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«Codici aperti. Un’intervista con Parag Khanna autore di

Connectography nel quale analizza il rapporto tra cooperazione e competizione nella geoeconomia». il manifesto, 17 novembre 2016 (c.m.c.)

Parag Khanna può essere considerato un enfant prodige della geoeconomia, novella disciplina che cerca di spiegare i conflitti globali a partire dalle dinamiche e dalla resistenze che incontra il neoliberismo. A questa espressione Khanna preferisce invece quella di capitalismo supply chain, cioè della centralità che hanno la distruzione delle merci a livello globale. I suoi saggi hanno fatto molto discutere.

Indiano di nascita, saggista prolifico ha pubblicato per Fazi I tre imperi. Come si governa il mondo, mentre Codice ha mandato in libreria L’età ibrida, firmato con Ayesha Khanna. Parag Khanna sarà sabato a Milano dove parteciperà a Book city, presentando il nuovo saggio Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale (Fazi editore, pp. 613, euro 26). Affabile, si è mostrato subito disponibile per un’intervista con un giornale leftwing, cioè non proprio in linea con quanto esprime nel libro.

Connectography può essere letto come un libro sulla fine della sovranità nazionale e sul declino del «sistema mondo» emerso dopo la Seconda Guerra mondiale. Concorda con questa interpretazione?
Connectography è un saggio che affronta la «rivoluzione» rappresentata dalla tendenza, in qualche misura inarrestabile, a quella che chiamo la connettività globale, intendendo con questo la stringente interdipendenza economica, politica e sociale tra gli stati. È una tendenza secolare, che ha però subito una accelerazione con la caduta del Muro di Berlino, il collasso dell’Unione Sovietica, l’affermarsi del capitalismo su scala globale. Infine sarebbe difficile parlare di Connectography senza fare riferimento a Internet, primo esempio di un dispositivo che svolge una funzione non solo di comunicazione, ma anche di coordinamento a livello internazionale.

Tutti questi elementi hanno contribuito a disegnare una nuova mappa delle connettività dove è vigente una gerarchia di potere più stringente di quella del passato nella relazione tra gli Stati. Questo non significa che finisce la sovranità nazionale. La realtà contemporanea vede semmai una maggiore competizione tra gli Stati per esercitare la loro influenza nella connettività globale a partire dalla loro «specializzazione». Così gli stati produttori di energia cercheranno di acquisire potere, facendo leva sul fatto che forniscono petrolio o gas naturale ad altri paesi. Lo stesso si può dire per chi produce manufatti tecnologici: perché il mondo della connettività globale sarebbe una suggestione se non fosse all’opera una catena globale delle merci che usa gli stati nazionali per funzionare a dovere.

I confini e le frontiere sono stati lo spazio economico e politico che ha regolato i flussi di capitale, di merci e di uomini e donne. Spesso i confini sono violati, aggirati da uomini e donne che esercitano il loro diritto a spostarsi, considerando la mobilità un diritto inalienabile. Lei che ne pensa?
Da sempre le società sono state «alterate» dalla presenza dei migranti. È un fenomeno che è sempre esistito, così come è sempre accaduto che le società ospiti siano riuscite ad assimilare gli «stranieri». Potrei citare l’esperienza della mia famiglia o di me stesso, ma non credo che questo aiuti a fornire una risposta. Quel che posso dire è che in Europa negli ultimi due anni si è parlato spesso di emergenza migranti paventando una invasione ostile alla civiltà europea. C’è stata cioè una diffusa reazione di rigetto che ha rimosso un fattore fondamentale: il ruolo importante del lavoro dei migranti nei paesi europei, Italia compresa.
Questo se ci riferiamo all’Europa. Se allarghiamo però la prospettiva dovremmo affrontare il tema di come sta cambiando la geografia sociale, le migrazioni di centinaia di milioni di persone (alcuni studi parlano di quasi due miliardi di persone in movimento) che si spostano da un paese all’altro nel Sud est asiatico e in Africa. Nessuno da quelle parti parla di invasione. Da questo punto di vista il caso europeo è quasi marginale rispetto a questo trend globale.

La libera circolazione dei capitali è spesso considerata una delle cause dell’impoverimento delle società e della crescita delle diseguaglianze sociali. Cosa ne pensa?
Preferisco parlare di cattiva allocazione di capitale per spiegare la crescita delle diseguaglianze sociali. Il commercio e gli investimenti sono essenziali per garantire la crescita economica dei paesi, sia di quelli ricchi che di quelli poveri. Il problema è dunque come governare la distribuzione e l’allocazione dei capitali. Per me, il problema non è il capitalismo, bensì la cattiva regolamentazione dell’attività economica con politiche fiscali e sociali sbagliate.

Nel nuovo ordine mondiale, i Big Data, il web, la comunicazione sono importanti settori dell’economia mondiale. Molte imprese che sviluppano software hanno base negli Stati Uniti. Lo stesso per la progettazione dei microprocessori: sono cioè espressione di una perdurante egemonia statunitense?
Le maggiori imprese sono certo americane, ma ci sono anche società coreane, cinesi, giapponesi. Tra esse la competizione è massima. Poi ci sono imprese come Google, che offrono gratuitamente i loro servizi, consentendo così una riduzione dei costi di altre attività economiche e lo sviluppo di prodotti innovativi. Più che parlare di egemonia statunitense, preferisco parlare della tecnologia made in Usa come un’utility.

Nel suo libro, lei scrive della diffusione delle zone economiche speciali: esempi di una ridefinizione della sovranità nazionale?
Le zone economiche speciali sono il risultato di scelte politiche nazionali. Vengono scelti dei partner interni e «stranieri» per favorire investimenti nel paese. Tutto ciò è finalizzato alla crescita economica interna e allo sviluppo di infrastrutture che possono rendere il paese ulteriormente attrattivo per investimenti di capitale. Questo favorisce anche l’aumento di lavoratori qualificati, facendo diventare quel paese un nodo delle catene globali del valore. Non sono quindi d’accordo con chi parla delle zone economiche speciali come esempi di sfruttamento dei paesi ricchi verso i paesi poveri o emergenti, bensì come un esempio di quella connettività globale alla quale facevo riferimento.

Cina, Brasile, India, Russia, Sud Africa sono stati indicati come paesi emergenti nella nuova geografia economica. La crisi del 2008 ha però cambiato le carte in tavola. Non possiamo dunque considerare la «Connectography» come la mappa di una sovranità imperiale in formazione?
Preferisco parlare di una mappa delle connessioni che legano le metropoli e le città del mondo. I Brics non sono una categoria importante. È più importante capire quali siano i link tra New York, Londra, Singapore, Dubai, Lagos, Hong Kong che non sapere se uno dei paesi dei Brics è emergente o meno. Le mappe del potere futuro o di quello contemporaneo possono emergere da come saranno strutturati questi legami, quali le gerarchie metropolitane che emergeranno, quali funzioni svolgeranno nel flusso globale di capitali e merci. E di come queste città distribuiranno la ricchezza accumulata nel resto dei paesi dove sono collocate.

