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In un Paese in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili” e dunque vige la legge del più forte o, a seconda, del più preminente, del più affluente, del più ammanicato, che significa garantire a tutti gli stessi diritti? Lo abbiamo chiesto a Stefano Rodotà, costituzionalista, professore emerito di Diritto civile all’università La Sapienza di Roma, tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali e del Gruppo europeo per la tutela della privacy, deputato indipendente nelle liste del Pci e Pds, vicepresidente della Camera, oggi autore di un saggio per Laterza, da poco in libreria, significativamente intitolato con un’espressione di Piero Calamandrei “Il diritto di avere diritti” (pagg. 433, euro 20). Richiamandosi alla Costituzione italiana, Rodotà ci risponde che “la libertà non è negoziabile, così come avviene per i diritti”. Sono, i nostri, anni di “grande riduzionismo” in cui si sente il bisogno diffuso di avere dei “grandi principi di riferimento”.

Professor Rodotà ritiene che oggi, passato il ventennio berlusconiano, ci sia un’opportunità in più per aprire una nuova stagione all’insegna dei diritti e dei beni comuni?
Dovrebbe esserci, ma non ne sono particolarmente sicuro. In questi anni in materia di diritti abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte, una distanza grandissima tra ceto politico e società. Se paragono gli Anni Settanta a oggi, il bilancio è magro. Allora ci fu una grande affermazione dei diritti civili: del 1970 e degli anni seguenti sono lo statuto dei lavoratori, la legge sul referendum, l’istituzione delle regioni, le nuove norme sulla tutela della libertà personale. Poi c’è stata la riforma del diritto di famiglia, la parità uomo-donna, l’interruzione di gravidanza, la legge Basaglia sui manicomi, la legge Gozzini sulle carceri.

E oggi?
Oggi siamo veramente in un altro clima, in un’altra dimensione. Allora la legislazione italiana su alcuni punti era la più avanzata d’Europa. Ora siamo non solo fanalino di coda, ma lontani culturalmente. La fine delle ideologie ha portato solo alla prevalenza assoluta del mercato. Di fronte a questo mondo ‘a una sola dimensione’ il contrappeso, il contropotere, è unicamente quello che viene dalla forza dei diritti. La più grande fabbrica del mondo si trova in questo momento in Cina, la Foxconn, che produce componenti della Apple: lì hanno scioperato per avere un miglioramento delle condizioni di lavoro, cosa impensabile fino a poco tempo fa in quel Paese. Segni di questo genere ce ne sono ovunque nel mondo: quindi abbiamo, da una parte, la prevalenza della logica di mercato, dall’altra parte, quella dei diritti. I diritti tuttavia non possono essere sacrificati senza avere ricadute sul terreno economico.

Ad esempio?
Il caso dell’Ilva di Taranto è la dimostrazione, in casa nostra, di quanto dico: per anni sono stati trascurati i diritti di lavoratori e cittadini, come il diritto alla salute. Adesso tutto ciò sta portando a una crisi economica drammatica dell’azienda. Non si possono scindere diritti e governo dell’economia. Spero in una ripresa della politica dei diritti, ma non sono così ottimista. Anche perché la politica, per guadagnarsi un sostegno, si è fatta fortemente condizionare da un’idea di diritti e non diritti che proveniva dalla pressione delle gerarchie ecclesiastiche. Un’influenza esercitata non da tutto il mondo cattolico, beninteso, di cui una parte cospicua si è invece resa conto dell’importanza dei diritti, ma direi soprattutto dalle gerarchie vaticane, specie in materia di fine vita, procreazione assistita e rispetto dei diritti degli omosessuali. Mi auguro che questa fase sia ormai superata.

Lei parla, nel suo libro, di un possibile avvento di una democrazia su base “censitaria” in termini di rischio: che significa?
Vuol dire che alcuni diritti non ci sono riconosciuti nella loro pienezza perché appartenenti a ognuno, ma sono accessibili soltanto a chi ha le risorse per poterli far diventare effettivi. Se, come ha lasciato intendere il premier Mario Monti pur correggendo in seguito l’affermazione, si dovesse andare in futuro verso forme di privatizzazione del servizio sanitario nazionale, è chiaro che il costo dei servizi crescerebbe per i cittadini, con la conseguenza che io avrò tanta salute quanto potrò comprarmene sul mercato. Questa direzione sarebbe all’opposto di quanto afferma l’articolo 32 della Costituzione, laddove si dice che la salute è un diritto fondamentale del cittadino. Si romperebbe lo schema indicato dal principio di uguaglianza. I miei diritti saranno misurati non dal riconoscimento della mia dignità, del mio essere persona uguale a tutte le altre, ma in base alle mie risorse. Cittadinanza censitaria è un’espressione che si usava nell’Ottocento, quando votavano solo gli uomini e, tra loro, soltanto quelli che avevano un reddito superiore a una certa cifra.

Come si stabiliscono i diritti?
Se torniamo a misurare i diritti non sulla libertà e sull’uguaglianza, ma col censo e in base al denaro, noi torniamo alla democrazia censitaria appunto. E, così facendo, andremmo anche contro una tendenza globale. La campagna elettorale americana è stata fortemente giocata proprio intorno al tema della riforma sanitaria di Obama, che ha cercato di dare una tutela al diritto alla salute per milioni di persone, che ne erano rimaste – fino a quel momento – escluse. Il tema dei diritti è capitale ovunque esiste la necessità di far uscire le persone da una condizione di minorità.

Tempo di crisi. L’agenda Monti per affrontare l’emergenza è – a detta di molti – un’agenda di cose da fare, da affidare così com’è al prossimo governo.
Se la cosiddetta ‘agenda Monti’ è null’altro che prosecuzione di quello che è stato fatto per superare l’emergenza, allora non credo che ci avviamo verso una stagione politica particolarmente promettente. Non possiamo vivere all’insegna dell’emergenza continua e dell’esistenza dei soli problemi economici. I diritti, come nel caso menzionato dell’Ilva, non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni sociali molto pericolose. In questa situazione si dice continuamente che una delle vie d’uscita è “avere più Europa”, e sono assolutamente d’accordo. Tuttavia l’Europa non è soltanto l’economia. Dal 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’Europa non è più fatta soltanto di norme che riguardano il mercato, ma ha – allo stesso titolo e col medesimo rango – una Carta dei diritti fondamentali.

Perché questa Carta è importante?
Nell’ultimo periodo, c’è stato un distacco e in alcuni casi un vero e proprio rifiuto dell’Europa. Per molti Paesi, infatti – l’Italia è tra questi – Bruxelles è diventata la ‘fonte dei sacrifici’. Ciò che arriva dall’Europa è percepito come obbedienza a una logica economica che restringe opportunità e diritti dei cittadini. In tal modo, il popolo europeo si allontana sempre più dalle sue istituzioni e si rischia non solo una crisi dal punto di vista economico, ma anche da quello della legittimità democratica. Un’Unione Europea può avere il consenso dei cittadini se i cittadini vedono che in essa c’è un valore aggiunto proveniente dai diritti. Lo testimoniano molte sentenze di corti europee e di corti costituzionali nazionali che hanno preso sul serio la Carta. Se i cittadini cominciassero a vedere che l’Europa porta loro nuove opportunità di tutela dei diritti, la spirale negativa cominciata in questi ultimi anni forse potrebbe essere interrotta.

