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Intervista a Gabriella Caramore, conduttrice di “Uomini e profeti” e autrice di un saggio (

Pazienza, il Mulino, Bologna 2014) sulla virtù più incompresa e inattuale: «Saper attendere è un atto politico». La Repubblica, 11 febbraio 2014

Voce tra le più amate e autorevoli della radio, Gabriella Caramore festeggia i vent’anni tondi di conduzione della trasmissione di cultura religiosa Uomini e profeti , una delle più scaricate sul podcast di RadioTre. Peccato soltanto che quell’autorevolezza conquistata sul campo, non trovi poi una congrua corrispondenza di ordine lavorativo: malgrado sia ormai in età di pensione, Caramore infatti continua ad essere una “precaria”, di nome e di fatto.

« Uomini e profeti non nasce con l’idea di andare contro qualcosa, o qualcuno. Però è animata dal desiderio di affrontare le tradizioni religiose con forte spirito critico. Vuole mettere in rilievo le contraddizioni, ma anche le potenzialità di intelligenza e libertà che emergono dai testi e che talvolta la costante tendenza al conformismo delle tradizioni tende a soffocare. Per questo occorre, rischiando anche di sbagliare, come tante volte mi è accaduto, giocare su una dinamica interpretativa: affrontando ad esempio i religiosi, che spesso si incatenano dentro uno schema rigido, secondo una prospettiva laica, e gli atei, talvolta un po’ puerili, secondo una prospettiva religiosa. È un modo diverso, mi sembra, per mettere il religioso a confronto con la complessità del nostro tempo».

Qual è il timbro più caratteristico della trasmissione?
«In primo luogo quello di far parlare in prima persona gli appartenenti a tradizioni diverse: cattolici di varia formazione, protestanti, ebrei, musulmani, buddisti, agnostici che non rifiutano il confronto con il religioso… Poi quello di prestare particolare attenzione alle Scritture, come è stato per il lungo ciclo dedicato alla lettura e commento della Bibbia. Inoltre, avere al fianco, come compagni di viaggio, teologi e studiosi come Paolo De Benedetti, Enzo Bianchi, Paolo Ricca, Salvatore Natoli, la teologa musulmana Shahrzad Houshmand, ma anche il profugo nigeriano, la dottoressa ucraina che da noi fa la badante, il carcerato... »

E dal punto di vista personale, che cosa ha rappresentato l’esperienza di un programma radiofonico che in un’epoca tutta schiacciata sul presente coltiva invece uno sguardo lungo, proiettato addirittura sull’eterno?
«Moltissimo. La possibilità di capire che dentro l’esperienza religiosa si annida un enorme potenziale di libertà. Oltre alla ricchezza degli incontri con gli ospiti, gli autori, un pubblico attento ed esigente».

Un certo vizio di andare controcorrente, comunque, lei non lo ha perso, come si evince leggendo il suo recentissimo libro sulla Pazienza ( Il Mulino), incentrato su una delle parole oggi più desuete.
«Per ragioni a tutti evidenti: la fretta, la velocità, l’ansia, la simultaneità delle nostre azioni. Ma credo che nella nostra cultura si debba aggiungere un’ulteriore ragione. Nella tradizione cristiana si è imposta un’idea della pazienza come sinonimo di patimento, sopportazione, mortificazione. È un’idea derivata da un’immagine riduttiva del Christus patiens , del Cristo in croce che poi si traduce nel più ordinario e fatalista “porta pazienza” del linguaggio quotidiano. Ma in questo modo si trascura un lato attivo della pazienza: il senso dell’attesa, della costruzione di futuro, di una fattiva speranza. Il Cristo patisce sì, ma non per amore gratuito della sofferenza. Lui non vuole morire in croce, in croce ce lo mettono! Oltre al fatto che spesso la sua parola ha un andamento irrequieto, un’insofferenza rispetto alla pervicacia del male, un giudizio severo e non tollerante nei confronti di chi fa merce delle cose di Dio, e di chi ne fa strumento di potere».

In pagine molto belle lei mostra come senza pazienza non esisterebbero né arte, né pensiero, né legame amoroso.
«Il bambino che cresce ha bisogno di tempo, e dunque di pazienza. Ne hanno bisogno gli amanti, per custodire il loro sentimento. Ne ha bisogno l’albero, che aspetta la primavera e l’estate per i fiori e i frutti. Quanto noi possiamo fare è creare un ambiente favorevole a questa crescita paziente, grazie alla cura che poniamo nelle cose in cui siamo impegnati e all’attenzione verso le creature che ci circondano. In questo modo si rovescia anche l’idea di pazienza come regno del privato, del piccolo sé. E grazie alla cura dell’altro si attribuisce a quel termine tutto il suo valore etico, civile, religioso. Ma anche politico, direi».

Del resto, anche i due miti fondativi della nostra tradizione, Ulisse e Mosè, conoscono - ciascuno a suo modo - la pazienza.
«Nel caso di Ulisse, la pazienza è un uso sapiente dell’intelligenza: tiene a freno le passioni in vista di uno scopo. Anche le figure che lo circondano nell’ultimo atto della sua vicenda, da Penelope alla nutrice al servo al cane, sono figure che trattengono l’impeto per noncompromettere il risultato».

Quanto invece a Mosè?
«Si parla sempre della pazienza di Giobbe, ma quella di Mosè non è da meno. Ed è una pazienza tutta legata all’amore per l’altro, alla sorte della sua gente. In verità Mosè comincia con un gesto di impazienza, uccidendo un egiziano che colpiva un ebreo, ma poi pian piano impara. Assume il suo destino di fuggiasco, acconsente alla chiamata del Signore. E sopporta l’impazienza del suo popolo, che durante la traversata del deserto rimpiange il tempo della schiavitù, perché alla fin fine è sempre più comoda la schiavitù della libertà. Infine, con pazienza, Mosè accoglie la sua morte da esule. Non è per sé che Mosè spera, ma per gli altri: forse la più bella immagine di cura che sia stata tramandata».

Un’ultima domanda, brusca e inevitabile, che si saranno posti anche tanti suoi ascoltatori. Lei crede in Dio?
«Per la verità non mi pongo tanto il problema. Non so chi sia Dio. Tutte le tradizioni ci raccontano tante cose di Dio, compresa quella biblica, per la quale il volto di Dio non si può vedere, il suo nome non si può pronunciare. È vero però che gli esseri umani hanno dato questo nome alla ricerca di qualcosa che va al di là della conoscenza umana, e che nello stesso tempo suggerisce al cammino dell’uomo un possibile orientamento in cerca del bene, della libertà, della giustizia. Il deposito di questa ricerca, presente nel racconto di Dio lasciatoci dalle diverse tradizioni religiose, è talmente imponente che non può non interessare anche gli atei e gli agnostici. L’idea di Dio come “invenzione” degli uomini mi sembra un po’ infantile. Non si tratta di un’invenzione, semmai di una “scoperta” della possibilità di vivere umanamente sulla terra, e della necessità di continuare sempre sulla via della conoscenza».

«Piketty riporta al centro del dibattito il tema della disuguaglianza. E di come questa si perpetua di generazione in generazione, con un capitalismo patrimoniale che si fonda sull’accumulazione, da parte di pochi, di rendite dovute a beni ereditati. Classe media in declino e freni alla crescita».

Lavoce.info, 6 agosto 2014 (m.p.r.)

Un'analisi della disuguaglianza. Capital in the Twenty-First Century di Thomas Piketty è un contributo importante al pensiero economico. Riporta al centro del dibattito economico e politico il tema della diseguaglianza e della sua perpetuazione tra generazioni attraverso la trasmissione ereditaria delle diverse forme di capitale fisico, finanziario e umano, in una impostazione che può essere definita “classica”. L’analisi di Piketty è rivolta a spiegare il ruolo dell’accumulazione di capitale e della distribuzione del reddito sul e nel processo di crescita dell’economia. L’esito distributivo viene ricondotto a un conflitto tra categorie di percettori, più numerose ed eterogenee rispetto a quelle prese in considerazione da Ricardo o Marx.

Non solo i lavoratori si contrappongono ai percettori di redditi da capitale e di rendite ma, all’interno di questa categoria, si distinguono i percettori di rendite finanziarie rispetto a quelli da proprietà immobiliare. Si deve a Piketty l’avere sviluppato, insieme a due colleghi (Anthony Atkinson a Cambridge ed Emmanuel Saez a Berkeley) una metodologia per ricostruire il livello di diseguaglianza nella distribuzione non solo dei redditi, ma anche della ricchezza nel lungo periodo, tanto in quei paesi occidentali dove esiste da tempo un’imposta personale sui redditi, quanto in Cina, in India e in molte nazioni dell’America latina. Raramente, in precedenza, l’analisi della diseguaglianza era stata effettuata nel lungo periodo: anche quando lo si era preso in considerazione, le stime della diseguaglianza riguardavano infatti solo i redditi, e quasi mai la ricchezza.

Il conflitto distributivo appare a Piketty particolarmente rilevante quanto ci si riferisce all’1 per cento più ricco. L’attenzione per tali percettori è un fenomeno molto recente. Per effettuare questa analisi è necessario infatti adottare specifici metodi di stima, condizionati dalle differenze fra i regimi fiscali e fra i tassi di evasione. In particolare, occorre risolvere problemi di comparabilità tra paesi, con particolare riferimento alla stima dei redditi finanziari.

L’analisi di Piketty mostra come i redditi più elevati costituiscano una quota significativa del reddito nazionale e del totale delle entrate fiscali, anche se i rispettivi percettori rappresentano una percentuale molto modesta della popolazione. Il gruppo dell’1 per cento più ricco non comprende d’altra parte solo percettori di redditi da capitale, ma anche di redditi da lavoro. Tra le possibili spiegazioni della crescita dei redditi più elevati si deve annoverare, dunque, anche il funzionamento del mercato internazionale del lavoro. I compensi più alti di alcune categorie di lavoratori come i manager e le cosiddette “superstar”, sono fissati dalle stesse categorie manageriali sulla base di criteri molto diversi da quelli prevalenti nel mercato del lavoro.
Negli Stati Uniti (definito paese a diseguaglianza elevata) il reddito disponibile dell’1 per cento più ricco della popolazione è stato stimato, nel 2010, pari a ben il 20 per cento del totale (dati pubblicati dal Congressional Budget Office) essendo cresciuto tra il 2009 e il 2010 con una velocità ben superiore a quella di qualsiasi altro gruppo. In parallelo all’arricchimento progressivo dell’ultimo percentile, si è ridotto il peso della classe “media” (definita come quella che corrisponde al secondo, terzo, e quarto “quintile”, complessivamente al 60 per cento dei percettori): ha ricevuto, nel 2012, una quota pari al solo 45,7 per cento.

Quando il passato divora il futuro. In un sistema caratterizzato da quello che Piketty definisce il capitalismo patrimoniale», fondato sull’accumulazione, da parte di pochi, di redditi costituiti da rendite improduttive, e cioè provenienti da beni ereditati piuttosto che da beni accumulati con il risparmio originato dai redditi da lavoro, il passato divora il futuro». Se il processo di crescita del prodotto netto rallenta a causa di fattori esogeni (demografici o tecnologici) e il capitale cresce più rapidamente del reddito nazionale, i redditi da capitale assumono un’importanza sempre maggiore rispetto ai redditi da lavoro.

Non solo aumenta la diseguaglianza, ma si innesta un circolo vizioso tra diseguaglianza e crescita. L’accesso ai gradi più elevati dell’istruzione è infatti costoso e le categorie più povere, ma oggi anche gran parte della “classe media”, ne vengono escluse, provocando un impoverimento del capitale umano. Piketty documenta come per circa un trentennio, dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta (la cosiddetta “golden age”), il rapido processo di industrializzazione, insieme a politiche fiscali e di spesa pubblica progressive, abbia favorito la crescita della classe media, il consolidamento della democrazia e una crescita elevata in tutti gli Stati occidentali. Questa fase si è invertita a partire dalla fine dello scorso secolo. In parallelo all’aumento della diseguaglianza si è osservato un rallentamento della crescita, se non un vero e proprio declino, almeno in alcuni paesi. Secondo Piketty, tuttavia, un aumento della diseguaglianza finisce con il frenare la crescita anziché stimolarla.

La pubblicazione di Il Capitale nel XXI secolo è stata accolta da recensioni molto positive su numerosi quotidiani e settimanali. Recentemente, tuttavia, sono apparse alcune critiche, sollecitate da un intervento di Chris Giles, responsabile della parte economica del Financial Times, circa l’attendibilità delle fonti dei dati nonché della correttezza di alcune stime. I rilievi critici sono stati seguiti da altrettanto numerosi articoli in difesa di Piketty. Lo stesso Piketty ha risposto sottolineando come le analisi delle relazioni tra diseguaglianza e crescita, pur basate su di un’abbondante evidenza empirica, non possano che essere il risultato di un’inferenza imperfetta, dal momento che appartengono all’ambito delle scienze sociali.

Piketty, T. Capital in the Twenty-First Century, Cambridge, MA.: Belknap Press, Harvard University Press, april 2014, pagg. 696.

«Il nuovo libro di Alberto Burgio analizza gli scritti dell’intellettuale e dirigente comunista dal periodo torinese ai

Quaderni dal carcere. Un’opera presentata però come un sistema unitario, mettendo così in secondo piano le discontinuità interne che la caratterizzano». Il manifesto, 3 agosto 2014

Dopo Gram­sci sto­rico (2003) e Per Gram­sci (2012), Alberto Bur­gio torna sul mar­xi­sta e comu­ni­sta sardo con un volume cor­poso e denso, punto di arrivo di un lungo lavoro di scavo e rifles­sione. In Gram­sci. Il sistema in movi­mento (Deri­veAp­prodi, pp. 489, euro 27) ven­gono river­sati studi già noti, ma molto mate­riale è aggiunto, e il tutto è rior­di­nato al fine di rico­struire l’insieme della rifles­sione gram­sciana, dagli anni tori­nesi a quelli del car­cere. Un con­tri­buto di grande ric­chezza, che pre­senta però anche tratti pro­ble­ma­tici, che meri­tano di essere quanto meno indi­cati e, per quel che è qui pos­si­bile, discussi.

La cifra di fondo della rico­stru­zione di Bur­gio è quella dell’unitarietà e della con­ti­nuità: per ciò che con­cerne il pen­siero di Gram­sci, ma anche i legami tra que­sto e i punti di ispi­ra­zione prin­ci­pali, indi­vi­duati in Hegel e Marx, Labriola e Lenin. Un Gram­sci hegelo-marxista-leninista, per cui fon­da­men­tale fin dagli anni gio­va­nili è la «presa di coscienza» e la com­pren­sione di una «neces­sità» non fata­li­stica ope­rante nella sto­ria.
Un pen­siero non esente da svol­gi­menti, ma uni­ta­rio e orga­nico. Le idee-forza del «sistema» gram­sciano per­man­gono lungo tutto l’arco della rifles­sione di que­sto autore. Sistema, per­ché inter­na­mente coe­rente, anche se non sta­tico, per i muta­menti radi­cali che segnano gli anni con­si­de­rati. L’opera gram­sciana è per Bur­gio «uni­ta­ria, ben­ché incom­piuta, e siste­ma­tica nelle inten­zioni del suo autore, il quale con­ce­pi­sce la real­tàe la sto­ria come una tota­lità». Lo svi­luppo sto­rico è «un pro­cesso uni­ta­rio rela­ti­va­mente coe­rente e dotato di senso», «suscet­ti­bile di pre­vi­sioni e anti­ci­pa­zioni da parte del sog­getto rivo­lu­zio­na­rio»: alla teo­ria spetta «l’onere di resti­tuirne una rap­pre­sen­ta­zione organica».
Problemi di metodo. Si impone su que­ste tesi una prima rifles­sione. Di con­tro a un certo uso post-moderno di un pen­sa­tore adat­tato a tutte le biso­gne, fino a dimen­ti­carne o a tra­dirne il qua­dro di rife­ri­mento com­ples­sivo (il mar­xi­smo) e le fina­lità (rivo­lu­zio­na­rie), è ben com­pren­si­bile che Bur­gio fac­cia oppo­si­zione. Ci si chiede però se que­sta inten­zione di fedeltà a Gram­sci, alla sua pro­ble­ma­tica e alle sue moti­va­zioni siaper­se­gui­bile facen­done l’autore di un sistema com­piuto. Non va così persa pro­prio la dimen­sione poli­tica e mili­tante del suo pen­siero, anco­rata alla prassi e alle sue ine­vi­ta­bili discon­ti­nuità? E non si fini­sce per tra­scu­rare – in que­sto con­ti­nui­smo teo­rico tutto interno al mar­xi­smo – «fonti» ugual­mente impor­tanti?
Non che gli autori citati non siano fon­da­men­tali per Gram­sci, tutt’altro. Biso­gne­rebbe però stare attenti a non dimen­ti­care la più vasta com­ples­sità della sua for­ma­zione, l’ampio arco di fat­tori (ad esem­pio, la cul­tura fran­cese) che, nel clima della rea­zione al posi­ti­vi­smo, con­tri­bui­rono alla sua ori­gi­na­lità e che rie­mer­gono (basti pen­sare a Sorel) negli scritti del car­cere. Spin­gere troppo sul tasto della con­ti­nuità rischia di offu­scare que­sto ele­mento cru­ciale, di lasciare in ombra come – accanto a pro­ble­ma­ti­che costanti e anche al ritorno, nei Qua­derni, di alcuni ori­gi­nali tratti gio­va­nili – sus­si­stano discon­ti­nuità dovute ad esem­pio al ruolo di dire­zione poli­tica eser­ci­tato negli anni Venti. Momenti di vera e pro­pria svolta (ad esem­pio su Bene­detto Croce, per citare un caso ecla­tante) vi sono nella rifles­sione car­ce­ra­ria: fat­tori che si rischia di sot­to­va­lu­tare con un tale impianto di metodo.
Contro il canone dominante. Mi rife­ri­sco anche alla pole­mica – a volte espli­cita, pur se accom­pa­gnata da qual­che pru­denza – che Bur­gio sol­leva verso il canone pre­va­lente negli ultimi lustri di studi gram­sciani in Ita­lia, quella nuova atten­zione ai testi e alla loro sto­ria, al rap­porto tra ela­bo­ra­zione a bat­ta­glia poli­tica, nata a par­tire dall’opera filo­lo­gica di Valen­tino Ger­ra­tana e poi dal lavoro di Gianni Fran­cioni. Mi sem­bra che Bur­gio nutra verso que­sto che con­si­dera un eccesso di filo­lo­gi­smo una pre­oc­cu­pa­zione in qual­che modo «poli­tica»: il fatto cioè che nella filo­lo­gia si perda la «filo­lo­gia vivente». Egli giunge ad affer­mare che il «feti­ci­smo dei testi» impe­di­sce di com­pren­dere lo spi­rito gram­sciano, da cogliere anche con­tro la let­tera dei testi.
Capi­sco la pre­oc­cu­pa­zione, ma credo non solo che la sfida filo­lo­gica vada accet­tata, ma che que­sto nuovo modo di leg­gere Gram­sci sia foriero di svi­luppi posi­tivi nella com­pren­sione della let­tera e dello spi­rito dei suoi scritti (e in caso con­tra­rio, si apre la strada a chi vede nel comu­ni­sta sardo soprat­tutto un «pro­fes­sore», non un mili­tante rivo­lu­zio­na­rio).
Bur­gio non è por­tato a leg­gere la rifles­sione gram­sciana legan­dola al suo con­te­sto per­ché vede in essa una for­tis­sima con­ti­nuità. Ciò lo con­duce, ad esem­pio, a citare di seguito, quasi si trat­tasse di un unico libro, affer­ma­zioni tratte dagli scritti del dopo­guerra come dai Qua­derni come dalle rifles­sioni del Gram­sci diri­gente di par­tito. In que­sto modo si met­tono in evi­denza indub­bie asso­nanze, ma si rischia che vada persa pro­prio la leni­niana «ana­lisi con­creta della situa­zione con­creta», che Gram­sci pone alla base di tutta la sua rifles­sione. Senza il pun­tuale rife­ri­mento alla bio­gra­fia poli­tica del comu­ni­sta sardo l’affermazione per cui «le prin­ci­pali cate­go­rie e l’assetto gene­rale del mar­xi­smo di Gram­sci ci paiono rima­nere inal­te­rati» resta indimostrata.
La relazione egemonica.Pur con tali per­ples­sità, il libro è di grande ric­chezza. Non potendo accen­nare a tutti i temi in esso svi­lup­pati (dalla teo­ria della crisi alla con­ce­zione dello Stato, dall’ideologia all’americanismo, dal cesa­ri­smo all’analisi del fasci­smo, alla sto­ria degli intel­let­tuali ita­liani, e altri ancora), ne ricordo solo due fon­da­men­tali. Penso alle pagine sull’egemonia, dove l’autore evi­den­zia come essa non abbia una dimen­sione solo discor­siva e cogni­tiva poi­ché anche i pro­cessi pro­dut­tivi, per Gram­sci, «fun­gono da vet­tore» del discorso ege­mo­nico. L’organizzazione di fab­brica e l’organizzazione della vita eco­no­mica sono anzi uno dei prin­ci­pali canali dell’egemonia (non a caso il con­senso che per­mette la Grande Rivo­lu­zione viene non solo dall’illuminismo, ma anche dal fatto che la bor­ghe­sia ha creato nuovi rap­porti pro­dut­tivi e pro­prie­tari).
Bur­gio indaga la com­ples­sità dell’egemonia, ne mette in rilievo l’ambiguità: il potere, ogni potere, ha biso­gno di con­senso, ma la rela­zione ege­mo­nica è asim­me­trica, uno dei due poli ingloba i rap­porti di forza esi­stenti a suo van­tag­gio. Anche per que­sto, forza e con­senso sono un insieme ine­stri­ca­bile. Ed è costante la oscil­la­zione – nella realtà come nelle pagine gram­sciane – tra il con­senso con­sa­pe­vole e quello otte­nuto gra­zie all’abilità pro­pa­gan­di­stica e orga­niz­za­tiva dei domi­nanti. Non solo. L’ambiguità dell’egemonia viene letta da Bur­gio anche in un’altra più posi­tiva dire­zione: la dina­mica ege­mo­nica apre spazi alla cre­scita della sog­get­ti­vità subal­terna, la sua stessa asim­me­tria per­mette all’egemonizzato di cre­scere, con­tiene poten­zia­lità critiche.
La rivoluzione passiva. Anche le pagine sulla rivo­lu­zione pas­siva sono di grande inte­resse, soprat­tutto per l’analisi delle dif­fe­renze tra le rivo­lu­zioni pas­sive del Nove­cento e quelle pre­ce­denti. Que­ste ultime appa­iono vere rivo­lu­zioni, cam­bia­menti che segnano una tran­si­zione sto­rica. Non così le rivo­lu­zioni pas­sive del secolo scorso, fasci­smo e ame­ri­ca­ni­smo, che per­met­tono al capi­ta­li­smo solo di con­ti­nuare a durare, e al mas­simo con­ser­vano l’esistente. Per­ché allora Gram­sci usa la stessa cate­go­ria per feno­meni tanto diversi? Per­ché gli inte­ressa, risponde Bur­gio, soprat­tutto lo sta­tuto delle «forze d’opposizione», che per la loro debo­lezza per­met­tono alla con­tro­parte di dirigere-gestire le situa­zioni di crisi orga­nica. E per­ché da pro­cessi simili sor­ti­scono esiti così dif­fe­renti? Per­ché nella crisi orga­nica che pre­para l’avvento al potere della bor­ghe­sia le forze in campo erano tre (ari­sto­cra­zia, bor­ghe­sia, classi popo­lari), in quella del secolo scorso le «classi fon­da­men­tali» sono solo due. Dun­que il con­flitto è «irri­du­ci­bile» e «i com­pro­messi pos­si­bili tra capi­tale e lavoro pos­sono avere tutt’al più il carat­tere di tre­gue nel qua­dro di un con­flitto strut­tu­rale».
Molti altri punti andreb­bero messi in rilievo: in pri­mis, la cri­tica della demo­cra­zia par­la­men­tare avan­zata negli anni dell’Ordine Nuovo e rin­no­vata nei Qua­derni, anche per l’influenza rile­vante – con­cordo pie­na­mente con Bur­gio – che su Gram­sci ha l’elitismo, teo­ria con­ser­va­trice avver­sata ma assor­bita per molti aspetti. Il libro offre in gene­rale mol­tis­simi spunti di rifles­sione: di que­sto innan­zi­tutto va reso merito all’autore.
Marx, Il comunismo e la lotta di classe raccontati da Gérard Thomas. «I bam­bini capi­ta­li­sti quando nascono sono dei bam­bini uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bam­bini capi­ta­li­sti».