« le nuove via della seta».il manifesto

C’è stato un tempo in cui intraprendenti mercanti si mettevano in viaggio per raggiungere posti lontani per poi tornare carichi di merci pregiate da vendere. Nei loro diari, novelli tripadvisor, descrivevano i percorsi, le tappe, i luoghi dove pernottare e mangiare, ma anche le insidie, i pericoli, i pedaggi da pagare. Un lettore de Il milione di Marco Polo ricorda sicuramente che anche il mercante veneziano annotava notizie e commenti sui paesi che scopriva.

L’esotismo svolge un ruolo centrale in quel libro, ma rilevanti sono invece le riflessioni politiche, sociali, financo antropologiche che Marco Polo – o chi per lui – fa delle realtà incontrate. Il suo diario è da considerare una vera e propria Odissea della merce. Eppure con quel libro, l’espressione «via della seta» perdeva il sapore esotico che l’accompagnava per diventare l’esempio della prima gestione logistica del territorio che faceva proprie le compatibilità politiche – e la logica di potenza – nei rapporti tra imperi e sovranità non ancora statali.

Nel tempo, nonostante guerre, invasioni, l’espressione ha perso il suo fascino per poi essere dimenticata, tag di un passato definitivamente archiviato. Poi, quasi inaspettatamente è tornata a imperversare nella scena pubblica dopo la presentazione dell’ambizioso progetto di Pechino per organizzare un efficiente e veloce sistema di spostamento di merci dalla world factory al resto del mondo, e dal resto del mondo al paese che ambisce a diventare la prima superpotenza economica. È l’esempio di come la logistica sia ormai una componente fondamentale delle «catene di valore» che accompagnano il capitalismo contemporaneo.

Ne scrivono diffusamente due recenti libri, scritti da un filosofo della politica e un filosofo della Rete che vivono a migliaia di chilometri di distanza, accomunanti tuttavia dalla convinzione che la logistica non può essere considerata solo come il mezzo ottimale, e più economico, per collocare le merci sul mercato, ma indispensabile architrave di quello che entrambi chiamano il capitalismo supply chain, cioè quella totalità che vede interagire e compenetrarsi produzione, distribuzione, consumo. E finanza.

Gli autori sono l’italiano Giorgio Grappi (il titolo del suo libro è un austero Logistica, Ediesse, pp. 265, euro 12) e l’australiano Ned Rossiter (il titolo del suo saggio è Software, Infrastructure, Labor, Routledge). Il primo è filosofo della politica alla sua prima opera, il secondo è un media theorist che ha pubblicato un importante testo sulla filosofia della Rete (Organized Networks, edito in Italia da manifestolibri).

La prima curiosità è: perché un filosofo della politica si è occupato di logistica? La risposta è semplice e l’autore la documenta efficacemente nel suo libro: la logistica, parte rilevante del capitalismo supply chain, esercita un potere nel ridefinire l’esercizio della sovranità sui territori, accompagnando i mutamenti della forma-stato e l’emergere di una governance delle forme di vita a livello sovranazionale.

Dunque, modifica i sistemi politici (in India, la democrazia rappresentativa diventa carta straccia in regioni del paesi a causa della militarizzazione del territorio finalizzata alla «messa in sicurezza» delle infrastrutture), introduce metamorfosi nelle relazioni interstatali, con una «cessione» della sovranità alle imprese. Quel che emerge dal libro è dunque una materia che dovrebbe interessare proprio la filosofia della politica.

La seconda curiosità investe poi lo stesso statuto della logistica: da strumento usato inizialmente per spostare truppe militari (con il corollario di alimenti, tende, armi e munizioni) è divenuto uno dei settori economici più importanti, e tuttavia meno studiati, dell’economia mondiale? Anche qui la risposta è semplice: perché la produzione di merci è dislocata su luoghi e continenti diversi.

I microprocessori possono essere prodotti in Cina, poi sono spostati negli Usa per essere assemblati, in attesa che arrivino altri componenti da altri luoghi. Alla fine dagli Usa, ma potrebbe essere Taiwan, Thailandia, Italia, devono essere velocemente, quasi just in time dirottati là dove saranno venduti o nelle case dei consumatori. Il tempo che intercorre dalla produzione alla vendita di una merce deve infatti essere compresso all’inverosimile. Inoltre le vie che seguono i componenti, chiamati corridoi, prevedono una trasformazione radicale della morfologia del territorio.

La terra è espropriata per grandi opere, gli abitanti deportati, il corso dei fiumi alterato radicalmente (Cina e India, sono in questo caso veri e propri case studies), provocando resistenze e rivolte della popolazione che vengono represse con violenza dall’esercito, provocando la militarizzazione del territorio e una sospensione della democrazia nelle regioni coinvolte, come più volte ha denunciato la scrittrice indiana Arundhati Roy.

Giorgio Grappi si sofferma sulla recente storia della logistica «moderna». Ne ricorda la genesi militare – anni Cinquanta e Sessanta del Novecento – parla della rivoluzione rappresentata dai container e delle innovazioni indotte nel sistema dei trasporti su rotaia e via mare, ma quello che è centrale nel suo libro è l’analisi di come la logistica serva a gestire il rischio di una paralisi nella circolazione delle merci, la sua efficienza – la «razionalità della logistica», secondo il ricercatore italiano -, ma anche quel movimento in divenire che altera e ricompone le gerarchie di potere tanto nel rapporto tra gli stati che all’interno della società.

La logistica è allora un fattore fondamentale dello sviluppo capitalistico, perché non solo opera nel ridisegno della sovranità nazionale, ma anche delle forme di vita, del rapporto tra le classi. È quindi di un fattore di gestione di quel doppio movimento tra diffusione spaziale della produzione – decentramento e outsorcing del processo lavorativo – e accentramento delle strutture decisionali, che hanno nello Stato un fattore non residuale, bensì funziona come un nodo esecutivo di una sovranità imperiale che forza, viola continuamente i confini nazionali.

Le suggestioni sulla costituzione di un Logistical State o di un Logistical Empire (ed è qui che la Cina svolge un ruolo primario con il suo progetto sulle nuove «vie della seta») sono usate in entrambi i libri con molta cautela. Grappi scrive che la presenza di un «Leviatano logistico» ha il pregio di esemplificare non un processo finito, stabilizzato, bensì una tendenza, sottoposta a correzioni nel suo divenire. Il Logistical State è dunque da considerare un obiettivo che vede lo stato e le imprese soggetti alla pari di un progetto che ha sulla sua strada quell’imprevisto che è il lavoro vivo, la sua composizione, le soggettività che si esprimono dentro il settore della logistica.

Altrettanto convincenti e belle sono le pagine di Ned Rossiter sul ruolo svolto dalla computer science nella logistica. Geolocalizzazione, smartphone, dispositivi per la lettura dei codici a barre, reti informatiche non hanno qui lo stesso sapore che hanno nella Rete. Nella logistica c’è ben poco software aperto: gran parte è proprietario e prevede forti e ingenti investimenti, dato che la costituzione di un sistema integrato prevede programmi informatici molti sofisticati che si avvalgono anche di elementi tratti dagli studi sull’intelligenza artificiale, fibre ottiche, satelliti, robot, tablet, smartphone, rilevatori e identificatori numerici. Ovvio che la proprietà intellettuale la faccia da padrone.