Come mai si sente oggi la necessità di rimettere la Costituzione al centro dell’attenzione?
La Costituzione ha, specie nella sua prima parte, una straordinaria forza, eloquenza e attualità, tanto più oggi di fronte al fatto che le nostre società sono diventate sempre più disuguali. Ai tempi di Vittorio Valletta, amministratore delegato della Fiat, la differenza tra il suo stipendio e quello di un operaio era di uno a quindici. Oggi il rapporto tra lo stipendio dell’operaio Fiat e quello di Sergio Marchionne è di uno a quattrocentotrentacinque. Quindi le disuguaglianze sono diventate enormi e insopportabili economicamente e socialmente. Ed ecco che ritorna il principio di dignità e uguaglianza. Il problema di sicurezza e dignità della persona sul lavoro dimostra che la Costituzione – come diceva Calamandrei – è ‘presbite’, ossia capace di guardare lontano. Si dice, ad esempio, che i partiti dovrebbero tornare a essere uno strumento nelle mani dei cittadini e non delle oligarchie: allora leggiamo l’articolo 49 dove si sostiene che tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per partecipare con metodo democratico alla definizione della vita politica nazionale. Lì era scritta un’idea di partito che, in questi anni, è stata completamente stravolta.

Allora occorre tornare a leggere la Costituzione?
Sì. Vi troveremo tutta una serie di indicazioni che ci aiutano ad affrontare con principi forti le difficoltà odierne. Parlando di lavoro, forse l’articolo più bello, che non dovremmo mai perdere di vista, è proprio l’articolo 36, laddove si dice che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa”: sono parole bellissime. L’esistenza deve essere libera e dignitosa, non può essere sempre e soltanto subordinata alla logica economica, come quando si afferma “io ti do soltanto il minimo che ti fa sopravvivere biologicamente”: questo umilia le persone. Per tale ragione oggi il tema del lavoro è diventato capitale.

Però il dettato costituzionale, anche in tema di lavoro, viene spesso disatteso.
Una diagnosi di perché questo accada non è facile. Certo è che organizzare l’economia intorno al riconoscimento dei diritti del lavoro, della considerazione che il lavoro non è una merce che debbo poter comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere generale molto impegnative. Nei momenti in cui c’è una reale difficoltà economica, come ora, si è sempre pensato che occorresse ridurre il costo del lavoro. Poi ci siamo accorti che c’era scarsa capacità imprenditoriale, che c’erano diseconomie molto forti, una corruzione che significava costi più elevati in quanto costituiva un aggravio per il sistema delle imprese. Allora abbiamo visto il lavoro come l’unica variabile che poteva essere ‘colpita’… Non l’evasione fiscale, non la corruzione. L’elevato costo del lavoro è anche il risultato di reperire risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente, invece di fare un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero. Entrambi i fenomeni sono stati – ormai lo sappiamo e ce lo ricordano di continuo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il profitto di pochi. Il lavoro ha finito per venire sacrificato in un quadro nel quale sono stati ritenuti prevalenti altri tipi di interesse.

Quanto conta oggi la società civile, che ascolto ha?
Difficile dirlo. In alcuni momenti abbiamo l’impressione che conti molto. Adesso si dice “c’è un risveglio”, 3 milioni e mezzo di persone sono andate a votare per le primarie del centrosinistra, ci sono manifestazioni – che personalmente non mi piacciono affatto – e che hanno fatto capo a Beppe Grillo, c’è gente che si mobilita fuori dai canali tradizionali. C’è, insomma, una società capace di esprimersi. Questo in parte è vero. Ma prima non è che ci fosse una società civile opaca… Abbiamo vissuto una lunga fase in cui la società civile riusciva a esprimersi attraverso la mediazione non al ribasso fatta dai partiti. Non a caso si parlava di ‘partiti di massa’. Mentre oggi noi parliamo di ‘partiti oligarchici, di plastica, partiti-azienda e partiti leggeri’. Il che vuol dire che questi partiti sono più oligarchia, più organizzazione su modello manageriale (ricordo il caso del ‘marketing politico’). Tutto questo ha determinato l’esclusione dei cittadini, che poi magari imboccano strade non tra le più felici. Questo crea, da un lato, una distorsione e, dall’altro, reazioni della società civile che possono avere ‘effetti distorsivi’.

Che rapporto c’è tra società civile e politica?
Un rapporto basato su un equivoco di fondo, secondo cui tutto quello che c’è nella società civile è bello e buono, e tutto quello che c’è nella società chiamiamola ‘politica’ è male. Questo ha determinato effetti negativi, perché in questi anni abbiamo avuto una caduta della cultura politica in senso proprio, cioè della capacità di fare politica al più alto livello. Sono arrivate in Parlamento troppe persone che non erano in grado di fare questo mestiere, un mestiere difficile che si deve imparare in maniera adeguata. Di fronte a questa incapacità sono venuti fuori i tecnici. Allora la società civile, che è stata esaltata – giustamente – come soggetto che deve avere voce in capitolo, ha finito per essere santificata anche nelle sue manifestazioni meno positive. Ogni cosa che proveniva dalla società civile era buona, salvo accorgersi poi che non era così, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi.

A sinistra del Pd c’è spazio, a suo avviso, per una nuova formazione politica?
In proposito ho un’opinione molto netta. Quando è stato avviato il movimento di Alba (acronimo per Alleanza per il Lavoro Beni comuni e Ambiente, ndr.), ho detto che c’era molto spazio per l’azione politica e molti rischi legati alla fretta di far diventare l’associazione una lista elettorale. Ritengo che ci sia stata, e spero che non sia del tutto perduta, una spinta – soprattutto dalla seconda metà 2010 alla prima metà del 2011– che ha portato a risultati importanti nella primavera 2011, con tutta una nuova generazione di sindaci, non espressione unica e diretta dei partiti, ma del grande dibattito della società civile. Stessa valutazione riguardo ai referendum del giugno del 2011, in particolare quello sull’acqua originato da un grande movimento sviluppatosi negli anni precedenti. Credo che esista, indipendente da dove la collochiamo rispetto al Pd, a sinistra a destra in alto o in basso, una grande capacità di elaborazione politica e culturale nella società italiana, perché quei movimenti sono riusciti a cambiare l’agenda politica. Se poi questo possa tradursi in un successo elettorale nelle elezioni del 2013 ho i miei dubbi.

