«Nei recenti libri di Jose Il reddito di cittadinanza come un flessibile strumento per la sintesi tra eguaglianza e libertà, all'interno di un superamento del regime fondato sul lavoro salariato. Il manifesto
Due sono ormai le parole ricorrenti nella politica istituzionale. In nome loro, vengono decise politiche draconiane di austerità, che invece di risolvere, non fanno altro che confermare una condizione di illibertà. Si tratta di «precarietà» e «disuguaglianza», termini che dovrebbero orientare il pensiero critico nella traversata del deserto neoliberista ma che invece sono entrati a far parte del lessico di intellettuali, economisti preoccupati di dimostrare che le disuguaglianze e la precarietà sono una anomalia, una parentesi di una società che tende, grazie al buon funzionamento del mercato, all'uguaglianza. Convinzione smentita dai dati europei sul crescente divario di reddito esistente nelle società, uniti a quelli sull'altrettanto crescente esercito del lavoro «atipico» e sulla disoccupazione che ha superato la boa del dieci per cento (in Italia, le cifre sui disoccupati oscillano tra i 3 milioni e i 3,5 milioni di senza lavoro, mentre quelle sui precari sono oltre i 4 milioni).
Le eccezioni non mancano e vedono protagonisti piccoli gruppi intellettuali o movimenti sociali. Preziosa nello svelare il carattere immanente delle disuguaglianze nel capitalismo è, ad esempio, l'analisi che da anni conduce il filosofo francese Etienne Balibar, di cui vanno segnalati, oltre il recente Cittadinanza (Bollati Boringhieri), i volumi La proposition de l'égaliberté e Citoyen Sujet, entrambi pubblicati dalla casa editrice Puf. Questo nulla toglie al fatto che, tanto la precarietà che la disuguaglianza, sono tornate a infoltire di titoli una pubblicistica impegnata nel riproporre, in forma innovata, dispositivi keynesiani che hanno garantito al capitalismo oltre trent'anni di sviluppo. Tra quest'ultimi vanno ricordati il Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, il tedesco Ulrich Beck, l'inglese Anthony Giddens, il polacco Zygmunt Bauman, lo statunitense Richard Sennett, cioè i «senza partito» ritenuti le punte di diamante del pensiero democratico. Tra queste due posizioni, occorre affiancarne un'altra, che sviluppi una critica alle politiche di austerità, considerando i «senza partito» democratici interlocutori, senza rinunciare all'obiettivo di una sintesi tra eguaglianza e libertà, all'interno di una superamento del lavoro salariato, di cui la precarietà è solo l'ultima manifestazione, in ordine di tempo.
La costante neoliberista
Rilevante a questo fine è prendere atto che, sia nello spazio nazionale che in quello europeo, la condizione precaria e le disuguaglianze sono oggetto di politiche sociali che tendono a contenere gli effetti destabilizzanti all'interno del modello di accumulazione capitalistica neoliberista. Come ha argomentato Maurizio Lazzarato nella raccolta di scritti da poco pubblicata dalla casa editrice ombre corte, Il governo delle disuguaglianze è da considerare una costante del neoliberismo, sgomberando così il campo della retorica dello stato minimo che ha accompagnato il lungo inverno della controrivoluzione neoliberale. Lo stato, argomenta in maniera convincente l'autore, è lo strumento per assicurare la gestione e la legittimità delle disuguaglianze, ma anche per plasmare un «uomo nuovo», quell'individuo proprietario che doveva diventare il perno su cui far ruotare l'insieme delle relazioni sociali e attorno al quale costruire un nuovo progetto di società dove l'insieme delle tutele sociali e i diritti sociali della cittadinanza siano merce da acquistare sul mercato della protezione sociale. Che questo sia lo scenario che ha caratterizzato il neoliberismo non ci sono molti dubbi. Soltanto che dal 2008 il dominante governo delle disuguaglianze è entrato in crisi.
Il capitalismo ha visto non solo crescere la povertà, ma anche una diffusa indisponibilità di uomini e donne a fare proprio l'incubo dell'individuo proprietario. Indisponibilità che si è tradotta nelle forme ambivalenti del populismo, nell'esplosione di rivolte sociali che hanno attraversato gli Stati Uniti e l'Europa. E nella crescita, in alcuni paesi del vecchio continente, come l'Italia, la Spagna e la Grecia, dell'astensionismo elettorale. Ed è proprio in Europa e negli Stati Uniti che l'attenzione e la denuncia della precarietà e delle disuguaglianze è più forte. Anche in questo caso, le posizioni che si contendono l'arena pubblica si concentrano sulle politiche adeguate per affrontare una «questione sociale» che viene spesso paragonata a quella di fine Ottocento o a quella successiva alla «grande crisi» del '29. E se la troika europea subordina l'accesso ai diritti sociali di cittadinanza all'accettazione della precarietà, negli Stati Uniti le disuguaglianze sono l'esito di una economia di mercato andata fuori controllo.
Nel suo ultimo libro - Il prezzo delle disuguaglianza, Einaudi, pp. 473, euro 23 - Joseph Stiglitz denuncia la crescita del reddito dei dirigenti di impresa e quello del lavoro dipendente. Il panorama sociale al di là dell'Atlantico vede una minoranza di super ricchi e una numeroso esercito costituito da ceto medio impoverito e working poor. Per il premio Nobel per l'economia, se continuano così, gli Stati Uniti non solo sono destinati a un lento declino economico, ma vedranno lo sbriciolamento delle sue stesse fondamenta democratiche. Da qui, la sua valorizzazione di Occupy Wall Street, cioè un movimento che ha come collante proprio la denuncia della polarità esistente tra il 99 per cento della popolazione impoverita e il restante un per cento. La via d'uscita proposta è il ritorno a politiche redistributive del reddito, a un limitato intervento dello Stato in economia per lo sviluppo delle infrastrutture necessarie a rendere competitive imprese sempre più globali, investimenti nella formazione e politiche volte a garantire una diffusa assistenza sanitaria.
Al di qua dell'Atlantico, gli fa idealmente eco il pamphlet di Zygmunt Barman che denuncia la falsità della retorica dominante seconda la quale La ricchezza di pochi avvantaggia tutti (Laterza, pp. 100, euro 9). Anche in questo caso, il dito è puntato contro il crescente divario di reddito che caratterizza le società europee e statunitensi. A differenza di quella svolta da Stiglitz, ci troviamo però di fronte a un'analisi che lega disuguaglianze e precarietà, dove il secondo termine indica l'esito di quel dissolvimento delle istituzioni della modernità che Barman ha più volte posto come esito dell'avvento della società liquida.
Cacciatori di innovazione
Quello che però né Stiglitz né Bauman affrontano è il venir meno del nesso tra cittadinanza e lavoro. Nella condizione precaria, infatti, l'accesso ai diritti di cittadinanza garantiti dallo stato nazionale è interdetto, mentre il regime di accumulazione ha necessità di attivare un ciclo continuo di innovazione, sempre più delegato al lavoro vivo. La precarietà, dunque, va considerata come la condizione propedeutica affinché le imprese possano attingere a un bacino di expertise in un mercato del lavoro che non prevede più la stabilità nel rapporto professionale. È dunque un dispositivo che consente la «cattura» della capacità innovativa del lavoro vivo.
In una importante analisi delle tesi di Bauman e Sennett, la filosofa italiana Ilaria Possenti ne delinea, nel volume Flessibilità (ombre corte, pp. 195, euro 18), alcuni dei tratti distintivi. Adattabilità a cambiamenti repentini del processo lavorativo, gestione individuale del rischio, sviluppo e cura delle rete sociali che consentono di poter gestire l'intermittenza della presenza nel mercato del lavoro. Se per i neoliberisti, tutto ciò significa diventare «imprenditori di se stessi», per Ilaria Possenti queste sono le caratteristiche del «precario», figura lavorativa che sembra calzare a pennello per le giovani generazioni, ma che Sennett considera prerogative dell'antica figura dell'artigiano ritornata in auge nel capitalismo contemporaneo.
Nei suoi ultimi scritti - L'uomo artigiano e Insieme, entrambi pubblicati da Feltrinelli - Richard Sennett afferma che stiamo assistendo alla rivincita del lavoro concreto sul lavoro astratto, che dovrebbe consentire di far tornare a un livello socialmente accettabile le diseguaglianze. Ciò che non convince dell'analisi di Sennett non è solo la sua apologia del lavoro artigiano, ma la rimozione del fatto che sono proprio quelle caratteristiche che egli assegna al lavoro concreto ad entrare in campo nei processi di valorizzazione capitalistica. Più la precarietà diviene norma generale, più il processo di espropriazione della capacità innovativa del lavoro vivo è quindi garantito. La precarietà è cioè il dispositivo che regola i rapporti tra capitale e lavoro vivo.
Le linee del colore, la differenziazione generazionale, la contrapposizione tra permanenti e temporanei sono dunque da considerare forme di governance del mercato del lavoro, scandito appunto dalla precarietà. In altri termini, le differenziazioni generazionali, di razza e sessuali sono parte integrante di quel governo delle disuguaglianze che, anche se in crisi, è lo sfondo entro cui collocare il tema della precarietà.
La missione impossibile
Tutto ciò può servire a quell'attraversata del deserto che il pensiero critico sta compiendo. Va detto che molte altre sono le acquisizioni che ha tratto dal neoliberismo, meglio dal capitalismo contemporaneo. Tra queste, l'impossibilità di un ritorno alle norme che regolavano il rapporto tra capitale e lavoro nel passato. La precarietà non è infatti un incidente di percorso, ma il presente e il futuro del lavoro vivo. L'altro aspetto che è stato reso evidente dai movimenti sociali di questi anni è l'indisponibilità a funzionare come oggetto passivo. Ci sono stati processi di organizzazione del precariato, mentre il tema del reddito di cittadinanza è entrato a far parte del lessico politico tanto in ambito nazionale che sovranazionale. Il rischio che si corre è che precarietà e reddito siano ridotti a significanti vuoti da riempire secondo i vincoli dettati, appunto, dal «governo delle disuguaglianze».
In ambito europeo, ad esempio, precarietà e continuità di reddito sono temi affrontati all'interno di politiche di workfare: si accede al reddito solo se si è disponibili a svolgere un lavoro qualunque esso sia. La precarietà è qui declinata secondo le politiche di austerità imposte dalla troika ai paesi dell'Unione europea. In ambito nazionale, il reddito di cittadinanza è relegato da forze ritenute antisistema - il movimento cinque stelle - nell'ambito di un misero sussidio di disoccupazione al quale gli «intermittenti» del mercato del lavoro hanno diritto, additando i dipendenti del settore pubblico come dei «privilegiati».
La posta in gioco, tuttavia, è di prospettare il reddito di cittadinanza come un flessibile strumento per quella mission impossible che è la sintesi tra eguaglianza e libertà, all'interno di un superamento del regime fondato sul lavoro salariato.
Obbligare i migranti a omogeneizzarsi alla società che li accoglie o riconoscere che essi la modificano?. Gli italiani dovrebbero saperlo, per averlo vissuto, A proposito di un numero della rivista
MeridianaL’Unità online, blog “città e città”, 7 aprile 2013
Diritto alla mobilità non è solo questione che riguardi i trasporti pubblici. Più che un diritto, anzi, è una pratica. Pratica antica, antichissima. Nonostante l’imbarbarimento indotta dalla Lega, c’è ancora chi studia le migrazioni, mondiali e nazionali. Delle migrazioni nazionali parla il numero 75 di Meridiana, , rivista di storia e scienze sociali edita da Viella. Introdotti dallo storico Michele Colucci, dei viaggi della speranza parlano economisti come Luciano Barca e Maurizio Franzini, demografi come Corrado Bonifazi e Frank Heins, sociologi come Rocco Sciarrone, Michele Triglia e Michele Nani, statistici come Enrico Tucci.
Dalle storie delle domestiche friulane, dei manovali calabresi, degli artigiani veneti si potrebbe leggere con più accuratezza alcune differenze regionali, prodotte da emigrazione e immigrazione interna. Si potrebbe, se si riuscisse a sgomberare la vulgata antimeridionale e guardare i fenomeni con occhi chiari, così come fa questo volume. Non nascondendosi che di un lavoro di ricerca di tratta, e il lavoro sulle migrazioni e sugli effetti che hanno prodotto nelle diversità territoriali è ancora lungo e non facile.
Stella polare della ricerca, una frase di Franco Ramella: “Un’idea molto diffusa negli stidi è che gli immigrati devono adattarsi alla società che li accoglie, che è quindi pensata come qualcosa di strutturato indipendentemente dagli individui che la compongono. L’ottica qui adottata rovescia questa impostazione: il problema che nasce è come gli immigrati rimodellano la società in cui arrivano”.
Perché si parte? Perché si torna? A indagare un difficile percorso, irto di rimossi, è il saggio di Anna Morello. Che usa le testimonianze orali di un gruppo di emigrati siciliani tornati al paese. Per scelta o per sconfitta, è fortissimo il dolore che nascondono le parole semplici, è dirompente la testimonianza e la sua interruzione, il rifiuto di ricordare: “a voltarsi indietro non c’è niente che vada bene, o molto poco – scrive Morello – uno la può raccontare come vuole, è andata come è andata, ma non è andata bene, inutile negarselo. E appena la racconti, la vita diventa realtà, è tua e non di altri. Come il successo e il fallimento, gli hai dato un nome e ora sono veri. Ti appartengono”.
Per le donne c’è un di più, l’emancipazione rimpianta una volte tornate indietro, l’uguaglianza con tedeschi o americani, il sentirsi attivi e dentro la società. Una volta in pensione e al paese, si torna alle abitudini di prima, l’uomo all’osteria o al bar, la donna a sfacchinare in casa.
Sono sempre due le vite che si raccontano, quella vissuta e l’altra, quella che si sarebbe vissuta se non si fosse partiti in cerca di una vita migliore. Chissà: ma se pure si riesce a dargli parola, il conflitto tra le due vite è continuo. I matrimoni mancati o spezzati, i figli lasciati in terra straniera, i genitori comunque perduti, la forza dell’essere pionieri. Un gioco di specchi infinito, la nostalgia qui e là, irredimibile.
Bisognerebbe leggerne di più di queste testimonianze, di queste storie. E, a guardar bene, ci si troverebbe magari una koiné, un linguaggio comune con le storie che raccontano, a fatica e con frasi spezzate, i migranti stranieri in Italia. La stessa fatica, lo stesso dolore.
Come il conformismo dilagante profetizzato da L'Uomo dell'Organizzazione permea ormai anche le istituzioni. Recensione a “Neoliberalismo” di Giovanni Leghissa,
il manifesto, 6 aprile 2013 (f.b.)
Giorno dopo giorno, davanti alla crisi che stiamo vivendo, assistiamo attoniti alla messa in opera di contromisure del tutto conformi a quella stessa logica che l'ha provocata, in una continuità che esclude dal novero delle alternative qualsiasi elemento che a questa non sia assimilabile. Da qui il bisogno, inesauribile, di una critica del presente capace di problematizzare l'ovvio, ovvero quello che si configura come l'orizzonte globale insuperabile dal punto di vista cognitivo e pragmatico. È ciò che si propone di fare l'ultimo lavoro di Giovanni Leghissa ( Neoliberalismo. Un'introduzione critica , Mimesis, Milano-Udine 2012) che muove ad analizzare la «condizione neoliberale» a partire dall'usuale impianto foucaultiano - segnalato anche dalla preferenza per l'uso del termine «neoliberalismo» a dispetto del più diffuso «neoliberismo» - ma con il felice innesto di un più ampio strumentario teorico proveniente dalla filosofia e dalle scienze umane
Al centro, è quella trasformazione che porta a una sparizione del politico o, più precisamente, a uno slittamento e a un'occupazione progressiva di ambiti della vita tradizionalmente inerenti alla politica o all'etica (tenuti invece distinti dal pensiero liberale) da parte di un ordine definito «economico», che si offre come naturale e quindi non negoziabile. È in questa diffusione onnipervasiva in ogni sfera della vita attraverso una legge che incarna il principio superiore della razionalità economica, caratteristica della governamentalità neoliberale, che l'autore rinviene i tratti di un pericoloso «totalitarismo della teoria». Di fronte a cioè rivendicata la funzione critica delle scienze storico-sociali, capaci di mostrare la contingenza dei propri oggetti e di descriverne i processi genealogici, al fine di guadagnare nuovamente la possibilità di uno spazio per discutere i diversi modelli di razionalità sociale e definire gli scopi della vita associata, in riferimento ad un progetto di emancipazione.
Alla ricerca dell'utile Leghissa si impegna nel mostrare quanto vi è di intrinsecamente politico nello stesso progetto neoliberale, caratterizzato da antropotecniche (la nozione è tratta da Peter Sloterdijk) assolutamente pervasive ed efficaci nel plasmare i soggetti e i legami sociali - compito per definizione sommamente politico. L'essere umano viene così ridotto a ciò che di esso può essere calcolato in vista dell'efficienza, a vita che produce e consuma, che può essere valorizzata quale fattore economicamente rilevante. Alla base di questo dispositivo è individuata la cosiddetta Teoria della scelta razionale , il cui successo viene ricondotto genealogicamente al clima culturale e politico che caratterizzò gli Stati Uniti al tempo della guerra fredda, con lo sviluppo di quell'insieme di studi che faceva riferimento al problema della giustificazione di un sistema sociale basato sull'economia di mercato.
Tale teoria presuppone la comprensione e previsione dell'agire umano secondo il criterio di massimizzazione dell'utile, operando una vera e propria biologizzazione del comportamento orientato all'interesse individuale e guidato da un principio di efficienza. La posta in gioco del neoliberalismo è dunque nel modo in cui si articolano i processi di soggettivazione, nella riduzione - funzionale al governo degli attori sociali - della razionalità economica a unica griglia di intellegibilità del comportamento umano. Ne deriva il presupposto teorico secondo cui il neoliberalismo non deve e non può essere letto come l'ideologia del capitalismo contemporaneo, nella convinzione che non possano essere esclusivamente le logiche di un sistema produttivo a determinare la struttura dell'intera società e che sia necessario concentrarsi sull'evoluzione delle tecniche di governamentalità.
Con la necessità che queste comportano di un controllo sempre più accurato e pervasivo ma allo stesso tempo meno visibile e più indiretto - che è ciò che segna il passaggio a una vera e propria biopolitica. Le élite del pianeta Si tratta tuttavia di una tesi che, sebbene abbia il merito di sottoporre a sguardo critico alcune tradizionali acquisizioni ed equivalenze, meriterebbe un ulteriore approfondimento e dibattito rispetto allo spazio dedicato nel volume. Il cui tratto più avvincente consiste nel vedere in azione la poliedrica cassetta degli attrezzi approntata a partire da autori e approcci disciplinari differenti, sviluppando, pur all'interno di una cornice familiare, una composizione originale e stimolante. Troviamo così numerosi esempi che, lungi dal configurarsi come facili stereotipi, mirano a identificare in determinate pratiche e discorsi le specifiche e creative declinazioni di un modello governamentale diffuso su scala globale; troviamo inoltre ricostruito il processo per cui una certa razionalità può giungere a predeterminare lo spazio di azione e di decisione di coloro che sono chiamati a compiere scelte politiche determinanti a livello locale e globale, una volta insediatasi nelle università e nelle nicchie culturali dove si formano le élite del pianeta.