La logistica privilegia cioè un business model differente da quello dominante nella comunicazione on line (software aperto e gratuità dell’accesso alla Rete in cambio della cessione dei propri dati personali). Anche se punti di contatto ce ne sono, come quello svolto dalla finanza: le assicurazioni sulle navi e sui carichi, nonché un articolato legame tra borsa, venture capital e banche hanno un ruolo di stabilizzazione, di gestione del rischio, come avviene, certo con altre specificità, nella Rete.

Ned Rossiter si concentra inoltre su come questo modello punti a plasmare anche il lavoro vivo, le sue forme di vita e di socializzazione. Rilevante è anche il tema introdotto delle logistical city, luoghi cioè dove si concentrano la raccolta e lo smistamento delle merci spesso localizzate ai margini delle metropoli, ma che hanno il potere di condizionare lo sviluppo urbano di intere regioni, come emerge nel godibile capitolo dello smaltimento e riciclo dei componenti elettronici.

Difficile immaginare uno sviluppo diversificato di questo dispositivo. I due studiosi fanno un convincente esercizio di ottimismo della ragione, accompagnato però da un pessimismo della volontà, contraddetto dalle mobilitazioni nella logistica che hanno caratterizzato il settore negli ultimi anni, sia che si tratti dei portuali negli Stati Uniti o in Germania che i facchini del distretto italiano della logistica. Una smentita che rallegra, c’è da scommettere, entrambi gli autori.

Scheda. Le catene globali del valore

Il capitalismo supply chain è un’espressione, tra le tante usate per indicare i mutamenti di questo modo di produzione, che indica la centralità delle «catene del valore» per garantire la tenuta dei margini di profitto in una realtà altamente competitiva come è quella dell’economia globale. Interessante è così il volume da poco nelle librerie della economista Lidia Greco (Capitalismo e sviluppo nelle catene globali del valore, Carocci editore). Elaborato all’interno di una griglia dello sviluppo diseguale come fattore fondamentale del capitalismo, il saggio passa in rassegna le innovazioni organizzative che hanno investito, negli ultimi decenni, proprio le catene del valore.

«L’uomo neoliberale». il manifesto, 8 novembre 2016 (c.m.c.)

È opinione condivisa che la crisi del 2007 abbia riaperto finalmente una discussione vera sulle contraddizioni dell’ordine neoliberista. La stagione dei movimenti altermondialisti (da Seattle a Porto Alegre) aveva chiamato in causa le responsabilità della globalizzazione. Nel biennio 2010-2011 un insieme variegato di movimenti (Occupy Wall Street, Indignados…) è tornato a riempire le piazze contro il capitalismo finanziario per denunciare l’ipocrisia della vulgata neoliberista sulla crisi.

Nel suo L’uomo neoliberale. Capitale globale e crisi della democrazia (ombre corte, pp. 141, euro 13) Ruggero D’Alessandro propone una sorta di compendio di politica economica alternativa al discorso dominante su una crisi «che è divenuta permanente, tanto da imporsi come un nuovo sistema di governo. Una crisi che sta producendo conseguenze anche sul piano delle forme democratiche e delle conquiste sociali del Novecento». Il problema democratico rappresenta il nodo più interessante del volume che ne ripercorre la storia recente dalle raccomandazioni della commissione Trilateral del 1977 che prevedevano: la verticalizzazione delle decisioni e il rafforzamento degli esecutivi. Siamo all’alba dell’ondata teorica neoliberista che invaderà il mondo occidentale siglando la fine dei «Trenta gloriosi».

Dopo la caduta del Muro di Berlino si è radicalizzato anche quel declino dei poteri statali che ha spiazzato la «sinistra storica» comportando un sostanziale arretramento sul piano dei diritti sociali e della partecipazione alla vita democratica. In questo contesto di regressione del welfare e dei diritti del lavoro (flessibilità/precarietà, maggiore facilità di licenziamento) si colloca anche il progressivo svuotamento dei luoghi democratici a vantaggio degli organismi sovrannazionali non rappresentativi e, più in generale, dei poteri economici-finanziari.

La crisi degli anni Duemila – spiega l’autore sulla scorta delle teorie di Luciano Gallino e Wolfgang Streeck – è stata utilizzata da coloro che ne sono stati direttamente o indirettamente responsabili per completare l’affermazione dell’ordine neoliberista imputando all’ormai defunto sistema keynesiano le responsabilità del peggioramento delle condizioni materiali. Come sostiene Christian Marazzi, l’«isteria del deficit» e le politiche di austerity hanno fatto del debito – che in tedesco significa anche «colpa» – il «dispositivo antropologico di autodisciplinamento dell’uomo liberale».

Tradotto in termini più prosaici, le politiche anticrisi non solamente non hanno provocato nei governi e nei loro think tanks una critica delle teorie della Scuola di Chicago, ma al contrario hanno rafforzato il framework in materia di (de)regolamentazione del mercato e di maggiore controllo dei corpi. Su questo punto l’autore fa riferimento alle ricerche di Richard Sennet sulla «corrosione dei caratteri» provocata dalla precarietà e alle tesi di Karl Polanyi sulla fine del lavoro salariato come fattore d’identità sociale. Da ultimo, si interroga sull’incapacità delle socialdemocrazie europee di fronteggiare questo sostanziale mutamento della scala sociale dei valori.

Si tratta di un fenomeno di smarrimento iniziato negli anni di Schröder e Blair che ha investito in pieno gli eredi del Pci. Il Pd di Renzi – spiega D’Alessandro – non è un marziano, ma il risultato di un processo di mutazione politica omogeneo alle altre forze europee (si legga in questa chiave in Jobs act, ma anche il disegno di rafforzamento del potere esecutivo). Rimane aperta invece la questione dell’alternativa. Innanzitutto, D’Alessandro valuta positivamente la ripresa di un dibattito su diseguaglianze e povertà: dal Capitale di Piketty alla Laudato Sì di papa Francesco.

La questione della ridefinizione dell’appartenenza sociale, al centro dell’ultimo Gallino, è ancora il nervo scoperto e non risulta sufficiente, a giudizio di chi scrive, ripetere insieme a Iris Young come un mantra che «la classe resta il paradigma centrale dell’insieme di relazioni strutturali della società odierna».

Come del resto riconosce anche l’autore, c’è ancora molto da fare per ridare ai soggetti subalterni una prospettiva politica attorno a cui unirsi, per rilanciare una proposta antiliberista che sia realmente partecipata e quindi concretamente alternativa.

«Un articolo di Raúl Zibechi, zapatista uruguaiano e una presentazione del suo nuovo libro sull’ideologia corrente che "ha dissolto i soggetti, perché nella cosiddetta produzione” semplicemente non ci sono"

». Comune Info, 31 ottobre 2016 (i.b.)