E quindi?
In questo momento penso che noi dovremmo – e mi rivolgo soprattutto a chi stimo e alle persone di Alba con cui continuo ad avere rapporti – piuttosto proseguire in quella direzione e insistere in quella linea di elaborazione di idee e cambiamento anche dei referenti, senza generiche contrapposizioni. Perché poi, per riprendere l’esempio dei nuovi sindaci, alcuni di loro sono venuti fuori dall’esperienza dei movimenti, altri invece dalle organizzazioni dei partiti. Quindi la contrapposizione frontale non è detto che dia sempre risultati positivi, dipende da cosa c’è dietro, dalla capacità di elaborazione e anche di trovare collegamenti. Questa non è una critica che rivolgo soltanto ai movimenti. Il Pd, ad esempio, non si è reso conto dell’importanza che i movimenti avevano avuto in quella stagione e non li ha presi sul serio. Mi pare sia stato un errore politico. Oggi vedo una situazione in movimento, una difficoltà a tradurre tutto questo in nuove forme organizzative che possano avere successo elettorale e vedo, nello stesso tempo, le difficoltà della sinistra tradizionale.

Si parla molto della costituzione di un quarto polo: sogno o realtà?
Io non riesco a usare né l’uno, né l’altro termine. C’è un dato di realtà indubbio: tutto questo mondo ha avuto risultati politici che non si possono negare. Quei sindaci non sarebbero stati eletti senza quel tipo di movimento alle spalle. I referendum hanno mobilitato 27 milioni di persone, ma è un po’ un’illusione ritenere che quei 27 milioni di persone sposterebbero il loro consenso su formazioni minoritarie, a sinistra della sinistra, come quelle di cui stiamo parlando. Uno sbaglio commesso in passato dai Radicali, che hanno pensato che il consenso ottenuto nei referendum e nella raccolta delle firme si traducesse in consenso elettorale. E’ assai complicato riuscire a convertire l’azione di movimenti che hanno un obiettivo specifico, ben percepibile e ben al di là dei confini dei partiti, assegnare loro un obiettivo, raggiungerlo, e poi pensare che ciò si traduca in una lista elettorale sostenuta dalla medesime persone.

Quali sono, dunque, i suoi auspici?
Mi augurerei che quanto c’è nella sinistra tradizionale, per così dire, venisse recepito con più attenzione e diventasse seriamente parte dell’agenda politica. Se si arrivasse ad avere alcune liste a sinistra della coalizione imperniata sul Pd e poi queste dovessero subire uno scacco, com’è avvenuto nelle ultime elezioni per le liste arcobaleno e verdi, quale sarebbe l’effetto? Di nuovo si direbbe: “voi politicamente non contate nulla”, un risultato che va evitato. Invece, sono convinto che proprio il cambiamento avvenuto in questi anni debba molto a un mondo che non è anchilosato come nella politica tradizionale. Un elemento emblematico è che il Pd ha come suo slogan “Italia. Bene Comune”; è successo in seguito al referendum sull’acqua, bene comune, e il Pd è stato l’unico partito a farne un programma. Se questo slogan viene usato strumentalmente non va bene, ma se dietro continua a esserci un lavoro costante, allora si possono cambiare molte cose.

Lei teme la mancanza di coesione?
E’ un rischio effettivo, una questione che dovrebbe interessare chi è già soggetto politico strutturato, quindi il Pd. Finora quest’attenzione ai movimenti non c’è stata o non c’è stata in maniera adeguata. Secondo me, la società civile non è un indistinto generalizzato e dovrebbe costruirsi non per opposizione e invettiva (sul genere di “il Pd succube dell’agenda Monti”, “Vendola traditore”), ma dovrebbe lavorare molto sui temi che debbono riuscire a comporre una nuova agenda politica. Così questo mondo della sinistra potrebbe ritrovare, pur in una diversità difficile da cancellare, delle modalità di organizzazione e di presenza sociale e politica più forti delle odierne. In troppi casi, purtroppo, queste modalità riflettono la storia meno apprezzabile della sinistra, il litigio continuo. Un tempo, nelle vecchie logiche dei partiti comunisti, questo veniva chiamato ‘frazionismo’, ossia un’esasperata ricerca del dato differenziale. Anche se non bisogna andare a cercare spasmodicamente l’unità a qualsiasi prezzo, però che almeno non ci sia una sorta di disconoscimento preventivo dell’interlocutore, sul genere di “con quello io non parlo”, semplicemente perché è sbagliato.

Giovani/vecchi: una contrapposizione che oggi ha un senso?
Dal momento che si era costituito un sistema di oligarchie, questa formula ha finito per giocare un ruolo e lo vediamo. Ma, nello stesso tempo, in astratto questa è una contrapposizione insensata, specie a generalizzarla. Personalmente ho fatto due esperienze dirette nel pubblico: come parlamentare e come presidente di un’autorità indipendente. In quest’ultimo caso, fissare un tetto di otto anni all’authority è un bene: serve un ricambio, scandito da regole precise, anche per evitare intrecci di interessi e il pericolo di burocratizzazione. Riguardo al Parlamento, invece, la cosa è diversa, dal momento che il lavoro parlamentare è anche un accumulo di esperienza. Ci sono stato immerso per 15 anni e poi me ne sono andato di mia spontanea volontà. Inoltre, il Parlamento è un luogo rappresentativo: se i cittadini vogliono affidarsi a persona che ha esperienza, perché impedirlo? Nella questione giovani/vecchi un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che si vogliono trascinare le carriere al di là dei giusti limiti.

Di cosa è fatta la politica? Di simboli e visioni, come diceva Berlinguer, o di risposte concrete?
Di tutte e due. Le risposte concrete che non sono capaci di guardare il contesto rischiano di essere drammaticamente inadeguate. Quanto sento Monti che a una domanda sui malati di Sla, costretti a manifestare esibendo la loro terribile condizione umana, risponde semplicemente che c’è stata una politica economica sbagliata e che pertanto le risorse sono ridotte, non va bene. Non si possono ignorare questi dati concreti. Se governo un Paese e voglio rispettare le persone non posso non distribuire le risorse ignorando simili situazioni. E’ sintomatico di una diversa visione della società: il governo come puro calcolo economico. Le due cose, visioni e azioni politiche devono essere tenute insieme: le grandi visioni politiche si sono poi tradotte in grandi programmi, realizzati almeno in parte.

Dunque che fare?
Non mettere visioni e azioni politiche le une contro le altre, in quanto questo autorizza molte cose. Ad esempio dire “Ma quel signore le cose le fa, quindi apprezziamolo indipendentemente da…”: è la logica del “rubo ma faccio”, slogan di un noto senatore brasiliano. Zero visione e tutto fatti. Ridurre la politica a questo significa mortificare la democrazia. Io vorrei che la politica fosse sempre accompagnata da una visione. E’ la ragione per cui ritorna l’attenzione alla Costituzione. I nostri sono anni di grande riduzionismo. Tutto viene ridotto, nella peggiore delle ipotesi a interesse personale, nella migliore a calcolo economico. Mentre si sente il bisogno di avere dei grandi principii di riferimento. La nostra Carta costituzionale è molto eloquente in questa direzione: su alcuni punti come quelli dell’uguaglianza e della salute ha formulazioni ricche e precise. E’ un documento che guarda alla persona e alla sua dignità. Credo che questo bisogno di idealità e principii sia sentito molto fortemente.