Altrettanto stimolante è l'analisi delle imprese come principale matrice antropologica di questi processi di soggettivazione - già al centro, ad esempio, del «nuovo spirito del capitalismo». L'impresa è ormai diventata non solo la forma paradigmatica dell'organizzazione sociale, ma anche il luogo fondamentale della formazione dell'individuo, ove egli impara a farsi egli stesso impresa, a valorizzarsi e investire su di sé in quanto capitale umano, cioè a plasmare autonomamente la sua esistenza e a ricercare la sua autorealizzazione esclusivamente all'interno della cornice della razionalità economica. Una volta esplicitata la portata biopolitica delle pratiche aziendali, diventa dunque necessaria un'analisi critica dei nuclei fondamentali delle teorie delle organizzazioni e del management , in quanto discorso capace di inverare nel modo più sottile e pervasivo il pensiero neoliberale.
Ciò che caratterizza infatti questo regime biopolitico «è il fatto che la sussunzione di tutte le sfere di azione sotto la normatività dell'economico coesiste con pratiche di governo che favoriscono una condotta della vita mirante all'autorealizzazione individuale». Ed è qui che entra in gioco il desiderio: pur essendo ciò su cui agiscono maggiormente le antropotecniche neoliberali - plasmando soggetti consumatori e sottoposti alle retoriche dell'impresa - esso ne costituisce anche l'eccedenza, la risorsa inestinguibile per uscire dalla gabbia della razionalità economica. In nome del godimento È il desiderio della lezione lacaniana, segnato dal linguaggio e dall'insopprimibile presenza dell'altro, che se da una parte trova nel godimento un'espressione profondamente assimilabile nella dimensione dell'interesse, dall'altra rimanda inevitabilmente a una dimensione simbolica, al riconoscimento dell'altro e quindi alla possibilità di chiamare in causa un'aspirazione alla giustizia.
È a partire dalla giustizia come oggetto di desiderio che diventa possibile vedere e pensare sia la violenza che la condizione neoliberale porta con sé, sia la sua onnipervasività che riduce tutto a puro calcolo economico, escludendo ogni spiegazione alternativa dell'azione umana; due aspetti che impongono di sottrarsi alle maglie di un pensiero totalizzante e pensarne l'eccedenza. Questo significa recuperare le risorse per creare nuovi discorsi, nuove pratiche, nuove soggettivazioni e traiettorie politiche - e quindi anche nuovi ordinamenti economici - che scaturiscano dal desiderio e dal conflitto creativo, derivante dalla pluralità di sfere di senso, individuali e sociali, che è possibile costruire e abitare.
Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche" a cura di Sandro Mezzadra e Maurizio Ricciardi .
Il manifesto, 4 aprile 2013
Le migrazioni sono un «fatto sociale totale». Attraversano e condizionano le dimensioni costitutive di una società. Della società di partenza, di transito e di arrivo mettendo in tensione i significati e la materialità sociale di parole come cittadinanza, integrazione e lavoro migrante. Le migrazioni sono portatrici di «pratiche transnazionali» che rideterminano i concetti di territorio, confine e stato. Non attraversano solo frontiere, riconfigurano spazi politici. Il volume, da poco pubblicato, a cura di Sandro Mezzadra e Maurizio Ricciardi (Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, Ombre Corte, pp. 271, euro 25) è allo stesso tempo un testo introduttivo e un bilancio della lunga stagione degli studi critici sulle migrazioni in Italia.
Scompaginare la governance
Le migrazioni non sono movimenti classici che fanno uso di repertori politici facilmente classificabili e di risorse consolidate. Sono movimenti sovversivi nel significato letterale del termine. Capovolgono concetti, spazi geografici, norme giuridiche e divisioni del lavoro. I confini diventano ubiqui e non delimitano solo l'ambito dello Stato-nazione, segnano profondamente i territori, gli assetti urbani, gli spazi politici di lotta e riconoscimento. Le dinamiche di scomposizione e ricomposizione dei confini esterni ed interni non conducono a un'immagine di un «mondo senza confini», piuttosto a una «deterritorializzazione» del loro controllo. Così come concepire un'opposizione netta tra inclusione ed esclusione non permette di cogliere i loro diversi gradi, a cui dà luogo la governance della cittadinanza e delle migrazioni, e le varie modalità di «inclusione differenziale» dei e delle migranti nella società e nei sistemi della produzione e della riproduzione sociale.
Nell'introduzione del libro si sviluppa e attualizza l'elaborazione di Abdelmalek Sayad, punto di riferimento di tanti studi e contributi critici sulle migrazioni degli ultimi decenni. Pensare l'immigrazione significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l'immigrazione, diceva Sayad. Nella loro riflessione, che non prevede sintesi, Mezzadra e Ricciardi vanno oltre Sayad con un'opera di estensione e approfondimento: le migrazioni non investono solo il «pensiero di Stato» ma anche il «pensiero di società». È qui che sorge la necessità di un'epistemologia politica delle migrazioni che si attesti negli spazi e nei tempi della convulsa trasformazione della sovranità statale e dei poteri sociali che non dipendono direttamente dal potere politico. Quindi anche la società globale pensa se stessa pensando alle migrazioni. Ma non solo. Al concetto, introdotto da Sayad, di «doppia assenza» dei migranti rispetto al paese d'origine e al paese di destinazione viene affiancato da quello di «doppia presenza» dei migranti in quanto lavoratori e individui che interpellano e confliggono con le lotte, i comportamenti, gli stili di vita con la rappresentazione classica del «politico».
Il lavoro migrante inteso come categoria politica e non semplicemente economica tende, con un doppio movimento, a rovesciare le regolazioni del mercato del lavoro anticipando i processi di precarizzazione e a evocare nuovi diritti che non possono essere conquistati rimanendo all'interno dei confini degli Stati nazionali. La compresenza, nei movimenti migratori, delle linee del colore, di genere e di classe complica l'analisi e richiede ulteriori approfondimenti delle caratteristiche del lavoro vivo migrante contemporaneo. Da questo punto di vista non pare che il pensiero dell'intersezionalità, che pur ha scosso alcuni ambienti di ricerca troppo paludati, sia in grado di andare oltre una sorta di arte combinatoria del genere, della classe e del colore che per farli reagire l'un con l'altro si devono presupporre come già dati e compiuti.
La costruzione del clandestino
L'uso, spesso irriflesso, da parte dell'antirazzismo istituzionale del concetto di integrazione dei migranti nelle società di arrivo non tiene conto, per dirla con il Marx dell'Ideologia tedesca, che sono «individui empiricamente universali». All'interno delle diversità di comportamento, delle culture c'è una tensione alla riaffermazione dell'uguaglianza, a una pratica immediata dell'universalismo che li mette in contraddizione con i principi astratti della cittadinanza e della democrazia. Non vi è nessun romanticismo in tutto ciò, nessuna mitologia delle lotte di resistenza dei migranti. Si mettono in chiaro i connotati di un'ambivalenza che riguarda non solo le migrazioni verso i paesi occidentali, ma anche le caratteristiche, troppo trascurate, delle migrazioni in India, America Latina e Cina.
I contributi che compongono il libro tracciano percorsi non predeterminati dalle procedure classiche della scienza «normale» delle migrazioni. I movimenti delle migranti parlano della frequentazione delle donne degli spazi di confine della società. Si può leggere il fenomeno migratorio attraverso le categorie del femminismo e si può leggere il femminismo attraverso le esperienze che le migranti mettono in circolo (Roberta Ferrari).
I lavoratori migranti sono portatori di una precarietà costitutiva che contiene tutte le altre precarietà. La sociologia italiana ha spesso classificato questi lavoratori come temporanea eccedenza non cogliendo invece la loro presenza strutturale (Devi Sacchetto). La costruzione sociale del migrante «clandestino», pensato come naturalmente propenso all'azione criminale, si fonda sulla stigmatizzazione e il confinamento dei soggetti in una sotto-classe da contrastare con paradigmi securitari che hanno una logica militare (Alvise Sbraccia).
Le migrazioni hanno ripercussioni sugli spazi e sui luoghi della città e della metropoli, che diventano un campo del conflitto, pur mantenendo un aspetto transnazionale e globale (Agostino Petrillo). I dispositivi che regolano la cittadinanza e i confini indicano la posizione di fronte a un ordine politico e giuridico definendola rispetto a un «dentro» e un «fuori». Le migrazioni mettono in crisi la rappresentazione di tale ordine come linea di demarcazione che garantisce un'unità di spazio e di diritto (Enrica Rigo). I movimenti migratori hanno reso problematico l'esercizio della triplice sovranità dello stato nazionale: militare, economica, culturale, alla luce del venir meno del concetto di popolo come soggetto relativamente omogeneo (Emilio Santoro). C'è una rimozione dell'esperienza coloniale e imperiale - in particolare delle nozioni di razza e razzializzazione - nella costituzione materiale e culturale della modernità capitalista. Il legame tra migrazioni e condizione postcoloniale sta a indicare l'irruzione dei margini nel centro, una transizione permanente intesa come insieme di continuità e rotture di quell'autoritarismo istituzionale e pedagogico incentrato attorno alla problematica nozione di «integrazione» (Miguel Mellino).
Tra cittadinanza e dominio
I figli dell'immigrazione rompono il mito della provvisorietà delle migrazioni. Sono una «posterità inopportuna» che rende permanente ciò che si vorrebbe provvisorio, e parlare di seconde generazioni è fuorviante perché riduce tutto a un'origine. La condizione giovanile migrante esprime comportamenti che variano dal mimetismo alla trasformazione dello stigma della discriminazione in emblema identitario (Luca Queirolo Palmas). Il regime discorsivo costruito dai molteplici intrecci narrativi sviluppati da diversi attori delle politiche di governo delle migrazioni nega lo spazio fisico e politico ai corpi in movimento. Le narrazioni mainstream delle migrazioni parlano di soggetti fantasmatici senza fisicità, raccontano «storie di impronte» (Federica Sossi).
Più che descrivere fotografie più o meno mosse dei movimenti migratori, nel lavoro coordinato da Mezzadra e Ricciardi si va in live-streaming. Certamente, ciò implica il rischio di riecheggiare una dialettica negativa delle migrazioni di stampo adorniano. Ma si tratta di un rischio necessario per mettere a fuoco, come giustamente dicono i due curatori, lo scarto che si è prodotto non solo tra le teorie della cittadinanza e della democrazia e le forme effettive dell'organizzazione del dominio e dello sfruttamento, ma anche tra quelle teorie e le pratiche sociali, le rivendicazioni, le aspirazioni dei soggetti subordinati. Insomma, è un libro che ha tutti gli aspetti di un lavoro seminale.
Una premessa e due recensioni di un libro che raccomandiamo vivamente di leggere almeno a chi vuol comprendere su quale letto di miserie e orrori giaccia il nostro benessere e voglia lavorare per cambiare almeno le lenzuola. Ettore Mo dal
Corriere della sera (28 novembre 2007) e da Varesenews online (24 luglio 2008)
Premessa
A me è sembrata eccezionale la storia raccontata da Fabrizio Gatti, Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini (Rizzoli, p. 492, 18). Sarà che sono attualmente in Africa: in una regione, il Rwanda, ai margini delle vicende narrate dal libro, ma pur sempre in quella stessa area geopolitica. Sarà che sono italiano, e quindi partecipe delle colpe dei nostri governanti (e non solo) nei confronti del continuo sacrificio inflitto ai protagonisti delle crudeli vicende delle migrazioni. Sarà, infine, che sento il lavoro dell’uomo come la preziosa risorsa dell’umanità se finalizzata a comprendere, trasformare e givernare il pianeta nell’interesse di tutti; e il libro di Gatti ci fa comprendere invece quanti avvoltoi, sciacalli, mosconi e vermi si stiano alimentando dal saccheggio del lavoro, reso miserabile, dei nuovi schiavi. Gatti, per conoscere meglio come la macchina della nuova schiavitù funzioni e quali siano le vite e le speranze dei reietti della terra ha cancellato la propria personalità per assumere la loro. Da Dakar ha attraversato il deserto fino alla Libia, si è fatto arrestare e imprigionare nei “cebìntri di accoglienza di Milano e Lampedusa, ha lavorato sotto la sferza degli “utilizzatori finali” della merce prodotta dalle migrazioni (a loro volta generate, ricordiamolo, dal rapace saccheggio delle risorse dei paesi del Terzo mondo da parte dei vecchi e dai nuovi colonialismi. E’ grazie a questi meccanismi che il sistema capitalisico ha potuto esportare, negli ultimi secoli, le sue contraddizioni e assicurare ai lavoratori e ai cittadini del Primo mondo lo loro condizioni di benessere. Pubblico di seguito due recensioni del libro di Fabrizio Gatti che a nostra parere si integrano e riescono a dare il carattere del libro, che ovviamente vi invito a leggere.
Corriere della Sera, 28 novembre 2007
Dall' Africa a Lampedusa,
di Ettore Mo
Impossibile una normale recensione di Bilal, perché il libro di Fabrizio Gatti non è un libro normale e non rientra in nessuna categoria letteraria: non è romanzo, né saggio, né inchiesta, né reportage nel senso stretto della parola. Inviato dal settimanale L' Espresso, l' autore ha condensato nel volume la sua straordinaria esperienza giornalistica, sintetizzata nel sottotitolo come Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi. Infatti, non si sarebbe potuta raccontare in profondità la sconvolgente odissea di milioni di immigrati clandestini se non vivendola sulla propria pelle, passo per passo, minuto per minuto: ed è ciò che Fabrizio ha fatto, imbarcandosi insieme a quei disperati in cerca di lavoro e fortuna su sgangherati camion che dal cuore arido dell' Africa raggiungono, attraverso il Tenéré e il Sahara, la sponda del Mediterraneo.
Ma per essere accettato come uno di loro deve immediatamente sbarazzarsi della propria identità e assumerne una nuova. Ridurre in polvere i documenti e il passaporto non basta: né può pretendere, con la sua pelle chiara, di passare per un africano. Fortunatamente, nella ciurma dei derelitti in rotta verso il Nord ci sono turchi, bulgari, romeni, polacchi, greci: e Fabrizio decide di adottare il nome e i connotati di Bilal Ibrahim el Habib, nato nel ' 70 in un villaggio del Kurdistan iracheno. Capelli rasati a zero, la barba lunga da mesi è il suo nuovo look.
Dal suo libro-testimonianza emergono i disagi, le sofferenze, le difficoltà che questa folla composita di derelitti deve affrontare lungo quello che viene ancora chiamato «il cammino della speranza», anche se molti di loro non raggiungeranno mai la meta. I guai cominciano già prima di mettersi in marcia, a Dakar, dove «un boss del commercio» chiede subito 3 milioni di franchi africani, in contanti, che è il prezzo di un visto per l' Italia. Ma il 12 per cento dei clandestini che s' imbarcano in Libia, su vecchie carrette stracolme e inadeguate a fronteggiare il mare grosso, muore durante la traversata e si calcola che negli anni saranno circa cinquemila i morti annegati. Un «traffico di schiavi» che impegna sulla costa libica i boss della malavita locale e centinaia di scafisti avidi e senza scrupoli, che godono della protezione di poliziotti e doganieri corrotti: mentre i governi di Libia, Italia, Egitto si palleggiano cinicamente le responsabilità.
Dopo le vicissitudini dell' espatrio, Bilal si accinge a una deep immersion nell' amara e non di rado agghiacciante realtà dei cosiddetti centri di permanenza temporanea, dove vengono confinati i clandestini, approdati illegalmente sul territorio italiano. Per fare questo, Gatti s' è fatto arrestare tre volte, l' ultima a Lampedusa ed è proprio questa esperienza che fornisce e alimenta i capitoli più intensi e drammatici del libro. Mentre i poliziotti e la gente lo soccorrono quando lo trovano esausto su una spiaggia dell' isola (s' era buttato in mare da uno scoglio col suo saccone nero), Bilal deve fare più di uno sforzo per ricordare a se stesso che questo «non è il suo Paese», che parlano una lingua straniera per lui incomprensibile, anche se gli lanciano insulti in italiano e dialetto; è un piccolo povero curdo iracheno, nato nel villaggio di Assalah, parla solo un po' d' inglese... Obiettivo raggiunto. Lo rinchiudono nel centro di detenzione di Lampedusa, che un parlamentare europeo della destra xenofoba aveva definito un hotel a cinque stelle e che per Fabrizio Bilal è semplicemente una gabbia. «Davanti a questo cancello - scrive - finiscono i nobili sentimenti dell' umanità. Quel sentir comune che ci unisce come individui liberi di pensare. Che non fa differenza tra gli uomini e le donne. E dimentica cosa sono. Amici o nemici. Connazionali o stranieri. Cittadini o clandestini».
E ancora: «In questa grande gabbia non c' è nemmeno l' atteggiamento di rispetto che i poliziotti dell' ufficio di identificazione avevano alla fine mantenuto. Bilal e tutti gli altri devono rimanere seduti e rannicchiati per più di un' ora. Per pranzo un piatto di plastica con pasta e tonno. Un altro con bocconcini di pesce fritto e agrodolce. Un panino. Una mela. Una bottiglia d' acqua di due litri da dividere in due». Si trascorre la notte sdraiati a terra, perché: il materassino di gommapiuma è infestato da insetti e il cuscino è il sacchetto nero dell' immondizia con i nostri vestiti ancora bagnati.
Non so quanti giorni e quante notti Fabrizio Bilal abbia trascorso nel gabbione a cinque stelle di Lampedusa. Ma il suo libro avvince e trascina dalla prima all' ultima pagina ed è una lezione di giornalismo: quando per giornalismo s' intende la necessità di vivere personalmente le vicende che si vogliono raccontare e non fornire al lettore frettolosi, esangui dispacci d' agenzia. Lo raccomando vivamente, Bilal, a tutti i ragazzi e le ragazze che sognano di fare questo mestiere.
Varesenews online, 24 luglio 2008
Bilal e le vergogne dell'Europa
di Marco Giovannelli
“La testa è già in cammino da qualche mese. Lo stomaco e le sue paure anche“. E le paure per Fabrizio Gatti erano più che motivate. Uno zaino, pochi oggetti, un nome falso e il passaporto italiano come unica protezione. Una protezione che a nulla sarebbe però valsa in tutta una serie di situazioni drammatiche e pericolosissime.
Bilal è qualcosa di più di un libro. Gatti è partito da Milano ed è arrivato in aereo a Dakar e da lì ha ripercorso nelle stesse condizioni di migliaia e migliaia di africani la tratta degli schiavi del Terzo Millennio. Si è infiltrato per prendere i “camion della speranza” che arricchiscono bande di criminali e di gente senza scrupoli protetti da eserciti e governanti. Ha cercato storie di vita da raccontare. Ha “adottato” James e Joseph, due fratelli che seguirà anche un volta terminato il viaggio perché “questi ragazzi fuggiti dal vicolo cieco della loro terra sono i veri abitanti del villaggio globale”. Ma Gatti non si ferma a un crudo diario, fa parlare uomini e donne, carnefici e vittime e ricostruisce la storia drammatica di interi paesi massacrati da dittatori sanguinari e dalle complicità di altri potenti europei.
