Intervista a Gabriella Caramore, conduttrice di “Uomini e profeti” e autrice di un saggio (
Pazienza, il Mulino, Bologna 2014) sulla virtù più incompresa e inattuale: «Saper attendere è un atto politico». La Repubblica, 11 febbraio 2014
Voce tra le più amate e autorevoli della radio, Gabriella Caramore festeggia i vent’anni tondi di conduzione della trasmissione di cultura religiosa Uomini e profeti , una delle più scaricate sul podcast di RadioTre. Peccato soltanto che quell’autorevolezza conquistata sul campo, non trovi poi una congrua corrispondenza di ordine lavorativo: malgrado sia ormai in età di pensione, Caramore infatti continua ad essere una “precaria”, di nome e di fatto.
« Uomini e profeti non nasce con l’idea di andare contro qualcosa, o qualcuno. Però è animata dal desiderio di affrontare le tradizioni religiose con forte spirito critico. Vuole mettere in rilievo le contraddizioni, ma anche le potenzialità di intelligenza e libertà che emergono dai testi e che talvolta la costante tendenza al conformismo delle tradizioni tende a soffocare. Per questo occorre, rischiando anche di sbagliare, come tante volte mi è accaduto, giocare su una dinamica interpretativa: affrontando ad esempio i religiosi, che spesso si incatenano dentro uno schema rigido, secondo una prospettiva laica, e gli atei, talvolta un po’ puerili, secondo una prospettiva religiosa. È un modo diverso, mi sembra, per mettere il religioso a confronto con la complessità del nostro tempo».
Qual è il timbro più caratteristico della trasmissione?
«In primo luogo quello di far parlare in prima persona gli appartenenti a tradizioni diverse: cattolici di varia formazione, protestanti, ebrei, musulmani, buddisti, agnostici che non rifiutano il confronto con il religioso… Poi quello di prestare particolare attenzione alle Scritture, come è stato per il lungo ciclo dedicato alla lettura e commento della Bibbia. Inoltre, avere al fianco, come compagni di viaggio, teologi e studiosi come Paolo De Benedetti, Enzo Bianchi, Paolo Ricca, Salvatore Natoli, la teologa musulmana Shahrzad Houshmand, ma anche il profugo nigeriano, la dottoressa ucraina che da noi fa la badante, il carcerato... »
E dal punto di vista personale, che cosa ha rappresentato l’esperienza di un programma radiofonico che in un’epoca tutta schiacciata sul presente coltiva invece uno sguardo lungo, proiettato addirittura sull’eterno?
«Moltissimo. La possibilità di capire che dentro l’esperienza religiosa si annida un enorme potenziale di libertà. Oltre alla ricchezza degli incontri con gli ospiti, gli autori, un pubblico attento ed esigente».
Un certo vizio di andare controcorrente, comunque, lei non lo ha perso, come si evince leggendo il suo recentissimo libro sulla Pazienza ( Il Mulino), incentrato su una delle parole oggi più desuete.
«Per ragioni a tutti evidenti: la fretta, la velocità, l’ansia, la simultaneità delle nostre azioni. Ma credo che nella nostra cultura si debba aggiungere un’ulteriore ragione. Nella tradizione cristiana si è imposta un’idea della pazienza come sinonimo di patimento, sopportazione, mortificazione. È un’idea derivata da un’immagine riduttiva del Christus patiens , del Cristo in croce che poi si traduce nel più ordinario e fatalista “porta pazienza” del linguaggio quotidiano. Ma in questo modo si trascura un lato attivo della pazienza: il senso dell’attesa, della costruzione di futuro, di una fattiva speranza. Il Cristo patisce sì, ma non per amore gratuito della sofferenza. Lui non vuole morire in croce, in croce ce lo mettono! Oltre al fatto che spesso la sua parola ha un andamento irrequieto, un’insofferenza rispetto alla pervicacia del male, un giudizio severo e non tollerante nei confronti di chi fa merce delle cose di Dio, e di chi ne fa strumento di potere».
In pagine molto belle lei mostra come senza pazienza non esisterebbero né arte, né pensiero, né legame amoroso.
«Il bambino che cresce ha bisogno di tempo, e dunque di pazienza. Ne hanno bisogno gli amanti, per custodire il loro sentimento. Ne ha bisogno l’albero, che aspetta la primavera e l’estate per i fiori e i frutti. Quanto noi possiamo fare è creare un ambiente favorevole a questa crescita paziente, grazie alla cura che poniamo nelle cose in cui siamo impegnati e all’attenzione verso le creature che ci circondano. In questo modo si rovescia anche l’idea di pazienza come regno del privato, del piccolo sé. E grazie alla cura dell’altro si attribuisce a quel termine tutto il suo valore etico, civile, religioso. Ma anche politico, direi».
Del resto, anche i due miti fondativi della nostra tradizione, Ulisse e Mosè, conoscono - ciascuno a suo modo - la pazienza.
«Nel caso di Ulisse, la pazienza è un uso sapiente dell’intelligenza: tiene a freno le passioni in vista di uno scopo. Anche le figure che lo circondano nell’ultimo atto della sua vicenda, da Penelope alla nutrice al servo al cane, sono figure che trattengono l’impeto per noncompromettere il risultato».
Quanto invece a Mosè?
«Si parla sempre della pazienza di Giobbe, ma quella di Mosè non è da meno. Ed è una pazienza tutta legata all’amore per l’altro, alla sorte della sua gente. In verità Mosè comincia con un gesto di impazienza, uccidendo un egiziano che colpiva un ebreo, ma poi pian piano impara. Assume il suo destino di fuggiasco, acconsente alla chiamata del Signore. E sopporta l’impazienza del suo popolo, che durante la traversata del deserto rimpiange il tempo della schiavitù, perché alla fin fine è sempre più comoda la schiavitù della libertà. Infine, con pazienza, Mosè accoglie la sua morte da esule. Non è per sé che Mosè spera, ma per gli altri: forse la più bella immagine di cura che sia stata tramandata».
Un’ultima domanda, brusca e inevitabile, che si saranno posti anche tanti suoi ascoltatori. Lei crede in Dio?
«Per la verità non mi pongo tanto il problema. Non so chi sia Dio. Tutte le tradizioni ci raccontano tante cose di Dio, compresa quella biblica, per la quale il volto di Dio non si può vedere, il suo nome non si può pronunciare. È vero però che gli esseri umani hanno dato questo nome alla ricerca di qualcosa che va al di là della conoscenza umana, e che nello stesso tempo suggerisce al cammino dell’uomo un possibile orientamento in cerca del bene, della libertà, della giustizia. Il deposito di questa ricerca, presente nel racconto di Dio lasciatoci dalle diverse tradizioni religiose, è talmente imponente che non può non interessare anche gli atei e gli agnostici. L’idea di Dio come “invenzione” degli uomini mi sembra un po’ infantile. Non si tratta di un’invenzione, semmai di una “scoperta” della possibilità di vivere umanamente sulla terra, e della necessità di continuare sempre sulla via della conoscenza».
«Piketty riporta al centro del dibattito il tema della disuguaglianza. E di come questa si perpetua di generazione in generazione, con un capitalismo patrimoniale che si fonda sull’accumulazione, da parte di pochi, di rendite dovute a beni ereditati. Classe media in declino e freni alla crescita».
Lavoce.info, 6 agosto 2014 (m.p.r.)
Un'analisi della disuguaglianza. Capital in the Twenty-First Century di Thomas Piketty è un contributo importante al pensiero economico. Riporta al centro del dibattito economico e politico il tema della diseguaglianza e della sua perpetuazione tra generazioni attraverso la trasmissione ereditaria delle diverse forme di capitale fisico, finanziario e umano, in una impostazione che può essere definita “classica”. L’analisi di Piketty è rivolta a spiegare il ruolo dell’accumulazione di capitale e della distribuzione del reddito sul e nel processo di crescita dell’economia. L’esito distributivo viene ricondotto a un conflitto tra categorie di percettori, più numerose ed eterogenee rispetto a quelle prese in considerazione da Ricardo o Marx.
Non solo i lavoratori si contrappongono ai percettori di redditi da capitale e di rendite ma, all’interno di questa categoria, si distinguono i percettori di rendite finanziarie rispetto a quelli da proprietà immobiliare. Si deve a Piketty l’avere sviluppato, insieme a due colleghi (Anthony Atkinson a Cambridge ed Emmanuel Saez a Berkeley) una metodologia per ricostruire il livello di diseguaglianza nella distribuzione non solo dei redditi, ma anche della ricchezza nel lungo periodo, tanto in quei paesi occidentali dove esiste da tempo un’imposta personale sui redditi, quanto in Cina, in India e in molte nazioni dell’America latina. Raramente, in precedenza, l’analisi della diseguaglianza era stata effettuata nel lungo periodo: anche quando lo si era preso in considerazione, le stime della diseguaglianza riguardavano infatti solo i redditi, e quasi mai la ricchezza.
Il conflitto distributivo appare a Piketty particolarmente rilevante quanto ci si riferisce all’1 per cento più ricco. L’attenzione per tali percettori è un fenomeno molto recente. Per effettuare questa analisi è necessario infatti adottare specifici metodi di stima, condizionati dalle differenze fra i regimi fiscali e fra i tassi di evasione. In particolare, occorre risolvere problemi di comparabilità tra paesi, con particolare riferimento alla stima dei redditi finanziari.
Quando il passato divora il futuro. In un sistema caratterizzato da quello che Piketty definisce il capitalismo patrimoniale», fondato sull’accumulazione, da parte di pochi, di redditi costituiti da rendite improduttive, e cioè provenienti da beni ereditati piuttosto che da beni accumulati con il risparmio originato dai redditi da lavoro, il passato divora il futuro». Se il processo di crescita del prodotto netto rallenta a causa di fattori esogeni (demografici o tecnologici) e il capitale cresce più rapidamente del reddito nazionale, i redditi da capitale assumono un’importanza sempre maggiore rispetto ai redditi da lavoro.
Non solo aumenta la diseguaglianza, ma si innesta un circolo vizioso tra diseguaglianza e crescita. L’accesso ai gradi più elevati dell’istruzione è infatti costoso e le categorie più povere, ma oggi anche gran parte della “classe media”, ne vengono escluse, provocando un impoverimento del capitale umano. Piketty documenta come per circa un trentennio, dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta (la cosiddetta “golden age”), il rapido processo di industrializzazione, insieme a politiche fiscali e di spesa pubblica progressive, abbia favorito la crescita della classe media, il consolidamento della democrazia e una crescita elevata in tutti gli Stati occidentali. Questa fase si è invertita a partire dalla fine dello scorso secolo. In parallelo all’aumento della diseguaglianza si è osservato un rallentamento della crescita, se non un vero e proprio declino, almeno in alcuni paesi. Secondo Piketty, tuttavia, un aumento della diseguaglianza finisce con il frenare la crescita anziché stimolarla.
La pubblicazione di Il Capitale nel XXI secolo è stata accolta da recensioni molto positive su numerosi quotidiani e settimanali. Recentemente, tuttavia, sono apparse alcune critiche, sollecitate da un intervento di Chris Giles, responsabile della parte economica del Financial Times, circa l’attendibilità delle fonti dei dati nonché della correttezza di alcune stime. I rilievi critici sono stati seguiti da altrettanto numerosi articoli in difesa di Piketty. Lo stesso Piketty ha risposto sottolineando come le analisi delle relazioni tra diseguaglianza e crescita, pur basate su di un’abbondante evidenza empirica, non possano che essere il risultato di un’inferenza imperfetta, dal momento che appartengono all’ambito delle scienze sociali.
Piketty, T. Capital in the Twenty-First Century, Cambridge, MA.: Belknap Press, Harvard University Press, april 2014, pagg. 696.
«Il nuovo libro di Alberto Burgio analizza gli scritti dell’intellettuale e dirigente comunista dal periodo torinese ai
Quaderni dal carcere. Un’opera presentata però come un sistema unitario, mettendo così in secondo piano le discontinuità interne che la caratterizzano». Il manifesto, 3 agosto 2014
Dopo Gramsci storico (2003) e Per Gramsci (2012), Alberto Burgio torna sul marxista e comunista sardo con un volume corposo e denso, punto di arrivo di un lungo lavoro di scavo e riflessione. In Gramsci. Il sistema in movimento (DeriveApprodi, pp. 489, euro 27) vengono riversati studi già noti, ma molto materiale è aggiunto, e il tutto è riordinato al fine di ricostruire l’insieme della riflessione gramsciana, dagli anni torinesi a quelli del carcere. Un contributo di grande ricchezza, che presenta però anche tratti problematici, che meritano di essere quanto meno indicati e, per quel che è qui possibile, discussi.
Marx, Il comunismo e la lotta di classe raccontati da Gérard Thomas. «I bambini capitalisti quando nascono sono dei bambini uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bambini capitalisti».
Il manifesto, 15 luglio 2014
«I bambini capitalisti quando nascono sono dei bambini uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bambini capitalisti. E non lo sono nemmeno nei primissimi anni della loro vita. Poi a un certo punto succede qualcosa nella loro testa e invece di continuare ad essere bambini uguali a tutti gli altri diventano dei bambini capitalisti».
Apprezzato in patria, Thomas ha anche ricevuto delle critiche. L’accusa più pesante è stata voler omettere gli orrori e gli eccessi che il socialismo reale ha prodotto in alcuni casi della sua storia. Tesi curiosa, perché l’autore non rinuncia mai a biasimare i crimini commessi da Pol Pot in Cambogia, o l’accentramento burocratico e autoritario avvenuto in differenti periodi della storia sovietica. Ciò che non gli si perdona, presumibilmente, è l’aver tracciato con estrema correttezza e onestà la linea divisoria tra responsabilità individuali e teoria politica, fra aspirazione alla giustizia e sua realizzazione terrena. È in questa distinzione che si coglie la forza persuasiva del libro, e si arriva alla risposta del quesito iniziale.
