loader
menu
© 2025 Eddyburg

"La fame" (Einaudi, La Repubblica.it, 30 aprile 2016 (p.d.)

Che colossale abbuffata di ipocrisia si consuma intorno alla fame. Prima l’hanno ribattezzata "insicurezza alimentare", come se depotenziarla linguisticamente la rendesse meno micidiale. Poi hanno truccato le statistiche, per vantare inesistenti progressi in questa lotta che è di Sisifo solo per il sostanziale disinteresse di chi la combatte. Intanto i misteri abbondano: produciamo cibo per dodici miliardi di persone e tuttavia quasi un miliardo su sette di quelle che abitano sulla terra non ha di che riempire il piatto. La scomoda verità è che chi fa la fame oggi non lo deve tanto alla povertà propria quanto alla ricchezza altrui. Succede perché i due terzi di aiuti all’India vanno a finire nelle tasche dei funzionari corrotti. O perché la stessa percentuale dei soldi stanziati dagli Stati Uniti in realtà resta a ingrassare l’economia americana. O perché la Monsanto ha messo in piedi uno schema ricattatorio per lucrare sui semi. O perché i derivati sul grano valgono cinquanta volte di più della produzione del grano e questa e altre speculazioni hanno fatto triplicare il prezzo dei cereali, rendendoli proibitivi per chi ne aveva un bisogno vitale.

Tutto questo, assai genericamente, lo sappiamo. Salvo poi dimenticarlo il giorno dopo. È un meccanismo di difesa normale quello di scrollarsi di dosso fardelli insopportabili per continuare a vivere. Sino a quando non arriva qualcuno che ci rispiega tutto a un livello di risoluzione inedito, offrendo il contesto storico che ci ha portati sin qui, e la storia prende un senso nuovo, più nitido e urgente. È successo per la camorra con Roberto Saviano. Succede per (Einaudi, pp. 722, euro 26, traduzione Rolla, Cavarero, Niola) con Martín Caparrós, un cinquantottenne giornalista e romanziere argentino con dei baffi a manubrio che lo fanno assomigliare a un domatore di leoni. Nel suo libro monumentale, frutto di cinque anni di studio robusto e viaggi in alcuni dei Paesi più disperati del Pianeta, compie una specie di ambiziosissima cronaca di milioni di morti annunciate. Intervallando i capitoli con delle specie di vox pop, discorsi veri o verosimili che la gente pronuncia sulla mancanza di cibo, per poi ripetere come un mantra: «Come cazzo facciamo a vivere sapendo tutto questo?».

Ho incontrato Caparrós, fresco vincitore del Premio letterario internazionale Tiziano Terzani 2016, quando è stato ospite del Festival Letteratura di Mantova. Aveva presentato il libro nella Basilica Palatina di Santa Barbara che aveva fatto quasi venir giù con un paio di bordate sul suo connazionale Papa Francesco («Cosa potrebbe fare contro la fame? Dimettersi») e su Madre Teresa («Ha fondato circa cinquecento conventi in cento Paesi e non ha mai aperto una vera clinica a Calcutta»). Noi però ci siamo incontrati al primo piano del trecentesco Palazzo Castiglioni, in un salottino così bello, con un vassoio di uva così succosa, inneschi ideali per una serie di sensi di colpa rispetto al tema da affrontare.

Tanto per non chiamarci fuori dalla catena delle responsabilità, ho iniziato la conversazione leggendogli una sua frase sulla nostra categoria: «Sono morti che non finiscono sui giornali. Non sarebbe possibile: farebbero collassare i giornali». La fame, ho azzardato, avrebbe bisogno di un miglior ufficio stampa? «Intanto è il problema altrui per antonomasia. Non è mai direttamente nostro. Non siamo mai noi – noi che ci preoccupiamo dell’ecosistema, dei diritti sessuali, della libertà d’espressione, della pace in Medio Oriente – a soffrirne. Perché dovrebbe importarcene? Se ne avessi il potere, però, pubblicherei una storia di fame al giorno. Anche non lunga, e soprattutto non astratta, ma con un nome e un volto. Guardate cosa è successo con la foto del piccolo Aylan, trovato morto su una spiaggia turca mentre cercava rifugio in Europa. Sono convinto che lo stesso potrebbe accadere parlando di affamati, piuttosto che di fame».

Esattamente ciò che lui fa lungo settecento pagine. Il libro inizia in Niger, dove ogni donna ha in media sette figli (il tasso di fertilità più alto al mondo) e dove uno su sette muore prima di compiere cinque anni. È lì che domanda alla trentenne Aisha: se avesse potuto chiedere quello che voleva, qualunque cosa, a un mago capace di dargliela, che cosa gli avrebbe chiesto? E lei gli risponde: una vacca. Il cronista non ci crede: «Ma davvero? Guarda che puoi chiedere qualsiasi cosa». Al che l’intervistata rilancia: «Due vacche. Con una ci sfameremo noi, con l’altra produrrei cose da vendere e non avrei fame mai più».

Una vacca, per la cronaca, costa l’equivalente di 500 dollari. Il perimetro estremo dei sogni di questi esseri umani non si spinge oltre il valore di una bici elettrica. La parte terribile è che uno su mille li corona. Forse. Ma questo non è affatto, sia chiaro, un libro lacrimevole. È un trattato sulle umane contraddizioni intorno al tema più frusto, globale e ritualizzato che esista. Così eroso da parole vuote che anche a Miss Venezuela, quando viene laureata Miss Mondo, viene spontaneo dire che il suo augurio principale è proprio «combattere la fame nel mondo» (che è sempre meglio di aspirare, come ha fatto l’incauta omologa italiana, di vivere durante la seconda guerra mondiale per vedere l’effetto che fa).

Il possente racconto si snoda intorno ad alcune date chiave. La prima: anni 80. «È allora che si impone il cosiddetto Washington Consensus con cui la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale convincono, a forza di minacce riguardo i loro debiti esteri, la maggior parte dei governi africani a ridurre l’ingerenza statale su vari settori, a partire dall’agricoltura. In caso di raccolti scarsi o carestie, i ministeri competenti non avrebbero più potuto combatterle sovvenzionando alcuni alimenti oppure regolando i prezzi per legge». Senza queste ragionevoli armi in Niger, negli anni successivi, migliaia di persone che avrebbero potuto essere salvate morirono di fame. Una circostanza che, col tempo, avrebbe sgretolato il consenso. «Al punto che più tardi la stessa Banca mondiale avrebbe affermato che i sussidi all’agricoltura servono quattro volte tanto rispetto a ogni altro sussidio nella riduzione della fame. Ma tra il 1980 e il 2010 la proporzione degli aiuti internazionali all’Africa destinati all’agricoltura passò dal 17 al 3 per cento».

La sagra delle parole vuote, dalle bellezze in bikini ai funzionari internazionali in grisaglia, impazza tragicomica. Con un’aggravante specifica e particolarmente odiosa che a Caparrós non sfugge: «Mentre dicevano all’Africa che era peccato farlo, Stati Uniti ed Europa sovvenzionavano i loro agricoltori con circa 300 miliardi di dollari l’anno. Le vacche europee sono le creature con la maggiore sicurezza alimentare del Pianeta. Per loro si spendono circa 2,70 dollari al giorno. Perciò quando a un leader contadino di Vidarbha domandarono quale fosse il sogno dell’agricoltore indiano, questi rispose: “Il sogno dell’agricoltore indiano è reincarnarsi in una vacca europea”».

Un’altra data importante, e ancora più vaga, è quella in cui il mondo ha cominciato a essere in grado di produrre cibo per tutti. Parla Caparrós: «Mi sono fatto l’idea che succeda a cavallo tra anni 80 e 90, ma mi piacerebbe che gli storici raccogliessero la sfida per una datazione accurata. Oggi viviamo nel paradosso che produciamo cibo per 12 miliardi di persone eppure quasi un miliardo è ancora denutrito. Dove vanno a finire i sei miliardi mancanti? Nei Paesi ricchi il 30-40 per cento lo buttiamo. Poi ci sono altri sprechi, tipo che per produrre un chilo di salmone in allevamento servono otto chili di altri pesci che lui si mangia. Quindi il cibo c’è, ma è distribuito molto iniquamente. Per consentire a noi di sbafarci un salmone o una bistecca serve che qualcuno che potrebbe mangiare altro non lo faccia. L’aveva già fatto notare l’attivista Lester Brown ogni volta che gli domandavano quanta gente è in grado di nutrire il nostro Pianeta: "Se tutti mangiassimo come gli americani, che ingurgitano tra gli 800 e i 1.000 chili di cereali a testa l’anno, soprattutto attraverso le carni prodotte con quei cereali, il raccolto mondiale di cereali potrebbe nutrire 2,5 miliardi di persone. Se tutti mangiassimo come gli italiani, che consumano due volte meno carne, si potrebbero nutrire 5 miliardi di persone. Se tutti seguissimo la dieta vegetariana degli indiani potremmo nutrire 10 miliardi di persone". Quindi dipende. Fuor di dubbio sono invece gli enormi passi avanti fatti nella produzione alimentare a partire dagli anni 60, quando il biologo Norman Borlaug scoprì, tra l’altro, un gene che faceva contrarre lo stelo del grano. Lo stelo più corto e più spesso consentiva alla pianta di sopportare molti più chicchi. In poco tempo la resa di ogni appezzamento si triplicò o quadruplicò».

La stessa idea, applicata al riso, risparmiò milioni di vite umane in India, dove lo scienziato americano venne chiamato come consulente del governo alla vigilia di una carestia imponente. Genetica, chimica, tecnologia sotto forma di fertilizzanti e nuovi sistemi di irrigazione moltiplicarono i raccolti. Per questo Caparrós si arrabbia per certe posizioni che trova un po’ caricaturali, alla Vandana Shiva, sulla difesa della via naturale all’agricoltura: «Da diecimila anni l’agricoltura è una lotta contro la natura, perché non prenda il sopravvento, per sviluppare le astuzie di scegliere la pianta che resiste meglio delle altre e così via».

Il tentativo di fare della natura una religione è tanto antico quanto pericoloso. L’autore cita la seguente frase: «L’uomo che tenta di ribellarsi alla ferrea logica della natura è coinvolto nella lotta contro i fondamenti cui deve la sua stessa esistenza come uomo, perciò la sua azione contro la natura lo porta inevitabilmente alla rovina» (lo scriveva Adolf Hitler in Mein Kampf, ma avrebbe potuto tranquillamente copiarlo-incollarlo un benintenzionato fricchettone dei tempi nostri).

Il problema, dunque, non sono affatto gli ogm che possono aiutare e molto nella lotta contro la fame, ma il loro sfruttamento economico. Il fatto che la Monsanto controlli il 90 per cento dei semi transgenici e che sia nella condizione di dettare condizioni capestro ai contadini che vogliono usarli. In questo schema, spiega lo scrittore porteño, il progresso tecnologico non è un tentativo di migliorare la vita, ma di fare in modo che alcuni accumulino più ricchezza: «Si tratta, dunque, di inventare un modo per impossessarsi di questi nuovi ritrovati: di individuare azioni politiche per mettere le nuove tecnologie al servizio di molti».

L’ultima data è l’unica precisa: 1991. Fu in quell’anno che Goldman Sachs decise che «il nostro pane quotidiano sarebbe potuto diventare un ottimo investimento». I loro quant ruppero l’ultimo tabù creando una specie di paniere finanziario che riproduceva l’andamento delle principali materie prime alimentari. Nacque così il Goldman Sachs Commodity Index e la gente cominciò a comprare le sue azioni. Nel 2003 gli investimenti valevano circa 13 miliardi di dollari. Nel 2008 invece 317. E i prezzi, sia dei titoli che dei cereali sottostanti (i due terzi delle nostre calorie provengono da riso, mais e grano), in quella sorta di profezia autoavverante che è il mercato, salirono alle stelle. I fortunati azionisti festeggiavano a ostriche preferendo non rendersi conto che quegli aumenti significavano la contestuale condanna a morte per milioni di persone meno fortunate per cui anche la palla di miglio era di colpo diventata una chimera.

Nell’ultimo anno i prezzi dei cereali sono scesi di parecchio. C’entra il rallentamento dell’economia cinese e soprattutto la caduta del prezzo del petrolio, grazie al fracking e altre variabili, che serve per far funzionare i trattori. «La cosa mostruosa» aggiunge Caparrós «è che, sebbene siano arrivati a costare anche la metà di soli pochi anni fa, nei Paesi poveri questa riduzione non si è vista. Si è misteriosamente fermata prima del livello dei consumatori».

Tra le tantissime cose che non sapevo prima di leggere questo librorientra anche l’andamento del numero dei denutriti nel tempo. Nel senso: ero convinto che si riducessero di anno in anno. È vero il contrario. Nel 1970 si calcolava che fossero 90 milioni solo in Africa, nel 2010 oltre 400 milioni. Come se non bastasse nel 1990 la Fao rinnega il metodo statistico usato sin lì e, rifacendo i calcoli, sostiene che gli affamati del '70 nel mondo non erano 460 milioni ma 941 milioni. «La cosa permetteva di affermare che i 786 milioni di quel momento, il 1990, non significavano un aumento della fame ma una diminuzione: 155 milioni di affamati in meno, un grande risultato». Totò e Peppino al Palazzo di Vetro.

In questa opera mondo c’è così tanta roba che si rischia di perdersi. Caparrós ha un occhio aguzzo per le disuguaglianze. Mette a confronto un ettaro americano, che produce fino a 2.000 tonnellate di cereali, con un ettaro del Sahel, che ne produce a stento uno, poco meno di quanto faceva un contadino della Roma antica. Oppure denuncia la contraddizione interna indiana, decimo Paese più ricco del mondo e primo per denutriti, che ogni tanto prova a mettere sul problemino delle goffe pezze simil-etiche («Pensano di avere scelto di essere vegetariani»). La verità è che siamo tanto più umani quanto più siamo sazi. E siamo tanto più umani quanto minore è il tempo che dobbiamo dedicare a saziarci (quasi tutto per gli animali, circa una settimana all’anno per i norvegesi: l’autore lo chiama «grado di umanizzazione»).

Omero usava "mangiatori di pane" come sinonimo per uomini. La fame è anche una delle ragioni principali che spiegano la differenza tra gli 82 anni di aspettativa di vita di un italiano contro i 41 di un mozambicano o dei 38 di uno zambiano. Eppure quelle vite dimezzate avranno un senso, nel grande schema delle cose, se Franklin Delano Roosevelt aveva ragione a dire che «gli uomini bisognosi non sono uomini liberi. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature».

Da allora il criterio per definire la classe media (che anche da noi si sta riducendo) è sempre stato che essa spende, in cibo, meno di un terzo dei propri introiti. Gli chiedo, nei tanti gironi di privazione che ha visitato, cosa l’abbia colpito di più. «Sono così tante che non sempre do la stessa risposta. Oggi mi viene in mente quella donna del Bangladesh che faceva bollire delle pietre in un marmitta per dare l’illusione ai figli che c’era qualcosa da mangiare. Così drammatico, e così inutile. Una metafora tra tante degli inganni che si accettano».

E quindi, alla fine, come cavolo facciamo a vivere sapendo tutto questo?Ci pensa un po’, si liscia il baffo e con tutto il coraggio del domatore di leoni dice: «Illudendoci di fare, ognuno per la sua parte, qualcosa che riduca il problema. Anche se servirà a poco o a nulla. Anche se, come mi hanno spiegato dei ragazzi di Medici senza frontiere, è come sperare di fermare un’emorragia femorale con un cerotto. Eppure quel cerotto ce lo mettono. Sempre. Giorno dopo giorno. Così dobbiamo fare noi. Non tanto per l’etica del risultato, ma per la necessità che sentiamo di farlo. La storia ci ha abituati alle sorprese. Perché dovremmo escludere di averne delle belle anche qui?». Già, perché. Sbaglia ancora, sbaglia meglio è l’esergo beckettiano del libro. Il finale è aperto. Mai come questa volta tutti possono contribuire a scriverlo.

e o tra forza lavoro occupata e forza lavoro disperata. Il manifesto, 30aprile 2016

È denso e tagliente l’ultimo libro di Gigi Roggero, . Note su soggettività e composizione di classe (DeriveApprodi, pp. 213, euro 13). Ed è attraversato dalla ricerca di quello sguardo, di quella linea di condotta, di quel grimaldello di cui il militante ha bisogno per agire nel tempo presente della lotta di classe. La lotta tra un capitale pervasivo nelle forme del suo sfruttamento e una classe che appare e scompare nelle forme della sua soggettività, del suo rifiuto, dei suoi desideri, della sua vita. Nelle forme, soprattutto, della sua scomposizione. Un capitale che, per distruggere l’autonomia della classe operaia fordista, si è trasformato in «capitale-crisi», incapace di innescare nuovi cicli di sviluppo perché privo della sua più grande forza produttiva, la classe operaia stessa. «Perché la classe operaia può essere autonoma, il capitale no: strutturalmente dipende dal proprio nemico. La crisi è esattamente questa nemesi storica». Con esiti che si riverberano, lacerandolo, all’interno del pensiero critico con, da un lato «una mitologica composizione di classe senza operaismo, dall’altro un mitologico operaismo senza composizione di classe».

Inevitabile, nella ricerca di Roggero, interrogarsi sul passaggio storicamente determinato dall’operaio massa all’operaio sociale e da quest’ultimo al lavoratore cognitivo, un passaggio non solo tecnico, determinato dalla composizione organica del capitale e dalle forme dell’organizzazione dei processi produttivi, ma anche politico, che rimanda alle forme della sua organizzazione, della costruzione di processi di lotta, di «controsoggettività», di strategie, cioè di anticipazioni. Il che significa ripercorrere in modo genealogico il concetto di composizione di classe, cioè tentare di rispondere, e sempre di nuovo rispondere, alla domanda posta da Marx: che cosa costituisce una classe? «La classe – in senso marxiano, dunque forte – non è una questione di stratificazione, ma di contrapposizione». Nelle parole di Mario Tronti: non c’è classe senza lotta di classe. Classe significa antagonismo di classe, quell’antagonismo che portò alla giornata lavorativa normale e che da allora ha segnato i tempi della nostra civilizzazione.

Se composizione tecnica e politica della classe si intrecciano continuamente, non per questo le due composizioni si specchiano l’una nell’altra. Ad essere decisiva nella composizione di classe, più che la coscienza astratta di classe, è la soggettività, e più ancora la controsoggettività. «Solo nelle strade insanguinate di Pietroburgo gli operai sono diventati classe», solo seguendo la misteriosa curva della retta di Lenin si può deviare, interrompere e rovesciare lo sviluppo del capitale. Qui il problema non è solo quello della soggettività costituente della composizione di classe, bensì anche quello dell’autonomia operaia e della sua organizzazione, della sua direzione politica, del partito. Il leninismo di Gigi Roggero è tutto dentro questi rapporti. Ed è la parte più difficile della riflessione di Roggero: come arrivare prima, per evitare di non arrivare proprio. Come risolvere la risposta che Romano Alquati, suo vero maestro, diede alla domanda se gli operaisti si aspettassero Piazza Statuto e l’espolosione delle lotte: «Noi non ce l’aspettavamo, però l’abbiamo organizzata».

Coerentemente con la sua esperienza militante, Roggero identifica, senza pretesa d’esausitività, due luoghi da cui ripartire per sciogliere il nodo dell’anticipazione delle lotte e della scommessa militante dentro la composizione di classe: la logistica e l’università, luoghi in cui la «cognitivizzazione» e la banalizzazione del lavoro si intrecciano, determinando ambiti di soggettivazione e di possibile ricomposizione. La scommessa militante è quella del passaggio dall’operaio cognitivo di mestiere all’operaio cognitivo di massa: «Pensiamo che un nuovo discorso di autonomia operaia debba oggi ripartire da qui», che da qui si possa rompere la dicotomia tra accelerazione del futuro e ritorno al passato.

La politica è quella attività che mette in gioco i termini reali del potere nella società. Roggero lo fa ritornando ai princìpi, prendendo per mano o per i capelli, Marx, Lenin, l’operaismo e lo stesso Lukács. E lo fa dall’interno della crisi del capitalismo, ponendosi la domanda di quale possa essere il nostro uso della crisi, della crisi come macchina capitalistica. Una macchina che esclude includendo, che mette la vita al lavoro senza con questo riuscire a sussumere completamente la soggettività come possibilità di ricomposizione di classe. «La tendenza è reale, la sua realizzazione no», ed è in questo scarto che si forma e agisce il militante, cercando di abbattere la separazione tra produzione di sapere e produzione di organizzazione, facendo cioè conricerca. Agendo cioè dall’interno della composizione di classe per deviare lo sviluppo capitalistico facendo emergere controsoggettività.

Ma chi è il militante? È un soggetto che produce continuamente il «noi» e il «loro», che separa per ricomporre la propria parte. C’è qualcosa di sacrificale in questa definizione del militante che per Roggero non ha nulla a che fare con la privazione, ma molto con «la disciplina della passione sovversiva». Con l’agire dentro e contro la storia, non seguendo lo spirito del tempo, ma aggredendolo.

«"Rischio e previsione" di Francesco Sylos-Labini per Laterza. L’uso dei modelli matematici per spiegare i fatti economici ha avuto una sconfessione nel 2008. Eppure tutto procede come se nulla fosse accaduto». Il manifesto, 29aprile 2016 (c.m.c.)

A scrivere «non tutto quel che conta può essere contato» fu il sociologo William Bruce Cameron. La citazione però ha iniziato a circolare quando fu attribuita (erroneamente) ad Albert Einstein. Evidentemente, che uno studioso di scienze umane diffidi dei numeri non fa abbastanza notizia: ci vuole, se non proprio Einstein, uno scienziato abbastanza «hard» che sappia diffidare del diluvio di cifre dispensate dai media su qualunque argomento, dalla borsa al meteo. Fa dunque al caso nostro il volume Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi appena pubblicato da Laterza (pp. 246, euro 24). Lo ha scritto Francesco Sylos-Labini, fisico teorico al Centro Studi Enrico Fermi e fondatore del sito www.roars.it, frequentata rivista online dedicata all’analisi delle politiche della ricerca.

Epidemie sovrastimate

Per «ascoltare la scienza» basta rimpinzarsi di grafici e dati? C’è in effetti chi, come il «guru» informatico ed ex-direttore di Wired Phil Anderson, ritiene che il metodo scientifico sia stato reso obsoleto dai big data – l’enorme mole di dati originata dalle molte attività di monitoraggio ambientale e dei comportamenti sociali. Per studiare un fenomeno come la diffusione di un’epidemia nella popolazione, non c’è bisogno di esperti che elaborino modelli da verificare con i dati, sostiene Anderson. Basta studiare le correlazioni statistiche, cioè la coincidenza tra eventi di cui non si conosce la relazione causa-effetto, per formulare previsioni accettabili.

Purtroppo, non funziona. L’algoritmo Google Flu Trends, messo a punto per anticipare la diffusione dell’epidemia influenzale e le necessarie contromisure, in passato ha sovrastimato il numero di casi reali di infezione del 50% e oggi ha cessato di pubblicare le sue stime. È il rischio che si corre quando «si fa uso di dati non strutturati», cioè non «prodotti appositamente per un certo scopo ma raccolti con strumenti automatici dalla rete». Ma ascoltare la scienza non significa semplicemente accumulare un sacco di dati. Se poi abbiamo a che fare con fenomeni complessi, come quelli che Sylos-Labini studia quotidianamente, l’impossibilità di prevederne l’evoluzione è ineliminabile.

Frustrazione da dati

I terremoti e il tempo meteorologico sono due esempi di scuola: le previsioni che se ne possono trarre hanno un valore statistico limitato. La sproporzione tra la mole di dati e capacità predittiva è spesso frustrante e acquista crescente importanza la comunicazione di questi dati, soprattutto se implica decisioni politiche nel campo energetico o della protezione civile. Occorre dunque «sapere a cosa serve una particolare previsione per meglio rispondere ai bisogni degli utenti». Tutte informazioni che i dati, da soli, non ci dicono.

Ma se le scienze naturali si sono almeno interrogate sui limiti della nostra capacità di effettuare previsioni a partire da dati empirici, non altrettanto si può dire per le scienze sociali. Anzi, avverte Sylos-Labini, nel caso dell’economia cifre e formule sono usati soprattutto per avvalorare tesi politiche, più che per comprendere lo stato dei mercati e dei loro protagonisti. Lo dimostra la perdurante incapacità degli economisti più blasonati nel prevedere le crisi economiche sistemiche. «L’impatto sull’economia più generale e sui mercati finanziari dei problemi nel mercato supbrime probabilmente sembra essere contenuto», disse nel 2007 l’allora presidente della Banca Centrale americana Alan Greenspan.

Non si è fatto un gran passo avanti da quando Irving Fischer dichiarò «I prezzi delle azioni hanno raggiunto quello che sembra essere un elevato livello permanente», tre giorni prima del crollo del 1929. Al cuore di questo insuccesso c’è la scuola economica neoclassica, basata sulla tesi che un mercato raggiunga spontaneamente un punto di equilibrio, in presenza di attori economici razionali, indipendenti ed egoisti. Il prestigio intellettuale della teoria neoclassica è stata accresciuta da un formalismo matematico rigoroso. Tuttavia, uno dei suoi testi sacri, i Fondamenti dell’analisi economica di Paul Samuelson, consiste in «oltre 400 pagine fitte di formule matematiche» in cui «non vi è menzione di alcun dato empirico».