Lei parla di una ‘religione della libertà’: di che si tratta?
E’ una citazione che ho tratto da Benedetto Croce. Croce vedeva la storia come il risultato di un atteggiamento spirituale, che deve nutrire la politica e portare alla libertà. La libertà è quella che deve essere messa sugli altari da qualsiasi cittadino. Ecco perché mi sono sentito, da laico, di usare quest’espressione che oggi ci può aiutare. La libertà non è negoziabile da nessuno e per essa dobbiamo impegnarci. C’è una canzone partigiana francese che dice “viviamo nella notte ma la libertà ci ascolta”, un’affermazione molto fideistica, che si sposa bene con l’idea di religione della libertà. Ma anche un antidoto al pessimismo che si traduce in passività. E le democrazie muoiono di passività, non solo di aggressioni esterne.

Puntuale e sistematica recensione, efficace ed esaustiva anche se leggermente ingessata, a “Il diritto di avere diritti” di Stefano Rodotà.

La Repubblica, 23 novembre 2012 (f.b.)
Che succede al diritto in un mondo senza terra? Orfano di territori circoscritti in cui affondare le proprie radici e di tutela da parte di sovranità nazionali capaci di imporlo? Cosa ne è di esso, quando si interrompono le grandi narrazioni che per secoli ne hanno costituito lo sfondo? Sono queste le domande cruciali che Stefano Rodotà pone in un libro – Il diritto di avere diritti, appena edito da Laterza – in cui sembrano convergere, componendosi in un affresco di rara suggestione, le grandi questioni che egli ha sollevato in questi anni con coerenza e passione. Prima ancora che un vasto ripensamento del diritto nell’età della globalizzazione, sono in gioco i rapporti tra spazio e tempo, vita e tecnica, potere ed esistenza in una trama discorsiva che intreccia continuità e discontinuità senza assolutizzare né l’una né l’altra. Ciò che conferisce all’analisi forza e respiro è la consapevolezza che anche le più clamorose rotture sono percepibili solo in rapporto ai tempi lunghi entro cui si ritagliano. L’autore sa bene che passato e presente, origine e contemporaneità, si illuminano a vicenda e che anzi è proprio la loro tensione a rendere visibile l’effettivo movimento delle cose.

Rispetto alla radicale dislocazione che rimette in gioco l’intero ius publicum europaeum, in cui quella che è stata chiamata (da Bobbio) “età dei diritti” pare perdere terreno di fronte alle sfide della tecnica e dell’economia, Rodotà rifiuta entrambe le vie più facili – sia quella, regressiva, dell’arroccamento nei vecchi confini sovrani, sia quella, utopica, di un’immersione totale nel mare indistinto della rete. Certo la metafora della “navigazione” negli spazi infiniti di Internet,
a dispetto delle guardie confinarie dei vecchi Leviatani, è suggestiva. Ma le parole con cui, qualche anno fa, John Perry Barlow apriva la Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio testimoniano come una straordinaria promessa possa rovesciarsi in una sottile minaccia: «Governi del mondo industriale, stanchi giganti di sangue e di acciaio, io vengo dal cyberspazio, la nuova dimora della mente. In nome del futuro, invito voi, che venite dal passato, a lasciarci in pace. Non siete benvenuti tra noi.

Non avete sovranità suoi luoghi dove c’incontriamo». Contro gli occhiuti fantasmi del passato e le fughe in avanti in un futuro per nulla rassicurante, Rodotà coniuga al meglio attenzione al nuovo e consapevolezza delle sue ambivalenze, realismo e speranza. La sua tesi centrale è che solo l’elaborazione di un rinnovato diritto possa riempire le faglie aperte dalle scosse telluriche in corso, ricostituendo quell’equilibrio tra politica, economia e tecnica che le dinamiche globali hanno forzato fino a sgretolarlo. Alle fine delle grandi narrazioni, l’unica che appare resistere – capace di rassicurare gli individui e mobilitare i popoli – è soltanto il progetto di estendere ad ogni essere umano i diritti faticosamente conquistati in una lotta che ha attraversato l’intera storia moderna. E ciò nonostante i limiti, le contraddizioni, le disillusioni che di volta in volta hanno dato una sensazione di insufficienza, di arretramento e perfino di tradimento delle conquiste precedenti. Il ragionamento di Rodotà si sviluppa per passaggi consecutivi che, nel momento stesso in cui profilano con nettezza la sua posizione, tengono però già conto, incorporandole, delle possibili obiezioni.

Certo, il diritto non è in grado di coprire l’intera gamma dei nostri bisogni – e del resto una giuridicizzazione integrale dell’esistenza assomiglierebbe più a una gabbia che a un libero spazio di convivenza. Eppure solo esso è in grado di contenere la pressione sempre più invadente dell’economia e della tecnica. La prima attraverso uno scioglimento del mercato da qualsiasi vincolo sociale che rischia di spezzare il nesso moderno tra dignità e lavoro. La seconda attraverso un controllo pervasivo della vita da parte di apparati solo apparentemente neutrali, in realtà custoditi in poche mani, come accade per Facebook e Google. Che sarebbe di un mondo affidato a una lex mercato ria senza limiti o di una vita interamente esposta all’occhio di invisibili terminali elettronici che ne spiano ogni minimo movimento?

Naturalmente, perché il diritto possa esercitare una funzione non solo legislativa, ma compiutamente giurisprudenziale, deve passare dal piano di una legge imposta dall’alto a quello, immanente, di una norma che risponda ai bisogni materiali delle persone – proteggendo i loro diritti civili, politici, sociali e adesso anche informatici. Ma perché ciò assuma senso è necessario strappare la vecchia maschera della persona giuridica, incarnandola nel corpo dell’individuo vivente. Quanto ciò sia complicato è ben noto a chi conosce il ruolo discriminante, ed anche escludente, che il dispositivo romano della persona ha esercitato per secoli nei confronti di coloro che sono stati dichiarati di volta in volta nonpersone, persone parziali, semipersone o anche anti-persone. Ma l’uso della categoria assunto dalle Costituzioni e dalle Dichiarazioni postbelliche sembra voler aprire una nuova storia, che ha portato alla Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza nel 2000 ed entrata in vigore col Trattato di Lisbona del 2009. A questo insieme di processi sociali, giuridici, semantici – che pongono al centro del diritto il corpo di donne e uomini liberi ormai anche dal vincolo di cittadinanza, perché cittadini del mondo – Rodotà dà il nome di costituzionalizzazione, collocandolo al cuore del libro.

Proprio su di essa io credo si possa, e si debba, lavorare, spingendola sempre più avanti nella direzione di una connessione profonda tra diritto e vita. Che, naturalmente, non può fare a meno della politica, come ben riconosce l’autore. A tale proposito avanzerei due ulteriori osservazioni. La prima riguarda appunto il rapporto tra diritto e politica. Rodotà vede nel primo soprattutto una salvaguardia per la seconda, il cerchio di garanzia all’interno del quale il politico può svilupparsi legittimamente. Bene. Ma se quella sui diritti, come egli scrive, è una lotta – lotta per e sui diritti, il diritto non è a sua volta interno alla dinamica politica? Voglio dire che la stessa opzione per l’universalismo dei diritti passa necessariamente per un conflitto con coloro che lo negano – e dunque non può non assumere un profilo di per sé politico. Il “politico”, insomma, non è un ambito come gli altri, che il diritto possa limitarsi a garantire dall’esterno, ma è il grado di intensità della lotta che li percorre tutti, compreso quello del diritto.