Ricorre l’8 luglio, l’anniversario della nascita di Ernst Bloch, il grande filosofo della speranza, dell’utopia e della liberazione umana qui e ora. Lo ricordiamo con questa nota di Peppe Sini, Comune.info, 8 luglio 2014
Anche se la speranza non fa altro che sormontare l’orizzonte, mentre solo la conoscenza del reale tramite la prassi lo sposta in avanti saldamente, è pur sempre essa e soltanto essa che fa conquistare l’incoraggiante e consolante comprensione del mondo, a cui essa conduce, come la più salda ed insieme la più tendenzialmente concreta. [...] L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. [...] Contro l’aspettare è d’aiuto lo sperare. Ma non ci si deve solo nutrire di speranza, bisogna anche trovare in essa qualcosa da cucinare. [...] L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà; la possibilità reale circonda fino alla fine le tendenze-latenze dialettiche aperte, l’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione
Ricordare Ernst Bloch e lottare per la dignità umana e la liberazione dell’umanità sono dunuqe una cosa sola: non si è fedeli alla sua lezione se non ci si impegna concretamente e coerentemente per la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani e per la difesa della biosfera; e nella effettuale ed autocosciente lotta per difendere la biosfera e la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani la sua lezione appronta e dona strumenti teorici ed ermeneutici di fondamentale importanza.
Nell’anniversario della nascita di Ernst Bloch, nel ricordo e alla scuola della sua testimonianza e del suo pensiero, la commemorazione più degna e sincera resta proseguire la lotta nonviolenta contro tutte le guerre e tutte le uccisioni, contro tutte le distruzioni e tutte le persecuzioni, per l’eguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani e per la liberazione dell’umanità, per la solidarietà che tutte le persone riconosce, raggiunge, sostiene, e si prende cura del mondo vivente.
Peppe Sini, è responsabile del Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo, cura una la mailing list quotidiana “La nonviolenza è in cammino”
«Palmiro Togliatti e Giovanni XXIII: le convergenze fra il discorso del leader del Pci a Bergamo sul destino dell'uomo e l'enciclica del papa «Pacem in terris» analizzate da Francesco Mores e Riccardo Terzi».
Il manifesto, 18 giugno 2014
In edicola martedì prossimo a 2 €. Un libro da leggere, una riflessione da proseguire, molti insegnamenti da riprendere
Il manifesto, 31 maggio 2014, con postilla
Novanta sono gli anni dell’Unità, novanta le pagine dell’inserto speciale che sarà in edicola martedì prossimo, ma l’anniversario tondo in questo caso è un’altro: i 30 anni dalla morte di Enrico Berlinguer (11 giugno 1984 a Padova). L’inserto è stato presentato ieri mattina alla camera dei deputati, nella sala del gruppo Pd che è dedicata proprio alla memoria di Berlinguer. È in grande formato, bianco e nero con l’aggiunta del rosso, ed è pieno di fotografie dall’archivio del giornale che consentono (data l’assenza di didascalie) agli amanti del genere di divertirsi a riconoscere luoghi e persone attorno al segretario.
È abbastanza diffusa un’interpretazione del Sessantotto come modernizzazione del capitalismo: questo sarebbe il suo merito o al contrario il suo peccato originale. Da un Sessantotto certo un po’ pervertito qualcuno fa discendere perfino il berlusconismo, con la sua caricatura di libertà sessuale e oltraggio alle istituzioni. Il libro di Kristin Ross May ’68 and its afterlives (University of Chicago Press) considera queste intepretazioni come il prodotto di una revisione storica, prodotta dalla «tradizione dei vincitori», come avrebbe detto Walter Benjamin. La vittoria del neocapitalismo è proiettata all’indietro nel tempo, torcendo in suo favore la consistenza del passato, riducendo il Sessantotto a un suo prologo.
L’evento indeciso, in cui la pluralità dei possibili in sospeso ancora si apriva a esiti divergenti, viene ridotto univocamente alla visione neoliberista: l’esito determinato di un conflitto sociale, che vede il prevalere del capitale, viene ri-esposto come legge storica. Le «comuni» antagoniste del Maggio diventano poco a poco astrazioni, utopie, poi sono definite velleitarie, minoritarie, infine mai esistite; come è avvenuto per la Comune ed altre brecce di libertà.
Ross propone una «lettura a contrappelo» di questo revisionismo storico. La sua non è una cronaca del Maggio, ma un’analisi del modo in cui è stato rappresentato, prima dai suoi attori e poi dai suoi interpreti presunti. Risalendo con il recupero di documenti e testimonianze fino al cuore indeciso dell’evento, Ross rintraccia gli elementi irriducibili al concetto di modernizzazione ed ad esso antagonisti: la ricerca di relazioni sociali comuni, costituive di un noi che rifiuta ogni principio gerarchico e rapporto di padronanza; la critica della separazione spaziale della città in settori estraniati, distruggendo i vecchi quartieri popolari; la critica della partizione del sensibile.
Ross riprende quest’ultimo termine dal filosofo francese Jacques Rancière. Esso indica una netta contrapposizione tra polizia (uno stato gerarchicamente ordinato) e vera democrazia e segnala la divisione tra chi ha cittadinanza e chi è respinto al di fuori di essa (i «senza parte»). La partizione del sensibile non riguarda solo i ruoli economici, ma il simbolico, il quotidiano, lo psichico, le relazioni personali e sentimentali, lo spazio urbano: si decide ciò che «può essere oggetto di percezione e ciò che non lo è», «ciò che può essere visto», o inteso, e ciò che è espulso dalla parola e dall’immagine. Nel Sessantotto «l’apertura politica all’alterità ha permesso… di rompere con quest’ordine, di sconvolgere… i ruoli asseganti dalla polizia, di rendere visibile ciò che non lo era», criticando in primo luogo la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e proponendo invece una costante ibridazione delle eterogeneità sociali.
Quanto alla critica della separazione urbana, essa fu probabilmente il contributo più specifico dei situazionisti alle giornate di Maggio: essi rifiutarono l’idea che lo spazio dovesse essere compartimentato e diviso secondo le stesse linee delle gerarchie sociali. L’urbanesimo neocapitalista divide i settori sociali invece di unirli e stabilisce i confini concreti dell’estraniazione, stabilendo una corrispondenza tra l’articolazione dello spazio e quella del dominio. Nella confusione e nella trasgressione degli ordini estraniati e della separazione, si concretizzava il piacere e il desiderio di vivere da parte dei militanti del Maggio: «Il piacere di violare la compartimentazione, fisica o sociale, è proporzionale alla durezza della segregazione sociale urbana dell’epoca; i dialoghi intrecciati a dispetto di tale segregazione veicolano un sentimento di trasformazione urgente». Questo piacere sovversivo di vivere oltre l’ordine simbolico del capitale, abbattendo le barriere dello spazio e del tempo dominati, lasciando emergere un nuovo spazio sociale, è stato poi reinterpretato come «edonismo» dai cantori della modernizzazione.
Altro decisivo elemento di distorsione dell’evento è per Ross il così detto «generazionismo», ben descritto da una citazione di Hocquenghem (si tratta di una lettera aperta ai vecchi compagni passati «da Mao al Rotary Club»): «Si diviene una “generazione” quando ci si ritrae come una lumaca nella conchiglia o il pentito nella sua cella: il fallimento di un sogno, la stratificazione dei rancori, il residuo di un’antica insurrezione, si chiamano “generazione”». Il generazionismo dissolve in un dato biologico il conflitto dei possibili e lo spazio-tempo imprevedibile dell’evento, il ritmo dello sviluppo storico è ridotto – come diceva Mannheim — a legge positivista della «durata di vita». L’essere per l’inizio, da cui balza il tempo-ora del presente, ponendo in discussione ogni precedente mediazione e scansione del tempo, viene così risolto in «fase della vita», destinata a passare. La lotta e il conflitto tra chi ha parte e chi è «senza parte», si riducono a una inevitabile lacerazione tra padri e figli, e in una altrettanto inevitabile, successiva, conciliazione.
D’altra parte, anche l’idea che il Maggio sia stato un tumulto effimero e improvviso è contestata da Ross. L’evento è il culmine di una durata lunga del conflitto storico; la breccia è solo l’atto finale di una lenta erosione del muro del dominio, che comincia in Francia con la guerra d’Algeria.
Il manifesto, 17 maggio 2014
La mappatura del Genoma umano non sarebbe infatti stata immaginabile, negli Stati Uniti, senza l’intervento del National Institute of Health (Nih), che oltre a finanziare il progetto di ricerca di base continua a investire centinaia di miliardi di dollari per la ricerca applicata allo sviluppo dei cosiddetti «farmaci orfani», destinati alla cura di malattie rare, che coinvolgono risibili minoranze della popolazione, ma che sono venduti dalle multinazionali farmaceutiche a prezzi stratosferici. Allo stesso tempo è proprio il Nih che ormai «innova» farmaci consolidati, basandosi però sulle conoscenze che vengono dalla genomica. Infine, un altro settore ritenuto «strategico» nello sviluppo economico, le energie rinnovabili, non riuscirà a decollare se lo Stato non continuerà ad investire nella ricerca, come testimoniano i progetti pubblici di sviluppo in Cina e in Brasile.
Produttore di futuro
È questo il punto di partenza di un volume intelligentemente provocatorio e meritoriamente tradotto da Fabio Galimberti per la casa editrice Laterza. A scriverlo è Mariana Mazzucato, economista italiana, naturalizzata americana (i suoi genitori erano «cervelli in fuga» negli anni Cinquanta) e attualmente docente, in Inghilterra, presso l’University of Sussex. Lo stato innovatore (pp. 378, euro 18), questo il titolo, presenta una tesi controcorrente rispetto l’ideologia dominante neoliberista. Per l’autrice, lo Stato è un soggetto politico fondamentale nel favorire lo sviluppo economico, perché è il luogo dove vengono definite le norme che non solo regolano, ma producono il mercato. Svolge cioè un ruolo performativo dei comportamentii funzionali allo sviluppo capitalistico.
È questo il contesto dove, teoricamente, Karl Polany incontra Lord Keynes, Joseph Shumpeter e, ma l’autrice non ne fa mai menzione, anche il Michel Foucault storico dell’ordoliberismo austriaco e della biopolitica. Marina Mazzucato non è però interessata alle genealogie teoriche delle sue tesi. Il suo obiettivo è far emergere ciò che rimane in ombra nella discussione pubblica segnata dall’egemonia liberista, cioè che gran parte delle tecnologie sviluppate al processo economico sono «effetti» degli investimenti dello Stato, in epoca moderna, nel campo della formazione e della ricerca scientifica. Investimenti che non sempre prefigurano immediate ricadute produttive e economiche. Quel che si deve infatti chiedere allo Stato è una vision del presente e del futuro senza asficciti e algidi vincoli di bilancio.
Si investe in ricerca e formazione perché, nei tempi lunghi, l’intero «ecosistema» se ne avvantaggerà, grazie alla presenza di un elevato numero di ricercatori, di forza-lavoro qualificata e dalla traduzione operativa (la ricerca applicata) di conoscenze sviluppate in anni e anni di lavoro in qualche laboratorio senza l’ansia e l’incubo di doversi spostare da un mecenate all’altro nella speranza di raccogliere i fondi necessari per andare avanti nelle ricerche.
In nome dello statalismo
Nell’esporre la sua tesi Mariana Mazzucato non nasconde dunque la sua propensione «statalista» per quanto riguarda il necessario interventismo pubblico nella formazione e nella ricerca scientifica. Non è quindi un caso che si applica con convincente convinzione alla demolizione di un altro mito che ha accompagnato lo sviluppo della computer science e della new economy. Imprese come Google, Facebook, Intel, Apple non sono diventate quel che sono – cioè imprese globali fondamentali nello sviluppo capitalistico – grazie a intraprendenti e spericolati venture capitalist: il capitale di rischio, scrive l’autrice, più che favorire l’innovazione, la rallentano, anzi la mettono in pericolo. Chi investe in una start-up, infatti, non è interessato a finanziare l’innovazione tecnologica, bensì a far crescere quel poco un impresa per poi collocarla in borsa o venderla a un’altra società per ripagare l’investimento iniziale con l’aggiunta di una percentuale (generalmente molto alta) di profitti.
Lo Stato innovatore è una miniera di informazioni per quanto riguarda la ricostruzione delle fortune di Apple, di Google e delle altre imprese simbolo della new economy. L’esisto è una controstoria dello sviluppo tecnologico e economico degli ultimi cinquant’anni. Da questo punto di vista, Mariana Mazzucato fa sue molte delle analisi che hanno individuato nel Pentagono la fonte economica e finanziaria dell’innovazione tecnologica. Non solo i progetti per la costruzione di una rete di comunicazione che potesse «sopravvivere» a un attacco nucleare è stata finanziata dai militari attraverso il Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency ), ma è stato sempre il Pentagono, assieme al Ministero del commercio, che ha definito le regole affinché i risultati delle ricerche potessero essere diffuse sull’insieme delle attività produttive statunitensi. Internet è nata così. Ma questa è storia nota.
Il pregio del volume sta semmai nel ripercorrere tutti i passaggi che hanno portato ai successivi programmi di ricerca degli anni Settanta e Ottanta (il Gps, le nanotencologie, gli schermi lcd, il finger work, cioè gli schermi tattili) senza i quali non ci sarebbero stati l’iPod, l’iPhone e l’iPad.
Il sole che ride
Il famoso motto di Steve Jobs (stay hungry, stay foolish) usato per indicare la condizione necessaria per il successo imprenditoriale nasconde l’ipocrisia di chi è stato sfamato grazie al fatto che ha sfruttato, certo creativamente, la creatività manifestatasi nei laboratori di ricerca e nelle università lautamente finanziati dallo Stato attraverso il Pentagono o il programma Atp dell’Istituto nazionale per le norme e la tecnologia o dai progetti relativi all’innovazione per quanto riguarda le piccole e medie imprese.