«L’economia neoclassica, a differenza della fisica, non ha raggiunto attraverso l’uso della matematica alcuna spiegazione precisa o previsione di successo», dice Sylos-Labini. L’abbondanza di cifre e formule, dunque, non è un antidoto contro la crisi, ma rischia di diventarne un presupposto. Essa ha fornito «la giustificazione alla massiccia deregolamentazione finanziaria negli anni Ottanta e Novanta». Il predominio dell’economia neoclassica non è dunque dovuto ad un pugno di economisti fortunati, ma ad una lenta costruzione di egemonia sui media e nelle istituzioni accademiche anglosassoni, in cui il pluralismo delle scuole di pensiero economico è scoraggiato.

La stessa deriva rischia di allargarsi ad altri campi della scienza. Anche in Europa si è diffusa la passione per le classifiche universitarie, alla ricerca delle «Harvard» nostrane. Eppure, i punteggi assegnati agli atenei spesso mescolano pere con patate: che senso ha confrontare università d’élite statunitensi in cui si spendono 100 mila euro a studente, e le cui rette rappresentano una bolla finanziaria prossima allo scoppio, con gli atenei europei, in cui si investe dieci o venti volte di meno? Alla rincorsa di questa «eccellenza», anche in Europa i finanziamenti pubblici sono stati concentrati su pochi ambiti di ricerca.

La biodiversità della ricerca

La storia della scienza, tuttavia, insegna che le scoperte importanti sono spesso impreviste, frutto di un brodo di coltura più che di un investimento mirato. Invece, legioni di giovani ricercatori spendono gran parte del loro tempo a redigere progetti che hanno sempre meno possibilità di essere finanziati. Ciò sta riducendo anche da noi la biodiversità dell’attività di ricerca. Proprio quando i dati, a saperli leggere, suggerirebbero il contrario a chi detta le politiche della ricerca. «La flessibilità e l’adattabilità, derivanti da una maggiore diversificazione, sono gli elementi essenziali della competitività». La scienza può allora dirci molto sulla crisi. A patto di saperne ascoltare tutte le voci.

«Nel nuovo romanzo "Qualcosa, là fuori", edito da Guanda, Bruno Arpaia immagina un continente desertificato e profughi in marcia verso una Scandinavia blindata».

Corriere della Sera, 29 aprile 2016 (c.m.c.)

Imagine all the people, sharing all the world — cantava Lennon nel 1971 — You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one . Era vero, non era il solo: cantava il futuro di pace e condivisione che una generazione sognava. Ci sono epoche che sognano un futuro migliore, altre che dal futuro sono spaventate. Pochi anni prima delle note magiche di Lennon il mondo ha vissuto l’incubo dell’imminenza della catastrofe nucleare.

Lo ricorda bene Isabel Allende nell’incipit del suo libro di memorie: «Ho trascorso la maggior parte della mia giovinezza in attesa che qualcuno, premendo distrattamente un bottone, facesse esplodere le bombe atomiche e saltare in aria il pianeta. Nessuno sperava di vivere a lungo...». L’umanità guarda al futuro in modo alterno, ora con speranza ora con timore.

E oggi? Oggi i sogni di costruire un mondo più giusto ed equilibrato sembrano lontani, e si riaffaccia l’incubo: il pianeta si scalda, le specie viventi si stanno decimando, forse andiamo verso una catastrofe.

Sono esagerati speranze e timori dell’umanità? Io non lo credo. Non sono esagerate le speranze. Non tutte le utopie si realizzano ma nel corso del Settecento e dell’Ottocento, per citare un solo esempio fra tanti, la forza di immaginare un mondo diverso ha veramente cambiato la faccia del pianeta, ha rovesciato privilegi secolari, abolito la schiavitù, dato vita dignitosa a milioni di miserabili, diffuso la democrazia, portato alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, tolto le donne, metà del mondo, dalla sottomissione necessaria. Quanto c’è di buono nel mondo di oggi è il prodotto di giovani che sognavano un mondo migliore, e i sogni possono ancora cambiare il mondo.

Ma non sono esagerati neanche i timori. Le civiltà finiscono, spesso in devastazione, il più delle volte per guerre o catastrofi ecologiche. Dello splendore dei regni Maya non restano che rovine fra la foresta. Roma aveva un milione mezzo di abitanti sotto gli Antonini, ridotti fino a 50 mila nei secoli successivi. Delle grandi biblioteche del mondo mediterraneo antico non ci resta che qualche libro, a testimoniare un sapere gettato via. Il rischio della catastrofe atomica è stato realmente sfiorato, e forse evitato solo grazie al sangue freddo e alla lucidità di alcuni — come i Kennedy e Krusciov, o il colonnello Stanislav Petrov che violando il protocollo ha evitato per un nulla l’apocalisse.

Ma se il disastro atomico è stato (per ora) evitato, è anche per le innumerevoli voci che si sono levate alte e chiare in quegli anni da quartieri diversi della società: scienziati e poeti, religiosi e hippy, urlando che l’umanità stava facendo una follia nell’appoggiarsi su un equilibrio così instabile e rischioso. Ricordate Gregory Corso letto in Italia da Gassman? «Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte...». Molte voci, spaventate e spaventose, accorate, profondamente ragionevoli, hanno contribuito a fare nascere la consapevolezza del rischio tremendamente reale della catastrofe atomica, e spingere la politica a compiere passi importanti per ridurlo.

Siamo in una situazione simile. Non abbiamo certezze, ma il rischio di una catastrofe ecologica per il riscaldamento globale è vero e forte. I nuovi dati che arrivano non fanno che confermarlo. Come ai tempi della Bomba , le menti più aperte si stanno adoperando per avvertire il mondo di prenderlo sul serio, ciascuno con le sue armi: gli scienziati studiando, i politici più avveduti cercando consensi anche per decisioni che costano, e, ancora un volta, gli artisti più illuminati dandoci le parole per dire.

Per questo ho letto con disperazione mista a speranza il nuovo romanzo che Bruno Arpaia ha dato in questi giorni alle stampe con Guanda: Qualcosa, là fuori , un libro intenso e coinvolgente centrato sul rischio della catastrofe ecologica davanti a noi. Il romanzo è ambientato nel futuro prossimo, al momento in cui il disastro del riscaldamento del pianeta esplode con tutta la sua forza. Il racconto viaggia su due linee parallele, come spesso i libri di Arpaia, e su due tempi diversi. Nel primo c’è un giovane al tempo della vita che si apre e delle discussioni con gli amici sui problemi climatici. Nel secondo seguiamo lo stesso personaggio, molti anni dopo, nel corso di un dantesco attraversamento di un’Europa devastata dalla siccità, senza più ordine né legge, dove sopravvivono fra la violenza bande di disperati. Una carovana di profughi, armata di fucili e disperazione, cerca di raggiungere le regioni scandinave, risparmiate dal riscaldamento globale, rinchiuse in una gigantesca fortezza, che combattono per tenere fuori i profughi. La magia della scrittura di Arpaia è nella descrizione dell’orrore di questo viaggio della disperazione lungo strade dell’Europa verso le porte chiuse della Scandinavia, orrore che ci sembra assurdo e implausibile, fino al momento in cui ci rendiamo conto che è solo la descrizione di eventi già in corso: lungo strade dell’Africa verso le porte chiuse dell’Europa.

La scrittura di Arpaia ha la dote di penetrare e ricreare mondi, e in tutti i suoi libri gioca un ruolo strano e ambiguo il tempo, come se Arpaia fosse costantemente all’inseguimento del suo mistero. I romanzi precedenti riportavano in vita momenti passati dell’ultima grande tragedia europea ( L’angelo della storia ), del recente passato italiano ( Il passato davanti a noi ), o il mondo attuale a me caro della fisica ( L’energia del vuoto ). In Qualcosa, là fuori protagonista è il futuro; ma non è un romanzo di fantascienza né di fantasia: nello stile di Arpaia, è costruito su uno studio approfondito della letteratura scientifica. Che ci dice che allo stato attuale delle conoscenze questo orrore è lo scenario probabile, se non facciamo abbastanza per evitarlo. Ma la differenza d’impatto fra le aride cifre degli scienziati e la vivida realtà descritta da un scrittore di qualità è enorme. È per questo che il libro dovrebbe secondo me essere letto da molti, perché chiunque possa decifrare con chiarezza cosa significhino gli allarmi dei rapporti sul clima.

Perché come la Bomba di Corso suonava come una ballata pazza, e invece era una chiamata alle armi contro la follia, così Qualcosa, là fuori non è una profezia cupa, è un grido di allarme. Per questo si apre con le lunghe discussioni sul clima fra cinici e allarmisti. L’obiettivo del crudo realismo del racconto è contribuire a non farlo diventare reale. Ci sono passi che si possono fare per allontanare il rischio. Il mondo non ne sta facendo abbastanza. L’Italia li faccia e spinga tutti perché si facciano. Il futuro non è inevitabile. Dipende fortemente dalle nostre scelte, da quello che oggi decidiamo, diciamo, scriviamo, votiamo.

Grazie a Bruno Arpaia per avere scritto questo libro. Leggiamolo e chiediamo alla politica di fare le scelte giuste. Non abbiamo trasformato il mondo nel sogno di Lennon, la fratellanza di uomini senza stati, religione, proprietà, che vive in pace condividendo il mondo... Possiamo almeno cercare di lasciare alle generazioni future un mondo dove possano vivere. Il futuro dipende dalle nostre scelte.

«Lo stato di salute dell’ambientalismo "altro", quello che mescola questioni sociali, di classe ed ecologiche, raccontato dal direttore dell’Environmental Humanities Laboratory del Royal Institute of Technology di Stoccolma. E il libro di Ramachandra Guha

"Ambientalismi. Una storia globale dei movimenti", uscito per Linaria, che descrive gli scenari delle lotte». Il manifesto, 27 aprile 2016 (c.m.c.)

Tra il referendum fallito, lo sversamento di petrolio a Genova e l’assalto contro l’acqua pubblica, possiamo dire che non c’è da stare allegri sullo stato dell’ambiente e dell’ambientalismo in Italia. Non che questa sia una notizia: l’ambientalismo è sempre stato piuttosto debole e minoritario nel Paese. Tuttavia, la difficoltà di praticare quella che è stata definita una single issue politics, ossia un’opzione politica concentrata su una singola questione, come ad esempio quella ecologica, non è necessariamente una grana, ma al contrario può rivelarsi una opportunità. Coniugare giustizia sociale e giustizia ambientale, politicizzare l’ambiente e i suoi saperi, andare oltre la narrativa della tecnologia buona che risolve i problemi e del capitalismo verde sono le fondamenta di un ambientalismo «altro» che mischia la questione ecologica e quella sociale, nella consapevolezza che, per dirla con Naomi Klein, solo una rivoluzione ci potrà salvare.

Hobby e pregiudizi
Qualche settimana fa Berta Caceres è stata assassinata in Honduras. La maggior parte della stampa italiana non ci ha fatto troppo caso, meno che mai il governo. Per la verità non abbiamo avuto neppure grandi manifestazioni di piazza. L’omicidio di Caceres non è una eccezione: dal 2002 si conta che quasi mille attivisti sono stati assassinati. Le biografie di attiviste e attivisti come Berta provano che l’ambientalismo non è affatto un hobby per signore benestanti e appassionati delle gite fuori porta. Studiosi come Rob Nixon, Joan Martinez Alier e Ramachandra Guha hanno dimostrato che il paradigma sociologico secondo il quale solo i ricchi possono permettersi il lusso di essere «ambientalisti» è in realtà una comoda retorica che serve a nascondere e minare il potenziale rivoluzionario delle coalizioni rosso-verdi.

L’idea che solo chi ha la pancia piena possa occuparsi del superfluo implica che l’ambiente sia «il superfluo», l’altrove dove spendere il weekend o le vacanze. Invece, in molti luoghi comunità indigene e gruppi subalterni si oppongono alla distruzione ambientale per difendere non una qualche natura incontaminata, ma i loro stessi mezzi di sussistenza. L’ambientalismo dei poveri fa parte di una vasta area di movimenti ecologici non mainstream come quello per la giustizia ambientale, il working class environmentalism e l’ambientalismo subalterno studiati, tra gli altri, da Robert Bullard, Stefania Barca e Laura Pulido. L’assunto di base di questo ambientalismo altro è che i poveri, le minoranze etniche, le donne, i soggetti più deboli pagano un prezzo più alto in termini di contaminazione e di esposizione ai rischi per la salute.

L’environmental justice movement (Ejm) non è particolarmente noto in Italia sia dal punto di vista storico che teorico; in altri termini, si conosce poco della sua vicenda e anche delle innovazioni teoriche che ha introdotto. In estrema sintesi, l’Ejm è nato dentro le comunità afro-americane come reazione a quello che è stato definito razzismo ambientale, ovvero la sistematica selezione di comunità nere, o comunque subalterne, per la localizzazione di infrastrutture dannose per la salute e l’ambiente – e le cose, ovviamente, sono collegate. A cominciare dalla battaglia contro una immane discarica di rifiuti tossici nella comunità nera di Afton in North Carolina negli anni Ottanta, negli Usa è maturato un movimento ambientalista subalterno che ha cambiato per sempre il volto dell’ambientalismo.

Nel 1991 si teneva a Washington DC il primo summit dell’Ejm che produceva un dirompente manifesto nel quale si sistematizzavano i principi del nuovo movimento, che intanto aveva chiamato in causa le associazioni ambientaliste mainstream con una lettera che non risparmiava critiche al razzismo e classismo di quel tipo di concezione della natura. Per uno studioso italiano, seppure emigrato da tempo come il sottoscritto, colpisce il protagonismo delle università e di singoli accademici nella nascita e sviluppo dell’Ejm. A volte sembra più semplice essere «radical» nel cuore dell’impero che non nelle sue tristi periferie.

No Tav e priorità
Non c’è dubbio che negli ultimi anni le lotte per la giustizia ambientale in Italia si siano moltiplicate in una miriade di vertenze territoriali. Un prezioso punto di partenza è l’Atlante dei conflitti ambientali in Italia prodotto dal Centro di documentazione omonimo, che restituisce un quadro dinamico proprio di quelle battaglie dal basso che hanno ridisegnato la cultura e la pratica dell’ecologismo militante. Ripensare quei tanti movimenti come esperienze di lotta per la giustizia ambientale significa fornire un armamentario teorico di critica e mobilitazione e provare a cercare un minimo comune denominatore che possa superare la frammentazione che caratterizza questa stagione di ribellioni.

Il movimento No Tav, ad esempio, è forse una delle esperienze di ambientalismo popolare più longeva e radicata. In Val di Susa si contesta un modello di sviluppo basato sulla velocità delle merci, una idea gerarchica degli spazi che collega solo i centri principali, si difende il paesaggio e la salute delle persone, si contesta la stessa utilità di quell’opera e si propongono lavori pubblici alternativi, basati su valori e priorità diverse. Che la Val di Susa sia piuttosto allergica a chiusure Nimby (la sindrome «non nel mio giardino») lo si registra facilmente considerando la centralità del movimento No Tav in tutti i tentativi di costruire una rete nazionale di solidarietà con tutte le realtà in lotta.

In Campania comunità marginali, con un basso reddito, già duramente provate da problemi ambientali e sociali sono diventate le discariche legali e illegali della metropoli tanto nazionale – il polo industriale del Nord – che regionale – Napoli. Queste comunità hanno dovuto opporsi sia al piano governativo-imprenditoriale di gestione dei rifiuti, contestando la logica dell’inceneritore e delle megadiscariche, sia al costante tentativo di silenziamento del lento biocidio effettuato attraverso lo sversamento di rifiuti tossici nella regione. Anzi la categoria stessa di biocidio è il frutto originale di una elaborazione collettiva delle compagne e dei compagni dei movimenti campani. È grazie all’attivismo di quei comitati che oggi l’attenzione dell’opinione pubblica è finalmente passata dalla questione dei rifiuti solidi urbani alla ben più complessa vicenda di quelli tossici che chiama in causa l’intero sistema produttivo e di controllo del paese.

L’agorà partenopea
Ai primi di marzo proprio un gruppo di ricerca internazionale sulla ecologia politica insieme a realtà di lotta come il centro sociale Insurgentia ha promosso a Napoli una agorà dei movimenti per la giustizia ambientale: una cinquantina di rappresentanti di gruppi impegnati in diverse vertenze territoriali si sono confrontati tra loro e con ricercatori per condividere pratiche di lotta e proposte. All’agorà hanno partecipato anche due rappresentanti del movimento curdo che hanno illustrato l’esperienza ecosocialista nella pratica dei cantoni liberati e nell’elaborazione teorica di Ocalan. Una partecipazione quella curda frutto di una ormai consolidata relazione tra una parte importante dei movimenti campani con le organizzazioni curde, che ha portato l’amministrazione De Magistris a concedere la cittadinanza onoraria a Ocalan.

Ovviamente non avendo incendiato nessuna automobile, l’agorà napoletana non è riuscita a bucare il muro di gomma del sistema dell’informazione. È tempo che un nuovo spettro si riprenda le strade. E chi deve averne paura, che ne abbia.

Come un sasso o come un fiore. Storie di rifugiati e progetti di vita", a cura di Bee, Bortolazzi, Carlot, Pizzo, Terreri, Sinopia Libri (Venezia 2016)

Sette storie di viaggio, di dolore e di speranza. Sette vite che non si arrendono, che mettono in gioco saperi, impegno e futuro, contro le paure e le ostilità di un mondo difficile. Questo libro nasce dall’incontro - pressocché quotidiano - tra un gruppo di rifugiati titolari di protezione internazionale e operatori ed esperti dell’Associazione Microfinanza e Sviluppo; un lavoro durato due anni, con l’obiettivo in buona parte riuscito di rendere quelle persone economicamente autonome. Un lavoro duro, considerato a tratti impossibile perché costellato di resistenze che, alla prova dei fatti, si sono dimostrate piú culturali che fisiche, piú istituzionali che economiche. Accanto all’azione “concreta” di educazione finanziaria e di accompagnamento all’avvio d’impresa, è nato un spazio di ascolto delle biografie delle persone rifugiate con cui l’Associazione lavorava.

Questo libro non ha la presunzione di proporsi come un capitolo aggiuntivo alla ricca e feconda tradizione di studi accademici e specialistici sull'argomento. Se il suo nucleo è costituito dalle storie che esso raccoglie, prive di altro filtro che non sia la precauzione dell’anonimato a protezione della vita presente dei narratori, il suo proposito si lascia osservare in virtú dell’urgenza di alcune domande che le storie stesse sollecitano.

Come rovesciare il problema chiuso, dominato dai poli del “loro” sradicamento e della “nostra” ostilità - e dello scontro sul modello culturale che esso comporta - nel tema aperto delle prospettive di scambio, di mescidazione e d’impresa nei comuni territori di vita e di lavoro? Come rendere evidente e operativo il fatto che vi è un valore in sé nelle esperienze che ci vengono raccontate, che questo valore umano è intrinsecamente ricco sul piano sociale ed economico, e che il viaggio “da un mondo all’altro” porta con sé saperi, relazioni, idee preziose per il nostro comune domani? Come apprendere, insieme, a trasformare la potenza dell’“aperto” che le instabilità globali impongono, in un orizzonte di pace, di benessere e di autentica sicurezza? Come ascoltare, capire, progettare le dinamiche di connessione e innovazione nascoste nei giacimenti imprenditivi che migranti e rifugiati portano con sé e tra noi?

Se a tali domande, le storie racchiuse in questo libro e i lavori di analisi che le accompagnano avranno saputo dare rilievo, il proposito dei loro estensori potrà dirsi parzialmente realizzato. Poiché esse non sono rivolte a un’indistinta platea ma ci interrogano tutti, uno per uno, e interrogano con particolare urgenza quei soggetti - il mondo delle istituzioni, della politica e dell'impresa - che possiedono i mezzi per tradurle in risposte efficaci.

L'introduzione dell'autore a una suggestiva raccolta degli scritti dell'autore sui grandi temi e sui processi strutturali dal cui esito dipendono i nostri destini. Molti testi sono già su

eddyburg, ma leggerli nel loro insieme rivela un disegno strategico inedito.

GuidoViale, Rifondare l'Europa insieme a profughi e migranti, prefazione di don Virginio Colmegna, NdA press

In questo libro si dicono e ribadiscono poche cose, ma molto importanti: che il flusso dei profughi e dei migranti che raggiungono l’Europa affrontando prove e pericoli inaccettabili non si fermerà e non può essere fermato; che il loro numero aumenterà per anni e che è destinato a cambiare l’assetto della società europea prima ancora delle sue politiche meschine e devastanti.

Fermarli o ricacciarli da dove sono partiti è un progetto criminale che non ha alcuna possibilità di essere realizzato: non esistono politiche di respingimento praticabili di fronte a una pressione di queste dimensioni. Ma è un progetto che ha l’effetto di promuovere ferocia e mobilitare consenso intorno ai suoi sostenitori; di trasformare in tempi rapidi l’Europa in uno stato di polizia; di impregnare di razzismo la sua cultura e i suoi assetti sociali. L’avanzata di queste spinte è sotto gli occhi di tutti, ma, come ha detto in un’intervista il premio Nobel Elfriede Jellineck, trattando profughi e migranti come feccia ci trasformiamo in feccia noi.

A questa deriva razzista e totalitaria non esistono alternative fondate sulla continuità, sul business as usual (il cuore dell’attuale politica europea, che è solo ed esclusivamente business). Per anni la governance dell’Unione Europea si è occupata di finanza, di bilanci degli Stati membri, di privatizzazioni, di tagli della spesa pubblica, pensando che in questo si risolvessero i compiti della politica. Intanto ai suoi confini - e ormai anche lontano da quei confini - si stava accumulando, tra indifferenza e complicità, ma non senza interventi diretti di alcuni dei suoi Stati membri, un contesto di conflitti armati e di guerre di tutti contro tutti che di anno in anno diventava più inestricabile.

Ma anche un contesto di miseria e di insostenibilità ambientale e sociale. Guerre e miseria che sono all’origine di quei flussi di profughi che ora l’Europa non sa come affrontare. Come non sa come affrontare con un proposta di ampio respiro il caos che li ha generati, ma che ora sta erodendo i suoi stessi confini e penetrando in forme incontrollabili, soprattutto con il terrorismo, ma anche con una inesorabile crescita del rancore sociale, nel suo stesso cuore.

E quei bacini sono la povertà, l’ingiustizia, la discriminazione, ma soprattutto il disprezzo. Più passa il tempo e la situazione interna e internazionale si aggrava e più emerge con chiarezza che le soluzioni prospettate a grandi linee dall’approccio al problema delineato nelle pagine che seguono non hanno alternative se non l’accettazione di uno stato di guerra “infinita”, cioè che non avrà mai fine e in tutto il mondo, come la voleva Geroge W. Bush.

Una guerra in cui sarà sempre meno chiaro chi combatte contro chi e per che cosa. Ma anche l’accettazione di un contesto di disciplinamento sempre più autoritario e razzista all’interno (un nuovo fascismo) che faccia piazza pulita di tutte le garanzie democratiche e di tutte le tutele sociali conquistate in quasi due secoli di lotte. L’Europa ha bisogno di quei profughi e di quei migranti.

Di qui al 2050 l’Europa, senza immigrazione, avrà perso circa 100 milioni di abitanti, un quinto della sua popolazione attuale, al ritmo di 3 milioni all’anno. Ma i 400 milioni restanti saranno sempre più vecchi e le persone in età lavorativa sempre meno. Il che vuol dire un peso insopportabile su chi lavora e una drammatica stagnazione economica (l’esatto contrario di una “decrescita felice”).

Per colmare quel vuoto demografico l’Europa dovrebbe accogliere, di qui al 2050, tre milioni di immigrati all’anno: il triplo dei profughi che sono arrivati nel 2015. Potrebbe anzi assorbirne anche il doppio senza subire alcun tracollo; ma cambiando ovviamente in modo radicale sia le sue politiche economiche che quelle sociali.

Va ricordato che tra il 1945 e la metà degli anni ’60 quattro paesi dell’Europa centrale, oltre al Regno Unito, pur in un contesto di crescita demografica autoctona, avevano assorbito 20 milioni di profughi e immigrati: circa 10 milioni dall’Est e altri 10 milioni dai paesi mediterranei dell’Europa, dall’Africa, dal Maghreb e dal subcontinente indiano.

D’altronde il maggior dinamismo dell’economia statunitense degli ultimi decenni è riconducibile, più che alle politiche economiche adottate, al continuo flusso di immigrati dall’America centrale e meridionale, tutti o quasi illegali, ma tollerati sia a destra che a sinistra.