Il manifesto, 15 luglio 2014
«I bam­bini capi­ta­li­sti quando nascono sono dei bam­bini uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bam­bini capi­ta­li­sti. E non lo sono nem­meno nei pri­mis­simi anni della loro vita. Poi a un certo punto suc­cede qual­cosa nella loro testa e invece di con­ti­nuare ad essere bam­bini uguali a tutti gli altri diven­tano dei bam­bini capi­ta­li­sti».

L’incipit del for­tu­na­tis­simo libro, uscito per le edi­zioni Cli­chy, di Gérard Tho­mas —Il comu­ni­smo spie­gato ai bam­bini capi­ta­li­sti (e a tutti quelli che lo vogliono cono­scere) - già autore di culto in Fran­cia, annun­cia subito al let­tore la domanda prin­ci­pale del rac­conto: per­ché, ad un certo punto delle nostre vite di bam­bini, accade qual­cosa che ci tra­sforma in capi­ta­li­sti, segnan­doci per sem­pre.
Il rac­conto è il terzo lavoro di que­sto eccen­trico scrit­tore, dopo Come si diventa pre­si­dente (2002) e L’anarchia è una cosa sem­plice (2007); da anni vive nelle Isole Mar­chesi, dove si dedica alla pas­sione per l’apicultura, acco­mu­nata dal desi­de­rio di ren­dere acces­si­bili alcuni con­cetti poli­tici, spesso molto com­plessi. Non si tratta ovvia­mente di una summa gene­ra­liz­zante o super­fi­ciale, né di una strin­gata sin­tesi di fatti e cro­na­che. Il sot­to­ti­tolo, «e a tutti quelli che lo vogliono cono­scere», spiega che non è solo let­tura per ado­le­scenti, ma inve­sti­ga­zione sto­rica adatta anche ad un pub­blico adulto. Aspet­tarsi una lezione fin troppo sem­plice, od una espo­si­zione fia­be­sca dell’idea di comu­ni­smo, sarebbe quindi un errore mador­nale, vista la peri­zia con cui si riporta la sto­ria delle idee socia­li­ste e le vicende cor­re­late.
Il rac­conto, un vero e pro­prio viag­gio, parte dall’incontro con gli uomini pri­mi­tivi, poi via per le città di Ur e Naza­reth, fino a Parigi, Lon­dra, la Cina, e spiega l’illuminismo, la Rivo­lu­zione fran­cese e russa, l’incredibile sto­ria della Comune, il Ses­san­totto ecc.
Alcuni per­so­naggi e fatti sono rac­con­tati con più inten­sità rispetto ad altri, per­ché pos­sono inse­gnare ancora molto a pro­po­sito di quanto accade nelle nostre vite. Quando si parla dell’«esercito di riserva» dei disoc­cu­pati, per esem­pio, Tho­mas, ana­liz­zando le idee di Marx, assolve per­fet­ta­mente il suo com­pito di divul­ga­tore: «Per risol­vere que­sto pro­blema dei capi­ta­li­sti (l’accumulo di plu­sva­lore) diventa essen­ziale la pre­senza di un gran numero di disoc­cu­pati, che ali­men­tano la con­cor­renza fra gli ope­rai garan­tendo un basso livello dei salari e una insita debo­lezza della classe ope­raia, che avendo accanto a sé per­sone tal­mente povere e dispe­rate da accet­tare qual­siasi lavoro e qual­siasi sala­rio, sono costrette a mode­rare le loro richie­ste e le loro riven­di­ca­zioni per non per­dere il loro lavoro».
Una storia non negata

Apprez­zato in patria, Tho­mas ha anche rice­vuto delle cri­ti­che. L’accusa più pesante è stata voler omet­tere gli orrori e gli eccessi che il socia­li­smo reale ha pro­dotto in alcuni casi della sua sto­ria. Tesi curiosa, per­ché l’autore non rinun­cia mai a bia­si­mare i cri­mini com­messi da Pol Pot in Cam­bo­gia, o l’accentramento buro­cra­tico e auto­ri­ta­rio avve­nuto in dif­fe­renti periodi della sto­ria sovie­tica. Ciò che non gli si per­dona, pre­su­mi­bil­mente, è l’aver trac­ciato con estrema cor­ret­tezza e one­stà la linea divi­so­ria tra respon­sa­bi­lità indi­vi­duali e teo­ria poli­tica, fra aspi­ra­zione alla giu­sti­zia e sua rea­liz­za­zione ter­rena. È in que­sta distin­zione che si coglie la forza per­sua­siva del libro, e si arriva alla rispo­sta del que­sito ini­ziale.

Comu­ni­smo è cer­ta­mente sto­ria e rac­conto di quella stessa sto­ria, ma soprat­tutto la ten­sione costante di una uma­nità, fin dai pri­mordi, intenta a can­cel­lare la pre­va­ri­ca­zione dell’uomo sull’uomo, assente quando si è bam­bini, e poi schiac­ciante quanto si entra nella società dei con­sumi e del denaro.
Il comu­ni­smo, per Tho­mas, così ci con­fida nelle pagine finali del testo, oltre a essere un evento epo­cale, è soprat­tutto l’esigenza eterna di affer­mare che «tutti gli esseri umani sono uguali, tutti gli esseri umani hanno gli stessi diritti, nes­sun essere umano può sfrut­tare altri essere umani, tutti gli esseri umani devono avere le stesse pos­si­bi­lità. E soprat­tutto, tutti gli esseri umani hanno il diritto di essere felici». Quella feli­cità, per l’appunto, che ci accom­pa­gna da bam­bini, e che un giorno ci abban­dona, lasciando un per­si­stente sen­ti­mento di melanconia.
Ricorre l’8 luglio, l’anniversario della nascita di Ernst Bloch, il grande filosofo della speranza, dell’utopia e della liberazione umana qui e ora. Lo ricordiamo con questa nota di Peppe Sini, Comune.info, 8 luglio 2014

Anche se la speranza non fa altro che sormontare l’orizzonte, mentre solo la conoscenza del reale tramite la prassi lo sposta in avanti saldamente, è pur sempre essa e soltanto essa che fa conquistare l’incoraggiante e consolante comprensione del mondo, a cui essa conduce, come la più salda ed insieme la più tendenzialmente concreta. [...] L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. [...] Contro l’aspettare è d’aiuto lo sperare. Ma non ci si deve solo nutrire di speranza, bisogna anche trovare in essa qualcosa da cucinare. [...] L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà; la possibilità reale circonda fino alla fine le tendenze-latenze dialettiche aperte, l’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione

Ernst Bloch (Ludwigshafen, 8 luglio 1885 – Tubinga, 4 agosto 1977) è il grande filosofo dello “spirito dell’utopia”, del “principio speranza”, dell’”ortopedia del camminare eretti” (per citare alcuni titoli ed espressioni delle sue opere che sono altrettante proposte di riflessione e di lotta per la dignità umana); la sua riflessione e la sua testimonianza (come quelle – ad un tempo in tensione dialettica e complementari – di Guenther Anders e di Hans Jonas, di Hannah Arendt e della scuola di Francoforte, delle opere più aggettanti di Karl Korsch e di Gyorgy Lukacs) apportano decisivi contributi all’elaborazione di una teoria e una prassi politica della nonviolenza in cammino adeguata alla situazione presente, che costituisca un progetto di alternativa economica, politica e culturale capace di fondare qui e ora una società liberata e solidale che sappia riconoscere e promuovere i diritti umani di tutti gli esseri umani e la piena, consapevole, responsabile difesa della biosfera.
Tra le opere di Ernst Bloch ricordiamo: “Spirito dell’utopia” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomas Muenzer, teologo della rivoluzione” (Feltrinelli, Milano); “Tracce” (Garzanti, Milano); “Soggetto-oggetto” (Il Mulino, Bologna); “Il principio speranza” (Garzanti, Milano); “Diritto naturale e dignità umana” (Giappichelli, Torino); “Ateismo nel cristianesimo” (Feltrinelli, Milano); “Il problema del materialismo; Experimentum mundi” (Queriniana, Brescia).
Tra le opere su Ernst Bloch in italiano invece si vedano almeno gli studi di Italo Mancini, Stefano Zecchi, Remo Bodei, Giuseppe Cacciatore, Giuseppe Pirola, Laura Boella, Laennec Hurbon; si veda anche il fascicolo monografico di “Aut aut”, n. 173-174, settembre-dicembre 1979, dal titolo “Eredità di Bloch”. Come è noto, in viva relazione con l’opera di Bloch è quella di Juergen Moltmann, “Teologia della speranza” (Queriniana, Brescia), così come le opere della teologia della liberazione fin dal testo eponimo di Gustavo Gutierrez, “Teologia della liberazione. Prospettive” (Queriniana, Brescia). Tra molti altri autori la cui riflessione ha un profondo rapporto dialettico con quella blochiana su temi cruciali segnaliamo anche almeno l’indimenticabile Ernesto Balducci.

Ricordare Ernst Bloch e lottare per la dignità umana e la liberazione dell’umanità sono dunuqe una cosa sola: non si è fedeli alla sua lezione se non ci si impegna concretamente e coerentemente per la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani e per la difesa della biosfera; e nella effettuale ed autocosciente lotta per difendere la biosfera e la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani la sua lezione appronta e dona strumenti teorici ed ermeneutici di fondamentale importanza.

Nell’anniversario della nascita di Ernst Bloch, nel ricordo e alla scuola della sua testimonianza e del suo pensiero, la commemorazione più degna e sincera resta proseguire la lotta nonviolenta contro tutte le guerre e tutte le uccisioni, contro tutte le distruzioni e tutte le persecuzioni, per l’eguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani e per la liberazione dell’umanità, per la solidarietà che tutte le persone riconosce, raggiunge, sostiene, e si prende cura del mondo vivente.

Peppe Sini, è responsabile del Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo, cura una la mailing list quotidiana “La nonviolenza è in cammino”

«Palmiro Togliatti e Giovanni XXIII: le convergenze fra il discorso del leader del Pci a Bergamo sul destino dell'uomo e l'enciclica del papa «Pacem in terris» analizzate da Francesco Mores e Riccardo Terzi».

Il manifesto, 18 giugno 2014

Pro­nun­ciato a Ber­gamo il 20 marzo 1963 e pub­bli­cato su Rina­scita con un titolo ambi­zioso quanto gli obiet­tivi che si pro­po­neva, Il destino dell’uomo è uno dei discorsi più impor­tanti di Pal­miro Togliatti. Non si trat­tava sola­mente di comi­zio da cam­pa­gna elet­to­rale (si sarebbe votato di lì a un mese), ma di una con­fe­renza pro­gram­ma­tica densa di rife­ri­menti cul­tu­rali. L’espressione di una con­ce­zione alta della poli­tica, della quale ci resti­tui­scono una foto­gra­fia gli atti del semi­na­rio tenuto presso la biblio­teca Giu­seppe Di Vit­to­rio (Togliatti e Papa Gio­vanni, a cura di Fran­ce­sco Mores e Ric­cardo Terzi, Ediesse).

La sezione sto­rio­gra­fica for­ni­sce alcuni ele­menti di con­te­sto neces­sari per inqua­drare il discorso del lea­der comu­ni­sta, a cui seguirà l’11 aprile la pro­mul­ga­zione dell’enciclica Pacem in ter­ris. A lungo i due testi sono stati letti in dia­logo tra loro, imma­gi­nando che Togliatti fosse a cono­scenza dell’imminente pub­bli­ca­zione del docu­mento papale (pro­ba­bil­mente in virtù del suo con­tatto con don Giu­seppe De Luca, grande figura intel­let­tuale di que­gli anni). Mores mette in discus­sione que­sta ipo­tesi facendo appello alla cro­no­lo­gia (De Luca era morto l’anno pre­ce­dente) e alla sostan­ziale assenza di prove a soste­gno del pre­sunto pas­sag­gio di noti­zie. Eppure, non c’è dub­bio che tra le due figure fosse in corso un effet­tivo rap­porto siner­gico, «indi­retto e pro­prio per que­sto molto più stretto e pro­fondo».
Siamo nell’Italia del centro-sinistra, con il Pci impe­gnato a influen­zare il pro­cesso rifor­mi­stico, ma soprat­tutto siamo nell’età del Con­ci­lio, delle deco­lo­niz­za­zione e di quella disten­sione tra i due bloc­chi che aveva tro­vato in Gio­vanni XXIII un pro­ta­go­ni­sta di primo piano, come in occa­sione della crisi mis­si­li­stica cubana dell’ottobre 1962. Non a caso dun­que la scelta di Ber­gamo, la città di Ron­calli, dalla quale man­dare al mondo cat­to­lico un invito alla col­la­bo­ra­zione con­tro il rischio dello ster­mi­nio ato­mico.
La poli­tica ita­liana, con la Dc da incal­zare da sini­stra, rima­neva il punto cen­trale della tat­tica comu­ni­sta, ma la stra­te­gia guar­dava più lon­tano: a un incon­tro da rag­giun­gere «non nell’immediato», «non sulla base di un com­pro­messo tra le due ideo­lo­gie», ma in una pro­spet­tiva di lungo corso verso un nuovo uma­ne­simo con­di­viso.
Giu­seppe Vacca ricorda che il dia­logo tra cat­to­lici e comu­ni­sti aveva alla spalle una lunga sto­ria: la Costi­tuente, l’apertura del «par­tito nuovo» ai cat­to­lici, l’intesa nel movi­mento dei Par­ti­giani della pace. Con uno scarto rispetto all’elaborazione di Gram­sci, Togliatti era dispo­sto non sola­mente a rico­no­scere la legit­ti­mità sto­rica del fatto reli­gioso, ma per­fino la sua uti­lità ai fini della lotta poli­tica (X Con­gresso, dicem­bre 1962). Dall’altra parte, Gio­vanni XXIII revi­sio­nava il tra­di­zio­nale anti­co­mu­ni­smo cat­to­lico, un pro­cesso che avrebbe por­tato al rico­no­sci­mento della dignità dell’ateismo nella costi­tu­zione con­ci­liare Gau­dium et spes.
Nella Pacem in ter­ris il papa aveva rico­no­sciuto la cele­bre distin­zione tra l’«errore» (il comu­ni­smo) e l’«errante», con il quale ricer­care dei punti di con­ver­genza. In par­ti­co­lare, si era rivolto «agli uomini di buona volontà» per scon­giu­rare l’esito cata­stro­fico di una nuova guerra, di cui denun­ciava l’irrazionalità. Certo, come ricorda Mores, l’appello di Togliatti alla ragione (con­tro la guerra) non può essere com­ple­ta­mente sovrap­po­sto alla «retta ragione» a cui si rife­riva il papa, quella del magi­stero in grado di divi­dere ciò che è giu­sto da ciò che non lo è. E tut­ta­via, è pro­prio una nuova razio­na­lità l’obiettivo che i due anda­vano per­se­guendo (non una revi­sione dell’illuminismo come invece sostiene Vacca).
Nella rifles­sione del lea­der comu­ni­sta alla classe si affian­cava un altro sog­getto del dive­nire sto­rico: il genere umano. In quella del papa, la Chiesa usciva dall’assedio dalla seco­la­riz­za­zione per impe­gnarsi nel cam­bia­mento insieme alle altre forze cul­tu­rali e sociali. Ecco allora che dalla let­tura in paral­lelo del discorso Ber­gamo e della Pace in ter­ris emerge la ric­chezza di quella straor­di­na­ria sta­gione politico-culturale.
I suoi limiti sareb­bero emersi con l’inizio della «dia­spora poli­tica» dei cre­denti negli anni ’70. Nel discorso di Ber­gamo, in cui Togliatti aveva colto nella fine dell’«Età di Costan­tino» il vero punto di svolta del Vati­cano II, man­cava la per­ce­zione che lo sgan­cia­mento della fede dall’identità poli­tica avrebbe con­dotto alla crisi del cat­to­li­ce­simo poli­tico ita­liano: un lento disfa­ci­mento tutt’altro che auspi­cato dalla diri­genza comu­ni­sta.
Più in gene­rale, la ricerca di nuovo uma­ne­simo si scon­trava con una società attra­ver­sata da un pro­fondo pro­cesso di seco­la­riz­za­zione che restrin­geva gli spazi per un pro­filo ideo­lo­gico tra­di­zio­nal­mente mar­xi­sta o reli­gioso. Stava pren­dendo forma la glo­ba­liz­za­zione con­su­mi­sta: la rifles­sione sul destino dell’uomo nell’età nucleare non è stata sola­mente il ter­reno di incon­tro tre due cul­ture, ma anche un primo ten­ta­tivo di risposta.
In edicola martedì prossimo a 2 €. Un libro da leggere, una riflessione da proseguire, molti insegnamenti da riprendere

Il manifesto, 31 maggio 2014, con postilla

Novanta sono gli anni dell’Unità, novanta le pagine dell’inserto spe­ciale che sarà in edi­cola mar­tedì pros­simo, ma l’anniversario tondo in que­sto caso è un’altro: i 30 anni dalla morte di Enrico Ber­lin­guer (11 giu­gno 1984 a Padova). L’inserto è stato pre­sen­tato ieri mat­tina alla camera dei depu­tati, nella sala del gruppo Pd che è dedi­cata pro­prio alla memo­ria di Ber­lin­guer. È in grande for­mato, bianco e nero con l’aggiunta del rosso, ed è pieno di foto­gra­fie dall’archivio del gior­nale che con­sen­tono (data l’assenza di dida­sca­lie) agli amanti del genere di diver­tirsi a rico­no­scere luo­ghi e per­sone attorno al segre­ta­rio.