Non è un libro sull’immigrazione. È la storia di uomini e donne che a mani e piedi nudi hanno attraversato il Sahara e il mare. È la storia della più grande conquista del Terzo Millennio, la conquista della libertà. È una storia che conosco bene perché ero con loro. Bilal è il nome di copertura in questo viaggio durato mesi dal Senegal fino in Libia, in Tunisia con i trafficanti che organizzano barche. Poi si sposta nel Cpt di Lampedusa e nei campi e cantieri dell’edilizia in Italia. E infine l’espulsione.
È dedicato ai tanti che non ce l’hanno fatta. Una storia di grande umanità. Ogni 100 che partono 12 muoiono. Bilal è anche la storia di un grande tradimento da parte dell’Unione Europea degli ideali di uguaglianza, libertà fraternità, perché i nostri capi di stato e di governo per interessi sono scesi a patti con i dittatori“.
Bilal è un libro che ogni cittadino dovrebbe leggere. Un capolavoro di giornalismo. Scritto con un ritmo incalzante sembra un thriller, ma non è fiction. È la realtà.
Dopo duecento pagine, in Niger alle porte della Libia, durante una notte inquieta Gatti spiega a se stesso prima ancora che ai lettori perché una scelta così pazza. Perché rischiare sapendo che poi niente sarebbe più stato lo stesso per lui. “Lo dovevo fare. - È la risposta che si da. - Fino in fondo al Sahara. Fin dall’altra parte del Mediterraneo. Non sono più io a fare questo viaggio. È il viaggio nella sua crudeltà infinita, a plasmare me. Senza nemmeno sapere in quale essere mi trasformerà, ormai non posso fermarmi. Cercavo il perché migliaia di uomini e donne si imbarcano su rottami destinati ad affondare. Volevo scoprire cosa c’è sulla rotta per l’Europa di più spaventoso della morte in mare. E l’ho scoperto. Qui nel deserto ho conosciuto la morte da vivi. Eppure era facile immaginarlo già prima della partenza. Ma il viaggio mi aspettava. Era la prova da superare per poter guardare senza più complessi di inferiorità i sopravvissuti sbarcati in Italia, ma anche la storia degli italiani, degli europei partiti nell’Ottocento, nel Novecento per le Americhe, l’Australia, l’Africa del Sud. Un insostituibile esercizio della memoria“.
Bilal è un libro che non passa così come niente. È un pugno nello stomaco. Ribalta ogni certezza. Smaschera luoghi comuni. Indaga con delicatezza e onestà anche nelle pieghe dei sentimenti dei carnefici, quelli che resteranno lì a garantire i sanguinari dittatori ma che a loro volta maltrattano, torturano, taglieggiano i propri connazionali. Eppure non è un libro di disperazione. Le storie autentiche, anche di ragazzi che viaggiano con Gatti e che non ce la faranno, trovano una via d’uscita.
Il racconto diventa scandalo e vergogna quando supera i deserti, i mari aperti per arrivare nel paradiso tanto sognato. Nell’Italia meta ormai raggiunta Gatti va ad indagare le vere condizioni a cui sono sottoposti uomini e donne. Le forme di schiavitù sono diverse, ma le storie non sono per questo meno drammatiche. Sfruttamento, lavoro nero, pestaggi, fino alla morte e basterebbe ricordare la fine di Ion Cazacu, qui proprio a casa nostra, nella civilisssima Gallarate.
Bilal è un dono che Fabrizio Gatti ha fatto a tutti noi. E non potremo più dire non lo sapevo, non lo avrei mai immaginato.
«Il manifesto, 30 marzo 2013
L'Unione europea è stata fondata per reazione alle guerre del ventesimo secolo. Con la crisi, gli interessi materiali comuni non alimentano più l'integrazione politica, e l'assenza di una politica europea di ampio respiro alimenta le spinte verso nuovi conflitti. Ulrich Beck, nel suo meraviglioso libro German Europe, («L'Europa tedesca», Polity, 2013), sostiene che l'Europa non è stata fondata sulla logica della guerra, ma sulla logica del rischio. L'Unione europea - fa notare Beck - si regge su una rete di «non». Non è una nazione, non è uno stato e neppure un'organizzazione internazionale. Gli stati sono stati edificati sulla logica della guerra.L'Unione europea rappresenta un diverso tipo di sistema governativo, costruito per reazione al rischio della guerra e, oggi, per reazione al rischio del collasso economico. Gli economisti sostengono che l'unione monetaria sia stata un grosso errore in assenza di un'unione politica. Beck, invece, sostiene proprio il contrario: l'unione monetaria stabilirebbe un interesse materiale per un'unione politica. Senza l'unione monetaria non ci sarebbe alcuno slancio per l'unione politica.
Fin qui tutto bene. Ma c'è di più in questa storia. Nell'Europa di oggi le logiche economiche e politiche spingono in direzioni opposte. È vero che l'unione monetaria decide il bisogno dell'unione politica, e tutti lo capiscono a livello delle élites. Ma le conseguenze dell'unione monetaria e l'agenda neo-liberista a essa associata, stanno indebolendo, allo stesso tempo, quel che è noto come consenso passivo, indebolendo enormemente la legittimità delle élites europee e con esse il progetto europeo. L'Unione europea è stata fondata per reazione a quella che chiamo la "vecchia guerra" le guerre del ventesimo secolo. Benché, a rigor di logica, questioni di interesse materiale dovrebbero condurre a un'accresciuta cooperazione politica, la politica europea contemporanea, o l'assenza di quest'ultima, suggerisce piuttosto la possibilità di nuovi conflitti, ciò che definisco la "nuova guerra". L'idea secondo cui la cooperazione economica condurrebbe alla cooperazione politica è stata un punto centrale fin dal principio dell'integrazione europea. I fondatori dell'Ue credevano che obiettivi di "alta politica" sarebbero stati raggiunti attraverso misure di "bassa politica". La cooperazione economica e sociale stabilirebbe legami fra le persone, e questo alla fine porterebbe all'unione politica. Nei primi tre decenni dopo la seconda guerra mondiale tale argomento sembrava effettivamente avere un qualche valore. Il cosiddetto "metodo Monnet" implicava la cooperazione a livello di infrastrutture (carbone e acciaio), dell'agricoltura, così come delle politiche regionali. Piccoli passi venivano intrapresi in direzione di una più grande cooperazione politica.
Ma dopo il 1989 tutto è cambiato. Da una parte l'89 è stato il punto alto raggiunto dai movimenti cosmopoliti del post-'68 - i "figli della libertà" ( freedom's children ), come li chiama Beck. Il concomitante avvento della pace, dei diritti umani e la fine della guerra fredda portarono a una nuova ondata di europeismo. Dall'altra parte ci fu l'arrivo dell'età del neoliberismo. La stessa critica della rigidità, del paternalismo e dell'autoritarismo dello stato sviluppata dai "figli della libertà" fu usata per chiedere più mercato - deregolamentazione, privatizzazione e stabilizzazione macro-economica. I "figli della libertà" avevano dato la giustizia sociale per scontata e, nel reagire contro la "vecchia sinistra", avevano dato spazio a una nuova destra radicale. Il Trattato di Maastricht del 1991 può essere considerato come un contratto fra gli europeisti, guidati da Jacques Delors, e i sostenitori del libero mercato, simboleggiati da Margaret Thatcher. Ma logica del mercato è molto diversa dalla cooperazione tra stati.
Negli ultimi due decenni è stata realizzata in Europa quest'unione contraddittoria di cosmopolitismo e mercato. Sul primo versante, l'Europa si è estesa verso est, sviluppando una politica di vicinato basata sull'applicazione del "metodo Monnet", estendendo i metodi della "bassa politica" ai paesi confinanti e, a volte, anche oltre. A livello internazionale la Ue ha elaborato politiche per la gestione delle crisi e per l'aiuto allo sviluppo che, seppur gestite spesso in maniera burocratica, l'hanno trasformata nella più grande donatrice di aiuti nel mondo e in una protagonista del dibattito globale sul cambiamento climatico, la povertà e la sicurezza globale. Sul secondo versante, le regole del mercato unico e dell'euro - i cosiddetti criteri di convergenza - associati con le altre riforme neoliberiste, hanno portato a un aumento delle disuguaglianze, dell'insicurezza e dell'atomizzazione, indebolendo il senso di comunità e la politica cosmopolita. Per di più, le politiche di sicurezza interna e la sorveglianza, specie ai confini dell'Europa estesa, hanno contribuito a crescenti diffidenze all'interno delle società.
È vero, come nota Beck, che interessi materiali potrebbero imporre la cooperazione politica. Questa è la sola via per salvare l'euro. Ma l'" alta politica" della Ue è ancora assente - abbiamo solo Merkiavelli , il titolo di un brillante articolo di Ulrich Beck su opendemocracy.net . Le élites nazionali ora non hanno un sostegno popolare e il cosiddetto consenso passivo, che ha permesso l'avanzamento dell'integrazione europea, sta scomparendo rapidamente. Il destino dei Primi ministri tecnocrati, Mario Monti e Lukas Papademos, imposti a Italia e Grecia, illustra la fine del consenso passivo. Quella che l'Europa sta affrontando è una profonda crisi politica. Questa è la conclusione del nostro rapporto su "La politica sotterranea" ( The Bubbling Up of Subterranean Politics , in pubblicazione con Routledge). Le proteste e le manifestazioni, le nuove iniziative politiche e i nuovi partiti non sono soltanto una reazione all'austerità. Riflettono una profonda perdita di fiducia nelle attuali élite politiche - esprimono l'opinione che tali élite siano rinserrate dentro interessi materiali e mediatici e siano perciò incapaci di agire a vantaggio del bene comune, insieme alla percezione che la democrazia rappresentativa non riguardi più la partecipazione, ma miri soprattutto a riprodurre quell' élite .
Il problema è che, nell'assenza di un "cosmopolitismo dal basso", di un progetto di solidarietà europea, quest'assenza di fiducia politica può essere facilmente manipolata da partiti xenofobi, euroscettici ed elitari di vario genere. Partiti come l'Ukip ( UK Independence Party), i True Finns, il Dutch Freedom Party , Alba dorata in Grecia e altri analoghi stanno realizzando incursioni elettorali in quasi ogni paese europeo. E i partiti tradizionali, preoccupati da considerazioni a breve termine di carattere elettorale, tendono ad assecondare i sentimenti espressi da questi partiti, invece di dar voce agli interessi comuni di lungo termine. È molto difficile capire come l'Europa possa sfuggire a questa spirale. L'analisi offerta dal volume di Ulrich Beck sottolinea che l'europeismo della stabilità monetaria è radicato a tal punto nella mentalità tedesca che è improbabile che un'Europa tedesca, guidata da un pragmatismo apolitico, possa cambiare il suo corso. L'assenza di una pressione dal basso in Europa, la debolezza della solidarietà trans-europea, la frammentazione della "politica sotterranea", tutto lascia intravedere tendenze politiche piuttosto buie.
Lungi dall'essere un'eccezione, una dissonanza marginale, la Grecia potrebbe rappresentare il futuro per gran parte dell'Europa. Quanto accade in Grecia è tipico di ciò che chiamo "la nuova guerra", l'emergere di nuove forme di conflitto. I drammatici tagli nella spesa pubblica indeboliscono la capacità dello stato ed erodono ulteriormente fiducia e legittimità, dando spazio a una combinazione di criminalità e di politica estremista. Una tale mescolanza si autoriproduce perché chi ne è coinvolto trae vantaggio dal disordine. E' una dinamica che è molto difficile fermare; si sta affermando un nuovo tipo di economia politica predatoria, che non conosce nessun limite. La sola risposta sarebbe un'autorità politica cosmopolita, ma da dove potrebbe venire?
Mary Kaldor è Professore di Global Governance alla London School of Economics. L'articolo è apparso su www. opendemocracy.net (traduzione di Elisa Magrì).www. sbilanciamoci.info.
«I difetti della classe dirigente meridionale - parassitismo, clientelismo, corruzione - sono ancora tutti lì, vanificando ogni proposta di soluzione dall'interno».Il manifesto, 26 marzo 2013
Sempre più a fondo
Il libro di Barbagallo ha il merito di riaffermare la questione Nord-Sud come centrale - e mai risolta - in un Paese in cui «l'inconsistenza e l'inadeguatezza della classe dirigente esprime il degrado politico-culturale» e in cui «l'unico cemento» è quello delle relazioni personali, familiari, di clan, che impediscono qualsiasi mobilità sociale. Non solo. Gli indicatori economici segnalano che negli ultimi trent'anni è aumentato il divario tra Nord e Sud d'Italia, e tra quest'ultimo e le altre regioni d'Europa. Un divario che si è ingigantito dal 2007 a oggi, come ci ha spiegato il Censis qualche giorno fa: il Pil si è ridotto del 10 per cento, a fronte del 5,7 per cento nel Centro-Nord. Anche il rapporto Svimez dello scorso anno era stato impietoso: il 60% delle persone che hanno perduto il lavoro risiede al Sud, dove c'è solo il 25% degli occupati in Italia e appena un giovane su tre ha un lavoro. Perfino nella sanità la situazione appare disomogenea: uno studio della rivista Cancer epidemiology che ha confrontato i registri dei tumori di 14 città italiane - ne ha riferito il Corriere della Sera del 6 febbraio scorso - ha evidenziato una grande disparità nelle diagnosi precoci e nelle cure oncologiche, sempre a favore del Settentrione.
Questo gap - che nessun governo è mai riuscito realmente a ridurre o almeno a stabilizzare, fatta eccezione forse per il decennio del boom economico '55-'64 - è accentuato dalla mancanza di una politica industriale che data almeno dalla fine della Cassa per il Mezzogiorno, dal deficit cronico di trasporti - con i fondi riservati alle infrastrutture finiti a coprire i buchi di bilancio di città come Roma e Catania o per altre emergenze - e dal lungo declino italiano, cominciato una trentina d'anni fa. Una serie di fattori che hanno contribuito a consolidare una società statica, «seduta su rinnovati privilegi e antichi difetti», egemonizzata da un blocco sociale parassitario che ha preso il posto del vecchio «blocco agrario» e pertanto poco attrezzata ad affrontare le sfide della grande trasformazione globale del capitalismo.
Se questa è l'Italia di oggi, un Paese ridotto a «mucillagine», come l'ha definito il Censis un anno fa, corroso da una crisi antropologica che Pier Paolo Pasolini per primo aveva intuito e che il berlusconismo ha portato alle estreme conseguenze, qual era lo stato della penisola all'indomani dell'Unità? E qual è stato l'andamento del rapporto Nord-Sud in questi 150 anni, dal giorno in cui il Luogotenente Luigi Carlo Farini, arrivato a Napoli dalla Romagna, sbottò: «Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica!»?
Il quadro d'insieme di Barbagallo ha il merito di fare piazza pulita di quei revisionismi storici fioriti nella disgregazione degli ultimi anni e ingigantiti dai media. Un'«invenzione della storia», potremmo affermare parafrasando l'«invenzione della tradizione» di Eric Hobsbawm, che di volta in volta tende a dimostrare che «si stava meglio quando si stava peggio» e che l'unificazione del Paese non è stata altro che una colonizzazione a fini di sfruttamento del Nord nei confronti del Sud. Basterebbe invece far parlare i dati: se è vero che la prima ferrovia italiana è stata la Napoli-Portici, è altrettanto vero che parliamo di un tratto di appena dieci chilometri e che, al momento dell'Unità, su 2.400 chilometri di strada ferrata in Italia, solo 126 erano al sud; le fabbriche meridionali erano legate allo Stato borbonico - di per sé autoritario e feudale - e concentrate attorno alla capitale Napoli, mentre il resto del Mezzogiorno viveva in condizioni di spaventosa arretratezza, con una fortissima disgregazione sociale e una gran debolezza dello spirito pubblico; il Sud, inoltre, aveva tassi di analfabetismo che sfioravano il 90 per cento, di gran lunga superiori a qualsiasi Paese europeo e anche di Lombardia e Piemonte dove non superavano il 40 per cento, mentre la scolarità, al Nord del 90 per cento, nel meridione si fermava al 18 per cento; i meridionali, altro dato significativo, erano in media tre centimetri più bassi dei settentrionali, sostanzialmente a causa della scarsa alimentazione - ancora a fine anni Venti gli italiani mangiavano meno carne, burro, uova e zucchero dei Paesi europei avanzati, e nella provincia di Salerno i cafoni mangiavano la metà della carne, delle uova e dei latticini rispetto ai galantuomini.
Ciononostante, la spinta unitaria - portata avanti da una minoranza di formazione illuministica lungo un secolo di grandi passioni, inaugurato dalla rivoluzione napoletana del 1799 - conferì al Risorgimento una decisa connotazione politico-ideologica, e il Sud ebbe una funzione centrale, come è ben esplicitato nel film di Mario Martone Noi credevamo.
Dall'Unità a oggi, la questione delle «due Italie» di cui parlava Giustino Fortunato si è variamente riproposta e ha alimentato dibattiti e polemiche. Al suo interno, la «questione napoletana» ha rappresentato un storia a sé, e rimane anch'essa tuttora irrisolta, come sta simbolicamente a indicarci il rogo della Città della Scienza. La ex capitale del Regno delle Due Sicilie era una delle città più popolate d'Europa e la sua «plebe» reazionaria, che aveva fatto letteralmente a pezzi i giacobini nel 1799, è stata variamente descritta e analizzata da storici, sociologi, antropologi e scrittori. Giustino Fortunato se la prenderà con l'indolenza dell'aristocrazia e della borghesia partenopea, «fiacca, disgregata, indifferente, pettegola, sospettosa». Raffaele La Capria, con la licenza visionaria dello scrittore, imputerà a quest'ultima, sconfitta e ridotta a «piccola borghesia» provinciale, di aver cercato un compromesso con l'altra Napoli, quella plebea, per paura che questa ripetesse quanto fu capace di fare nel 1799.
Poi c'era il resto del Mezzogiorno. Ancora nel 1928, Umberto Zanotti Bianco scriveva sul suo viaggio ad Africo, Tra la perduta gente di Calabria: «Sono talmente stanco di tutto il luridume, di tutte le malattie, di tutte le lacrime senza speranza di questa povera gente! Essa non ha per rifugiarsi che povere tane buie e sconsolate, e quando mi ritrovo solo la notte, nella mia tenda, non so sottrarmi dall'impulso di gridare aiuto per loro». Questo erano le aree interne del Sud Italia, quella società «immobile» che - basta leggere il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi - il fascismo tentò di abbindolare con il sogno delle terre vergini africane ma di cui in realtà peggiorò le condizioni per via del blocco dell'emigrazione - che per tanti anni dall'Unità era stata una leva politica sapientemente adoperata, per attenuare grazie alle rimesse il divario con il Nord industrializzato - e con una sconclusionata autarchia fondata sulla coltivazione massiva del grano.
C'era una volta il boom
L'unico periodo in cui il divario Nord-Sud si attenuò fu a partire dagli anni cinquanta, grazie al boom economico, all'emigrazione interna e a una forte politica statale di industrializzazione. Ma dalla fine del fordismo i «distretti» sorti all'epoca dell'industrializzazione sono falliti uno dietro l'altro senza che ci sia stata alcuna politica di riconversione, persino in quella parte di Sud più modernizzata che è la dorsale adriatica - la terra della «polpa», per stare a una definizione del più grande conoscitore del territorio meridionale che il Novecento abbia avuto, l'economista agrario Manlio Rossi-Doria.