La minaccia di alcuni dei suoi Stati membri, un contesto di conflitti armati e di guerre di tutti contro tutti che di anno in anno diventava più inestricabile. Ma anche un contesto di miseria e di insostenibilità ambientale e sociale. Guerre e miseria che sono all’origine di quei flussi di profughi che ora l’Europa non sa come affrontare. Come non sa come affrontare con un proposta di ampio respiro il caos che li ha generati, ma che ora sta erodendo i suoi stessi confini e penetrando in forme incontrollabili, soprattutto con il terrorismo, ma anche con una inesorabile crescita del rancore sociale, nel suo stesso cuore.

L’unica alternativa a quella deriva è un impegno generale di accoglienza e di inclusione che non discrimini tra profughi, migranti e cittadini europei in difficoltà: nessuno deve poter pensare che a chi viene da lontano vengano dedicate più risorse e più attenzioni che a chi è sempre stato qui o è qui da tempo. E viceversa. Quel piano deve mettere in grado di accedere a una nuova e autentica cittadinanza, garantendo a tutti casa, lavoro, reddito, istruzione, protezione sanitaria e sicurezza. L’Europa ha le risorse per varare e sostenere un progetto del genere, che d’altronde è ciò che ci vuole per avviare concretamente una conversione ecologica indispensabile per fermare la corsa a quel disastro climatico irreversibile contro cui si sarebbero dovute prendere - e non si è fatto - delle decisioni drastiche e radicali al vertice di Parigi Cop21.

Profughi e migranti hanno di fatto reso i confini dell’Europa assai più ampi di quelli al di là dei quali si vorrebbe respingere i nuovi arrivati. Accogliendoli come cittadini dell’Europa, si possono creare anche, paese per paese, le basi per costruire un’alternativa sociale e politica a cui possano fare riferimento coloro che sono rimasti nelle loro comunità di provenienza e che hanno bisogno soprattutto di questo riferimento per riaprire una prospettiva di riconquista dei loro territori alla pace e alla democrazia.

Anche nei confronti del terrorismo, non basta l’azione di polizia e di intelligence; e meno che mai funzionano le guerre, che non fanno che perpetuare e accrescere il caos. Bisogna prosciugare i bacini sociali e culturali, ma anche emotivi, da cui il terrorismo attinge i suoi un sovraffollamento dei paesi dell’Unione Europea è dunque esclusivamente il frutto di politiche economiche restrittive e, sul lungo periodo, suicide. L’alta finanza e il big business che oggi dominano l’economia mondiale non hanno bisogno di tutta la manodopera di cui si alimentava il sistema industriale fordista. Se si rende necessario, la vanno a cercare in paesi dove costa meno, trasferendo là le attività che controllano; per questo considerano l’arrivo di profughi e di nuovi migranti più dal lato dei costi, per la spesa pubblica che vogliono comunque ridurre, che da quello dei possibili vantaggi che, sul lungo periodo, sono soprattutto nostri e dei nostri figli.

Ci aspettano tempi bui e proprio per questo è necessario come non mai raccogliere le idee intorno a un nucleo forte, capace di delineare una prospettiva di riscatto per tutti gli attori coinvolti in questa corsa verso il baratro. Per questo una parte del libro è dedicata alla conversione ambientale e cerca di spiegare come in essa si possa trovare non solo l’unico modo per fermare la deriva climatica che sta portando il nostro pianeta verso condizioni di invivibilità per tutti, ma anche la chiave per affrontare sia gli oneri connessi all’accoglienza di un numero così alto di profughi, sia la crisi sistemica che sta trascinando l’Europa nella stagnazione economica e verso diseguaglianze sociali insostenibili. Senza un capacità di rinnovare in modo radicale il nostro approccio ai problemi politici e sociali del nostro tempo non c’è alcuna possibilità di attraversare questa notte che si fa sempre più buia. Questo rende ancora più attuale, per il futuro dell’Europa, del mondo, delle nostre vite e di coloro che verranno dopo di noi, la prospettiva di una conversione ecologica.

Un saggio che relega ai margini della ricostruzione storiografica l’inedito meccanismo riformatore che ha visto nei decenni passati l’intreccio di lotte sociali, civili e un quadro parlamentare capace di accogliere, mediare e deliberare. "Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi"».

Il manifesto, 15 marzo 2016, con postilla

Guido Crainz è stato autore di una fortunata trilogia partita nel 1996 con la Storia del miracolo economico, proseguita con Il paese mancato, e conclusa infine nel 2013 con Il paese reale. Nell’insieme questi libri rappresentano la ricostruzione più ampia della storia repubblicana, ed hanno avuto un meritato successo di pubblico. Oggi Crainz propone un nuovo testo (Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi, Donzelli, pp. 387, euro 27) che in apparenza può sembrare – e in parte lo è davvero – un riassunto dei volumi precedenti. Ma solo in apparenza, perché accanto agli elementi di continuità emergono anche le differenze, nell’impostazione come nella trattazione di una materia così ampia.

Molti giudizi vengono riproposti, altri ripensati. Tutta la vicenda della «Prima Repubblica» appare inevitabilmente in una luce meno sinistra di quanto non apparisse al declinare della sua esperienza, e in questo gioca sicuramente un ruolo la prova non esaltante della Seconda Repubblica proclamata e poi forse mai decollata. Intervengono sfumature di giudizio per la verità molto selettive: giganteggia la figura di De Gasperi, interpretato in tutto e per tutto secondo il lascito interpretativo di Pietro Scoppola, si mantiene una vigile diffidenza nei confronti di Togliatti, del Pci e della Cgil.
Va segnalata anche – ed è un merito innegabile – la modifica di giudizi canonici su alcuni temi «caldi» della storia italiana. Cito per tutti la trattazione del tragico luglio 1960, che alla luce dei nuovi documenti consultati appare il frutto di una deliberata prova di forza voluta dal governo Tambroni, contro la stessa disposizione del Msi, che suggeriva un divieto governativo per uscire dall’impasse in cui si era cacciato.

Ma va sottolineata anche l’accentuazione di alcune caratteristiche originali già proprie della impostazione che Crainz ha dato alla sua opera. Non più solo costume, cinema, musica, già ampiamente presenti nei volumi precedenti: ora entrano nella narrazione anche design, moda, architettura, pubblicità, stili di vita. È una storia della società intesa nell’accezione più vasta e moderna oggi praticata.

L’insufficienza della politica

Il sacrificio inevitabile che questa disposizione comporta è il deperimento della storia politica, non più centrale nella trattazione, assieme alla marginalità, talvolta quasi occasionale, della dimensione internazionale dei problemi. È un tipo di storia alla quale probabilmente dovremo abituarci, perché consunzione prima e poi morte apparente della politica avranno le loro ricadute anche nella gerarchia degli avvenimenti fatti oggetto di storia.

Per la verità qui la politica, ridotta a termini molto più concisi del consueto, riaffiora spesso come evocazione costante di un limite che sembra accompagnare tutta la storia repubblicana: formule come «politica distante dalla società», «incapace di comprenderne i mutamenti», si trovano nell’arco molto ampio che va dalla fondazione della Repubblica al suo apogeo che precede il crollo; e poi nella seconda parte «la politica incapace di riformarsi» viene assunta come elemento fondativo del declino inarrestabile del paese nel suo complesso. L’insufficienza della politica, il venir meno ai suoi compiti, la sua colpevole inadeguatezza: finiscono per risultare questi gli unici elementi di continuità che nel lungo periodo tengono assieme una storia fatta di passaggi a volte tumultuosi e di una vicenda che vede mutare tutto, e talora molto in fretta.

Se per epoche ormai lontane della storia unitaria disponiamo di trattazioni consolidate e valutazioni che nel tempo si sono fatte sempre meno controversistiche (si pensi all’Italia post-risorgimentale, ma anche allo stesso fascismo), la storia repubblicana (e soprattutto nei suoi ripensamenti compiuti «da sinistra») continua a presentare caratteristiche del tutto particolari, che rinviano a una lontana tradizione che va da Alfredo Oriani a Piero Gobetti e oltre: storia anche e soprattutto di ciò che l’Italia avrebbe potuto essere e non è stata, del lungo capitolo di «occasioni mancate» che nella coscienza retrospettiva degli italiani sembrano connotare la storia nazionale. Un titolo come Il paese mancato rendeva bene questa disposizione di fondo.

Col che non si vuol dire assolutamente che le alternative nella storia non contino e non vadano tenute in considerazione, laddove siano state effettivamente operanti e presenti nella consapevolezza dei contemporanei, che praticarono indubbiamente scelte che vanno valutate nel quadro di rapporti di forza all’epoca dislocati. È rischioso però che finiscano per divenire asse centrale di un’interpretazione complessiva nel lungo periodo.

E inoltre non può sovrapporsi alla storia reale l’arrière-pensée dello storico formulato a grande distanza dagli eventi. Due esempi di questo procedimento si trovano concentrati al termine della trattazione del «lungo Sessantotto» italiano, dove una delle critiche (che è in larga misura anche autocritica generazionale da parte di Crainz) rivolte alla politica nata a sinistra del Pci consiste nel rilevare che «svanì anche la possibilità di una alternativa laica e moderna alle “due chiese” dominanti, quella cattolica e quella comunista: ci si limitò a erigere all’ombra di quest’ultima, e in polemica con essa, un microscopico edificio molto composito (segue elenco dei gruppi extraparlamentari) destinato a crollare di lì a poco».

Questa alternativa però era totalmente impensabile nella cultura di quel tempo, e sembra più che altro la proiezione retrospettiva di quella koiné tardoazionista che è divenuto l’approdo più diffuso di gran parte della generazione che un tempo si sentiva rivoluzionaria. Come anche è singolare l’accusa ai movimenti giovanili di non essere stati capaci di costruire «nuove regole» al posto di quelle che venivano contestate e abbattute: compito storico che – al di là dell’ossessione tutta recente per le «regole» – non poteva certamente venire attribuito a movimenti di contestazione, ma è addebito che andrebbe rivolto alle classi dirigenti.
Il «mancamento» del paese interviene, secondo una opinione in realtà già largamente diffusa, nel 1964: in quella data il centrosinistra appena nato rinuncerebbe ai suoi propositi riformatori e si adagerebbe in una routine priva di slanci, incapace di governare i mutamenti della società.

La svolta degli anni Novanta

Il lettore ha l’impressione di trovarsi di fronte a un lungo piano inclinato che porta inesorabilmente alla miseria dell’oggi. Eppure si sta parlando di quello che rimane indubbiamente nella storia degli italiani il periodo di maggiore sviluppo e maggiore benessere mai vissuto da chi ha abitato la penisola.

Nel corso del primo trentennio repubblicano si ebbe la rottura di quadri plurisecolari della società italiana, e nel giro di pochi anni l’Italia si trasformò da paese prevalentemente contadino in paese prevalentemente operaio, mentre già al termine degli anni Sessanta si scopriva un paese con prevalenza del settore terziario: uno sconvolgimento di portata enorme che mutò condizioni di vita, culture, consuetudini, aspirazioni e visioni del futuro. In quegli anni giunsero a maturazione conquiste sociali conseguite a prezzo di grandi e lunghe lotte, come pure diritti civili e di libertà fino ad allora impensabili, nel quadro di una democrazia parlamentare e costituzionale spesso minacciata e talvolta rimessa in discussione, ma che riuscì a vivere e radicarsi a lungo, fino alla svolta distruttiva degli anni Novanta.

Nel discorrere di tutto il capitolo delle riforme in Italia forse, di fronte a un fenomeno dalla durata così rilevante, bisognerebbe riconoscere che vi è stato un particolare meccanismo riformatore fondato sull’intreccio di lotte sociali e civili (e di iniziativa politica) che modificavano i rapporti di forza e trovavano una democrazia parlamentare disposta ad ascoltare, mediare e deliberare: qualcosa che abbiamo perso nell’ultimo ventennio e che probabilmente rimpiangeremo a lungo.

Nel libro non si nega certo che siano stati conseguiti risultati di portata storica, ma tutte le grandi riforme – dall’istituzione dell’ordinamento regionale al Servizio sanitario nazionale – appaiono come inquinate dalla politica, che le trasforma in fattore di spreco e clientelismo anziché elemento di progresso democratico e civile. Sono denunce che nel tempo per la verità si infittiscono, e che alla fine degli anni Ottanta si sommeranno all’indignazione per la corruzione sistematica di un quadro politico raffigurato ormai come un freno allo sviluppo di una società civile laboriosa e virtuosa. La «questione morale» evocata da Berlinguer e da molti altri verrà vissuta in maniera molto diversa dalle molte Italie non comunicanti che ormai sono maturate e si fronteggeranno nel bipolarismo coatto degli anni successivi.

Non morirà di morte naturale il quadro politico della Prima Repubblica: e qui, più che alla magistratura tante volte invocata o denigrata, bisogna pensare a quel vero e proprio «plebiscito contro il sistema proporzionale» operato per via referendaria, sostenuto da un’imponente campagna di stampa nutrita di antipolitica, antiparlamentarismo, massicce dosi di qualunquismo spicciolo che sfuggirono allora all’intellettualità tardoazionista ma si riveleranno nettamente prevalenti nel lungo periodo.

Siamo di fronte del resto, come Crainz rileva fin dall’avvio degli anni Ottanta, a un popolo la cui struttura e composizione sembra sfuggire all’analisi, malgrado le mutevoli e a volte immaginifiche metafore del Censis: molti decenni dopo il quadro non è mutato, anzi il mistero si può ritenere ancora più fitto.

Un renzismo pensoso

Crainz arriva nella trattazione fino all’attualità più stretta – rischio che forse sarebbe stato prudente evitare – e offre conclusioni che potremmo definire di «renzismo pensoso», approvando rottamazione e sfida alla vecchia politica da parte di Matteo Renzi, legge sul lavoro, riforma elettorale e superamento del bicameralismo, così come la contrapposizione alle organizzazioni sindacali, «simulacri sbiaditi di quel che erano state in passato, prive di quella capacità di misurarsi con gli interessi generali che era stata la forza del sindacalismo italiano». Ma con molti dubbi sulla capacità di invertire il declino nazionale, di rinnovare la politica anche attraverso un processo di promozione e selezione di «un ceto dirigente all’altezza dei compiti».

Che non si vede in realtà da dove possa scaturire dopo aver ultimato la distruzione della rappresentanza politica, a cui si è aggiunto anche l’azzeramento di corpi intermedi un tempo serbatoio di stimoli e di quadri, e una volta compreso in maniera fin troppo evidente che non esiste una società civile incontaminata contrapposta a una politica corrotta: un lungo «autoinganno» che fu all’origine della Seconda Repubblica e che oggi non appare riproponibile.
Nell’introdurre gli avvenimenti che portano alla «frana» (come viene definito il crollo della Prima Repubblica) Crainz era partito da un’intuizione giusta: se si vogliono comprendere i reali condizionamenti internazionali che rendono possibile quello sbocco occorre guardare non alla caduta del muro di Berlino ma a Maastricht. Un condizionamento stringente di cui si colgono però solo gli elementi «virtuosi», quelli che ci costringono a «fare i conti con noi stessi», metter ordine nei conti pubblici, acquisire comportamenti austeri rispetto allo scialo degli anni precedenti.

Gli storici del futuro probabilmente si chiederanno come un grande paese industriale abbia potuto, praticamente senza una vera discussione, sottoporsi a un meccanismo con ogni evidenza destinato a impoverirlo e a tagliare alla radice le basi della sua crescita. E forse i «vincoli esterni» invocati dalle classi dirigenti per abbattere le conquiste repubblicane somiglieranno a quella chiamata degli eserciti stranieri voluta tanti secoli addietro dai maggiorenti locali per abbattere le libertà italiane in costruzione.

postilla


Sia l'autore del libro sia il recensore, che giustamente critica alcuni aspetti della trattazione di Crainz, sembrano dimenticare come sul rovesciamento della stagione delle "grandi riforme" abbia inciso la campagna di terrorismo di Stato iniziata con la seria di atti dinamitardi iniziata all'indomani dello sciopero generale nazionale del novembre 1969,
e proseguita con la miriade di assassinii e stragi delle mafie e dei terrorismi di "destra" e di"'sinistra" proseguiti per più di un decennio.

«». la Repubblica, 28 febbraio 2016

Come si fa a distinguere il buono dal cattivo maestro? Bisogna guardare gli occhi degli scolari, vedere se brillano o restano spenti. Se brillano vuol dire che quel maestro li ha accesi. Il maestro buono però non è quello che immaginiamo, non risponde a regole precostituite, non rispetta per forza le gerarchie, tutt’altro. Le sovverte, se serve. Eraldo Affinati dedica un libro a don Lorenzo Milani, un maestro che in anni in cui sembrava impossibile eliminò lavagne, cattedre, bocciature, andando a cercare gli allievi più poveri nelle spelonche in cui abitavano per convincerli a studiare. Affinati non ha scritto una semplice biografia, ma ha dialogato appassionatamente col fantasma di don Lorenzo. Il libro non ha la compostezza classica di un saggio, ma la coinvolgente vivacità di un faccia a faccia. Un confronto anche con se stesso, visto che Affinati parla di sé in seconda persona. Sarebbe piaciuto al priore che alle astrazioni teoriche preferiva i confronti diretti ed era un nemico delle liturgie spente e un esempio di cristianesimo fattivo. Il titolo guarda avanti, non poteva essere altrimenti: L’uomo del futuro (Mondadori). L’autore non si è accontentato di accumulare letture su don Lorenzo, ma ne ha seguito le tracce, come un detective.

Oggi ci sono altre Barbiane nel mondo. Affinati non indossa gli scarponi da montagna di don Lorenzo, ma si mette in viaggio. Va in Gambia, tra i palazzoni di Berlino est, in Marocco. I nuovi poveri si chiamano Pedro, un giovane tossicodipendente di Città del Messico, Manfred, che indossa una maglietta con un teschio, Alì, secco e snodato come doveva essere Barack Obama da piccolo.

Affinati va a vedere i posti in cui il priore è cresciuto e ha insegnato: la casa di famiglia in via Principe Eugenio a Firenze; la dimora di campagna, fuori da Montespertoli, oggi trasformata in agriturismo e, naturalmente, Barbiana, nel cuore del Mugello, dove don Lorenzo era arrivato nel 1954: una sola stanza accanto alla cucina, perché le vere rivoluzioni si fanno con pochi mezzi, serve solo qualche tavolo intorno a cui studiare e mangiare.
Nonostante i tanti libri scritti su don Lorenzo, gli entusiasmi, le strumentalizzazioni, l’oblio in cui l’autore della Lettera a una professoressa è caduto, Affinati, anche lui insegnante, autore di libri come La città dei ragazzi o Elogio del ripetente, crede fortemente nella portata di quella pedagogia rivoluzionaria che ripensò l’insegnamento a partire dal basso. Non ha origini altolocate come don Lorenzo, ma alle scarpe lucide preferisce le suole sporche di fango. La sua idea di pedagogia è concreta, costruita sulle persone, tanto che ha fondato la Penny Wirton, una scuola gratuita di italiano per immigrati. Il cuore di questo bel libro è a pag. 39: «Educare significa ferirsi. Bruciarsi le mani. Andare diritto dove sai che ti fa male».
». Pochi decenni dopo comincia la lunga discesa: Craxi, Berlusconi, Renzi. La Repubblica, 21 febbraio 2016

Quel giorno le donne si svegliarono allegre. Qualcuna la notte prima non aveva chiuso occhio, perché si trattava di una prima volta, e chi può sapere cosa si prova davanti a una scheda bianca. Alba de Céspedes uscì di casa con il passo leggero, come di chi «si sente i capelli ben ravviati sulla fronte». Maria Bellonci provò anche una sorta di smarrimen-to, in fondo era il suo battesimo da cittadina, ma bastò riconoscerlo per riprendere la rotta. E Anna Banti fu la più spietata con se stessa, in un modo che solo le donne conoscono: e se sbaglio tra il segno della repubblica e quello della monarchia? Così settant’anni fa le italiane andarono al loro primo voto, quello che avrebbe segnato l’inizio della democrazia repubblicana.

E così ha inizio la lunga storia che Guido Crainz ha scritto per Donzelli, bruciando i tempi sull’anniversario della Repubblica che cade il prossimo giugno: una cavalcata di quattrocento pagine che dall’Italia devastata dalla guerra arriva alle “terre incognite” di questi giorni. Ma è possibile storicizzare l’oggi, riducendosi praticamente a zero la distanza tra lo storico e i tumultuosi accadimenti della contemporaneità? L’autore di ci ha provato con un ammirevole sforzo di sintesi che è difficile rintracciare nell’attuale produzione storiografica. E la chiave del felice esperimento va cercata nelle fonti predilette da Crainz, che sono prevalentemente romanzi e film, quotidiani e riviste, il variegato deposito dell’immaginario popolare capace di fotografare negli italiani umori e allergie, speranze e disillusioni più di quanto raccontino le aride statistiche.
È grazie ad Alberto Moravia che nel 1947 entriamo nella periferia degradata di Roma, «un campo di concentramento senza filo spinato e torri di guardia». Ed è con Anna Maria Ortese che ci si interroga in quegli stessi anni sulla strana convivenza dentro il Pci «tra spiriti profondamente liberali e altri incapaci di laica indipendenza». Senza l’ironia agra di Luciano Bianciardi sarebbe difficile mettere a fuoco il volto crudele della modernizzazione. E nel successivo decennio dei Settanta spetta ad Alberto Arbasino sancire «ascesa e caduta delle illusioni », con il tramonto dei «valori come lo Sviluppo e il Progresso e la Crescita». Gli scrittori assolvono con ostinazione al ruolo di coscienza critica. Nella bufera di Tangentopoli, con mezza classe politica in galera e la gente in piazza ad applaudire, Giovanni Raboni non riesce a scacciare «un pensiero sordo e odioso come certi dolori: e noi, nel frattempo, dove eravamo?».

Ecco, forse la domanda che corre lungo settant’anni è come sia stato possibile passare dalla “necessità dei partiti”, da una politica onnipresente con un tasso altissimo di partecipazione al voto, al trionfo del suo esatto contrario, tra astensionismo e trionfo dell’antipolitica. Domanda che potrebbe essere estesa a molti altri paesi ma che in Italia ha una sua particolare urgenza. E secondo Crainz vi si può rispondere solo risalendo ad alcuni vizi di origine del sistema politico, ossia la continuità con il fascismo che aveva segnato la presenza invasiva del partito-Stato dentro le vite degli italiani. E anche il concetto di democrazia, puntualizza lo storico, non appariva del tutto chiaro e scontato, «né per il partito comunista né per il mondo cattolico». Oggi possono sembrare fogli ingialliti d’un album rimosso, eppure colpiscono le ferite dell’amputazione democratica negli anni della guerra fredda: un centinaio di lavoratori uccisi dalle forze dell’ordine tra il 1947 e il 1950, schedature per centinaia di migliaia di cittadini sospetti di militanza comunista, ripetuti controlli sugli insegnanti con interrogatori ai colleghi e ai genitori degli alunni. Nella “democrazia congelata” di quella stagione i diritti esistono, ma non per tutti.

Un altro filo rosso che attraversa questi decenni è l’incapacità della politica di guidare i grandi cambiamenti del paese. La società appare sempre un passo avanti, dietro una classe politica perennemente in affanno. Accade in questi giorni con le unioni civili ma è un tratto costante, ripetitivo, che si manifesta sin dai tempi dell’«inattesa Belle époque» – come la chiama Italo Calvino – ossia il grande salto del miracolo economico, quando l’Italia conosce «un nuovo modo di produrre e consumare, di pensare e di sognare, di vivere il presente e progettare il futuro». A fronte di colossali rivolgimenti, continua a operare per tutti gli anni Cinquanta un sistema arcaico, «apparati, uomini e culture portati a considerare il mutamento come una minaccia mortale».

E anche «il più serio tentativo riformatore dell’Italia Repubblicana » – la stagione dei Lombardi e dei Giolitti – avrebbe visto presto all’opera forze contrarie, accompagnate da “un tintinnar di sciabole”. È in questo passaggio, nello sfumare «non tanto di una singola riforma ma del modello riformista in quanto tale», che secondo Crainz comincia la grande mutazione genetica, «la trasformazione di una società operosa in un verminaio dedito alla dilapidazione». E nella severa diagnosi coincidono le analisi di Pietro Scoppola e le riflessioni di Eugenio Scalfari che denuncia un mercato senza regole e rapporti ormai imbarbariti. Così come era stata cieca alla nascita dell’età dell’oro, la classe politica non si sarebbe accorta della sua fine, sancita dalla crisi petrolifera.
Siamo già nei Settanta, il decennio delle “occasioni mancate” o forse – come ipotizza Giorgio Bocca – delle “occasioni inesistenti”. Anni di piombo che però secondo lo storico non sono riducibili al solo dilagare di violenza e terrorismo ma anticipano culture e comportamenti di massa affiorati in superficie più tardi: il successo come valore assoluto, il disprezzo per le regole e i vincoli collettivi, l’ambizione mai frenata da scrupoli etici. Comportamenti che se prima vengono trattenuti da identità collettivi forti – leggi i partiti di massa – in assenza di anticorpi sono destinati a deflagrare. Una “diseducazione civica” che in Italia avrebbe trovato svariati “eroi”, con l’imperversare della corruzione nella politica e nella società.