L’introduzione è affi­data ad Alfredo Rei­chlin che riflette sull’attualità di Ber­lin­guer, del resto roz­za­mente ma ine­qui­vo­ca­bil­mente pro­vata dal ten­ta­tivo di Casa­leg­gio di acqui­sirlo alla cam­pa­gna elet­to­rale gril­lina. Anche nell’inserto si ragiona sul lungo ten­ta­tivo di spo­li­ti­ciz­zare Ber­li­guer, inchio­dan­dolo a quella famosa inter­vi­sta a Scal­fari sulla que­stione morale (lo fa ad esem­pio il pezzo di Luciana Castel­lina).
Nei loro inter­venti Vel­troni (recente autore di un docu­men­ta­rio sul segre­ta­rio) e D’Alema con­cor­dano sul fatto che la vera fine del Pci non fu la Bolo­gnina, ma il fune­rale romano di piazza San Gio­vanni. D’Alema per­ché ricorda come si fosse ormai esau­rita la stra­te­gia ber­lin­gue­riana del com­pro­messo sto­rico. Vel­troni per­ché attri­bui­sce a Ber­lin­guer — il cui comu­ni­smo, sostiene, «aveva il senso di una grande uto­pia di ugua­glianza e giu­sti­zia» — la capa­cità di allun­gare la vita a un Pci che aveva già perso nel ’56 l’occasione di tra­sfor­marsi in un par­tito social­de­mo­cra­tico di tipo occi­den­tale.
Ma nell’inserto, dav­vero molto ricco, c’è tanto altro. C’è anche chi il Pci lo sciolse sul serio, Occhetto, che pole­mizza con i com­pa­gni che a poste­riori hanno dato ragione a Craxi. Non c’è Fas­sino, in effetti. Pazienza. Ci sono Napo­li­tano, Tor­to­rella, Gotor, Pic­colo, Sardo, Bodrato, Mar­telli, Car­niti, Scola, Bar­ba­gallo, Vacca, Fra­sca Polara e tanti altri.
postilla
Leggeremo il libro, e magari lo commenteremo. Ma vogliamo dire subito che l'«esaurimento della strategia berlingueriana del compromesso storico», come avrebbero scritto i socialdemocratici D'Alema e Veltroni, iniziò quando molto autorevoli dirigenti del Pci ridussero la strategia del compromesso storico alla tattica dell'accordo con la DC "senza se e senza ma". Intanto suggeriamo di leggere i tre famosi articoli pubblicati nel 1973 da Rinascita. Il Cile, l'Italia e il compromesso storico

"May '68 and its afterlives", un saggio dello storico statunitense Kritin Ross per University Of Chicago Press. Il manifesto, 29 maggio 2014

È abba­stanza dif­fusa un’interpretazione del Ses­san­totto come moder­niz­za­zione del capi­ta­li­smo: que­sto sarebbe il suo merito o al con­tra­rio il suo pec­cato ori­gi­nale. Da un Ses­san­totto certo un po’ per­ver­tito qual­cuno fa discen­dere per­fino il ber­lu­sco­ni­smo, con la sua cari­ca­tura di libertà ses­suale e oltrag­gio alle isti­tu­zioni. Il libro di Kri­stin Ross May ’68 and its after­li­ves (Uni­ver­sity of Chi­cago Press) con­si­dera que­ste inte­pre­ta­zioni come il pro­dotto di una revi­sione sto­rica, pro­dotta dalla «tra­di­zione dei vin­ci­tori», come avrebbe detto Wal­ter Ben­ja­min. La vit­to­ria del neo­ca­pi­ta­li­smo è pro­iet­tata all’indietro nel tempo, tor­cendo in suo favore la con­si­stenza del pas­sato, ridu­cendo il Ses­san­totto a un suo prologo.

L’evento inde­ciso, in cui la plu­ra­lità dei pos­si­bili in sospeso ancora si apriva a esiti diver­genti, viene ridotto uni­vo­ca­mente alla visione neo­li­be­ri­sta: l’esito deter­mi­nato di un con­flitto sociale, che vede il pre­va­lere del capi­tale, viene ri-esposto come legge sto­rica. Le «comuni» anta­go­ni­ste del Mag­gio diven­tano poco a poco astra­zioni, uto­pie, poi sono defi­nite vel­lei­ta­rie, mino­ri­ta­rie, infine mai esi­stite; come è avve­nuto per la Comune ed altre brecce di libertà.

Ross pro­pone una «let­tura a con­trap­pelo» di que­sto revi­sio­ni­smo sto­rico. La sua non è una cro­naca del Mag­gio, ma un’analisi del modo in cui è stato rap­pre­sen­tato, prima dai suoi attori e poi dai suoi inter­preti pre­sunti. Risa­lendo con il recu­pero di docu­menti e testi­mo­nianze fino al cuore inde­ciso dell’evento, Ross rin­trac­cia gli ele­menti irri­du­ci­bili al con­cetto di moder­niz­za­zione ed ad esso anta­go­ni­sti: la ricerca di rela­zioni sociali comuni, costi­tuive di un noi che rifiuta ogni prin­ci­pio gerar­chico e rap­porto di padro­nanza; la cri­tica della sepa­ra­zione spa­ziale della città in set­tori estra­niati, distrug­gendo i vec­chi quar­tieri popo­lari; la cri­tica della par­ti­zione del sen­si­bile.

Ross riprende quest’ultimo ter­mine dal filo­sofo fran­cese Jac­ques Ran­cière. Esso indica una netta con­trap­po­si­zione tra poli­zia (uno stato gerar­chi­ca­mente ordi­nato) e vera demo­cra­zia e segnala la divi­sione tra chi ha cit­ta­di­nanza e chi è respinto al di fuori di essa (i «senza parte»). La par­ti­zione del sen­si­bile non riguarda solo i ruoli eco­no­mici, ma il sim­bo­lico, il quo­ti­diano, lo psi­chico, le rela­zioni per­so­nali e sen­ti­men­tali, lo spa­zio urbano: si decide ciò che «può essere oggetto di per­ce­zione e ciò che non lo è», «ciò che può essere visto», o inteso, e ciò che è espulso dalla parola e dall’immagine. Nel Ses­san­totto «l’apertura poli­tica all’alterità ha per­messo… di rom­pere con quest’ordine, di scon­vol­gere… i ruoli asse­ganti dalla poli­zia, di ren­dere visi­bile ciò che non lo era», cri­ti­cando in primo luogo la sepa­ra­zione tra lavoro manuale e lavoro intel­let­tuale e pro­po­nendo invece una costante ibri­da­zione delle ete­ro­ge­neità sociali.

Quanto alla cri­tica della sepa­ra­zione urbana, essa fu pro­ba­bil­mente il con­tri­buto più spe­ci­fico dei situa­zio­ni­sti alle gior­nate di Mag­gio: essi rifiu­ta­rono l’idea che lo spa­zio dovesse essere com­par­ti­men­tato e diviso secondo le stesse linee delle gerar­chie sociali. L’urbanesimo neo­ca­pi­ta­li­sta divide i set­tori sociali invece di unirli e sta­bi­li­sce i con­fini con­creti dell’estraniazione, sta­bi­lendo una cor­ri­spon­denza tra l’articolazione dello spa­zio e quella del domi­nio. Nella con­fu­sione e nella tra­sgres­sione degli ordini estra­niati e della sepa­ra­zione, si con­cre­tiz­zava il pia­cere e il desi­de­rio di vivere da parte dei mili­tanti del Mag­gio: «Il pia­cere di vio­lare la com­par­ti­men­ta­zione, fisica o sociale, è pro­por­zio­nale alla durezza della segre­ga­zione sociale urbana dell’epoca; i dia­lo­ghi intrec­ciati a dispetto di tale segre­ga­zione vei­co­lano un sen­ti­mento di tra­sfor­ma­zione urgente». Que­sto pia­cere sov­ver­sivo di vivere oltre l’ordine sim­bo­lico del capi­tale, abbat­tendo le bar­riere dello spa­zio e del tempo domi­nati, lasciando emer­gere un nuovo spa­zio sociale, è stato poi rein­ter­pre­tato come «edo­ni­smo» dai can­tori della modernizzazione.

Altro deci­sivo ele­mento di distor­sione dell’evento è per Ross il così detto «gene­ra­zio­ni­smo», ben descritto da una cita­zione di Hoc­quen­ghem (si tratta di una let­tera aperta ai vec­chi com­pa­gni pas­sati «da Mao al Rotary Club»): «Si diviene una “gene­ra­zione” quando ci si ritrae come una lumaca nella con­chi­glia o il pen­tito nella sua cella: il fal­li­mento di un sogno, la stra­ti­fi­ca­zione dei ran­cori, il resi­duo di un’antica insur­re­zione, si chia­mano “gene­ra­zione”». Il gene­ra­zio­ni­smo dis­solve in un dato bio­lo­gico il con­flitto dei pos­si­bili e lo spazio-tempo impre­ve­di­bile dell’evento, il ritmo dello svi­luppo sto­rico è ridotto – come diceva Man­n­heim — a legge posi­ti­vi­sta della «durata di vita». L’essere per l’inizio, da cui balza il tempo-ora del pre­sente, ponendo in discus­sione ogni pre­ce­dente media­zione e scan­sione del tempo, viene così risolto in «fase della vita», desti­nata a pas­sare. La lotta e il con­flitto tra chi ha parte e chi è «senza parte», si ridu­cono a una ine­vi­ta­bile lace­ra­zione tra padri e figli, e in una altret­tanto ine­vi­ta­bile, suc­ces­siva, conciliazione.

D’altra parte, anche l’idea che il Mag­gio sia stato un tumulto effi­mero e improv­viso è con­te­stata da Ross. L’evento è il cul­mine di una durata lunga del con­flitto sto­rico; la brec­cia è solo l’atto finale di una lenta ero­sione del muro del domi­nio, che comin­cia in Fran­cia con la guerra d’Algeria.

Una rivo­lu­zione pas­siva ha distorto l’ultimo ten­ta­tivo nove­cen­te­sco di scuo­tere l’ordine del capi­tale. Lo scio­pero gene­rale, che portò nei giorni di Mag­gio al col­lasso del governo gol­li­sta, è certo uno dei dati più impor­tanti della memo­ria col­let­tiva che Ross cerca di resti­tuirci: per pochi giorni milioni di per­sone com­pi­rono l’esperienza che vivere senza il peso del potere sulle spalle è dif­fi­cile e possibile

Il manifesto, 17 maggio 2014

La pro­vo­ca­zione arriva a freddo e prende di mira il sim­bolo dell’innovazione tec­no­lo­gica, la Apple. L’iPod, l’iPhone e l’iPad non sareb­bero mai stati pro­dotti senza i soldi che lo stato ame­ri­cano ha inve­stito nei pro­getti di Ricerca e Svi­luppo dagli anni Cin­quanta fino a ieri, quando l’applicazione basata sull’intelligenza arti­fi­ciale Siri è uscita dai labo­ra­tori ed è diven­tata una società e un pro­dotto che Steve Jobs ha com­prato per una cifra irri­so­ria rispetto agli inve­sti­menti sta­tali desti­nati al suo svi­luppo. Poche pagine dopo, un altro colosso della Rete, Goo­gle, è preso di mira. L’algoritmo Page Rank, svi­lup­pato alla Stan­ford Uni­ver­sity e diven­tato lo stru­mento per far diven­tare Goo­gle la potenza impren­di­to­riale nota a tutti, è stato finan­ziato dal Pen­ta­gono. Stesso discorso per le nano­tec­no­lo­gie, disci­plina di ricerca che da sem­pre ha usu­fruito di gene­rosi finan­zia­menti sta­tali. Se il campo di osser­va­zione cam­bia e dalla com­pu­ter science si passa alle bio­tec­no­lo­gie non ci sono molte varia­zioni nel mood analitico.

La map­pa­tura del Genoma umano non sarebbe infatti stata imma­gi­na­bile, negli Stati Uniti, senza l’intervento del Natio­nal Insti­tute of Health (Nih), che oltre a finan­ziare il pro­getto di ricerca di base con­ti­nua a inve­stire cen­ti­naia di miliardi di dol­lari per la ricerca appli­cata allo svi­luppo dei cosid­detti «far­maci orfani», desti­nati alla cura di malat­tie rare, che coin­vol­gono risi­bili mino­ranze della popo­la­zione, ma che sono ven­duti dalle mul­ti­na­zio­nali far­ma­ceu­ti­che a prezzi stra­to­sfe­rici. Allo stesso tempo è pro­prio il Nih che ormai «innova» far­maci con­so­li­dati, basan­dosi però sulle cono­scenze che ven­gono dalla geno­mica. Infine, un altro set­tore rite­nuto «stra­te­gico» nello svi­luppo eco­no­mico, le ener­gie rin­no­va­bili, non riu­scirà a decol­lare se lo Stato non con­ti­nuerà ad inve­stire nella ricerca, come testi­mo­niano i pro­getti pub­blici di svi­luppo in Cina e in Brasile.

Produttore di futuro

È que­sto il punto di par­tenza di un volume intel­li­gen­te­mente pro­vo­ca­to­rio e meri­to­ria­mente tra­dotto da Fabio Galim­berti per la casa edi­trice Laterza. A scri­verlo è Mariana Maz­zu­cato, eco­no­mi­sta ita­liana, natu­ra­liz­zata ame­ri­cana (i suoi geni­tori erano «cer­velli in fuga» negli anni Cin­quanta) e attual­mente docente, in Inghil­terra, presso l’University of Sus­sex. Lo stato inno­va­tore (pp. 378, euro 18), que­sto il titolo, pre­senta una tesi con­tro­cor­rente rispetto l’ideologia domi­nante neo­li­be­ri­sta. Per l’autrice, lo Stato è un sog­getto poli­tico fon­da­men­tale nel favo­rire lo svi­luppo eco­no­mico, per­ché è il luogo dove ven­gono defi­nite le norme che non solo rego­lano, ma pro­du­cono il mer­cato. Svolge cioè un ruolo per­for­ma­tivo dei com­por­ta­men­tii fun­zio­nali allo svi­luppo capitalistico.

È que­sto il con­te­sto dove, teo­ri­ca­mente, Karl Polany incon­tra Lord Key­nes, Joseph Shum­pe­ter e, ma l’autrice non ne fa mai men­zione, anche il Michel Fou­cault sto­rico dell’ordoliberismo austriaco e della bio­po­li­tica. Marina Maz­zu­cato non è però inte­res­sata alle genea­lo­gie teo­ri­che delle sue tesi. Il suo obiet­tivo è far emer­gere ciò che rimane in ombra nella discus­sione pub­blica segnata dall’egemonia libe­ri­sta, cioè che gran parte delle tec­no­lo­gie svi­lup­pate al pro­cesso eco­no­mico sono «effetti» degli inve­sti­menti dello Stato, in epoca moderna, nel campo della for­ma­zione e della ricerca scien­ti­fica. Inve­sti­menti che non sem­pre pre­fi­gu­rano imme­diate rica­dute pro­dut­tive e eco­no­mi­che. Quel che si deve infatti chie­dere allo Stato è una vision del pre­sente e del futuro senza asfic­citi e algidi vin­coli di bilancio.

Si inve­ste in ricerca e for­ma­zione per­ché, nei tempi lun­ghi, l’intero «eco­si­stema» se ne avvan­tag­gerà, gra­zie alla pre­senza di un ele­vato numero di ricer­ca­tori, di forza-lavoro qua­li­fi­cata e dalla tra­du­zione ope­ra­tiva (la ricerca appli­cata) di cono­scenze svi­lup­pate in anni e anni di lavoro in qual­che labo­ra­to­rio senza l’ansia e l’incubo di doversi spo­stare da un mece­nate all’altro nella spe­ranza di rac­co­gliere i fondi neces­sari per andare avanti nelle ricerche.

In nome dello statalismo

Nell’esporre la sua tesi Mariana Maz­zu­cato non nasconde dun­que la sua pro­pen­sione «sta­ta­li­sta» per quanto riguarda il neces­sa­rio inter­ven­ti­smo pub­blico nella for­ma­zione e nella ricerca scien­ti­fica. Non è quindi un caso che si applica con con­vin­cente con­vin­zione alla demo­li­zione di un altro mito che ha accom­pa­gnato lo svi­luppo della com­pu­ter science e della new eco­nomy. Imprese come Goo­gle, Face­book, Intel, Apple non sono diven­tate quel che sono – cioè imprese glo­bali fon­da­men­tali nello svi­luppo capi­ta­li­stico – gra­zie a intra­pren­denti e spe­ri­co­lati ven­ture capi­ta­list: il capi­tale di rischio, scrive l’autrice, più che favo­rire l’innovazione, la ral­len­tano, anzi la met­tono in peri­colo. Chi inve­ste in una start-up, infatti, non è inte­res­sato a finan­ziare l’innovazione tec­no­lo­gica, bensì a far cre­scere quel poco un impresa per poi col­lo­carla in borsa o ven­derla a un’altra società per ripa­gare l’investimento ini­ziale con l’aggiunta di una per­cen­tuale (gene­ral­mente molto alta) di profitti.

Lo Stato inno­va­tore è una miniera di infor­ma­zioni per quanto riguarda la rico­stru­zione delle for­tune di Apple, di Goo­gle e delle altre imprese sim­bolo della new eco­nomy. L’esisto è una con­tro­sto­ria dello svi­luppo tec­no­lo­gico e eco­no­mico degli ultimi cinquant’anni. Da que­sto punto di vista, Mariana Maz­zu­cato fa sue molte delle ana­lisi che hanno indi­vi­duato nel Pen­ta­gono la fonte eco­no­mica e finan­zia­ria dell’innovazione tec­no­lo­gica. Non solo i pro­getti per la costru­zione di una rete di comu­ni­ca­zione che potesse «soprav­vi­vere» a un attacco nucleare è stata finan­ziata dai mili­tari attra­verso il Darpa (Defense Advan­ced Research Pro­jects Agency ), ma è stato sem­pre il Pen­ta­gono, assieme al Mini­stero del com­mer­cio, che ha defi­nito le regole affin­ché i risul­tati delle ricer­che potes­sero essere dif­fuse sull’insieme delle atti­vità pro­dut­tive sta­tu­ni­tensi. Inter­net è nata così. Ma que­sta è sto­ria nota.

Il pre­gio del volume sta sem­mai nel riper­cor­rere tutti i pas­saggi che hanno por­tato ai suc­ces­sivi pro­grammi di ricerca degli anni Set­tanta e Ottanta (il Gps, le nano­ten­co­lo­gie, gli schermi lcd, il fin­ger work, cioè gli schermi tat­tili) senza i quali non ci sareb­bero stati l’iPod, l’iPhone e l’iPad.

Il sole che ride

Il famoso motto di Steve Jobs (stay hun­gry, stay foo­lish) usato per indi­care la con­di­zione neces­sa­ria per il suc­cesso impren­di­to­riale nasconde l’ipocrisia di chi è stato sfa­mato gra­zie al fatto che ha sfrut­tato, certo crea­ti­va­mente, la crea­ti­vità mani­fe­sta­tasi nei labo­ra­tori di ricerca e nelle uni­ver­sità lau­ta­mente finan­ziati dallo Stato attra­verso il Pen­ta­gono o il pro­gramma Atp dell’Istituto nazio­nale per le norme e la tec­no­lo­gia o dai pro­getti rela­tivi all’innovazione per quanto riguarda le pic­cole e medie imprese.

Eguale rile­vanza infor­ma­tiva è data allo svi­luppo delle ener­gie rin­no­va­bili. In que­sto caso, gli Stati Uniti hanno scelto di costi­tuire una agen­zia fede­rale appo­sita (l’Arpa-e) che dovrebbe svol­gere nelle ener­gie rin­no­va­bili lo stesso ruolo svolto dal Darpa nella com­pu­ter science e dal Nih nelle bio­tec­no­lo­gie. Tut­ta­via, la strada migliore è quella trat­teg­giata da Cina e Bra­sile. In Cina lo stato ha inve­stito e sta inve­stendo cen­ti­naia di miliardi di dol­lari per favo­rire la ricerca e lo svi­luppo di ener­gia rin­no­va­bile attra­verso l’eolico, il foto­vol­taico e il solare. In Bra­sile, invece, le ban­che per lo svi­luppo defi­ni­scono e finan­ziano pro­grammi che con­sen­tano al paese lati­noa­me­ri­cano non solo di essere, nel futuro, indi­pen­dente dal punto di vista ener­ge­tico, ma di ven­dere l’energia pulita pro­dotta. Cina e il Bra­sile sono diven­tati paesi all’avanguardia della green-economy, come la Ger­ma­nia, men­tre gli Stati Uniti hanno perso ter­reno prezioso.

Nel Nove­cento la Ricerca scien­ti­fica sta­tu­ni­tense è stata pre­va­len­te­mente finan­ziata dallo Stato, anche se l’autrice non nasconde che gran parte dei risul­tati con­se­guiti sono stati poi acqui­siti dalle imprese pri­vate e usati per inno­vare i pro­dotti e i pro­cessi lavo­ra­tivi. Inol­tre, negli Usa, lo Stato ha defi­nito norme, defi­nito i pro­cessi e le pro­ce­dure affin­ché le cono­scenze tec­ni­che scien­ti­fi­che potes­sero essere socia­liz­zate, favo­rendo così la cre­scita di nuovi mer­cati, facendo leva, ad esem­pio, sulle norme della pro­prietà intel­let­tuale. Da qui il pen­dolo sta­tu­ni­tense che oscilla dalla scelta a favore del public domain alla pos­si­bi­lità con­cessa alle uni­ver­sità di poter bre­vet­tare le sco­perte scien­ti­fi­che avve­nute all’interno di pro­getti di ricerca finan­ziati dallo Stato.