La seconda osservazione riguarda l’Unione Europea, cui Rodotà dedica la massima attenzione. Egli scrive che se l’Europa saprà pienamente riconoscersi nella Carta «troverà pure una via d’uscita da una sua minorità, dal suo continuare ad essere “nano politico”». Ho il timore che, per ridare un profilo politico all’Europa, ciò possa non bastare – se insieme non si mette in moto un processo costituente che restituisca, almeno nella fase di avvio, piena sovranità politica ai popoli europei in una forma non del tutto coincidente con una pura giuridicizzazione. C’è sempre un momento iniziale in cui il politico oltrepassa il giuridico o almeno lo forza in una direzione imprevista. Ovviamente domande del genere, che rivolgo all’autore, nascono dall’impianto stesso di una ricerca che per ricchezza, competenza e intelligenza, ha pochi uguali nel dibattuto giuridico contemporaneo.

Nel libro-intervista “Il mio Nord” Roberto Maroni racconta il suo programma. Ma il centrosinistra, legalitarismo a parte, ne ha uno alternativo?

Corriere della Sera, 22 novembre 2012 (f.b.)

MILANO — «Quando sarò eletto presidente della Lombardia, ci mettiamo insieme con Cota e Zaia e dal giorno dopo parte l'Euroregione del Nord. Questo è il valore aggiunto della mia candidatura». Roberto Maroni si stacca in parte dalla stretta attualità politica. Questa volta, intervistato dal direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, ha modo di spiegare compiutamente il nuovo sogno che offre ai suoi «barbari», non più la Padania ma un'Euroregione che è «l'aggiornamento della visione di un vecchio leghista, Gianfranco Miglio con le sue macroregioni». La novità sta nella direzione in cui il futuribile soggetto indirizzerà la sua azione: «Non più verso Roma, non più verso Sud. Ma oltre le Alpi, per diventare parte di quell'Europa delle Regioni che è l'unica uscita possibile della crisi dell'Europa degli Stati». Il direttore del Corriere chiede anche qualche autocritica a Maroni, «un esame serio di quello che è accaduto nel rapporto tra Stato e Regioni negli anni di governo», che hanno visto il boom della spesa regionale. Il segretario leghista raccoglie fino a un certo punto, per lui ormai l'obiettivo è il lancio di una «nuova Europa federale in cui le tessere siano le Regioni e non più gli stati nazionali». E aggiunge di apprezzare per l'Europa «il modello americano, con l'elezione del premier o presidente. Oggi Barroso non è eletto da nessuno. E il Parlamento di Strasburgo è l'unico al mondo che non fa le leggi».

Ferruccio de Bortoli chiede a Maroni se non ci sia contraddizione tra le critiche alla vecchia alleanza con il Pdl e le prove tecniche di nuova alleanza. E qui Maroni torna all'oggi: «Al momento, salvo che la Lega decida diversamente, con noi all'opposizione e il Pdl al governo, non c'è la minima possibilità di fare l'accordo per le elezioni politiche. Diverso è il caso della Lombardia, dove siamo tuttora al governo insieme. Ma io aspetto fino a domenica. Non do ultimatum, ma se il Pdl rimane lì ancora dieci giorni, arrivederci e grazie». Tra l'altro, ieri Maroni ha incassato l'intenzione di voto di Giulio Tremonti: «In Lombardia voterei e voterò Roberto Maroni», ha detto ieri mattina a Omnibus, su La7.

L'occasione della pubblica intervista è offerta dalla presentazione del libro «», scritto con Carlo Brambilla, per vent'anni cronista di cose leghiste per «L'Unità». Ed è quest'ultimo che rivela la genesi del libro: «Doveva essere la rivendicazione del lavoro svolto in trent'anni di Lega nel momento in cui contro di lui era in atto l'offensiva di una parte del partito. Poi, in corso d'opera, il libro si è trasformato in qualcosa di profondamente diverso: nel frattempo, Maroni era diventato il segretario della Lega».
Il libro, così, è tutto giocato su un doppio registro. Da una parte, la «versione di Bobo», la storia della Lega vista con gli occhi di un protagonista come Maroni. Dall'altra, il manifesto politico della «nuova» Lega, il senso compiuto di quel «Prima il Nord» che rappresenta non semplicemente il brand del Carroccio di seconda generazione, ma soprattutto una profonda revisione della sua cultura, delle sue parole d'ordine e della sua organizzazione.

Nel suo ripercorrere le vicende del movimento, Maroni parte dalla fine. Dalle vicende che hanno portato lui a sostituire Umberto Bossi alla guida del partito e dall'onda sismica anche giudiziaria che ha investito il Carroccio all'inizio dell'anno. Al cosiddetto cerchio magico intorno a Bossi sono in realtà dedicate poche righe: dopo la malattia del «Capo», «il gruppo si è formato quasi subito, prima come cordone sanitario per proteggere l'integrità dell'illustre degente, poi come (presunto) depositario e unico comunicatore delle indicazioni che sarebbero venute da un capo sempre più isolato e lontano dalla realtà, tanto da essere portato ad occuparsi di "altro"». E ancora, «il punto massimo della spudoratezza»: quando alcuni esponenti cerchisti si sono presentati all'uscio del consiglio dei ministri parlando a nome di Bossi, «addirittura con lo stesso Bossi presente».

Da lì, la nascita dei «barbari sognanti», non come corrente interna ma come rinnovato spirito leghista. Maroni torna poi all'inizio, al suo primo contatto con Bossi nel 1979 tramite il comune amico Andrea Brianza, che voleva coinvolgere entrambi nella mobilitazione contro un'operazione edilizia vicino a Lozza, il paese di Maroni. Il nuovo leader ripercorre poi altre tappe-chiave: la nascita della Lega lombarda, la sua segreteria a Varese e la fine della «fase etnica» e del dialetto quando Bossi comprese, sul finire degli anni Ottanta, che l'eccesso di localismo rischiava di minare l'ideale unità della Padania.

Recensione all’ultimo libro di Serge Latouche,

Limite, per capire meglio il pensiero di una autore – come accade del resto a Bauman, o Augé - spesso frainteso. Il manifesto, 13 novembre 2012 (f.b.)