Il sistema partitocratico sarebbe arrivato al capolinea negli anni Novanta, travolto dalla “grande slavina” di Tangentopoli. E ancora una volta è uno scrittore come Claudio Magris a dare voce al timore «che il paese si dissolva e tra breve l’Italia – nell’attuale forma politico statuale e dunque anche culturale – possa non esistere più». In questo clima da camposanto avanza con “il sorriso alla Fernandel” (copyright Cesare Garboli) un nuovo protagonista che riuscirà più volte a vincere le elezioni ma non a governare il paese. E suona profetico l’editoriale scritto da Norberto Bobbio nel 1991 per La Stampa, poi ritirato per eccesso di pessimismo: «La gestione della seconda Repubblica se dovesse nascere sarà lunga. Ma poiché se dovesse nascere... nascerebbe con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà che nascere male, malissimo, come male, malissimo è finita la prima». La seconda Repubblica non è mai nata, sancisce Crainz. Al suo posto un “lungo regno” berlusconiano su cui la sentenza degli storici appare unanime e inappellabile. E ancora si fanno i conti con la sua pesante eredità.

E oggi? La cavalcata di chiude con il premierato di Renzi in «un’Italia che ha difficoltà a invertire la rotta ». Un paese spaesato che continua a pagare cecità e sciupii di precedenti classi dirigenti. Il racconto dello storico mostra fatalmente un passo più affannato, in una inedita geografia devastata da terrorismo globale e apocalisse migratoria. E sempre più fioche risuonano le voci di quel ceto intellettuale che l’aveva accompagnato fin dal principio della storia (a proposito, dove sono finiti gli scrittori?). Così quelle donne che allegramente si affrettavano alle urne, la mattina del 2 giugno del 1946, nel disincanto di oggi sembrano ombre arrivate dalla luna.

Bibliografia ragionata sulle proteste sociali, determinanti per i rapporti tra stato, capitale e lavoro in Medio Oriente e Nord Africa. Il manifesto, 11 febbraio 2016 (m.p.r.)

Molti analisti e accademici hanno sottovalutato l’anima sociale delle rivolte che hanno attraversato il Medio Oriente tra il 2011 e il 2015. Eppure altri studiosi, come Giulio Regeni, hanno sottolineato quanto le proteste fossero radicate nella trasformazione dei rapporti tra stato, capitale e lavoro che hanno avuto luogo nei 35 anni precedenti al 2011 a livello locale e globale. Per esempio, Joel Beinin nel suo Workers and thieves. I movimenti dei lavoratori e le rivolte popolari in Tunisia ed Egitto (Stanford, p. 176, 2015) è lo studioso del Medio Oriente che più ha puntato sul monitoraggio delle proteste dei lavoratori. Secondo il docente dell’Università di Stanford, i sindacati egiziani hanno pagato la minore organizzazione rispetto all’Unione generale del Lavoro (Ugtt) in Tunisia.

Già Gilbert Achcar, docente dell’Università di Parigi, con The People Want. Un’esplorazione radicale delle rivolte arabe (Saqi Books, 2013) aveva anticipato che il movimento del 2011 era il risultato di una lunga battaglia sociale al cui centro c’era un movimento popolare che parte dal basso. Eppure, secondo Achcar, che analizza nel dettaglio le profonde disuguaglianze economiche all’origine del malcontento popolare, nessuna delle forze politiche regionali si è dimostrata capace di guidare una trasformazione rivoluzionaria. Alexander e Bassiouny in Pane, Libertà e Giustizia sociale. Operai e rivoluzione (Zed Books, 2014) capovolgono magistralmente la centralità mediatica delle piazze, come Tahrir, e assicurano che le vere battaglie si sono svolte nelle periferie a tal punto che gli scioperi «hanno creato una nuova geografia urbana».
Tuttavia, gli autori sottolineano i limiti dell’integrazione tra battaglie politiche e sociali: «I lavoratori non hanno impiegato il loro potere collettivo e sociale per risolvere la crisi politica della classe dirigente a loro favore». Gli autori adottano un punto di vista più sfumato per giudicare l’azione politica dei Fratelli musulmani, definendoli conservatori più che «reazionari», come è stata abituata a fare una parte della sinistra, da Samir Amin ad Alaa al-Aswany, finendo per fare il gioco dei regimi autoritari al potere. E così un politico neo-nasserista come Hamdin Sabbahi, candidato alle presidenziali del 2012 in Egitto, ha finito per preferire un’alleanza controproducente con gli uomini del vecchio regime piuttosto che un accordo politico con gli islamisti moderati.
Sui rapporti tra sinistra e Fratellanza musulmana, Patrizia Manduchi, docente all’Università di Cagliari, in I movimenti giovanili nel mondo arabo mediterraneo (Carocci, 2014) spiega in modo molto efficace le dinamiche repressive, soprattutto da parte della polizia che spinsero, prima delle rivolte del 2011, i Fratelli musulmani ad accordarsi con i Socialisti rivoluzionari nell’Alleanza nazionale per il cambiamento e nei sindacati universitari. Lo stesso avvenne nei movimenti contro la guerra in Iraq del 2003 e nella campagna di solidarietà con l’Intifada palestinese (2000). Eppure ancora una volta, secondo Alexander e Bassiouny, nel 2011 i generali hanno saputo sfruttare a loro vantaggio le contraddizioni tra aspetti sociali e democratici del movimento.
Gli autori arrivano a stabilire che «gli scioperi che chiedevano forme più democratiche di controllo dal basso delle istituzioni statali stavano minacciando gli interessi del vecchio regime perché fondevano le domande politiche e sociali con il potere sociale dei lavoratori». Concorderebbe su questo anche la docente dell’Istituto universitario europeo, Donatella Della Porta che in Mobilizing for Democracy. Comparando il 1989 con il 2011 (Oxford University, 2014), confronta le transizioni democratiche in Cecoslovacchia e nella Repubblica Democratica tedesca del 1989 con le rivolte in Egitto e Tunisia del 2011. Le conclusioni della studiosa sono che i movimenti sociali erano più sviluppati in Nord Africa e Medio oriente che nell’Europa dell’Est. Sebbene nel primo caso gli antagonisti fossero più repressi dalle autorità statali, c’era qui una più forte organizzazione dei lavoratori rispetto al secondo caso.
E così i militari egiziani hanno saputo sfruttare quest’anima sociale delle rivolte a loro vantaggio costruendo uno pseudo neo-Nasserismo di cui il presidente Abdel Fattah al-Sisi è l’emblema, capace di soddisfare a parole le richieste sociali del popolo più dell’Islam politico. Eppure, come spiega benissimo Charles Tripp, docente di Scienza politica all’Università di Londra (Soas), in The Power and the People. Percorsi di resistenza in Medio oriente (Cambridge, 2013), dove racconta in modo originale i 18 giorni di occupazione della piazza e i movimenti sociali, la politica economica dei governi ad interim egiziani (2013-2015, con tagli ai sussidi e grandi opere) niente ha a che fare con il socialismo e il nasserismo, risponde solo alla necessità di al-Sisi di rappresentare le sue azioni come create su misura dalle richieste della strada e dei movimenti dei lavoratori. Evidentemente i Fratelli musulmani non sono stati capaci di integrare nelle loro politiche le richieste di poveri e delle classi subalterne, mentre in altri contesti, per esempio durante la rivoluzione iraniana del 1979, il clero sciita ha saputo cooptare una parte dei movimenti di strada nel sistema assistenziale post-rivoluzionario.

Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato e si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale».

connessioniprecarie.org, 2 luglio 2017 (c.m.c.)

L’intervista è stata realizzata mercoledì 28 giugno a Bologna, dove Judith Butler si trovava come promotrice della conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory (Duke University, University of Virginia, Università di Bologna).

La scorsa settimana hai promosso a Bologna un convegno internazionale sul ruolo critico delle università, che in questo momento negli Stati Uniti, dichiarandosi santuari per i migranti senza documenti, si stanno attivamente opponendo alle politiche di deportazione di Trump. Pensi che anche questo tipo di iniziativa rientri nel loro ruolo critico e come sarà colpita dalla riorganizzazione dello Stato pianificata da Trump e Bannon e dall’azione sempre più arbitraria della polizia?
È molto importante che le università dichiarino lo status di «santuari». Manda un segnale forte al governo federale dichiarando che le università non applicheranno le politiche di deportazione. Il programma di Trump non è ancora effettivo, ma i funzionari dell’immigrazione e incaricati delle deportazioni possono agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia vanno in un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo discrezionale di andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone senza documenti. Le università però hanno il potere di decidere se consegnare ai funzionari i nomi di quelli che non hanno documenti o se resistere alle loro richieste. Hanno il potere di bloccare l’implementazione dei piani di deportazione e questo significa che possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste all’applicazione delle politiche federali.

Anche alla luce di questo tipo di resistenza, alcuni vedono nell’elezione di Trump un’opportunità per i movimenti sociali. Condividi questa prospettiva?
Ci sono due modi di leggerla. C’è chi crede in una concezione dialettica della storia per cui un movimento di resistenza, per crescere, ha bisogno di un leader fascista, sicché dovremmo essere contenti in questa circostanza. Da parte mia non sarò mai contenta di avere un leader fascista, o neofascista, o autoritario… stiamo ancora cercando di capire come descrivere questo potere. Spero che i movimenti sociali non abbiano bisogno di questo per essere galvanizzati. C’è però un secondo modo di vederla, e che sono più disponibile ad accettare, per cui il trionfo della destra negli Stati Uniti ha reso imperativo che la sinistra si unisca con una piattaforma e una direzione davvero forti. Non è chiaro se questo possa accadere attraverso il partito democratico, o se ci debba essere un movimento di sinistra ‒ il che non coincide necessariamente con una politica di partito ‒ che sappia che cosa sta facendo e come e, su questa base, possa decidere se accettare un partito, o se avanzare le proprie rivendicazioni a un partito. Ma non è detto che si debba cominciare dall’essere un partito politico. A volte è positivo che i movimenti sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui opporsi, ma non dobbiamo accomodarci in una distinzione o situazione esistente, per cui ci sono i democratici, i repubblicani e tutto il resto è considerato una minoranza radicale senza potere. È il tempo che i movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme separate dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è nella posizione di negoziare.

In che modo la campagna elettorale, e in particolare l’apertura di Sanders verso i movimenti sociali ‒ che è stata spesso contraddittoria e incapace di raccogliere le loro istanze ‒ può offrire indicazioni rispetto a come strutturare l’opposizione a Trump nei termini che hai appena descritto?
La corsa di Sanders alla presidenza è stata molto interessante, perché ha messo insieme molta gente ed è stata molto più popolare di quanto Clinton si aspettava che fosse, conquistando alle primarie anche Stati che si pensava avrebbero sostenuto Hillary. Ma è stato anche frustrante, perché non era chiaro se Sanders sapesse come rivolgersi agli afroamericani, sembrava che pensasse che quella di classe fosse l’oppressione primaria e quelle di razza e genere fossero secondarie, e questa è una prospettiva che abbiamo combattuto negli anni’70 e ’80. Da una parte si è vista una sinistra capace di attrattiva, e questo è stato interessante, ma forse non lo è stata abbastanza. Forse è necessario distinguere Sanders dall’«effetto Sanders», che sta coinvolgendo molti più gruppi permettendo loro di pensare che possono avere un po’ di potere. Sanders si è definito socialista, anche se in una versione soft, ma un partito socialista non c’è ancora anche se alcuni si sono appellati a lui per uscire dal partito democratico e costituirne un altro. Vedremo se può succedere negli Stati uniti, sarebbe degno di nota.

I migranti sono stati protagonisti negli ultimi anni di importanti movimenti sociali e sono tutt’ora impegnati nell’organizzazione dell’opposizione al razzismo istituzionale di Trump. Nel tuo lavoro hai molto insistito sulla loro posizione, sottolineando il modo in cui hanno esercitato performativamente un «diritto ad avere diritti». Ma possiamo considerare i migranti non solo come una figura dell’esclusione da «noi, il popolo», ma anche come una prospettiva che ci permette di capire le trasformazioni contemporanee della cittadinanza e del lavoro nel suo complesso. Come fai i conti con queste trasformazioni nella tua teoria della precarietà?
Forse non ho una teoria della precarietà, ti posso dire che cosa sto facendo adesso, perché ho scritto Vite precarie dopo l’11 settembre per rispondere a quelle circostanze storiche, ma in altri libri sono emerse altre circostanze e magari si possono adattare ad alcune persone e ad altre no. Nel bene e nel male, il mio è un pensiero vivente e può cambiare, non ho una singola teoria che si adatti a tutte le circostanze, posso modificare la mia teoria, questo è il modo in cui lo descriverei. Quello che posso dire è che io vivo nello Stato della California e l’agricoltura lì si basa fondamentalmente sul lavoro migrante, se Trump fosse in grado di deportare migranti messicani senza documenti, costruire muri e bloccare l’afflusso di nuovi messicani, i principali interessi economici che lo hanno supportato sarebbero immediatamente in difficoltà. Di fatto l’economia della California funziona con i migranti senza documenti, non ci sono dubbi. E se andiamo indietro nella storia della California, vediamo che le ferrovie sono state costruite dai migranti cinesi. Molti di noi sono stati migranti, mia nonna non parlava nemmeno bene l’inglese, siamo arrivati, siamo andati a scuola, ci siamo dimenticati di essere migranti, pensiamo che i migranti siano sempre gli altri. Ma chi non è un migrante? Questa dimenticanza è parte della formazione del soggetto americano ed è diventata davvero pericolosa nel momento in cui abbiamo deciso che i migranti sono esterni a quello che siamo. Sono parte di quello che siamo, ci basiamo sul loro lavoro, siamo il loro lavoro.

Contro questa condizione, i migranti – non solo negli Stati Uniti ‒ hanno scioperato, e l’8 marzo di quest’anno c’è stato uno sciopero transnazionale delle donne. Nel tuo ultimo libro (Notes toward a Performative Theory of Assembly, nella traduzione italiana L’alleanza dei corpi) tu includi lo sciopero tra i modi in cui è possibile ‘assemblarsi’. Lo sciopero non è solo un modo di convergere, ma stabilisce anche una linea di opposizione nella società, una linea lungo la quale si pratica l’interruzione di un rapporto sociale di potere. La tua riflessione sulle assemblee articola la necessità o la possibilità di questo tipo di linea di conflitto come condizione stessa dell’assemblea?
Spesso, quando i sindacati vogliono unirsi per discutere le condizioni del loro lavoro, assistiamo a tentativi disperderli o negare il loro diritto di riunirsi in assemblea. Almeno nel diritto degli Stati Uniti e in qualche misura in quello internazionale, questo diritto nasce anche dalle assemblee sindacali, fatte per discutere le condizioni di lavoro o per decidere di scioperare. Ci sono modi di riunirsi in assemblea là dove c’è uno sciopero. Ma nell’era di internet possiamo entrare in rete nel web e decidere uno sciopero senza riunirci di persona. La vera domanda diventa allora come il modo tradizionale di funzionamento dell’assemblea, per cui i corpi si assemblano nello stesso spazio, sta in relazione con il networking digitale, o con una modalità politica di mettersi in rete che può anche essere la base per lo sciopero. Non intendo dire che nella vita contemporanea non c’è assemblea senza un insieme di connessioni digitali, o che non sappiamo nemmeno di essere assemblati se non mandiamo un messaggio che lo comunica. Tuttavia, l’assemblea può dare voce a certe rivendicazioni che devono essere comunicate attraverso il web. Di solito gli scioperi, soprattutto quelli internazionali, che sono molto interessanti, sono principalmente forme di messa in rete per la resistenza. Si tratta di una forma tra le altre possibili di associazione e alleanza tra gruppi, una forma che è legata all’assemblea anche se non sono esattamente la stessa cosa. Non c’è un’unica sfera pubblica per tutti, nemmeno internet è la stessa sfera pubblica per tutti, non tutti ce l’hanno e non tutti comunicano, non c’è un’unica sfera pubblica globale, non c’è una piazza mondiale. I media aiutano a fare in modo che succeda, quando succede. L’anno scorso coloro a cui non è assolutamente permesso di assemblarsi, i detenuti nelle prigioni palestinesi, negli Stati uniti e in altre parti del mondo, hanno fatto uno sciopero della fame. Molte persone che si opponevano alla pratica carceraria dell’isolamento sono andate in sciopero della fame e lo hanno fatto esattamente nello stesso momento. Hanno comunicato attraverso le reti di sostegno dei prigionieri, hanno creato un network internazionale senza bisogno di un’assemblea, hanno scioperato nello stesso momento per attirare l’attenzione dei media sul fatto che l’isolamento è una pratica disumana a cui tutti insieme si stavano opponendo. Alleanze a rete di questo tipo sono precisamente quello che è necessario per portare una questione al centro dell’attenzione politica. Anche lo sciopero delle donne è molto interessante perché non ha un solo centro, ed è accaduto in tutto il mondo in modi e luoghi diversi.

Infatti, lo sciopero dell’8 marzo è stato lanciato dalle donne argentine di Ni una menos con un appello internazionale che ha avuto un’incredibile risonanza in tutto il mondo. Non si è trattato di uno sciopero tradizionale, inteso come strumento di contrattazione sindacale, ma è stato un modo per rifiutare una condizione di violenza e oppressione che assume molte forme
.
Lo sciopero della fame e quello delle donne non sono scioperi tradizionali, di tipo sindacale, ed è importante che siano accaduti. La cosa che mi pare più interessante sono i network che li hanno resi possibili e che hanno permesso che accadessero, perché questi network possono comporre movimenti globali di solidarietà. Se però si riducono a uno sciopero che dura per un certo numero di ore per un giorno solo, questo non è abbastanza, perché un’azione simbolica. Ma anche un’azione simbolica può aiutarci a vedere quali sono i network, chi sono le persone che ne fanno parte in Argentina, qual è la loro relazione con la Turchia, con Bologna o con il Sudafrica. Il punto è usare l’occasione dello sciopero simbolico per solidificare reti internazionali che possano poi produrre effettivamente un senso più forte della sinistra femminista transnazionale o dell’opposizione transnazionale alle condizioni inumane nelle prigioni.

Forse però ci sono delle differenze tra lo sciopero della fame in prigione e lo sciopero delle donne o quello dei migranti. In prigione diventa un modo di conquistare in primo luogo quello che chiami un «diritto di apparire» per mettere sul tavolo rivendicazioni che altrimenti sarebbero inascoltate. Lo sciopero delle donne e quello dei migranti hanno stabilito una linea di conflitto, nel caso dell’8 marzo la linea in cui si mostra che la violenza patriarcale è la base per la riproduzione di rapporti sociali di potere su scala globale. Da questo punto di vista è interessante che lo sciopero sia stato proposto in Argentina, dove la violenza contro le donne sta diventando un’arma sistematica del governo neoliberale.
Penso che anche lo sciopero della fame in prigione stabilisca una linea di opposizione, perché in prigione tu non comunichi, non ti riunisci in assemblea, non avanzi rivendicazioni soprattutto se sei in isolamento. La voce dei detenuti non si sente, hanno bisogno di altri che possano articolare la loro posizione, che parlino per loro, e attraverso quel network hanno trovato il modo di articolare una rivendicazione che altrimenti non sono nella condizione di avanzare e che riguarda la violenza strutturale delle prigioni, che è anche un confronto frontale con quella violenza strutturale. Osservando il modo in cui le prigioni funzionano in Brasile o in Argentina, diventa evidente la relazione delle prigioni con la violenza della polizia, con il femminicidio, possiamo trovare una violenza strutturale che le connette. Angela Davis lavora sulle prigioni negli Stati uniti e in Brasile e sostiene che la violenza delle prigioni si manifesta attraverso un razzismo che colpisce i poveri e le donne in modo strutturale, una violenza dello Stato che articola disuguaglianze sociali fondamentali. D’altra parte dobbiamo considerare che i media hanno i loro cicli. Quanto più ci appoggiamo ai media per creare connessioni transnazionali, tanto più dobbiamo stare attenti al modo in cui il ciclo dei media ci fa diventare una notizia che un attimo dopo scompare. C’è un momento in cui siamo in sciopero e poi chi se ne ricorda? Che cosa succede poi? Come si traduce questo in pratiche o nuovi network, in nuove possibilità per i movimenti? Il modo in cui i media gestiscono lo sciopero di un giorno può dargli vita per un momento e poi estinguerlo. Dobbiamo trovare modi per lavorare contro questa temporaneità dei media per sostenere le nostre connessioni politiche.

Il problema riguarda però la capacità di accumulare sufficiente potere da forzare i media a dare conto di quello che accade. Lo sciopero è precisamente un modo di dare prova di un potere, che è in primo luogo il potere di non essere vittime, di rifiutare una condizione di oppressione.
Sono d’accordo. Dire, come spesso fanno i media, che le donne non si mobilitano o che siamo ormai post-femministe per me non è altro che una barzelletta. Non sarò mai post-femminista. È grandioso avere un momento globale in cui le donne emergono in marcia, come è successo a Washington e in tutto il mondo il 21 gennaio, ma questo deve continuare a succedere, e abbiamo bisogno di scioperi e manifestazioni che abbiano le loro infrastrutture, i loro network, i loro modi di sviluppare fini e strategie e forme di resistenza. Dobbiamo costruire queste connessioni.

La marcia del 21 gennaio e lo sciopero dell’8 marzo hanno visto le donne protagoniste ma hanno coinvolto moltissimi altri soggetti. Le donne in queste occasioni hanno posto una questione generale, ad esempio rifiutando le politiche neoliberali che smantellano il welfare e che impongono proprio alle donne di farsi carico del lavoro riproduttivo e dei servizi che non sono più erogati dal pubblico. A questo riguardo, pensi che le donne, in virtù della loro posizione materiale e simbolica, possano avere anche una posizione specifica nella lotta contro le relazioni neoliberali di potere su scala globale?
Io penso che le donne debbano assumere una posizione politica specifica per via del fatto che sono prioritariamente responsabili di relazioni di cura nei confronti dei bambini o degli anziani, e quando i servizi dello Stato e pubblici sono distrutti dal neoliberalismo o dal fallimento di altre infrastrutture, penso che questo ponga su di loro un carico ulteriore che ha effetti anche sul lavoro produttivo. Vorrei dire anche, però, che è estremamente importante includere tra le donne anche le donne trans, che dobbiamo avere una visione più ampia di che cosa significa essere una donna, una visione che includa anche le donne che non prendano parte alla riproduzione o al lavoro domestico, che hanno scelto di non essere o semplicemente per altre ragioni non sono sposate, che hanno altre alleanze sessuali e sono senza figli. Le donne ora vivono forme sociali molto diverse che includono e devono includere anche le donne trans. Uno dei problemi che ho con l’idea che le donne siano completamente identificate con la sfera riproduttiva è che in questo modo si operano delle restrizioni. Se, nel cercare di dare una specificità e una visibilità alle condizioni materiali delle donne, stabiliamo una specifica comprensione simbolica di che cosa la donna è, tutte le donne ne sono colpite, diventa un limite.

Sono completamente d’accordo, e il punto mi sembra precisamente la possibilità di rifiutare quel modo di essere identificate come donne. Si tratta di rifiutare la divisione sessuale del lavoro che costringe le donne a occupare certi ruoli, proprio questo rifiuto diventa politicamente rilevante oggi. Ma allo stesso tempo l’idea di includere le persone trans nella categoria delle donne non rischia di limitare la possibilità di questo rifiuto, esattamente perché presuppone una definizione identitaria di che cosa sia «donna»?
Non credo. Sta già succedendo. Ci sono persone che vivono come donne, senza essere riconosciute come tali. E ci sono persone riconosciute come donne che non si pensano affatto come donne. Dobbiamo accettare che spesso la percezione sociale non corrisponde all’esperienza vissuta delle persone. Non è solo una questione identitaria perché riguarda il modo in cui sei trattata a casa, a scuola, nelle istituzioni religiose, nel lavoro, se sei chiamata nell’esercito, quale bagno usi… ci sono un sacco di questioni pratiche che dipendono dalla designazione di genere, che può anche avere implicazioni concrete sulla vivibilità o invivibilità della vita. Se qualcuno mi interpella come donna in un certo modo e si aspetta che io viva in quel modo, in certe circostanze sociali, non potrei vivere in quella società, dovrei andarmene, ci sono implicazioni concrete e materiali che seguono a questo tipo di designazione e penso che se ci limitiamo a parlare di questioni di identità ‒ come ti definisci, qual è il tuo pronome, se è una questione di scelta individuale e di nominare se stessi – ci sfugge il fatto che spesso si tratta di una questione di vita o di morte.