Eguale rilevanza informativa è data allo sviluppo delle energie rinnovabili. In questo caso, gli Stati Uniti hanno scelto di costituire una agenzia federale apposita (l’Arpa-e) che dovrebbe svolgere nelle energie rinnovabili lo stesso ruolo svolto dal Darpa nella computer science e dal Nih nelle biotecnologie. Tuttavia, la strada migliore è quella tratteggiata da Cina e Brasile. In Cina lo stato ha investito e sta investendo centinaia di miliardi di dollari per favorire la ricerca e lo sviluppo di energia rinnovabile attraverso l’eolico, il fotovoltaico e il solare. In Brasile, invece, le banche per lo sviluppo definiscono e finanziano programmi che consentano al paese latinoamericano non solo di essere, nel futuro, indipendente dal punto di vista energetico, ma di vendere l’energia pulita prodotta. Cina e il Brasile sono diventati paesi all’avanguardia della green-economy, come la Germania, mentre gli Stati Uniti hanno perso terreno prezioso.
Nel Novecento la Ricerca scientifica statunitense è stata prevalentemente finanziata dallo Stato, anche se l’autrice non nasconde che gran parte dei risultati conseguiti sono stati poi acquisiti dalle imprese private e usati per innovare i prodotti e i processi lavorativi. Inoltre, negli Usa, lo Stato ha definito norme, definito i processi e le procedure affinché le conoscenze tecniche scientifiche potessero essere socializzate, favorendo così la crescita di nuovi mercati, facendo leva, ad esempio, sulle norme della proprietà intellettuale. Da qui il pendolo statunitense che oscilla dalla scelta a favore del public domain alla possibilità concessa alle università di poter brevettare le scoperte scientifiche avvenute all’interno di progetti di ricerca finanziati dallo Stato.
Governance di sistema
Mariana Mazzucato non è una economista radicale anticapitalista. La tensione polemica presente nel volume è semmai rivolta contro l’ideologia neoliberista, che vede nel mercato il deus ex machina dell’innovazione. Il capitale di rischio non rischia, afferma l’autrice, vuole vincere in partite facili, dove certo c’è incertezza, ma il rischio è minimo. Un atteggiamento parassitario che lo Stato ha per troppo tempo favorito e incentivato. Per l’autrice, l’intervento statale va salvaguardato perché è il solo soggetto politico che può creare un «ecosistema simbiotico» tra pubblico e privato. Lo stato tuttavia deve creare le condizioni affinché si manifesti al meglio l’indispensabile serendipity che favorisce l’innovazione e la ricerca scientifica. Per fare questo, vanno messe in campo misure che, ad esempio, recuperino parte dei finanziamenti statali attraverso un articolato sistema di governance della conoscenza. Può dunque essere istituita una golden share sui diritti di proprietà intellettuale, in maniera tale che una parte delle royalties vadano a finire nelle casse dello Stato; oppure va attuata una riforma fiscale che scoraggi l’elusione nel pagamento delle tasse da parte di imprese che si sono avvantaggiate dalla ricerche scientifiche finanziate dallo Stato, come invece accade adesso per gran parte dei colossi della new-economy e delle biotecnologie, che stabiliscono le loro sedi nei paradisi fiscali o in regioni tax free. Tutto ciò per continuare, anzi aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo
Il capitalismo può dunque essere salvato con un rinnovato protagonismo dello Stato, senza il quale è destinato a implodere nelle sue contraddizioni. Perché una delle regole auree del neolibierismo («socializzazione dei costi e privatizzazione dei profitti») ha portato il capitalismo sul ciclo del burrone. Solo con lo presenza di uno Stato che investe molto e che crei le condizioni per un ecosistema simbiotico tra pubblico e privato, chiosa alla fine l’autrice, è possibile pensare non solo alla sua sopravvivenza, ma a un suo duraturo sviluppo. Conclusioni modeste, si può dire, per un libro che invece ha una sua potenza analitica che funziona come un salutare antidoto a quel neoliberismo che con la sua crisi sta impoverendo la maggioranza della popolazione
«Gli Stati nazionali europei - che hanno assunto la forma attuale di «Stati sociali» solo dopo aver attraversato due disastrose guerre mondiali - sono oggi scivolati nuovamente, per via della globalizzazione economica, sotto la pressione esplosiva di interdipendenze che, economicamente generate, se ne infischiano delle vecchie frontiere nazionali».
La Repubblica, 28 aprile 2014 (m.p.r)
IL LIBRO
Nella spirale tecnocratica,
il libro di Habermas qui anticipato (Laterza, pagg. 128, euro 15)
«La nostra generazione, la mia, è cresciuta lottando per tutto quello che poteva ottenere, quindi i giovani hanno bisogno di tempo per capire che devono lottare e ci sono tre condizioni basilari per questo: leggere, pensare e discutere la realtà. Questo è l’unico modo per affrontare la realtà». Il
manifesto, 18 aprile 2014 (m.p.r)
Grecia. Lo scrittore greco Petros Markaris: «Piangere sulla ricchezza passata è inutile, bisogna riabituarsi a lottare». «A pensarci bene, quello che ci ha rovinati è un ascensore troppo rapido». È così che la traiettoria sociale della Grecia è riassunta dal protagonista della fortunata serie noir di Petros Markaris, in Resa dei conti. La nuova indagine del commissario Charitos (Bompiani, 2012), l’ultimo libro uscito in Italia. Le vite segnate dalla crisi e le piccole strategie di resistenza sono molto più che lo sfondo per il mistero del delitto raccontato da Markaris. Sono al centro di una narrazione corale che riscopre legami familiari e solidarietà sociali, fa i conti con l’etica e con gli effetti del suo smarrimento da parte della politica. Un’intervista telefonica con lo scrittore greco ha aperto il corso “Narratori d’Europa: volti e luoghi dalla crisi”, organizzato dall’Istituto regionale studi europei (Irse) del Friuli Venezia Giulia. Ne riprendiamo qualche estratto.
Katerina e Adriana, le protagoniste femminili del suo ultimo romanzo, sono simboli della relazione complessa tra giovani e adulti e dei loro differenti modi di agire. In questo particolare momento della nostra vita, come si struttura questa relazione complessa?
Cominciamo a parlare del passato. Uno dei problemi che abbiamo dovuto affrontare con la crisi è quello di come abbiamo cresciuto i nostri figli, i giovani. Uno dei modi in cui lo abbiamo fatto è stato quello di lasciargli credere che la madre Europa avrebbe guarito tutto, e ora che ci rendiamo conto che non è così i giovani si sentono perduti. Oggi i giovani non sono preparati ad affrontare i tempi duri, e il problema è simile in Spagna, Grecia, Italia. La nostra generazione, la mia, è cresciuta lottando per tutto quello che poteva ottenere, quindi i giovani hanno bisogno di tempo per capire che devono lottare e ci sono tre condizioni basilari per questo: leggere, pensare e discutere la realtà. Questo è l’unico modo per affrontare la realtà.
È possibile trasformare la crisi in opportunità di cambiamento?
Penso di sì. È quello che è successo ai due protagonisti del mio libro, Zisis e Charitos, due persone provenienti da mondi molto distanti ma che trovano il modo di connettere le loro differenti personalità. Anche io sono cresciuto in una famiglia con difficoltà economiche, io stesso ne ho avute molte. Mia madre era una casalinga, è stata lei a tenere la famiglia unita, ha sempre trovato una soluzione, un po’ come, nel libro, la figura di Adriana. Tutte queste persone trovano alla fine il modo per sopravvivere, ma trovare il modo di sopravvivere più che una questione economica è un fatto soprattutto culturale, di valori. Piangere sulla passata ricchezza, che per la Grecia è stata più che altro virtuale, non è una soluzione. La soluzione possibile è trovare una ridefinizione del nostro punto di vista sulla vita. Solo in questo modo potremo uscire dalla crisi più forti.
Siamo alla vigilia delle elezioni europee e nessuno in Italia ne parla seriamente. Noi pensiamo che possano essere un’opportunità per chiedere a noi stessi quale Europa vogliamo, quale vita, quale welfare. Lei cosa ne pensa?
Questa è una domanda che mi rende molto triste e le spiego il perché. Credo che le prossime elezioni europee saranno un esperienza molto negativa per gli europei. Siamo convinti che il Sud Europa sia la parte che ha problemi ma se osserviamo bene vediamo che i problemi riguardano gli estremi, l’estrema destra in particolare. È questo il prezzo che stiamo pagando per avere ridotto l’Europa a economia. Voi avete citato Spinelli e Dahrendorf, io voglio citare Jean Monnet che prima di morire disse: «Ho fatto un errore, se dovessi rifare l’Europa dall’inizio punterei su politica e cultura». È vero, ma purtroppo è arrivato tardi. L’Europa ha bisogno di un’altra visione, noi ne abbiamo bisogno, non possiamo sempre dire sarà peggio. Abbiamo bisogno di una visione politica e culturale diversa altrimenti diventeremo dei mostri.
Genealogie critiche di Lo straniero. Un’anticipazione dal nuovo libro dello studioso americano (
Lo straniero. Due saggi sull'esilio) da oggi in libreria per Feltrinelli. Il manifesto, 16 aprile 2014
La questione da cui sembra dipendere tutto il racconto del mito di Edipo di per sé appare di scarso interesse artistico, anzi non è che una rotellina nel meccanismo dell’intreccio. Sulle caviglie del re una ferita ricevuta nell’infanzia ha lasciato un segno nella carne. In greco il nome «Edipo» significa appunto «colui che ha le caviglie trafitte». Il re ha vagabondato, ha perso il contatto con le proprie origini, ma quando nella storia si arriva al punto in cui i personaggi devono sapere quale sia la sua vera identità, riescono a ritrovare questa verità esaminando il suo corpo. Il processo di identificazione ha inizio quando un messo dichiara: «Possono testimoniarlo le giunture dei tuoi piedi».
Se le prove che il re Edipo sta cercando non fossero quelle relative all’incesto, forse presteremmo più attenzione a questa cicatrice. Nonostante il lungo migrare del re nel corso della sua vita, il suo corpo conserva ancora la prova indelebile di chi egli sia «veramente». I viaggi che ha compiuto invece non hanno lasciato sul suo corpo un analogo marchio distintivo: la sua esperienza di migrante conta poco, ovvero conta poco in rapporto alla sua origine.
IL MARCHIO DELL’APPARTENENZA
Nella cultura occidentale questa cicatrice di Edipo sembra rappresentare la fonte da cui discendono i segni indelebili che il diciannovesimo secolo avrebbe letto nel corpo collettivo della nazione. L’origine diventa il destino. In verità, se si guarda indietro agli inizi della nostra civiltà, si ha l’impressione che l’esilio, lo spossessamento, l’emigrazione abbiano avuto un’importanza di gran lunga minore rispetto ai marchi dell’origine e dell’appartenenza. Viene da pensare al rifiuto dell’esilio da parte di Socrate come prova della credenza che perfino la morte da cittadino fosse più onorevole. O a quell’osservazione di Tucidide sul fatto che gli stranieri non hanno parola, con la quale non si vuol dire letteralmente che non sappiano esprimersi bene, ma che la loro parola nella polis conta ben poco: la loro è la chiacchiera di quelli che non hanno la facoltà di votare.
Tuttavia i segni sulle caviglie di Edipo non sono gli unici a marchiare il suo corpo. Egli risponde cavandosi gli occhi alle ferite che all’inizio altri gli hanno inflitto. Se mettiamo da parte la valenza sessuale di questo mito e lo esaminiamo semplicemente come un racconto, la seconda ferita compensa la prima: la prima è una ferita che indica le origini, la seconda la storia successiva. Doppiamente ferito, Edipo è diventato un uomo la cui esistenza si può letteralmente leggere sul corpo, ed è a partire da questa condizione che egli erra di nuovo per il mondo come un vagabondo. Quando parte da Tebe, Edipo pensa che forse potrebbe ritornare alle proprie origini, sulla montagna, «sul mio Citerone, che mio padre e mia madre, quand’erano vivi, mi assegnarono come tomba degnissima», ma questo ritorno non è destinato a realizzarsi. Infatti, quando si apre Edipo a Colono, anziché nei luoghi delle sue origini, Edipo è arrivato al deme (sobborgo) di Colono, a un chilometro e mezzo di distanza a nord-ovest di Atene, dove invece è destinato a morire secondo quanto gli ha predetto l’oracolo di Delfi, anche se la profezia si avvererà in modo diverso da come aveva immaginato all’inizio della tragedia.
Le due ferite sul corpo di Edipo sono dunque la cicatrice delle origini, che non si può nascondere, e la cicatrice dell’uomo errante, che non pare riuscire a sanarsi. Questa seconda insanabile cicatrice nella civiltà occidentale ha un significato come lo ha la cicatrice dell’origine che marca il valore attribuito all’appartenenza a un luogo specifico. I greci coglievano nell’interminabile viaggio di Edipo una risonanza con le leggende omeriche, specialmente con quella di Ulisse.
L’ESSERE IN CAMMINO
Nella procedura greca, che più tardi sarebbe stata codificata nel diritto romano, in alcune circostanze l’esilio era considerato di fatto onorevole, più della scelta di Socrate: l’exsilium concedeva alla persona condannata alla pena capitale il diritto di scegliere l’espulsione al posto della morte, una scelta che risparmiava agli amici e alla famiglia la vergogna e il dolore di assistere all’esecuzione di uno di loro. Ma Sofocle nel suo Edipo a Colono inserisce una dimensione morale nell’atto di emigrare, rappresentando Edipo come una figura nobilitata dal suo stesso sradicamento. La tragedia trasforma Edipo in meteco, in straniero, in un personaggio di tragica grandezza più che in un estraneo la cui levatura è minore di quella di un cittadino.