Governance di sistema

Mariana Maz­zu­cato non è una eco­no­mi­sta radi­cale anti­ca­pi­ta­li­sta. La ten­sione pole­mica pre­sente nel volume è sem­mai rivolta con­tro l’ideologia neo­li­be­ri­sta, che vede nel mer­cato il deus ex machina dell’innovazione. Il capi­tale di rischio non rischia, afferma l’autrice, vuole vin­cere in par­tite facili, dove certo c’è incer­tezza, ma il rischio è minimo. Un atteg­gia­mento paras­si­ta­rio che lo Stato ha per troppo tempo favo­rito e incen­ti­vato. Per l’autrice, l’intervento sta­tale va sal­va­guar­dato per­ché è il solo sog­getto poli­tico che può creare un «eco­si­stema sim­bio­tico» tra pub­blico e pri­vato. Lo stato tut­ta­via deve creare le con­di­zioni affin­ché si mani­fe­sti al meglio l’indispensabile seren­di­pity che favo­ri­sce l’innovazione e la ricerca scien­ti­fica. Per fare que­sto, vanno messe in campo misure che, ad esem­pio, recu­pe­rino parte dei finan­zia­menti sta­tali attra­verso un arti­co­lato sistema di gover­nance della cono­scenza. Può dun­que essere isti­tuita una gol­den share sui diritti di pro­prietà intel­let­tuale, in maniera tale che una parte delle royal­ties vadano a finire nelle casse dello Stato; oppure va attuata una riforma fiscale che sco­raggi l’elusione nel paga­mento delle tasse da parte di imprese che si sono avvan­tag­giate dalla ricer­che scien­ti­fi­che finan­ziate dallo Stato, come invece accade adesso per gran parte dei colossi della new-economy e delle bio­tec­no­lo­gie, che sta­bi­li­scono le loro sedi nei para­disi fiscali o in regioni tax free. Tutto ciò per con­ti­nuare, anzi aumen­tare gli inve­sti­menti in ricerca e sviluppo

Il capi­ta­li­smo può dun­que essere sal­vato con un rin­no­vato pro­ta­go­ni­smo dello Stato, senza il quale è desti­nato a implo­dere nelle sue con­trad­di­zioni. Per­ché una delle regole auree del neo­li­bie­ri­smo («socia­liz­za­zione dei costi e pri­va­tiz­za­zione dei pro­fitti») ha por­tato il capi­ta­li­smo sul ciclo del bur­rone. Solo con lo pre­senza di uno Stato che inve­ste molto e che crei le con­di­zioni per un eco­si­stema sim­bio­tico tra pub­blico e pri­vato, chiosa alla fine l’autrice, è pos­si­bile pen­sare non solo alla sua soprav­vi­venza, ma a un suo dura­turo svi­luppo. Con­clu­sioni mode­ste, si può dire, per un libro che invece ha una sua potenza ana­li­tica che fun­ziona come un salu­tare anti­doto a quel neo­li­be­ri­smo che con la sua crisi sta impo­ve­rendo la mag­gio­ranza della popolazione

«Gli Stati nazionali europei - che hanno assunto la forma attuale di «Stati sociali» solo dopo aver attraversato due disastrose guerre mondiali - sono oggi scivolati nuovamente, per via della globalizzazione economica, sotto la pressione esplosiva di interdipendenze che, economicamente generate, se ne infischiano delle vecchie frontiere nazionali».

La Repubblica, 28 aprile 2014 (m.p.r)

Le offese alla solidarietà civica suscitano indignazione: fa rabbia, tanto per dire, l’evasore fiscale, quando si sottrae ai suoi obblighi verso la comunità politica pur continuando tranquillamente a goderne i vantaggi. Certo, l’evasione fiscale è anche una infrazione al diritto vigente. Sennonché, nella indignazione che colpisce il profittatore si esprime anche una delusa aspettativa-di-solidarietà. Quella che si manifesta nel disprezzo per tutti i Depardieu evasori di questo mondo, i quali si sottraggono al fisco trasferendo all’estero, del tutto legalmente, la loro residenza o la loro industria. Nella storia dello Stato sociale abbiamo visto come le aspettative di solidarietà possano trasformarsi in pretese giuridiche. Anche oggi è una questione di solidarietà, non di diritto, stabilire con quanta «diseguaglianza » i cittadini di una nazione benestante vogliano continuare a vivere. Non è lo Stato di diritto che può frenare il numero crescente dei giovani senza lavoro, dei disoccupati e deisotto-occupati, degli anziani con una pensione da fame, delle mamme che allevano da sole i bambini e dipendono dalla pubblica assistenza. Solo la politica di un legislatore che sia sensibile alle pretese normative di una cittadinanza democratica può trasformare le richieste di solidarietà dei marginalizzati (o dei loro avvocati) in veri e propri diritti sociali.
A prescindere dalla differenza tra solidarietà, da un lato, e diritto e morale, dall’altro, esiste pur sempre uno stretto nesso concettuale tra «giustizia politica » e «solidarietà». In Portogallo, nel passaggio tra il 2012 e il 2013, il presidente conservatore Aníbal Cavaco Silva chiese alla Corte costituzionale di prendere in esame il bilancio di austerità che la maggioranza di governo (a lui politicamente affine) aveva appena licenziato, in quanto non gli parevano accettabili — nel senso della giustizia politica — le conseguenze sociali del programma imposto dai creditori (in particolare, l’aggravio unilaterale su funzionari e impiegati statali, pensionati e socialmente assistiti). Così facendo, il presidente tradusse nel linguaggio della giustizia politica quei disordini, e quelle proteste di strada, che nei paesi più colpiti dalla crisi chiedono solidarietà sia alle élites del paese sia ai cosiddetti paesi donatori. (...)
A differenza di ciò che accade per la «eticità» — la «solidarietà » ha per oggetto un contesto- di-vita non tanto derivato dal passato, quanto piuttosto da organizzare politicamente per il futuro. Nell’applicarsi alla struttura politica, questa componente semantica di «impegno attivo» diventa evidente quando si passi — nell’analisi dei concetti — dal piano astrattamente analitico a una considerazione storica dello sviluppo delle idee. È strano, ma il concetto di solidarietà compare molto tardi nella storia, soltanto in età recente, laddove già negli antichi imperi, dunque a partire dal 3000 avanti Cristo, si discuteva abitualmente di diritto e di giusto/ ingiusto. Certo, il termine solidarietà si trova già nel diritto romano (nel diritto penale riguardante i debiti). Ma solo a partire dalla Rivoluzione francese del 1789 assume un significato politico, in realtà collegandosi inizialmente alla parola d’ordine «fraternità». Come motto di battaglia, la fraternité deriva dalla generalizzazione umanistica di una coscienza nata dalle religioni mondiali: risale cioè a quell’esperienza (allargante le prospettive) per cui la propria comunità locale veniva vissuta come parte di un’universale comunità di tutti i credenti. È questo lo sfondo dell’idea di fraternità: un’idea derivata dalla secolarizzazione umanistica di un concetto religioso. (...)
Il concetto di solidarietà nasce da una situazione storica particolare: i rivoluzionari lo rivendicavano nel senso di recuperare e ricostruire quei tradizionali rapporti di fiducia internamente svuotati dagli invasivi processi della modernizzazione. Il socialismo primitivo degli artigiani, espulsi dalle loro botteghe, ricavava in parte le sue energie utopistiche dai ricordi — nostalgicamente trasfigurati — di un mondo corporativo che appariva paternalisticamente schermato. (...) Il contrasto di classe, nel capitalismo industriale, è stato istituzionalizzato soltanto nel quadro degli Stati nazionali democraticamente costituiti. Gli Stati nazionali europei — che hanno assunto la forma attuale di «Stati sociali» solo dopo aver attraversato due disastrose guerre mondiali — sono oggi scivolati nuovamente, per via della globalizzazione economica, sotto la pressione esplosiva di interdipendenze che, economicamente generate, se ne infischiano delle vecchie frontiere nazionali.
Ancora una volta sono costrizioni sistemiche quelle che fanno saltare i vecchi rapporti di solidarietà e che obbligano a ricostruire le forme statalmente frazionate dell’integrazione politica. Questa volta le contingenze sistemiche di un capitalismo politicamente ingovernato, spinto avanti dallo scatenamento dei mercati finanziari, si concentrano minacciose generando tensioni tra gli Stati dell’eurozona. Da questa prospettiva storica le aspettative di solidarietà espresse da Konstantinos Simitis (ex premier greco ed ex leader del Pasok, n. d. r.) ricavano una loro legittimità. Egli punta esplicitamente il dito sulla rete delle vecchie interdipendenze, che chiedono ora d’essere incanalate in una ricostruzione dell’integrazione politica a partire dal punto di vista normativo di un equo bilanciamento dei vantaggi/svantaggi degli Stati membri. Per salvare l’Unione monetaria non è più sufficiente — di fronte alle differenze strutturali delle economie nazionali — concedere crediti agli Stati indebitati, sperando che ognuno di loro riesca da solo ad aumentare la competitività. Occorre invece uno sforzo cooperativo che — intrapreso da una prospettiva politica condivisa — incrementi crescita e competitività di tutta l’eurozona. Uno sforzo di questo genere non può evitare di chiedere alla Germania federale di farsi carico — sul breve e medio periodo — di effetti redistributivi di tipo negativo. Si tratterebbe di un caso esemplare di solidarità politica nel senso che abbiamo illustrato.

IL LIBRO
Nella spirale tecnocratica,
il libro di Habermas qui anticipato (Laterza, pagg. 128, euro 15)

«La nostra gene­ra­zione, la mia, è cre­sciuta lot­tando per tutto quello che poteva otte­nere, quindi i gio­vani hanno biso­gno di tempo per capire che devono lot­tare e ci sono tre con­di­zioni basi­lari per que­sto: leg­gere, pen­sare e discu­tere la realtà. Que­sto è l’unico modo per affron­tare la realtà». Il

manifesto, 18 aprile 2014 (m.p.r)

Grecia. Lo scrittore greco Petros Markaris: «Piangere sulla ricchezza passata è inutile, bisogna riabituarsi a lottare». «A pen­sarci bene, quello che ci ha rovi­nati è un ascen­sore troppo rapido». È così che la tra­iet­to­ria sociale della Gre­cia è rias­sunta dal pro­ta­go­ni­sta della for­tu­nata serie noir di Petros Mar­ka­ris, in Resa dei conti. La nuova inda­gine del com­mis­sa­rio Cha­ri­tos (Bom­piani, 2012), l’ultimo libro uscito in Ita­lia. Le vite segnate dalla crisi e le pic­cole stra­te­gie di resi­stenza sono molto più che lo sfondo per il mistero del delitto rac­con­tato da Mar­ka­ris. Sono al cen­tro di una nar­ra­zione corale che risco­pre legami fami­liari e soli­da­rietà sociali, fa i conti con l’etica e con gli effetti del suo smar­ri­mento da parte della poli­tica. Un’intervista tele­fo­nica con lo scrit­tore greco ha aperto il corso “Nar­ra­tori d’Europa: volti e luo­ghi dalla crisi”, orga­niz­zato dall’Istituto regio­nale studi euro­pei (Irse) del Friuli Vene­zia Giu­lia. Ne ripren­diamo qual­che estratto.

Kate­rina e Adriana, le pro­ta­go­ni­ste fem­mi­nili del suo ultimo romanzo, sono sim­boli della rela­zione com­plessa tra gio­vani e adulti e dei loro dif­fe­renti modi di agire. In que­sto par­ti­co­lare momento della nostra vita, come si strut­tura que­sta rela­zione complessa?

Comin­ciamo a par­lare del pas­sato. Uno dei pro­blemi che abbiamo dovuto affron­tare con la crisi è quello di come abbiamo cre­sciuto i nostri figli, i gio­vani. Uno dei modi in cui lo abbiamo fatto è stato quello di lasciar­gli cre­dere che la madre Europa avrebbe gua­rito tutto, e ora che ci ren­diamo conto che non è così i gio­vani si sen­tono per­duti. Oggi i gio­vani non sono pre­pa­rati ad affron­tare i tempi duri, e il pro­blema è simile in Spa­gna, Gre­cia, Ita­lia. La nostra gene­ra­zione, la mia, è cre­sciuta lot­tando per tutto quello che poteva otte­nere, quindi i gio­vani hanno biso­gno di tempo per capire che devono lot­tare e ci sono tre con­di­zioni basi­lari per que­sto: leg­gere, pen­sare e discu­tere la realtà. Que­sto è l’unico modo per affron­tare la realtà.

È pos­si­bile tra­sfor­mare la crisi in oppor­tu­nità di cambiamento?

Penso di sì. È quello che è suc­cesso ai due pro­ta­go­ni­sti del mio libro, Zisis e Cha­ri­tos, due per­sone pro­ve­nienti da mondi molto distanti ma che tro­vano il modo di con­net­tere le loro dif­fe­renti per­so­na­lità. Anche io sono cre­sciuto in una fami­glia con dif­fi­coltà eco­no­mi­che, io stesso ne ho avute molte. Mia madre era una casa­linga, è stata lei a tenere la fami­glia unita, ha sem­pre tro­vato una solu­zione, un po’ come, nel libro, la figura di Adriana. Tutte que­ste per­sone tro­vano alla fine il modo per soprav­vi­vere, ma tro­vare il modo di soprav­vi­vere più che una que­stione eco­no­mica è un fatto soprat­tutto cul­tu­rale, di valori. Pian­gere sulla pas­sata ric­chezza, che per la Gre­cia è stata più che altro vir­tuale, non è una solu­zione. La solu­zione pos­si­bile è tro­vare una ride­fi­ni­zione del nostro punto di vista sulla vita. Solo in que­sto modo potremo uscire dalla crisi più forti.

Siamo alla vigi­lia delle ele­zioni euro­pee e nes­suno in Ita­lia ne parla seria­mente. Noi pen­siamo che pos­sano essere un’opportunità per chie­dere a noi stessi quale Europa vogliamo, quale vita, quale wel­fare. Lei cosa ne pensa?

Que­sta è una domanda che mi rende molto tri­ste e le spiego il per­ché. Credo che le pros­sime elezioni euro­pee saranno un espe­rienza molto nega­tiva per gli euro­pei. Siamo con­vinti che il Sud Europa sia la parte che ha pro­blemi ma se osser­viamo bene vediamo che i pro­blemi riguar­dano gli estremi, l’estrema destra in par­ti­co­lare. È que­sto il prezzo che stiamo pagando per avere ridotto l’Europa a eco­no­mia. Voi avete citato Spi­nelli e Dah­ren­dorf, io voglio citare Jean Mon­net che prima di morire disse: «Ho fatto un errore, se dovessi rifare l’Europa dall’inizio pun­te­rei su poli­tica e cul­tura». È vero, ma pur­troppo è arri­vato tardi. L’Europa ha biso­gno di un’altra visione, noi ne abbiamo biso­gno, non pos­siamo sem­pre dire sarà peg­gio. Abbiamo biso­gno di una visione poli­tica e cul­tu­rale diversa altri­menti diven­te­remo dei mostri.

(http://​www​.cen​tro​cul​tu​ra​por​de​none​.it/​i​r​s​e​/​l​i​n​g​u​a​-​e​-​c​u​l​t​u​r​a​/​l​e​t​t​e​r​a​t​u​r​a​-​i​n​t​e​r​c​u​l​t​u​r​a​-​c​i​t​t​a​d​i​n​a​nza)

Genealogie critiche di Lo straniero. Un’anticipazione dal nuovo libro dello studioso americano (

Lo straniero. Due saggi sull'esilio) da oggi in libreria per Feltrinelli. Il manifesto, 16 aprile 2014
La que­stione da cui sem­bra dipen­dere tutto il rac­conto del mito di Edipo di per sé appare di scarso inte­resse arti­stico, anzi non è che una rotel­lina nel mec­ca­ni­smo dell’intreccio. Sulle cavi­glie del re una ferita rice­vuta nell’infanzia ha lasciato un segno nella carne. In greco il nome «Edipo» signi­fica appunto «colui che ha le cavi­glie tra­fitte». Il re ha vaga­bon­dato, ha perso il con­tatto con le pro­prie ori­gini, ma quando nella sto­ria si arriva al punto in cui i per­so­naggi devono sapere quale sia la sua vera iden­tità, rie­scono a ritro­vare que­sta verità esa­mi­nando il suo corpo. Il pro­cesso di iden­ti­fi­ca­zione ha ini­zio quando un messo dichiara: «Pos­sono testi­mo­niarlo le giun­ture dei tuoi piedi».

Se le prove che il re Edipo sta cer­cando non fos­sero quelle rela­tive all’incesto, forse pre­ste­remmo più atten­zione a que­sta cica­trice. Nono­stante il lungo migrare del re nel corso della sua vita, il suo corpo con­serva ancora la prova inde­le­bile di chi egli sia «vera­mente». I viaggi che ha com­piuto invece non hanno lasciato sul suo corpo un ana­logo mar­chio distin­tivo: la sua espe­rienza di migrante conta poco, ovvero conta poco in rap­porto alla sua origine.

IL MAR­CHIO DELL’APPARTENENZA

Nella cul­tura occi­den­tale que­sta cica­trice di Edipo sem­bra rap­pre­sen­tare la fonte da cui discen­dono i segni inde­le­bili che il dician­no­ve­simo secolo avrebbe letto nel corpo col­let­tivo della nazione. L’origine diventa il destino. In verità, se si guarda indie­tro agli inizi della nostra civiltà, si ha l’impressione che l’esilio, lo spos­ses­sa­mento, l’emigrazione abbiano avuto un’importanza di gran lunga minore rispetto ai mar­chi dell’origine e dell’appartenenza. Viene da pen­sare al rifiuto dell’esilio da parte di Socrate come prova della cre­denza che per­fino la morte da cit­ta­dino fosse più ono­re­vole. O a quell’osservazione di Tuci­dide sul fatto che gli stra­nieri non hanno parola, con la quale non si vuol dire let­te­ral­mente che non sap­piano espri­mersi bene, ma che la loro parola nella polis conta ben poco: la loro è la chiac­chiera di quelli che non hanno la facoltà di votare.

Tut­ta­via i segni sulle cavi­glie di Edipo non sono gli unici a mar­chiare il suo corpo. Egli risponde cavan­dosi gli occhi alle ferite che all’inizio altri gli hanno inflitto. Se met­tiamo da parte la valenza ses­suale di que­sto mito e lo esa­mi­niamo sem­pli­ce­mente come un rac­conto, la seconda ferita com­pensa la prima: la prima è una ferita che indica le ori­gini, la seconda la sto­ria suc­ces­siva. Dop­pia­mente ferito, Edipo è diven­tato un uomo la cui esi­stenza si può let­te­ral­mente leg­gere sul corpo, ed è a par­tire da que­sta con­di­zione che egli erra di nuovo per il mondo come un vaga­bondo. Quando parte da Tebe, Edipo pensa che forse potrebbe ritor­nare alle pro­prie ori­gini, sulla mon­ta­gna, «sul mio Cite­rone, che mio padre e mia madre, quand’erano vivi, mi asse­gna­rono come tomba degnis­sima», ma que­sto ritorno non è desti­nato a rea­liz­zarsi. Infatti, quando si apre Edipo a Colono, anzi­ché nei luo­ghi delle sue ori­gini, Edipo è arri­vato al deme (sob­borgo) di Colono, a un chi­lo­me­tro e mezzo di distanza a nord-ovest di Atene, dove invece è desti­nato a morire secondo quanto gli ha pre­detto l’oracolo di Delfi, anche se la pro­fe­zia si avve­rerà in modo diverso da come aveva imma­gi­nato all’inizio della tragedia.

Le due ferite sul corpo di Edipo sono dun­que la cica­trice delle ori­gini, che non si può nascon­dere, e la cica­trice dell’uomo errante, che non pare riu­scire a sanarsi. Que­sta seconda insa­na­bile cica­trice nella civiltà occi­den­tale ha un signi­fi­cato come lo ha la cica­trice dell’origine che marca il valore attri­buito all’appartenenza a un luogo spe­ci­fico. I greci coglie­vano nell’interminabile viag­gio di Edipo una riso­nanza con le leg­gende ome­ri­che, spe­cial­mente con quella di Ulisse.

L’ESSERE IN CAMMINO

Nella pro­ce­dura greca, che più tardi sarebbe stata codi­fi­cata nel diritto romano, in alcune cir­co­stanze l’esilio era con­si­de­rato di fatto ono­re­vole, più della scelta di Socrate: l’exsi­lium con­ce­deva alla per­sona con­dan­nata alla pena capi­tale il diritto di sce­gliere l’espulsione al posto della morte, una scelta che rispar­miava agli amici e alla fami­glia la ver­go­gna e il dolore di assi­stere all’esecuzione di uno di loro. Ma Sofo­cle nel suo Edipo a Colono inse­ri­sce una dimen­sione morale nell’atto di emi­grare, rap­pre­sen­tando Edipo come una figura nobi­li­tata dal suo stesso sra­di­ca­mento. La tra­ge­dia tra­sforma Edipo in meteco, in stra­niero, in un per­so­nag­gio di tra­gica gran­dezza più che in un estra­neo la cui leva­tura è minore di quella di un cittadino.

Diven­tare uno stra­niero signi­fica essere strap­pati dalle pro­prie radici. La con­di­zione di sra­di­ca­mento assume nella tra­di­zione giudaico-cristiana un valore morale posi­tivo, anzi potremmo dire che diventa di fon­da­men­tale impor­tanza. Gli uomini dell’Antico Testa­mento si con­si­de­ra­vano nomadi senza radici. Lo Jahvè dell’Antico Testa­mento, con la sua Arca dell’Alleanza tra­spor­ta­bile, era lui stesso un dio nomade come sot­to­li­nea il teo­logo Har­vey Cox: «Quando l’Arca, infine, fu cat­tu­rata dai fili­stei, gli ebrei comin­cia­rono a ren­dersi conto che Jahvè non si tro­vava nem­meno in essa (…). Egli viag­giava con il suo popolo e altrove».