Capisco il punto ma mi piacerebbe insistere. Da una parte sostieni, e sono d’accordo, che sia necessario rifiutare l’identificazione delle donne con le loro funzioni riproduttive, con i ruoli di madre, moglie, di coloro che sono ‘naturalmente’ deputate alla cura. In questo senso non si tratta semplicemente di una scelta individuale, ma di contestare l’imposizione di un ruolo e di una posizione sociale e la riproduzione di un rapporto di potere che presuppone quel ruolo e quella posizione. Dall’altra sostieni che altre soggettività di genere dovrebbero essere considerate donne, perché questo colpisce materialmente la loro possibilità di vivere. È indiscutibile che sia necessario allargare il riconoscimento di diritti civili e sociali, ma non c’è una qualche contraddizione tra il primo e il secondo punto, nella misura in cui il primo implica il rifiuto di una definizione che comporta anche l’imposizione di un ruolo, mentre il secondo la presuppone?
Questo mi permette di chiarire quello che intendo. Penso che ci siano molte donne che vogliono essere e sono madri e questo significa molto per loro, e non dovrebbero rifiutarlo, è grandioso che siano madri, hanno un grande piacere a essere madri e a vivere come vogliono vivere, e ci sono donne che vogliono essere sposate ed essere sposate con uomini. E se lo vogliono e questo le soddisfa è giusto e non devono rifiutarlo. Ma dare una definizione di donna che valga per tutti è un errore. Perché questo limita le possibilità all’interno dello spettro di che cosa significa essere una donna. Ci sono altre che non vogliono essere madri ma si pensano nonostante tutto come donne, che hanno relazioni di convivenza senza essere sposate e non intendono farlo, e questo è un altro spettro di possibilità in quello che chiamiamo essere donna. E ci sono donne trans che sono donne in molti modi, che sentono con forza che questo è esattamente ciò che sono socialmente e psicologicamente, e vogliono vivere in quella categoria ma non hanno lo spazio di farlo. Non penso che quelle che sono sessualmente donne debbano rifiutare di fare figli o di sposarsi, non lo direi mai, ma ci sono lesbiche che vogliono sposarsi e questo va bene, e ci sono trans che vogliono avere figli e sposarsi e questo va bene, e se non vogliono sposarsi e avere figli potrebbero comunque essere coinvolte nella cura dei figli con altre persone, non dobbiamo prendere una sola scelta e renderla una norma per tutti, questa sarebbe una forma di violenza simbolica.

Lo sarebbe senz’altro. Ma non bisognerebbe perdere di vista una critica della famiglia come luogo in cui si organizzano rapporti di oppressione e di dominio. Se guardiamo la cosa dal punto di vista della libertà individuale è certamente necessario mantenere l’apertura che hai appena descritto. Ma istituzioni come il matrimonio e persino la scelta, certamente personale, della maternità vanno anche pensate in relazione al loro significato sociale, ai ruoli che prescrivono alle donne ed è in questo senso che sono state oggetto della critica femminista. Proprio questo cercavo di dire all’inizio: le donne in un certo modo hanno la possibilità, proprio perché si suppone che occupino certe posizioni, di criticare quelle istituzioni in quanto riproducono rapporti sociali di potere.
Capisco questo, ma penso che le istituzioni abbiano una storia, non sono le stesse in ogni cultura e contesto storico. Per esempio, se il femminismo vuole essere globale è estremamente importante che veda che non tutte le donne si muovono in una cornice di libertà individuale come in Europa, che ci sono diversi rapporti di connessione familiare e parentela che allargano la famiglia, e che questa non ha solo la forma della famiglia nucleare. Se pensiamo alla parentela e alla famiglia nucleare come una modalità di parentela tra le altre, e a relazioni di sostegno diverse dalla famiglia nucleare, partire da un modello occidentale è un’ingiusta imposizione culturale. Non mi interessa la questione della scelta personale e individuale, mi interessa di più che cosa è invivibile, è una cornice diversa, perché per alcune persone non sarebbe vivibile la struttura familiare o la struttura di parentela allargata, mentre per altre persone è l’unico modo per sopravvivere e fiorire, e altre persone vivono forme di ambivalenza fortissime nella struttura familiare, come uomini che si prendono cura della casa o curano i figli o sono in rapporti che non dipendono dalla divisione sessuale del lavoro. Ci sono alcune persone che stanno attivamente ristrutturando questi rapporti e ci stanno riuscendo in qualche misura, le famiglie lesbiche e gay non sono famiglie tradizionali, sono famiglie miti, ci sono madri dal primo matrimonio o dal secondo matrimonio, con un padre gay, le relazioni di amicizia possono dare strutture di parentela più elaborate. Non penso che possiamo risalire a Engels per trovare la famiglia come una struttura oppressiva che rimarrà sempre tale, l’analisi strutturalista non ci permette una concezione storica della famiglia, e io penso che ci serva un’analisi che ci permetta di capire come questa istituzione funziona.

Sono d’accordo che non si possa prescindere dalle condizioni storiche in cui si articola la critica alla famiglia. Ma mi pare anche piuttosto chiaro che nelle condizioni attuali, in Europa e non solo in Europa, il neoliberalismo sta riportando al centro una concezione tradizionale della famiglia, e quindi prescrivendo alle donne una specifica posizione, perché si tratta di una struttura fondamentale di riproduzione della società, tanto più in un contesto in cui la fine di ogni politica sociale impone un’assoluta individualizzazione delle responsabilità per la propria vita come quella che tu stessa descrivi nella tua riflessione. Mi pare che questo renda necessaria una critica femminista della famiglia e non solo l’idea che debba essere allargata a figure che non rientrano nel suo modello.
Capisco quello che dici e possiamo complicare ancora di più questa situazione perché abbiamo un femminismo neoliberale, abbiamo Hillary Clinton, lei si è fatta da sola, è un autoimprenditrice, vuole che le donne avanzino negli affari, che facciano le piccole imprenditrici, si è forse preoccupata se la cura dei figli sia finanziata e non sia soggetta a tagli e coinvolta in politiche di austerità? Avrebbe dovuto! E invece è con i Clinton che sono cominciati i tagli ai welfare e l’abbattimento di tutto quello che è rimasto della socialdemocrazia negli Stati uniti. Molte donne non hanno votato per lei, molte donne nere non si sono sentite rappresentate da lei, molte donne bianche povere non si sono sentite rappresentate da lei, il suo femminismo è completamente centrato sull’autoavanzamento e questo è l’obiettivo neoliberale.

Questo è stato un punto ampiamente dibattuto nell’accademia negli Stati uniti quando Nancy Fraser ha sostenuto che il femminismo è diventato l’ancella del neoliberalismo, e che questo è accaduto nel momento in cui le identity politics hanno preso il posto delle istanze di redistribuzione della ricchezza durante gli anni ’80.
Penso che anche qui dobbiamo distinguere il femminismo che è diventata una politica ufficiale di Stato, anche se per certi versi non lo è più, non abbiamo più femminismo nelle istituzioni e nemmeno donne, è stato un colpo di coda durissimo. Ma molti aspetti del femminismo socialista, del movimento delle donne contro la violenza, o dei movimenti contro la povertà che in modo sproporzionato colpisce le donne non sono stati ascoltati dal femminismo ufficiale. Ed è una pena vedere come il femminismo sia stato incorporato, ne saranno forse contente le femministe liberali, che sono soprattutto o esclusivamente bianche, ma la critica del liberalismo o del neoliberalismo non è certo esaurita.

Questo ci riporta alla capacità dei movimenti di consolidarsi. Nelle tue note sulle assemblee hai molto insistito sul fatto che le assemblee sono temporanee, contingenti, e sottolinei che ciò non è necessariamente un limite perché possono accadere in ogni momento. Questa idea di contingenza o transitorietà come si confronta con il problema della continuità e dell’organizzazione delle assemblee? Se la contingenza è il modo di essere delle assemblee, non c’è il rischio che solo la loro rappresentazione nelle istituzioni possa dare loro continuità?

Oltre alla temporaneità io ho sottolineato che le assemblee possono articolare un certo tipo di critica. Per esempio anche lo sciopero delle donne dell’8 marzo ha articolato dei principi, per cui il punto diventa come quei principi sono tradotti in pratiche e organizzazione e movimento. Penso che il grande momento pubblico abbia un’importanza quando i principi che annuncia sono raccolti da altri tipi di movimento che magari non sono così spettacolari e pubblici. Ma c’è un altro punto che mi interessa sottolineare: un’assemblea che dura molto tempo diventa un accampamento, o magari un’occupazione, che dura più tempo o si allarga e può diventare un movimento sociale e anche una lotta rivoluzionaria. A seconda da quanto spesso accadono, da quanto grandi diventano, da quanto a lungo durano, puoi tracciare il modo in cui ciò che comincia come un piccolo gruppo di persone che si riunisce può trasformarsi nel tempo e nello spazio in un più largo e sostenuto movimento sociale. Questo mi interessa e mi porta a pensare allo sciopero generale, non uno sciopero per un giorno, non «oggi non lavoriamo», ma «non lavoreremo più finché non cambiano le condizioni», non solo questo giorno ma ogni giorno finché queste condizioni sono mantenute. Lo sciopero generale è il rifiuto di un regime, di un’intera organizzazione del mondo, della politica, di un regime di apartheid, di un regime coloniale, li abbiamo visti abbattuti dai movimenti di massa. So che la gente dice che i movimenti non possono fare niente, invece lo fanno, sbagliamo a sottovalutare il potere dei movimenti di massa, ma ci vuole tempo per accumulare e la gente deve avere più di qualche slogan per andare avanti, devono sapere che ci sono principi, un’analisi, per potersi considerare parte di quello che sta succedendo e che quello che accade in una parte del mondo è connesso a quello che succede da un’altra parte. Se pensiamo alle popolazioni che sono rese precarie dalle politiche economiche neoliberali, o da governi autoritari, o dalla decimazione dei beni pubblici, dei sussidi, dell’educazione, della salute, ci sentiamo molto soli finché non realizziamo che altri stanno facendo esperienza dell’accelerazione e intensificazione della povertà o dell’abbandono o della perdita del lavoro. Deve essere chiaro che questo accade sul piano transnazionale e deve essere messo in termini che la gente possa capire, perché possa riconoscere l’ingiustizia della propria sofferenza. C’è il pericolo che la gente pensi che la propria situazione è solo un problema locale, quando invece ha una dimensione transnazionale. E se possiamo tornare indietro alla lotta al femminicidio, quella è un’enorme ispirazione per me, perché ci sono statistiche terribili su quante donne e quanti trans sono uccisi in un posto come l’Honduras, che forse ha le statistiche peggiori, in Brasile in Argentina, sono statistiche sconcertanti, ma lo sforzo di costruire network tra le donne e quelli che si oppongono ai femminicidi è impressionante. Mi rendo conto di quanto duro debba essere leggere quelle statistiche, riunirsi e fare un’analisi che la gente possa accettare e quanto è stato importante per quel movimento essere prima di tutto interamericano, e che i tribunali abbiano dichiarato il femminicidio un crimine. Il problema è che la polizia in tutti quegli Stati non ha nessuna intenzione di farsi carico del crimine e riconoscerne l’importanza, e spesso arrestano le donne che denunciano, è un terrorismo di Stato inflitto a coloro che portano questo problema in pubblico, perché la struttura del patriarcato locale e le alleanze patriarcali tra la polizia e lo Stato sono molto forti. Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato, in cui si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani e si rivolgono alle corti interamericane e producono alleanze transnazionali non dipende dal potere dello Stato, ma chiede conto allo Stato della sua complicità. Penso che questo sia enormemente interessante, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale, quindi penso che dovremmo studiare questi movimenti e trarne ispirazione. Forse non sono ancora riusciti a porre fine a questa pratica atroce, ma hanno allargato la possibilità di farsi ascoltare, ora il mondo sa che cosa accade, e hanno prodotto network per supportarsi e sviluppare impressionanti pratiche di resistenza.

Una riflessione critica a proposito di un libro che per eccesso di laicismo rischia di perdere la memoria di Voltaire. Conclude Zagrebelsky: «L’integrazione è l’obbiettivo, ma l’obbiettivo si può perseguire in autonomia solo con l’interazione; si tratta di promuoverla nella convinzione ch’essa aiuti la conoscenza reciproca e la convivenza pacifica». La Repubblica, 23 gennaio 2015

Molte cose è il libro di Paolo Flores d’Arcais La guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale (Raffaello Cortina Editore): un allarme per il pericolo che l’Islam fondamentalista rappresenta per gli ideali politici dell’Occidente, una denuncia delle debolezze e delle ipocrisie dei nostri governi, una teoria delle condizioni irrinunciabili della democrazia. Il “precipitato” di tutti i discorsi anzidetti è nella parola laicità, intesa nel senso più rigoroso, senza gli aggettivi oggi di moda (sana, positiva, vera: aggettivi che non l’arricchiscono, ma l’avvelenano). Le considerazioni che seguono non sono, propriamente, una recensione. Sono piuttosto un tentativo d’inquadrare i problemi e di sollecitare riflessioni su questioni cruciali per il nostro avvenire.

La laicità è il presupposto della democrazia, in quanto s’intenda la religione come eteronomia, cioè soggezione alla trascendenza. La democrazia, al contrario, è autonomia, cioè libertà nell’immanenza. Si potrebbe dire così: chi si appella alla religione ritiene che le cose terrene siano subordinate a un ordine sacro oggettivo necessario che a noi spetta rispettare e, eventualmente, restaurare se è stato violato; chi si appella alla democrazia ritiene, invece, che la casa terrena non abbia un ordine, ma siamo noi a doverglielo dare, attraverso discussioni, controversie, voti ed elezioni. Chi vuole risolvere i problemi della convivenza in base a premesse sacrali apre le porte a quella maledizione dell’umanità che sono le guerre di religione. Ora, se guardiamo alla storia, dobbiamo riconoscere che è nello Stato nazionale che la democrazia ha trovato l’humus necessario. Questo è un punto importante per comprendere le difficoltà odierne della democrazia. Lo Stato nazionale ha generato mostri totalitari, quando è degenerato in nazionalismo. Ma la nazione ha realizzato la “sfera pubblica” comune, nella quale i cittadini possano confrontarsi dialogicamente, e “discorsivamente” partecipare alla creazione d’una volontà comune su temi di rilevanza generale. La democrazia non è incompatibile con il pluralismo delle opinioni, ma il “multiculturalismo” è altra cosa, è rottura dell’unità del quadro entro il quale si deve svolgere la vita comune.

Il libro di Flores è una scossa necessaria e salubre contro la cecità, la viltà e l’inanità di fronte ai pericoli del fanatismo religioso usato come sostanza incendiaria, versata sulle controversie economiche e politiche che dividono il mondo e le società e le trasformano in crociate. Un breve excursus storico. La Francia del Cinque-Seicento fu il terreno d’una orribile guerra civile in cui ragioni politiche si mescolavano col fanatismo religioso: l’obbedienza cattolica contro la riforma protestante. La “notte di San Bartolomeo” (23-24 agosto 1572) in cui migliaia di Ugonotti furono trucidati dal partito cattolico sotto l’egida di Caterina de’ Medici è un esempio di come si possono regolare i conti tra fedeli di religione diversa e azzerare le diversità imponendo una sola legittimità. Contro tanta barbarie, si fece strada un diverso modo di pensare che potrebbe essere sintetizzato in un detto del Cancelliere di Francia Michel de L’Hospital: «Non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme », ciascuno con la sua fede. Quella massima trovò attuazione con l’editto di Nantes di Enrico IV (1598) che, sia pure provvisoriamente e con molte limitazioni, riconobbe la libertà di coscienza e di culto: tolleranza a condizione che cattolici e protestanti stessero ciascuno al proprio posto e il potere assoluto del Re non fosse messo in discussione.

Questa forma di coesistenza per parti separate poteva valere in quel tempo, quando di democrazia non si parlava. In democrazia, deve esistere un unico foro politico generale dove tutti sono chiamati a partecipare. Non basta che ci sia un potere che garantisca la non aggressione. Occorre che i “fedeli” delle diverse chiese si rispettino e si riconoscano reciprocamente come portatori di buone ragioni valide in generale. La legittimità democratica nasce da lì, dal riconoscimento d’essere parti d’un foro comune. Il foro comune si chiama “nazione”.

La nazione è stata celebrata come la casa accogliente, protettiva, il luogo del cuore, la Heimat del romanticismo tedesco. La storia delle Nazioni e della “nazionalizzazione delle masse” (titolo d’un celebre libro di George Mosse del 1974) è stata però lunga e tortuosa e, soprattutto, fatta di cose molto diverse: movimenti di emancipazione da servaggi e discriminazioni e conquista di diritti (per esempio, il voto e la protezione sociale per la classe lavoratrice, in origine esclusa dalla nazione, secondo la concezione borghese) o, al contrario, di discriminazione e persecuzione. L’unità è una bella cosa se è il prodotto dell’azione che mira a distruggere barriere e a creare fratellanza. Ma può essere — ed è stata — cosa violenta, se è imposta con obblighi e divieti (come l’uniformità di lingua, di religione e di insegnamento). Può essere terribile, se viene brandita come arma contro coloro che i governi dichiarano “non integrabili”, i diversi per natura: gli stranieri, i senza cittadinanza, i nemici della Patria, i potenziali traditori (gli ebrei, i rom e sinti, gli omosessuali, gli slavi, i latini, secondo il concetto nazionale razzista del nazismo).

Raccogliamo questi spunti di riflessione e facciamoli reagire con i problemi del multiculturalismo. Il “modello San Bartolomeo”, cioè la violenza e i pogrom usati per sbarazzarsi dei migranti è proponibile solo per gli xenofobi razzisti di casa nostra. Tuttavia, neppure la separazione “modello Nantes” è accettabile: i muri, le enclave e i quartieri monoetnici, le classi scolastiche separate o le scuole coraniche sostitutive di quelle pubbliche. Sono cose che hanno il nome apartheid e sono inconcepibili in democrazia.

La parola-chiave dei nostri giorni è integrazione e, nel libro di Flores, l’integrazione implica la laicità nella sua accezione più rigorosa. Si prenda la questione dei simboli: come dovrebbe essere vietata l’esibizione di quelli islamici (il velo delle donne), così dovrebbe essere per quelli cristiani (il crocifisso nei luoghi pubblici). Ma, qui c’è il rischio d’una aporia, un’aperta contraddizione. La laicità è funzionale all’autonomia, ma la si può imporre in regime di eteronomia. Si può essere laici perché qualcuno ce lo comanda? La contraddizione non è da poco. La laicità imposta significa soffocare i propri tratti identitari e, da questo soffocamento, si possono sprigionare reazioni di rigetto. L’esperienza insegna: invece di promuovere convivenza, si rischia di alimentare i conflitti.

L’integrazione è l’obbiettivo, ma l’obbiettivo si può perseguire in autonomia solo con l’interazione. Prima o poi, non saremo più gli stessi. Di questo possiamo essere certi. Si tratta di sapere se ci si arriveremo in mezzo a conflitti o, invece, con la disponibilità delle culture a entrare in rapporto. Ferma restando l’intransigenza verso ogni forma di violenza tra e nei gruppi sociali, e fermo l’aiuto che deve essere dato a coloro che liberamente desiderano sottrarsi alle imposizioni delle loro comunità, si tratta di promuovere l’interazione, nella convinzione ch’essa aiuti la conoscenza reciproca e la convivenza pacifica. Convinzione o illusione? Non lo sappiamo, ma sappiamo che questa è l’unica via conforme alle nostre convinzioni democratiche.

«In un libro l’evoluzione dello status delle italiane in dieci anni. In crescita le iscritte a facoltà mediche e scientifiche. E si riduce il divario tecnologico. Tante luci, a partire dall’istruzione, ma anche le ombre del gap salariale».

La Repubblica, 23 dicembre 2015

LE DONNE italiane sono state protagoniste di importanti cambiamenti negli ultimi dieci anni. Il fenomeno riguarda soprattutto le più giovani, ma coinvolge anche le anziane, le italiane come le straniere. Le donne, infatti, sono sempre più istruite e nelle generazioni più giovani sorpassano i loro coetanei sia per livello di istruzione, sia per regolarità dei percorsi formativi (meno bocciature, meno fuori corso), sia per i voti che ottengono. Stanno anche in parte cambiando le scelte formative. Più ragazze iscritte a ingegneria, medicina, chimica, agraria, meno iscritte al gruppo letterario e politico- sociale. Anche le straniere, tra le quali sono in aumento coloro che arrivano non per ricongiungimento famigliare, ma come lavoratrici, sono spesso più istruite dei loro conterranei maschi (fanno eccezione le marocchine e le cinesi).
Si sono anche ridotte le differenze di genere nei percorsi formativi, che sono in parte responsabili delle maggiori difficoltà che le donne trovano nel mercato del lavoro. Tra le più giovani (italiane o straniere), si è anche chiuso il divario con i coetanei nell’uso delle nuove tecnologie, che rimane ancora ampio tra le più vecchie; anche se tra queste ultime si sta facendo avanti una generazione di anziane con buona istruzione e con una vita professionale alle spalle pienamente protagoniste dell’“invecchiamento attivo”.
Una maggiore istruzione si è accompagnata a un rimando della maternità, che non dipende solo dalle difficoltà che giovani donne e uomini incontrano nel mercato dal lavoro, ma anche dal desiderio delle giovani donne di investire su di sé, sul piano professionale, della vita di relazione, delle attività culturali e di tempo libero, prima di impegnarsi a formare una famiglia propria. E quando lo fanno, sempre più non passano innanzitutto dal matrimonio, preferendo una convivenza e ritenendo del tutto normale e accettabile avere un figlio anche senza essere sposate.
Tra le più giovani e istruite sono in aumento rapporti di coppia più simmetrici, sul piano del contributo sia al reddito famigliare sia (in minor misura) al lavoro famigliare. Non ci sono solo più donne in Parlamento e al governo e nei consigli di amministrazione. Ci sono più donne che partecipano attivamente al mercato del lavoro, alla cultura, alla vita associata, anche quando hanno responsabilità famigliari.

È quanto emerge dalla fotografia scattata dal rapporto Istat Come cambia la vita delle donne, uscito ieri a cura di Sara Demofonti, Romina Frabboni e Linda Laura Sabbadini, confrontandola con quella di anni fa. Sono mutamenti importanti. Al punto che potremmo dire che gran parte dell’innovazione sociale è dovuta a cambiamenti nei comportamenti femminili.

Rimangono, tuttavia, forti ostacoli a che il cambiamento si generalizzi a tutti i livelli. Proprio questi ostacoli, oltre a pesare in modo sproporzionato sulle donne che spesso devono portare tutta la fatica del cambiamento, rafforzano diseguaglianze sociali e ne creano di nuove. Permangono forti disuguaglianze nel mercato del lavoro, nonostante la maggiore istruzione delle donne nelle coorti più giovani. Non solo, a fronte di un aumento lentissimo dell’occupazione femminile, per altro interrotto dalla crisi, è persino aumentata la percentuale di donne che escono dal mercato del lavoro a causa della maternità, costrette a scelte radicali da una combinazione perversa di rigidità del mercato del lavoro (anche quando chiede flessibilità ai lavoratori/lavoratrici) e carenza di servizi, soprattutto, ma non solo, nel Mezzogiorno.

Una questione per altro ignorata nella legge di stabilità. Ciò crea disuguaglianze tra uomini e donne, ma anche tra donne, tra chi può rivolgersi al mercato (o alle nonne/i) per surrogare servizi mancanti e chi no. L’aumento dell’istruzione, inoltre, non ha riguardato tutte. Mediamente più istruite degli uomini, le giovani donne tuttavia costituiscono la maggioranza dei Neet e quella più difficile da coinvolgere in una operazione di riorientamento (questione del tutto assente dalla riflessione sulla Garanzia Giovani). Rimangono anche forti stereotipi di genere, relativamente a ciò che possono fare le donne e gli uomini, a ciò che spetta agli uni e alle altre. Il che rende difficile modificare sia i comportamenti sia le politiche.

postilla

Si potrebbe concludere che nel panorama statistico rappresentato dall'ISTAT le luci siono dovute alle donne e le ombre alla società. Le
luci nascono dal fatto che sono diminuiti gli ostacoli che impediscano l'emersione sociale delle qualità del genere femminile (certamente in sè non inferiori a quelle del maschile). Tra le ombre la più evidente quella rappresentata dal gap retributivo B isognerebbe segnalare però come segnale negativo anche il fatto che le presenze femminili sono molte nei settori che sono "al servizio"del sistema economico sociale esistente (materie "scientifiche", "nuove tecnologie"), e meno in quelle più utili alla ricerca di nuove strade per il futuro, quali quelle del "gruppo letterario e politico- sociale". Il rapporto sottolinea accenna alvincoli che bloccano ancora la pienezza del contributo che le donne potrebbero dare alla società: il gap restributivo e quello costituito dai servizi sociali (per l'assistenza, l'infanzia, la salute, l'educazione) : Il fatto è che come movimenti femministi hanno compreso in Italia da almeno mezzo secolo) è la città nel suo insieme che dvrebb essere trasformata nella sua struttura: a partire dalla quantità e nelle risorse dedicate alla "città pubblica". Non va dimenticato che una delle conquiste del movimento femminile degli anni Sessanta, gli "standard urbanistici", sono continuamente erosi nell'ultimo ventennio e tendono alla sparizione.