Diventare uno straniero significa essere strappati dalle proprie radici. La condizione di sradicamento assume nella tradizione giudaico-cristiana un valore morale positivo, anzi potremmo dire che diventa di fondamentale importanza. Gli uomini dell’Antico Testamento si consideravano nomadi senza radici. Lo Jahvè dell’Antico Testamento, con la sua Arca dell’Alleanza trasportabile, era lui stesso un dio nomade come sottolinea il teologo Harvey Cox: «Quando l’Arca, infine, fu catturata dai filistei, gli ebrei cominciarono a rendersi conto che Jahvè non si trovava nemmeno in essa (…). Egli viaggiava con il suo popolo e altrove».
Jahvè era un dio del tempo più che dio di un luogo, era un dio che aveva promesso ai suoi seguaci un senso divino per le loro tristi peregrinazioni. Anche tra i cristiani dei primi secoli, come tra gli ebrei dell’Antico Testamento, il nomadismo e l’essere esposti erano profondamente percepiti come conseguenze della fede. All’apice della gloria dell’Impero romano, l’autore della Lettera a Diogneto affermava: «I cristiani non si distinguono dal resto dell’umanità, né per sede, né per lingua, né per usanze. Essi infatti non abitano in città particolari, (…)non praticano un modo di vivere straordinario. (…)Essi dimorano nei loro paesi, ma solo come ospiti temporanei (…). Per loro ogni paese straniero è patria, e ogni patria è paese straniero». Quest’immagine di non stanzialità sarebbe diventata uno dei modi in cui Sant’Agostino avrebbe definito le due città nella Città di Dio: «Si legge nella Scrittura che Caino edificò una città mentre Abele, in quanto esule non la edificò. La città degli eletti è in cielo, sebbene si procuri nel mondo i cittadini con i quali è in cammino finché giunge il tempo del suo regno». L’essere «in cammino, finché giunge il tempo», piuttosto che la stanzialità in un luogo, attinge la propria autorità dal rifiuto di Gesù di consentire che i suoi discepoli edificassero monumenti per lui, e dalla sua promessa di distruggere il Tempio di Gerusalemme.
Quella giudaico-cristiana è quindi una cultura che, proprio alle sue fonti, riguarda direttamente l’esperienza dello sradicamento. La nostra è una cultura religiosa della seconda cicatrice. La ragione per cui viene conferito tutto questo valore allo sradicamento deriva da un profondo discredito dell’antropologia della vita quotidiana: il nomos non è verità. Le cose quotidiane sono di per sé illusorie – illusorie come lo erano per gli orfici e per Platone e nella misura in cui lo sarebbero state per sant’Agostino.
UNO STIGMA MORALE
Una svalutazione del comportamento quotidiano di questo tipo fa la sua apparizione in un momento indimenticabile dell’Edipo a Colono, proprio nel discorso che Edipo rivolge al giovane Teseo: «Figlio di Egeo a me carissimo, soltanto gli dei non conoscono vecchiaia e morte; tutto il resto viene travolto dal tempo onnipossente. Illanguidisce la forza della terra, illanguidisce la forza del corpo; muore la lealtà, germoglia la perfidia, né mai perdura lo stesso sentimento fra gli amici o fra città e città. Agli uni subito, agli altri in seguito quel ch’è dolce si tramuta in amaro e poi di nuovo in dolce. Così anche se ora Tebe è in pace perfetta con te, il tempo infinito genera nel suo corso notti e giorni infiniti, durante i quali essi, sotto lieve pretesto, manderanno al vento con la forza delle armi ogni patto d’amicizia».
Dunque questa seconda cicatrice, che è il segno distintivo dello straniero, è uno stigma morale, proprio perché non si sana mai del tutto. Sia nel pensiero classico sia in quello giudaico-cristiano, coloro che si sono liberati dalle circostanze, coloro che conducono vite da sradicati, possono diventare esseri umani di un certo rilievo. Girando per il mondo, si trasformavano. Si liberavano dalla partecipazione cieca e, di conseguenza, diventavano capaci di indagare le cose approfonditamente in prima persona, potevano operare scelte per se stessi o sentirsi infine, come il cieco re greco e il martire cristiano, al cospetto di un potere più alto. Le due cicatrici sul corpo del re Edipo rappresentano un conflitto fondamentale all’interno della nostra civiltà, in cui le pretese di verità del luogo e degli inizi si oppongono alle verità da scoprire quando si diventa stranieri
Preferiscono, invece, la prima risposta gli uomini e le donne che che da quasi vent’anni promuovono, animano e coordinano campagne volte a garantite un controllo della finanza nazionale e internazionale, dalla «più antica» sulla Tobin Tax fino all’ultima «Per una nuova finanza pubblica e sociale», che — com’è chiaro a chi segue la rubrica settimanale omonima su «l manifesto» — ha due focus sul debito degli enti locali e su Cassa depositi e prestiti. Si chiamano — tra gli altri — Francesco Gesualdi, Marco Bersani, Andrea Baranes, Antonio Tricarico, e oggi firmano insieme una valida (piccola) enciclopedia delle analisi prodotte dai movimenti sulla finanza. Nel libro, pubblicato da una casa editrice indipendente, le edizioni Alegre, Come si esce dalla crisi non è più una domanda, ma un’affermazione (pp. 256, euro 15).
Perché i palliativi non servono: è il momento di agire. Di navigare lasciandosi guidare da alcune stelle polari. La prima è questa: «Se lo scopo delle privatizzazioni (tutte le privatizzazioni) era lo sviluppo del mercato finanziario, a sua volta la privatizzazione del settore bancario era il presupposto strategico delle successiva privatizzazioni». L’Italia, in questo, si rivelò straordinariamente disponibile. A ricordalo la Corte dei Conti in una relazione del 2010 che poneva l’accento sugli effetti di quasi vent’anni di privatizzazioni. Come infatti spiega Stefano Risso nel suo contributo, nei primi anni Novanta «in Francia la proprietà pubblica del sistema bancario passò dal 36%al 32%, in Germania dal 61,9% al 52% e in Italia dal 74,5% allo 0%”».
La seconda stella polare è indicata da Tricarico: «Il primo — e unico per profondità — mercato globale creato negli ultimi 40 anni è stato quello dei capitali, in seguito alla liberalizzazione monetaria del 1971–73, quindi a quella dei movimenti di capitale negli anni 80, quella bancaria e dei servizi finanziari degli anni 90 e all’ingegneria finanziaria negli ultimi 15 anni, che ha creato l’immenso sistema bancario ombra».
Per riprendere il controllo del sistema del credito e sottrarlo all’eccesso di «finanziarizzazione» degli ultimi anni, però, non basta la «separazione dei risparmi delle persone dalla finanza speculativa». Lo Stato — suggerisce Roberto Errico, tra gli animatori del «Forum per una nuova finanzia pubblica e sociale», ma anche dipendente del Monte dei Paschi di Siena — dovrebbe prendere misure che «superino l’attuale spinta alla concentrazione del settore finanziari (…), atti che comprenderebbero innanzitutto incentivi al ridimensionamento, alla rilocalizzazione ed al delisting (fuoriuscita) dai mercati di Borsa di alcuni istituti di credito, al fine di creare un gruppo omogeneo di banche piccole e legate ai territori di provenienza».
È a partire da questo che sarà possibile discutere in modo serio di una possibile separazione tra banche commerciali ed attività finanziarie delle stesse. Che è solo uno degli antidoti alla crisi, una delle (tante) misure necessarie per arginare la finanza — e le sue derive — che vengono passate in rassegna nei saggi raccolti nel libro. Uno strumento, non il fine, che è spiegare «come si esce dalla crisi» a partire dalla pratiche (campagne, azioni) messe in campo dalla società civile: dall’analisi del debito pubblico, che in qualche modo dev’essersi formato, e che uno Stato o un ente locale potrebbe rifiutarsi di pagare — almeno in parte -, ai limiti necessaria da porre ai paradisi fiscali e ai Paesi a fiscalità agevolata, passando per una tassa sulle transazioni finanziarie, che renda meno attraenti questi «investimenti improduttivi». Un manuale, dunque, per passare dalla teoria all’azione, certi di una cosa: i soldi (per uscire dalla crisi) ci sono, perciò basterebbe la volontà politica di indirizzare al meglio il loro uso.
«A venticinque anni dalla nascita il web necessita di garanzie che lo mettano al riparo dalle violazioni alla sua libertà». Estratti dal saggio
Il mondo nella rete. Quali i diritti, quali i vincoli (Laterza) . La Repubblica, 15 marzo 2014
Internet, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, la rete che avvolge l’intero pianeta, non ha sovrano. Nel 1996, John Perry Barlow apriva così la sua Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio. Questa affermazione orgogliosa riflette il sentire di un mondo, di una sterminata platea in continua crescita fino agli attuali oltre due miliardi di persone, che si identifica con una invincibile natura di Internet, libertaria fino all’anarchia, coerente con il progetto di dar vita a una rete di comunicazione che nessuno potesse bloccare o controllare. Ma è pure un’affermazione che ha dovuto subire le dure repliche da una realtà nella quale non solo Internet è variamente oggetto di regolazione, ma soprattutto conosce violazioni continue di quello statuto di libertà che si riteneva poter essere affidato alla propria, esclusiva virtù salvifica.
Perciò è venuto il tempo non di regole costrittive, ma dell’opposto, di garanzie costituzionali per i diritti della rete e in rete. Ma il rafforzamento istituzionale della libertà in questa sua nuova dimensione non può valere solo contro l’invadenza degli Stati. Deve proiettarsi anche verso i nuovi «signori dell’informazione » che, attraverso le gigantesche raccolte di dati, governano le nostre vite. Proprio il modo d’essere di questi soggetti – si chiamino Amazon o Apple, Google o Microsoft, Facebook o Yahoo! – ci racconta una compresenza di opportunità per la libertà e la democrazia e di potere sovrano esercitato senza controllo sulle vite di tutti. Non un Giano bifronte, però, ma un intreccio che può essere sciolto solo da una iniziativa «costituzionale » anch’essa nuova, che trovi proprio nella rete le sue modalità di costruzione.
Un esempio può essere ritrovato nella vicenda dell’Internet Bill of Rights, una proposta maturata all’interno delle iniziative dell’Onu sulla società dell’informazione e che si è venuta consolidando attraverso il lavoro di diversi gruppi, dynamic coalitions spontanee e informali che hanno poi trovato forme di unificazione e metodi comuni, che si sono manifestati negli Internet Governance Forum promossi in questi anni proprio dall’Onu. La scelta dell’antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie «costituzionali».
Ma, conformemente alla natura della rete, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall’alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che possono intervenire in modo attivo, grazie soprattutto a una tecnologia che mette tutti e ciascuno in grado di formulare progetti, di metterli a confronto, di modificarli, in definitiva di sottoporli a un controllo e a una elaborazione comuni, di trasferire nel settore della regolazione giuridica forme e procedure tipiche del «metodo wiki», dunque con progressivi aggiustamenti e messe a punto dei testi proposti.
Le obiezioni tradizionali – chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? – appartengono al passato, non si rendono conto che «la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale», come ha scritto Antonio Cassese. Tutto questo accade in un contesto in cui le istituzioni tradizionali non vengono tagliate fuori, ma contribuiscono a una impresa di rinnovamento che, al tempo stesso, può mutare e rafforzare il loro ruolo. L’Onu si presenta come punto di riferimento per un mondo che si struttura proprio per cogliere una occasione da essa offerta. Il Parlamento europeo prende atto di una iniziativa non istituzionalizzata, e fa esplicito riferimento all’Internet Bill of Rights in una risoluzione del 2011. Stiamo entrando in una dimensione difficilmente descrivibile con i tradizionali concetti della modernità politica, a cominciare appunto da quelli di Stato e di democrazia rappresentativa. Ma questa transizione non ci assicura che il suo esito sia quello dell’entrata nella postdemocrazia.
Entriamo nella dimensione dell’inedito, e proprio perché si tratta di un processo inedito, non si può valutarlo con i criteri del passato, né attribuire una sorta di autoevidenza a qualsiasi vicenda che ci accada di registrare. Cimentarsi con il problema del modo complessivo in cui la tecnologia incontra il tema delle libertà e istituisce lo spazio politico, significa proprio fare i conti con processi reali. E proprio riflettendo su Internet possono essere individuate le vie di un costituzionalismo globale possibile, non affidato a norme sovrastatuali incorporate nei diritti statuali. Vale a dire, una costruzione del diritto per espansione, orizzontale, un insieme di ordini giuridici correlati, non punto d’arrivo, ma strutturati in modo da sostenere la sfida di un tempo sempre mutevole, quasi una costituzione infinita. ©
Nel libro del sapiente costituzionalista Paolo Maddalena riemerge il tema nodale dell’urbanistica – l’appartenenza pubblica della facoltà di edificare - colpevolmente trascurato per troppi decenni dagli addetti ai lavori e dai decisori nazionali, regionali e comunali
Paolo Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli, pp. 210, € 18
La partita del territorio italiano, del paesaggio e della loro tutela, si gioca tutta intorno a un’espressione latina, ius aedificandi.
Secondo Paolo Maddalena, professore di Diritto romano, poi giudice della Corte dei Conti e, per un decennio, della Corte Costituzionale, se si chiarisse per bene, senza ambiguità, che una cosa è essere proprietari di un suolo altra cosa è aver diritto a farci quel che si vuole, forse per territorio e paesaggio italiano si può immaginare un futuro più sereno. Ma che cosa c’entra lo ius aedificandi?