Nel frattempo la «questione meridionale», malattia non curata per tempo e a dovere, ha finito per diventare «questione italiana», e tutto il Paese si trova oggi contagiato dal virus che ha covato al suo interno per troppo tempo. Si avvera così l'antica profezia di Mazzini: «L'Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà». Parafrasando il più rivoluzionario tra i nostri padri della patria, potremmo aggiungere che anche l'Europa sarà quel che il suo Mezzogiorno sarà.
Giovanni Tizian racconta in un libro (La nostra guerra non è mai finita, Mondadori)la sua vita blindata e come cerca la verità sulla tragedia che lo segnò per sempre.
La Repubblica, 15 marzo 2013
Una scorciatoia dall’anonimato alla notorietà. Per qualcuno addirittura un modo per risparmiare su auto e benzina. In realtà una vita vissuta sotto protezione militare è una vita che non ti appartiene più, che smette di essere tua. Eppure sembrano pochi ad accorgersene. Diventa necessario chiedere il permesso, avvisare in anticipo su qualunque spostamento, anche minimo. Devi essere autorizzato a entrare in un ristorante, persino in un bar a bere un bicchier d’acqua se ti viene sete all’improvviso. E ogni volta che mi capita di incrociare la vita di una persona finita sotto scorta, ogni volta che mi imbatto in un altro cui è stata data la protezione – testimone di giustizia, magistrato, giornalista – la mia speranza di tornare a vivere libero svanisce.
Quando per la prima volta mi hanno parlato di Giovanni Tizian, mi si è stretto il cuore. Un altro cronista finito sotto protezione, un’altra vita che si blinda, che si ferma, si blocca. Un ragazzo di trent’anni, volto pulito, nelle foto uno sciarpone come unica protezione. Da quando vivo sotto scorta ho incontrato molte persone nella mia stessa condizione e per ognuno di loro ho sentito che la mia sofferenza si moltiplicava.
La nostra guerra non è mai finita è un libro di un cronista che non si sottrae alla sua ferita. Non solo per l’analisi che Giovanni Tizian fa sullo stato dell’Italia e su come, da Nord a Sud, non smetta di scontare la miopia della classe dirigente che tratta tutto ciò che è connesso alle organizzazioni criminali come problema secondario rispetto alle urgenze economiche. Ma anche per il racconto della sua vita e dei ricordi di una famiglia costretta all’auto esilio. Costretta a lasciare la propria terra. Tizian scrive: «Le storie degli emigranti sono sempre tristi. Nascondono pochi segreti, tante paure e lunghe nostalgie». E queste storie le racconta, ma non c’è soluzione. Non c’è giustizia per l’azienda materna distrutta, per un padre assassinato. Tutto, appena entra nel regno dominato dalle organizzazioni criminali, si sfuma. Tutti i contorni diventano indefiniti. Come una sorta di incredibile pudore. Come se un omicidio o una ritorsione, se commessi dalla ’ndrangheta, pretendessero silenzio. Ma è il dolore a meritare rispetto, il dolore di chi ha sofferto e pagato senza colpa. Le parole di Tizian si articolano con pudore, sembrano guidate da un dovere e da una rara voglia di sfogo. La nostra guerra non è mai finita è l’educazione sentimentale di un ragazzo meridionale cresciuto al Nord e finisce col mostrare come Sud e Nord non siano affatto mondi separati, ma aspetti complementari della stessa tragedia. Come le organizzazioni criminali costituiscano, più delle autostrade, più della lingua comune, più della comune appartenenza a un’unica nazione, il vero tratto unificatore tra due mondi.
Giovanni Tizian è cresciuto a Bovalino, nella Locride, e a sette anni con la madre e la nonna si è trasferito a Modena per ricominciare una vita lontano dalla Calabria. Da adulto, dopo gli studi universitari, decide di recuperare la memoria del passato, decide di recuperarla e di cercare se possibile quella giustizia che per decenni alla sua famiglia era stata negata. Il padre di Tizian «era un funzionario integerrimo, una brava persona, limpida e senza ombre, tanto da non consentirci di rintracciare indizi dai quali partire per risolvere il caso». Ecco cosa disse alla famiglia l’investigatore che si occupava del caso. Una vita troppo pulita perché si riuscisse a fare chiarezza su ciò che gli era accaduto. È con questa consapevolezza che Giovanni Tizian inizia a fare domande per capire perché suo padre fosse stato ucciso, e perché poco tempo prima avessero dato alle fiamme l’azienda materna.
Tutto inizia al Tribunale di Locri. Giovanni chiede il fascicolo dell’omicidio di Giuseppe Tizian e dovrà aspettare due anni perché venga trovato e gli venga consegnato. Voleva ridare dignità a suo padre e con lui a tutte le vittime innocenti dimenticate dalla società. Da lì scopre che una quantità enorme di indizi erano stati tralasciati, che le piste da seguire non erano state battute che in superficie. Capisce che quando un omicidio, una ritorsione, fosse anche una vendetta per motivi passionali, porta la firma delle organizzazioni criminali, spesso viene circondata da silenzio: che nessuno ne parli, che tutto cada nel dimenticatoio. Un mobilificio dato alle fiamme, un dipendente della filiale di Locri del Monte dei Paschi di Siena ucciso in quelle terre non erano un’eccezione, ma la regola. Troppe le piste o nessuna.
Un libro dal ritmo diaristico che si salda all’inchiesta, tassello importante di un percorso battuto da altri giovani giornalisti e scrittori meridionali trasferiti al Nord, che hanno sentito l’urgenza di raccontare il potere criminale e a cui questo libro si collega. Penso a Giuseppe Catozzella con il suo bellissimo Alveare, o a Biagio Simonetta con Faide. L’impero della ’ndrangheta. Il Sud raccontato dal Nord. Da un Nord sempre meno diverso, il cui dna negli anni è mutato: terra di investimenti e di conquiste. Luogo in cui da vittime ci si trasforma in carnefici. Da sfruttati in sfruttatori. E Tizian lo racconta sino infondo senza risparmiarsi.
Ecco, chi vuole sapere quanto costa scrivere in Italia, può visitare il sito di Osservatorio Ossigeno (www.ossigenoinformazione. it) e vedere quante sono le intimidazioni che ogni giorno subisce chi scrive, chi informa, chi fa ricerca. Quante sono le vite minacciate note e meno note. Da lì può capire che situazione vive l’Italia. L’osservatorio, gestito con coraggio da Alberto Spampinato, raccoglie e diffonde informazioni, e da anni tutela attraverso il racconto cronisti e giornalisti che hanno osato svelare i meccanismi con qualunque mezzo.
La nostra guerra non finirà mai, ho pensato, leggendo questo libro. E l’ho pensato soprattutto se il prossimo governo, qualunque esso sia, in qualunque modo verrà formato, non affronterà come problema prioritario la lotta alle mafie nel nord Italia. Perché quella normalità che Tizian invoca e che le mafie ci hanno tolto, non appartiene solo a noi scortati, protetti, minacciati, ma anche e soprattutto a questo Paese che non ci consente di vivere come uomini liberi. Responsabilità delle organizzazioni criminali, certo, ma anche del sistema che le alimenta. Che le nutre. Che non le blocca. Che consente loro di continuare a crescere, indisturbate. La lotta alle mafie non è un corollario, una battaglia secondaria rispetto alle priorità economiche, ma l’unico modo perché il nostro sia un paese realmente democratico.
Uso la riflessione su questo libro, rifletto sulla vita di Giovanni, ennesimo giornalista che sta pagando un prezzo alto per aver fatto il suo lavoro, per fare un appello a ridare una vita normale a chi è scortato in Italia. A liberare i corpi e le parole dal pericolo. Fino a quando si continuerà a vivere circondati da persone armate solo per ciò che si è scritto e detto, non riesco a definire il mio Paese una democrazia.
Una recensione al libro-intervista di Valentino Parlato a cura di Giancarlo Greco,
La rivoluzione non russa. Quarant'anni di storia del Manifesto. «Se siamo uomini e non anime belle, lo si deve proprio a questo, alla capacità di rimettersi in piedi dopo la caduta. Come dice un proverbio francese: “Cadere sette volte, rialzarsi otto"»
L'altro aspetto pregevole del libro è che l'autore , il quale parla in prima persona, non si gonfia mai il petto, anzi tende a rendere la propria voce di soggetto narrante la più dimessa possibile. Non si erge mai a protagonista, pur essendo, di quella vicenda, un protagonista indubbio: « notoriamente – scrive Valentino Parlato di se stesso – il più modesto e moderato del gruppo». Dove quel “moderato” non è meno autoafflittivo del “modesto”, visti gli umori di intransigenza radicale che circolavano nel sistema sanguigno di quel nido d'aquile. E tuttavia quella modestia che Valentino si riconosce, cosi come quella moderazione, sono delle virtù che fanno premio, non solo per l'equilibrio storico-politico che governa il libro, ma perché, a mio avviso – all'interno della storia di quel gruppo - gli hanno offerto una lungimiranza politica di più lunga lena rispetto ai suoi compagni. Certo, Valentino non ha alle spalle la storia intellettuale di una Rossana Rossanda o di un Lucio Magri, o l'acuta pervicacia di analista politico di Luigi Pintor.
Tuttavia la minore altitudine del suo pensiero l'ha tenuto più vicino alla realtà e gli ha permesso, ( è sempre una mia opinione) di afferrare con spirito pragmatico più aderente alle cose le trasformazioni che son venute sconvolgendo tanti vecchi assetti sociali e tante certezze interpretative. Questa stessa capacità spesso non hanno posseduto coloro che erano intellettualmente più “costruiti” e hanno maggiormente faticato a trovare letture confacenti ai brutali resoconti dei fatti consegnati dal processo storico. Intendiamoci, il gruppo fondativo del Manifesto, sin dalla nascita lucidamente critico nei confronti dell'URSS e delle burocrazie comuniste, ( a parte l'illusione cinese) non è stato certamente spiazzato dall' anno terribile dell'89. Non è questo che si vuole osservare. Quanto piuttosto – ma l'argomento meriterebbe studio e analisi meno occasionali di questa breve nota – il fatto che l'ordito intellettuale di quel gruppo (e di quella generazione ) poggiava su una analisi storica dei mutamenti sociali che non è stata più aggiornata come sarebbe stato necessario e forse impossibile. Soprattutto alla luce dello scenario degli sconvolgimenti ambientali che hanno spiazzato i paradigmi della cultura marxista-industrialista in cui si è formata gran parte della sinistra nel Novecento. Ma tale riflessione ci porterebbe lontano.
Io credo che Valentino Parlato proprio per la sua intelligenza politica sia riuscito più di altri ad attraversare la storia quarantennale del Manifesto con la capacità di interpretare i mutamenti che sconvolgevano di volta i volta i criteri di analisi di chi – come i giornalisti di quel giornale– non soltanto dovevano dar conto degli eventi quotidiani, ma dare persuasive letture del mondo ai loro militanti. E questo, a mio avviso, spiega anche la lunga fedeltà di Valentino al giornale, solo l'anno scorso dolorosamente interrotta. Una scelta, quest' ultima, che non condivido , che trovo in contraddizione con la sua storia e la sua personalità, anche se, ovviamente, rispetto profondamente.
Vorrei dare qui al lettore almeno un'idea, un'impressione di che cosa intendo per intelligenza politica, riferita alla condotta di Valentino Parlato come intellettuale e politico. Nel libro ci si imbatte in una dichiarazione rivelatrice, quasi una confessione, che mostra la sua capacità di sfuggire alle rigidità dogmatiche con cui, così spesso, l'ideologia ci mette in trappola. Ma nello stesso tempo indica una linea di condotta, una profonda motivazione esistenziale da porre a base della lotta politica. E tale motivazione costituisce il più raffinato e saggio antidoto ai colpi dello scacco e della sconfitta cui è esposto chi sfida le opache “necessità” della storia.
« Nella lunga lista delle idee innate – scrive Parlato - ce n'è una particolarmente resistente, difficile a morire, che vede nell'errore una sciagura. E' un'idea stupida. La vita dell'uomo, dalla sua nascita alla sua morte, è un insieme di tentativi a volte azzeccati, a volte miseramente falliti. E se siamo uomini e non anime belle, lo si deve proprio a questo, alla capacità di rimettersi in piedi dopo la caduta. Come dice un proverbio francese: “Cadere sette volte, rialzarsi otto”. E aggiungerei che l'unico modo per tollerare il logorio quotidiano della battaglia politica è credere in un avvenire migliore che non si realizzerà mai, in mancanza del quale per molti il motore della militanza finisce per diventare l'interesse immediato, il realistico, pragmatico, postideologico arricchimento della propria parte» (p.96)
Dunque, un dispositivo intellettuale, un manuale di resistenza e insieme un progetto di vita.In queste riflessioni è come racchiuso il paradigma del politico rivoluzionario del '900, di cui Parlato è rappresentante a pieno titolo. Ma con in più quel quid di realismo politico che gli ha concesso una perdurante giovinezza anche nel nuovo millennio.
Forse, più che nella psicologia individuale e sociale, quelle radici affondano nel predominio della tecnica su ogni altra dimensione dell’uomo e della società?
La Repubblica, 10 marzo 2013
“Unde malum?”. Per cercare la risposta all’eterna domanda sulle origini del male, Zygmunt Bauman si concentra sul Novecento, secolo degli stermini di massa e di quell’“unicum” della storia umana che è l’Olocausto. La ricerca contenuta in questo breve testo (Le sorgenti del male,
Erickson, pagg. 108, euro10), riprende i temi che il sociologo polacco aveva svolto nel 1992 in Modernità e Olocausto(il Mulino), per arrivare però a conclusioni sensibilmente differenti.
Si parte dalla confutazione di alcune tesi illustri. Innanzitutto l’idea che la malvagità sia prerogativa di alcune psicologie particolari. Il male come frutto di predisposizioni naturali, del carattere “perverso” di certi individui, secondo il celebre studio di Adorno sulla “personalità autoritaria” che avvalorava l’idea di una “autoselezione dei malfattori”. Ma il pensiero in fondo consolante che solo alcune persone siano capaci delle atrocità, per cui dovremmo solo individuare i “mostri” e difendercene, non regge alla prova della storia e delle ricerche scientifiche. A dircelo sono, per esempio, gli esperimenti dello psicologo sociale Philip Zimbardo (L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?,Cortina). Nel famoso “caso di Stanford” un gruppo di persone perfettamente normali è diviso tra coloro chiamati a fare i carcerieri e quelli destinati a essere prigionieri. Ed ecco che i primi subito si trasformano in sadici violenti, con una metamorfosi sbalorditiva. L’esperimento, che risaleagli anni Settanta, ha trovato conferme clamorose nello scandalo dei prigionieri torturati dai soldati americani nel carcere di Abu Grahib.
Si torna allora alla “banalità del male” teorizzata da Hannah Arendt e al suo ritratto di Adolf Eichmann come persona del tutto “normale”, bravo padre di famiglia e anche amico degli animali. Con la perturbante conclusione che il male è fra noi e che chiunque, in certe circostanze e in assenza di una forza morale fuori dal comune, può diventare, da un giorno all’altro, un mostro.Ma nemmeno questo è sufficiente, perché, sostiene Bauman, siamo di fronte auna descrizione, non a una spiegazione, del fenomeno. Lo sguardo del sociologo si distoglie allora dalla Shoah e si volge ad altri fra gli eventi assurdi e terribili del secolo passato. La distruzione nell’inverno del ’44 delle città tedesche e il lancio dell’atomica su Nagasaki nell’agosto del ’45. Decisioni senza alcuna giustificazione “strategica”, ma solo ragioni “tecniche” ed “economiche”. Non c’era nessun bisogno di radere al suolo centri abitati senza fabbriche o caserme. E nemmeno, dopo Hiroshima, di tirare una seconda atomica. Quelle bombe, secondo le testimonianze degli stessi protagonisti, alti ufficiali alleati o il presidente americano Truman, furono usate per il semplice fatto che erano state costruite e non andavano lasciate nei magazzini. La macchina, una volta messa in moto, vive di vita propria.
Sulle orme delle riflessioni di Günther Anders, Bauman si concentra così sul predominio della tecnica. Arrivata a una potenza che supera l’immaginazione umana, e capace di realizzare in ogni momento le proprie potenzialità illimitate. A questo si aggiunge la perdita di sensibilità dovuta all’abitudine, come scriveva Joseph Roth in Ebrei erranti (Adelphi): «Le catastrofi croniche sono così spiacevoli per i vicini che questi ultimi diventano gradualmente indifferenti sia alle catastrofi, sia alle loro vittime, quando non sviluppano in proposito una vera e propria impazienza». Anders avvertiva: può succedere di nuovo solo perché è già successo. Del male dobbiamo dunque avere paura: far sapere agli uomini che hanno bisogno di essere sempre in allarme «è il compito morale più importante dei nostri giorni».
Una attenta recensione a
Il diritto all'acqua di Carlo Iannello: la proprietà pubblica delle risorse collettive non è "proprietà privata dello Stato". La Repubblica Napoli, 27 febbraio 2013
Il punto centrale del lavoro sta nell’analisi critica dei contenuti del regime di proprietà pubblica delle risorse, sulla base di una rivisitazione acuta e scrupolosa delle fonti, e delle (purtroppo dimenticate) categorie giuridiche, a partire da quella di demanio.
Il risultato cui Iannello giunge si potrebbe sintetizzare così: la proprietà pubblica delle risorse collettive non può essere considerata alla stregua di una proprietà “privata” dello Stato, essendo il suo esercizio indissolubilmente legato al perseguimento di fini di interesse generale, in nome e per conto della collettività.
Sembra una cosa scontata, ma non lo è, perché quest’assunzione ha due conseguenze rilevanti: da un lato, l’esigenza per una democrazia compiuta, di verificare costantemente la coerenza dei procedimenti amministrativi e delle politiche di gestione delle risorse collettive, con gli obiettivi effettivi di perseguimento dell’interesse generale; dall’altro, l’impossibilità di equiparare la proprietà pubblica con quella privata, per cui lo slogan benecomunista “né con lo Stato né con il mercato” finisce con il non aver più senso.
In questo modo si evita anche il paradossale congiungimento degli opposti, cui pure abbiamo assistito negli ultimi tempi, con le posizioni benecomuniste pericolosamente allineate con quelle del contrattualismo liberista, secondo le quali lo Stato è un soggetto come gli altri nel processo decisionale, al quale non può essere riconosciuto alcun potere regolativo super partes, l’unica fonte di legittimità essendo il patto, il contratto di volta in volta stipulato tra portatori di interessi privati ed autorità pubblica.
La proposta che scaturisce dall’analisi di Iannello è dunque quella del rilancio delle politiche per i beni pubblici, proprio quello che Obama ha dichiarato nei suoi ultimi fondamentali discorsi (quello del reinsediamento e quello sullo Stato dell’Unione), incentrati sull’asserzione che “il pareggio di bilancio non è una politica”, e sull’annuncio dei nuovi grandi programmi federali per la formazione, la ricerca, la manutenzione delle infrastrutture, a cominciare dai 70.000 ponti sui quali si basa la mobilità interna del paese.
Tornando a casa nostra, si tratta di considerazioni simili a quelle svolte da Luca Ricolfi nel suo ultimo editoriale su la Stampa del 22 febbraio (Il dilemma dell’asino di Buridano), con il quale per una volta è impossibile non essere d’accordo, dove si osserva come la spesa pubblica in Italia non sia comprimibile in presenza di un colossale deficit strutturale di servizi e beni pubblici - asili, assistenza agli anziani, formazione, ricerca, scuola, ecc. -, sarebbe a dire delle infrastrutture materiali e immateriali che sono alla base della coesione sociale e dello sviluppo durevole della nazione.