Nella misura in cui l’estrattivismo e i processi politici consolidati in questo modello cominciano a mostrare crepe, per la brusca caduta dei prezzi delle commodities, ci troviamo in condizioni migliori per capire le loro caratteristiche profonde e i limiti delle analisi precedenti. Una di esse, e qui dobbiamo fare autocritica in prima persona, consiste nell’aver guardato in primo luogo al lato ambientale e predatore della natura del modello di conversione dei beni comuni in merci.

Ora possiamo fare un passo avanti, cosa che hanno già fatto gli zapatisti più di un decennio fa, quando hanno definito il modello come «quarta guerra mondiale». L’altro errore importante è stato considerare l’estrattivismo come modello economico, seguendo il concetto di «accumulazione per espropriazione» di David Harvey. Pertanto, all’errore di aver incentrato le critiche – in modo quasi esclusivo – sull’aspetto ambientale, si è aggiunto l’economicismo sofferto da molti di noi che si sono formati con Marx.

Il capitalismo non è un’economia, ma un tipo di società (o formazione sociale), anche se evidentemente esiste un’economia capitalista. Con l’estrattivismo succede qualcosa di simile. Se l’economia capitalista è accumulazione per mezzo di estrazione del plusvalore (riproduzione estesa del capitale), la società capitalista ha prodotto la separazione della sfera economica dalla politica. L’economia estrattiva, di conquista, furto e saccheggio, è appena un aspetto di una «società estrattiva», o «formazione sociale estrattiva», che è la caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio del capitale finanziario.

Al di là dei termini, va sottolineato che viviamo in una società la cui cultura dominante è di appropriazione e furto. Perché insistere sull’esistenza di una cultura estrattivista diversa da quella egemonica, in altri periodi del capitalismo? Perché ci aiuta a capire com’è il mondo nel quale viviamo e le caratteristiche del modello contro il quale ci ribelliamo.

Per capire meglio in cosa consiste quella cultura, sarebbe necessario compararla con la cultura egemonica di periodi precedenti, per esempio durante il predominio dell’industria e dello Stato sviluppista. In quel periodo, i lavoratori manuali dell’industria provavano orgoglio per il loro lavoro e per essere produttori di ricchezza sociale (sebbene di una parte sostanziale di quella ricchezza se ne appropriasse il padrone) . Quell’orgoglio prendeva la forma di coscienza di classe quando si individuavano i propri interessi mediante la resistenza agli sfruttatori.

Non era lo sciocco orgoglio di chi si crede superiore, ma il risultato del posto che gli operai avevano nella società; posto che non avevano ereditato, ma costruito con una lunga e paziente lotta. Tra la metà del XIX secolo e i primi decenni del XX, gli operai – e alle volte le operaie – si sono formati alla luce di una candela dopo estenuanti giornate di 12 ore di lavoro, hanno creato propri spazi di incontro e di svago (centri culturali, teatri, biblioteche, cooperative, sindacato), hanno istituito forme di vita basate sull’aiuto reciproco, hanno creato meraviglie come la Comune di Parigi e la Rivoluzione d’Ottobre, oltre a più di una decina di insurrezioni urbane. Avevano ragioni per nutrire autostima.

Nella vita quotidiana, la cultura operaia ruotava attorno al lavoro, all’austerità per convinzione, al risparmio come norma di vita e alla solidarietà per religione. La tuta da lavoro e il berretto erano segni d’identità con cui giravano per i loro quartieri, perché non volevano vestirsi come i padroni; tutto nelle loro vite, dall’abitazione fino alle loro maniere, li differenziava dagli sfruttatori. Questa cultura aveva tratti oppressivi, come ben sanno le donne e i figli e le figlie degli operai dell’industria. Ma era una cultura propria, basata su una crescita personale autonoma, non nell’imitazione di quelli che stanno in alto.
Questo lungo giro vuole portare a un punto nodale: la cultura operaia poteva connettersi con l’emancipazione. La cultura estrattivista va nel senso opposto. Anche se portava elementi oppressivi, quella cultura conteneva aspetti preziosi, potenzialmente anticapitalisti.

La cultura estrattivista è il risultato del mutamento generato dal neoliberalismo, a cavallo del capitale finanziario. Il lavoro non ha il minimo valore positivo, posto che adesso occupano il saccheggio e le altre facce della medaglia, il consumismo e l’ostentazione. Dove c’era l’orgoglio del fare, oggi la cultura ruota attorno all’esibizione di marche e di mode. Mentre gli operai di un tempo condannavano il furto, per ragioni strettamente etiche, oggi si festeggia l’appropriazione, anche quando la vittima è un vicino, un amico e perfino un familiare.

Certamente, non tutta la società esibisce questo modo di vivere. Ma si tratta di forme che hanno guadagnato terreno in società dove i giovani non hanno un impiego dignitoso né un posto nella società, né la possibilità di formarsi lavorando, né di conseguire una minima ascesa sociale dopo anni di sacrifici. E non hanno nemmeno memoria di quel passato, che è la cosa più deleteria, poiché attenta alla dignità.

L’estrattivismo ha dissolto i soggetti, perché nella cosiddetta “produzione” semplicemente non ci sono. Perfino nella sfera della riproduzione, il sistema si sforza di mercificare tutto, dalle nascite al cibo, scagliandosi contro il ruolo centrale delle donne in questi spazi. Da qui l’importanza delle microresistenze: il tianguis [mercato tradizionale del Messico e del Centro América], il quartiere, i territori popolari, gli spazi collettivi di diverso tipo. Sono le microresistenze che alimentano le grandi ribellioni.

Se è vero che la cultura egemonica sotto l’estrattivismo ostacola i processi emancipatori, l’organizzazione e le resistenze, ci troviamo di fronte all’imperiosa necessità di lavorare nella direzione opposta a quella cultura. Le fondamenta del mondo nuovo sono qui, nella vita quotidiana. Ecco perché l’impegno nei lavori collettivi, in tutte le resistenze. Quei lavori modellano una cultura nuova, che riscatta il meglio della cultura operaia e prova (non sempre) a limitare le oppressioni.

La nuova corsa all’oro. Società estrattiviste e rapina

Il testo è inedito, le 106 pagine includono anche 5 schede di “estrattivismo” italiano le hanno curate i nostri compagni di sempre, il gruppo di Camminar Domandando, in collaborazione con Re:Common, che nella prefazione scrive: “Quest’ultima opera di Raul Zibechi ha un pregio particolare per il pubblico italiano: introdurre un concetto ampio di estrattivismo, proprio nella sua accezione originaria, che dall’America Latina si è allargata a tutto il sud globale.

Ossia quel processo che coinvolge grandi interessi privati, nazionali ed esteri, lo Stato e la finanza nelle sue varie articolazioni, per accaparrare le risorse presenti sui territori contro gli interessi delle comunità locali e dell’ambiente da cui queste dipendono e trovano ancora in gran parte del pianeta il loro sostentamento e modalità di organizzazione della società. […] Con questa prospettiva latino americana possiamo allora rileggere anche ciò che avviene sui nostri territori in Italia, e definire pure la Tav in Val Susa, o le nuove ed inutili autostrade nel Nord e nel Nord-est quali esempi di estrattivismo che impoverisce la gran parte delle persone che vivono su quei territori, trasformandola e subordinandola alla logica dei mercati globali che premia ben pochi – ed i soliti noti.