Marx, all'interno dei «Grundrisse» afferma che per il capitale «ogni limite si presenta come un ostacolo da superare». Ebbene, nell'epoca della globalizzazione neocapitalista, e della sua crisi, questa tendenza sembra aver toccato il suo massimo livello. Niente più frontiere per merci e capitali, asservimento e sussunzione globale di corpi e cervelli all'interno del sistema capitalistico, rapporti sociali improntati alla massima diseguaglianza. Eppure questo voler oltrepassare i limiti ad ogni costo, fa venire in mente un concetto fondamentale della letteratura tragica della Grecia antica. Il concetto in questione è quello di hybris, ovvero arroganza, tracotanza, oltrepassamento illecito e sacrilego da parte dell'uomo dei limiti a lui assegnati. È questa la colpa fondamentale dell'eroe tragico greco - che mette in moto il meccanismo drammatico - questo voler andare al di là dei confini stabiliti causando così l'ira e la vendetta degli dei e, conseguentemente, la sua perdizione. Sarebbe l'intero mondo moderno allora, e soprattutto l'Occidente, che oggi si avvia alla rovina a causa della hybris, della tracotanza che porta ad oltrepassare i limiti? Ma soprattutto quali sono i limiti che la società dovrebbe darsi e saper rispettare? E infine qual è e quale dovrebbe essere il rapporto che si dovrebbe instaurare tra regola e trasgressione?

Su questi e altri argomenti connessi spinge a riflettere l'ultimo libro di Serge Latouche, uscito di recente per Bollati Boringhieri e intitolato appunto Limite (pp. 113, euro 9). Si tratta di un breve testo, ma estremamente denso e davvero esaustivo, nel senso che passa in rassegna il concetto di limite, declinandolo nei più diversi settori: da quello geografico a quello economico, da quello ecologico a quello politico, da quello morale a quello culturale e così via.
Si viene ad instaurare, così, una fitta rete di rapporti tra i diversi ambiti analizzati, quasi fili sottili di una ragnatela che collega tutto il discorso, mostrando cosa è diventato un concetto come quello di trasgressione, oltrepassamento dei limiti dati, in origine liberatorio e sovversivo, una volta sussunto all'interno della relazione capitalista. Così, per fare un esempio, in campo culturale, la mancanza di confini tra culture diverse porta all'omologazione più totale fondata sul sopravvento della cultura più forte, piuttosto che a un confronto ricco e gravido di aperture tra vari sistemi culturali differenti. E si arriva alla governance, come «risultato del passaggio dal buon governo pubblico alla gestione delle imprese giganti, la corporate governance». E il concetto «emigra poi a sua volta in campo politico con la controrivoluzione liberale e si ritrova applicato tanto al livello della Banca Mondiale e del Fmi quanto al livello della Commissione Europea e delle amministrazioni pubbliche». Tutto, così, dalla sanità all'istruzione, alla cultura e persino le prigioni, deve essere gestito come un'impresa. Dunque privatizzazioni, dunque governo dei tecnici. E questo tipo di governance si sta estendendo a livello mondiale e «sta portando il mondo al crollo e al caos». Il discorso, poi, tocca aspetti davvero catastrofici quando si applica a livelo ecologico. Basti semplicemente pensare cosa può significare un'espansione economica senza limiti all'interno di un ambiente, il nostro pianeta, necessariamente limitato.

Naturalmente anche i sostenitori dell'attuale sistema sono consapevoli dei rischi e dei pericoli. La soluzione proposta, però, è quella di proseguire ulteriormente sulla strada intrapresa, continuando ad oltrepassare ogni limite ed affidando alla scienza e alla tecnologia la risoluzione dei problemi che via via si presentano. Una speranza fideistica ed irrazionale, secondo Latouche, ed anche estremamente pericolosa, che, invece, non perde l'occasione per rilanciare la sua «utopia concreta», quella della «decrescita serena, conviviale e sostenibile», declinata nelle sue otto «R» - ovvero Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare - unica reale possibilità per l'umanità di evitare la catastrofe incombente.

Gli scritti di Marx sulla Russia e l'India pongono al centro il tema della natura umana in una realtà non capitalista. Un percorso di lettura a partire dal saggio di Luca Basso

. il manifesto, 10 novembre 2012

Tornare a leggere Marx oggi non può che significare farsi carico della discontinuità che la storia politica del Novecento ha determinato. Lo scacco dei «socialismi reali» (di stampo sovietico, nazionalista o socialdemocratico) è infatti coinciso con una crisi dei marxismi che non ha risparmiato neppure quelli che si erano costituiti nel corso del secolo come «eretici» - e che pure avevano mostrato una straordinaria vivacità teorica e politica. Ben prima dell''89, del resto, un insieme di movimenti (dalla presa di parola delle donne a quella di una molteplicità di soggetti «subalterni») aveva prima attraversato problematicamente il marxismo, poi contribuito a farlo esplodere. Se da più parti sembra annunciarsi un «ritorno a Marx», è bene auspicare che questo «ritorno» non si esaurisca nella soddisfatta constatazione della lucidità con cui Marx aveva annunciato la globalizzazione del capitalismo e la sua crisi, né nell'immediata riproposizione di una qualche variante di «marxismo». Tanto più dopo che i progressi della nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels (la cosiddetta Mega2) ci hanno in qualche modo consegnato l'immagine di un «altro Marx»: l'immagine cioè di un autore certo dominato da una fortissima «volontà di sistema», ma costretto al tempo stesso dall'urto con la materialità della storia e della politica a riaprire continuamente e a sviluppare in direzioni contrastanti la sua ricerca. L'immensa mole di manoscritti e frammenti di teoria che Marx ci ha lasciato fa della sua opera un vero e proprio cantiere aperto. E come tale è bene oggi considerarla ed esplorarla: a me pare che sia questo il modo più produttivo di leggere Marx oggi, nella prospettiva di una riappropriazione creativa del suo pensiero per la comprensione e la critica del nostro presente.

Taccuini di lavoroUn eccellente esempio di come questa esplorazione possa essere condotta con rigore filologico e passione politica è ora offerto dal libro di Luca Basso, Agire in comune. Antropologia e politica nell'ultimo Marx (ombre corte, pp. 247, euro 20). La «fedeltà nei confronti dell'approccio marxiano - scrive Basso - consiste, più che nello sclerotizzare un determinato contenuto e una determinata analisi, nella capacità di combinare una critica radicale della configurazione capitalistica presente con una pratica politica destrutturante». Lo studio del modo con cui Marx ha affrontato l'una e l'altra questione (la critica dell'economia politica e la politica rivoluzionaria) costituisce l'obiettivo del volume, che si muove tra l'analisi del primo libro del Capitale (pubblicato nel 1867) e gli scritti attorno alla Comune di Parigi del 1871.