Per tutte queste ragioni, il libro di Iannello costituisce, al di là degli aspetti specialistici, un contributo importante alla definizione di nuove politiche per la sinistra in Italia, in attuazione di un programma costituzionale di promozione del lavoro, dei diritti e delle libertà effettive, ancora largamente inattuato.
Con spirito fortemente critico rispetto ai valori dominanti che diamo per scontati, la recensione a due libri recenti sul rapporto tra valore economico e valore dell'esistenza.
The Ecologist, marzo 2013 (f.b.)
Titolo originale: What price the good life? Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
- Robert e Edward Skidelsky, How Much Is Enough? The Love of Money, and the Case for the Good Life
- Michael Sandel, What Money Can’t Buy: The Moral Limits of Markets
Si tratta di due libri che restituiscono l'economia al suo autentico contesto filosofico e morale, sottraendola alla attuale presunta posizione di scienza. Il lavoro degli Skidelsky è una critica radicale alla nostra vera e propria ossessione per la crescita economica, e alla stessa economia che, sviluppatasi quando la scarsità era norma, ed efficienza e crescita parevano promettere un mondo migliore, oggi mal si adatta a un'era in cui il mondo occidentale vive un'abbondanza un tempo del tutto inimmaginabile.
Gli autori partono da un discorso di John Maynard Keynes del 1930 in cui prevede che entro il 2030 la Gran Bretagna sarà cinque volte tanto più ricca, lavorando cinque volte meno, e disponendo di tanto più tempo per coltivare lo spirito. Oggi siamo davvero più o meno così ricchi, ma che ne è stato del tempo liberato? Gli Skidelsky ci spiegano come si sia semplicemente allargato il concetto di cosa è sufficiente, e che se si continua e seguire l'attuale ortodossia, si andrà avanti in modo indefinito, senza alcun limite per l'accumulazione. Prima dell'era scientifica, l'amore per il denaro era considerato una debolezza morale, e tutte le culture avevano un senso del limite (anche se certamente in un mondo privo di troppe aspettative di mobilità sociale o progresso tecnico). Da Adam Smith in poi tutto questo viene sostituito dall'accettazione di poter possedere di più, anzi dall'ammirazione per chi accumula ricchezze.
In modo simile anche altre civiltà hanno creduto in una buona universale qualità della vita, al fatto che il denaro fosse un mezzo per raggiungere un fine, non un fine a sé. Oggi però politica ed economia non parlano più della vita, ma solo di occasioni, efficienza, livelli di consumo, al massimo di diritti. In modo quasi universale non hanno alcuna propensione ad esprimersi su cosa possa essere una buona vita. Un limite particolarmente grave con l'attuale trionfo dell'economia rispetto ad altre discipline di studio, sino a diventare in realtà la teologia dei nostri tempi. E i pensatori liberali sono convinti della posizione di neutralità fra concezioni contrapposte di cosa possa essere una buona vita, sul non esprimere un giudizio a proposito di cosa possa essere più auspicabile di altro. Una neutralità artificiale, che lascia di fatto tutti gli interessi economici a dominare, a cercare di convincerci a consumare di più.
Sino ad un certo punto di ricchezza delle nazioni, naturalmente, la crescita economica spinge verso una buona vita, la rende disponibile a più persone. Ma oltre quel punto la ricerca della crescita in realtà ci allontana dalla vita, per le pressioni esercitate su tempo, relazioni, natura, autostima, soddisfazione, benessere. A differenza di altri autori, gli Skidelsky non mettono i propri paletti quando si tratta di offrire soluzioni: ma delineano piuttosto una propria definizione di vita, precisando il tipo di scelte generali che possano contribuire a raggiungerla. Una buona vita, affermano, non è semplicemente una sequenza di condizioni soggettive accettabili, ma qualcosa in grado di accogliere in sé valori umani essenziali universali, che presi nel loro insieme ci diano motivo concreto e duraturo per la felicità. Li individuano nella salute, sicurezza, rispetto, amicizia, personalità (ovvero il tempo e spazio per svilupparne una autonoma individuale), coltivazione dello spirito e armonia con la natura.
Per portarci a questa condizione, propongono scelte generali come il reddito minimo garantito, una minore pressione a consumare attraverso una contenimento indotto della comunicazione pubblicitaria (definita “costruzione programmata dell'insoddisfazione”) e un'imposta progressiva sui consumi, a cui si aggiungono un tetto massimo alle ore di lavoro esteso a tutta l'Unione Europea, e un modello di scambi complementare anziché concorrenziale. Idee abbastanza contraddittorie e discusse, certo eresia rispetto al classico punto di vista economico ortodosso, ma se le guardiamo dal punto di vista della buona vita certamente difficili da contestare. Ed è il principale merito del libro il fatto di indicarle con tanta chiarezza e decisione.
Il lavoro di Michael Sandel, What Money Can’t Buy, è complementare alla visione degli Skidelsky, con la sua disamina degli effetti morali del trionfo del mercato. Sandel analizza il modo in cui i valori di mercato hanno invaso la sfera pubblica, sfruttando cose come lo sport o altri aspetti dell'esistenza prima dominati da valori non artificiali, e ce ne mostra gli effetti corrosivi. Scrive: “La più disastrosa trasformazione avvenuta nel corso degli ultimi trent'anni non è tanto la crescita dell'avidità. È invece l'allargarsi del mercato, dei valori di mercato, verso ambiti dell'esistenza a cui essi non appartengono”. E ci elenca numerosi esempi di cose per cui si è creato o si è gonfiato sino a dimensioni enormi un mercato, come gli interventi sulle celle dei carceri, la sponsorizzazione nei nomi degli impianti sportivi, la compravendita di organi umani, l'uso della maternità surrogata nei paesi poveri, gente pagata appositamente per stare in fila davanti al botteghino di uno spettacolo, il diritto di abbattere un rinoceronte, o quello di emettere gas serra.
Questo ragionare tutto attorno al trionfo del mercato, ci spiega, svuota la vita pubblica di qualunque morale, crea ingiustizia e degrado dei valori. Gli esempi scelti da Sandel ci mostrano come “negli ultimi decenni si sia assistito alla ridefinizione dei rapporti sociali a immagine di quelli di mercato” e che “più il mercato si allarga verso la sfera dell'esistenza non-economica, più si intreccia viziosamente con le questioni morali”. Ancora riprendendo il punto di vista degli Skidelsky, si sottolinea quanto lungi dall'essere neutrali, i meccanismi di mercato e incentivo sopprimano tutto quanto al mercato non attiene, riducano l'importanza della sfera pubblica, dello spirito di cittadinanza, del bene collettivo e della vita stessa. Sandel afferma che va confermato e rafforzato il ruolo e forza dello spirito civico, se non si vuole farlo scomparire. “Altruismo, generosità, solidarietà, spirito civico, non sono merci che si consumano con l'uso” scrive. “Assomigliano molto di più a dei muscoli, crescono e si sviluppano esercitandoli. Uno dei difetti di una società dominata dal mercato è quello di lasciare immobili tali virtù”.
Entrambi questi importanti lavori mettono eloquentemente in discussione il trionfo del mercato, col suo vuoto di valori morali, estetici, spirituali, l'assenza di discussione pubblica sui fondamenti economici. Ci spiegano come per affrontare l'ottusa ortodossia di una crescita senza fine si debba offrire una visione alternativa chiara ed eloquente.
«La crescita delle disuguaglianze e la de-solidarizzazione dei ricchi in una economia globalizzata rischiano di far cadere il fragile equilibrio tra libertà, solidarietà e uguaglianza dei diversi su cui si è retta, la democrazia occidentale». Recensione del librodi A.Zampaglione, nella fortunata collana di Laterza
La Repubblica, 23 febbraio 2013
La cultura, prima ancora che le politiche, neo-liberista che dagli anni Ottanta del Novecento ha incrinato il consenso insieme keynesiano e socialdemocratico che aveva guidato le democrazie capitaliste occidentali, ha infatti presentato la regolazione dei mercati e i sistemi di welfare sviluppati nel do-poguerra come inciampi indebiti alla libertà economica e all’accumulo di ricchezza. Nonostante i molti segnali di fallimento sul loro stesso terreno delle politiche neo-liberiste degli ultimi decenni (allontanamento del sogno della piena occupazione e del benessere per tutti), la delegittimazione delle politiche universalistiche e degli interventi di contrasto alle disuguaglianti escludenti e squalificanti è continuato, trovando nuova linfa nei processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. Questi hanno eroso le basi sociali dell’economia e il senso di responsabilità per il bene comune di chi ha di più. A differenza, o molto più, dell’industria edelle cosiddetta economia reale, la finanza non ha né patria né territorio; e chi la manovra non ha particolari interessi nello stato di uno o l’altro paese e di chi ci vive, salvo che quando lo sente come un ostacolo da rimuovere, come successe in Cile con Pinochet contro Allende.
Di più, la straordinaria escalation della globalizzazione economica e finanziaria rende gli stati meno democratici, perché riduce la loro sovranità di decisione proprio nelle scelte politiche più ampiamente e socialmente democratiche, ovvero in quelle che riguardano appunto la regolazione dei mercati e la redistribuzione via welfare state. Alla globalizzazione e de-territorializzazione dell’economia fa da contraltatare quasi speculare un rafforzamento della richiesta di politiche identitarie, che circoscrivano “gli uguali” — quelli che “hanno diritto ad avere diritti” — rispetto ai “diversi”, le cui domande di appartenenza comune vanno respinte — che si tratti dello slogan “prima il nord”, o del rifiuto a riconoscere pari dignità alle persone omosessuali. Se il primo fenomeno provoca una sorta di secessione dell’economia non solo dagli Stati, ma anche dagli organismi internazionali, il secondo provoca una sorta di secessione interna, con il prevalere delle identità nazionali, etniche, religiose, (etero) sessuali, e così via sulla comune appartenenza statuale. Sotto questa doppia spinta secessionistica, la democrazia sta conoscendo una mutazione tanto silenziosa quanto insidiosa dei meccanismi che la fanno vivere e riprodurre.
È questo il filo conduttore della densa e articolata riflessione che Nadia Urbinati svolge nel suo ultimo libro in uscita da Laterza (Mutazione antiegualitaria), scritto in forma di intervista con il giornalista Arturo Zampaglione. Una riflessione che spazia da una sorta di ricostruzione della sua autobiografia intellettuale ad analisi puntuali di fenomeni sociali e politici quali la Lega o Occupy Wall Street e che incrocia la tradizione intellettuale e pratica della democrazia statunitense con quella europea continentale, con il ruolo diverso che in esse gioca l’atteggiamento verso lo stato. Ma il tema centrale, cui Urbinati continua a tornare, è che la crescita delle disuguaglianze e la de-solidarizzazione dei ricchi in una economia globalizzata rischiano di far cadere il fragile equilibrio tra libertà, solidarietà e uguaglianza dei diversi su cui si è retta, almeno idealmente se non sempre nei fatti, la democrazia occidentale. Una mutazione che, per non diventare fatale, richiederebbe la capacità di sviluppare nuove narrazioni, che rimettano in moto la disponibilità a operare per un bene comune consensualmente definito.
Dibattito su una questione molto diversa da quelle che fanno scandalo ai giorni nostri. Sraffa e Togliatti colpevoli di aver fatto sparire un quaderno dei gramsciani scritti dal carcere? A proposito del libro “L'enigma del quaderno”, di Franco Lo Pipero. Filologia storica o episodio del revisionismo?
Ilmanifesto, 18 febbraio.2013
Da qualche tempo ha corso negli studi gramsciani quella che potremmo definire una «storia congetturale»: una ricostruzione dei fatti basata su deduzioni non verificabili. A ciò si è accompagnata e sovrapposta una lettura dei testi fondata sulla convinzione che in essi non si dica ciò che letteralmente si legge, ma vi siano messaggi nascosti. Il che a volte è vero: si tratta però di vedere quanto esteso possa essere il ricorso a questo tipo di lettura «esopica», come si dice ripetendo una espressione della cognata di Gramsci, Tania. Si tratta di due metodologie - storia congetturale e lettura esopica - che hanno prodotto anche esiti interessanti, ma a cui bisogna accostarsi con cautela, proprio perché i loro risultati non poggiano su basi certe.
Alla ricerca di un «Gramsci sconosciuto» è tra gli altri Franco Lo Piparo, che torna in libreria con un lavoro di taglio investigativo: L'enigma del quaderno. La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci (Donzelli, pp. 161, euro 18). Se si parla di taglio investigativo non è per sminuire il libro, ma perché fin dal titolo è l'opera stessa che si propone come un «giallo» (viene anche citato E. A. Poe) ed è l'autore a creare un'atmosfera da spy story , dipingendo alcuni dei «personaggi» (così li definisce, come in una fiction ) della vicenda gramsciana come protagonisti di un romanzo di Le Carré. Un problema di etichetta Il caso più eclatante è quello di Sraffa, ritratto da Lo Piparo come «agente segreto, di alto rango, del Comintern. È una affermazione impegnativa. Essa viene forse fatta perché negli Archivi di Mosca è stato trovato un documento che rende palese questo lato nascosto del grande economista? Niente di tutto ciò. È solo una «congettura», che scaturisce soprattutto dal fatto che essa bene si colloca nel mosaico interpretativo di Lo Piparo. È possibile, e forse probabile, che Sraffa fosse un «militante coperto» del Pcd'I, già incaricato di gestire i finanziamenti provenienti da Mosca. Ed erano tempi, indubbiamente, in cui un comunista di qualsiasi nazionalità si sentiva anche un militante del Comintern, di quel partito comunista mondiale non ancora del tutto russocentrico. Ma da qui a farne una «agente segreto» ce ne corre. Può anche essere, ma ci vogliono i documenti per affermarlo.
Nell'impossibilità di accennare a tutti i passi di questo tipo, di cui il libro è pieno, dirò i motivi principali per cui l'ipotesi di Lo Piparo mi sembra da respingere.
Secondo , perché, nella sua opera di continua e faticosa riscrittura , Gramsci non avrebbe lasciato altri segnali di una svolta politica tanto clamorosa? Il quaderno scomparso sarebbe un corpo estraneo nel contesto delle duemila pagine (a stampa) degli appunti carcerari. Una cautela postuma
Quarto, se Togliatti sa già dal luglio 1937 che deve far sparire un quaderno, perché non lo distrugge a Parigi (dove, secondo Lo Piparo, Sraffa glielo porta dopo averlo sottratto a Tania)? Perché, tornata in Urss, Tania - che scrive anche direttamente a Stalin sulla gestione dei quaderni - non denuncia la scomparsa del quaderno scomodo? Perché Togliatti non distrugge il quaderno pericoloso almeno nel 1941, dopo la morte di Tania, quando legge e rilegge i manoscritti di Gramsci? Perché lo riporta in Italia (è l'ipotesi di Lo Piparo), decide di farlo sparire o lo fa sparire, ma continua a parlare pubblicamente di trentaquattro quaderni? La spiegazione di Lo Piparo per cui ancora nel 1948 Togliatti e Platone sbagliano il numero dei quaderni indicandone trentadue nella introduzione al primo volume dell'edizione tematica presso Einaudi («si preferisce puntare sulla disattenzione dei lettori e degli studiosi e continuare a usare il numero canonico trentadue ») è francamente incredibile. Non è più ovvio pensare che sia stato un errore causato dalla ripresa letterale della relazione fatta da Platone nel'46 per Rinascita?
Senza nuovi ritrovamenti le congetture di Lo Piparo non paiono sufficienti a ipotizzare un quaderno che non abbiamo e la spinta a «immaginarlo» sembra motivata soprattutto dal rinnovato tentativo di dimostrare che Gramsci era (diventato) liberale. Ma l'autore sardo è tanto grande da trascendere la sua stessa parte politica e nutrire anche culture diverse: lo ha scritto Togliatti già nel 1964, non vi è bisogno di inventarsi un Gramsci che non esiste per sentirsene almeno in parte eredi.
Esce domani la nuova raccolta di saggi di Zizek sulla contemporaneità: da Occupy alla crisi della Ue. «Il solo modo di uscire da questo stallo è proporre e lottare per un progetto universalista positivo che possa essere condiviso da tutti i partecipanti. Gli ambiti di lotta in cui "non ci sono né uomini né donne, né ebrei né greci" sono molti, dall’ecologia all’economia»
. La Repubblica, 13 febbraio 2013
Quando, una decina di anni fa, gli sloveni stavano per entrare nell’Unione Europea, un nostro compatriota euroscettico propose una parafrasi sarcastica di una battuta dei Fratelli Marx sull’utilità di assumere un avvocato: noi sloveni abbiamo problemi? Entriamo nell’UE! Così avremo ancora più problemi, ma ci sarà l’UE a occuparsene! È così che oggi molti sloveni vedono l’UE: porta un po’ di aiuto, ma anche nuovi problemi (con le sue regolamentazioni e multe, le sue richieste di finanziare gli aiuti alla Grecia ecc.). Vale allora la pena difendere l’UE? La vera questione è, ovviamente, capire a quale Unione Europea ci riferiamo.
Un secolo fa, Gilbert Keith Chesterton descriveva così l’impasse fondamentale della critica alla religione: «Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e della umanità finiscono col combattere anche la libertà e l’umanità pur di combattere la Chiesa. […]». Non potremmo dire lo stesso dei difensori della religione? Quanti fanatici protettori della fede hanno cominciato con l’attaccare ferocemente la cultura laica contemporanea e hanno finito col rinunciare a qualsiasi esperienza religiosa significativa? Analogamente, molti partigiani della causa liberale sono cosìimpazienti di lottare contro il fondamentalismo antidemocratico che finiranno per gettar via proprio la libertà e la democrazia così da poter combattere meglio il terrorismo. Se i “terroristi” sono pronti a distruggere questo mondo per amore dell’altro mondo, i nostri guerrieri antiterrorismo sono pronti a distruggere il loro mondo democratico per odio dell’altro mondo musulmano. Alcuni di loro amano a tal punto la dignità umana da essere pronti a legalizzare la tortura, e cioè la somma degradazione di questa dignità.E non potremmo dire lo stesso anche di quelli che hanno aderito alla recente crociata europea contro la «minaccia dell’immigrazione »?
Nel loro fervore di proteggere l’eredità giudaico-cristiana, i nuovi zeloti sono pronti a sacrificare il vero nucleo di questa eredità: ogni individuo ha un accesso immediato all’universalità (dello Spirito Santo o, oggi, dei diritti umani e della libertà); e io posso prendere direttamente parte a questa dimensione universale, indipendentemente dalla mia particolare posizione all’interno dell’ordine sociale globale. Le “scandalose” parole di Cristo nel Vangelo di Luca non puntano forse nella direzione di una tale universalità che ignora ogni gerarchia sociale? «Se uno viene a me e non odia suo padre, e sua madre, e la moglie, e i fratelli, e le sorelle, e finanche la sua propria vita, non può esser mio discepolo » (Luca 14:26). I legami familiari rappresentano qui una qualsiasi particolare relazione sociale, etnica o gerarchica, che determina il nostro posto nell’Ordine globale delle Cose.L’“odio” imposto da Cristo non è quindi l’opposto dell’amore cristiano; ne è bensì l’espressione diretta: è l’amore stesso che ci impone di “slegarci” dalla comunità organica nella quale siamo nati; o, come disse San Paolo, per un cristiano non ci sono né uomini né donne, né ebrei né greci. Non sorprende affatto che l’apparizione di Cristo fosse considerata ridicola o scandalosa da coloro che si identificavano pienamente con un particolare modo di vivere. Ma l’impasse dell’Europa è ben più profonda. Il vero problema è che la maggior parte di quelli che criticano l’intolleranza verso l’immigrazione, invece di fare leva sul nucleo prezioso dell’eredità europea, si limitano a celebrare l’infinito rituale della confessione dei peccati dell’Europa, ad accettarne umilmente i limiti storici, e a esaltare la ricchezza delle altre culture. [...]