Jahvè era un dio del tempo più che dio di un luogo, era un dio che aveva pro­messo ai suoi seguaci un senso divino per le loro tri­sti pere­gri­na­zioni. Anche tra i cri­stiani dei primi secoli, come tra gli ebrei dell’Antico Testa­mento, il noma­di­smo e l’essere espo­sti erano pro­fon­da­mente per­ce­piti come con­se­guenze della fede. All’apice della glo­ria dell’Impero romano, l’autore della Let­tera a Dio­gneto affer­mava: «I cri­stiani non si distin­guono dal resto dell’umanità, né per sede, né per lin­gua, né per usanze. Essi infatti non abi­tano in città par­ti­co­lari, (…)non pra­ti­cano un modo di vivere straor­di­na­rio. (…)Essi dimo­rano nei loro paesi, ma solo come ospiti tem­po­ra­nei (…). Per loro ogni paese stra­niero è patria, e ogni patria è paese stra­niero». Quest’immagine di non stan­zia­lità sarebbe diven­tata uno dei modi in cui Sant’Agostino avrebbe defi­nito le due città nella Città di Dio: «Si legge nella Scrit­tura che Caino edi­ficò una città men­tre Abele, in quanto esule non la edi­ficò. La città degli eletti è in cielo, seb­bene si pro­curi nel mondo i cit­ta­dini con i quali è in cam­mino fin­ché giunge il tempo del suo regno». L’essere «in cam­mino, fin­ché giunge il tempo», piut­to­sto che la stan­zia­lità in un luogo, attinge la pro­pria auto­rità dal rifiuto di Gesù di con­sen­tire che i suoi disce­poli edi­fi­cas­sero monu­menti per lui, e dalla sua pro­messa di distrug­gere il Tem­pio di Gerusalemme.

Quella giudaico-cristiana è quindi una cul­tura che, pro­prio alle sue fonti, riguarda diret­ta­mente l’esperienza dello sra­di­ca­mento. La nostra è una cul­tura reli­giosa della seconda cica­trice. La ragione per cui viene con­fe­rito tutto que­sto valore allo sra­di­ca­mento deriva da un pro­fondo discre­dito dell’antropologia della vita quo­ti­diana: il nomos non è verità. Le cose quo­ti­diane sono di per sé illu­so­rie – illu­so­rie come lo erano per gli orfici e per Pla­tone e nella misura in cui lo sareb­bero state per sant’Agostino.

UNO STIGMA MORALE

Una sva­lu­ta­zione del com­por­ta­mento quo­ti­diano di que­sto tipo fa la sua appa­ri­zione in un momento indi­men­ti­ca­bile dell’Edipo a Colono, pro­prio nel discorso che Edipo rivolge al gio­vane Teseo: «Figlio di Egeo a me caris­simo, sol­tanto gli dei non cono­scono vec­chiaia e morte; tutto il resto viene tra­volto dal tempo onni­pos­sente. Illan­gui­di­sce la forza della terra, illan­gui­di­sce la forza del corpo; muore la lealtà, ger­mo­glia la per­fi­dia, né mai per­dura lo stesso sen­ti­mento fra gli amici o fra città e città. Agli uni subito, agli altri in seguito quel ch’è dolce si tra­muta in amaro e poi di nuovo in dolce. Così anche se ora Tebe è in pace per­fetta con te, il tempo infi­nito genera nel suo corso notti e giorni infi­niti, durante i quali essi, sotto lieve pre­te­sto, man­de­ranno al vento con la forza delle armi ogni patto d’amicizia».

Dun­que que­sta seconda cica­trice, che è il segno distin­tivo dello stra­niero, è uno stigma morale, pro­prio per­ché non si sana mai del tutto. Sia nel pen­siero clas­sico sia in quello giudaico-cristiano, coloro che si sono libe­rati dalle cir­co­stanze, coloro che con­du­cono vite da sra­di­cati, pos­sono diven­tare esseri umani di un certo rilievo. Girando per il mondo, si tra­sfor­ma­vano. Si libe­ra­vano dalla par­te­ci­pa­zione cieca e, di con­se­guenza, diven­ta­vano capaci di inda­gare le cose appro­fon­di­ta­mente in prima per­sona, pote­vano ope­rare scelte per se stessi o sen­tirsi infine, come il cieco re greco e il mar­tire cri­stiano, al cospetto di un potere più alto. Le due cica­trici sul corpo del re Edipo rap­pre­sen­tano un con­flitto fon­da­men­tale all’interno della nostra civiltà, in cui le pre­tese di verità del luogo e degli inizi si oppon­gono alle verità da sco­prire quando si diventa stranieri

Come uscire dalla crisi? Più risposte sono possibili, dipende dal punto di vista da cui ci si pone la domanda: questo libro collettivo non assume quello delle banche, ma quello delle persone. Il manifesto, 26 marzo 2014

«Come si esce dalla crisi?» è una domanda, e la rispo­sta dipende dalla pro­spet­tiva di chi osserva. Alcuni stu­diosi misu­rano gli effetti delle crisi (eco­no­mica, sociale ed ambien­tale) sulle fami­glie ita­liane, forti di sta­ti­sti­che che infor­mano che il numero di quelle povere con­ti­nua a cre­scere (oltre il 14% della popo­la­zione, cioè oltre 8,5 milioni di per­sone, con altre 12 milioni «a rischio»), e che i gio­vani ita­liani hanno sem­pre meno pos­si­bi­lità di incon­trare un lavoro (la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile è esplosa oltre il 40 per cento). Altri stu­diosi, invece, con­cen­trano l’attenzione sulla crisi finan­zia­ria del sistema del cre­dito, sco­prendo ban­che «in sof­fe­renza», nono­stante i cospi­cui aiuti rice­vuti in que­sti ultimi anni (su tutti, oltre mille miliardi di euro otte­nuti a un tasso irri­so­rio dalla Banca cen­trale euro­pea, di cui 255 toc­cati a quelle ita­liane), e una costante e con­ti­nua ero­sione degli impie­ghi, ovvero delle risorse che le ban­che pre­stano all’economia reale.
Tra que­sti ultimi stu­diosi e impren­di­tori appar­ten­gono gli uomini che hanno gover­nato e gover­nano il paese e l’economia ita­liana negli ultimi anni (da Ber­lu­sconi a Tre­monti, da Monti a Grilli, da Letta a Sac­co­manni, da Renzi a Padoan): sono quelli che imma­gi­nano di uscire dalla crisi a par­tire dalle ban­che, e si affan­nano per miglio­rare i ratio patri­mo­niali dei big del cre­dito a tutti i costi, anche un richiamo for­male della Com­mis­sione euro­pea, com’è avve­nuto nel caso della «riva­lu­ta­zione» delle quote della Banca d’Italia, che potrebbe gene­rare una plu­sva­lenza miliar­da­ria per i due primi gruppi ban­cari ita­liani, Uni­cre­dit e Intesa Sanpaolo.

Pre­fe­ri­scono, invece, la prima rispo­sta gli uomini e le donne che che da quasi vent’anni pro­muo­vono, ani­mano e coor­di­nano cam­pa­gne volte a garan­tite un con­trollo della finanza nazio­nale e inter­na­zio­nale, dalla «più antica» sulla Tobin Tax fino all’ultima «Per una nuova finanza pub­blica e sociale», che — com’è chiaro a chi segue la rubrica set­ti­ma­nale omo­nima su «l mani­fe­sto» — ha due focus sul debito degli enti locali e su Cassa depo­siti e pre­stiti. Si chia­mano — tra gli altri — Fran­ce­sco Gesualdi, Marco Ber­sani, Andrea Bara­nes, Anto­nio Tri­ca­rico, e oggi fir­mano insieme una valida (pic­cola) enci­clo­pe­dia delle ana­lisi pro­dotte dai movi­menti sulla finanza. Nel libro, pub­bli­cato da una casa edi­trice indi­pen­dente, le edi­zioni Ale­gre, Come si esce dalla crisi non è più una domanda, ma un’affermazione (pp. 256, euro 15).

Per­ché i pal­lia­tivi non ser­vono: è il momento di agire. Di navi­gare lascian­dosi gui­dare da alcune stelle polari. La prima è que­sta: «Se lo scopo delle pri­va­tiz­za­zioni (tutte le pri­va­tiz­za­zioni) era lo svi­luppo del mer­cato finan­zia­rio, a sua volta la pri­va­tiz­za­zione del set­tore ban­ca­rio era il pre­sup­po­sto stra­te­gico delle suc­ces­siva pri­va­tiz­za­zioni». L’Italia, in que­sto, si rivelò straor­di­na­ria­mente dispo­ni­bile. A ricor­dalo la Corte dei Conti in una rela­zione del 2010 che poneva l’accento sugli effetti di quasi vent’anni di pri­va­tiz­za­zioni. Come infatti spiega Ste­fano Risso nel suo con­tri­buto, nei primi anni Novanta «in Fran­cia la pro­prietà pub­blica del sistema ban­ca­rio passò dal 36%al 32%, in Ger­ma­nia dal 61,9% al 52% e in Ita­lia dal 74,5% allo 0%”».

La seconda stella polare è indi­cata da Tri­ca­rico: «Il primo — e unico per pro­fon­dità — mer­cato glo­bale creato negli ultimi 40 anni è stato quello dei capi­tali, in seguito alla libe­ra­liz­za­zione mone­ta­ria del 1971–73, quindi a quella dei movi­menti di capi­tale negli anni 80, quella ban­ca­ria e dei ser­vizi finan­ziari degli anni 90 e all’ingegneria finan­zia­ria negli ultimi 15 anni, che ha creato l’immenso sistema ban­ca­rio ombra».

Per ripren­dere il con­trollo del sistema del cre­dito e sot­trarlo all’eccesso di «finan­zia­riz­za­zione» degli ultimi anni, però, non basta la «sepa­ra­zione dei risparmi delle per­sone dalla finanza spe­cu­la­tiva». Lo Stato — sug­ge­ri­sce Roberto Errico, tra gli ani­ma­tori del «Forum per una nuova finan­zia pub­blica e sociale», ma anche dipen­dente del Monte dei Paschi di Siena — dovrebbe pren­dere misure che «supe­rino l’attuale spinta alla con­cen­tra­zione del set­tore finan­ziari (…), atti che com­pren­de­reb­bero innan­zi­tutto incen­tivi al ridi­men­sio­na­mento, alla rilo­ca­liz­za­zione ed al deli­sting (fuo­riu­scita) dai mer­cati di Borsa di alcuni isti­tuti di cre­dito, al fine di creare un gruppo omo­ge­neo di ban­che pic­cole e legate ai ter­ri­tori di provenienza».

È a par­tire da que­sto che sarà pos­si­bile discu­tere in modo serio di una pos­si­bile sepa­ra­zione tra ban­che com­mer­ciali ed atti­vità finan­zia­rie delle stesse. Che è solo uno degli anti­doti alla crisi, una delle (tante) misure neces­sa­rie per argi­nare la finanza — e le sue derive — che ven­gono pas­sate in ras­se­gna nei saggi rac­colti nel libro. Uno stru­mento, non il fine, che è spie­gare «come si esce dalla crisi» a par­tire dalla pra­ti­che (cam­pa­gne, azioni) messe in campo dalla società civile: dall’analisi del debito pub­blico, che in qual­che modo dev’essersi for­mato, e che uno Stato o un ente locale potrebbe rifiu­tarsi di pagare — almeno in parte -, ai limiti neces­sa­ria da porre ai para­disi fiscali e ai Paesi a fisca­lità age­vo­lata, pas­sando per una tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie, che renda meno attraenti que­sti «inve­sti­menti impro­dut­tivi». Un manuale, dun­que, per pas­sare dalla teo­ria all’azione, certi di una cosa: i soldi (per uscire dalla crisi) ci sono, per­ciò baste­rebbe la volontà poli­tica di indi­riz­zare al meglio il loro uso.

«A venticinque anni dalla nascita il web necessita di garanzie che lo mettano al riparo dalle violazioni alla sua libertà». Estratti dal saggio

Il mondo nella rete. Quali i diritti, quali i vincoli (Laterza) . La Repubblica, 15 marzo 2014

Internet, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, la rete che avvolge l’intero pianeta, non ha sovrano. Nel 1996, John Perry Barlow apriva così la sua Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio. Questa affermazione orgogliosa riflette il sentire di un mondo, di una sterminata platea in continua crescita fino agli attuali oltre due miliardi di persone, che si identifica con una invincibile natura di Internet, libertaria fino all’anarchia, coerente con il progetto di dar vita a una rete di comunicazione che nessuno potesse bloccare o controllare. Ma è pure un’affermazione che ha dovuto subire le dure repliche da una realtà nella quale non solo Internet è variamente oggetto di regolazione, ma soprattutto conosce violazioni continue di quello statuto di libertà che si riteneva poter essere affidato alla propria, esclusiva virtù salvifica.

Perciò è venuto il tempo non di regole costrittive, ma dell’opposto, di garanzie costituzionali per i diritti della rete e in rete. Ma il rafforzamento istituzionale della libertà in questa sua nuova dimensione non può valere solo contro l’invadenza degli Stati. Deve proiettarsi anche verso i nuovi «signori dell’informazione » che, attraverso le gigantesche raccolte di dati, governano le nostre vite. Proprio il modo d’essere di questi soggetti – si chiamino Amazon o Apple, Google o Microsoft, Facebook o Yahoo! – ci racconta una compresenza di opportunità per la libertà e la democrazia e di potere sovrano esercitato senza controllo sulle vite di tutti. Non un Giano bifronte, però, ma un intreccio che può essere sciolto solo da una iniziativa «costituzionale » anch’essa nuova, che trovi proprio nella rete le sue modalità di costruzione.

Un esempio può essere ritrovato nella vicenda dell’Internet Bill of Rights, una proposta maturata all’interno delle iniziative dell’Onu sulla società dell’informazione e che si è venuta consolidando attraverso il lavoro di diversi gruppi, dynamic coalitions spontanee e informali che hanno poi trovato forme di unificazione e metodi comuni, che si sono manifestati negli Internet Governance Forum promossi in questi anni proprio dall’Onu. La scelta dell’antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie «costituzionali».

Ma, conformemente alla natura della rete, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall’alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che possono intervenire in modo attivo, grazie soprattutto a una tecnologia che mette tutti e ciascuno in grado di formulare progetti, di metterli a confronto, di modificarli, in definitiva di sottoporli a un controllo e a una elaborazione comuni, di trasferire nel settore della regolazione giuridica forme e procedure tipiche del «metodo wiki», dunque con progressivi aggiustamenti e messe a punto dei testi proposti.

Siamo così al di là di un altro schema tradizionale, che contrappone percorsi bottom- up a quelli top- down. Si instaurano relazioni tra pari, la costruzione diviene orizzontale. Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all’integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina; a normative comuni per singole aree del mondo, come dimostra l’Unione europea, la regione del pianeta dove più intensa è la tutela di questi diritti; e come potrebbe avvenire per materie dove già è stata raggiunta una maturità culturale e istituzionale, come quella della protezione dei dati personali.

Le obiezioni tradizionali – chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? – appartengono al passato, non si rendono conto che «la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale», come ha scritto Antonio Cassese. Tutto questo accade in un contesto in cui le istituzioni tradizionali non vengono tagliate fuori, ma contribuiscono a una impresa di rinnovamento che, al tempo stesso, può mutare e rafforzare il loro ruolo. L’Onu si presenta come punto di riferimento per un mondo che si struttura proprio per cogliere una occasione da essa offerta. Il Parlamento europeo prende atto di una iniziativa non istituzionalizzata, e fa esplicito riferimento all’Internet Bill of Rights in una risoluzione del 2011. Stiamo entrando in una dimensione difficilmente descrivibile con i tradizionali concetti della modernità politica, a cominciare appunto da quelli di Stato e di democrazia rappresentativa. Ma questa transizione non ci assicura che il suo esito sia quello dell’entrata nella postdemocrazia.

Entriamo nella dimensione dell’inedito, e proprio perché si tratta di un processo inedito, non si può valutarlo con i criteri del passato, né attribuire una sorta di autoevidenza a qualsiasi vicenda che ci accada di registrare. Cimentarsi con il problema del modo complessivo in cui la tecnologia incontra il tema delle libertà e istituisce lo spazio politico, significa proprio fare i conti con processi reali. E proprio riflettendo su Internet possono essere individuate le vie di un costituzionalismo globale possibile, non affidato a norme sovrastatuali incorporate nei diritti statuali. Vale a dire, una costruzione del diritto per espansione, orizzontale, un insieme di ordini giuridici correlati, non punto d’arrivo, ma strutturati in modo da sostenere la sfida di un tempo sempre mutevole, quasi una costituzione infinita. ©

Nel libro del sapiente costituzionalista Paolo Maddalena riemerge il tema nodale dell’urbanistica – l’appartenenza pubblica della facoltà di edificare - colpevolmente trascurato per troppi decenni dagli addetti ai lavori e dai decisori nazionali, regionali e comunali

Paolo Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli, pp. 210, € 18

La partita del territorio italiano, del paesaggio e della loro tutela, si gioca tutta intorno a un’espressione latina, ius aedificandi.

Secondo Paolo Maddalena, professore di Diritto romano, poi giudice della Corte dei Conti e, per un decennio, della Corte Costituzionale, se si chiarisse per bene, senza ambiguità, che una cosa è essere proprietari di un suolo altra cosa è aver diritto a farci quel che si vuole, forse per territorio e paesaggio italiano si può immaginare un futuro più sereno. Ma che cosa c’entra lo ius aedificandi?

C’entra, spiega Maddalena in questo saggio di lettura agile (con introduzione di Salvatore Settis), nonostante la mole di sapienza giuridica che vi è riversata, perché un presunto diritto a costruire si ritiene sia connaturato al diritto di proprietà. È una convinzione molto diffusa in Italia: ne è prova il successo di uno degli slogan simbolicamente più efficaci del berlusconismo, “padroni in casa propria”, che ha fatto proseliti sia fra i grandi che fra i piccoli possessori di aree, a dimostrazione che esiste nel nostro paese un nutrito, multiforme “blocco edilizio” tenuto insieme da una smodata intolleranza verso le regole. Ma uno ius aedificandi così inteso, baluardo di un oltranzismo privatistico, è uno sgorbio giuridico, insiste Maddalena, senza riscontri nelle fonti del diritto romano, anzi ampiamente smentito da questo, e soprattutto in patente contrasto con la nostra Costituzione. Ciò nonostante sul diritto a costruire vige una specie di consuetudine, avallata da alcune norme del codice civile e da qualche sentenza della Corte Costituzionale (risalente a prima che Maddalena vi facesse parte) e poi da un sentire diffuso che autorizza sia abusi edilizi sia piani casa.

E invece possedere un suolo non è come possedere un tavolo. Non lo si può trasformare o manipolare a piacimento. L’edificazione, scrive Maddalena, «produce effetti non solo sui beni in proprietà del privato, ma anche sui beni che sono in proprietà collettiva di tutti, come il paesaggio, che, essendo un aspetto del territorio, è in proprietà collettiva del popolo, a titolo di sovranità».

Stendere un velo di cemento anche solo su duecento metri quadrati di suolo sottrae irreversibilmente a questo alcune funzioni che sono di interesse della collettività. Quella porzione di suolo sarà impermeabilizzata, con un acquazzone la pioggia vi scivolerà e non sarà assorbita ricaricando le falde. Il suolo non potrà più essere coltivato. Non immagazzinerà più carbonio. Se sopra il velo si innalzerà un edificio, questo altererà la prospettiva esistente, attirerà più persone, produrrà più scarichi. Se invece che uno, gli edifici sono tanti, tutti questi effetti si moltiplicheranno. Non può essere solo il proprietario a decidere che cosa fare del suo suolo.

La proprietà privata non dà diritti illimitati. Diritti che, per fare un esempio, un costruttore ritiene di poter esercitare quando va a contrattare la trasformazione di un area con un’autorità pubblica troppo spesso soggiogata politicamente. Ma – ed è qui uno dei punti cruciali del saggio di Maddalena – non è la proprietà privata limitata dagli interessi pubblici. La prospettiva va ribaltata. È il territorio nel suo complesso un bene appartenente alla collettività (come sostenevano già i romani), essendo il territorio il luogo nel quale si esercita la sovranità popolare. E ciò determina, scrive Maddalena, una prevalenza giuridica dell’interesse pubblico su quello privato. Detto in altri termini (sperabilmente non troppo elementari): se in qualunque modo si tocca il territorio sono gli interessi pubblici che vanno considerati più di quelli privati.

Il libro di Maddalena ripercorre in modo assai coinvolgente la storia di come il territorio sia stato considerato un bene collettivo ed enumera le norme giuridiche che hanno supportato questa concezione. Dall’età classica alla nostra Costituzione. Inoltre il libro è percorso dall’idea di quanto sia necessario riferirsi a questi principi nella pratica legislativa, in quella politica e in quella amministrativa. Qui non è possibile neanche sintetizzare tale ricchezza di documentazione, salvo sottolineare come il saggio di Maddalena segni un punto fermo nella saggistica dedicata al territorio e al paesaggio. E nelle battaglie per la loro tutela.