Investimenti su larga scala, sia quelli minerari, che petroliferi o dell’agro-business, che trasformano interamente i territori nella loro geografia, generando nuove forme di dominazione e nuova apartheid, come Raul Zibechi definisce la dicotomia tra zona dell’essere e quella del non-essere, «cioè di coloro a cui viene sostanzialmente negata la condizione umana».

L’originalità dell’analisi di Zibechi è proprio il mettere l’accento sul fenomeno sistemicodella violenza dei conflitti che l”estrattivismo genera sui territori e la conseguente criminalizzazione del dissenso, la militarizzazione dei territori e la repressione spesso brutale delle voci contrarie quali elementi imprescindibili del modello estrattivista, e non solo eccessi sporadici o danni collaterali. Una repressione fondante della zona del non-essere, che però oggi colpisce anche molti attivisti che operano contro le grandi opere e che vivono nei paesi del Nord globale, quali l’Italia – in quella che è ancora zona dell’essere, per dirla alla Zibechi – i quali cominciano a viverla sulla propria pelle sempre più spesso.

Nota di Comune.info
Il nuovo libro di Rauùl Zibechi, La nuova corsa all’oro. Società estrattiviste e rapina, non sarà in vendita nelle librerie e potrà essere acquistato solo ordinandolo via mail ad Aldo Zanchetta aldozanchetta@gmail.com. Il prezzo è di 7 euro, comprese le spese di spedizione.
Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento, è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo, a cominciare dal Messico, dove Zibechi scrive regolarmente per la Jornada. In Italia ha collaborato per oltre dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi. L’edizione italiana del suo penultimo libro, “Alba di mondi altri” è stata stampata in Italia nel luglio 2015 dalle edizioni Museodei. Molti altri articoli inviati da Zibechi a Comune-info: http://comune-info.net/autori/raul-zibechi/

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«"». La Repubblica

In cammino, con i vestiti sporchi, le scarpe sfondate, quello che rimane della vecchia vita racchiuso in uno zaino. I bambini appesi alle gonne, trascinati per mano, avvolti in vestiti più grandi di loro.

Sono coperti di stracci, sono identici a noi. Luigi Ottani li ha fotografati ad agosto del 2015 sulla strada tra Idomeni in Grecia e la stazione di Gevgelija in Macedonia quando riescono a forzare il blocco e a sfondare la linea di confine.

La polizia raddoppia il filo spinato, usa i bastoni e le granate assordanti, ma loro non si fermano. Seguono i binari, salgono sui treni per la Serbia, raggiungono l’Ungheria e poi gli altri paesi europei. Noi li vediamo arrivare, riempire le stazioni, le strade, le pagine dei giornali senza sapere bene come chiamarli. Rifugiati? O forse stranieri, migranti, extracomunitari, fuggiaschi? Qual è il termine migliore per indicare chi è in fuga sulle strade d’Europa? Esiliati.

Paolo Rumiz scrive che siamo di fronte a «un evento biblico, in apparenza inarrestabile, per capire il quale è più importante leggere l’Esodo o la cacciata degli ebrei da Sefarad che un testo di alta geopolitica».

Ecco spiegato perchè il reportage per parole e immagini che la documentarista Roberta Biagiarelli ha curato per Piemme si chiama Dal libro dell’esodo. Oltre alle foto di Ottani e alle riflessioni di Rumiz, ci sono gli scritti di altri uomini e donne di “confine”: Cécile Kyenge, Michele Nardelli, Carlo Saletti e Ismail Fayad.

Ognuno cerca, secondo le proprie competenze ed esperienze, di mettere a fuoco cosa sta accadendo: «L’Europa non ha paura dell’Isis, ma delle vittime dell’Isis. Non sente i pericoli reali, ma le paranoie», scrive ancora Rumiz. Lui che ha percorso centinaia di chilometri a piedi, dice di avere compreso l’obbligo al cammino e di essere entrato più facilmente nelle scarpe degli esiliati che hanno attraversato i Balcani.

Noi, che crediamo di avere radici, guardando le foto di Ottani riscopriamo la dignità di chi è stato costretto a fuggire dalla Siria, di chi ha dovuto tagliarsi i ponti alle spalle per sopravvivere.

Dal libro dell’Esodo: «Gli esiliati sono consci di esercitare un diritto primordiale: attraversare i territori».

».

Comune.info, 7 ottobre 2016 (c.m.c.)

Todo cambia, cantava l’argentina Mercedes Sosa con la sua inconfondibile voce. E non fa eccezione l’edizione italiana dell’Agenda latinoamericana, opera aconfessionale, ecumenica e macroecumenica ideata da Pedro Casaldáliga e José Maria Vigil nel solco dell’educazione popolare liberatrice dell’America Latina intesa come continente spirituale (www.latinoamericana.org): dopo averla diffusa per dieci anni nel nostro Paese, i curatori italiani (Gruppo America Latina della Comunità di Sant’Angelo, Sal e Adista) hanno infatti deciso di farne un libro – Ecologia integrale. Una radicale riconversione. I testi dell’Agenda Latinoamericana – convinti, a fronte del declino irreversibile che lo strumento dell’agenda cartacea registra nell’era dell’informatica, di potere così più facilmente ed estesamente divulgarne i contenuti (il libro, il cui ricavato andrà in massima parte a sostenere un progetto ecologico in El Salvador, può essere richiesto ad Adista, tel. 06/68801924, e-mail: abbonamenti@adista.it, oppure acquistato online sul sito www.adista.it).

Contenuti mai come quest’anno imperdibili, considerando l’assoluta rilevanza del tema – non una questione tra tante, ma “la” questione, quella da cui tutto dipende -: il tema, per l’appunto, dell’ecologia integrale, un concetto che ha preso piede in particolare grazie alla Laudato si’, l’enciclica di papa Francesco sulla cura della casa comune (a cui non a caso si richiamano molti testi dell’Agenda), centrata sul riconoscimento che la natura non è appena una cornice della nostra vita, in quanto noi siamo parte di essa («noi stessi siamo terra»), di modo che, evidenzia il papa, «non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale», a cui pertanto siamo chiamati a dare risposta tenendo insieme tutte le dimensioni della realtà, «per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri».

Un tema che l’, e dunque il libro da cui è tratto, esplora e approfondisce in tre sezioni distinte – secondo la tradizionale metodologia latinoamericana del vedere, giudicare a agire – introdotte da una sintetica proposta pedagogica, “Invito all’ecologia integrale”, che è un richiamo a «fare nostra questa Causa in misura tanto consapevole e coerente da trasformarla in un quadro di riferimento centrale», in maniera tale che la dimensione ecologica non sia «soltanto una tra le tante della nostra vita, quanto piuttosto il contesto più ampio nel quale si trovano integrate tutte le nostre ulteriori esperienze e preoccupazioni».