Il libro di Basso affronta anche un gran numero di manoscritti redatti da Marx negli ultimi dieci anni della sua vita, quando il suo lavoro di ricerca, anziché concentrarsi sul secondo e terzo libro del Capitale (ricavati da Engels dai suoi manoscritti), intraprese appunto direzioni molteplici: Marx esplorò gli sviluppi contemporanei di una serie di scienze (dalla geologia alla chimica), si soffermò sull'opera di etnologi e antropologi e allargò ulteriormente l'orizzonte della sua riflessione al di là dell'Europa occidentale (l'interesse per la Russia è qui in particolare decisivo).
L'«ultimo Marx» è da tempo al centro di un vivace dibattito, che si concentra in particolare sugli ultimi due punti richiamati, ovvero sul confronto di Marx con gli etnologi a lui contemporanei (una traduzione parziale dei Quaderni antropologici del 1881-1882 è uscita per Unicopli nel 2009) e sul suo giudizio sulla «comune agricola» russa. Uno degli elementi di maggiore originalità del libro di Basso consiste nella decisione di ricomprendere nell'«ultimo» Marx anche gli scritti solitamente considerati come emblematici della produzione teorica del Marx «maturo»: in particolare il primo libro del Capitale. C'è qui in primo luogo una scelta interpretativa, quella di smarcarsi dalle infinite polemiche che all'interno del marxismo si sono determinate attorno alla questione del rapporto tra il «giovane» Marx e il Marx appunto «maturo»: questo libro muove piuttosto dalla «convinzione di una sostanziale, anche se non aproblematica e lineare, continuità nel percorso marxiano». Sono in primo luogo i problemi affrontati da Marx all'inizio della sua riflessione a rimanere costanti, anche se continuamente sottoposti a verifica, a «rettifica» e a torsioni concettuali con il passare degli anni. Il problema dell'«alienazione» (o «estraneazione»), in particolare, trova secondo Basso una originale riformulazione nell'analisi del «feticismo» delle merci nel primo libro del Capitale, dove è del resto ben presente la traccia della riflessione giovanile sul concetto di «ideologia».
La specificità del feticismo, l'«inversione» che conduce gli uomini a considerare come proprietà «oggettive» delle merci i «caratteri sociali» del loro lavoro, costituisce per Basso una sorta di «filo rosso» che corre attraverso l'intera critica marxiana dell'economia politica.

Oltre l'oggettività L'«opacità» che caratterizza il modo di produzione capitalistico si determina proprio dall'interno del continuo gioco di rimandi tra apparenza, realtà e rappresentazione che Marx analizza in modo rigoroso a proposito del feticismo delle merci (ma che ritorna nella sua analisi del denaro, del diritto, del capitale). Ne deriva, per riprendere una formula marxiana, un'«oggettività spettrale», che ha delle ripercussioni molto precise sul modo in cui la soggettività è costruita nel capitalismo - e che, scrive Basso, deve essere percorsa criticamente fino in fondo per fare emergere il profilo della stessa «soggettività operaia», su cui si esercita lo sfruttamento e che tuttavia è sempre in eccesso rispetto alla «misura» capitalistica.

Quel che il «feticismo» presenta agli uomini come una cosa sottratta alla possibilità di disporne non è altro che quel che gli uomini stessi hanno in comune (i caratteri sociali del loro lavoro, l'insieme dei loro rapporti sociali). La separazione del singolo lavoratore dai mezzi di produzione, dalle «condizioni oggettive» del lavoro e in fondo dalla sua stessa forza lavoro (che viene esercitata sotto il «comando» del capitalista), costituisce uno dei tratti essenziali del modo di produzione capitalistico nella prospettiva marxiana. Basso ne ricostruisce la trama concettuale e lo svolgimento storico tra «cooperazione», «manifattura» e «grande industria», mostrando come la separazione stessa si approfondisca, non paradossalmente, mano a mano che si intensifica il carattere sociale del lavoro: ovvero mano a mano che l'«operare insieme» dei singoli lavoratori dà luogo a una «forza di massa» non riducibile alla «mera somma aritmetica di singoli individui». Le condizioni di questo «operare insieme» continuano a essere appropriate dal capitale, così come le «potenze intellettuali» della produzione (la scienza e la tecnica), e si presentano ai singoli lavoratoricome potenze estranee.
Il problema politico fondamentale che Marx ci propone consiste dunque nel pensare un agire in comune attraverso cui i singoli lavoratori possano riappropriarsi di ciò che hanno in comune, di quelle che si possono definire le condizioni comuni della loro singolarità (tema già al centro di un precedente lavoro di Basso, Socialità e isolamento:la singolarità in Marx, Carocci, 2008). Si tratta di un movimento di cui è qui giustamente sottolineato il rilievo antropologico, nel senso che insiste sul terreno che i filosofi della prima modernità indicavano con la formula «natura umana» e che possiamo oggi chiamare produzione di soggettività. Nessun «naturalismo» è del resto concesso, nella prospettiva di Marx: che la «natura umana» sia interamente prodotta dalla storia è cosa che Basso mostra molto bene, ad esempio nelle pagine dedicate all'azione delle macchine sul corpo collettivo operaio. Insistere sulla dimensione «antropologica» del problema politico indicato da Marx significa dunque porre la soggettività sfruttata (la sua produzione, le sue pratiche, il rompicapo della sua liberazione) al centro dell'analisi critica del capitalismo e di ogni politica che ambisca a definirsi «comunista».
L'«agire in comune» diviene così, nella lettura di Basso, la vera e propria cifra della politica marxiana, la forma stessa assunta dal movimento di costituzione delle singolarità sfruttate in classe, tanto all'interno della fabbrica (come emerge in particolare dall'analisi della lotta attorno alla durata della giornata lavorativa) quanto nel movimento insurrezionale della Comune di Parigi, in cui Marx vide il primo esempio storico di «un governo della classe operaia». Il concetto stesso di classe, sotto il profilo politico, si presenta anzi come legato a doppio filo all'«agire in comune» delle singolarità che la costituiscono, nonché a una forma della politica che disegna un rapporto tra «singolarità» e «comune» radicalmente diverso da quello che caratterizza lo Stato moderno.

Il modello dell'universaleQuesto rapporto non è del resto in alcun modo assimilabile a quello che caratterizzava le formazioni sociali pre- o non capitalistiche. Resta tuttavia il fatto che l'«ultimo Marx» mette in discussione la rigidità con cui, con l'obiettivo di fare emergere i caratteri di dirompente novità del modo di produzione capitalistico, aveva caratterizzato tali formazioni sociali negli anni Cinquanta (in particolare nei Grundrisse), riconducendole a un generico «organicismo». L'interesse crescente per le società extra-europee e per il lavoro degli etnologi suoi contemporanei determina indubbiamente uno scarto in Marx: l'idea secondo cui il mercato mondiale è il presupposto del capitalismo moderno si carica di sempre maggiore concretezza, mentre viene progressivamente messa in discussione l'immagine di una transizione al capitalismo costruita univocamente sul modello inglese e presentata come «universale».

L'interesse di Marx, negli ultimi anni della sua vita, per forme estremamente diversificate di organizzazione comunitaria può essere legittimamente letto, in questo senso, come accumulo di materiali per la comprensione dei conflitti più significativi che l'espansione mondiale del capitalismo continuava a determinare. All'interno di questi conflitti quello che si è indicato come il problema politico di Marx si poneva in forme diverse e tuttavia non meno intensamente rispetto a quelle da lui analizzate. La comune pre- o non capitalista, come mostra in particolare il caso russo analizzato da Basso, non è certo la soluzione del problema; ma la sua presenza nella riflessione dell'«ultimo Marx» può ben essere assunta come segno della sua tensione a qualificarne e a ridefinirne continuamente i termini, aprendo lo spazio per molteplici «soluzioni», non necessariamente previste.
Il nuovo saggio di Salvatore Settis propone un'etica condivisa per proteggere gli interessi collettivi e riscoprire il valore della cittadinanza.