Riferimenti
Di Paolo Maddalena vedi su eddyburg "Il territorio, il lavoro, la crisi finanziaria". Sull'argomento vedi anche E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza 2007, pp. 141 e segg.
«Un libro assai utile quello di Ales­san­dro Arienzo su

La gover­nance (Ediesse, pp. 205, euro 12). Nell’ultimo decen­nio è uscita scon­fitta l’ipotesi di una «gover­nance poli­tica dell’economia». Questo studio per­mette di inda­gare una for­mula con­fusa ed abu­sata, nell’oramai qua­ran­ten­nale domi­nio neo-liberista del capi­ta­li­smo finanziario». Il manifesto, 28 febbraio 2014

Il volume fa parte di una col­lana di recente crea­zione. È quella dei «fondamenti», che un gruppo di gio­vani cura­tori pro­muove, con l’editore Ediesse, «per un vasto pub­blico di let­tori curiosi e appas­sio­nati», incro­ciando il «taglio mono­gra­fico» con «l’alta divul­ga­zione». Una sfida note­vole, di que­sti tempi, quella di unire appro­fon­di­mento della ricerca e dif­fu­sione del sapere. Sem­bra sco­mo­dare i cele­bri Libri di base diretti da Tul­lio De Mauro, che Edi­tori Riu­niti pensò in tutt’altra fase cul­tu­rale. Ad ogni modo l’impostazione gra­fica di que­sti volumi è carat­te­riz­zata dalla pre­senza di schemi esem­pli­fi­ca­tivi, glos­sari, biblio­gra­fie com­men­tate e sunti chia­ri­fi­ca­tori posti alla fine di cia­scun capi­tolo, «per rias­su­mere» il con­te­nuto di quanto detto in pre­ce­denza. Il tutto senza per­dere il taglio ana­li­tico cri­tico che vor­rebbe con­trad­di­stin­guere la col­lana. Sicu­ra­mente così suc­cede con il volume di Ales­san­dro Arienzo, ricer­ca­tore appar­te­nente alla scuola filo­so­fica napo­le­tana e attento stu­dioso di gover­na­men­ta­lità e bio­po­li­tica che dagli studi sulla ragion di Stato è da tempo appro­dato a scan­da­gliare i mean­dri delle tec­ni­che di gover­nance con­tem­po­ra­nea.

Un gene­rico termine

Ma che cos’è la gover­nance? Que­sto l’interrogativo che apre il libro. Seguono tre capi­toli riguar­danti la gover­nance euro­pea, quella inter­na­zio­nale, tra sicu­rezza e svi­luppo, per finire con una rifles­sione sulla por­tata della gover­nance tra Stato e mercato.

Arienzo chia­ri­sce subito che il lemma gover­nance può essere inteso come «espres­sione gene­rica del gover­nare»: «qual­siasi forma di orga­niz­za­zione dell’azione col­let­tiva». Qui la memo­ria risale alle for­mule uti­liz­zate nella Fran­cia medie­vale, piut­to­sto che nell’Inghilterra del Sei­cento. Ma l’opposizione tra gover­nance e govern­ment si afferma nel les­sico pub­bli­ci­stico e scien­ti­fico con le riforme delle isti­tu­zioni di governo locale e metro­po­li­tano negli Stati Uniti degli anni Ses­santa e Set­tanta del Nove­cento. Poi arriva la cor­po­rate gover­nance delle imprese finan­zia­rie, che diviene para­me­tro di com­por­ta­mento delle isti­tu­zioni della glo­ba­liz­za­zione: dal Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale alla Banca mon­diale. Da una parte quindi il governo gerarchico-piramidale che si fonda sull’autorità sovrana dello Stato. Dall’altra la gover­nance dei mec­ca­ni­smi infor­mali, di pro­cessi aperti e dif­fusi, ten­den­zial­mente oriz­zon­tali e non-gerarchici, che inclu­dono reti deci­sio­nali miste, pub­bli­che e private.

Ecco che qui Arienzo si con­cen­tra giu­sta­mente sulla ten­denza ora­mai qua­ran­ten­nale dell’attuale con­cetto e pra­tica di gover­nance: «un per­corso di messa in discus­sione delle pro­ce­dure del governo rap­pre­sen­ta­tivo negli Stati demo­cra­tici e par­la­men­tari», non per aprire spazi di oriz­zon­ta­lità par­te­ci­pa­tiva, ma per obbe­dire al dogma della «gover­na­bi­lità». È un man­tra che giunge fino agli epi­goni del com­pro­messo sto­rico, tut­tora ai ver­tici isti­tu­zio­nali, ma che prende le mosse dal cele­bre Rap­porto alla Com­mis­sione Tri­la­te­rale, tra­dotto in Ita­lia nel 1977 con pre­fa­zione di Gio­vanni Agnelli: non è certo una strana com­bi­na­zione. Piut­to­sto un manuale che impone il verbo della gover­na­bi­lità per argi­nare som­mo­vi­menti sociali che riven­di­cano giu­sti­zia sociale, demo­cra­zia, diritti, redi­stri­bu­zione del red­dito. È l’inizio di un pro­cesso di spo­li­ti­ciz­za­zione dell’orizzonte demo­cra­tico e di incu­ba­zione di una reto­rica sulla gover­nance, intesa esclu­si­va­mente come pro­cesso di «forme orga­niz­za­tive e poli­ti­che di diretta espres­sione del con­tem­po­ra­neo neo­li­be­ra­li­smo», piut­to­sto che come occa­sione di redi­stri­bu­zione dei pro­cessi deci­sio­nali verso il basso, in favore di sog­getti non appar­te­nenti alla strut­tura gerar­chica dei poteri economico-politici esi­stenti. Sono Mar­ga­ret That­cher e Ronald Rea­gan che si affac­ciano, in com­pa­gnia dei Chi­cago boys, fino all’ortodossa auste­rità tedesca.

Così Arienzo sin­te­tizza per­fet­ta­mente lo stato dell’arte. Nell’ultimo decen­nio è uscita scon­fitta l’ipotesi di una «gover­nance poli­tica dell’economia» che la Com­mis­sione euro­pea aveva descritto nel Libro bianco del 2001, insi­stendo par­ti­co­lar­mente sui prin­cìpi di «aper­tura, par­te­ci­pa­zione, respon­sa­bi­lità, effi­ca­cia e coe­renza». Nella biblio­gra­fia com­men­tata è ricor­dato un volume col­let­tivo che provò a con­fron­tarsi a viso aperto con quell’opzione, insi­stendo sugli spazi di azione dei movi­menti sociali euro­pei e glo­bali: Gover­nance, società civile e movi­menti sociali. Riven­di­care il comune (Ediesse, 2009). Nello stesso decen­nio ha preso sem­pre più corpo una «gover­nance eco­no­mica della poli­tica e della società», fau­trice di uno Stato rego­la­tore minimo, imbe­vuta di neo­cor­po­ra­ti­vi­smo, capace di con­ser­vare i rap­porti di potere esi­stenti e al con­tempo di colo­niz­zare l’immaginario collettivo.

Una par­tita ancora aperta

È la nuova ragione dell’ordine neo-liberale (per dirla con Dardot-Laval, da poco tra­dotti per Deri­veAp­prodi) che diventa «gover­nance com­mis­sa­ria di mer­cato», in grado di «com­mis­sa­riare le poli­ti­che eco­no­mi­che degli Stati» e gover­nare le forme di vita degli indi­vi­dui, nel «gestire e ammi­ni­strare il loro capi­tale umano», così come gli spazi dei «pro­cessi aggre­ga­tivi», tanto reali, quanto vir­tuali. Eppure Ales­san­dro Arienzo ci invita a non con­si­de­rare con­clusa la par­tita. Tra i «vuoti e gli scarti della demo­cra­zia» (ripren­dendo un lavoro curato dallo stesso Arienzo e da Diego Laz­za­rich, Esi, 2012) si apre l’urgenza di rico­no­scere il carat­tere poli­tico e con­flit­tuale che la gover­nance inscrive nei rap­porti di potere. È quello il ter­reno dove sfi­dare le derive neo-oligarchiche e tec­no­cra­ti­che. Magari con il pro­ta­go­ni­smo di sog­getti col­let­tivi con­sa­pe­voli del fatto che gli spazi poli­tici di azione sono quelli locali – per un nuovo diritto alla città – insieme con quello con­ti­nen­tale – per un’Europa poli­tica e sociale.

La postfazione alla riedizione di un libro sul quale è utile ricominciare a riflettere, prima che il “pensiero unico” del neoliberalismo si sia impadronito di tutte le teste.

La Repubblica, 24 febbraio 2014

Sono passati vent’anni dalla pubblicazione di Destra e sinistra. Due decenni segnati da sommovimenti profondi. L’Unione europea si dibatte in una crisi pluridimensionale di portata eccezionale. «Per la prima volta nella loro storia, gli europei sperimentano la finitezza dell’Europa». Così si esprime il sociologo Ulrich Beck nel suo ultimo libro, Europa tedesca.

Cambiamenti di eguale portata si sono prodotti sulla scena internazionale. Tra questi ultimi, le rivoluzioni inauguratesi nel 2010 contro l’autoritarismo e la corruzione delle classi dirigenti del mondo arabo. Insieme con esse, sono letteralmente andate in pezzi le strategie opportunistiche dell’Occidente a sostegno di regimi non-democratici – strategie promosse dalla sinistra come dalla destra, in nome della stabilità. Questa messa in scacco del cinismo politico dei partiti al potere – in Occidente, in Africa e in Medio Oriente – ha contemporaneamente messo in rilievo un altro fenomeno. Quello di un “progresso civile” irreversibile, anche se “non necessitato”, per riprendere i termini di Bobbio. Se la transizione resta altamente problematica per i paesi della “primavera araba”, ciò non impedisce che queste rivolte abbiano per orizzonte comune la democrazia. È in nome della dignità umana che la resistenza è continuata nonostante la violenza della repressione. È in ragione dei valori democratici che la spartizione diseguale delle ricchezze è diventata sempre più intollerabile per queste società oppresse.

Detto in altro modo, le rivolte emancipatrici che scoppiano nelle più diverse parti del mondo mostrano tutte le volte che la democrazia non è un’avventura qualsiasi. Il suo manifestarsi, e i valori su cui si fonda, anche se storicamente e geograficamente definiti, hanno una portata universale. I diritti dell’uomo e lo Stato di diritto democratico fanno ormai parte del “patrimonio comune dell’umanità”. La logica democratica è una “logica di libertà”.

Detto altrimenti, anche se non risponde a una logica di causa- effetto – caratterizzata com’è dalla sua fragilità intrinseca e dalla possibilità di regressione – la sua messa in moto introduce una coerenza nella storia umana tale per cui le sue sequenze non sono intercambiabili. Il nostro patrimonio democratico trae la sua forza dalla possibilità di essere riattivato in ogni istante, in qualunque parte del mondo, da un qualunque individuo appartenente alla comunità umana.

Questa idea di progresso e di una crescente consapevolezza di una eguale dignità umana si ritrova a più riprese, sotto la penna di Bobbio. La si trova, in particolare, in un passaggio come questo: «La spinta verso una sempre maggiore eguaglianza tra gli uomini è irresistibile. Ogni superamento di questa o quella discriminazione rappresenta una tappa, certo non necessaria, ma almeno possibile, del processo di incivilimento. Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali di diseguaglianza: la classe, la razza e il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini è uno dei segni più certi dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza». (...) Di fatto, la battaglia democratica è lungi dall’essere conclusa. Non soltanto perché la democrazia non è il solo tipo di regime che esista al mondo, ma anche perché i nostri Stati di diritto democratici sono lontani dal garantire l’effettivo rispetto dei diritti dell’uomo, persino all’interno dell’Unione europea. Alcuni pretendono che il progetto democratico europeo si sarebbe esaurito. Le aspirazioni degli uni e le disillusioni degli altri ci dicono il contrario. E se si è insediata la stanchezza europea, ciò dipende forse innanzitutto dal fatto che la classe politica europea – di destra e di sinistra – non è stata all’altezza dell’esigenza democratica che caratterizza il progetto politico dell’Unione europea. Invece di assumere come indispensabile la mutazione del loro patrimonio politico, i leader delle nazioni europee si sono votati all’impotenza, in un mondo in cui l’economia, la finanza, i media… funzionano ormai a scala planetaria.

Un’impotenza che certe nazioni, nei loro sogni più folli, immaginano di poter combattere da sole. A forza di rifiutare di impegnarsi insieme nella democratizzazione della globalizzazione, e nella realizzazione della democrazia europea, i leader degli Stati si sono assuefatti a una tolleranza di fronte all’ingiustizia, all’interno dell’Unione europea e ancor più al di fuori delle sue frontiere. I malfunzionamenti democratici, non solo al livello istituzionale, ma soprattutto nella realtà quotidiana, costituiscono senza alcun dubbio un ingrediente fondamentale della crisi simbolica acuta che incancrenisce il nostro continente. Questa crisi attiene al registro specificamente identitario e deve essere presa molto sul serio. Io sono convinto che la sua risoluzione passa tra le altre cose attraverso la spiegazione del significato del “politico”. E ciò impone di esporsi pubblicamente attraverso un progetto impegnativo per le società e per gli individui che le compongono. Il progetto politico si determina senza alcun dubbio a partire da una visione del mondo. Ma esso è anche un qualche cosa in cui ciascuno deve potersi riconoscere per appropriarsene veramente. In questo senso, esso funziona come uno “stabilizzatore identitario” che non necessariamente è sinonimo di particolarismo o di regresso. Quella che si suole chiamare la «crisi di legittimità» che investe l’ordine politico delle nostre democrazie liberali ha dei legami evidenti con la crisi identitaria europea.

Ed è assai spiacevole che i partiti politici, quale che sia il loro orientamento, abbiano preso l’abitudine di puntare il dito sulla crisi di legittimità europea, quando quest’ultima è in qualche modo null’altro che un’amplificazione della crisi di legittimità che già da tempo ha eroso l’ordine politico nazionale. Si tratta di una rottura socio-politica che concerne i sistemi politici moderni in generale. Detto in altro modo, la sfida si situa su un terreno più grande: quello del valore della politica e della fiducia nei confronti delle istituzioni democratiche rappresentative, vale a dire della classe politica tout court. Ora, questa fiducia si basa sulla qualità della performance del processo di identificazione in generale. È così che le chiusure identitarie – le quali possono raggiungere proporzioni deliranti – si possono interpretare come altrettante lacune nel processo di identificazione, considerato nel suo insieme.

Se questo libro di Bobbio rimane attuale, non è tanto in ragione degli argomenti che sviluppa, ma soprattutto per ciò che esprime: un bisogno di ritrovare il senso della politica.

rugalità, Il Mulino pp. 144, euro 12) l'autore, con la sua consueta lucidità e chiarezza, aiuta a riflettere sulla natura di una parola che ha risvolti psicologici ed economici, ed è parente stretta di parole. Sarebbe utile, seguendo un analogo schema, interrogarsi su parole la cui deformazione ha assunto un ruolo centrale nel discorso politico attuale, come “austerità". La Repubblica, 21 febbraio 2014

Giulio Nascimbeni, sul Corriere della Sera dell’ 8 maggio 1994, raccontava di una crociata avviata dal mensile Il Migliore, diretto da Sergio Claudio Perroni. Si trattava di salvare parole «che rischiano di diventare arcaiche e quindi svanire». Una di queste parole era frugale, una parola con una lunga storia. Compare nella prima metà del Trecento in un testo di Giovanni Cassiano dove si parla di «virtù frugali». Oggi, grazie all’uso del motore di ricerca Google Trend, potete scrivere «frugalità, abbondanza» e accorgervi che la crociata di Perroni non ha sortito grandi effetti. La vittoria dell’abbondanza sulla frugalità è schiacciante. Se però consultate i due termini inglesi « frugality, abundance », scoprite che il primo termine riaffiora grazie ad articoli come quello di Arthur Frommer sul Francisco Chronicle del 20 luglio 2009, dal titolo: Frugality Now Fashionable - And Necessary. Quando si parla di frugalità, di che cosa stiamo esattamente parlando?

1. La frugalità non è la povertà. È una scelta, non una costrizione. Se si sembra frugali perché si è poveri, in realtà non si è frugali. Oggi, in Italia i poveri sono circa cinque milioni. Si tratta di persone che l’Istat, nel suo rapporto, classifica come «poveri assoluti». Si potrebbe pensare che, in una società ricca, gli «assolutamente poveri» diminuiscano. E invece aumentano. Dal 5,7 per cento delle famiglie assolutamente povere del 2011 siamo passati all’8 per cento delle famiglie del 2012.

2. La frugalità non è neppure l’avarizia. L’avarizia, come la povertà, non è una vera e propria scelta: alla povertà siamo costretti dalle circostanze esterne, all’avarizia dalle nostre ossessioni mentali. Da questo punto di vista il prototipo dell’avarizia è la figura tragica di Mazzarò, il protagonista della novella La roba di Giovanni Verga (1883). Vi si narra di Mazzarò che, partendo da zero, col passare del tempo, accumula una fortuna appropriandosi delle terre di un barone: «Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba alla sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la piaggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava pensando alla sua roba [...] quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba». Mazzarò diventa vecchio. Pensa che sia «un’ingiustizia di Dio» dover lasciare la roba dopo essersi logorata la vita per accumularla: «Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: — Roba mia, vientene con me!». Non sempre l’avarizia è un’ossessione che arriva a coinvolgere l’aldilà, più spesso è una passione terrena, solitaria e triste. Comunque è ben lontana dalla frugalità, almeno nelle forme in cui l’avarizia si manifestava ai tempi di Verga.

3. La frugalità non è nemmeno una decisione di risparmio. A questo proposito, vorrei raccontare quella che credevo fosse una semplice leggenda familiare, tramandata da mio «nonno Tano».

Il «nonno Tano» (in realtà era il mio bisnonno Gaetano Rossi, e morì l’8 giugno del 1947) mi è rimasto impresso perché ero l’unico nipote ammesso nella sua camera e, quando lo vidi morire, credevo si trattasse di un sonno prolungato. Il papà di Gaetano, Alessandro, industriale tessile, aveva una nuora, Maria, madre dei suoi nipoti prediletti. Maria gli chiede di acquistare un carrettino per far giocare i nipoti: lei aveva già comprato un pony a Verona. Ecco la risposta di Alessandro: «Duolmi, o mia carissima, di non poter aderire alla tua richiesta: non comprerò la charrette, e non approvo l’acquisto del cavallino. Con lo stesso corriere, insieme alla tua letterina, m’è pervenuta la relazione settimanale di Fochesato (direttore del lanificio) il quale mi avverte doversi licenziare due operai recentemente assunti in prova, perché il loro rendimento non corrisponde al salario che per conto loro inciderebbe sul bilancio dell’opificio. Considera, figliola carissima, che prezzo di poney e charrette corrisponde al salario dei due che devonsi licenziare ». In questa risposta c’è l’essenza della frugalità, che è una scelta di stile e di buon gusto. A differenza delle decisioni collegate al risparmio, e finalizzate all’acquisto di beni, o a sconfiggere l’incertezza del futuro, la frugalità non ha altro scopo se non se stessa. Una volta, chi faceva scelte frugali spesso non si accorgeva di farle, semplicemente perché gli sembravano ovvie: si viveva così. A quei tempi, la frugalità si palesava solo se trascurata, come nel caso di Maria, che vi è costretta da un’imposizione di Alessandro, il suocero. Maria avrebbe dovuto rendersi conto che non è di buon gusto fare un regalo che costa come lo stipendio di due operai, per giunta da licenziare a beneficio della produttività dell’opificio.

Questo episodio chiarisce bene il rapporto che c’era un tempo tra frugalità e risparmio. Sembrano due concetti imparentati ma, a ben vedere, ciò che li avvicina è soltanto il non consumo opulento, il rifiuto del superfluo. Il risparmio ci rende robusti, meno vulnerabili, perché la riserva costituita dal risparmio ci permette di affrontare avversità future, oggi non prevedibili. Inoltre il risparmio lascia un margine di manovra nelle scelte di vita, una sorta di cuscino di sicurezza. La frugalità, invece, produce risparmi solo come effetto collaterale: l’abitudine al poco è una difesa preventiva che ci rende invulnerabili ai rovesci della sorte. Utilizzo qui un’opposizione approfondita da Nassim Taleb nel suo ultimo saggio.

Taleb distingue tra robustezza e antifragilità: la seconda implica il sapersela cavare in ambienti ostili, l’aver bisogno di poco, e non solo in termini materiali. Per Taleb la distinzione tra robusto, fragile e antifragile si applica a molti ambiti della vita: «Quel che s’impara in modo esplicito a scuola è fragile, le conoscenze tacite che discendono dalla vita pratica sono robuste, ma è solo l’insieme di scuola e di pratica che è antifragile». La frugalità è un concetto darwiniano, nel senso che ci rende più adattabili a scenari in rapido mutamento. La robustezza economica, invece, è più ostaggio degli eventi, e ci difende solo dalle avversità finanziarie, non da quelle della vita. La frugalità è un sapere tacito, che s’impara da piccoli in famiglia, non un sapere che s’impara a scuola. Mazzarò è una persona fragile, la possibilità della morte lo coglie impreparato. In lui i consumi ridotti non sono la via per raggiungere un obiettivo, la ricchezza è fine a se stessa. Alessandro Rossi è invece antifragile. Per uno dei più ricchi industriali di allora, il costo di un pony e di un carrettino sarebbe stato irrilevante rispetto all’entità dei suoi averi, in termini cioè di robustezza economica. E tuttavia quello che desiderava la nuora era cosa da non farsi


Racconto di un film «con acclamazione di critica e di pubblico negli Stati Uniti (tra i dieci migliori del 2013, New York Times) e in Europa, salvo l'Italia, dove le sale non ritengono commestibile una ignota filosofa: sintomo dello stato dell’arte nel nostro paese». dal blog

idadominijanni, 16 gennaio 2014

Fu durante un convegno sul quarantennale del Sessantotto, più di cinque anni fa, che Margarethe Von Trotta mi anticipò che stava lavorando a un film sulla vita di Hannah Arendt. Ardua scommessa, pensai e le risposi provando a immaginare come si potesse restituire la complessità della vita, del pensiero e della persona di Arendt in un film di due ore. Ma Margarethe le scommesse, se non sono ardue, non le prende nemmeno in considerazione; e fino a quel momento le aveva vinte tutte: con Anni di piombo (Leone d’oro a Venezia 1981), con Rosa Luxemburg (1986), con Rosenstrasse (20013).