E se l’obiettivo dei testi raccolti nel libro, quello di provocare una reale conversione ecologica, non potrebbe essere più ambizioso, è evidente che non rimane più molto tempo: come evidenzia l’équipe dell’Agenda Latinoamericana, siamo ormai a un passo dal punto di non ritorno, quello in cui la temperatura del pianeta raggiungerà «un livello tale da innescare processi che si autoalimenteranno reciprocamente, senza più la possibilità di intervenire su di essi».

E, quel che è peggio, «ci troviamo su un piano inclinato» in cui è praticamente impossibile fermarsi, in quanto «non sarebbe possibile fare a meno, da domani, di colpo, dell’energia fossile, perché resteremmo anche senza elettricità, non sarebbero possibili i trasporti, le fabbriche si paralizzerebbero, comincerebbero a scarseggiare beni di ogni genere, non funzionerebbero gli ospedali… la società collasserebbe». E se frenare con dolcezza è la nostra unica possibilità, per farlo è necessario attuare, da subito, «una colossale riconversione sociopolitica, economica e produttiva della nostra società e una trasformazione radicale del nostro stile di vita».

Di fronte all’immane pericolo che ci sovrasta, non basta, allora, neppure la semplice misura concreta, pur indispensabile, a favore di questo o quell’ecosistema: serve una nuova visione in grado di superare le «smodate ed egocentriche ambizioni di una specie che si è autoproclamata diversa, superiore, padrona della creazione», anziché sentirsi imparentata con tutti gli esseri viventi, membri di un’unica famiglia, di un medesimo corpo vivo, il corpo di Gaia, tutti – dai primi batteri comparsi sulla terra passando per i dinosauri e arrivando fino a noi – fatti degli stessi elementi chimici, della stessa materia vivente. Una specie che ha finito per guardare alla Natura come a un mero deposito di risorse materiali, anziché vederla per quello che realmente è: «la placenta che ci ha generato», il nostro ambito di appartenenza, la Casa Comune da cui ci siamo autoesiliati a un certo punto del nostro passato.

Serve, insomma, un nuovo modo di intendere il mondo, la materia, la vita, e noi stessi come parte di un universo pieno di mistero e di incanto, cogliendone la sacralità – «Tutto è sacro, per chi sa vedere», diceva Teilhard de Chardin – e amandolo come noi stessi/e, giungendo a sentirci cosmo, a sapere che siamo, letteralmente, polvere di stelle. Che, come evidenzia nel suo intervento Manuel Gonzalo, in ciascuno di noi «vi sono atomi che prima sono stati presenti, chissà, nelle montagne, negli invertebrati, nei colibrì, nei dinosauri, negli uccelli che hanno sorvolato i monti, nei pesci che hanno attraversato oceani… e anche in altri umani». Che «siamo il risultato, la somma di conquiste che la Comunità della Vita su questo pianeta è andata faticosamente realizzando nel corso di vari miliardi di anni», secondo la nuova visione, il nuovo racconto sacro, che, grazie all’esplosione scientifica degli ultimi tempi, l’umanità sta ricevendo dalla natura stessa, dal cosmo, dalla sua «forza trasformatrice ed evolutiva finora sconosciuta».

Solo abbracciando questa nuova visione, assumendo la coscienza della dimensione sacra della natura e del nostro carattere pienamente e orgogliosamente naturale, sarà possibile, dopo aver addirittura dato vita a una nuova era geologica, l’Antropocene – caratterizzata proprio dall’impatto senza precedenti dell’azione umana sull’ambiente terrestre, in un sempre più drammatico stravolgimento degli equilibri naturali -, cambiare pagina e avviare una nuova era del pianeta, l’«era ecozoica» (Thomas Berry), in cui la vita umana diventerà un elemento integrante della natura di cui è parte e la dimensione ecologica apparirà come il contesto più ampio nel quale troveranno posto tutte le esperienze e le preoccupazioni degli esseri umani, finalmente «cosmocentrati, con i piedi per terra e le radici nella Vita».

Finalmente consapevoli di non essere i signori della Terra, ma, come sottolinea Roberto Malvezzi, «parte della catena della vita che essa protegge», magari, «qualche volta, la sua coscienza e il suo cuore, ma mai i suoi padroni».

«"Memorie di un intruso" di Bruno Amoroso per Castelvecchi. La militanza politica, il profondo legame con Federico Caffè. La scelta, infine, di insegnare fuori Italia».

Il manifesto, 27 settembre 2016 (c.m.c.)

Aver avuto come padre un famoso regista, un noto scrittore, un autorevole personaggio politico, può costituire un handicap per quel figlio costretto a dimostrare di non essere da meno del suo genitore. Altrettanto impegnativa può essere l’eredità che un padre, come quello di Bruno Amoroso – modesto operaio nella Manifattura Tabacchi, totalmente immerso nella politica del suo tempo con orgoglio e fierezza, mai incline al compromesso, e con un profondo amore per i suoi cari – lascia al proprio figlio. Saprà quest’ultimo essere alla sua altezza? Perché nel frattempo il mondo è cambiato. La purezza che animava (non tutti, certo) i comunisti degli anni del dopoguerra si è dissipata; diventata un ingombro a partire dagli anni Settanta.

Il giovane Bruno (divertente la scena del Commissario di Polizia che, ignaro della sua età – 13 anni –, e, convinto che si tratti di un pericoloso sovversivo, vorrebbe arrestarlo per «sfruttamento di minorenni»), osserva, quasi un presagio, l’emarginazione politica di suo padre troppo rigido e puro per adattarsi al nuovo corso. La mancata epurazione degli ex fascisti collaborazionisti rappresenta la prima e dura prova per Pelino (padre di Bruno) di come le cose siano cambiate. Bruno osserva questa mutazione politica con gli occhi di un figlio, ma presto toccherà anche a lui subire analoga sorte di solitudine politica.

L’esilio volontario

Da qui il titolo apparentemente enigmatico del libro – Memorie di un intruso (Castelvecchi, euro 17,50). Determinante per il giovane economista Amoroso sarà l’incontro col suo Maestro Federico Caffè. Tra i due nasce un sodalizio importante per entrambi (la storia di questo rapporto è scritta in un altro libro dell’Autore: La stanza Rossa. Riflessioni scandinave di Federico Caffè, rieditato da Castelvecchi, 2012), che durerà fino alla sua scomparsa. Caffè intuisce la radicalità che anima il giovane Bruno e proprio per questo approva la sua decisione (siamo in pieno Sessantotto e Bruno è esposto alla rappresaglia della polizia insieme a tanti altri) di andare fuori dall’Italia.