Come sfuggire a questa impasse?Un dibattito che ha avuto luogo in Germania può indicarci la via. Il 17 ottobre 2010 la cancelliera Angela Merkel ha dichiaratoa un meeting di giovani membri del suo partito (l’Unione cristiano-democratica): «Questo approccio multiculturale, sostenere cioè che viviamo felicemente l’uno con l’altro, ha fallito. Ha fallito completamente». Il meno che si possa dire è che è stata coerente, facendo da eco a un precedente dibattito sulla Leitkultur (la cultura dominante) in cui i conservatori insistevano che ogni Stato si basa su uno spazio culturale dominante che i membri di altre culture devono rispettare. Ma invece di fare le anime belle che si indignano per l’emergere dell’Europa razzista annunciata da questo tipo di dichiarazioni, dovremmo guardarci allo specchio e chiederci con spirito critico fino a che punto il nostro multiculturalismo astratto ha contribuito a determinare questa sconfortante situazione. Se non tutte le parti condividono o rispettano gli stessi standard di civiltà, allora il multiculturalismo si trasforma in mutua ignoranza o odio regolamentati per legge. Lo scontro sul multiculturalismo è già uno scontro sullaLeitkultur:non tra culture, ma tra visioni diverse di come culture differenti possano e debbano coesistere, sulle regole e le pratiche che queste culture devono condividere se vogliono coesistere. Dobbiamo dunque evitare di farci prendere dal gioco liberale riassumibile nel quesito: «quanta tolleranza cipossiamo permettere?». Dobbiamo tollerare che “loro” impediscano ai loro bambini di frequentare la scuola pubblica, che “loro” obblighino le donne a vestirsi e comportarsi in un certo modo, che “loro” combinino i matrimoni dei figli, che “loro” brutalizzino i gay tra le loro file? A questo livello, ovviamente, non siamo mai sufficientemente tolleranti, oppure lo siamo già troppo e trascuriamo i diritti delle donne ecc.
Il solo modo di uscire da questo stallo è proporre e lottare per un progetto universalista positivo che possa essere condiviso da tutti i partecipanti. Gli ambiti di lotta in cui «non ci sono né uomini né donne, né ebrei né greci » sono molti, dall’ecologia all’economia. [...] Allora, forse, l’euroscettico sloveno non ha colto nel segno con la sua ironica citazione dei Fratelli Marx. Invece di perdere tempo nell’analisi di costi e benefici della nostra appartenenza all’UE, dovremmo concentrarci su ciò che l’UE veramente rappresenta. Nei suoi ultimi anni, Freud espresse la sua perplessità con la domanda: cosa vuole una donna? Oggi la domanda che dovremmo porci è invece: cosa vuole l’Europa? Per lo più agisce da regolatore dello sviluppo capitalistico globale; qualche volta flirta con la difesa conservatrice della tradizione. Entrambe queste vie conducono all’oblio, alla marginalizzazionedell’Europa. Il solo modo di uscire da questa impasse è che l’Europa rianimi la sua tradizione di emancipazione radicale e universale. Il nostro compito è quello di andare oltre la mera tolleranza verso altri, conquistare una positivaLeitkulturemancipativa che sola può sostenere un’autentica coesistenza e mescolanza di diverse culture, e impegnarci nell’imminente battaglia per questa Leitkultur.Non limitarsi a rispettare gli altri, ma offrire loro una battaglia comune, perché i nostri problemi più pressanti sono problemi comuni.
Nel suo saggio in uscita domani Marco Revelli, “Finale di partito” analizza la crisi dei sistemi di rappresentanza e il futuro delle istituzioni. Un libro utile per chi crede che la volontà di affrontare insieme i problemi comuni richiede ancora unaorganizzazione comune. Eccone un brano, selezionato da
La Repubblica, 4 febbraio 2013
Nel passaggio dalla riflessione colta alle retorichepolitiche prevalenti, quelle che erano domande e individuazioni di rischi sonodiventate perentorie certezze. La formula ha perso il punto interrogativo perassumere l’esclamativo: «Non può esserci democrazia senza partiti! ». L’hascritto sotto il titolo impegnativo A cosa serve la politica?, Massimo D’Alema,sia pur ammettendo la difficoltà del compito di convincerne gli elettori («Nonbasta riaffermare ciò che è indiscutibilmente vero: non c’è democrazia senza ipartiti»). L’ha ripetuto, inun accorato appello radiofonico, Rosy Bindi («Senzai partiti non c’è democrazia e il cittadino è costretto a scegliere tra i tantipopulismi che si annidano nel nostro Paese o le tecnocrazie che ci dettanoricette da organismi che non hanno fondamento democratico»). L’ha ripreso sulfronte politico opposto Maurizio Lupi in veste di vicepresidente della Camera(«Non possiamo far vincere il populismo di chi vorrebbe cancellare la politicae i partiti che ne sono la massima espressione. Senza i partiti non c’èdemocrazia»).
«Stiamo assistendo alla fine della polis? Il pensiero ha ancora un destino nella sfera pubblica, o guarda oltre?» Domande, non risposte.
L’Unità, 3 febbraio 2003
«Certo è strano non abitare più la terra»: questo mesto verso di Rilke descrive non la crisi del nostro tempo, ma il suo trionfo. Il trionfo dell’appropriazione umana della terra e del tempo, il trionfo della storia e della politica. A questa appropriazione, che, seguendo il racconto di Genesi (2, 19-20), inizia da quando Dio concesse all’uomo la facoltà di dar nome agli animali della terra e del cielo, la filosofia ha dato un contributo notevole, concependo la vita buona come quella vita che si realizza nella comunità degli uomini padroni della terra e di tutto quanto sulla terra cresce e vive.
Mestizia di poeta separato dal mondo, quella di Rilke? O non piuttosto un sentimento, frustrato, di più profonda partecipazione alla vita del tutto? Forse la crisi della polis, sottraendo alla filosofia il suo tema principale – la res publica, come la suprema res humana – apre l’orizzonte del pensiero oltre la soglia dell’umano. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione in filosofia, che, in contrasto con quella «copernicana di Kant, definirei «tolemaica», dacché segna il passaggio dalla riflessione del mondo a partire dall’uomo alla considerazione dell’uomo muovendo dal mondo. E qual filosofo della nostra modernità ha contribuito a questa trasformazione più e meglio di Spinoza?
Biagio de Giovanni, filosofo della politica che ha sempre accompagnato l’attività di studioso con l’impegno politico, in un suo recente libro, Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno, ha ampiamente argomentato che la risposta di Spinoza alla crisi del moderno – la scissione io-mondo – è più «avanzata» di quella hegeliana, perché non «redime» il finito, assorbendolo nel processo della universale ragione come suo momento necessario, ma lo «salva», e cioè lo «serba» nella sua finitezza, entro il «libero» spazio della sostanza eterna.
Altra volta ho rilevato la vicinanza di questa interpretazione della sostanza spinoziana all’Ereignis di Heidegger, l’evento puro che tutto pro-voca ed accoglie, e nulla impone. Vi torno su, in questa sede, perché Spinoza – lo Spinoza che de Giovanni non esita a dire «il mio Spinoza» –, pur teorizzando la razionalità dello Stato, procede oltre il «politico», verso quella fondazione etica della ‘comunità’ che non è in potere della comunità. Per l’autore del Tractatus teologico-politicus e del Tractatus politicus «sostanza» è il nome della «natura» in c «sostanza» è il nome della «natura» in cui l’uomo abita, e solo perché abita in essa, può comunicare con altri, può, cioè, far comunità.
L’etica di Spinoza ha come tema la natura che non è solo punti, linee e figure geometriche, è sovratutto corpo vivente, Leib, e cioè: passione, sentimento, amore e odio, letizia e tristezza, immaginazione. È, nel linguaggio di Rilke, la Terra oltre la Città: la Terra che «salva» l’uomo nella sua finitezza e libertà. È questo il messaggio? Il nuovo messaggio della filosofia?
Nel 1991-92 – son passati vent’anni! – Carlo Sini tenne un corso alla Statale di Milano su La verità pubblica e Spinoza. Pubblicato la prima volta nel 2005, è stato riedito nel IV volume, tomo I, delle sue Opere, in questo inizio d’anno. Essendo stato già recensito su queste pagine, posso andar subito all’essenziale, che è già tutto nello stile del testo, che ha conservato l’andamento della lectio, della lettura. Della lettura non d’un libro, ma del mondo, quale si es-pone nel pensiero che si fa nell’atto stesso di dirsi, di scriversi. Questa la verità pubblica del mondo (e non sul mondo). Verità che non è, perché in via di farsi, come il mondo.
In questa pratica di pensiero Spinoza da «oggetto» diviene soggetto del pensiero, sorgente che non si conosce, meglio: che non è altrove che in ciò che essa alimenta. Pertanto non ha senso voler distinguere quello che è di Spinoza da quello che è di Sini – e non perché non lo si possa fare, ma perché facendolo, si cristallizza il pensiero, gli si toglie vita. Sini leggendo Spinoza, lo «continua» (per usare il verbo felicemente scelto da Massimo Adinolfi per il titolo del suo libro, appunto: Continuare Spinoza). Di qui l’arditezza delle analisi siniane, dalla negazione che gli attributi della sostanza siano due, pensiero ed estensione, o addirittura infiniti, alla affermazione che l’essenza della sostanza è «espressa» nel «sive» che congiunge-separa Dio e natura: Deus sive natura.
Invero le due tesi dicono il medesimo: perché se «i due nomi (pensiero ed estensione) sono l’identico trascolorare della sostanza nella loro differenza», cosa mai può essere la sostanza fuor del «trascolorare»? Il «sive» è il segno, la traccia che l’evento del trascolorare lascia nel pensiero, come nel corpo, in cui trascolora. Ma l’evento non è la traccia: pensieri e corpi, per dirla con Spinoza, non sono la sostanza. La verità pubblica del mondo non è il mondo. L’evento puro, il mondo, di cui il «sive» è segno o traccia, «non è pensabile (... e non è da pensare».
L’evento puro del trascolorare dell’Indifferente nelle differenze non lo si pensa, lo si vive. In esso e di esso viviamo. Nella verità pubblica, oltre la verità pubblica: nella polis, oltre la polis. È un libero «trovarsi accanto» a uomini come a erbe e pietre e animali, oltre il «con-esserci» dell’ordine giuridico, delle leggi e della giustizia. Sini chiama mondo, quel che Rilke nomina terra. Pur nella grande differenza di metodo, intenti e scrittura, le analisi di de Giovanni e di Sini convergono nel risultato.
Lontani entrambi dal mito della terra incontaminata, trovano la terra, o, come entrambi amano dire, il mondo ciò che dà stabilità e potenza al fare nei conflitti della politica e pur nelle distruzioni delle guerre. Qui, nell’aiuola che ci fa feroci, e non altrove si «salva» il finito. O meglio: è già da sempre salvato. La nostra «salvezza» (de Giovanni), la nostra «eternità» (Sini), non è certo nella miseria delle nostra differenze, ma nella sovrabbondante ricchezza della sostanza, dell’evento, del mondo, che, peraltro, è solo in quelle differenze. Fuor di queste sarebbe solo Silenzio.
Mi chiedo se non sia questa un’ultima rassicurazione – necessaria all’uomo per non pensare alla morte: dell’uomo, del mondo, della Terra. Per Spinoza il filosofo pensa la vita, non la morte. Per Spinoza.
Un affresco storico sulla politica ridotta a semplice amministrazione dello status quo Un'analisi del dominio del capitale finanziario che rimuove le ragioni del suo consenso, in un libro di Rita di Leo sul "ritorno delle élites".
Il manifesto, 30 gennaio 2013
Un libro che non nasconde le sue ambizioni, quello di Rita di Leo pubblicato da manifestolibri. Già il titolo è critico verso lo spirito del tempo - Il ritorno delle élites, pp. 122, euro 15 -. A supporto dell'intenzionalità critica anche la forma scelta di esposizione - il pamphlet - è commisurata all'altro obiettivo del volume: un atto di accusa contro la politica ridotta a arida amministrazione dell'esistente.
Il punto di vista dell'autrice si muove in una prospettiva storica, con una datazione che vede nel Novecento il punto di svolta del concetto di élite. Impregnate di sapori premoderni, le élite vengono scalzata dalla scena politica mondiale a partire dalla formazione dei grandi partiti di massa nel vecchio continente. È infatti in Europa che il nodo tra produzione di ricchezza ed esercizio del potere viene reciso. I detentori del potere economico devono vedersela con la politica, quella con la P maiuscola. Non riescono più a piegare lo stato ai loro interessi, che diviene invece l'arena in cui confliggono diverse concezioni del vivere in società. Protagonisti di questa trasformazione sono i politici di professione, eredi legittimi di quegli intellettuali francesi che durante la Rivoluzione del 1789 diventarono i leader delle prime formazioni politiche moderne.
Rita di Leo ha scelto però la prospettiva storica per analizzare il ruolo delle élite. Sa che la «politica progetto» ha un suo epicentro ben preciso. È a Est dell'Elba, cioè in Russia. È in quel paese che la politica scalza dagli scranni del potere le élite economiche. Da allora, come un virus, la «politica progetto» si diffonde nel resto d'Europa, ma con una sostanziale differenza da Mosca e da Pietroburgo. Nella Russia sovietica la «politica progetto» punta infatti a trasformare la società, rinunciando all'esistenza dell'élite economiche; a Ovest dell'Elba i politici di professione elaborano strategie per contenere il «virus sovietico». Da qui prende forma quello che è stato poi chiamato il welfare state. I grandi partiti socialdemocratici, assieme a esponenti della borghesia industriale, sono gli artefici di questa «grande trasformazione» europea. Le èlite economiche per sopravvivere cedono così la sovranità alla politica.
Instabile equilibrio
Rita di Leo conosce bene la genealogia del concetto di élite, ma accetta il rischio di confrontarsi con la sua ambivalenza. E nel fare questo si sposta al di là dell'Atlantico, dove la storia ha usato un altro lessico. Negli Stati Uniti la commistione tra politica e economia è alle radici della storia americana. Le élite non hanno mai ceduto la sovranità alla politica. Semmai hanno creato un delicato dispositivo che ha consentito equilibrio di poteri, ma anche tracciato la via affinché il passaggio da una poltrona in un consiglio di amministrazione a un seggio al Congresso sia indolore e funzionale alla imprese capitalistiche. Ironicamente, si potrebbe dire che gli Stati Uniti sono fondati non sulla ricerca della felicità, come recita la loro carta fondamentale, ma su una ben più materiale commistione di interessi tra eletti al senato, al congresso e le imprese. Più che conflitto di interessi sarebbe dunque lecito parlare di convergenza di interessi in un, appunto, equilibrio di poteri.
Ma la storia è come l'evoluzione descritta da Stephen Jay Gould. Tutto procede senza variazioni, fino a quando c'è una variazione sostanziale, che crea discontinuità storica. Anche qui la datazione dell'autrice è chiara. È l'Ottantanove del Novecento ha segnare la cesura. Il crollo del Muro di Berlino e l'implosione del socialismo reale aprono la porta per il ritorno trionfale dell'élite economiche. Da allora la «politica progetto» è sospinte sullo sfondo, in un ruolo marginale e del tutto ininfluente sia a livello nazionale che globale. Sono élite economiche, che agiscono su un piano globale, spesso indifferenti al ruolo dello stato-nazione, a patto che non disturbi il loro operato. In caso contrario, lo occupano, ripristinando la «politica di potenza» che la «politica progetto» aveva ridimensionato. Soltanto che le armi usate sono la borsa e la circolazione dei capitali, che possono far eleggere un leader in un paese, oppure far cadere un governo da un giorno all'altro. D'altronde, la retorica italiana per legittimare scelte neoliberiste in politica economica si basa sulla frase: è l'Europa che lo vuole. In altri termini lo vogliono le élite economiche e la politica ridotta ad amministrazione non fa altro che ratificare quando deciso altrove. Sono dunque élite cosmopolite, anche se Rita di Leo scrive che vivono prevalentemente negli Stati Uniti o in qualche gated community della vecchia Europa.
C'è però da decidere se questo ritorno delle élite sia un ritorno al passato o a una inedita forma di interdipendenza tra economia e politica. Quesito lasciato aperto dall'autrice, anche se traspare una qualche nostalgia per quella «politica progetto» che ha plasmato la storia globale del Novecento. Ma oltre a questo è l'ambivalenza della nozione di élite che chiede di essere interrogata. Nelle pagine finali del libro, Rita di Leo evoca lo slogan di Occupy Wall Street sul 99% vittima della crisi e l'1% che continua ad arricchirsi. Più che analitica, è una rappresentazione che semplifica lo scenario sociale, la composizione del lavoro vivo e la divisione in classi della società.
Tra Gramsci e Lenin
Le élite di cui si descrive il ritorno ricordano, così rappresentate, più i ceti dominanti del passato che non gli esponenti di un capitale finanziario fortemente differenziato socialmente al suo interno. Il manager di una impresa finanziaria è infatti cosa diversa da chi siede nel suo consiglio di amministrazione. Per questo, varrebbe la pena attingere alla cassetta gramsciana degli attrezzi e mettere al lavoro - teorico, va da sé - il concetto di blocco sociale. Ne uscirebbe un quadro più articolato che aiuterebbe meglio a comprendere il consenso che le élite hanno. La stessa operazione andrebbe fatta, ma in questo caso la cassetta degli attrezzi è diversa vede al suo interno il nome di Lenin, per meglio capire come il lavoro vivo interagisce con l'esercizio del potere. Ma questo indicherebbe solo il lavoro teorico per meglio comprendere l'eclissi Politico nel capitalismo contemporaneo. Un lavoro che è sempre più urgente compiere per dare forma a una rinnovata e più radicale «politica del progetto».
"Io vi maledico", il nuovo libro di Concita De Gregorio, edito da Einaudi. Dai precari alla scuola alla tv, le storie vere di un Paese rassegnato Sono tutti esempi di qualcosa di profondo: una collera sminuzzata in tante singole collere che non si incontrano. Il poeta Paul Eluard ha scritto«Il nous faut drainer la colère» (dobbiamo incanalare la collera). I problema è che non sappiamo come.
La Repubblica, 29 gennaio 2013.