Ha vinto anche questa. Presentato al festival di Toronto del 2012, Hannah Arendt( coproduzione Germania-Lussemburgo-Francia-Israele) è uscito nel frattempo con acclamazione di critica e di pubblico negli Stati uniti (uno dei dieci film migliori del 2013 secondo il ) e in tutta Europa salvo che in Italia, dove pare che le sale non ritengano commestibile la storia di una ignota filosofa: un bel sintomo dello stato dell’arte nel nostro paese. La distribuzione (Ripley’s film e Nexo Digital) approfitta dunque della Giornata della memoria per mandarlo in 70 sale e 19 città il 27 e 28 febbraio prossimi, e della ripubblicazione per Feltrinelli de La banalità del male per diffonderlo in formato digitale. Il resto lo faranno scuole, università e circuiti culturali interessati.

In coppia con la cosceneggiatrice americana Pam Katz (ma sono donne anche la produttrice Bettina Brokemper, la direttrice della fotografia Caroline Champetier, la montatrice Bettina Böler), Von Trotta sceglie gli anni fra il 1960 e il 1964 per condensare vita e pensiero di una delle protagoniste assolute del Novecento. Reincarnata in una strepitosa Barbara Sukowa, Hannah vive a New York dal 1941, dopo la fuga in Francia dalla Germania di Hitler nel ’33, l’internamento nel campo di detenzione di Gurs e l’esodo oltreoceano con la madre e il secondo marito, Heinrich Blücher, il comunista tedesco autodidatta incontrato a Parigi e sposato nel ’40.

Sfondando – giustamente – il confine fra privato e pubblico che Arendt mantenne come un punto fermo della sua filosofia, il film restituisce assieme la dimensione personale e politica di Hannah, le amicizie e l’insegnamento, gli amori e il pensiero, incastonati fra la decisione di andare a Gerusalemme per seguire il processo a Eichmann e il discorso tagliente tenuto alla New School per rispondere agli attacchi suscitati dal suo reportage del processo sul New Yorker, con le tesi esplosive sulla ”banalità del male” perpetrato da Eichmann nonché sulla ”cooperazione” dei vertici della comunità ebraica tedesca con le deportazioni.

Esplosive allora e dopo (Von Trotta: «io stessa ho potuto recepirle appieno solo dopo la caduta del Muro di Berlino»), perché insopportabili tanto per la cultura antinazista, rassicurata dall’idea della mostruosità eccezionale di quel male di cui Arendt svelava invece la banale normalità, tanto per la comunità ebraica, rassicurata dalla certezza dell’innocenza assoluta delle vittime. Non solo la comunità intellettuale newyorkese ma tutto il mondo affettivo di Hannah ne resta terremotato: i colleghi che la invitano a dimettersi dall’insegnamento, gli amici ebrei che le voltano le spalle, Hans Jonas, il più antico fra loro, che l’accusa di far prevalere in lei l’arroganza dell’intelligenza tedesca sulle radici ebraiche.

E’ il nocciolo anti-identitario e ”non allineato” del pensiero di Arendt che ci convoca e ci parla tutt’ora, ogni giorno e in ogni circostanza in cui la certezza dell’appartenenza va a discapito della comprensione dei fatti. Così come tutt’ora ci parla la battaglia di Hannah per non rinunciare alla pubblicazione del suo reportage sul New Yorker: allora come oggi, c’è sempre un caporedattore o una caporedattrice zelante (per inciso, uno dei personaggi più vivi del film) che ti dice che pensi troppo liberamente per vendere, o che sei troppo filosofa per fare del buon giornalismo.

C’è nel film questo nocciolo, che si forma nella testa di Hannah durante il processo al criminale nazista che «siede nella gabbia di vetro come un fantasma e non è per niente terribile»; ma non c’è solo questo. C’è l’amicizia di Hannah con Mary Mc Carthy (Janet McTeer) e Lotte Köhler (fonte diretta della sceneggiatura), quell’amicizia femminile che fu un filo d’acciaio della «non femminista» Arendt ed è un filo d’acciaio della filmografia di Von Trotta, da Sorelle a Anni di piombo a Rosenstrasse. C’è il controverso rapporto d’amore fra Hannah e il suo maestro Martin Heidegger, una sorta di passato che non passa e che non cessa di tornare, fra la gratitudine e l’incubo, nei ricordi e nel sonno, irrinunciabile malgrado e contro l’adesione di Heidegger al nazismo.

C’è, ancor più irrinunciabile, il rapporto con la lingua materna, che s’impone negli esuli contro l’inglese ogni volta che c’è da discutere di qualcosa in cui ne va di se stessi (il film alterna infatti le due lingue, e per fortuna non sarà doppiato in italiano). C’è infine e soprattutto, come ha notato il NYT, non solo il pensiero ma il pensare di Arendt, quella sua peculiare capacità di fare la spola fra i fatti e la teoria, fra l’evento e il concetto, che ne ha fatto la grandezza e che Barbara Sukova lascia srotolare fra una sigaretta e l’altra, fra una nottata alla macchina da scrivere e un riposino diurno sul divano, vita activasenza soste e missione senza tempo. Erano i favolosi anni Sessanta, quando a New York si poteva ancora fumare perfino in un’aula della New School, e chissà se pure per questo il pensiero volava più libero.

«Criticare l’austerità perché crea più problemi di quanti ne risolva è giusto, ma non basta. Se non si aggiunge che essa tende a corrodere gli spazi pubblici e le basi delle istituzioni democratiche ».

LaRepubblica, 7 gennaio 2014

Il neoliberismo è in ritirata o la sua egemonia resta intatta? È quanto è stato chiesto in una recente intervista a John Bellamy Foster, direttore della Monthly Review ed autore, con Robert McChesney, di Endless Crisis, edito dalle edizioni della rivista. Non si può dire che le sue risposte siano risolutive. Sostenere che l’attuale regime neoliberale è il prodotto del grande capitale, del grande governo e della grande finanza su scala globale è più che ragionevole, ma non sufficiente. Restano aperte molte domande. Il peso che ha assunto l’economia finanziaria è il frutto di un ritiro delle politiche governative o delle loro scelte? E i tentativi di regolamentazione dei mercati che già nel 2009 hanno fatto parlare di “ritorno dello Stato” come vanno intesi? Come riflusso del neoliberismo o come sua ristrutturazione sotto altre vesti?

Per orientarsi in questa selva di questioni bisogna intanto intendersi sul significato del termine. In proposito risulta assai utile l’ampia ricerca elaborata da Pierre Dardot e Christian Laval in un volume adesso tradotto da Derive Approdi col titolo La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, a cura di Paolo Napoli. La loro tesi di fondo è che la crisi in corso, lungi dal comportare un indebolimento delle politiche neoliberiste, ha portato al loro brutale rafforzamento attraverso forme di austerità incapaci di invertire la logica speculativa dei mercati finanziari. La falsa apparenza di una inversione di tendenza è nata da una interpretazione inadeguata del liberismo come semplice ritiro dello Stato davanti alla naturalità del mercato. In questo modo si è confusa l’ideologia della fase eroica del liberismo economico con il modo in cui esso si è concretamente realizzato.

Non solo quello che chiamiamo neoliberismo — sia nella sua versione austriaca alla Hayek sia in quella anglosassone alla Friedman — non ha mai immaginato di fare a meno dello Stato, ma ha prodotto esso stesso una pratica di governo. Come ha spiegato per primo Foucault nei suoi corsi ad essa dedicati, quella neoliberale è una razionalità eminentemente governamentale, volta alla direzione delle condotte degli uomini attraverso precise norme comportamentali. Anche secondo Greta Krippner (Capitalizing on crisis. Political origins of the rise of finance, Harvard University Press 2012) non sono i mercati ad aver conquistato dall’interno gli Stati, ma gli Stati ad aver introdotto il modello concorrenziale dell’impresa in tutte le dinamiche sociali. Da un lato il soggetto individuale è portato a vedere in se stesso un capitale umano; dall’altro gli Stati competono tra loro nell’attrarre gli investimenti delle multinazionali abbassando i livelli dei salari e della previdenza sociale.

Ciò — l’estendersi della competitività a principio generale di governo — spiega non soltanto la corsa, apparentemente suicida, alle politiche dell’austerità, ma anche loro accettazione rassegnata da parte dei Paesi che più ne hanno pagato le conseguenze, come la Grecia e il Portogallo. È l’esito del consenso creato dal governo neoliberista. Esso, tutt’altro che ridursi alla contestazione delle regole esistenti, è produzione attiva di norme di vita sul piano giuridico, etico e, prima ancora, antropologico. Nel giro di pochi decenni l’intera società ne è stata plasmata in una forma talmente generalizzata da non essere avvertita in quanto tale. Oggi tutti

i rapporti, con gli altri e perfino con se stessi, sono orientati al principio mercantile del guadagno. Così, piuttosto che semplice modello economico, il neoliberalismo si configura come l’insieme degli atti e dei discorsi che governano gli uomini secondo il principio della loro concorrenza. Naturalmente se tale modello appare insuperabile quando l’economia tira, dimostra tutta la sua debolezza quando le cose cominciano a non funzionare. C’è un limite oltre il quale la forbice tra coloro che diventano sempre più ricchi e coloro che diventano sempre più poveri si divarica al punto di rompere la macchina del consenso sociale. In questo caso quella che ancora definiamo crisi monetaria assume i caratteri di una vera e propria crisi sistemica che coinvolge l’intero orizzonte dei rapporti umani.

Come contrastare questo stato di cose? Non sono pochi gli storici che ci ricordano come le grandi crisi abbiano sempre stimolato grandi idee. Come dopo il crack del 1929 è stato inventato il New Deal e il Welfare, così dal buco nero che si è aperto cinque anni orsono vanno nascendo nuove concezioni. Se economisti come Krugman, Stiglitz, Fitoussi, Boeri ritengono sbagliato pensare di ripianare i deficit pubblici a colpi di tagli della spesa sociale, altri arrivano a rovesciare radicalmente la prospettiva dell’austerity. Per esempio James W. Galbraith arriva ad assegnare un ruolo produttivo al debito pubblico, se finanziato da banche centrali disposte a comprare senza limiti i titoli di Stato emessi dai rispettivi governi. Ciò che tale concezione — derivata dalla modern monetary theory — manda in mille pezzi è la pretesa di un’impostazione economica, sposata da molti governi europei, che si presenta con la dogmaticità di una nuova religione. Nel suo libro sul nuovo banditismo bancario (Banchieri,Mondadori 2013), Federico Rampini richiama quanto sostenuto dal filosofo Michael Sandel nel saggio Quello che i soldi non possono comprare, tradotto da Feltrinelli. Oggi la discussione sui danni sociali dell’alta finanza è circoscritta entro limiti troppo angusti.

Quando si associa l’idea di mercato non solo a quella di benessere, ma anche a quella di libertà, non ci si accorge di rimanere subalterni al sistema di pensiero che ha prodotto la crisi. Criticare l’austerità perché crea più problemi di quanti ne risolva è giusto, ma non basta. Se non si aggiunge che essa tende a corrodere gli spazi pubblici e le basi delle istituzioni democratiche. Il punto che resta opaco è la differenza che passa tra la “governamentalità” neoliberale e la politica nel significato più intenso dell’espressione. Fare politica non vuol dire solo amministrare nella maniera più rimunerativa ciò che esiste, ma anche volgere lo sguardo alle possibilità contenute nel nostro futuro.

A proposito dell’ultimo libro dello storico Guido Crainz,

Diario di un naufragio (Donzelli). Con la limpida narrazione di «un ventennio tra i fallimenti 
della sinistra e l’avanzata del populismo» arriva fino ai nostri giorni il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. L’Unità, 18 dicembre 2013

La cronaca degli ultimi dieci anni potrebbe aprirsi sulla scena di piazza Navona, nel febbraio del 2002, quando con un colpo di teatro Nanni Moretti scosse una manifestazione dell’Ulivo al grido: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». Il Pd, sopravvissuto a quell’esperienza, sopravvissuto a sconfitte elettorali, vivendo i suoi momenti di gloria e le sue crisi identitarie, socialdemocratico, neoliberista, chissà che, ha dismesso quei dirigenti e ne sta, in questi giorni, cercando altri. Nuovi? Reduci della passata politica? Innovatori autentici? Viene in mente il titolo di un film del ’68 di Lina Wertmüller: Riusciranno i nostri eroi... Altra epoca e le epoche contano. Altra epoca di contraddizioni feroci, ma anche di slanci libertari, democratici (di una democrazia che cercava nella sua imperfezione una propria via alla partecipazione contro i legacci e i limiti istituzionali), riformatori (dal divorzio al diritto di famiglia, dallo statuto dei lavoratori alla 180), altra epoca che si smarrì nei gioiosi anni 80 e nel ventennio berlusconiano. Resta l’interrogativo: riusciranno i nostri eroi?

Le ultime righe della cronaca che Guido Crainz, storico (si leggano i tre volumi che compongono il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, pubblicati da Donzelli), ricostruisce nel suo ultimo Diario di un naufragio (pagine 256, euro 19,50, Donzelli) mi sembrano attestino la difficoltà fino alla disperazione dell’impresa: eredità e detriti della stagione berlusconiana che gravano «come un macigno sulla nostra capacità politica di ricostruire il paese e di progettare». Ammettendo appunto che è impossibile ancora considerare per conclusa la «stagione berlusconiana»: conclusa, come si spera, magari sul terreno politico-elettorale, improbabile che lo sia sul piano della cultura profonda, del costume di un paese.

La critica al pd

Il «diario», il «giorno per giorno» di uno storico, cronista, commentatore, riguarda le forze politiche in campo, i loro comportamenti (in tutti i sensi, anche in quello che testimonia la progressione della corruttela, da Tangentopoli al Batman di Anagni, dalle tangenti di Craxi alle condanne di Berlusconi, mentre si vede crescere «la forbice fra i durissimi sacrifici imposti al paese e i perduranti privilegi e sperperi di un sistema politico travolto dagli scandali»), i loro fallimenti. Nella rappresentazione dei fallimenti, senza tregua è la critica al Pd, una insistenza polemica che si comprende da parte di chi sta a sinistra e di chi coltiva attese di cambiamento e di chi pensa o spera che ancora nel Pd vi siano le forze, l’intelligenza, la moralità su cui far leva per interrompere la discesa all’inferno (come sarebbe stato possibile scriveva Crainz proprio nei giorni delle ultime elezioni se il Pd avesse avuto anche il coraggio di una proposta radicale, di «una radicalità senza precedenti» nei contenuti programmatici e nell’alto e nuovo profilo del governo).

Ma nel Diario di un naufragio colpiscono altre note: non tanto quelle che ci restituiscono alcuni diversi frammenti di una storia dell’antipolitica che va, nel dopoguerra, dal qualunquismo di Giannini al «nullismo» di Grillo, quanto quelle che riferiscono di una partecipazione al voto che tocca nel dopoguerra tetti inusuali, anche in Europa, scavalcando l’asticella del 90 per cento e che declina a partire dalle regionali del 1980 fino a precipitare senza sosta sotto la soglia del 50 per cento. Di fronte all’Italia che vota c’è un’altra Italia, ugualmente consistente, tanto varia da diventare inafferrabile: delusa, scoraggiata, indifferente o estranea alla politica, perché semplicemente pensa ad altro, un’altra Italia dentro la quale si è inabissata quella società civile, che ai tempi del «grido» di Nanni Moretti aveva illuso di rappresentare la chiave di volta di una resurrezione-rigenerazione del paese. Sistema politico e società civile capita che si dividano con pari dedizione le spoglie di pochi valori sopravvissuti e il peso o il vantaggio di tanti peccati (cominciando da una diffusa disponibilità alla corruzione e all’obnubilamento mediatico, al torpore di fronte alle più gravi accuse, minori e prostituzione e persino alle condanne). Quando, in un miracoloso travaso, grazie ad esempio al tragico Grillo, la società civile non si è riversata nel sistema politico, dimostrando adattabilità e nessuna difficoltà ad apprendere. Come se la «mutazione», si fosse del tutto compiuta, senza scampo.

La malattia del belpaese
Il Diario di Crainz mi pare dimentichi alcune «voci» nel repertorio dei protagonisti del naufragio, intanto gli intellettuali (un tramonto e basta) e poi la stampa italiana, pesantemente, malinconicamente in deficit di fronte a una missione che le spetterebbe per definizione: informare sullo stato del paese, sulle varie forme, politiche e sociali, in cui la malattia si manifesta, tralasciare le scritture consolatorie quando i buoi scappano, ignorare gli amori di Dudù per la barboncina bianca di Palazzo Grazioli quando in «terra dei fuochi» i bambini muoiono di cancro. Restituire davvero al Belpaese Benpensante l’immagine della tragedia che incombe, naufragio, terremoto, frana, allagamento o veleno, per mare e terra, politica e morale, immagine da fine del mondo. Non ci rimarrebbe una speranza in più se almeno un foglio, dalle tirature potenti, avesse rivendicato autonomia di fronte ai suoi padroni, avesse alzato qualche velo, sostenuto qualche battaglia (magari per difendere il semplice principio che la legge è uguale per tutti)?

Il mito degli italiani brava gente, come intuibile dopo l'emergere del razzismo con gli immigrati, non regge a un esame storico sul consenso alle leggi razziali fasciste. Recensione a un libro di M. Avagliano e M. Palmieri.

Corriere della Sera, 19 novembre 2013

Racconta Norberto Bobbio che durante la guerra a Padova, dove allora insegnava, nel bar che era solito frequentare apparve un avviso che proibiva l’ingresso agli ebrei: «“Adesso strappo quel cartello”, dissi fra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne avevo avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?».
Nel dopoguerra, per lungo tempo, l’inclinazione all’autoassoluzione da parte degli italiani, nel quadro più generale della «defascistizzazione» del Paese, attraverso la raffigurazione del regime fascista come dittatura da «operetta», ha portato all’errata conclusione che le leggi razziali fossero state disapprovate dai più e non fossero mai state davvero applicate, o quantomeno non in modo scrupoloso ed efficace. Così come nessuna colpa sarebbe imputabile agli italiani per la drammatica efficacia della Shoah nella penisola, con oltre 7.500 vittime. È molto diversa la conclusione cui giunge la ricerca di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolata Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini & Castoldi), che esce oggi in libreria, proprio nei giorni in cui cade il 75° anniversario della promulgazione dei provvedimenti antiebraici.

I due autori hanno scandagliato le relazioni dei fiduciari della polizia politica e del Minculpop, delle spie dell’Ovra, dei prefetti e dei funzionari del Pnf sullo «spirito pubblico», oltre agli atti e alla corrispondenza dei burocrati locali e ai diari e alle lettere dei protagonisti dell’epoca. Il risultato è una cronaca impietosa, una sorta di «romanzo criminale» dell’antisemitismo italiano. Una sequela di documenti, prese di posizione, episodi razzisti, che definitivamente oscura quel mito degli «italiani brava gente» in cui per tanti decenni ci siamo riconosciuti per non fare i conti con le pagine nere della nostra storia.

Dal caleidoscopio delle reazioni della popolazione nel periodo 1938-1943, analizzato da Avagliano e Palmieri in pagine emozionanti, che colpiscono e indignano, risulta che gli italiani di «razza ariana» assistettero o presero parte all’antisemitismo di Stato in vario modo: quali persecutori, propagandisti, teorici, complici, delatori, profittatori, spettatori più o meno indifferenti (la categoria dei bystanders , per utilizzare l’espressione di Raul Hilberg, uno dei massimi studiosi della Shoah) e, in misura minoritaria, come oppositori o solidali (in alcuni casi potremmo dire Giusti).

Soprattutto all’inizio, il tema delle leggi razziali, introdotte in Italia dal regime fascista tra il settembre e il novembre del 1938, non suscitò grandi passioni né forti dissensi. La cifra prevalente, guardando alla maggioranza della popolazione, fu senz’altro l’indifferenza. Ma, come scrivono i due autori, «il “non vedo, non sento e non parlo” praticato dalla maggioranza degli italiani non si può però valutare con il metro semplicistico della pusillanimità. Al dunque esso si tramutò in connivenza e adesione di fatto, poiché contribuì a realizzare l’obiettivo della persecuzione, vale a dire l’isolamento, la separazione e l’esclusione degli ebrei dal resto della società». Dopo una fase iniziale nella quale non mancarono dubbi, incomprensioni e critiche, sia pure sottovoce, che videro protagonisti diversi antifascisti (in particolare gli esuli in Francia), parte del clero e dei cattolici (tradizionalmente divisi tra una corrente filogiudaica e una antisemita) e le classi meno abbienti o meno istruite, il consenso verso la politica razziale del regime crebbe progressivamente presso tutti gli strati sociali e anche nel mondo cattolico di base.

In particolare il sentimento antigiudaico fece registrare un consistente incremento nei primi due anni di guerra, nei quali la propaganda fascista sull’ebreo «nemico dell’Italia» attecchì anche tra i ceti popolari, con diversi episodi di violenza fisica o verbale (ebrei picchiati, sinagoghe incendiate o distrutte, scritte e volantini di minaccia). Uno scenario che iniziò a mutare solo tra il 1942 e il 1943, quando il disastro bellico, le forti difficoltà economiche e la crisi del fascismo provocarono la messa in discussione di tutti gli architravi della politica del regime.