Disuguaglianza Che cosa si può fare?) che, sulla scia del riformismo del XIX secolo, propone un piano per finanziare una significativa espansione della sicurezza sociale. La Repubblica, 5 dicembre 2015

Anthony Atkinson occupa un posto speciale fra gli economisti. Nell’ultimo mezzo secolo, a dispetto delle tendenze dominanti, è riuscito a collocare il tema della disuguaglianza al centro del suo lavoro, dimostrando che l’economia è anzitutto e soprattutto una scienza sociale e morale. Nel suo nuovo libro, “Disuguaglianza. Che cosa si può fare?” — più personale dei suoi precedenti e totalmente centrato su un piano d’azione — ci offre le linee guida di un nuovo radicale riformismo. Qui c’è qualcosa che ricorda il riformismo sociale progressista

del britannico William Beveridge e il lettore potrà godersi il modo in cui Atkinson presenta le sue idee. Atkinson, studioso inglese la cui prudenza è leggendaria, rivela un lato più umano, si butta nella disputa e presenta un elenco di proposte concrete, innovative e convincenti per dimostrare che le alternative esistono ancora, che la battaglia per il progresso sociale e l’uguaglianza deve rivendicare la propria legittimità, qui e ora. Propone benefici universali per le famiglie finanziati dal gettito di una tassazione progressiva. Difende anche l’idea di posti di lavoro garantiti nel settore pubblico a salario minimo per i disoccupati e la democratizzazione dell’accesso alla proprietà di beni attraverso un innovativo sistema nazionale di risparmio, con rendimenti garantiti per i depositanti.

In Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Atkinson lascia il terreno della ricerca accademica e si avventura nel campo dell’azione e dell’intervento pubblico. Così facendo, ritorna al ruolo dell’intellettuale pubblico, che non ha mai davvero abbandonato, sin dagli inizi della sua carriera.

Si assume dei rischi e propone un vero piano d’azione. Atkinson traccia distinzioni e prende posizione in modo assai più drastico di quello che in genere la sua innata cautela lo induce a fare. Non ha scritto un libro divertente, ma nelle sue pagine troviamo l’ironia mordace che i suoi studenti e colleghi conoscono bene.

L’idea di tornare a una struttura fiscale più progressiva ha un ruolo decisamente importante nel piano d’azione proposto da Atkinson. L’economista non lascia alcun dubbio: lo spettacolare abbassamento delle aliquote fiscali per i redditi più alti ha contribuito fortemente all’aumento della disuguaglianza a partire dagli anni Ottanta, senza produrre benefici corrispondenti per la società nel suo complesso. Perciò non dobbiamo perdere tempo, dobbiamo invece buttare alle ortiche il tabù secondo il quale i tassi d’imposta marginali non devono mai superare il 50 per cento. Atkinson propone una riforma di vasta portata dell’imposta britannica sui redditi, con aliquote massime innalzate al 55 per cento per redditi annui superiori alle 100.000 sterline e al 65 per cento per quelli al di sopra delle 200.000, oltre a un innalzamento del tetto per i contributi alla previdenza nazionale.

Tutto questo renderebbe possibile finanziare una significativa espansione della sicurezza sociale e del sistema di ridistribuzione dei redditi in Gran Bretagna, in particolare con un netto aumento dei benefici per le famiglie (che raddoppierebbero, addirittura quadruplicherebbero in una delle varianti proposte) e anche con un aumento dei benefici pensionistici e per la disoccupazione per quanti hanno minori risorse.

Se queste proposte, giustificate statisticamente e finanziate dal gettito fiscale, venissero adottate, si verificherebbe una caduta significativa dei livelli di disuguaglianza e povertà nel Regno Unito. Secondo le simulazioni, quei livelli scenderebbero dai loro attuali valori quasi americani fino al punto di avvicinarsi alle medie dei Paesi europei e dell’Ocse. Questo è l’obiettivo centrale del primo gruppo di proposte di Atkinson: non si può pretendere tutto dalla ridistribuzione fiscale, ma è comunque da lì che si deve partire.

Il piano d’azione di Atkinson però non si ferma qui. Al centro del suo programma sta una serie di proposte che puntano a trasformare lo stesso funzionamento dei mercati del lavoro e del capitale, introducendo nuovi diritti per quelli che oggi ne hanno di meno.

Anziché scendere nel dettaglio delle proposte, voglio concentrarmi in particolare sul problema del più ampio accesso a capitale e proprietà. Atkinson qui presenta due idee particolarmente innovative. Da un lato, richiede la costituzione di un programma nazionale di risparmio che consenta a ogni risparmiatore di ricevere un rendimento garantito sul proprio capitale (al di sotto di una certa soglia di capitale individuale). Data la fortissima disuguaglianza di accesso a equi rendimenti finanziari, in conseguenza soprattutto della scala degli investimenti da cui una persona parte (situazione che con tutta probabilità è stata aggravata dalla deregulation finanziaria degli ultimi decenni), trovo questa proposta particolarmente valida. Nella prospettiva di Atkinson, essa è strettamente collegata al più ampio problema di un nuovo approccio alla proprietà pubblica e al possibile sviluppo di una nuova forma di fondo patrimoniale sovrano. L’autorità pubblica non può rassegnarsi a continuare semplicemente ad accumulare debiti su debiti e a privatizzare incessantemente tutto ciò che possiede.

D’altro lato, accanto a questo programma di risparmio garantito e assicurato, Atkinson propone di istituire una “eredità per tutti”, che assumerebbe la forma di una dotazione di capitale assegnata a ogni giovane cittadino/a al raggiungimento dell’età adulta, cioè al compimento dei diciotto anni. Questa dotazione sarebbe finanziata da imposte sugli immobili e da una struttura fiscale più progressiva.

L’unica critica che si può muovere al piano d’azione di Atkinson è la sua eccessiva concentrazione sulla Gran Bretagna. Tutte le sue proposte sociali, fiscali e di bilancio sono concepite per un governo britannico e lo spazio dedicato alle questioni internazionali è relativamente limitato. Per esempio, solleva brevemente l’idea di un’imposta minima sulle grandi multinazionali, ma poi la possibilità di una tale imposta è confinata alla categoria delle “idee da perseguire”, senza alcuna proposta concreta. Considerato il ruolo centrale che ha il Regno Unito nella concorrenza fiscale europea, oltre che nella mappa mondiale dei paradisi fiscali, ci si sarebbe aspettati una trattazione più rilevante di proposte per la definizione di una tassazione comune sui profitti, oppure per lo sviluppo di un registro mondiale (o almeno euro- americano) dei titoli finanziari. Atkinson allude chiaramente a questi aspetti, così come alla creazione di una “Autorità fiscale mondiale” e al possibile aumento degli aiuti internazionali all’1 per cento del Pil, ma vi dedica meno attenzione che alle proposte strettamente attinenti al Regno Unito.

Questo stesso limite, tuttavia, costituisce anche il principale punto di forza del libro. Atkinson ci dice che i governi, anche se hanno timori, non hanno alcuna reale scusa per l’inazione, perché è ancora possibile agire su una base nazionale. Il nucleo centrale del piano d’azione proposto da Atkinson potrebbe essere realizzato nel Regno Unito senza doversi preoccupare di aspettare fumose prospettive di cooperazione internazionale. Se è per quello, potrebbero essere adattate e applicate anche in altri Paesi.

(Traduzione di Virginio B. Sala)

Anthony Atkinson, Disuguaglianza Che cosa si può fare? ( Raffaello Cortina, pagg. 392, euro 26)

La "via tedesca" al neoliberismo ha radici culturali difficili da svellere, soprattutto se la sinistra non c'è più. Il manifesto, 14 novembre 2015

Alla questione che Thomas Mann poneva agli studenti di Amburgo nel lontano 1953 — se si dovesse avere una Germania europea o un’Europa tedesca — le classi dirigenti hanno già risposto nella maniera peggiore. Ma non per questo la questione è chiusa per sempre. Gabriele Pastrello — La Germania: problema d’Europa? Asterios, pp. 74, euro 7 — torna a ragionarci sopra in un libro denso, ma scorrevole che interviene con grande rigore nel dibattito sul ruolo della Germania nella più grande crisi economica del capitalismo europeo. Malgrado le ridotte dimensioni, l’autore non adotta uno stile pamphlettistico. Non troviamo invettive, né l’adagiarsi su un crescente sentire antitedesco – dopo il trattamento riservato alla Grecia da un lato e l’affaire Volkswagen dall’altro — ma lo snodarsi di argomentazioni che ci dipingono, quasi con stile espressionista, un quadro della Germania di oggi. Un pregio se non raro, certamente infrequente.

L’autore si pone in primo luogo il compito di demolire alcuni luoghi comuni. come quello di una crescita virtuosa basata sulle proprie forze. «La Germania, si può dire, è stato in tutto il dopoguerra il parassita delle politiche keynesiane mondiali. Il mondo cresceva grazie a quelle, e così le esportazioni tedesche». Il Piano Marshall aveva, anche, questo scopo. La Conferenza di Londra del 1953 – richiamata giustamente dai greci come possibile modello per risolvere il problema dell’oggi – condonò i debiti di ben due guerre mondiali alla Germania per permetterle di ripartire. Un’altra parte fu rimandata a dopo l’unificazione tedesca. Ma quando questa ci fu – e Pastrello giustamente la chiama «annessione», uno snodo essenziale nella crescita tedesca – Kohl si oppose a riaprire la questione. E la Merkel lo ha recentemente ribadito in modo stizzito.

La ferocia di un primato

Naturalmente, come si è visto nel caso greco, la Germania non ha restituito il favore a nessuno. Anzi ne ha approfittato per costruire il suo primato nel contesto europeo, pur cercando di nascondere l’aggressività e il cinismo di questo lungo processo «sotto le spoglie della pacifica concorrenza, di una superiorità meritata e ( in teoria ) non inibita agli altri». Per farlo si è dotata di una teoria economica che viene da lontano e che oggi attraversa, seppure in misure diverse, i partiti della Grosse Koalition, socialdemocrazia inclusa. Si tratta dell’Ordoliberalismo che muove i suoi primi passi da un manifesto stilato a Friburgo nel 1936 ad opera di Walter Eucken, Franz Bohm e Hans Grossman-Dorth, economisti e giuristi di ambiente cattolico e liberale. Con quel progetto essi cercavano già di delineare il futuro di una Germania postnazista, fondato sulla «fiducia dogmatica che la libertà della concorrenza producesse spontaneamente libertà politica, crescita economica e progresso sociale».

L’idea non è poi tanto diversa da quella che diede il via all’attuale Unione europea. Cioè passare, per via progressiva e quasi naturale, dalla liberalizzazione dei mercati a una costruzione politica e istituzionale unitaria. Il primo significato di ordo era «ordine naturale». Ma poiché si vide ben presto che da solo questo ordine non si imponeva, prevalse il secondo significato del termine, cioè gerarchia, attraverso la quale decostruire e ricostruire costituzioni e leggi, ridisegnare lo spazio politico e geografico. È quanto avviene sotto i nostri occhi, con lo strutturarsi in senso sempre più autoritario del sistema di governance della Ue. Un processo che si è accentuato per diretto impulso della Germania particolarmente dal 2010 in poi, come reazione delle elite dirigenti europee alla crisi economica, con il Fiscal Compact, il Two Pack e il Six Pack. Il recente documento dei cinque presidenti è un ulteriore passo in avanti su questa strada. Così come l’unione dei mercati dei capitali (Cmu nell’acronimo inglese) che si propone l’abbattimento dei residui controlli sui movimenti di capitale, affidando quindi alla finanza privata la soluzione della crisi, dopo che questa ne è stata una delle principali responsabili.

Per quanto Walter Eucken sia stato uno dei fondatori della Mont Pelerin Society, il centro pensante dell’estremismo liberista dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, va conservata una differenza fra quest’ultimo e l’ordoliberalismo. Per la scuola austriaca dei Mises e degli Hayek, i neoliberisti per eccellenza, lo Stato è pura negatività – come fu nella propaganda e più o meno nella pratica di governo di Reagan e della Thathcer –; per gli ordoliberali lo Stato può essere un mezzo utilissimo, purché al servizio del mercato. L’atteggiamento di questi ultimi nei confronti del movimento operaio e sindacale è stato quindi più avvolgente che non distruttivo. Almeno fino a un certo punto. Lo dimostra l’esperienza della Mitbestimmung in Germania, grazie alla quale nelle imprese medio grandi rappresentanti di lavoratori siedono in consigli di sorveglianza. Ma questo sistema mostra oggi evidenti crepe e non ha impedito la grande truffa della Volkswagen.

Un ospite inatteso

Queste differenze si riverberano anche nella dialettica che si è aperta in seno ai gruppi dirigenti tedeschi. La prospettiva di Schäuble e di Issing delineata per la Grecia, la Grexit, corrisponde in realtà ad una visione gerarchizzata in senso anche geografico dell’Europa, ridotta a puro spazio tedesco, di schmittiana memoria, che può o anche deve scontare la fuoriuscita dei paesi mediterranei. In una intervista dello scorso luglio, Otmar Issing giungeva a denunciare un ruolo politico da parte della Bce per i suoi interventi in salvataggio dell’Euro. Con l’espulsione dei paesi più deboli, rimarrebbe così uno spazio più ristretto ma più coeso, al quale la Francia fornirebbe copertura politica, non senza tensioni con il confinante germanico, per permettere al modello tedesco di competere più spregiudicatamente nella globalizzazione mondiale.

Ma qui, avverte opportunamente Pastrello, si affaccia un altro attore, gli Usa, per nulla convinti di cedere il loro antico primato mondiale. Ne è prova il Trattato transoceanico di libero scambio (Ttip), che travolgerebbe ogni lascito della civiltà giuridica europea, fornendo «alle grandi multinazionali statunitensi un quadro istituzionale quanto più vicino alle loro condizioni di partenza per permettere loro di potere galoppare in uno spazio europeo».

E le sinistre? In realtà la socialdemocrazia tedesca, punta di diamante di quella europea, vive una profonda crisi ed anche le istituzioni frutto di quel compromesso sociale che l’ha vista protagonista ne soffrono acutamente, incapaci di reagire al giro di vite imposto dalla governance europea. Per questo sarebbe illusorio, anche se qui Pastrello si mostra più indulgente, fondare sulla socialdemocrazia le speranze per una salvezza dell’Europa. La strada, non facile, è quella di potenziare la crescita di una sinistra di alternativa, come quella che abbiamo visto in Grecia e in questi giorni in Portogallo. Cui compete di mantenere viva la possibilità di dare vita a un’Europa unita e democratica, su base federale e con politiche di nuovo sviluppo sociale. Solo così potrebbe riaprirsi qualche varco anche in casa socialista, come appunto ora a Lisbona.

Terre senz’ombraLa Repubblica, 22 ottobre 2015

«Esiste ancora l’Italia? Quella misteriosa concrezione di natura e di storia che, rivelandosi, non poteva non cambiare gli artisti e il mondo? L’Italia del Rinascimento e della Maniera Moderna di Raffaello che divenne modello all’Europa, l’Italia dell’antichità che i neoclassici intesero come dimora, come approdo ritrovato per sempre. E l’Italia della Natura, quando l’uomo moderno, divenuto viandante, inseguiva un altrove che coincideva con luoghi reali. Luoghi che non erano privi di passato e memoria, ma che venivano ora investiti da un sentimento così dirompente da fare emergere, ancora in Italia, il volto moderno della pittura».

È racchiuso in questo brano il senso dell’ultimo libro di Anna Ottani Cavina, che è una storia del paesaggio come protagonista della pittura: , che esce come secondo numero della nuova collana Imago di Adeplhi. Dopo un essenziale antefatto - Lorenzetti, Leonardo, Giorgione... - la partenza vera della storia, e del libro, è nel Seicento: quando Annibale Carracci «diede luce al bell’operare de’ paesi, onde li Fiamminghi videro la strada di ben formarli», come scrive nel 1642 il pittore Giovanni Baglione. Fin da allora, come si vede, è questione di primato: la pittura di paesaggio è un’invenzione italiana?
Felicemente, il libro di Anna Ottani preferisce tessere una storia di incontri: inizia con la figura ammaliante di Adam Elsheimer, un pittore tedesco che usò il cannocchiale di Galileo, se non per primo, certo con più intelligenza e poesia di tutti suoi contemporanei. Già, perché parlare di pittura di paesaggio significa innanzitutto parlare di visione: come guardavano, e come vedevano, i pittori del Seicento? Siamo ancora molto lontani dal saper rispondere a questa domanda, ma è irresistibile il fascino di Elsheimer, che (suggerisce plausibilmente l’autrice) si fa prestare il nuovissimo ordigno dal cardinal Francesco Maria del Monte, il grande protettore di Caravaggio, e riesce così a dipingere il primo quadro della storia dell’arte dove la Via Lattea e le macchie lunari appaiono come sono davvero.
Tanto che - lo hanno stabilito astronomi bavaresi confermando e precisando una precedente intuizione dell’autrice - si può riconoscere con esattezza la notte in cui Elsheimer si affacciò alla sua finestra: era il 16 giugno 1609. Ma, proprio come per Caravaggio, questa rinnovata attenzione per la natura non si risolve in una pittura “scientifica”, bensì in una esatta meditazione pittorica sulla perdita di centralità dell’uomo, letteralmente inghiottito in una notte esistenziale in cui è possibile procedere solo a tentoni.
Da qui si parte per un viaggio - raffinatissimo, imprevedibile, godibile come pochi altri - che ci porta fino alla metà dell’Ottocento: attraversando la Vallombrosa verdissima di Louis Gauffier; incantandosi davanti alla Napoli, luminosa e astrattamente creaturale, dell’inglese Thomas Jones; piangendo per la perdita dell’opera del magico Lusieri; ammirando le geometrie del sommo e gelido David; deliziandoci di fronte alle finestre aperte di Caspar David Friedrich; rabbrividendo degli incubi di Böcklin. Si chiude il libro in un baleno: stupendosi di aver divorato 450 pagine.
Terre senz’ombra è un magnifico libro di storia dell’arte: illustrato senza risparmio. Ma di una storia dell’arte che non abdica alla propria più intima vocazione: essere parte di una più vasta storia della cultura. La morale del libro è che se è vero che la bellezza naturale e la storia - entrambe incomparabili - dell’Italia hanno attratto infiniti occhi di artisti da tutta Europa, è anche vero che le mani di quegli artisti hanno creato opere che, a loro volta, hanno profondamente cambiato l’immagine dell’Italia, contribuendo in modo decisivo a definire la nostra identità. Quando oggi parliamo sinteticamente di «Italia», nella mente e nel cuore dei nostri interlocutori stranieri si accende un “qualcosa” che deve più a Poussin che a Garibaldi, più ad Elsheimer che a De Gasperi.
Non sembri una forzatura. Se la nostra Costituzione pone il paesaggio come un principio fondamentale per la costruzione di una Italia nuova, è perché in Costituente siedono persone come Piero Calamandrei: un grande giurista che nel 1939 scrive al figlio Franco che, se la tradizione familiare non l’avesse istradato verso il diritto, avrebbe fatto «o lo storico dell’arte o l’archeologo». Quando, nel 1944, Calamandrei riapre, come rettore, l’università di Firenze pronuncia un discorso — meraviglioso fin dal titolo: L’Italia ha ancora qualcosa da dire - in cui dice: «Quello che più ci ha offeso è stato l’assasinio premeditato delle nostre città, dei nostri villaggi, delle nostre campagne, perfino del nostro paesaggio. Voi lo sapete che in Italia... ogni borgo, ogni svolto di strada, ogni collina ha un volto come quello di una persona viva: non vi è curva di poggi o campanile di pieve che non si affacci nel nostro cuore col nome di un poeta o di un pittore, col ricordo di un evento storico che conta per noi quanto le gioie e i lutti della nostra famiglia». Una pagina altissima, un vero preludio all’articolo 9: un’epigrafe perfetta per .
Ma «esiste ancora l’Italia?» Quella di Anna Ottani Cavina non è una domanda retorica. Da molti decenni, e con pochissime eccezioni (una è Tullio Pericoli), gli artisti non ci prestano più i loro occhi e le loro mani per vedere e sentire il paesaggio italiano. È anche per questo che non troviamo la forza di lottare contro governi, leggi, grumi di interessi, grandi opere che fanno sparire l’Italia. Leggere Terre senz’ombra in questo autunno in cui la Penisola, come sempre, si scioglie nel fango delle alluvioni da Nord a Sud fa uno strano effetto: non spinge a esiliarsi nell’Arcadia dei musei, ma spinge a combattere perché gli italiani, «studiando fin da bambini la storia dell’arte come una lingua viva, abbiano piena coscienza della loro nazione». Lo scriveva Roberto Longhi a Giuliano Briganti nel 1944: dobbiamo ancora cominciare a farlo.

Un breve resoconto di un interessante convegno della Fondazione istituto Gramsci, nel quadro di una ricerca sul ruolo degli intellettuali nell'Italia degli anni Settanta. Il Fatto quotidiano, 10 ottobre 2015

Gli Anni Settanta sono stati periodizzanti nellanostra storia. E il mondo intellettuale ne fu interprete, talvolta protagonista.Un seminario della Fondazione Gramsci a Roma (“Gli intellettuali nella crisidella Repubblica fra radicalizzazione e disincanto”) ha provato a fare il punto,con una stimolante indagine a più voci affidata a giovani, partendo dall’aureoinsegnamento gramsciano che ammonisce a non trasformare i problemi politici inproblemi culturali se li si vuole risolvere. Ci si è rivolti verso singolefigure, ma anche verso giornali (Corriere della Sera, La Stampa, la Repubblica,l’Unità), riviste (Quindici o Rinascita, per esempio), e con ampi riferimentialle forze politiche, particolarmente a sinistra – quella ufficiale e quella “extraparlamentare”a cominciare da Lotta continua.

In quel decennio si verificò la fine delleillusioni del cambiamento rivoluzionario, ma anche la messa in mora delleattese riformatrici (la parola “riforma” aveva un significato autenticamenteprogressivo, all’opposto di oggi quando significa il suo opposto): e toccò agliintellettuali interrogarsi sul senso del cambiamento in atto, cercando di darsispiegazioni; alcuni ambirono a diventare consiglieri del principe, ovverodettare l’agenda politica. In ambito cattolico, per esempio, la figura diPietro Scoppola, studioso di grande valore, una sorta di interlocutore e inparte suggeritore discreto di Aldo Moro, ha come contraltare il cattolicoiperconservatore di Augusto Del Noce, che parla di “catastrofe” in atto; mentrein ambito liberale, una figura quale Rosario Romeo, che a sinistra talunovedeva come un democratico, e talaltro come un reazionario di tre cotte, speciecon il suo avvicinarsi al Giornale Nuovo di Indro Montanelli, di cui fu firmaprestigiosa.

In fondo, come Scoppola accetta la necessità della finedell’unità politica dei cattolici, Romeo accetta la fine dell’unità liberale,anche per la delusione che il Pli gli diede, tanto da spingerlo, negli AnniCinquanta, a essere nel gruppo fondatore del Partito Radicale. Quel Romeo,fervido anticomunista, apprezzò nondimeno gli sforzi del Pci berlingueriano, ela linea della fermezza nei drammatici giorni del rapimento Moro.

Mentre in quel partito ferveva il dibattito sulruolo dell’intellettuale, con particolare attenzione alle avanguardieartistiche, e al loro rapporto con la “contestazione” giovanile. Ci siinterrogava su come dovessero comportarsi letterati, artisti, scienziati versoil partito, e viceversa. Ma si cominciava a riflettere anche sulla naturadell’intellettuale, tenendo conto dei nuovi settori che stavano emergendo conla dilatazione delle figure intellettuali. A sinistra, e nel mondo giovanile, la Nato, ilcompromesso storico, la stessa accettazione dell’“austerità”, furono lette comealtrettanti segnali di una “restaurazione” culturale e politica del “partito diGramsci”.

Una restaurazione modernizzatrice fu in realtàanche l’operazione Repubblica di Eugenio Scalfari; il Pci stava ormai abbandonandola propria cultura e Scalfari gline offriva un’altra, di ben diversatradizione: il terzaforzismo, rivisitato con capacità di cogliere i segnali delcambiamento (per esempio il modificarsi delle gerarchie produttive, conl’emergere della piccola impresa), e di intercettare gusti e indirizzareopinioni: di creare “senso comune”, in definitiva.

Con quel quotidiano, che nel 1986, a dieci anni dalla nascita,effettuò il “sorpasso” del Corriere, venne meno la separatezzadell’intellettuale, e il quotidiano di Scalfari si pose come un think tank cheambiva a indicare la linea alla sinistra (con l’eccezione del breveinnamoramento per Ciriaco De Mita, “intellettuale della Magna Grecia”), e inparticolare a “detogliattizzare” il Pci favorendone l’ingresso nell’area digoverno, avviando una feroce polemica contro la “partitocrazia” che ebbe esitiben diversi da quelli attesi da Scalfari. Ma non ebbe torto a pensare chedavanti alla crisi dei partiti, denunciata in una memorabile intervista che glirese Berlinguer, la cultura politica andava rinnovata al di fuori di essi.