La Repubblica, 6 novembre 2012 (f.b.)

Fanno impressione certe somiglianze fra la crisi economica in cui siamo immersi dal 2007-2008 e la guerra al terrorismo iniziata nel 2001. Ambedue posseggono una perennità immota, refrattaria all´autocritica. La guerra al terrore ha imparato poco da errori e sconfitte, e resta permanente come Bush la voleva: la forma s´è fatta più infida, ma la guerra dei droni dilatata da Obama non la limita nel tempo. Così la crisi: uno dopo l´altro i rimedi falliscono, ma il vizio d´origine rimane, e dunque è pensata anch´essa come permanente. Il vizio è la sovranità che i mercati continuano a esercitare senza controlli sulle società, sugli Stati, sul popolo che in democrazia è sovrano. Nulla sembra mutato rispetto ai tempi in cui Keynes denunciava – poco dopo l´ascesa di Hitler, nel giugno 1933 – l´«imbecille linguaggio finanziario» che anteponeva al benessere dei cittadini i «risultati finanziari», e trasformava l´esistenza umana nell´«incubo di un contabile».

Si può uscire da un incubo imbecille? È la domanda che si pone Salvatore Settis nel suo ultimo libro (Azione popolare – Cittadini per il bene comune, Einaudi). Il peggio non sembra finire mai, ma «con l´acqua alla gola in un mondo senz´altre regole che il profitto, stiamo cercando per ogni dove vie d´uscita, principi di moralità, ragioni di speranza». Nel saggio citato dall´autore, Keynes dice che la «città delle meraviglie» bramata dai cittadini non è un´utopia impossibile, né maligna. Se non si realizza, è perché non frutta subito. Fruttano più gli slum, per le imprese private, mentre la città delle meraviglie, questa folle stravaganza, «potrebbe ipotecare il futuro». Non è vero che non possiamo permettercela a causa del debito. Questo ci dice Settis: in realtà i conti non tornano con le ricette che creano disuguaglianze e bassifondi. L´imbecillità contabile è tutta qui: è nella rinuncia dell´Italia a se stessa, alle alternative di cui potrebbe essere capace.

Per le nozioni che approfondisce – il bene comune, la proprietà pubblica, l´ecologia – il libro di Settis è vademecum indispensabile. Disegna su un foglio la città delle meraviglie. Il ragionamento ruota attorno a un´idea forte (un pensiero dominante, lo chiamava Leopardi): il principio del bene comune, che protegga da saccheggi i beni comuni usati dai cittadini. Il diritto romano distingueva fra cose pubbliche extra commercium, rigorosamente sottratte al mercato, e res in commercio: quel diritto ci ha formati, è la nostra forza.

La corsa alle privatizzazioni di beni e servizi pubblici, le cartolarizzazioni avviate da Tremonti con la complicità della sinistra (l´idea era di ripianare il debito cartolarizzando e poi dismettendo – dunque in prospettiva svendendo a privati – non solo edifici pubblici ma paesaggi e patrimoni artistici, immettendoli come garanzie in fondi immobiliari privati): sono tutte iniziative che violano tradizioni antiche e la Costituzione. Che spezzano il nesso fra sovranità popolare, diritti che dalla sovranità discendono, e proprietà pubblica di interesse collettivo (o demanio inalienabile). La cartolarizzazione venne interrotta: costava un´enormità. Ma è stata trasferita ai Comuni, obbligati per bisogno di soldi a operazioni che per forza preludono a dismissioni. Dismissioni incostituzionali, perché i beni pubblici sono dei cittadini: lo Stato siamo noi, diceva Calamandrei, e anche i suoi beni.

Per uscire dalla grandiosa pestilenza urge un altro modo di far politica, globale e locale. Il che vuol dire: un altro modo di possedere, come scriveva nel 1853 Carlo Cattaneo. Un modo che preservi i beni appartenenti ai cittadini. Urge un´etica «ricalibrata» sulla terra in pericolo: una situation ethics, la chiamò negli anni ´60 Joseph Fletcher, pioniere della bioetica, che ridefinisca i ruoli dello Stato, della sovranità popolare, del mercato, a seconda delle circostanze. Urge infine una volontà di resistenza che oggi manca: o perché interiorizziamo il culto religioso dei mercati, o perché in partenza rinunciamo.

Il pericolo della rinuncia è il filo conduttore del libro, l´incubo di Settis. L´autore ricorda un articolo, straordinario, scritto da Corrado Alvaro nel ´44: lo sguardo è cupo, sulle nostre capacità di riapprendere una moralità pubblica. Perché rinunziamo? Alla domanda, tormentosa, Alvaro risponde che accanto a un popolo resistente, colmo di meriti, permane un ceto politico in cui trionfano «mezza cultura, conformismo, feticismo, mancanza di senso critico»; in cui «il Nord si è presa la parte del gran corruttore, il Sud quella del complice e corrotto»: «una classe dirigente guasta per sempre». Alvaro chiamò inaderenza il disinteresse politico per i problemi, i bisogni, le verità del Paese. È la conferma che la Costituzione fu figlia delle speranze resistenziali, ma anche dei neri timori di veggenti come Alvaro o Calamandrei.

Arginare un mercato divinizzato che malgrado le disfatte continua a esser sorretto da teologie anti-statali è possibile, scrive Settis: con azioni pubbliche di resistenza, come nel referendum sull´acqua. Il manifesto già l´abbiamo: è la Costituzione, quest´Incompiuta sempre violata. È l´arma che abbiamo contro la veduta corta del berlusconismo, e l´assillo contabile del governo tecnico. Pur non nominando le generazioni future, ne ha cura. Dice questo l´articolo 9, che obbliga la Repubblica a tutelare, non svendere, paesaggi e patrimoni artistici. O gli articoli 41-42: tanto avversati, perché costringono le libere imprese a non agire «in contrasto con l´utilità sociale», e proteggono la proprietà privata ma ne assicurano la «funzione sociale». Il bene comune è custodito per i posteri.

La Costituzione come baluardo: ecco la zattera di salvataggio, secondo l´autore. Ecco come potremo opporci al presente corto che ci ossessiona, dimentico del passato e cinicamente indifferente alle future generazioni. Ecco come potremo coniugare l´amore del prossimo, l´amore del lontano di Nietzsche, l´amore di Antigone per leggi non contingenti. I lontani che abitano il futuro sono già qui, dice Settis – sono i nostri cittadini necessari, «presenti da subito nell´orizzonte della moralità e del diritto». Già sappiamo le loro domande.
Se non impariamo la «lungimiranza bifronte» (verso passato e futuro) davvero avremo rinunziato. Tornando a Keynes: sarà tale l´incubo del contabile, che distruggeremo «le campagne perché gli splendori naturali non hanno valore economico. Siamo capaci di spegnere il sole e le stelle, perché non danno dividendi».

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