Ça ira, ça ira, ça ira/ les aristocrates à la lanterne!». Terribile è il ritornello di uno dei più popolari canti della Rivoluzione francese, quando invoca l´impiccagione dei nobili per poi, come se non bastasse, ficcargli un bastone didietro per ciascuno. Ma la violenza urlata al femminile davanti alla Bastiglia (ne è rimasta celebre l´interpretazione di Edith Piaf) culminava pur sempre nella palingenesi, inneggiava a una speranza, tant´è che il nostro Carducci ha ripreso il miraggio di quel ça ira come futuro radioso. In ben altra rabbia si è imbattuta Concita De Gregorio misurando la temperatura dell´Italia contemporanea nel suo potente libro-inchiesta Io vi maledico (Einaudi). Nessuna pulsione rivoluzionaria. Manca fra noi l´orizzonte di un rovesciamento delle gerarchie, dei dogmi classisti e tanto meno dei rapporti di produzione. La furia si ripiega su se stessa fino a bruciare l´anima in cui s´è accesa.
L´ho incontrata anch´io Sabrina Corisi, figlia di un operaio sindacalista dell´Ilva di Taranto morto di tumore al polmone dopo essersi battuto per anni contro i veleni minerali che, sospinti dal vento oltre il muro di cinta dell´acciaieria, hanno ricoperto la sua abitazione al rione Tamburi. Sabrina si presenta composta stringendo fra le mani la cornice con la fotografia del padre defunto, di cui i familiari hanno onorato l´ultima volontà affiggendo la lapide che MALEDICE, scritto in maiuscolo, «coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare».
Queste maledizioni prive di ça ira, una dopo l´altra raccontate da Concita De Gregorio, delineano una rabbia debole che «sembra ovatta». Rabbia di lamento e di protesta, rabbia gracile. Sempre dalla Francia avevamo importato l´«Indignatevi!" del vecchio partigiano Stephane Hessel, declinato in spagnolo dai giovani disoccupati del movimento 15M e in greco dagli insolventi del debito infinito. Non che l´Italia della recessione se la passi molto meglio; solo che qui cova un malessere sordo, difficilmente esprimibile in senso di comunità. Se da un lato l´autrice si cimenta in autentici pezzi di bravura, come quando narra la lettera mai spedita a Marchionne dalla figlia di un operaio della Fiat di Pomigliano, umiliato fino alle lacrime dalla decisione di votare sì al referendum aziendale, non può bastarle seguire il filo della denuncia. Io vi maledico, difatti, non può leggersi solo come un´inchiesta sull´ingiustizia sociale o su un delitto territoriale come l´amianto a Casale Monferrato. Qualcosa di più profondo è introiettato nello stato d´animo degli italiani. Le insegnanti più sensibili lo riconoscono nei comportamenti deviati di certi bambini. Gli adolescenti si abituano a sfogarlo nella sfera virtuale dei social network. Verdi di rabbia come l´incredibile Hulk, trasformato da supereroe in modello d´irrequietezza mai del tutto sopita.
Se un sociologo come Aldo Bonomi nel 2008, all´inizio della crisi, si sforzava ancora di raccontarci "Il rancore" (Feltrinelli) come radice collettiva del malessere del Nord, e ne descriveva le piccole fredde passioni dalla "paura operaia" all´individualismo proprietario, Concita De Gregorio è costretta ad andare oltre. Oltre le identità locali, oltre lo spaesamento e la protesta antistatalista. Perché la rabbia sminuzzata in tante singole rabbie personali è certo dolorosa ma non sollecita la ricerca di relazioni; semmai sembra trovare sollievo momentaneo nella rappresentazione mediatica. Va a incontrare gli amici d´infanzia dell´arrabbiato per eccellenza, Supermario Balotelli. Sergio Viotti, portiere di riserva nell´Under 21, che lo conosce da quando aveva sei anni, le confida: «Mario diceva sempre che sarebbe stato il primo negro a giocare in nazionale e che non festeggiava i gol perché lo avrebbe fatto solo il giorno che avesse segnato per l´Italia, nella finale dei Mondiali».
Trovo assai convincenti le pagine di Io vi maledico dedicate allo sfogo dei propri sentimenti in un clic. Sul Web ciascuno può scaricare la sua invettiva e provare la falsa ebbrezza di far parte così di una collettività. Riunita da migliaia di "mi piace" o anche solo dalla cancellazione del nemico. Galvanizzata dalla capacità di leader virtuali che sublimano in decibel privi di sonoro il disagio, la protesta, la denuncia. Tutto finto, effetto placebo, lenimento solo momentaneo. Ma vuoi mettere la soddisfazione di avergliele cantate - col nickname che preserva il tuo anonimato - al bersaglio facile del momento? Fin troppo ovvio è riconoscere in Beppe Grillo il re di queste innocue maledizioni, portavoce di una rabbia tradotta in grossolani calembour o sotto forma di invettiva scurrile. Capita a tutti noi di provare ammirazione per la creatività della rete, senza accorgerci di come essa ci imprigioni in una solitudine, per l´appunto, rabbiosa.
Toccante è la testimonianza di Flavia Schiavon, un´altra figlia. Ha vissuto un breve momento di notorietà quando suo padre, piccolo imprenditore della provincia di Padova, si è tolto la vita perché non sopportava il peso dei debiti che gli impedivano di pagare lo stipendio ai dipendenti. Flavia Schiavon si impegna in una campagna di denuncia contro l´Agenzia delle entrate e per questo accetta di comparire in televisione. Ma ben presto constata: «Volevano solo le mie lacrime per fare audience». Non basta. Le arriverà una lettera ignobile: «Ti fai bella della morte di tuo padre, vuoi solo diventare famosa, sei ricca e te lo puoi permettere, mi fai schifo. Faceva riferimento anche a mio figlio. Sì, lo so che anche quella lettera sarà stata lo sfogo di qualcuno che stava male. Però per me è stata una secchiata d´acqua in faccia. Mi sono svegliata».
Recitare l´indignazione è l´ultima specialità di troppi conduttori televisivi benestanti, ma è anche il nuovo business dei falsi portavoce del popolo. Basti pensare a Grillo che apostrofa Giorgio Napolitano come «un vecchietto che va in giro con tre Maserati», gira in camper e intanto custodisce per un po´ la sua Ferrari in garage. Lui è il capoccia degli arrabbiati. Non esprime l´ira di Dio né un´aspirazione di giustizia sociale, ma solo la miseria di un cattivo sentimento deprivato dalla speranza. Concita De Gregorio si rifugia allora nelle Rime di rabbia del poeta Bruno Tognolini, solo in apparenza per bambini: «Tu dici che la rabbia che ha ragione/ È rabbia giusta e si chiama
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indignazione».
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L'ultimo libro di Stefano Rodotà, "Le metamorfosi del nuovo diritto" è un ulteriore sforzo nel tentativo di riguadagnare l'unitarietà di un mondo lacerato e diviso lavorando sui confini riannodando e ricucendo i margini delle diversità che pretendono la ricomposizione.
Il manifesto, 10 gennaio 2013
Norberto Bobbio aveva utilizzato la fortunata espressione «età dei diritti» per indicare la progressiva centralità conquistata, sia nel discorso pubblico che nella teoria giuridica e politica, dai diritti fondamentali. Con la stagione delle grandi Costituzioni europee del secondo dopoguerra, l'idea, radicata nella tradizione statalistica di gran parte del diritto pubblico, che i diritti fossero solo l'altra faccia dei doveri, una semplice espressione della forza dello Stato che li riconosceva e li garantiva, era stata definitivamente superata in nome di una nuova centralità dei diritti fondamentali della persona. La stessa tradizionale classificazione dei diritti nelle tre generazioni dei diritti civili, politici e sociali cominciava a diventare antiquata, sia per una notevole espansione dei diritti sociali stessi, sia per l'affacciarsi di diritti «nuovi», legati alle trasformazioni culturali, tecnologiche, ambientali.
Sul linguaggio, sulla teoria ma anche sulla dimensione dell'effettività concreta dei diritti fondamentali, torna oggi Stefano Rodotà, che in questo Il diritto di avere diritti (Laterza, pp. 433, 20 euro) offre una densissima cartografia del «mondo nuovo dei diritti», esplorandolo senza mai neutralizzarne la tensione di fondo: i processi globali comportano contemporaneamente, «un incessante riscrivere il catalogo dei diritti» e, insieme, il costituirsi di un campo mai pacificato, continuamente attraversato da conflitti, all'interno del quale l'inefficacia di larghe parti delle costituzioni e delle carte sovranazionali costituisce un persistente lato oscuro dell'età dei diritti. Le guerre umanitarie hanno, del resto, mostrato un'altra faccia terribile del discorso sui diritti, l'estrema facilità con la quale i diritti umani sono diventati strumento ideologico di giustificazione delle guerre dell'Impero.
Quando i confini mutano
Mosso da un'estrema consapevolezza di questi aspetti problematici del linguaggio dei diritti, Rodotà si confronta direttamente con quelle voci critiche che, ispirandosi a impostazioni di tipo realistico, non fanno mistero di nutrire un'esplicita diffidenza per le varie prospettive di costituzionalizzazione sovranazionale e per le dichiarazioni «di carta», sognando un ritorno alla centralità dell'autorità politica degli Stati e, spesso, della legge e dei parlamenti contro quella che considerano una pericolosa estensione dell'influenza delle Corti. Contro questo tipo di critiche, il testo di Rodotà chiama incessantemente, e in modo assolutamente convincente, all'esercizio di tutt'altro tipo di realismo: non si tratta di rimpiangere il territorio perduto, il senso protettivo delle identità consolidate, ma di saper abitare i continui attraversamenti, ridefinizioni e cancellazioni dei confini tradizionali. Allo stesso modo, nessuna nostalgia è possibile per un'idea semplificata della politica, che guardi all'antico decisore «sovrano», identificandolo tradizionalmente con la centralità dei Parlamenti nazionali: dalla natura reticolare e complessa dei poteri nessuno può pensare di uscire, in un tempo in cui le classiche «istituzioni della normazione», le assemblee legislative, perdono spazio a favore delle «istituzioni del rispetto e dell'attuazione», in primo luogo le Corti, nazionali e sovranazionali. In questo universo policentrico e multilevel, una saggezza realistica deve saper riconoscere che nei diritti e nella loro azionabilità in giudizio, più che nelle sedi tradizionali della decisione politica statuale, spesso, «si è rifugiata l'unica democrazia possibile in tempi di globalizzazione».
Questa lettura contiene materiali preziosi per contestare tutti quei discorsi che, dietro una pur salutare critica degli abusi della retorica dei diritti, nascondono evidenti nostalgie per concezioni neostatualiste, pensando magari di giocare un qualche imprecisato ritorno a un'autentica sovranità del «popolo» contro i nuovi assetti costituzionali complessi e policentrici. Rodotà sa mostrarci come le sovranità statali non siano scomparse, ma anche come il loro ruolo si sia radicalmente trasformato e come, in ogni caso, la forza del «politico» non abiti certo più da quelle parti. La lotta per il diritto, trasformatasi oggi in una diffusa lotta per i diritti, incarna molta più «politicità», anche se difficilmente localizzabile, di quella che anima i luoghi e i tempi classici della decisione politica.
Modelli non disincarnati
Il cuore di questo libro non sta tanto nel difendere il costituzionalismo dei diritti dalle critiche avanzate nel nome di ritorni semplificatori allo Stato o alla Sovranità, o a una presunta purezza del Politico. Le pagine teoricamente più dense girano piuttosto intorno a un'altra serie di critiche, di diversa ispirazione, che obiettano invece al discorso dei diritti un'eccessiva astrattezza e un'insostenibile pretesa di universalità, con il rischio di far scomparire la concretezza delle differenze e la molteplicità delle esperienze, e di ridurre la ricchezza delle pratiche sociali effettive entro modelli normativi disincarnati. Nel rispondere a questo tipo di obiezioni, la ricerca di Rodotà evidenzia con forza come il richiamo ai diritti oggi si muova su coordinate molto diverse da quelle che animavano la classica modernità giuridica. La norma, anche la norma giuridica, è sempre meno un modello «trascendentale» che si impone dall'alto a dar forma alla mutevolezza dell'esperienza, ma si presenta sempre più coinvolta, aperta, resa permeabile alle trasformazioni, alle differenze, alle metamorfosi. Le lotte femministe, l'emergere delle differenze e, ancor più complessivamente, l'emergere di un soggetto che non si presenta più come «compatto, unificante, risolto», ma che «si fa nomade», richiedono, infatti, un ripensamento complessivo dello schema su cui il discorso giuridico si è fondato nella modernità. Questa nuova materialità, questo riferirsi non più al soggetto giuridico «astratto» ma ai soggetti «di carne», costituisce l'autentico punto di forza della ripresa contemporanea del discorso dei diritti. È il costituzionalismo dei bisogni, come lo definisce Rodotà, che ha saputo ridefinire l'intero discorso dei diritti dentro la materialità delle differenze, dei conflitti e delle lotte.
Questo costituzionalismo materiale, che vive di persone incarnate e dei loro legami sociali, oltre la classica astrazione del «soggetto giuridico», richiede un deciso superamento della logica proprietaria. Il rapporto complesso tra persona e beni non è riassumibile né nella proprietà privata, né nella proprietà pubblica: la questione è invece quella dell'accesso ai beni fondamentali come diritto della persona, sganciato dalla titolarità della proprietà; un accesso non puramente «formale», che si affidi a logiche mercantili, ma che renda usufruibili i beni «senza ulteriori mediazioni». Si tratta di costruire lo spazio del «comune», dimensione decisamente al di là di individuo e Stato, sapendo bene anche che non si tratta di vagheggiare un ritorno alla logica chiusa della «comunità», ma piuttosto di immaginare uno spazio globale di valorizzazione piena dell'uguaglianza e della libertà. Così, le densissime pagine su vita e autodeterminazione, cyberspazio e identità personale e quelle, cruciali, sulla necessità di ripensare in termini innovativi il nesso tra vita, diritto e lavoro, verso la costruzione di una «democrazia del reddito universale», permettono di misurare tutta la forza di una simile proposta costituzionalista: probabilmente, il riformismo più avanzato che abbiamo oggi a disposizione.
Resta però tutto da discutere se anche questo costituzionalismo avanzato possa esaurire l'intero spazio delle lotte e delle rivendicazioni contemporanee. Lo stesso discorso di Rodotà mantiene una tensione con tutto ciò che continua a emergere anche fuori dallo spazio del processo di costituzionalizzazione dei diritti, che non a caso legge come un processo sempre aperto e tendenzialmente «infinito». Resta però urgente, a nostro parere, mantenere, anche dinanzi a una versione così avanzata del costituzionalismo e del discorso sui diritti, la possibilità di interrogazione critica sul costituzionalismo stesso, e sui limiti delle lotte che si pongono nei termini classici del «riconoscimento dei diritti».
Per esempio: è vero che lo spazio giuridico europeo, quello della carta dei diritti, contiene più di un'apertura valorizzabile nel senso di un costituzionalismo materiale dei bisogni; ma, allo stesso tempo, è difficile ignorare che la finanziarizzazione ha assunto oramai in questo spazio un ruolo sempre più a suo modo costituente (da vera e propria «rivoluzione dall'altro», come ha scritto più volte Etienne Balibar), che ha imposto trasformazioni decisive alle stesse costituzioni nazionali formali. In questo quadro, è difficile continuare a immaginare una costituzionalizzazione progressiva dei diritti, affidata all'attività, pur a volte sicuramente encomiabile, delle Corti europee. La ripresa della costruzione di uno spazio europeo dei diritti all'altezza delle sfide della «costituzione finanziaria», sembra in questo momento richiedere elementi di rottura costituente non pacificamente contenibili nella grammatica istituzionale dell'espansione dei diritti e negli spazi aperti dalla loro interpretazione.
E ancora: Rodotà conosce bene - e valorizza - tutte le forme di produzione informale di diritto, di istituzionalizzazione dei diritti attraverso soggetti e procedure diverse da quelle usuali nei processi politico-costituzionali. Legge però nelle ipotesi che si fondano su processi di autocostituzionalizzazione, di elaborazione di «costituzioni civili» settoriali - sostenute per esempio dal sociologo e giurista tedesco Gunther Teubner - un elevato rischio di non superare un certo elogio, piuttosto incapacitante, della frammentazione post-moderna. Rischio che esiste, e fa bene Rodotà a soffermarsi sulle dinamiche ricompositive in atto anche nei processi globali. Ma anche qui: siamo sicuri che i processi «sociali» di autonormazione incontrino inevitabilmente il destino della debolezza frammentaria e che quelli politico-istituzionali formalizzati conservino invece forza ricompositiva? Un costituzionalismo materiale, oggi, non potrebbe invece trovare nuova forza proprio nella capacità dei nuovi movimenti sociali di dar vita a processi autocostituenti, certo parziali, ma in grado di aprire sperimentazioni di democrazia post-rappresentativa e di mantenere una tensione permanente con gli spazi rappresentativi e politico-istituzionali «classici»?
Un costituzionalismo pur incarnato e materiale, pur sensibile alle trasformazioni della società della conoscenza e capace di installarsi su un terreno riformista ricco e denso, non esaurisce insomma gli spazi di innovazione e di conflitto che i movimenti sociali vanno aprendo. E se è vero che Marx, come ricorda opportunamente Rodotà, seppe leggere nella vittoria «legislativa» sull'orario di lavoro tutta la ricchezza di un avanzamento decisivo per il proletariato, è anche vero che per Marx quella vittoria non si rinchiudeva in un recinto giuridico acquisito, ma permetteva di riproporre, a un livello più alto, la connessione tra critica del diritto e critica dell'economia politica.
Così, il riconoscimento dei progressi democratici che si possono ottenere sul terreno di un costituzionalismo materiale avanzato, potrebbe coniugarsi con processi costituenti di critica radicale degli assetti costituzionali esistenti.
Un’analisi utile sebbene molto tecnica di uno strumento necessario in una realtà sociale che è divisa in “parti” ma non vuole affidare tutto il potere a una soltanto di esse. La recensione di “Forza senza legittimità”, la nuova analisi politica di Piero Ignazi .
La Repubblica, 10 gennaio 2013.
Ormai l’antipolitica è dovunque. È entrata nel linguaggio corrente della vita quotidiana e nel discorso “politico”. Un argomento usato dai leader politici a fini polemici. Tuttavia, il bersaglio dell’antipolitica non è la “politica” in quanto tale. Coincide, piuttosto, con i partiti. Che, in Italia, godono — si fa per dire — di pessima reputazione. Peraltro, è largamente condivisa la convinzione che la “malapolitica” condotta dai partiti costituisca un “male” tipicamente italiano, che si è propagato con particolare intensità negli ultimi anni. Piero Ignazi smentisce questa leggenda, ricostruendo la “storia” e la “geografia” del fenomeno in un saggio dal titolo esplicito e suggestivo: Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (Laterza, pagg. 153, euro 14). Dove l’autore descrive, con rara efficacia, il paradosso apparente espresso dai partiti. Oggi più che mai delegittimati, sfiduciati dai cittadini. Eppure, oggi più che mai, dotati di potere e di influenza, in ambito istituzionale, ma anche nel mondo sociale, nella vita quotidiana. Ignazi ridimensiona i ragionamenti di “senso comune” sull’argomento. La sfiducia verso i partiti non è un fatto recente, non riguarda il nostro tempo. E non è una specialità italiana. Dal punto di vista storico i partiti non hanno mai goduto di buona stampa. «La colpa», esordisce Ignazi, «è nel nome». Perché il partito deriva dal latino "partire". [nl senso di dividere - n.d.r.]. E, per questo, evoca la parzialità.