Fu un eretico di tutte le chiese, Pier Paolo Pasolini,però, più di ogni altro, in una estrema rappresentazione del “poeta-vate”, acogliere le trasformazioni della società italiana, in una sorta di sintoniaimplicita con Berlinguer. L’uno e l’altro destinati ad essere espulsi dalpresente di un Paese che non sapeva che farne di personaggi che apparivano atroppi connazionali soltanto fastidiosi grilli parlanti

Intervista di Stefano Feltri a Paolo Prodi. «Se non c'è passato non c'è nemmeno futuro. E questo si traduce in una crisi visibile delle istituzioni democratiche: manca l'idea di progetto, il mutamento rimasto è quello delle tecnologie. Ma si cambia senza sapere dove si va».

Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2015 (m.p.r.)

In una politica europea piena di populisti, indignati, ribelli contro l’austerità, l’ultima persona da cui ti aspetteresti discorsi sulla rivoluzione è Paolo Prodi. A 83 anni il professor Prodi, fratello del Romano che è stato premier, è uno dei più autorevoli storici italiani, ha scritto coltissimi libri sul potere e la storia delle nostre istituzioni. Adesso manda in libreria un piccolo saggio dal titolo che incuriosisce: Il tramonto della rivoluzione, pubblicato ovviamente dal Mulino.
Professor Prodi, cos'è una rivoluzione?
I colpi di Stato non sono mai mancati, la lotta di chi non ha potere contro chi ha potere esiste dalle civiltà mesopotamiche. Ma non è la rivoluzione. Quello che ha distinto l'Occidente dalle altre civiltà è la capacità di progettare un modello sociale nuovo. Spesso con gli aspetti tragici della sommossa, certo, ma all'interno di una visione di sviluppo.
Perché questo è avvenuto soltanto in Occidente?
La rivoluzione francese e l'illuminismo sono il culmine di un processo secolare che ha distinto il potere politico da quello economico e da quello sacro. Nelle antiche civiltà il palazzo e il tempio tendevano a coincidere. Con il cristianesimo si sviluppa il dualismo del “date a cesare quel che è di cesare e a Dio quel che è di Dio” che nel medioevo diventa lotta tra papato e impero, con la nascita del potere economico come un potere di tipo nuovo, non legato al possesso della terra.
Perché lei parla della distinzione tra profezia e utopia come una svolta decisiva?
Nell'Antico testamento si sviluppa l'idea di profezia come espressione di una volontà di un dio super partes. Non identificato col potere, ma che si mette in dialettica con esso e ne condanna gli abusi. È questa l'idea che mette le sue radici anche nel cristianesimo. La Chiesa diventa profezia istituzionalizzata: il profeta non è più isolato, ma diventa una comunità. Che non si identifica con il potere, anche se spesso finisce per entrarvi in combutta. Non voglio dire che la teocrazia non è esistita, anzi. Ha messo la testa fuori in Occidente in ogni generazione, il potere sacro ha sempre cercato di impadronirsi di quello politico ed economico, ma in Occidente non si sono mai identificati l'uno con l'altro. Questo ha prodotto una fibrillazione, una tensione continua, che ha portato allo sviluppo dell'idea di rivoluzione. E si arriva alla decapitazione di Carlo I nel 1648.
E l’utopia?
La prima utopia è quella di Thomas More. È la progettazione di una società “felice”. Che riempie il contenuto rivoluzionario di un nuovo potenziale. Non si parla più di profezia legata alla “fine dei tempi”, la profezia si storicizza e diventa utopia. La storia della salvezza diventa “progresso”, movimento.
E oggi è finita l'idea di progresso? Qualche anno fa anche l’Economist ha fatto una copertina sul tema.
Si è molto parlato di uso politico della storia. Ma non è più come un secolo fa, diciamo così, la matrice della cultura politica. Io ricordo sempre la famosa frase di Johann Gustav Droysen, uno storico dell'Ottocento, che diceva: “L'uomo politico è lo storico pratico”. Ma negli ultimi cinquant'anni le scienze della società, come la sociologia, sono subentrate alla storia come sostegno della politica.
Nel senso che c'è l'illusione di trovare leggi e ricette universali?
Ho visto interviste a politici che non sanno quando è stata la rivoluzione francese. Sono sciocchezze, ma sotto c'è la cancellazione del passato.
Non è più necessario conoscerlo?
Non è più ritenuto necessario. E questo porta a grandi sbagli, come quello della politica americana che si è convinta di poter esportare lo stato di diritto nei Paesi arabi.
Abbiamo rinunciato all'idea di una società alternativa?
Se non c'è passato non c'è nemmeno futuro. E questo si traduce in una crisi visibile delle istituzioni democratiche: manca l'idea di progetto, il mutamento rimasto è quello delle tecnologie. Ma si cambia senza sapere dove si va.
Perché, nel suo libro, lei dice che il Sessantotto, con “l'immaginazione al potere”, è stato la sconfitta definitiva della rivoluzione?
Io l'ho vissuto cercando di fare la riforma dell'università a Bologna, all'epoca, quando da noi era venuto Jean Paul Sartre, mi sentii in qualche modo respinto. Perché non c'era un progetto di riforma, ma solo una volontà di cancellazione della storia. Ma “l'immaginazione al potere” senza la storia porta a precipitare nel burrone. Nel Sessantotto si squarciano i veli del potere ma sotto non c'è nulla, è nudo non soltanto il vecchio re ma anche quello nuovo che ambisce a prenderne il posto. La generazione del Sessantotto infatti si è sciolta, disfatta, nei rivoli del potere tradizionale. C'era l'attacco al potere esistente, ma sotto questa lotta è rimasta schiacciata la progettazione di una società futura. La divisione in due blocchi, nella guerra fredda, ha coperto il vuoto. Dagli anni Novanta tutto è tornato a tremare.
L'anima dell'Europa è quella di una “rivoluzione permanente”, scrive. Tutto sembra questa Unione europea tranne che rivoluzionaria...
L'equilibrio di tensione, di fibrillazione, tra i vari poteri in concorrenza tra di loro è svanito. Il caso greco e la crisi dell'euro occupano la scena ma sono effetti, non cause. Lo Stato moderno non è più in grado di controllare il potere finanziario.
Alcuni Stati come la Repubblica popolare cinese, però, sembrano ben saldi.
La filosofia del neo confucianesimo è che l'ordine celeste corrisponde a quello terrestre del potere. Mentre le strutture democratiche dell'Occidente - il Parlamento, le legislature, il giuramento del presidente della Repubblica – sono nate dalla tensione tra poteri, in Cina, invece, dopo la crisi della cosiddetta Rivoluzione culturale, c'è stato un ritorno alle radici di tipo confuciano: il potere è uno solo e viene dall'alto. Mentre la società europea e occidentale arranca di elezione in elezione, i leader cinesi durano decenni. L'idea di legislatura di quattro-sei anni è nata nell'Inghilterra del Settencento e non regge più: è troppo breve. Se certe decisioni sull'ambiente sono prese per ottenere il consenso degli elettori, è difficile che vadano bene anche per i nostri nipoti. In un mondo che va sempre i più veloce i tempi della politica dovrebbero essere più lunghi.
Il Califfo Al Baghdadi, capo d el l’Isis, è l'ultimo rivoluzionario?
È una cosa totalmente diversa. L'Islam è un'eresia nata nell'humus ebraico-cristiano, che ha proposto una coincidenza tra potere politico e potere religioso. Per questo non può essere rivoluzionario, nell’accezione che uso io, è soltanto un urlo contro la civiltà dei consumi. Ma quello che propone l'Isis, con il Califfato e tutto il resto, è soltanto il ritorno a una storia pre-cristiana. A quell'unione tra potere sacro-politico ed economico che è stato il punto di partenza dell'Islam, nel settimo secolo.
Che cos’è il “diritto alla resistenza” di cui scrive?
È un concetto che ricorre nella nostra storia, da Tommaso D'Aquino alla Costituente italiana, 1946-1947, quando alcuni giuristi volevano inserire la liceità della resistenza all'ingiustizia. Poi non entrò nella Costituzione ma più aumenta la divaricazione tra la coscienza e la legge, più cresce l'importanza del diritto alla resistenza.
Nel complesso, lei sembra un po’ pessimista.
Come storico io mi fermo all'analisi di quello che è stato. Ma si apre in questa globalizzazione una battaglia estremamente interessante tra una società dominata dalle grandi potenze finanziarie e una società in cui le comunità locali e in particolare i corpi intermedi possono trovare una loro rinnovata espressione di tipo politico. Non possiamo più pensare all'Europa come un super Stato, come pensavano i nostri bravi padri federalisti. Bisogna pensarla come una società con una sovranità stratificata, non monolitica.
«Nel corso dei secoli, le diverse figure del gay sono state costruite per legittimitarle, ma soprattutto per imporre la norma di una divisione «naturale» tra mascolinità e femminilità. Tutta un’altra storia, l’appassionata e documentata ricerca sul campo di Giovanni Dall’Orto per il Saggiatore».

Il Manifesto, 22 luglio 2015 (m.p.r.)

«È più facile nascon­dere cin­que ele­fanti sotto un’ascella che un solo cinedo». Que­sto pro­ver­bio giunto fino a noi dal secondo secolo d.C. gra­zie alla penna di Luciano di Samo­sata, atte­sta che la favo­lo­sità non era acqua - per usare un’espressione camp - nem­meno nell’antichità clas­sica. Il cinedo di cui si magni­fica la capa­cità di atti­rare l’attenzione è infatti un per­so­nag­gio che oggi potremmo defi­nire una checca. E che evi­den­te­mente già allora si faceva notare parec­chio per la par­lan­tina, il senso este­tico come minimo sopra le righe e la pre­di­le­zione per il tea­tro di strada.

L’esempio basta e avanza per pren­dere in seria con­si­de­ra­zione quanto sostiene Gio­vanni Dall’Orto nel suo volu­mone sulla sto­ria dell’omosessualità maschile dalla Bib­bia ai giorni nostri edito dal Sag­gia­tore (Tutta un’altra sto­ria, pp.730, 27 euro): l’identità omo­ses­suale non è poi un’invenzione così moderna come certi acca­de­mici dicono per­ché già due­mila e rotti anni fa esi­ste­vano dei tipi umani che veni­vano «dedotti» dalle loro pecu­liari incli­na­zioni ses­suali. E non solo e non tanto i virili amanti dei ragazzi di cui ci sono state tra­man­date innu­me­re­voli noti­zie attra­verso l’arte e la let­te­ra­tura greca e romana. Que­sti pote­vano benis­simo rien­trare nella norma a patto di sal­va­guar­dare la loro masco­li­nità secondo i cri­teri dell’epoca. I cinedi invece erano quelli che sta­vano dall’altra parte del fos­sato dell’onore in quanto votati a una pas­sione esclu­siva per i maschi che li ren­deva simili alle fem­mine, fisi­ca­mente e/o psi­co­lo­gi­ca­mente. A tale cate­go­ria veni­vano ascritti indif­fe­ren­te­mente finoc­chi, tra­ve­stiti e trans gen­der ante lit­te­ram, rite­nendo che i loro disdi­ce­voli com­por­ta­menti fos­sero frutto di una con­di­zione inte­riore, cioè un orien­ta­mento ses­suale. «Dun­que - dice Dall’Orto - se cer­cate l’omosessuale antico, eccolo qui».

Il potere sulla sessualità

Certo la parola «omo­ses­suale» pare un po’ fuori con­te­sto, visto che entrò nel lin­guag­gio medico nel XIX secolo e in quello comune nel XX. Ma si tratta di un uso inten­zio­nal­mente pole­mico per­ché tra i prin­ci­pali obiet­tivi dell’autore c’è quello di smen­tire la cosid­detta teo­ria costru­zio­ni­sta, che discende dalle rifles­sioni sto­ri­che e filo­so­fi­che di Michel Fou­cault e secondo la quale «l’omosessualità sarebbe una costru­zione sociale creata dal Potere per repri­mere la libera ses­sua­lità umana» . Sarebbe stata inven­tata a que­sto scopo dalla medi­cina nell’Ottocento, men­tre prima di allora esi­ste­vano sì com­por­ta­menti omo­ses­suali ma non una «spe­cie» a sé stante.

Per gli stu­diosi che sosten­gono que­sta tesi, accu­sati anche di mono­po­liz­zare il dibat­tito acca­de­mico sulla sto­ria dell’omosessualità, Dall’Orto crea l’appellativo pro­vo­ca­to­rio di «inven­zio­ni­sti» e con loro duella a distanza lungo tutto il corso delle sue rifles­sioni attra­verso trenta secoli di sto­ria occi­den­tale. In pri­mis, obietta, la ses­sua­lità umana non è deter­mi­nata solo dalla cul­tura ma anche da un istinto irri­du­ci­bile che quando cer­chi di cac­ciarlo dalla porta rien­tra sem­pre dalla fine­stra, come dimo­strano tra l’altro molti secoli di per­se­cu­zioni dei sodo­miti e degli omo­ses­suali. Con que­sto ine­li­mi­na­bile dato di fatto la cul­tura ha dovuto fare i conti da ben prima del XIX secolo, ponen­dosi domande che dall’antica Gre­cia fino a oggi sono sor­pren­den­te­mente poco cam­biate (vedi il plu­ri­mil­le­na­rio dibat­tito sulle cause dell’inclinazione omo­ses­suale). Inol­tre gli sto­rici «inven­zio­ni­sti», sem­pre a giu­di­zio dell’autore, pro­pon­gono uno schema scan­dito da «faglie epi­ste­mo­lo­gi­che» in cui ogni para­digma cul­tu­rale sosti­tui­sce ed eli­mina il pre­ce­dente nei «discorsi del potere». Rite­nendo però valida una sola con­ce­zione della ses­sua­lità alla volta si crea una sorta di inco­mu­ni­ca­bi­lità tra le varie epo­che e si fini­sce per rap­pre­sen­tare come dei totali alieni gli abi­tanti di quelle pas­sate che ragio­na­vano secondo para­digmi diversi.

Sono cose che suc­ce­dono, con­clude Dall’Orto, quando si parte dalle teo­rie per dare un senso alle fonti sto­ri­che e non vice­versa. Pro­po­nen­dosi di fare il con­tra­rio, «la docu­men­ta­zione mostra che ogni società, sia in pas­sato che oggi, tende a col­ti­vare con­tem­po­ra­nea­mente più con­ce­zioni dell’omosessualità, anche con­trad­dit­to­rie e incon­ci­lia­bili, e que­ste con­ce­zioni si acca­val­lano, si fon­dono, si mesco­lano e si tra­sfor­mano a vicenda, in una con­ti­nua dia­let­tica fra “discorsi” e “con­tro­di­scorsi” nella quale è del tutto arbi­tra­ria ogni pre­tesa di indi­care la con­ce­zione dell’omosessualità in un dato momento sto­rico». Ne viene fuori una poli­fo­nia inca­si­nata e pure lacu­nosa, per­ché quella del silen­zio e della cen­sura è stata una delle stra­te­gie più valide per limi­tare i danni pro­dotti dalla dif­fu­sione del pec­cato indi­ci­bile. Ma con­forta sco­prire attra­verso le pagine di Tutta un’altra sto­ria quanto si sia arric­chito il puzzle negli ultimi trent’anni gra­zie all’effervescenza della ricerca nel modo anglo­sas­sone e nell’Europa occidentale.

Il testo e le den­sis­sime 160 pagine di note sco­mo­da­mente piaz­zate in fondo al libro ci som­mer­gono di cita­zioni e rimandi biblio­gra­fici da cui si può con­sta­tare che molta memo­ria di prima mano è già stata dis­sep­pel­lita dagli studi degli ultimi decenni e molta altra ancora sta solo aspet­tando che qual­che gio­vane appas­sio­nato le tolga la pol­vere di dosso, come Dall’Orto non manca mai di far notare quando se ne pre­senta l’occasione. Quel tanto che è già stato risco­perto ci resti­tui­sce comun­que un’immagine un po’ più defi­nita del pas­sato e con­sente di ten­tare di ten­tare un nuovo bilan­cio prov­vi­so­rio. Que­sta è poi la sostanza del libro, che non è né un manuale né un’enciclopedia di sto­ria gay ma il per­so­nale bilan­cio di uno sto­rico che dopo oltre trent’anni di ricer­che sul campo e di accesi con­fronti con amici e nemici cerca di fare il punto attra­verso la docu­men­ta­zione dispo­ni­bile. E rispet­tando la moti­va­zione ori­gi­na­ria del suo lavoro decide di rac­con­tare «una sto­ria degli omo­ses­suali e non degli omo­fobi», pri­vi­le­giando «i punti di vista dei per­se­gui­tati anzi­ché dei persecutori».

Il para­diso che non c’è

Gio­vanni Dall’Orto, infatti, viene dal movi­mento lgbt ed è stato (è) un punto di rife­ri­mento indi­scusso per la ricerca sto­rica pro­dotta den­tro o a fianco del movi­mento ita­liano, nella con­vin­zione che rico­struire una memo­ria col­let­tiva atten­di­bile fosse un passo neces­sa­rio verso l’uguaglianza prima di tutto psi­co­lo­gica. Fare la sto­ria degli omo­ses­suali espel­lendo gli omo­fobi dal qua­dro è uto­pi­stico, se non altro per­ché buona parte delle testi­mo­nianze che ci riman­gono sono tracce delle per­se­cu­zioni subite dagli uni ad opera degli altri. Ma d’altra parte i punti di vista e le esi­stenze delle vit­time par­lano anche attra­verso la memo­ria dei carnefici.

E cosa ci rac­con­tano? Abbiamo già accen­nato al fatto che Gre­cia e Roma non erano il «para­diso» che varie gene­ra­zioni di proto mili­tanti gay ave­vano descritto per legit­ti­mare se stesse e che studi più recenti hanno molto ridi­men­sio­nato. Il dato inne­ga­bile che in certi casi pra­ti­che e affetti omo­ses­suali fos­sero quan­to­meno tol­le­rati, quando non addi­rit­tura rac­co­man­dati, non toglie che fos­sero oggetto della pub­blica ripro­va­zione coloro che con­fon­de­vano ruoli e generi annul­lando le distin­zioni «natu­rali» tra chi domina e chi è domi­nato. E nem­meno che il vero labo­ra­to­rio dell’omofobia di stato uffi­cia­liz­zata dal cri­stia­ne­simo sia stata l’antichità pagana ancor più di quella ebraica, in un filo rosso che uni­sce Pla­tone agli stoici per arri­vare a San Paolo e da qui pro­se­guire per una schiera di santi e teo­logi suc­ces­sivi. Di suo il cri­stia­ne­simo ci mise l’anatema divino, pari­fi­cando nella colpa gli omo­ses­suali attivi a quelli pas­sivi e for­nendo un’interpretazione ana­cro­ni­stica dell’episodio di Sodoma e Gomorra che avrebbe col tempo sti­mo­lato il ricorso ai roghi. Di cui però non c’è trac­cia riscon­tra­bile, almeno nell’Europa occi­den­tale, per tutto l’Alto Medioevo.

La regres­sione della civiltà urbana fece spa­rire per secoli per­sino la pos­si­bi­lità di sot­to­cul­ture «gay» da repri­mere, men­tre «fra il VI e l’VIII secolo la repres­sione dei com­por­ta­menti omo­ses­suali passa dalle mani dello stato a quelle della chiesa, la quale li puni­sce con peni­tenze, man­dando nel dimen­ti­ca­toio la pena di morte e ancor più quella del rogo pre­vi­sta dagli ultimi impe­ra­tori romani». Lo sce­na­rio cam­bia dopo l’anno Mille, con il nuovo svi­luppo urbano e gli scon­vol­gi­menti socio-religiosi dei secoli XI-XIII. È qui che si per­fe­ziona la figura del sodo­mita, perio­di­ca­mente sacri­fi­cata sui roghi dalla metà del Due­cento alla Rivo­lu­zione Fran­cese in gran parte dell’Europa ad ogni ondata di rigore morale e allarme sociale. In que­sto frat­tempo però comin­ciamo ad avere la cer­tezza che gli stessi sodo­miti impa­rano a per­ce­pirsi come tali e cer­cano di orga­niz­zarsi. Dalle cro­na­che dei pro­cessi al pro­flu­vio di misure di poli­zia dirette ad argi­nare il feno­meno veniamo a cono­scenza delle mappe gay e delle reti sociali di città grandi o pic­cole, ma arri­vano fino a noi final­mente anche le voci dei sodo­miti, che sem­pre più spesso met­tono ere­ti­ca­mente in discus­sione la gra­vità del loro peccato.

Con il tempo, tra spinte e con­tro­spinte, sarà l’intera società occi­den­tale a farlo e ciò por­terà all’abolizione della pena di morte ma non alla fine delle per­se­cu­zioni. E qui giun­giamo a un punto cru­ciale, quando nell’Ottocento nasce uffi­cial­mente il con­cetto di omo­ses­sua­lità dopo che dell’argomento ini­ziano a occu­parsi anche medici e psi­chia­tri oltre a pre­di­ca­tori, giu­dici e poli­ziotti. L’opinione di Dall’Orto in pro­po­sito è che la medi­cina non inventò affatto l’omosessualità, ma si limitò a pato­lo­giz­zarla. Con con­se­guenze tut­ta­via impre­vi­ste, per­ché lo svi­luppo del dibat­tito scien­ti­fico offrì uno spa­zio pri­vi­le­giato per «bucare la cappa di omertà» della morale domi­nante e discu­tere aper­ta­mente, offrendo per la prima volta agli stessi omo­ses­suali l’opportunità di inter­ve­nire nella discus­sione e di influen­zare con le loro teo­rie e testi­mo­nianze i discorsi medici.

Iste­ria omofoba

Si dif­fu­sero i memo­riali e le con­fes­sioni in cui i pazienti cer­ca­vano sco­per­ta­mente di tirare i dot­tori dalla loro parte, per­sino riu­scen­doci qual­che volta. Dopo­di­ché gli omo­ses­suali comin­ciano ad orga­niz­zarsi dav­vero e a recla­mare il diritto di vivere come tali alla luce del sole. Soprat­tutto in Ger­ma­nia, dove solo la vio­lenza nazi­sta riu­scì a stron­care il più avan­zato espe­ri­mento di libe­ra­zione omo­ses­suale mai visto fino ad allora. Fasci­smo e nazi­smo, insieme alla ver­sione sta­li­niana del comu­ni­smo e all’America del mac­car­ti­smo e din­torni (senza dimen­ti­care la Gran Bre­ta­gna che sui­cidò Alan Turing) costi­tui­scono altret­tanti pezzi di quello che dall’Orto defi­ni­sce «il picco più alto d’isteria omo­fo­bica dell’intera sto­ria umana». Ma fu poi dalla rea­zione a que­ste per­se­cu­zioni che negli Stati Uniti nac­que il movi­mento gay con­tem­po­ra­neo, che pro­pagò attra­verso il pia­neta i pro­pri stili, lin­guaggi e modelli orga­niz­za­tivi. Il resto è cro­naca dell’apparentemente inar­re­sta­bile mar­cia di inte­gra­zione delle mino­ranze lgbt in tutto l’occidente. Con la vistosa ecce­zione dell’Italia che del resto, ammette l’autore, non è l’America.

Il dilemma dell'Europa: igno­rare la sto­ria e sot­to­met­tersi ai dik­tat del "fondamentalismo del mercato" che ovun­que appli­cati hanno con­dotto al disa­stro e alla povertà dif­fusa, oppure opporsi fer­ma­mente e costruire una solu­zione alternativa.

Il manifesto, 18 giugno 2015

Altro che la sto­ria «luce della verità» o «vita della memo­ria» di cui par­lava Cice­rone nel De ora­tore. Rara­mente si rivela «mae­stra di vita», per­ché il mondo umano non ha alcuna inten­zione di farsi suo disce­polo o anche solo di pre­stare atten­zione alle forti testi­mo­nianze che pur essa ci dispensa.

È que­sto il caso della teo­lo­gia eco­no­mica, ossia dell’idea (o meglio: ideo­lo­gia), secondo cui si cerca di imporre i dogmi della finanza a guisa di leggi natu­rali e indi­scu­ti­bili, per­fet­ta­mente in grado di garan­tire la sal­vezza e financo il pro­gresso di quei paesi che si sot­to­met­tono al «fon­da­men­ta­li­smo del mer­cato».

E dire che non ci si sarebbe dovuti spin­gere tanto lon­tano con la memo­ria (Marx, Key­nes), per­ché un per­fetto e lapa­lis­siano esem­pio della fal­la­cia dei dik­tat impo­sti dal fon­da­men­ta­li­smo del mer­cato lo avremmo potuto riscon­trare anche ai giorni nostri.

Per la pre­ci­sione pochi anni prima che la grande crisi eco­no­mica col­pisse anche il mondo occi­den­tale, par­tendo dagli Stati Uniti per defla­grare poi in Europa tra il 2008 e il 2009.

I dogmi del mercato

Né era stato un testi­mone qua­lun­que a docu­men­tare con indi­scu­ti­bile luci­dità i fal­li­menti pro­dotti dai dogmi mer­ca­ti­sti, bensì quel Joseph Sti­glitz che par­lava con cogni­zione di causa (oltre che valente eco­no­mi­sta era stato vice­pre­si­dente della Banca mon­diale ai tempi della pre­si­denza di Clin­ton) e che per que­sto fu insi­gnito del pre­mio Nobel per l’economia nel 2001.