Così inizia la lunga storia dell’intruso che espatria in Danimarca dove – dopo aver svolto lavori come lavapiatti assistente, portiere, cassiere – approda, con una lettera di presentazione di Caffè, all’Università di Roskilde, dove, qualche anno dopo, fonderà il Centro Studi Federico Caffè, punto di riferimento di studi economici internazionali dapprima sulle socialdemocrazie dei paesi nordici (Rapporto dalla Scandinavia, Laterza, 1980) e, poi, di analisi, ricerche e studi sulla globalizzazione (Della Globalizzazione, Meridiana, 1996)

I rapporti con Caffè non si perdono, anzi si rafforzano: Federico Caffè, negli anni precedenti la sua misteriosa scomparsa, si recherà più volte a Copenaghen nella casa di Bruno. Tra i tanti che si sono vantati di essere stati allievi di Caffè, Bruno è quello che gli è stato più prossimo, sia nelle teorie economiche, sia negli affetti.

Fuori dal gretto provincialismo italiano, Bruno studia e analizza il declino delle socialdemocrazie europee dei paesi scandinavi. Anni dopo, insieme a Riccardo Petrella darà vita alla facoltà della Mondialità del Bene Comune (Per il bene comune, Diabasis), poi alla campagna «Dichiariamo illegale la povertà».

Il libro si presta a severe riflessioni sulla lunga parabola discendente della sinistra; ne descrive i passaggi attraverso l’esperienza personale di esilio, ne osserva la mutazione molecolare che a poco a poco dilaga tra i suoi dirigenti e militanti. Amoroso appartiene, e ne è giustamente fiero, a quella piccola pattuglia di intrusi che mai «capirono» il compromesso al ribasso, avendo come unico riferimento le sofferenze dei più deboli. Amoroso mi raccontò una volta un aneddoto che aveva sentito da Federico Caffè. Si recava all’università prendendo i mezzi pubblici, e così, facendo tesoro della sua bassa statura, gli confessò che durante quei viaggi riusciva a vedere cose che altri non vedevano. Bruno, suo illustre discepolo ed erede intellettuale, ha continuato a farlo, fuori dal coro dell’economia mainstream.

Nel disincanto del «tradimento», restano, al fine, le amicizie, quegli incontri che lasciano il segno per una vita, l’amore per le piccole cose, una curiosità intellettuale mai sopita, il sogno di comunità fatte di persone in carne ed ossa con le loro passioni e le loro sofferenze (Persone e comunità, Dedalo).

Una vita di ricordi

In una recente lettera scritta dalla Danimarca, così Amoroso parla del suo libro: «È la storia della mia vita che inizia negli anni Trenta e si conclude ora con la mia decisione di mettere un punto finale al racconto. Non è un libro di Storia, ma la storia vista e vissuta attraverso i miei ricordi, esperienze, in ogni sua fase: dai ricordi di guerra e dell’infanzia; da chierichetto a giovane comunista, all’esplosione delle nuove amicizie, la scoperta delle mie radici, gli anni della speranza nel partito e nel sindacato, la mia nuova comunità negli anni Sessanta, e le sconfitte politiche e personali con la nascita del riformismo. Poi la ricerca di altri percorsi di vita possibili con la partenza per Copenaghen.

Ricomincio d’accapo, momenti di dialogo e di passione, l’America e il Vietnam. Fine di un’esperienza: quei sacchi di sabbia vicino alla finestra. Se ne parlava solo tra amici e fu così che si cementò l’amicizia e l’affetto con Federico Caffè, Pietro Barcellona e pochi altri. Un testo, il mio, costruito lungo il percorso degli affetti di una vita, e nel quale aleggia l’interrogativo: dove e quando abbiamo sbagliato e cerco di darmi delle risposte. Un altro mondo è possibile? Si certo, quello trionfante della barbarie al quale possiamo opporre solo: not in my name!»

». La

Repubblica, 26 settembre 2016 (c.m.c.)

«Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti, o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale ». Le parole cristalline dei Quaderni del carcere di Gramsci (rese attualissime dall’assurda volontà di stravolgere definitivamente il liceo classico) sarebbero una perfetta epigrafe per il Canto della libertà di Sandra Bonsanti: un libro pieno di grazia, animato da una vivissima passione per quella civiltà, e dal desiderio di tramandarla ad una nuova generazione - quella dei nipoti dell’autrice, a cui il libro è dedicato.

L’invenzione è semplice: in una piccola libreria indipendente (che ricorda la meravigliosa Todo Modo di Firenze), un vecchio professore tiene un ciclo di dieci lezioni su “Saffo e la scoperta della libertà nell’antica Grecia”. Così, per dieci capitoli, il filo narrativo intreccia la lettura e il commento dei testi greci (Saffo, ma anche il sesto libro dell’Iliade, Pindaro, Tucidide, il Platone del Fedro e altri ancora) con i ricordi della generazione del professore (quella che frequentava l’università tra il 1943 e il 1945: e giganteggia, tra i maestri, la figura di Concetto Marchesi), e infine con le aspirazioni e gli smarrimenti dei suoi giovani uditori.

Così, tutte le generazioni del Novecento si stagliano, e in qualche modo si misurano, sulla pietra di paragone del pensiero classico: in un esercizio che è una messa in prospettiva e, insieme, una verifica dei valori.

Con l’understatement che segna ogni pagina del libro, Sandra Bonsanti si schermisce: «Ho scritto una favola. Soltanto una favola, e se dovesse capitare tra le mani di uno studioso vero, chiedo venia». Ma il Canto della libertà è importante proprio perché l’autrice non è un’addetta ai lavori: il giorno in cui Saffo e Omero saranno letti solo dai filologi classici, allora saranno morti davvero.

D’altra parte, questa sete di parole e pensieri nati e affinati nella Grecia antica non si traduce in un’attualizzazione ingenua: l’intreccio con le vite e gli studi dei filologi, degli storici e dei poeti moderni (da Pascoli a Quasimodo) ricorda ad ogni passo l’importanza dell’esattezza, esalta il ruolo della ricerca, mostra la densità di una tradizione che è, letteralmente, il passar di mano di un’eredità che ci fa umani, e ci fa cittadini.

Al centro di questa eredità c’è il nodo tra libertà e democrazia: «Quand’è che l’una insidia l’altra?». In molti ammiriamo la forza con cui Sandra Bonsanti ha preso, e prende, la parola nel discorso pubblico italiano per denunciare le infedeltà del potere: ma invano si cercherebbero in questo testo accenni espliciti all’avventurismo berlusconiano, alla renziana democrazia d’investitura o alle ragioni del no alla riforma costituzionale.

Qua si va oltre, alle radici profonde di tutte queste battaglie: radici coltivate in famiglia («Mio padre mi raccontava di aver pubblicato le prime poesie di Quasimodo, del giovane siciliano che gliele gettava quasi al volo dal treno su cui viaggiava verso Milano, alla stazione di Firenze»), cresciute attraverso l’unione con Giovanni Ferrara, «che mi raccontò la vita sua e degli studenti del primo anno di letteratura greca, e che descrisse il vagabondare notturno di quei giovani appena usciti dai giorni della dittatura».