C’entra, spiega Maddalena in questo saggio di lettura agile (con introduzione di Salvatore Settis), nonostante la mole di sapienza giuridica che vi è riversata, perché un presunto diritto a costruire si ritiene sia connaturato al diritto di proprietà. È una convinzione molto diffusa in Italia: ne è prova il successo di uno degli slogan simbolicamente più efficaci del berlusconismo, “padroni in casa propria”, che ha fatto proseliti sia fra i grandi che fra i piccoli possessori di aree, a dimostrazione che esiste nel nostro paese un nutrito, multiforme “blocco edilizio” tenuto insieme da una smodata intolleranza verso le regole. Ma uno ius aedificandi così inteso, baluardo di un oltranzismo privatistico, è uno sgorbio giuridico, insiste Maddalena, senza riscontri nelle fonti del diritto romano, anzi ampiamente smentito da questo, e soprattutto in patente contrasto con la nostra Costituzione. Ciò nonostante sul diritto a costruire vige una specie di consuetudine, avallata da alcune norme del codice civile e da qualche sentenza della Corte Costituzionale (risalente a prima che Maddalena vi facesse parte) e poi da un sentire diffuso che autorizza sia abusi edilizi sia piani casa.
E invece possedere un suolo non è come possedere un tavolo. Non lo si può trasformare o manipolare a piacimento. L’edificazione, scrive Maddalena, «produce effetti non solo sui beni in proprietà del privato, ma anche sui beni che sono in proprietà collettiva di tutti, come il paesaggio, che, essendo un aspetto del territorio, è in proprietà collettiva del popolo, a titolo di sovranità».
Stendere un velo di cemento anche solo su duecento metri quadrati di suolo sottrae irreversibilmente a questo alcune funzioni che sono di interesse della collettività. Quella porzione di suolo sarà impermeabilizzata, con un acquazzone la pioggia vi scivolerà e non sarà assorbita ricaricando le falde. Il suolo non potrà più essere coltivato. Non immagazzinerà più carbonio. Se sopra il velo si innalzerà un edificio, questo altererà la prospettiva esistente, attirerà più persone, produrrà più scarichi. Se invece che uno, gli edifici sono tanti, tutti questi effetti si moltiplicheranno. Non può essere solo il proprietario a decidere che cosa fare del suo suolo.
La proprietà privata non dà diritti illimitati. Diritti che, per fare un esempio, un costruttore ritiene di poter esercitare quando va a contrattare la trasformazione di un area con un’autorità pubblica troppo spesso soggiogata politicamente. Ma – ed è qui uno dei punti cruciali del saggio di Maddalena – non è la proprietà privata limitata dagli interessi pubblici. La prospettiva va ribaltata. È il territorio nel suo complesso un bene appartenente alla collettività (come sostenevano già i romani), essendo il territorio il luogo nel quale si esercita la sovranità popolare. E ciò determina, scrive Maddalena, una prevalenza giuridica dell’interesse pubblico su quello privato. Detto in altri termini (sperabilmente non troppo elementari): se in qualunque modo si tocca il territorio sono gli interessi pubblici che vanno considerati più di quelli privati.
Il libro di Maddalena ripercorre in modo assai coinvolgente la storia di come il territorio sia stato considerato un bene collettivo ed enumera le norme giuridiche che hanno supportato questa concezione. Dall’età classica alla nostra Costituzione. Inoltre il libro è percorso dall’idea di quanto sia necessario riferirsi a questi principi nella pratica legislativa, in quella politica e in quella amministrativa. Qui non è possibile neanche sintetizzare tale ricchezza di documentazione, salvo sottolineare come il saggio di Maddalena segni un punto fermo nella saggistica dedicata al territorio e al paesaggio. E nelle battaglie per la loro tutela.
«Un libro assai utile quello di Alessandro Arienzo su
La governance (Ediesse, pp. 205, euro 12). Nell’ultimo decennio è uscita sconfitta l’ipotesi di una «governance politica dell’economia». Questo studio permette di indagare una formula confusa ed abusata, nell’oramai quarantennale dominio neo-liberista del capitalismo finanziario». Il manifesto, 28 febbraio 2014
Il volume fa parte di una collana di recente creazione. È quella dei «fondamenti», che un gruppo di giovani curatori promuove, con l’editore Ediesse, «per un vasto pubblico di lettori curiosi e appassionati», incrociando il «taglio monografico» con «l’alta divulgazione». Una sfida notevole, di questi tempi, quella di unire approfondimento della ricerca e diffusione del sapere. Sembra scomodare i celebri Libri di base diretti da Tullio De Mauro, che Editori Riuniti pensò in tutt’altra fase culturale. Ad ogni modo l’impostazione grafica di questi volumi è caratterizzata dalla presenza di schemi esemplificativi, glossari, bibliografie commentate e sunti chiarificatori posti alla fine di ciascun capitolo, «per riassumere» il contenuto di quanto detto in precedenza. Il tutto senza perdere il taglio analitico critico che vorrebbe contraddistinguere la collana. Sicuramente così succede con il volume di Alessandro Arienzo, ricercatore appartenente alla scuola filosofica napoletana e attento studioso di governamentalità e biopolitica che dagli studi sulla ragion di Stato è da tempo approdato a scandagliare i meandri delle tecniche di governance contemporanea.
Un generico termine
Ma che cos’è la governance? Questo l’interrogativo che apre il libro. Seguono tre capitoli riguardanti la governance europea, quella internazionale, tra sicurezza e sviluppo, per finire con una riflessione sulla portata della governance tra Stato e mercato.
Arienzo chiarisce subito che il lemma governance può essere inteso come «espressione generica del governare»: «qualsiasi forma di organizzazione dell’azione collettiva». Qui la memoria risale alle formule utilizzate nella Francia medievale, piuttosto che nell’Inghilterra del Seicento. Ma l’opposizione tra governance e government si afferma nel lessico pubblicistico e scientifico con le riforme delle istituzioni di governo locale e metropolitano negli Stati Uniti degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Poi arriva la corporate governance delle imprese finanziarie, che diviene parametro di comportamento delle istituzioni della globalizzazione: dal Fondo monetario internazionale alla Banca mondiale. Da una parte quindi il governo gerarchico-piramidale che si fonda sull’autorità sovrana dello Stato. Dall’altra la governance dei meccanismi informali, di processi aperti e diffusi, tendenzialmente orizzontali e non-gerarchici, che includono reti decisionali miste, pubbliche e private.
Ecco che qui Arienzo si concentra giustamente sulla tendenza oramai quarantennale dell’attuale concetto e pratica di governance: «un percorso di messa in discussione delle procedure del governo rappresentativo negli Stati democratici e parlamentari», non per aprire spazi di orizzontalità partecipativa, ma per obbedire al dogma della «governabilità». È un mantra che giunge fino agli epigoni del compromesso storico, tuttora ai vertici istituzionali, ma che prende le mosse dal celebre Rapporto alla Commissione Trilaterale, tradotto in Italia nel 1977 con prefazione di Giovanni Agnelli: non è certo una strana combinazione. Piuttosto un manuale che impone il verbo della governabilità per arginare sommovimenti sociali che rivendicano giustizia sociale, democrazia, diritti, redistribuzione del reddito. È l’inizio di un processo di spoliticizzazione dell’orizzonte democratico e di incubazione di una retorica sulla governance, intesa esclusivamente come processo di «forme organizzative e politiche di diretta espressione del contemporaneo neoliberalismo», piuttosto che come occasione di redistribuzione dei processi decisionali verso il basso, in favore di soggetti non appartenenti alla struttura gerarchica dei poteri economico-politici esistenti. Sono Margaret Thatcher e Ronald Reagan che si affacciano, in compagnia dei Chicago boys, fino all’ortodossa austerità tedesca.
Così Arienzo sintetizza perfettamente lo stato dell’arte. Nell’ultimo decennio è uscita sconfitta l’ipotesi di una «governance politica dell’economia» che la Commissione europea aveva descritto nel Libro bianco del 2001, insistendo particolarmente sui princìpi di «apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza». Nella bibliografia commentata è ricordato un volume collettivo che provò a confrontarsi a viso aperto con quell’opzione, insistendo sugli spazi di azione dei movimenti sociali europei e globali: Governance, società civile e movimenti sociali. Rivendicare il comune (Ediesse, 2009). Nello stesso decennio ha preso sempre più corpo una «governance economica della politica e della società», fautrice di uno Stato regolatore minimo, imbevuta di neocorporativismo, capace di conservare i rapporti di potere esistenti e al contempo di colonizzare l’immaginario collettivo.
Una partita ancora aperta
È la nuova ragione dell’ordine neo-liberale (per dirla con Dardot-Laval, da poco tradotti per DeriveApprodi) che diventa «governance commissaria di mercato», in grado di «commissariare le politiche economiche degli Stati» e governare le forme di vita degli individui, nel «gestire e amministrare il loro capitale umano», così come gli spazi dei «processi aggregativi», tanto reali, quanto virtuali. Eppure Alessandro Arienzo ci invita a non considerare conclusa la partita. Tra i «vuoti e gli scarti della democrazia» (riprendendo un lavoro curato dallo stesso Arienzo e da Diego Lazzarich, Esi, 2012) si apre l’urgenza di riconoscere il carattere politico e conflittuale che la governance inscrive nei rapporti di potere. È quello il terreno dove sfidare le derive neo-oligarchiche e tecnocratiche. Magari con il protagonismo di soggetti collettivi consapevoli del fatto che gli spazi politici di azione sono quelli locali – per un nuovo diritto alla città – insieme con quello continentale – per un’Europa politica e sociale.
La postfazione alla riedizione di un libro sul quale è utile ricominciare a riflettere, prima che il “pensiero unico” del neoliberalismo si sia impadronito di tutte le teste.
La Repubblica, 24 febbraio 2014
Sono passati vent’anni dalla pubblicazione di Destra e sinistra. Due decenni segnati da sommovimenti profondi. L’Unione europea si dibatte in una crisi pluridimensionale di portata eccezionale. «Per la prima volta nella loro storia, gli europei sperimentano la finitezza dell’Europa». Così si esprime il sociologo Ulrich Beck nel suo ultimo libro, Europa tedesca.
Cambiamenti di eguale portata si sono prodotti sulla scena internazionale. Tra questi ultimi, le rivoluzioni inauguratesi nel 2010 contro l’autoritarismo e la corruzione delle classi dirigenti del mondo arabo. Insieme con esse, sono letteralmente andate in pezzi le strategie opportunistiche dell’Occidente a sostegno di regimi non-democratici – strategie promosse dalla sinistra come dalla destra, in nome della stabilità. Questa messa in scacco del cinismo politico dei partiti al potere – in Occidente, in Africa e in Medio Oriente – ha contemporaneamente messo in rilievo un altro fenomeno. Quello di un “progresso civile” irreversibile, anche se “non necessitato”, per riprendere i termini di Bobbio. Se la transizione resta altamente problematica per i paesi della “primavera araba”, ciò non impedisce che queste rivolte abbiano per orizzonte comune la democrazia. È in nome della dignità umana che la resistenza è continuata nonostante la violenza della repressione. È in ragione dei valori democratici che la spartizione diseguale delle ricchezze è diventata sempre più intollerabile per queste società oppresse.
Detto in altro modo, le rivolte emancipatrici che scoppiano nelle più diverse parti del mondo mostrano tutte le volte che la democrazia non è un’avventura qualsiasi. Il suo manifestarsi, e i valori su cui si fonda, anche se storicamente e geograficamente definiti, hanno una portata universale. I diritti dell’uomo e lo Stato di diritto democratico fanno ormai parte del “patrimonio comune dell’umanità”. La logica democratica è una “logica di libertà”.
Detto altrimenti, anche se non risponde a una logica di causa- effetto – caratterizzata com’è dalla sua fragilità intrinseca e dalla possibilità di regressione – la sua messa in moto introduce una coerenza nella storia umana tale per cui le sue sequenze non sono intercambiabili. Il nostro patrimonio democratico trae la sua forza dalla possibilità di essere riattivato in ogni istante, in qualunque parte del mondo, da un qualunque individuo appartenente alla comunità umana.
Questa idea di progresso e di una crescente consapevolezza di una eguale dignità umana si ritrova a più riprese, sotto la penna di Bobbio. La si trova, in particolare, in un passaggio come questo: «La spinta verso una sempre maggiore eguaglianza tra gli uomini è irresistibile. Ogni superamento di questa o quella discriminazione rappresenta una tappa, certo non necessaria, ma almeno possibile, del processo di incivilimento. Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali di diseguaglianza: la classe, la razza e il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini è uno dei segni più certi dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza». (...) Di fatto, la battaglia democratica è lungi dall’essere conclusa. Non soltanto perché la democrazia non è il solo tipo di regime che esista al mondo, ma anche perché i nostri Stati di diritto democratici sono lontani dal garantire l’effettivo rispetto dei diritti dell’uomo, persino all’interno dell’Unione europea. Alcuni pretendono che il progetto democratico europeo si sarebbe esaurito. Le aspirazioni degli uni e le disillusioni degli altri ci dicono il contrario. E se si è insediata la stanchezza europea, ciò dipende forse innanzitutto dal fatto che la classe politica europea – di destra e di sinistra – non è stata all’altezza dell’esigenza democratica che caratterizza il progetto politico dell’Unione europea. Invece di assumere come indispensabile la mutazione del loro patrimonio politico, i leader delle nazioni europee si sono votati all’impotenza, in un mondo in cui l’economia, la finanza, i media… funzionano ormai a scala planetaria.
Un’impotenza che certe nazioni, nei loro sogni più folli, immaginano di poter combattere da sole. A forza di rifiutare di impegnarsi insieme nella democratizzazione della globalizzazione, e nella realizzazione della democrazia europea, i leader degli Stati si sono assuefatti a una tolleranza di fronte all’ingiustizia, all’interno dell’Unione europea e ancor più al di fuori delle sue frontiere. I malfunzionamenti democratici, non solo al livello istituzionale, ma soprattutto nella realtà quotidiana, costituiscono senza alcun dubbio un ingrediente fondamentale della crisi simbolica acuta che incancrenisce il nostro continente. Questa crisi attiene al registro specificamente identitario e deve essere presa molto sul serio. Io sono convinto che la sua risoluzione passa tra le altre cose attraverso la spiegazione del significato del “politico”. E ciò impone di esporsi pubblicamente attraverso un progetto impegnativo per le società e per gli individui che le compongono. Il progetto politico si determina senza alcun dubbio a partire da una visione del mondo. Ma esso è anche un qualche cosa in cui ciascuno deve potersi riconoscere per appropriarsene veramente. In questo senso, esso funziona come uno “stabilizzatore identitario” che non necessariamente è sinonimo di particolarismo o di regresso. Quella che si suole chiamare la «crisi di legittimità» che investe l’ordine politico delle nostre democrazie liberali ha dei legami evidenti con la crisi identitaria europea.