La grande cultura italiana del tempo reagì alle leggi razziali in preda a quella che Concetto Marchesi, nel gennaio 1945, sul primo numero di «Rinascita», definirà «libidine di assentimento». Fu quasi del tutto assente, tranne poche eccezioni (Benedetto Croce, Arturo Toscanini, l’economista Attilio Cabiati), una protesta visibile degli intellettuali. Anche gli editori, con la lodevole eccezione dei Laterza, epurarono i testi degli autori ebrei senza opporre resistenza. Avagliano e Palmieri pubblicano le lettere di giubilo inviate a Mussolini: «Caro Duce, il popolo italiano attende con spasimo atroce che venga definitivamente eliminata la stirpe ebraica dal sacro suolo della Patria», scrive a Mussolini un anonimo studente universitario. Aggiungendo: «In nome di tutti i nostri morti abbi il coraggio di imitare Hitler alla lettera e sino alla fine. eia! eia! eia! alalà!!!». Anche buona parte della burocrazia si distinse per la solerzia e la rigidità nell’applicazione delle misure razziali, spesso anticipandone o aggravandone gli effetti. «Potete intanto stare tranquillo — scrive ad esempio il podestà di un comune molisano scelto come località d’internamento al questore di Campobasso — che sappiamo con chi abbiamo a che fare, con gli ebrei! Razza maledetta». Nel settore economico, non mancarono i casi di sciacallaggio, di opportunismo, di speculazione, da parte di commercianti, industriali, imprenditori. Il veleno dell’antisemitismo, iniettato nel corpo della società italiana dalla virulenta propaganda fascista, colpì perfino i bambini, come attestano i numerosi episodi documentati nel libro.

Anche la Chiesa, dopo l’iniziale opposizione di papa Pio XI alla politica razzista del regime (e in particolare al divieto di matrimoni misti), mise il silenziatore alle critiche alle leggi razziali e anzi diversi cardinali o esponenti religiosi, come padre Agostino Gemelli, sposarono le misure antisemite del fascismo.

I percorsi della solidarietà furono limitati: alcuni acquistarono beni passibili di confisca a prezzi di mercato, senza approfittare della situazione, altri fecero da prestanome per consentire ai titolari ebrei di non perdere aziende ed esercizi commerciali, altri ancora scrissero lettere al re, al duce e a personaggi influenti del regime per chiedere una qualche forma di clemenza e mitigazione della persecuzione in favore di amici o conoscenti ebrei. Qualche parola di conforto — di «calda e piena manifestazione di solidarietà» e di «giustizia umana», come si legge in alcune lettere di perseguitati — fu comunicata a livello individuale e privato, possibilmente lontano da sguardi indiscreti. E ancora doveva arrivare la vergogna di Salò.

Due belle recensioni di un libro da leggere, per chi è interessato a un futuro della sinistra che non tradisca il suo passato, comprendendone le rgioni e le passionidal

Corriere della Sera (Paolo Franchi) e Huffington Post (Francesco Marchianò).12 novembre 2013

Corriere della sera
12 novembre 2013
Pci, 1966: l’errore di non scegliere nel duello tra Ingrao e Amendola
di Paolo Franchi

Un viaggio a ritroso nel tempo, per cercare di individuare le ragioni recenti e antiche di una sconfitta che, a sinistra, è prima di tutto la sconfitta della «generazione fortunata», che ha fatto in tempo a formarsi ai tempi della «grande politica» e poi, caduto il Muro, ha buttato al vento la sua occasione. La generazione, per intenderci, che per quarant’anni ha tenuto il campo, nel Pci, nel Pds, nel Pd: e che adesso non può, o almeno non dovrebbe, esimersi dal dovere di un rendiconto. A uso, se non altro, di chi oggi è ragazzo, o giù di lì.

Ce lo propone, questo viaggio, Walter Tocci, nel libro Sulle orme del gambero (Donzelli), un libro che interessa da vicino anche chi (è il mio caso) ne condivide solo in parte le tesi. Non è mai stato un leader, Tocci, ma la sua parte l’ha fatta, eccome, e continua a farla, da senatore e da segretario del Centro per la riforma dello Stato. I primi passi li ha mossi tra i metalmeccanici della Cisl, a Roma è stato prima un dirigente del Partito comunista nelle periferie, poi amministratore comunale e vicesindaco. Ma senza mai sottrarsi, anzi, a quello che un tempo si chiamava il lavoro culturale (in primo luogo sulle politiche urbane, i temi istituzionali, la scienza). E soprattutto senza mai smettere di interrogarsi, come si conviene a un ingraiano che alla scuola del «venerato maestro» ha appreso a coltivare il dubbio come metodo. Conclusa (malamente) la vicenda del Pci (lui era per il «no»), ha scelto, per usare la famosa espressione di Ingrao, di «restare nel gorgo», giungendo sino ad affidare le sue speranze, negli anni Novanta, all’Ulivo. Poi è andato avanti di delusione in delusione, di amarezza in amarezza, fino al 19 aprile del 2013: uno spartiacque (in questo è impossibile dargli torto), perché quei 101 franchi tiratori del Pd che impallinano Romano Prodi segnalano come la sinistra politica sia giunta «al minimo storico nella capacità di influenza sulla vita nazionale, come mai era accaduto, neppure nei momenti più difficili».

Il viaggio a ritroso dell’autore comincia da qui, e non c’è modo, in queste righe, di ripercorrerne criticamente le tappe. Ma il frangente storico in cui Tocci situa, non senza ardimento intellettuale, l’inizio di una lunga crisi, questo sì, è bene segnalarlo. Bisognerebbe risalire, addirittura, al 1966, a quell’XI congresso del Pci in cui, sostiene Tocci, vennero alla luce due diversi e opposti revisionismi post togliattiani, certo quello di sinistra, sconfitto, di Pietro Ingrao, ma pure, eccome, quello di destra, solo in parte vittorioso, di Giorgio Amendola, la cui eco si avverte ancora, nitidamente, in Giorgio Napolitano. La forma partito del Pci (ma forse, prima ancora, la forma mentis dei duellanti) impedì che prendessero corpo come due ipotesi strategiche alternative, destinate a combattersi o a trovare la via di un’inedita intesa: il partito restò sempre nelle mani di un centro che, per governarlo, si appoggiò ora sulla destra, come negli anni della solidarietà nazionale, ora sulla sinistra, come nell’ultima stagione di Enrico Berlinguer. Una formula che sembrava vincente, e invece condannò il Pci all’entropia, e impedì ai due revisionismi di crescere, dannando la sinistra all’astrattezza e la destra a un realismo destinato sovente a sconfinare nel moderatismo tout court .

La tesi, vale la pena di ripeterlo, è ardita, ma anche affascinante, e meritevole di riflessioni più approfondite. Così come varrebbe la pena di soffermarsi più attentamente su un’evidenza sempre sottaciuta, a lungo impensabile, e da Tocci enunciata con parole impietose: quel divorzio tra sinistra e popolo per cui «le persone più disagiate seguono la destra e guardano con diffidenza se non con disprezzo verso la sinistra, sempre più accasata nella neoborghesia urbana». Tocci prova a ragionarci su con passione fredda, sottraendosi ai luoghi comuni sul populismo e soprattutto restando a modo suo un militante in cerca di un filo che possa legare il passato, il presente e, perché no, il futuro. Si può dissentire da molte delle sue affermazioni. Ma, specie in tempi di politica usa e getta, già questo è un merito non da poco.

Huffington post
12 novembre 2'14

Un viaggio all'indietro alla ricerca degli errori della Sinistra
di Francesco Marchianò
Molti politici, oltre a parlare, amanoscrivere. Molto spesso, però, i loro libri sono superficiali e propagandistici.Capita di rado, invece, di trovare testi che esprimono pensieri lunghi, persinosofferti, che invitano al ragionamento e alimentano il dubbio e la ricerca.
Rientra in questacategoria un recente volume pubblicato da Donzelli, Sulleorme del gambero. Ragioni e passioni della sinistra (pp. 265, Euro 18.50). L'autore è Walter Tocci, senatore del Partito Democratico, giàvicesindaco di Roma durante le giunte di Francesco Rutelli e direttore delCentro Studi e Iniziative per la Riforma della Stato.
Si tratta di un volume che meriterebbe moltaattenzione a partire del bilancio amaro che Tocci fa della sua generazionepolitica, una generazione che si è formata a contatto con le grandi personalitàdella sinistra del passato e che però non è riuscita né a trasmettere allenuove generazioni l'esempio di quella testimonianza, né con le ultime elezionia governare veramente il nostro Paese mancando l'occasione della propria vita.
Il volume, andando a ritroso come il gambero,prova a comprendere le cause e gli errori che hanno portato la sinistra allasituazione attuale. Al centro di questa riflessione vi è una lettura moltooriginale della storia del Partito Comunista e della sua crisi. Generalmenteessa viene datata nella seconda metà degli anni Settanta, dopo l'assassinio diAldo Moro e la fine della strategia del compromesso storico. Secondo Tocci,invece, occorre andare più indietro e collocare la crisi del Pci molto prima,cioè subito dopo la morte di Togliatti quando nessuno dei "riformismi"messi sul campo, quello più a destra di Amendola e quello più a sinistra diIngrao, riescono a prevalere e il partito manca di compiere quel cambiamentonetto che, probabilmente, gli avrebbe consentito di affrontare da una posizionee con una prospettiva molto diversa i problemi che sarebbero sorti negli anniimmediatamente successivi.
La riflessione si sposta poi sugli anni dellaseconda repubblica, anni di grandi speranze e ancora più grandi delusioni.Secondo Tocci la prima repubblica ha continuato a sopravvivere nei suoi aspettideteriori nella seconda, aumentando il senso di delusione e frustrazione neitanti cittadini che si erano illusi della possibilità di un grande cambiamento.I partiti, perdendo forza ideale e organizzativa, si sono trasformati instrumenti personali, non solo di leader nazionali, ma anche di boss locali, ehanno sempre più riempito lo Stato e l'amministrazione di eletti senzamigliorare la qualità della democrazia. Si è diffuso così il neonatobilato,favorito dai cosiddetti partiti in franchising.
La politica, d'altro canto, sia a livelloperiferico che centrale, ha scelto la via della verticalizzazione, attratta dalmito decisionista, ma si è ben presto accorta della propria incapacità didecidere. Così il vuoto di decisione e progettualità è stato riempito da uneccesso normativistico. Troppe legge e poca politica, questa è una delledeludenti sintesi di questa fase. Negli anni della seconda repubblica hannotutti proclamato le famose riforme, si sono detti tutti riformisti, eppureproprio le vere e grandi riforme sono quelle che sono mancate, sia da partedella destra che della sinistra.
Questa constatazione, sulla quale si puòampiamente concordare, spinge Tocci di conseguenza a dichiararsicoraggiosamente, e giustamente, contrario alla modifica costituzionale. Ilproblema non è la Carta, il problema sono state le classi dirigenti. Se non siè stati all'altezza della costituzione, come generazione politica, non si hal'autorevolezza necessaria per modificarla. Che ci provino le nuovegenerazioni. Questo l'auspicio dell'autore che per altro aggiunge altreefficaci considerazioni sostegno della sua scelta: lo scarso consenso delleforze che dovrebbero modificare la costituzione (insieme non raggiungononeanche il 50% dei votanti); il barocco e pericoloso aggiramento dell'articolo138. Insomma, occorre recuperare quella che Tocci ha definito "l'umiltàcostituzionale".
Allargando lo sguardo sia temporalmente chespazialmente, l'analisi si estende agli ultimi trent'anni, quelli del neoliberismo,che vengono racchiusi nella categoria dell' "Inganno". Dovevanoportare maggiore ricchezza, diminuire le diseguaglianze, offrire piùpossibilità al futuro delle persone. Si sono conclusi, invece, nella grandecrisi che stiamo vivendo e che non vede leadership politiche adeguate per ilsuo superamento. Soprattutto queste leadership mancano in Italia dove sia gliultimi governi politici che quelli tecnici hanno dimostrato un deficit evidentenel trovare soluzioni ottimali per orientare in una direzione risolutiva epositivi i processi e i problemi in corso.
Per questo la politica italiana dovrebberitornare ai pensieri lunghi, abbandonando la visione provinciale che spesso èprevalente, per provare davvero a governare e decidere. Una delle caratteristichedel trentennio liberista è stata, infatti, la progressiva diminuzione del ruolodella politica e dello Stato a favore dell'economia e di organismisovranazionali il più delle volte non elettivi. Oggi sarebbe auspicabileun'inversione di tendenza che ponga fine agli effetti dannosi del liberismo,ridia dignità e potere alla politica e provi a mettere insieme crescitaeconomica e ridistribuzione al fine di ridurre le gravi diseguaglianze e darepiù diritti e speranze alle persone.
Se l'Inganno è la categoria del trentennioliberista, quella del caso italiano è certamente la decadenza. Essa si puòmisurare in vari ambiti. Tocci ne sceglie due in particolare ai quali hadedicato gran parte della sua esperienza politica: quello dell'università edella ricerca e quello del paesaggio italiano. Il primo è emblema del granderitardo del nostro paese che investe molto meno della media europea nellaricerca (e quindi nel futuro) e che dietro la presunta competitività traatenei, introdotta dalla Gelmini, produce solo squilibri nella conoscenza e neldiritto allo studio. L'altro, invece, dietro il degrado di vaste aree urbanecementificate in maniera indifferenziata, senza regole, senza servizi, senzauna cultura del vivere insieme, riflette le miserie del capitalismo italianoattratto prevalentemente dalla rendita. Banche e costruttori hanno gonfiato unmercato fino a farlo esplodere che ha solo impoverito le tasche dei cittadini ela bellezza del nostro ambiente.
"Sulle orme del gambero" è un volumeche dona al lettore il senso netto di uno sforzo generoso di analisi, onestàintellettuale e soprattutto tanta umiltà. Virtù e qualità poco diffuse cheappartengono a quei politici dei quali c'è sempre bisogno, anche quando lapalla sta per essere passata alle nuove generazioni.

«Il mondo contemporaneo ci mette di fronte a un vero e proprio groviglio della paura, ed è questo groviglio che dovremmo iniziare a dipanare se vogliamo cercare di analizzare le cause, le conseguenze e i possibili sviluppi del malessere generalizzato che pare essersi impossessato delle società umane e minacciare il loro equilibrio».

La Repubblica, 14 novembre 2013

Anticipazione del libro di Marc Augé Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi? (Bollati Boringhieri, pagg. 80, euro 9)

«Non abbiate paura!» dichiarò solennemente Giovanni Paolo II nel 1978 mentre saliva al soglio pontificio. E invitava l’umanità ad aprire «i confini degli Stati, i sistemi economici e quelli politici, gli immensi campi della cultura, della civiltà e dello sviluppo». Trent’anni più tardi, Romano Prodi, sul quotidiano La Croix,definirà «profetiche» queste parole, sottolineando come esse si rivolgano a un Occidente sempre più in preda alla paura.

L’aggettivo «profetico», utilizzato retrospettivamente, si applica più all’appello in sé che non al contenuto del messaggio. Poiché, se l’apertura annunciata o auspicata da Giovanni Paolo II è effettiva in ambito economico, e vi sancisce il trionfo del capitalismo finanziario più egemone, oggi servirebbe davvero molto ottimismo per scovare nel mondo i segni certi di una nuova primavera, magari araba. Più che mai, il mondo ha paura.

Il cambiamento di scala che riguarda la vita umana su tutto il pianeta è fondamentalmente economico e tecnologico: le innovazioni tecnologiche creano nuovi beni di consumo che, a loro volta, ricreano la domanda ed esigono nuove forme di organizzazione del lavoro. Il capitalismo è riuscito a creare un mercato che ha la stessa estensione della Terra. Le grandi aziende sfuggono alla logica dell’interesse nazionale. La logica finanziaria impone agli Stati le sue regole. E, all’improvviso, questo dominio è diventato così evidente da essere inappellabile, salvo i clamori delle manifestazioni di protesta che lo accompagnano senza produrre il minimo cambiamento. La lotta di classe c’è stata, ma la classe operaia l’ha persa. L’Internazionale trionfa, ma è capitalistica.

Al giorno d’oggi i vecchi sono piuttosto chiacchieroni, ed è Stéphane Hessel, nel 2010, a far eco al papa scomparso: «Indignatevi!». Questo secondo appello suona al contempo come una giustificazione del primo (l’indignazione è una forma sublimata di paura) e come la constatazione della sua sconfitta, visto che Stéphane Hessel denuncia sia il trattamento a cui sono sottoposti gli immigrati sia la dittatura dei mercati finanziari, l’aumento delle disuguaglianze e, in generale, gli aspetti perversi della globalizzazione capitalistica.

Non sarà che, oggi, la paura della vita abbia rimpiazzato la paura della morte? Se diamo un’occhiata alle notizie quotidiane, caratterizzate dall’incremento di violenze di ogni sorta, ricaviamo proprio questa impressione. Ma questa constatazione generale non deve spingerci a ignorare la diversità delle situazioni. A seconda delle regioni del mondo e dei regimi politici, a seconda dell’appartenenza etnica o sociale, dell’appartenenza a un sesso o a un altro, le ragioni per avere paura sono diverse, la morte è più o meno presente e la vita più o meno intollerabile. Ci sono paure da ricchi e paure da poveri, e queste rispettive paure incutono paura le une alle altre: paure delle paure, paure al quadrato in un certo senso. Gli occidentali non sfidano il mare su fragili imbarcazioni per fuggire dal loro continente mettendo a rischio la vita. Si accontentano di portare soccorso a qualche naufrago e di piangere i morti; per di più, i sopravvissuti occupano il loro spazio, sagome fantasmatiche venute da lontano e di cui non sanno come liberarsi.

Resta il fatto che un rapido inventario delle nuove paure umane ci obbliga a registrare l’incremento di forme di violenza relativamente inedite, ancor più significative per il fatto che ne sono esposti anche i paesi più ricchi dell’Occidente. Queste violenze possono essere distinte in tre categorie, a loro volta composite: le violenze economiche e sociali, specialmente nell’ambito dell’impresa, le violenze politiche (razzismo e terrorismo inclusi), e infine le violenze tecnologiche e quelle naturali, le seconde spesso scatenate o amplificate dalle prime. Queste tre forme di violenza generano paure specifiche: lo stress, il panico o l’angoscia, ma le paure, come le violenze, si sommano le une alle altre, si combinano e si influenzano l’un l’altra, a maggior ragione in un’epoca di diffusione accelerata di immagini e messaggi al pianeta intero. Nel complesso, si manifestano per l’ossessione dell’altro, confondendo ogni categoria di alterità, e per il timore del futuro. Ma questa ossessione e questo timore hanno molteplici componenti. Il mondo contemporaneo ci mette dunque di fronte a un vero e proprio groviglio della paura, ed è questo groviglio che dovremmo iniziare a dipanare se vogliamo cercare di analizzare le cause, le conseguenze e i possibili sviluppi del malessere generalizzato che pare essersi impossessato delle società umane e minacciare il loro equilibrio. [...] «Abbiate paura!», è stato questo l’avvertimento lanciato e reiterato da Bin Laden. Siamo ben lontani dall’aver dimenticato gli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno segnato simbolicamente la nostra entrata nel nuovo secolo. Non erano certo i primi della lunga lista di atti terroristici che, specialmente in Francia, nel corso degli ultimi trent’anni del Ventesimo secolo avevano creato un clima di insicurezza molto ansiogena. E non hanno neppure chiuso la lista

degli attentati suicidi che si perpetuano un po’ dappertutto sul pianeta. Ma se c’è un prima e un dopo l’11 settembre, così come c’è stato un prima e un dopo Hiroshima, non è soltanto perché questi attentati hanno rappresentato in modo spettacolare, per il numero e l’origine delle vittime (2.973 morti appartenenti a 93 paesi diversi), per la scelta degli obiettivi (il Pentagono, il World Trade Center) e dei mezzi (quattro aerei dirottati, 19 pirati sacrificati), un condensato delle follie e dei furori che minacciano il mondo, una sorta di globalizzazione del terrore; è anche perché hanno scatenato una forma di schizofrenia collettiva di cui non ci libereremo più.

È un double bind, un doppio vincolo, se si vuole, o meglio una doppia paura. Da un lato, nessuno avrebbe tollerato l’idea di rivedere un giorno delle immagini come quelle trasmesse e ritrasmesse dalle televisioni di tutto il mondo. Dall’altro, era difficile aderire senza riserve alla «guerra contro il terrore» decisa da George W. Bush contro l’Iraq, che, oltre al fatto che pareva aver sbagliato bersaglio, ufficializzava l’esistenza di una sorta di larvato conflitto mondiale di cui non erano perfettamente chiare né le ragioni né la posta in gioco. Non ne siamo ancora usciti e ci troviamo sempre di fronte a scenari tanto più sconcertanti quanto più i loro protagonisti cambiano volto e ruolo da un episodio all’altro: il fedele alleato della vigilia diventa l’insopportabile dittatore del giorno dopo, e i terroristi di ieri gli alleati responsabili di oggi.

Così come la mania di persecuzione colpisce generalmente quegli individui che hanno qualche buon motivo per sentirsi perseguitati, le paure che da qualche tempo ci incalzano hanno fondamenti oggettivi, e ciò le rende ancora più temibili: rischiano di essere cattive consigliere e possiamo paventare tanto le loro conseguenze quanto i fatti che le hanno scatenate. Il concatenamento delle paure è l’arma totale di ogni Terrore.

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