, e domani magari alle porte di intere città, come Venezia?

I dubbi sono leciti. Perchè così facendo rischieremmo di spingere ancor di più l’economia culturale verso la passività della rendita.

Forse sarebbe preferibile fare esattamente il contrario, rendendo gratuito l’accesso ai grandi musei statali. Nel 2013 il gettito di questi ultimi è stato pari a 125.826.333 euro, ma allo Stato ne sono arrivati 104.333.063 (la differenza è andata agli oligopolisti delle concessioni): che è il costo di un singolo bombardiere F35. Il presidente del Consiglio ha giustamente detto di voler allineare la spesa militare e quella culturale: con meno di un terzo di quanto destinato all’assegno indiscriminato per il consumo culturale dei neo diciottenni, potremmo far entrare tutti gratis nei nostri musei. E l’economia indotta da un aumento del movimento dei cittadini verso il patrimonio darebbe frutti, anche fiscali, assai superiori al gettito dei biglietti.

Ma, soprattutto, nel nostro Paese come in nessun altro, il patrimonio culturale è fuso con lo spazio pubblico. Non c’è un vero confine tra il Pantheon e la sua piazza, ed eè vitale che si possa continuare a varcare liberamente quella porta bronzea: anche solo per continuare a passeggiare al coperto, anche solo per cinque minuti. Dobbiamo poter respirare liberamente la nostra storia: non possiamo spezzare questa quotidiana intimità diventando clienti anche nel cuore della nostra casa.

È difficile capirlo in un momento in cui l’unica bussola delle riforme dei Beni culturali, che si accavallano senza il tempo per valutarle, sembra l’espansione della valorizzazione, a spese della tutela e dell’educazione. Ma in gioco c’è l’idea stessa di cittadinanza: rendere più difficile l’accesso dei cittadini a un monumento identitario significa in qualche modo annullarne la forza.

Quando Urbano VIII Barberini portò via il bronzo dal tetto del Pantheon per farci cannoni (1625), disse che era “un tesoro nascosto, senza utile e senza uso”. Il popolo di Roma, visceralmente legato al monumento, si oppose alla messa a reddito, esclamando che quel che non fecero i barbari, avevano fatto i Barberini. Credo che oggi ci convenga pensare non come il papa, ma come il popolo: che g

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