Ed è assai spiacevole che i partiti politici, quale che sia il loro orientamento, abbiano preso l’abitudine di puntare il dito sulla crisi di legittimità europea, quando quest’ultima è in qualche modo null’altro che un’amplificazione della crisi di legittimità che già da tempo ha eroso l’ordine politico nazionale. Si tratta di una rottura socio-politica che concerne i sistemi politici moderni in generale. Detto in altro modo, la sfida si situa su un terreno più grande: quello del valore della politica e della fiducia nei confronti delle istituzioni democratiche rappresentative, vale a dire della classe politica tout court. Ora, questa fiducia si basa sulla qualità della performance del processo di identificazione in generale. È così che le chiusure identitarie – le quali possono raggiungere proporzioni deliranti – si possono interpretare come altrettante lacune nel processo di identificazione, considerato nel suo insieme.
Se questo libro di Bobbio rimane attuale, non è tanto in ragione degli argomenti che sviluppa, ma soprattutto per ciò che esprime: un bisogno di ritrovare il senso della politica.
rugalità, Il Mulino pp. 144, euro 12) l'autore, con la sua consueta lucidità e chiarezza, aiuta a riflettere sulla natura di una parola che ha risvolti psicologici ed economici, ed è parente stretta di parole. Sarebbe utile, seguendo un analogo schema, interrogarsi su parole la cui deformazione ha assunto un ruolo centrale nel discorso politico attuale, come “austerità". La Repubblica, 21 febbraio 2014
Giulio Nascimbeni, sul Corriere della Sera dell’ 8 maggio 1994, raccontava di una crociata avviata dal mensile Il Migliore, diretto da Sergio Claudio Perroni. Si trattava di salvare parole «che rischiano di diventare arcaiche e quindi svanire». Una di queste parole era frugale, una parola con una lunga storia. Compare nella prima metà del Trecento in un testo di Giovanni Cassiano dove si parla di «virtù frugali». Oggi, grazie all’uso del motore di ricerca Google Trend, potete scrivere «frugalità, abbondanza» e accorgervi che la crociata di Perroni non ha sortito grandi effetti. La vittoria dell’abbondanza sulla frugalità è schiacciante. Se però consultate i due termini inglesi « frugality, abundance », scoprite che il primo termine riaffiora grazie ad articoli come quello di Arthur Frommer sul Francisco Chronicle del 20 luglio 2009, dal titolo: Frugality Now Fashionable - And Necessary. Quando si parla di frugalità, di che cosa stiamo esattamente parlando?
1. La frugalità non è la povertà. È una scelta, non una costrizione. Se si sembra frugali perché si è poveri, in realtà non si è frugali. Oggi, in Italia i poveri sono circa cinque milioni. Si tratta di persone che l’Istat, nel suo rapporto, classifica come «poveri assoluti». Si potrebbe pensare che, in una società ricca, gli «assolutamente poveri» diminuiscano. E invece aumentano. Dal 5,7 per cento delle famiglie assolutamente povere del 2011 siamo passati all’8 per cento delle famiglie del 2012.
3. La frugalità non è nemmeno una decisione di risparmio. A questo proposito, vorrei raccontare quella che credevo fosse una semplice leggenda familiare, tramandata da mio «nonno Tano».
Questo episodio chiarisce bene il rapporto che c’era un tempo tra frugalità e risparmio. Sembrano due concetti imparentati ma, a ben vedere, ciò che li avvicina è soltanto il non consumo opulento, il rifiuto del superfluo. Il risparmio ci rende robusti, meno vulnerabili, perché la riserva costituita dal risparmio ci permette di affrontare avversità future, oggi non prevedibili. Inoltre il risparmio lascia un margine di manovra nelle scelte di vita, una sorta di cuscino di sicurezza. La frugalità, invece, produce risparmi solo come effetto collaterale: l’abitudine al poco è una difesa preventiva che ci rende invulnerabili ai rovesci della sorte. Utilizzo qui un’opposizione approfondita da Nassim Taleb nel suo ultimo saggio.
Taleb distingue tra robustezza e antifragilità: la seconda implica il sapersela cavare in ambienti ostili, l’aver bisogno di poco, e non solo in termini materiali. Per Taleb la distinzione tra robusto, fragile e antifragile si applica a molti ambiti della vita: «Quel che s’impara in modo esplicito a scuola è fragile, le conoscenze tacite che discendono dalla vita pratica sono robuste, ma è solo l’insieme di scuola e di pratica che è antifragile». La frugalità è un concetto darwiniano, nel senso che ci rende più adattabili a scenari in rapido mutamento. La robustezza economica, invece, è più ostaggio degli eventi, e ci difende solo dalle avversità finanziarie, non da quelle della vita. La frugalità è un sapere tacito, che s’impara da piccoli in famiglia, non un sapere che s’impara a scuola. Mazzarò è una persona fragile, la possibilità della morte lo coglie impreparato. In lui i consumi ridotti non sono la via per raggiungere un obiettivo, la ricchezza è fine a se stessa. Alessandro Rossi è invece antifragile. Per uno dei più ricchi industriali di allora, il costo di un pony e di un carrettino sarebbe stato irrilevante rispetto all’entità dei suoi averi, in termini cioè di robustezza economica. E tuttavia quello che desiderava la nuora era cosa da non farsi
idadominijanni, 16 gennaio 2014
Fu durante un convegno sul quarantennale del Sessantotto, più di cinque anni fa, che Margarethe Von Trotta mi anticipò che stava lavorando a un film sulla vita di Hannah Arendt. Ardua scommessa, pensai e le risposi provando a immaginare come si potesse restituire la complessità della vita, del pensiero e della persona di Arendt in un film di due ore. Ma Margarethe le scommesse, se non sono ardue, non le prende nemmeno in considerazione; e fino a quel momento le aveva vinte tutte: con Anni di piombo (Leone d’oro a Venezia 1981), con Rosa Luxemburg (1986), con Rosenstrasse (20013).
Ha vinto anche questa. Presentato al festival di Toronto del 2012, Hannah Arendt( coproduzione Germania-Lussemburgo-Francia-Israele) è uscito nel frattempo con acclamazione di critica e di pubblico negli Stati uniti (uno dei dieci film migliori del 2013 secondo il ) e in tutta Europa salvo che in Italia, dove pare che le sale non ritengano commestibile la storia di una ignota filosofa: un bel sintomo dello stato dell’arte nel nostro paese. La distribuzione (Ripley’s film e Nexo Digital) approfitta dunque della Giornata della memoria per mandarlo in 70 sale e 19 città il 27 e 28 febbraio prossimi, e della ripubblicazione per Feltrinelli de La banalità del male per diffonderlo in formato digitale. Il resto lo faranno scuole, università e circuiti culturali interessati.
In coppia con la cosceneggiatrice americana Pam Katz (ma sono donne anche la produttrice Bettina Brokemper, la direttrice della fotografia Caroline Champetier, la montatrice Bettina Böler), Von Trotta sceglie gli anni fra il 1960 e il 1964 per condensare vita e pensiero di una delle protagoniste assolute del Novecento. Reincarnata in una strepitosa Barbara Sukowa, Hannah vive a New York dal 1941, dopo la fuga in Francia dalla Germania di Hitler nel ’33, l’internamento nel campo di detenzione di Gurs e l’esodo oltreoceano con la madre e il secondo marito, Heinrich Blücher, il comunista tedesco autodidatta incontrato a Parigi e sposato nel ’40.
Sfondando – giustamente – il confine fra privato e pubblico che Arendt mantenne come un punto fermo della sua filosofia, il film restituisce assieme la dimensione personale e politica di Hannah, le amicizie e l’insegnamento, gli amori e il pensiero, incastonati fra la decisione di andare a Gerusalemme per seguire il processo a Eichmann e il discorso tagliente tenuto alla New School per rispondere agli attacchi suscitati dal suo reportage del processo sul New Yorker, con le tesi esplosive sulla ”banalità del male” perpetrato da Eichmann nonché sulla ”cooperazione” dei vertici della comunità ebraica tedesca con le deportazioni.
Esplosive allora e dopo (Von Trotta: «io stessa ho potuto recepirle appieno solo dopo la caduta del Muro di Berlino»), perché insopportabili tanto per la cultura antinazista, rassicurata dall’idea della mostruosità eccezionale di quel male di cui Arendt svelava invece la banale normalità, tanto per la comunità ebraica, rassicurata dalla certezza dell’innocenza assoluta delle vittime. Non solo la comunità intellettuale newyorkese ma tutto il mondo affettivo di Hannah ne resta terremotato: i colleghi che la invitano a dimettersi dall’insegnamento, gli amici ebrei che le voltano le spalle, Hans Jonas, il più antico fra loro, che l’accusa di far prevalere in lei l’arroganza dell’intelligenza tedesca sulle radici ebraiche.
E’ il nocciolo anti-identitario e ”non allineato” del pensiero di Arendt che ci convoca e ci parla tutt’ora, ogni giorno e in ogni circostanza in cui la certezza dell’appartenenza va a discapito della comprensione dei fatti. Così come tutt’ora ci parla la battaglia di Hannah per non rinunciare alla pubblicazione del suo reportage sul New Yorker: allora come oggi, c’è sempre un caporedattore o una caporedattrice zelante (per inciso, uno dei personaggi più vivi del film) che ti dice che pensi troppo liberamente per vendere, o che sei troppo filosofa per fare del buon giornalismo.
C’è nel film questo nocciolo, che si forma nella testa di Hannah durante il processo al criminale nazista che «siede nella gabbia di vetro come un fantasma e non è per niente terribile»; ma non c’è solo questo. C’è l’amicizia di Hannah con Mary Mc Carthy (Janet McTeer) e Lotte Köhler (fonte diretta della sceneggiatura), quell’amicizia femminile che fu un filo d’acciaio della «non femminista» Arendt ed è un filo d’acciaio della filmografia di Von Trotta, da Sorelle a Anni di piombo a Rosenstrasse. C’è il controverso rapporto d’amore fra Hannah e il suo maestro Martin Heidegger, una sorta di passato che non passa e che non cessa di tornare, fra la gratitudine e l’incubo, nei ricordi e nel sonno, irrinunciabile malgrado e contro l’adesione di Heidegger al nazismo.
C’è, ancor più irrinunciabile, il rapporto con la lingua materna, che s’impone negli esuli contro l’inglese ogni volta che c’è da discutere di qualcosa in cui ne va di se stessi (il film alterna infatti le due lingue, e per fortuna non sarà doppiato in italiano). C’è infine e soprattutto, come ha notato il NYT, non solo il pensiero ma il pensare di Arendt, quella sua peculiare capacità di fare la spola fra i fatti e la teoria, fra l’evento e il concetto, che ne ha fatto la grandezza e che Barbara Sukova lascia srotolare fra una sigaretta e l’altra, fra una nottata alla macchina da scrivere e un riposino diurno sul divano, vita activasenza soste e missione senza tempo. Erano i favolosi anni Sessanta, quando a New York si poteva ancora fumare perfino in un’aula della New School, e chissà se pure per questo il pensiero volava più libero.
«Criticare l’austerità perché crea più problemi di quanti ne risolva è giusto, ma non basta. Se non si aggiunge che essa tende a corrodere gli spazi pubblici e le basi delle istituzioni democratiche ».
LaRepubblica, 7 gennaio 2014
Il neoliberismo è in ritirata o la sua egemonia resta intatta? È quanto è stato chiesto in una recente intervista a John Bellamy Foster, direttore della Monthly Review ed autore, con Robert McChesney, di Endless Crisis, edito dalle edizioni della rivista. Non si può dire che le sue risposte siano risolutive. Sostenere che l’attuale regime neoliberale è il prodotto del grande capitale, del grande governo e della grande finanza su scala globale è più che ragionevole, ma non sufficiente. Restano aperte molte domande. Il peso che ha assunto l’economia finanziaria è il frutto di un ritiro delle politiche governative o delle loro scelte? E i tentativi di regolamentazione dei mercati che già nel 2009 hanno fatto parlare di “ritorno dello Stato” come vanno intesi? Come riflusso del neoliberismo o come sua ristrutturazione sotto altre vesti?
Per orientarsi in questa selva di questioni bisogna intanto intendersi sul significato del termine. In proposito risulta assai utile l’ampia ricerca elaborata da Pierre Dardot e Christian Laval in un volume adesso tradotto da Derive Approdi col titolo La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, a cura di Paolo Napoli. La loro tesi di fondo è che la crisi in corso, lungi dal comportare un indebolimento delle politiche neoliberiste, ha portato al loro brutale rafforzamento attraverso forme di austerità incapaci di invertire la logica speculativa dei mercati finanziari. La falsa apparenza di una inversione di tendenza è nata da una interpretazione inadeguata del liberismo come semplice ritiro dello Stato davanti alla naturalità del mercato. In questo modo si è confusa l’ideologia della fase eroica del liberismo economico con il modo in cui esso si è concretamente realizzato.