Per questo sono distinti dalle “fazioni”. Ma spesso ritenuti equivalenti e altrettanto faziosi. Così, secondo Hobbes, i partiti diventano «uno Stato nello Stato». E per questo «è dovere dei governanti disperderli». I partiti, cioè, vengono considerati veicoli di interessi particolari, in contrasto con l’interesse “generale”, con il “bene comune”. Ma sono molti altri i critici autorevoli dei partiti. Ignazi ne ripercorre le posizioni. Rammenta, fra gli altri, Alexis de Tocqueville, il quale ammette che «i partiti sono un male inerente ai governi liberi». Dunque, un male inevitabile, ma comunque, un male. Bisogna attendere il passaggio tra Otto e Novecento per assistere al cambiamento del clima d’opinione verso i partiti. E di riflesso al cambiamento del loro rapporto con la società. I partiti conoscono un’età dell’oro durante la prima metà del secolo trascorso. Quando si affermano i partiti di massa. Socialisti, comunisti, popolari. Rappresentano e mobilitano le masse, appunto. Stabiliscono un legame di identificazione e di identità con i loro elettori. Anche perché sono presenti sul territorio nella società. Inoltre, sono partiti di iscritti, dotati di un’ampia rete di volontari, ma anche di funzionari. Per garantire continuità ed efficacia alla loro azione. Per questo, dispongono di consenso sociale, ma al tempo stesso, si professionalizzano sempre più. E si evolvono in senso oligarchico. Per adattarsi alla complessità sociale diventano “pigliatutti”. Partiti elettorali, che non hanno più un target specifico e definito. Ma si rivolgono, appunto, a tutti gli elettori. Per questo, perdono le loro specificità ideologiche. «Degli iscritti, così come delle sezioni territoriali», appunta Ignazi, «non c’è più bisogno». I partiti, quindi si rifugiano nelle istituzioni e sui media. Diventano, cioè, partiti di cartello. «Agenzie pubbliche regolamentate e ufficializzate che - sottolinea l’autoredallo Stato traggono le loro risorse legalmente con il finanziamento pubblico e in maniera opaca attraverso il patronage ». Investono, cioè, nel controllo clientelare dell’opinione pubblica. Per questo, conclude Ignazi, «i partiti sono oggi in Europa molto più forti di un tempo».
In Europa, si badi bene. Perché queste tendenze non riguardano solo l’Italia. Ma coinvolgono tutti i principali paesi europei. Dalla Francia alla Germania. Dal Belgio all’Austria. Per non parlare delle nuove democrazie. Il partito è, dunque, divenuto “stato-centrico”. Ma si è indebolito sul territorio e nella società. Per questo la stima nei loro confronti è precipitata. Ciò li ha spinti a correre ai ripari. Allargando il richiamo alla volontà popolare, il ritorno agli iscritti. E agli elettori. In modo diretto. Attraverso le primarie. Ma anche, in alcuni casi, attraverso lo scambio diretto tra leader e popolo. In modo carismatico e populista.
Da ciò il problema di questa fase. Perché, scrive Ignazi, «non c’è scampo: senza i partiti non c’è democrazia. Se vogliamo un sistema democratico e pluralista dobbiamo tenerci dei partiti». Ma «questi » partiti, «hanno scambiato il potere con la fiducia ». Per reagire, conclude l’autore, i partiti dovrebbero «spossessarsi di tante delle risorse accumulate ». Una condizione necessaria ma non sufficiente. E, purtroppo, difficile da realizzare, con “questi” partiti. Così, il saggio di Ignazi appare utile, interessante. Ma anche amaro. Perché in fondo al tunnel, oltre il paradosso che produce forza senza legittimità, non si vede la luce.
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Ilvo Diamanti
Perché non possiamo fare a meno dei partiti
Un’analisi utile ma molto tecnica di uno strumento necessario in una realtà sociale che è divisa in “parti” ma non vuole affidare tutto il potere a una soltanto di esse. La Repubblica, 10 gennaio 2013.
“Forza senza legittimità”, la nuova analisi politica di Piero Ignazi
Ormai l’antipolitica è dovunque. È entrata nel linguaggio corrente della vita quotidiana e nel discorso “politico”. Un argomento usato dai leader politici a fini polemici. Tuttavia, il bersaglio dell’antipolitica non è la “politica” in quanto tale. Coincide, piuttosto, con i partiti. Che, in Italia, godono — si fa per dire — di pessima reputazione. Peraltro, è largamente condivisa la convinzione che la “malapolitica” condotta dai partiti costituisca un “male” tipicamente italiano, che si è propagato con particolare intensità negli ultimi anni. Piero Ignazi smentisce questa leggenda, ricostruendo la “storia” e la “geografia” del fenomeno in un saggio dal titolo esplicito e suggestivo: Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (
Laterza, pagg. 153, euro 14). Dove l’autore descrive, con rara efficacia, il paradosso apparente espresso dai partiti. Oggi più che mai delegittimati, sfiduciati dai cittadini. Eppure, oggi più che mai, dotati di potere e di influenza, in ambito istituzionale, ma anche nel mondo sociale, nella vita quotidiana. Ignazi ridimensiona i ragionamenti di “senso comune” sull’argomento. La sfiducia verso i partiti non è un fatto recente, non riguarda il nostro tempo. E non è una specialità italiana.
Dal punto di vista storico i partiti non hanno mai goduto di buona stampa. «La colpa», esordisce Ignazi, «è nel nome». Perché il partito deriva dal latino
partire. [nl senso di dividere- n.d.r.]. E, per questo, evoca la parzialità.
Per questo sono distinti dalle “fazioni”. Ma spesso ritenuti equivalenti e altrettanto faziosi. Così, secondo Hobbes, i partiti diventano «uno Stato nello Stato». E per questo «è dovere dei governanti disperderli». I partiti, cioè, vengono considerati veicoli di interessi particolari, in contrasto con l’interesse “generale”, con il “bene comune”. Ma sono molti altri i critici autorevoli dei partiti. Ignazi ne ripercorre le posizioni. Rammenta, fra gli altri, Alexis de Tocqueville, il quale ammette che «i partiti sono un male inerente ai governi liberi». Dunque, un male inevitabile, ma comunque, un male. Bisogna attendere il passaggio tra Otto e Novecento per assistere al cambiamento del clima d’opinione verso i partiti. E di riflesso al cambiamento del loro rapporto con la società. I partiti conoscono un’età dell’oro durante la prima metà del secolo trascorso. Quando si affermano i partiti di massa. Socialisti, comunisti, popolari. Rappresentano e mobilitano le masse, appunto. Stabiliscono un legame di identificazione e di identità con i loro elettori. Anche perché sono presenti sul territorio nella società. Inoltre, sono partiti di iscritti, dotati di un’ampia rete di volontari, ma anche di funzionari. Per garantire continuità ed efficacia alla loro azione. Per questo, dispongono di consenso sociale, ma al tempo stesso, si professionalizzano sempre più. E si evolvono in senso oligarchico. Per adattarsi alla complessità sociale diventano “pigliatutti”. Partiti elettorali, che non hanno più un target specifico e definito. Ma si rivolgono, appunto, a tutti gli elettori. Per questo, perdono le loro specificità ideologiche. «Degli iscritti, così come delle sezioni territoriali», appunta Ignazi, «non c’è più bisogno». I partiti, quindi si rifugiano nelle istituzioni e sui media. Diventano, cioè, partiti di cartello. «Agenzie pubbliche regolamentate e ufficializzate che - sottolinea l’autoredallo Stato traggono le loro risorse legalmente con il finanziamento pubblico e in maniera opaca attraverso il patronage ». Investono, cioè, nel controllo clientelare dell’opinione pubblica
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. Per questo, conclude Ignazi, «i partiti sono oggi inEuropa molto più forti di un tempo».
In Europa, sibadi bene. Perché queste tendenze non riguardano solo l’Italia. Ma coinvolgonotutti i principali paesi europei. Dalla Francia alla Germania. Dal Belgioall’Austria. Per non parlare delle nuove democrazie. Il partito è, dunque,divenuto “stato-centrico”. Ma si è indebolito sul territorio e nella società.Per questo la stima nei loro confronti è precipitata. Ciò li ha spinti acorrere ai ripari. Allargando il richiamo alla volontà popolare, il ritornoagli iscritti. E agli elettori. In modo diretto. Attraverso le primarie. Maanche, in alcuni casi, attraverso lo scambio diretto tra leader e popolo. Inmodo carismatico e populista.
Da ciò ilproblema di questa fase. Perché, scrive Ignazi, «non c’è scampo: senza ipartiti non c’è democrazia. Se vogliamo un sistema democratico e pluralistadobbiamo tenerci dei partiti». Ma «questi » partiti, «hanno scambiato il poterecon la fiducia ». Per reagire, conclude l’autore, i partiti dovrebbero«spossessarsi di tante delle risorse accumulate ». Una condizione necessaria manon sufficiente. E, purtroppo, difficile da realizzare, con “questi” partiti.Così, il saggio di Ignazi appare utile, interessante. Ma anche amaro. Perché infondo al tunnel, oltre il paradosso che produce forza senza legittimità, non sivede la luce.
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Ritornano le Edizioni di Comunità che ripropongono il pensiero del fondatore, Adriano Olivetti. Un uomo di un'altra stagione dell'urbanistica (e dell'industria) italiane Ieri per domani. La Repubblica, 21 dicembre 2012 (m.p.g.)
Quando Beniamino de’ Liguori è nato, nel 1981, suo nonno Adriano Olivetti era morto da oltre vent’anni. Bambino, sua madre e sua nonna gli parlavano di lui. Se poi camminava per le strade di Ivrea, ogni edificio gli rimandava brani di una storia industriale e culturale che, una volta all’università, avrebbe preso a studiare fino alla tesi di laurea. Una storia non comune, intanto per l’intreccio dei due elementi - industria e cultura. E poi per le missioni che a entrambe l’ingegnere di Ivrea attribuiva. Ora Beniamino a trentun anni prova a riportare in vita uno dei lasciti di suo nonno, le Edizioni di Comunità.
È uscito un primo volumetto, Ai lavoratori si intitola. Tremila copie di tiratura, già una ristampa di altre duemila. Raccoglie due discorsi di Olivetti, uno pronunciato nel 1954 a Ivrea, l’altro del 1955 quando fu inaugurata la fabbrica di Pozzuoli, lo stabilimento progettato da Luigi Cosenza e affacciato verso il mare, con i giardini che Pietro Porcinai disegnò quasi abbracciassero una residenza estiva. Erano parole per i propri dipendenti «quanto mai attuali e però ignorate dai contemporanei», scrive Luciano Gallino nell’Introduzione. Nella stessa collana, Humana Civilitas (il motto che sovrastava la campana nel logo delle vecchie Edizioni di Comunità, nate nel 1946), compariranno altri discorsi olivettiani, il primo dei quali, Democrazia senza partiti, sarà accompagnato da un saggio di Stefano Rodotà. Seguiranno le opere di Olivetti (La città dell’uomo, L’ordine politico delle comunità), e in febbraio un’antologia di discorsi e di scritti anche inediti (Il mondo che nasce, a cura di Alberto Saibene: da questa anticipiamo il brano che compare qui accanto). E quindi, nella collana Nostalgia del futuro avranno posto alcuni classici ormai introvabili del catalogo storico delle Edizioni di Comunità, più, assicura Beniamino de’ Liguori, saggi nuovi, prevalentemente traduzioni.
Un’avventura. Una sfida. Forse un azzardo. Comunque niente celebrazioni. Anzi, ripetendo Gallino, idee attuali, ma inascoltate. La missione sociale dell’impresa. Il bisogno di fare comunità. Il territorio pianificato. La cultura fuori dai suoi recinti. Tutto sarà sulle spalle di una struttura ridotta all’osso, praticamente il solo Beniamino de’ Liguori, con l’appoggio della Fondazione Adriano Olivetti e una essenziale rete di collaborazioni, rigorosamente all’unisono generazionale. E anche spiazzante rispetto a come ci si può ingannevolmente immaginare l’eredità olivettiana. Distribuzione capillare, rapporto diretto con i librai – catene e indipendenti – ma soprattutto con il gruppo di Becco Giallo, l’editore padovano di graphic novel, fumetti di impegno civile sul Tav, su Enrico Mattei e Paolo Borsellino, e su Olivetti stesso, il cui autore, Marco Peroni, ha in carico proprio le relazioni delle Edizioni di Comunità con le librerie.
Laureato in storia contemporanea, un anno negli Stati Uniti, due nella casa editrice per bambini Gallucci, recuperato il marchio di Comunità dalla Mondadori, Beniamino nel 2010 si è messo all’opera. «La forza di questo progetto è Adriano Olivetti liberato dalla membrana mitica che lo avvolge», spiega. «Vorremmo che in libreria questi volumi fossero assimilati alle novità, colpissero la sensibilità di un lettore attirato tanto dalla sua figura, ma anche dall’idea di una società diversa ».
È stato difficile tenere non certo separate, ma almeno distinte, la storia di Olivetti nonno e quella di Olivetti imprenditore, innovatore, animatore culturale, «ma, per carità, non visionario né utopista ». Beniamino racconta di aver sempre sentito in modo disordinato di trovarsi dentro una storia familiare molto inconsueta, anche per le contraddizioni che esprimeva. «Un ambiente iper privilegiato, ma non fuori dalla realtà. Un grande potere economico e sociale, ma altrettanta semplicità, a cominciare dalle case che abitavamo». Per alcuni tratti della propria giovinezza, il nonno gli appariva «come un ingombro». Pesava «l’aspetto luttuoso di una storia industriale, successiva alla morte di Adriano, in cui gravava il senso di esproprio vissuto in tutta la famiglia, ma anche fra gli abitanti di Ivrea, i quali si ritrovavano senza più la fabbrica che aveva dominato la propria vita e il proprio paesaggio ». Sentimenti complessi, conflittuali. «L’idea di ingombro è svanita quando ho capito che Adriano Olivetti racchiudeva in sé questioni universali, non più solo mie: la giustizia, ma anche l’efficacia produttiva, il territorio, la solidarietà. Scriveva Thomas Bernhard che gli incontri con i grandi uomini sono incontri che annientano oppure salvano».
La vicinanza ad Adriano Olivetti «produce un’irresistibile voglia di conoscere la sua storia e ritrarre la sua enigmatica personalità da più punti di vista, quasi ci fosse un richiamo oscuro a privilegiare la ricerca degli aspetti difficilmente accessibili, quelli meno ordinari e forse, in fondo, più attraenti con il solo rigore analitico. Come fosse una necessità irrinunciabile, perlomeno per la generazione alla quale appartengo ». E così nasce la voglia di mettere a disposizione di tutti la fonte originale di quel singolare magnetismo. «I lettori giovani sono forse quelli più capaci di sentire Olivetti nelle sue note autentiche. E ne abbiamo prova dai commenti che raccogliamo sul web e su Facebook».
Alle Edizioni di Comunità Olivetti teneva moltissimo. Erano il contenitore in cui convivevano molti segmenti della sua personalità e dei suoi interessi che altrimenti, a guardarli oggi, potrebbero disperdersi in rivoli inafferrabili. Lì trovavano una sede il progetto comunitario, l’idea di fabbrica che esprimesse valori per un territorio e non solo dividendi per gli azionisti e poi l’intreccio di discipline che altrove e non in Italia davano conoscenze nuove per un mondo nuovo - la sociologia, l’urbanistica. «Nacquero in un momento di profondo turbamento morale e di grandi speranze», dice Beniamino de’ Liguori, «ma gli obiettivi che si proponevano sono tuttora incompiuti».
Quando Beniamino cominciò ad avere coscienza di chi fosse suo nonno, questi gli apparve come una figura incombente. «Emanava un’ombra lunga, ma l’unico modo per neutralizzare l’ombra e guardare la persona nella sua interezza era quella di affrontarla faccia a faccia. Ho capito che in quella persona erano raffigurate le mie ambizioni e che così avrei fatto anche i conti con la mia storia».
«Sembra enorme, il divario fra Berlusconi e Monti. Ma ancora non sappiamo bene la visione che Monti ha del mondo: se auspichi la riscoperta del senso dello Stato, o se sia un fautore della società senza Stato, senza politica, senza contrapposizione fra partiti». Insomma, abbiamo la senzazione di assistere a una partita in cui tutti gli scacchi abbiano lo stesso colore.
La Repubblica 19 dicembre 2012
MARIO Monti contro Silvio Berlusconi? Ancora una volta, quel che accade in Italia si decide a Milano: nelle sue istituzioni politiche, nelle sue università, nelle sue aziende, nelle personalità che di qui partono, a intervalli regolari, per conquistare Roma. «Milano è la chiave d’Italia», la clef d’Italie, diceva Margherita d’Austria, zia di Carlo V, quando la caduta del Ducato di Milano mise fine alle libertà dell’Italia nel Cinquecento.
al venir meno della passione che aveva animato la scelta cavouriana e unitaria del vecchio ceto patrizio, al riproporsi dell'alleanza fra potere politico e gerarchie ecclesiastiche.
Su questa fase di decadenza, durata per gran parte del ’900, si sofferma Tommaso Padoa-Schioppa in una lettera del settembre 2009, pubblicata in apertura del libro, quasi un'epigrafe. Scrive Padoa-Schioppa: «Non è un’esagerazione affermare che dei 150 anni trascorsi dal 1861, forse la metà sono stati consacrati alla costruzione dello Stato italiano; altrettanti a una vera opera di distruzione che si è fatta più intensa negli ultimi decenni e ancor più negli anni più recenti». Le responsabilità milanesi non si limitano all'aver suscitato le «tre marce su Roma» – Mussolini, Craxi, Berlusconi – per «mettere un leader politico “decisionista” alla guida del Paese». Un’intera classe imprenditoriale «ha lasciato che nel suo corpo prosperassero le cellule malate dei rapporti impropri con la politica e con le amministrazioni pubbliche, dei capitali sottratti all’impresa e portati fuori dall’Italia, dell’evasione e della corruzione fiscale, della manipolazione dell’informazione economica».
Così veniamo all’oggi: alla quarta apparizione, nell’orizzonte della politica nazionale e romana, di un milanese di primo rango. Monti non viene da un’impresa come Berlusconi, ma da un’università, la Bocconi, che non è mai riuscita veramente a selezionare classe dirigente. È giunta l’ora in cui l’Ateneo si riscatta, in cui rivive la tradizione dell’incivilimento? È fondata, la fede di Umberto Ambrosoli nel senso di responsabilità rinato in Lombardia? In apparenza sì, ma molti dubbi restano da chiarire. La continuazione del governo Monti è reclamata a viva voce dai vertici ecclesiastici (Bagnasco, Ruini). Riceve il sostegno di Comunione e Liberazione, che furbamente s’è congedata da Berlusconi. È difficile che con lui tali vertici siano disturbati da leggi sulle questioni dette etiche, cruciali per l’incivilimento e la laicità dell’Italia: nuove regole sul fine vita, rispetto della legge sull’aborto, unione matrimoniale o semimatrimoniale fra omosessuali. È difficile che Monti difenda la neutralità laica dello Stato, attaccata aspramente dall’arcivescovo di Milano Angelo Scola il 6 dicembre a Sant’Ambrogio. Tanto decisivo è l’imprimatur del Vaticano, e della Dc europea: un imprimatur ingombrante, troppo, ma di buon grado accolto dal Premier.