In un libro fon­da­men­tale per com­pren­dere il nostro tempo (Glo­ba­li­za­tion and Its Discon­tents, tra­dotto per Einaudi col titolo La glo­ba­liz­za­zione e i suoi oppo­si­tori), infatti, Sti­glitz spie­gava con pre­ci­sione cer­to­sina e ana­lisi incon­tro­ver­ti­bile il fal­li­mento a cui erano andati incon­tro i paesi (per esem­pio l’Argentina) che negli anni Novanta del secolo scorso si erano sot­to­messi ai dik­tat della troika mon­diale (Fmi, Banca mon­diale, Wto). Men­tre per esem­pio la Cina, fra quelli che respin­sero con sde­gno le sud­dette impo­si­zioni (anche per­ché poteva per­met­ter­selo in virtù della sua potenza mili­tare), costruì pro­prio in que­gli anni le pre­messe per la sua esplo­sione come potenza eco­no­mica mondiale.

Circa un decen­nio più avanti, dopo che gli impre­ve­di­bili svi­luppi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio hanno visto cre­scere pro­prio quei paesi che a suo tempo si oppo­sero ai dogmi del neo­li­be­ri­smo (la stessa Cina, ma anche India, Bra­sile), tocca sta­volta all’Europa non sol­tanto fare i conti con una gra­vis­sima e pro­lun­gata fase di sta­gna­zione e crisi, ma anche con que­gli stessi iden­tici dik­tat con i quali la teo­lo­gia eco­no­mica vor­rebbe indi­car­gli la via della salvezza.

Per il tra­mite di una nuova e spe­ci­fica troika (Com­mis­sione euro­pea, Bce, Fmi), quell’entità fumosa e incom­piuta che risponde al nome di Europa si trova di fronte al deja vu più dram­ma­tico della sua sto­ria recente: igno­rare la sto­ria e sot­to­met­tersi a dei dik­tat che ovun­que appli­cati hanno con­dotto al disa­stro e alla povertà dif­fusa, oppure opporsi fer­ma­mente e costruire una solu­zione alternativa.

In un libro uscito recen­te­mente (Against the Troika. Cri­sis and Auste­rity in the Euro­zone, proe­mio di Oskar Lafon­taine, pre­fa­zione di P. Mason, post­fa­zione di A. Gar­zón Espi­nosa, Verso), Hei­ner Flas­sbeck e Costas Lapa­vi­tsas affer­mano aper­ta­mente la «forte e rimar­che­vole cor­re­la­zione fra gli aggiu­sta­menti richie­sti dalla troika e il declino eco­no­mico dei paesi peri­fe­rici dell’Euro» (Gre­cia su tutti), non man­cando di men­zio­nare i casi della Fran­cia e dell’Italia, che peri­fe­rici non sono ma stanno subendo un for­tis­simo ridi­men­sio­na­mento delle rispet­tive eco­no­mie e, soprat­tutto, della qua­lità della vita dei cit­ta­dini che vi abitano.

Disu­gua­glianze crescono

I due stu­diosi met­tono in evi­denza senza mezzi ter­mini il bivio di fronte al quale si tro­vano le demo­cra­zie euro­pee, che secondo loro sem­bra desti­nato ad assu­mere più che altro le fat­tezze di un falso bivio e, piut­to­sto, di un cir­colo vizioso: da una parte, infatti, cedere ai dik­tat della troika signi­fica aumen­tare ulte­rior­mente le disu­gua­glianze e impo­ve­rire la classe media, ponendo le basi per un aumento smi­su­rato di quel mal­con­tento e con­flitto sociale che i popu­li­smi, i nazio­na­li­smi e le destre estreme sono pronti a caval­care con esiti ancora più nefasti.

Dall’altra, a fronte di governi sedi­centi di sini­stra, ma più in gene­rale di forze anta­go­ni­ste al capi­ta­li­smo che però si rive­lano inca­paci di ela­bo­rare e met­tere in atto stra­te­gie alter­na­tive, si lascia ine­vi­ta­bil­mente campo aperto ed esclu­sivo a solu­zioni desti­nate a distrug­gere defi­ni­ti­va­mente quel poco che resta dell’ (incom­piuta) unità euro­pea. Creando di fatto le con­di­zioni per­ché a com­bat­tersi (ma poi per dav­vero?) riman­gano sol­tanto le destre popu­li­ste (il cui pro­gramma è sem­plice: uscire dall’euro) e il fon­da­men­ta­li­smo del mercato.

Con esiti dele­teri in entrambi i casi: «Le diver­genze accu­mu­late in que­sti primi anni di Unione euro­pea e la natura ter­ri­bile dei pro­grammi di aggiu­sta­mento (in senso neo­li­be­ri­sta, n.d.r.) pon­gono la que­stione quanto mai cen­trale della soprav­vi­venza stessa dell’Unione. La pro­spet­tiva di un’eventuale disin­te­gra­zione e col­lasso dell’Unione euro­pea non può essere igno­rata più a lungo», si legge nel libro. Da que­sto punto di vista emerge con chia­rezza, stando ai due autori di Against the Troika, che spetta alla varie­gata e spesso fram­men­ta­ria galas­sia delle sini­stre anti­li­be­ri­ste rico­struire un con­senso popo­lare.

Con­senso popo­lare su cui impo­stare una dichia­ra­zione di default rispetto al debito, sospen­dendo il paga­mento degli inte­ressi matu­rati e rine­go­ziando le forme di appar­te­nenza all’Unione europea.

Solo una sini­stra rin­no­vata e corag­giosa, insomma, pos­si­bil­mente for­nita di un pro­gramma fon­dato e cre­di­bile, può gio­carsi seria­mente la par­tita con la teo­lo­gia libe­ri­sta, riu­scendo a tenere in pieni il grande pro­getto dell’Europa (sal­va­guar­dando la sua spe­ci­fi­cità a livello mon­diale: lo stato sociale) ma nella con­sa­pe­vo­lezza che la pro­spet­tiva dell’uscita non è qual­cosa né di proi­bito né di inimmaginabile.

Il manifesto, 16 maggio 2015

C’è un lupo (bella coper­tina di Lisa Gelli) ad acco­glierci sulla soglia di que­sto agile, ma molto denso e ric­chis­simo di docu­men­ta­zione e dati, Prove di paura. Bar­bari, mar­gi­nali, ribelli (Gruppo Abele, pp. 191, euro 14) di Livio Pepino. A Pepino dob­biamo da sem­pre il merito, piut­to­sto raro nel paese degli emer­gen­zia­li­smi ad oltranza, con­di­visi da destra e troppo spesso da sini­stra, di aver difeso sem­pre con tena­cia e luci­dità il fronte delle garan­zie. Ma, ancor più, di aver soste­nuto un garan­ti­smo com­ples­sivo, all’interno di una visione impe­gna­tiva e ricca di uno stato sociale di diritto avan­zato. Sem­pre più net­ta­mente, nel suo per­corso, il discorso sul diritto e sui diritti si è intrec­ciato con gli espe­ri­menti di demo­cra­zia dal basso, con la cri­tica al modello di svi­luppo fon­dato sulle grandi opere e con l’azione giu­ri­dica e poli­tica di difesa del ter­ri­to­rio e dell’ambiente dal sac­cheg­gio da parte dei poteri pub­blici e pri­vati: ne è esem­pio la par­te­ci­pa­zione attenta con cui Pepino segue le ragioni e le vicende del movi­mento No Tav.

Que­sto sag­gio è lo spec­chio per­fetto dell’impegno intel­let­tuale e poli­tico del suo autore, arti­co­lato com’è su un dop­pio fronte. Da un lato, è una let­tura cri­tica, che incro­cia in modo molto utile teo­ria giu­ri­dica e dati empi­rici, sulle stra­te­gie di governo della paura che segnano le poli­ti­che cri­mi­nali con­tem­po­ra­nee. Dall’altro, è un viag­gio tra le sog­get­ti­vità con­crete, tra i bar­bari, i mar­gi­nali e i ribelli, con­tro cui quelle poli­ti­che secu­ri­ta­rie con­ti­nua­mente si mobi­li­tano. Sul primo fronte, quello della cri­tica del governo con­tem­po­ra­neo della paura, incon­triamo evi­den­te­mente il lupo che ci aspet­tava in coper­tina: è la scena pri­ma­ria della moder­nità, lo stato di natura evo­cato da Tho­mas Hob­bes, quell’insicurezza radi­cale e dispe­rata da cui la città prima, lo stato nazio­nale poi, hanno sto­ri­ca­mente pro­messo di sal­varci. Una sal­vezza che coin­ci­de­rebbe con l’esclusione, con l’estromissione fuori dai con­fini di tutti gli ele­menti di insi­cu­rezza e di con­flitto che potreb­bero tur­bare la vita ordi­nata dell’ordine politico.

Ma que­sto schema rigi­da­mente bina­rio, ordine/sicurezza/stato da un lato, stato di natura/insicurezza/conflitto dall’altro, si è ben pre­sto sve­lato come un rac­conto tutto ideo­lo­gico. La città – nata per esclu­dere l’insicurezza – «diven­terà nel tempo luogo di paura, per­ché chiun­que può entrarvi, ognuno può muo­versi come vuole», ricorda Pepino. Allo stesso modo, lo stato nazio­nale, quel Levia­tano che doveva paci­fi­care defi­ni­ti­va­mente i lupi, «sarà spesso pro­ta­go­ni­sta di oppres­sione e cor­ru­zione sul ver­sante interno e di guerre con­ti­nue all’esterno, al punto che la società si sen­tirà sem­pre meno pro­tetta». Lo schema ideo­lo­gico che leg­geva l’ordine sta­tale come spa­zio di sal­vezza nei con­fronti dell’insicurezza radi­cale si rivela ben pre­sto per quello che è: una fra­gile nar­ra­zione a fine di legit­ti­ma­zione del potere. Nella realtà, la paura, lungi dall’essere defi­ni­ti­va­mente tenuta fuori dalle mura della città ben sicura, viene con­ti­nua­mente pro­dotta e ripro­dotta, non­ché uti­liz­zata per riscri­vere quo­ti­dia­na­mente con­fini, moda­lità e gra­da­zioni dell’inclusione e dell’esclusione sociale.

Nella crisi dello stato sociale e con­tem­po­ra­nea­mente all’attacco delle poli­ti­che neo­li­be­rali, que­sta con­ti­nua capi­ta­liz­za­zione della paura, secondo l’espressione di Zyg­munt Bau­man ricor­data da Pepino, pro­duce tutta una gamma, molto dif­fe­ren­ziata e modu­lare, di stra­te­gie secu­ri­ta­rie. Resi­ste ovvia­mente la tra­di­zio­nale repres­sione car­ce­ra­ria, con l’innalzamento con­ti­nuo dei tassi di car­ce­ra­zione che ha carat­te­riz­zato il pano­rama peni­ten­zia­rio almeno fino al 2010 e che, come Pepino docu­menta in modo molto effi­cace, non ha nes­suna rela­zione con l’andamento effet­tivo dei tassi di cri­mi­na­lità, in sostan­ziale e costante decre­scita, in barba a tutti gli allarmi sicu­rezza pro­dotti dai mass media. Ma accanto al car­cere, il libro di Pepino illu­stra anche diversi altri dispo­si­tivi secu­ri­tari, che hanno a che fare più con il governo dif­fuso, pre­ven­tivo e ammi­ni­stra­tivo della paura, e che vanno dalle deten­zioni ammi­ni­stra­tive per i migranti, sino all’utilizzo di un’ampia gamma di stru­menti cau­te­lari e di sicu­rezza, sem­pre più segnati da una fun­zione pre­ven­tiva e inti­mi­da­to­ria, piut­to­sto che repres­siva: da stru­menti come il Daspo, col­lau­dati in quel labo­ra­to­rio spe­ri­men­tale del secu­ri­ta­ri­smo che sono diven­tati gli stadi, all’utilizzo sem­pre più fre­quente, come sanno bene i mili­tanti dei col­let­tivi stu­den­te­schi e dei cen­tri sociali, di fogli di via e obbli­ghi di dimora.

Il libro di Pepino, però, non è solo un’analisi det­ta­gliata di que­sti dispo­si­tivi: c’è l’altro lato di cui dice­vamo all’inizio, il ten­ta­tivo cioè di resti­tuire carne e san­gue ai sog­getti reali che sono inse­guiti, con­trol­lati e gover­nati dalle stra­te­gie secu­ri­ta­rie vec­chie e nuove. Non è pos­si­bile ela­bo­rare un discorso sulle paure non stru­men­tale, scrive molto oppor­tu­na­mente Pepino, se non si esa­mi­nano quelle sog­get­ti­vità che le poli­ti­che secu­ri­ta­rie vor­reb­bero ridurre a fan­ta­smi, in un pro­cesso di derea­liz­za­zione che pre­ten­de­rebbe di farne spet­trali fat­tori di rischio, ombre disin­car­nate, minacce da neu­tra­liz­zare. Per que­sto, il libro attra­versa le vite dei bar­bari (gli stra­nieri, i migranti, i nomadi, le figure dell’alterità che minac­ciano il mito dell’omogeneità interna ai con­fini nazio­nali), dei mar­gi­nali (le vec­chie e nuove povertà, sulle quali torna ad abbat­tersi, con nuovi anda­menti «gover­na­men­tali», la guerra alle classi peri­co­lose, oggi con­dotta attra­verso un work­fare sem­pre più disci­pli­nare), dei ribelli (dai movi­menti sociali ter­ri­to­riali ai cen­tri sociali, alla gestione poli­zie­sca sem­pre più inca­pace di poli­tica e di trat­ta­tiva dell’ordine pub­blico e delle piazze).

Ed è solo a par­tire da poli­ti­che che attra­ver­sino que­ste sog­get­ti­vità reali, che può aprirsi la strada indi­cata in con­clu­sione da Pepino: una tra­sfor­ma­zione di para­digma che rico­no­sca il fal­li­mento radi­cale dello stato hob­be­siano, mono­po­li­sta della gestione della sicu­rezza, e che guardi a poli­ti­che non para­noi­che, in grado di «resti­tuire un posto al disor­dine», di ritro­vare forme diverse e dif­fe­ren­ziate, poli­ti­che, di media­zione pro­dut­tiva e avan­zata dei con­flitti. E forse, aggiun­ge­rei, rom­pere le stra­te­gie secu­ri­ta­rie signi­fica prin­ci­pal­mente, pro­prio a par­tire da quelle sog­get­ti­vità reali, oltre­tutto oggi sem­pre meno «mar­gi­nali» o «escluse» in senso clas­sico, lavo­rare per costruire ambiti di radi­ca­liz­za­zione demo­cra­tica e di vita-in-comune, isti­tu­zioni che si nutrano della valo­riz­za­zione della coo­pe­ra­zione sociale piut­to­sto che dell’incubo della sicu­rezza pro­prie­ta­ria. In fondo ce lo indi­cava già Spi­noza, con­tro Hob­bes: la secu­ri­tas non è com­pito da dele­gare a un sovrano sal­vi­fico, ma cre­sce insieme alla potenza demo­cra­tica che il corpo poli­tico rie­sce a sviluppare.

Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano" (Donzelli), un efficace panorama dei misfatti dell'urbanistica neoliberista, iniziata negli anni di Craxi e proseguita in quelli di Berlusconi e del suo erede, Matteo Renzi. Il manifesto, 22 aprile 2015

Che il possibile fallimento del comune di Roma e degli altri centottanta comuni italiani sia il risultato coerente e legittimo di un sistema economico-politico esso stesso fallimentare, e non l’accidentale disfatta legata al malaffare o alle ruberie di qualche amministratore, è illustrato con lucidità nell’ultimo libro di Paolo Berdini: Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano (Donzelli). Con dovizia di esempi l’autore dimostra come, nel «ventennio liberista», la gestione della polis – l’urbanistica – abbia acquisito assoluta centralità nelle scelte politiche di un paese in cui il «mattone di carta» e la privatizzazione dei servizi al cittadino hanno aggravato la miope scelta dell’edilizia come motore dell’economia nazionale.

Il condono craxiano, il primo della tripletta 1985-1994-2003, è «lo spartiacque». A distanza di pochi anni, nel pieno di «Mani pulite» e in «clima di fastidio per le regole», la legge 179 del 1992 introduce nella pratica urbanistica la contrattazione pubblico-privato «che diventa immediatamente arbitrio»: l’interesse comune è, da allora, legalmente sottordinato all’interesse dei particolari.

I valori immobiliari aumentano, sulla loro crescita si fonda il consenso politico: l’«urbanistica scellerata» si rivelerà infatti strumentale «a nascondere i tagli delle pensioni, i licenziamenti, il contenimento degli stipendi e la precarizzazione del lavoro». La diminuzione dei trasferimenti sta- tali ai comuni, unita all’opera demolitoria di Bassanini (che nel 2001 devasta la legge Bucalossi), dà il via libera alla cementificazione dei territori comunali in risposta alle penurie di cassa. L’economia neoliberista peninsulare si orienta quindi francamente sul mattone (quello vero e quello modernissimo «di carta»). È il prodromo della bolla edilizia, alimentata dai crediti elargiti alle imprese edili in base al loro capitale fisso: in un circolo vizioso, le imprese costruiscono ormai solo per poter continuare a costruire. Con «un milione di alloggi nuovi invenduti», il consumo di suolo in Italia doppia generosamente la media europea.

La legittimità dello sfascio territoriale e della contrazione del welfare urbano è il tratto caratteristico del ventennio descritto nel libro che segue il passaggio graduale dall’abuso classicamente inteso, di cui Berdini è riconosciuto esperto (si veda la sua Breve storia dell’abuso edilizio in Italia, 2010), all’abuso come strumento amministrativo dell’«urbanistica scellerata». Leggi criminogene (l’esempio più chiaro è la Legge obiettivo del 2001) e speculazione finanziaria rendono la città un grosso affare economico a detrimento della sua cultura, delle relazioni sociali che vi si intessono, dei cittadini che vi abitano e vi proiettano le proprie aspirazioni di vita. L’erogazione dei servizi urbani, privatizzati e mercificati, drena enormi ricchezze e diventa l’occasione privilegiata per il «finanziamento occulto del famelico mondo della politica».

Facendo seguito alla crisi dei subprime, i valori immobiliari arrivati alle stelle nel 2008 cadono in picchiata: le famiglie italiane che avevano acceso mutui a buon mercato «finanziati dall’economia di rapina», si ritrovano a pagare l’abitazione a un prezzo iniquo. O a vedersela pignorare per insolvenza.

Così, le «città infelici del neoliberismo» diventano «sempre più grandi e più ingiuste». All’aumento della superficie urbana segue infatti l’incremento delle spese per i trasporti, per asfaltare le strade, per acquedotti, fognature; e, «se aggiungiamo anche i costi di esercizio quotidiano che durano un tempo indefinito – scrive Berdini –, cogliamo il disastro provocato dall’urbanistica liberista». Dunque: più la città cresce, più si indebita facendo ricorso agli strumenti finanziari «che hanno deliberatamente rotto lo storico patto sociale su cui è fondata la vita della città» (i debiti a lunga scadenza intaccano peral- tro il patto generazionale). In questa spirale, le casse comunali collassano: con un debito di 22 miliardi di euro, nell’aprile 2014 il comune di Roma dichiara bancarotta. Per la sua gravità, la vicen- da passa sotto silenzio. Viene adottata una «soluzione geniale» presa a prestito dal copione del li- berismo economico: istituire, secondo il modello sperimentato per l’Alitalia, una bad company in cui far confluire i debiti, e «creare una nuova società pulita» – Roma Capitale – con gli stessi confini amministrativi del precedente comune. Il piano di rientro dal debito, nel segno dell’austerità, crea nuove sofferenze urbane, ben rappresentate dal taglio di più di cinquanta linee di autobus verso le «periferie dolenti».

La svendita del patrimonio comune, in principio non «alienabile, usucapibile, espropriabile», è l’ulteriore pesante elemento di pauperizzazione delle città italiane; i cittadini vengono espropriati del fondativo diritto alla proprietà collettiva, come ricorda nelle belle pagine introduttive Paolo Maddalena.

Da questo diritto fondamentale nasce l’ipotesi del progetto co- rale delineato da Berdini per la ri- costruzione della «città pubblica», l’«abbellimento» delle periferie e per la nuova vita delle aree interne, neglette dal modello metropolitano. Il «lievito spontaneo che le salverà» è già pronto: la rete delle esperienze dei comitati e delle associazioni «ha messo a fuoco i problemi, costruito ipotesi collettive di soluzione». Il suo auspicato «salto di qualità» rappresenta la speranza concreta per uscire dal fallimento neoliberista.

aggio che alterna inchiesta e riflessione a decrittare l’universo neoliberista». Tradotto un testo significativo sulla dimensione della divisione in classi della società. Il manifesto, 16 aprile 2015

Final­mente l’opera di Pierre Bour­dieu La mise­ria del mondo è stata tra­dotta. Al di là del fatto che va a met­tere un impor­tante tas­sello nel puzzle ita­liano dell’intera opera del socio­logo fran­cese — per com­ple­tarlo man­cano solo i corsi tenuti all’università, in tra­du­zione da Fel­tri­nelli -, il volume è un esem­pio di un pen­siero cri­tico che alterna inchie­sta sul campo e rifles­sione di lunga durata. Sin dai primi studi sull’Algeria Bour­dieu ha scelto l’inchiesta come chiave di accesso alla com­pren­sione dei mec­ca­ni­smi alla base del potere nelle società moderna. Ha poi con­ti­nuato con opere che lo hanno pro­iet­tato sulla scena euro­pea come uno mag­giori stu­diosi della contemporaneità.
Illu­mi­nante con­ti­nua ad essere il sag­gio sulla Distin­zione (Il Mulino), dove Bour­dieu ana­liz­zava come la divi­sione in classi della società non si limi­tava solo nei luo­ghi del lavoro, ma inve­stiva i con­sumi cul­tu­rali, l’accesso alla for­ma­zione, garan­tendo così la ripro­du­zione dei rap­porti sociali capi­ta­li­sti. Sarebbe però sba­gliato con­si­de­rare Bour­dieu un mar­xi­sta orto­dosso. Anzi, il socio­logo fran­cese ha sem­pre avuto un rap­porto con­flit­tuale con il mar­xi­smo occi­den­tale. Ne rico­no­sceva la capa­cità inter­pre­ta­tiva, ma ne ha capar­bia­mente respinto una della sua carat­te­ri­sti­che più rile­vanti, cioè quello di essere una prassi teo­rica tesa a tra­sfor­mare la realtà.

Per Bour­dieu, infatti, i filo­sofi, e i socio­logi, dove­vano limi­tarsi a inter­pre­tare il mondo. Solo in piena vento neo­li­be­ri­sta ha mostrato inte­resse per i movi­menti sociali e i con­flitti del capi­ta­li­smo. Ci sono foto dive­nute famose di un Pierre Bour­dieu che parla a un mega­fono durante lo scio­pero del 1994 che para­lizzò per oltre un mese Parigi. Sciarpa rossa e una postura del corpo da mili­tante, esprime la soli­da­rietà ai dei lavo­ra­tori, soste­nendo che la posta in gioco del loro scio­pero non erano solo le pen­sioni o il sala­rio — temi già rile­vanti in se — ma degli assetti di potere della società.

Il teo­rico dell’homo aca­de­mi­cus e l’«inventore» del con­cetto, da molti rite­nuto crip­tico, di «campo» abban­do­nava le aule uni­ver­si­ta­rie non solo per distri­buire neu­tri que­stio­nari ma per «spor­carsi le mani» con l’oggetto del suo lavoro teo­rico. Per uno che aveva sem­pre guar­dato con sospetto, se non osti­lità, la figura del maî­tre à pen­ser era un cam­bia­mento che non poteva pas­sare inos­ser­vato. Sono però pro­prio que­gli gli anni durante i quali Bour­dieu ana­lizza la pre­ca­rietà avan­zante e la dis­so­lu­zione delle isti­tu­zioni che ave­vano garan­tito lo svi­luppo del capi­ta­li­smo dopo la seconda guerra mon­diale. I «trenta anni glo­riosi» ave­vano lasciato il passo al lungo inverno neoliberista.

È in que­sto cam­bia­mento che ha le sue radici La mise­ria del mondo, dove Bour­dieu non esi­sta a par­lare della vio­lenza insite nei rap­porti sociali capi­ta­li­stici. Una vio­lenza che ha come risul­tato non solo l’impoverimento o l’esclusione sociale di una parte della popo­la­zione, ma che è imma­nente in tutte le rela­zioni sociali. Ne sono vit­time tanto gli sfrut­tati, ma anche gli sfrut­ta­tori. È quest’ultimo l’aspetto che in Fran­cia ha pro­vo­cato rigetto da molti teo­rici gau­chi­ste . Ma al di là delle pole­mi­che con­tin­genti, La mise­ria del mondo rimane un fer­tile lascito teo­rico di Bour­dieu che può aiu­tare le scienze sociali ita­liane a uscire dall’afasia che le contraddistingue.
© 2025 Eddyburg