Non solo quello che chiamiamo neoliberismo — sia nella sua versione austriaca alla Hayek sia in quella anglosassone alla Friedman — non ha mai immaginato di fare a meno dello Stato, ma ha prodotto esso stesso una pratica di governo. Come ha spiegato per primo Foucault nei suoi corsi ad essa dedicati, quella neoliberale è una razionalità eminentemente governamentale, volta alla direzione delle condotte degli uomini attraverso precise norme comportamentali. Anche secondo Greta Krippner (Capitalizing on crisis. Political origins of the rise of finance, Harvard University Press 2012) non sono i mercati ad aver conquistato dall’interno gli Stati, ma gli Stati ad aver introdotto il modello concorrenziale dell’impresa in tutte le dinamiche sociali. Da un lato il soggetto individuale è portato a vedere in se stesso un capitale umano; dall’altro gli Stati competono tra loro nell’attrarre gli investimenti delle multinazionali abbassando i livelli dei salari e della previdenza sociale.
Ciò — l’estendersi della competitività a principio generale di governo — spiega non soltanto la corsa, apparentemente suicida, alle politiche dell’austerità, ma anche loro accettazione rassegnata da parte dei Paesi che più ne hanno pagato le conseguenze, come la Grecia e il Portogallo. È l’esito del consenso creato dal governo neoliberista. Esso, tutt’altro che ridursi alla contestazione delle regole esistenti, è produzione attiva di norme di vita sul piano giuridico, etico e, prima ancora, antropologico. Nel giro di pochi decenni l’intera società ne è stata plasmata in una forma talmente generalizzata da non essere avvertita in quanto tale. Oggi tutti
i rapporti, con gli altri e perfino con se stessi, sono orientati al principio mercantile del guadagno. Così, piuttosto che semplice modello economico, il neoliberalismo si configura come l’insieme degli atti e dei discorsi che governano gli uomini secondo il principio della loro concorrenza. Naturalmente se tale modello appare insuperabile quando l’economia tira, dimostra tutta la sua debolezza quando le cose cominciano a non funzionare. C’è un limite oltre il quale la forbice tra coloro che diventano sempre più ricchi e coloro che diventano sempre più poveri si divarica al punto di rompere la macchina del consenso sociale. In questo caso quella che ancora definiamo crisi monetaria assume i caratteri di una vera e propria crisi sistemica che coinvolge l’intero orizzonte dei rapporti umani.
Come contrastare questo stato di cose? Non sono pochi gli storici che ci ricordano come le grandi crisi abbiano sempre stimolato grandi idee. Come dopo il crack del 1929 è stato inventato il New Deal e il Welfare, così dal buco nero che si è aperto cinque anni orsono vanno nascendo nuove concezioni. Se economisti come Krugman, Stiglitz, Fitoussi, Boeri ritengono sbagliato pensare di ripianare i deficit pubblici a colpi di tagli della spesa sociale, altri arrivano a rovesciare radicalmente la prospettiva dell’austerity. Per esempio James W. Galbraith arriva ad assegnare un ruolo produttivo al debito pubblico, se finanziato da banche centrali disposte a comprare senza limiti i titoli di Stato emessi dai rispettivi governi. Ciò che tale concezione — derivata dalla modern monetary theory — manda in mille pezzi è la pretesa di un’impostazione economica, sposata da molti governi europei, che si presenta con la dogmaticità di una nuova religione. Nel suo libro sul nuovo banditismo bancario (Banchieri,Mondadori 2013), Federico Rampini richiama quanto sostenuto dal filosofo Michael Sandel nel saggio Quello che i soldi non possono comprare, tradotto da Feltrinelli. Oggi la discussione sui danni sociali dell’alta finanza è circoscritta entro limiti troppo angusti.
Quando si associa l’idea di mercato non solo a quella di benessere, ma anche a quella di libertà, non ci si accorge di rimanere subalterni al sistema di pensiero che ha prodotto la crisi. Criticare l’austerità perché crea più problemi di quanti ne risolva è giusto, ma non basta. Se non si aggiunge che essa tende a corrodere gli spazi pubblici e le basi delle istituzioni democratiche. Il punto che resta opaco è la differenza che passa tra la “governamentalità” neoliberale e la politica nel significato più intenso dell’espressione. Fare politica non vuol dire solo amministrare nella maniera più rimunerativa ciò che esiste, ma anche volgere lo sguardo alle possibilità contenute nel nostro futuro.

A proposito dell’ultimo libro dello storico Guido Crainz,
Diario di un naufragio (Donzelli). Con la limpida narrazione di «un ventennio tra i fallimenti della sinistra e l’avanzata del populismo» arriva fino ai nostri giorni il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. L’Unità, 18 dicembre 2013
La cronaca degli ultimi dieci anni potrebbe aprirsi sulla scena di piazza Navona, nel febbraio del 2002, quando con un colpo di teatro Nanni Moretti scosse una manifestazione dell’Ulivo al grido: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». Il Pd, sopravvissuto a quell’esperienza, sopravvissuto a sconfitte elettorali, vivendo i suoi momenti di gloria e le sue crisi identitarie, socialdemocratico, neoliberista, chissà che, ha dismesso quei dirigenti e ne sta, in questi giorni, cercando altri. Nuovi? Reduci della passata politica? Innovatori autentici? Viene in mente il titolo di un film del ’68 di Lina Wertmüller: Riusciranno i nostri eroi... Altra epoca e le epoche contano. Altra epoca di contraddizioni feroci, ma anche di slanci libertari, democratici (di una democrazia che cercava nella sua imperfezione una propria via alla partecipazione contro i legacci e i limiti istituzionali), riformatori (dal divorzio al diritto di famiglia, dallo statuto dei lavoratori alla 180), altra epoca che si smarrì nei gioiosi anni 80 e nel ventennio berlusconiano. Resta l’interrogativo: riusciranno i nostri eroi?
Le ultime righe della cronaca che Guido Crainz, storico (si leggano i tre volumi che compongono il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, pubblicati da Donzelli), ricostruisce nel suo ultimo Diario di un naufragio (pagine 256, euro 19,50, Donzelli) mi sembrano attestino la difficoltà fino alla disperazione dell’impresa: eredità e detriti della stagione berlusconiana che gravano «come un macigno sulla nostra capacità politica di ricostruire il paese e di progettare». Ammettendo appunto che è impossibile ancora considerare per conclusa la «stagione berlusconiana»: conclusa, come si spera, magari sul terreno politico-elettorale, improbabile che lo sia sul piano della cultura profonda, del costume di un paese.
La critica al pd
Ma nel Diario di un naufragio colpiscono altre note: non tanto quelle che ci restituiscono alcuni diversi frammenti di una storia dell’antipolitica che va, nel dopoguerra, dal qualunquismo di Giannini al «nullismo» di Grillo, quanto quelle che riferiscono di una partecipazione al voto che tocca nel dopoguerra tetti inusuali, anche in Europa, scavalcando l’asticella del 90 per cento e che declina a partire dalle regionali del 1980 fino a precipitare senza sosta sotto la soglia del 50 per cento. Di fronte all’Italia che vota c’è un’altra Italia, ugualmente consistente, tanto varia da diventare inafferrabile: delusa, scoraggiata, indifferente o estranea alla politica, perché semplicemente pensa ad altro, un’altra Italia dentro la quale si è inabissata quella società civile, che ai tempi del «grido» di Nanni Moretti aveva illuso di rappresentare la chiave di volta di una resurrezione-rigenerazione del paese. Sistema politico e società civile capita che si dividano con pari dedizione le spoglie di pochi valori sopravvissuti e il peso o il vantaggio di tanti peccati (cominciando da una diffusa disponibilità alla corruzione e all’obnubilamento mediatico, al torpore di fronte alle più gravi accuse, minori e prostituzione e persino alle condanne). Quando, in un miracoloso travaso, grazie ad esempio al tragico Grillo, la società civile non si è riversata nel sistema politico, dimostrando adattabilità e nessuna difficoltà ad apprendere. Come se la «mutazione», si fosse del tutto compiuta, senza scampo.
La malattia del belpaese
Il Diario di Crainz mi pare dimentichi alcune «voci» nel repertorio dei protagonisti del naufragio, intanto gli intellettuali (un tramonto e basta) e poi la stampa italiana, pesantemente, malinconicamente in deficit di fronte a una missione che le spetterebbe per definizione: informare sullo stato del paese, sulle varie forme, politiche e sociali, in cui la malattia si manifesta, tralasciare le scritture consolatorie quando i buoi scappano, ignorare gli amori di Dudù per la barboncina bianca di Palazzo Grazioli quando in «terra dei fuochi» i bambini muoiono di cancro. Restituire davvero al Belpaese Benpensante l’immagine della tragedia che incombe, naufragio, terremoto, frana, allagamento o veleno, per mare e terra, politica e morale, immagine da fine del mondo. Non ci rimarrebbe una speranza in più se almeno un foglio, dalle tirature potenti, avesse rivendicato autonomia di fronte ai suoi padroni, avesse alzato qualche velo, sostenuto qualche battaglia (magari per difendere il semplice principio che la legge è uguale per tutti)?
Il mito degli italiani brava gente, come intuibile dopo l'emergere del razzismo con gli immigrati, non regge a un esame storico sul consenso alle leggi razziali fasciste. Recensione a un libro di M. Avagliano e M. Palmieri.
Corriere della Sera, 19 novembre 2013
Racconta Norberto Bobbio che durante la guerra a Padova, dove allora insegnava, nel bar che era solito frequentare apparve un avviso che proibiva l’ingresso agli ebrei: «“Adesso strappo quel cartello”, dissi fra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne avevo avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?».
Nel dopoguerra, per lungo tempo, l’inclinazione all’autoassoluzione da parte degli italiani, nel quadro più generale della «defascistizzazione» del Paese, attraverso la raffigurazione del regime fascista come dittatura da «operetta», ha portato all’errata conclusione che le leggi razziali fossero state disapprovate dai più e non fossero mai state davvero applicate, o quantomeno non in modo scrupoloso ed efficace. Così come nessuna colpa sarebbe imputabile agli italiani per la drammatica efficacia della Shoah nella penisola, con oltre 7.500 vittime. È molto diversa la conclusione cui giunge la ricerca di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolata Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini & Castoldi), che esce oggi in libreria, proprio nei giorni in cui cade il 75° anniversario della promulgazione dei provvedimenti antiebraici.
I due autori hanno scandagliato le relazioni dei fiduciari della polizia politica e del Minculpop, delle spie dell’Ovra, dei prefetti e dei funzionari del Pnf sullo «spirito pubblico», oltre agli atti e alla corrispondenza dei burocrati locali e ai diari e alle lettere dei protagonisti dell’epoca. Il risultato è una cronaca impietosa, una sorta di «romanzo criminale» dell’antisemitismo italiano. Una sequela di documenti, prese di posizione, episodi razzisti, che definitivamente oscura quel mito degli «italiani brava gente» in cui per tanti decenni ci siamo riconosciuti per non fare i conti con le pagine nere della nostra storia.
Dal caleidoscopio delle reazioni della popolazione nel periodo 1938-1943, analizzato da Avagliano e Palmieri in pagine emozionanti, che colpiscono e indignano, risulta che gli italiani di «razza ariana» assistettero o presero parte all’antisemitismo di Stato in vario modo: quali persecutori, propagandisti, teorici, complici, delatori, profittatori, spettatori più o meno indifferenti (la categoria dei bystanders , per utilizzare l’espressione di Raul Hilberg, uno dei massimi studiosi della Shoah) e, in misura minoritaria, come oppositori o solidali (in alcuni casi potremmo dire Giusti).
Soprattutto all’inizio, il tema delle leggi razziali, introdotte in Italia dal regime fascista tra il settembre e il novembre del 1938, non suscitò grandi passioni né forti dissensi. La cifra prevalente, guardando alla maggioranza della popolazione, fu senz’altro l’indifferenza. Ma, come scrivono i due autori, «il “non vedo, non sento e non parlo” praticato dalla maggioranza degli italiani non si può però valutare con il metro semplicistico della pusillanimità. Al dunque esso si tramutò in connivenza e adesione di fatto, poiché contribuì a realizzare l’obiettivo della persecuzione, vale a dire l’isolamento, la separazione e l’esclusione degli ebrei dal resto della società». Dopo una fase iniziale nella quale non mancarono dubbi, incomprensioni e critiche, sia pure sottovoce, che videro protagonisti diversi antifascisti (in particolare gli esuli in Francia), parte del clero e dei cattolici (tradizionalmente divisi tra una corrente filogiudaica e una antisemita) e le classi meno abbienti o meno istruite, il consenso verso la politica razziale del regime crebbe progressivamente presso tutti gli strati sociali e anche nel mondo cattolico di base.
In particolare il sentimento antigiudaico fece registrare un consistente incremento nei primi due anni di guerra, nei quali la propaganda fascista sull’ebreo «nemico dell’Italia» attecchì anche tra i ceti popolari, con diversi episodi di violenza fisica o verbale (ebrei picchiati, sinagoghe incendiate o distrutte, scritte e volantini di minaccia). Uno scenario che iniziò a mutare solo tra il 1942 e il 1943, quando il disastro bellico, le forti difficoltà economiche e la crisi del fascismo provocarono la messa in discussione di tutti gli architravi della politica del regime.
La grande cultura italiana del tempo reagì alle leggi razziali in preda a quella che Concetto Marchesi, nel gennaio 1945, sul primo numero di «Rinascita», definirà «libidine di assentimento». Fu quasi del tutto assente, tranne poche eccezioni (Benedetto Croce, Arturo Toscanini, l’economista Attilio Cabiati), una protesta visibile degli intellettuali. Anche gli editori, con la lodevole eccezione dei Laterza, epurarono i testi degli autori ebrei senza opporre resistenza. Avagliano e Palmieri pubblicano le lettere di giubilo inviate a Mussolini: «Caro Duce, il popolo italiano attende con spasimo atroce che venga definitivamente eliminata la stirpe ebraica dal sacro suolo della Patria», scrive a Mussolini un anonimo studente universitario. Aggiungendo: «In nome di tutti i nostri morti abbi il coraggio di imitare Hitler alla lettera e sino alla fine. eia! eia! eia! alalà!!!». Anche buona parte della burocrazia si distinse per la solerzia e la rigidità nell’applicazione delle misure razziali, spesso anticipandone o aggravandone gli effetti. «Potete intanto stare tranquillo — scrive ad esempio il podestà di un comune molisano scelto come località d’internamento al questore di Campobasso — che sappiamo con chi abbiamo a che fare, con gli ebrei! Razza maledetta». Nel settore economico, non mancarono i casi di sciacallaggio, di opportunismo, di speculazione, da parte di commercianti, industriali, imprenditori. Il veleno dell’antisemitismo, iniettato nel corpo della società italiana dalla virulenta propaganda fascista, colpì perfino i bambini, come attestano i numerosi episodi documentati nel libro.
Anche la Chiesa, dopo l’iniziale opposizione di papa Pio XI alla politica razzista del regime (e in particolare al divieto di matrimoni misti), mise il silenziatore alle critiche alle leggi razziali e anzi diversi cardinali o esponenti religiosi, come padre Agostino Gemelli, sposarono le misure antisemite del fascismo.
I percorsi della solidarietà furono limitati: alcuni acquistarono beni passibili di confisca a prezzi di mercato, senza approfittare della situazione, altri fecero da prestanome per consentire ai titolari ebrei di non perdere aziende ed esercizi commerciali, altri ancora scrissero lettere al re, al duce e a personaggi influenti del regime per chiedere una qualche forma di clemenza e mitigazione della persecuzione in favore di amici o conoscenti ebrei. Qualche parola di conforto — di «calda e piena manifestazione di solidarietà» e di «giustizia umana», come si legge in alcune lettere di perseguitati — fu comunicata a livello individuale e privato, possibilmente lontano da sguardi indiscreti. E ancora doveva arrivare la vergogna di Salò.
Due belle recensioni di un libro da leggere, per chi è interessato a un futuro della sinistra che non tradisca il suo passato, comprendendone le rgioni e le passionidal
Corriere della Sera (Paolo Franchi) e Huffington Post (Francesco Marchianò).12 novembre 2013
Corriere della sera
12 novembre 2013
Pci, 1966: l’errore di non scegliere nel duello tra Ingrao e Amendola
di Paolo Franchi
Un viaggio a ritroso nel tempo, per cercare di individuare le ragioni recenti e antiche di una sconfitta che, a sinistra, è prima di tutto la sconfitta della «generazione fortunata», che ha fatto in tempo a formarsi ai tempi della «grande politica» e poi, caduto il Muro, ha buttato al vento la sua occasione. La generazione, per intenderci, che per quarant’anni ha tenuto il campo, nel Pci, nel Pds, nel Pd: e che adesso non può, o almeno non dovrebbe, esimersi dal dovere di un rendiconto. A uso, se non altro, di chi oggi è ragazzo, o giù di lì.
Ce lo propone, questo viaggio, Walter Tocci, nel libro Sulle orme del gambero (Donzelli), un libro che interessa da vicino anche chi (è il mio caso) ne condivide solo in parte le tesi. Non è mai stato un leader, Tocci, ma la sua parte l’ha fatta, eccome, e continua a farla, da senatore e da segretario del Centro per la riforma dello Stato. I primi passi li ha mossi tra i metalmeccanici della Cisl, a Roma è stato prima un dirigente del Partito comunista nelle periferie, poi amministratore comunale e vicesindaco. Ma senza mai sottrarsi, anzi, a quello che un tempo si chiamava il lavoro culturale (in primo luogo sulle politiche urbane, i temi istituzionali, la scienza). E soprattutto senza mai smettere di interrogarsi, come si conviene a un ingraiano che alla scuola del «venerato maestro» ha appreso a coltivare il dubbio come metodo. Conclusa (malamente) la vicenda del Pci (lui era per il «no»), ha scelto, per usare la famosa espressione di Ingrao, di «restare nel gorgo», giungendo sino ad affidare le sue speranze, negli anni Novanta, all’Ulivo. Poi è andato avanti di delusione in delusione, di amarezza in amarezza, fino al 19 aprile del 2013: uno spartiacque (in questo è impossibile dargli torto), perché quei 101 franchi tiratori del Pd che impallinano Romano Prodi segnalano come la sinistra politica sia giunta «al minimo storico nella capacità di influenza sulla vita nazionale, come mai era accaduto, neppure nei momenti più difficili».
Il viaggio a ritroso dell’autore comincia da qui, e non c’è modo, in queste righe, di ripercorrerne criticamente le tappe. Ma il frangente storico in cui Tocci situa, non senza ardimento intellettuale, l’inizio di una lunga crisi, questo sì, è bene segnalarlo. Bisognerebbe risalire, addirittura, al 1966, a quell’XI congresso del Pci in cui, sostiene Tocci, vennero alla luce due diversi e opposti revisionismi post togliattiani, certo quello di sinistra, sconfitto, di Pietro Ingrao, ma pure, eccome, quello di destra, solo in parte vittorioso, di Giorgio Amendola, la cui eco si avverte ancora, nitidamente, in Giorgio Napolitano. La forma partito del Pci (ma forse, prima ancora, la forma mentis dei duellanti) impedì che prendessero corpo come due ipotesi strategiche alternative, destinate a combattersi o a trovare la via di un’inedita intesa: il partito restò sempre nelle mani di un centro che, per governarlo, si appoggiò ora sulla destra, come negli anni della solidarietà nazionale, ora sulla sinistra, come nell’ultima stagione di Enrico Berlinguer. Una formula che sembrava vincente, e invece condannò il Pci all’entropia, e impedì ai due revisionismi di crescere, dannando la sinistra all’astrattezza e la destra a un realismo destinato sovente a sconfinare nel moderatismo tout court .
La tesi, vale la pena di ripeterlo, è ardita, ma anche affascinante, e meritevole di riflessioni più approfondite. Così come varrebbe la pena di soffermarsi più attentamente su un’evidenza sempre sottaciuta, a lungo impensabile, e da Tocci enunciata con parole impietose: quel divorzio tra sinistra e popolo per cui «le persone più disagiate seguono la destra e guardano con diffidenza se non con disprezzo verso la sinistra, sempre più accasata nella neoborghesia urbana». Tocci prova a ragionarci su con passione fredda, sottraendosi ai luoghi comuni sul populismo e soprattutto restando a modo suo un militante in cerca di un filo che possa legare il passato, il presente e, perché no, il futuro. Si può dissentire da molte delle sue affermazioni. Ma, specie in tempi di politica usa e getta, già questo è un merito non da poco.
Huffington post
12 novembre 2'14
«Il mondo contemporaneo ci mette di fronte a un vero e proprio groviglio della paura, ed è questo groviglio che dovremmo iniziare a dipanare se vogliamo cercare di analizzare le cause, le conseguenze e i possibili sviluppi del malessere generalizzato che pare essersi impossessato delle società umane e minacciare il loro equilibrio».
La Repubblica, 14 novembre 2013
«Non abbiate paura!» dichiarò solennemente Giovanni Paolo II nel 1978 mentre saliva al soglio pontificio. E invitava l’umanità ad aprire «i confini degli Stati, i sistemi economici e quelli politici, gli immensi campi della cultura, della civiltà e dello sviluppo». Trent’anni più tardi, Romano Prodi, sul quotidiano La Croix,definirà «profetiche» queste parole, sottolineando come esse si rivolgano a un Occidente sempre più in preda alla paura.
L’aggettivo «profetico», utilizzato retrospettivamente, si applica più all’appello in sé che non al contenuto del messaggio. Poiché, se l’apertura annunciata o auspicata da Giovanni Paolo II è effettiva in ambito economico, e vi sancisce il trionfo del capitalismo finanziario più egemone, oggi servirebbe davvero molto ottimismo per scovare nel mondo i segni certi di una nuova primavera, magari araba. Più che mai, il mondo ha paura.
Il cambiamento di scala che riguarda la vita umana su tutto il pianeta è fondamentalmente economico e tecnologico: le innovazioni tecnologiche creano nuovi beni di consumo che, a loro volta, ricreano la domanda ed esigono nuove forme di organizzazione del lavoro. Il capitalismo è riuscito a creare un mercato che ha la stessa estensione della Terra. Le grandi aziende sfuggono alla logica dell’interesse nazionale. La logica finanziaria impone agli Stati le sue regole. E, all’improvviso, questo dominio è diventato così evidente da essere inappellabile, salvo i clamori delle manifestazioni di protesta che lo accompagnano senza produrre il minimo cambiamento. La lotta di classe c’è stata, ma la classe operaia l’ha persa. L’Internazionale trionfa, ma è capitalistica.
Al giorno d’oggi i vecchi sono piuttosto chiacchieroni, ed è Stéphane Hessel, nel 2010, a far eco al papa scomparso: «Indignatevi!». Questo secondo appello suona al contempo come una giustificazione del primo (l’indignazione è una forma sublimata di paura) e come la constatazione della sua sconfitta, visto che Stéphane Hessel denuncia sia il trattamento a cui sono sottoposti gli immigrati sia la dittatura dei mercati finanziari, l’aumento delle disuguaglianze e, in generale, gli aspetti perversi della globalizzazione capitalistica.
Non sarà che, oggi, la paura della vita abbia rimpiazzato la paura della morte? Se diamo un’occhiata alle notizie quotidiane, caratterizzate dall’incremento di violenze di ogni sorta, ricaviamo proprio questa impressione. Ma questa constatazione generale non deve spingerci a ignorare la diversità delle situazioni. A seconda delle regioni del mondo e dei regimi politici, a seconda dell’appartenenza etnica o sociale, dell’appartenenza a un sesso o a un altro, le ragioni per avere paura sono diverse, la morte è più o meno presente e la vita più o meno intollerabile. Ci sono paure da ricchi e paure da poveri, e queste rispettive paure incutono paura le une alle altre: paure delle paure, paure al quadrato in un certo senso. Gli occidentali non sfidano il mare su fragili imbarcazioni per fuggire dal loro continente mettendo a rischio la vita. Si accontentano di portare soccorso a qualche naufrago e di piangere i morti; per di più, i sopravvissuti occupano il loro spazio, sagome fantasmatiche venute da lontano e di cui non sanno come liberarsi.
Resta il fatto che un rapido inventario delle nuove paure umane ci obbliga a registrare l’incremento di forme di violenza relativamente inedite, ancor più significative per il fatto che ne sono esposti anche i paesi più ricchi dell’Occidente. Queste violenze possono essere distinte in tre categorie, a loro volta composite: le violenze economiche e sociali, specialmente nell’ambito dell’impresa, le violenze politiche (razzismo e terrorismo inclusi), e infine le violenze tecnologiche e quelle naturali, le seconde spesso scatenate o amplificate dalle prime. Queste tre forme di violenza generano paure specifiche: lo stress, il panico o l’angoscia, ma le paure, come le violenze, si sommano le une alle altre, si combinano e si influenzano l’un l’altra, a maggior ragione in un’epoca di diffusione accelerata di immagini e messaggi al pianeta intero. Nel complesso, si manifestano per l’ossessione dell’altro, confondendo ogni categoria di alterità, e per il timore del futuro. Ma questa ossessione e questo timore hanno molteplici componenti. Il mondo contemporaneo ci mette dunque di fronte a un vero e proprio groviglio della paura, ed è questo groviglio che dovremmo iniziare a dipanare se vogliamo cercare di analizzare le cause, le conseguenze e i possibili sviluppi del malessere generalizzato che pare essersi impossessato delle società umane e minacciare il loro equilibrio. [...] «Abbiate paura!», è stato questo l’avvertimento lanciato e reiterato da Bin Laden. Siamo ben lontani dall’aver dimenticato gli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno segnato simbolicamente la nostra entrata nel nuovo secolo. Non erano certo i primi della lunga lista di atti terroristici che, specialmente in Francia, nel corso degli ultimi trent’anni del Ventesimo secolo avevano creato un clima di insicurezza molto ansiogena. E non hanno neppure chiuso la lista
degli attentati suicidi che si perpetuano un po’ dappertutto sul pianeta. Ma se c’è un prima e un dopo l’11 settembre, così come c’è stato un prima e un dopo Hiroshima, non è soltanto perché questi attentati hanno rappresentato in modo spettacolare, per il numero e l’origine delle vittime (2.973 morti appartenenti a 93 paesi diversi), per la scelta degli obiettivi (il Pentagono, il World Trade Center) e dei mezzi (quattro aerei dirottati, 19 pirati sacrificati), un condensato delle follie e dei furori che minacciano il mondo, una sorta di globalizzazione del terrore; è anche perché hanno scatenato una forma di schizofrenia collettiva di cui non ci libereremo più.
È un double bind, un doppio vincolo, se si vuole, o meglio una doppia paura. Da un lato, nessuno avrebbe tollerato l’idea di rivedere un giorno delle immagini come quelle trasmesse e ritrasmesse dalle televisioni di tutto il mondo. Dall’altro, era difficile aderire senza riserve alla «guerra contro il terrore» decisa da George W. Bush contro l’Iraq, che, oltre al fatto che pareva aver sbagliato bersaglio, ufficializzava l’esistenza di una sorta di larvato conflitto mondiale di cui non erano perfettamente chiare né le ragioni né la posta in gioco. Non ne siamo ancora usciti e ci troviamo sempre di fronte a scenari tanto più sconcertanti quanto più i loro protagonisti cambiano volto e ruolo da un episodio all’altro: il fedele alleato della vigilia diventa l’insopportabile dittatore del giorno dopo, e i terroristi di ieri gli alleati responsabili di oggi.
Così come la mania di persecuzione colpisce generalmente quegli individui che hanno qualche buon motivo per sentirsi perseguitati, le paure che da qualche tempo ci incalzano hanno fondamenti oggettivi, e ciò le rende ancora più temibili: rischiano di essere cattive consigliere e possiamo paventare tanto le loro conseguenze quanto i fatti che le hanno scatenate. Il concatenamento delle paure è l’arma totale di ogni Terrore.