Ecco: era venuto il tempo di restituire tutto questo ai più giovani, e Sandra Bonsanti lo ha fatto - mirabilmente - attraverso una favola. Ma non di quelle che si raccontano per addormentare: al contrario, per tenere gli occhi bene aperti, perché non scenda la notte su una democrazia fragile.

va la Revolución, Il secolo delle utopie in America latina".

il manifesto, 26 settembre 2016

All’America latina nel suo insieme si può estendere ciò che Porfirio Díaz usava dire del suo paese: «Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti». A partire dal secondo dopoguerra, e soprattutto dopo la rivoluzione cubana del 1959, l’America del sud è diventata agli occhi del mondo l’antitesi di un capitalismo, quello statunitense, prossimo e prepotente, la culla della rivoluzione possibile. Il fascino esercitato da questa prospettiva sull’opinione pubblica europea, e in particolare sugli intellettuali, è stato, come si sa, straordinario: mentre le classi operaie del vecchio continente abbandonavano via via l’utopia rivoluzionaria, le masse dei lavoratori dei paesi del Terzo mondo, e quelle sudamericane in particolare, si trasformavano, nell’immaginario ancor prima che nella realtà, in alfieri della rivoluzione mondiale.

Di questa potente, persistente fascinazione, il nuovo libro – uscito postumo – di Eric Hobsbawm, Viva la Revolución Il secolo delle utopie in America latina (Rizzoli, pp. 443, 25,00) è una testimonianza importante, e in certi punti toccante. Vi si raccolgono gli scritti sul continente sudamericano composti nell’arco di un quarantennio dal famoso storico marxista britannico, scomparso nel 2012 e autore di testi cruciali, che hanno fatto scuola: dai celebrati studi su I ribelli (del 1966) e I banditi (del 1971), al notissimo lavoro di sintesi sul Novecento: Il secolo breve (del 1995).

In questo caso, gli scritti raccolti non sono saggi di storia ma piuttosto interventi d’occasione, riflessioni di taglio politico e civile, che ci parlano – letti oggi – più di Hobsbawm, delle sue percezioni, dei suoi entusiasmi e delle sue idiosincrasie, che dell’America latina; e più del viaggiatore appassionato, analista impegnato e intellettuale marxista, che dello storico.

Prima di morire, fu lui stesso a concepire questa silloge, curata da Leslie Bethell, reputato specialista di storia sudamericana, ma soprattutto suo amico personale. Scorrendo i saggi si capisce bene il senso della raccolta. Per Hobsbawm l’America Latina è stata due cose insieme, e tutt’e due importanti: da un lato questo continente sterminato e così variegato ha costituito una specie di realtà controfattuale sulla quale misurare la capacità di comprendere un mondo solo apparentemente simile ma in sostanza assai diverso; dall’altro essa ha rappresentato per lui il luogo dove ricostruzione storica e analisi politica si toccano e si intrecciano: mescolando la irrinunciabile speranza della rivoluzione alla sua scarsa probabilità concreta.

In entrambi i casi la posta in gioco non è piccola, essendo in questione la capacità della storia – e soprattutto di quella branca di storia sociale dal basso che Hobsbawm praticava e prediligeva – di spiegare il mondo.

Lo storico inglese non nasconde affatto le difficoltà di capire l’America Latina e anzi afferma con decisione che nulla è più sbagliato che seguire gli schemi usati (e abusati) dell’analisi storico-sociale e politologica europea. La sfida intellettuale è però difficile: come interpretare, ad esempio, quel che è accaduto in Bolivia nel 1952 vale a dire la presa del potere da parte di una coalizione eterogenea (il Movimento Nazionale Rivoluzionario) di nazionalisti, trozkisti e simpatizzanti del nazismo ma capace di nazionalizzare le miniere, redistribuire le terre, attuare la riforma educativa e dare diritti civili agli Indios?; o capire come mai la Colombia, un paese che detiene il record sudamericano di vita parlamentare, sia stato al contempo tormentato dal 1948 al 1958 dal più efferato ed endemico scontro armato di massa dell’emisfero occidentale, noto come il periodo della violencia?

Oppure, come spiegare perché il comunismo tanto nella variante ortodossa sovietica quanto in quella maoista non abbia mai veramente attecchito in America Latina se non in frange radicali (neppure i membri del movimento cubano del 26 luglio, i cosiddetti barbudos della Sierra Maestra, erano in origine comunisti, lo sarebbero diventati poi); e soprattutto come leggere le forme della protesta e della lotta sociale, ancorate al populismo, fenomeno che Hobsbawm descrive come una sorta di rivolta del povero contro il ricco, sostenuta equanimemente da intellettuali di sinistra e da militari nazionalisti, e dominata da leader carismatici.

La spiegazione che viene abbozzata suona così: mentre in Asia e Africa il comunismo è stato anche il linguaggio della decolonizzazione, in America Latina i precoci movimenti di indipendenza primo-ottocenteschi sono stati sostenuti da esigue frange semi-urbanizzate, e hanno lasciato immense masse rurali al di fuori della politica e, in sostanza, della storia. Solo nel secondo dopoguerra i poveri e gli oppressi si sono «risvegliati», ma inventando forme peculiari di mobilitazione che vanno capite dall’interno, in profondità, e non attraverso schemi tradizionali.

Di questo scarto tra realtà sudamericane e percezioni europee la figura di Ernesto «Che» Guevara è emblematica. La sua leggenda, scrive Hobsbawm, ha trasfigurato la natura del suo impegno politico, facendone un eroe romantico e anzi byroniano, per cui si può dire che Camiri (la città boliviana dove fu ucciso) è «la Missolungi degli anni sessanta». Hobsbawm cerca di sovvertire questa immagine mostrando il percorso di vita che fece di Guevara un bolscevico, e perciò duro, disciplinato, antiretorico. Non è solo un errore di percezione l’aver scambiato per antinomista e libertario un uomo interamente dedito alla rivoluzione. Hobsbawn non nasconde infatti la sua avversione verso la teoria del foco, promossa da Guevara e teorizzata da Regis Debray, l’illusione volontaristica di una rivoluzione importata dall’esterno, senza vere base sociali, a partire da piccoli gruppi di guerriglieri insediati sulle montagne e in zone frontaliere.

destinata perciò alla sconfitta.

Emerge qui la diffidenza di Hobsbawm verso soluzioni tutte politiche e viceversa l’insistenza nel tentare di trovare una chiave sociale per spiegare i peculiari stili ideologici latino-americani, quelle «strane» forme di lotta politica che vi si manifestano. Per questo gran parte del libro è dedicato all’analisi delle masse contadine e al periodo degli anni cinquanta/sessanta più che a quello degli anni settanta/ottanta: perché il territorio privilegiato della sua osservazione, dove egli ha più insistentemente cercato le chiavi di spiegazione della realtà, è il mondo delle campagne, cui sono dedicate le sue più corpose riflessioni: su haciendas, condizioni di lavoro, contratti e così via. Il che porta a un curioso contrasto tra quello che si può leggere nei suoi articoli del tempo e la parte dedicata all’America Latina nella sua autobiografia (Anni interessanti), attenta ai rapidi processi di trasformazione della società sudamericana, come ad esempio il terribile contrasto tra l’enorme povertà di Recife e il moltiplicarsi dei grattacieli di San Paolo, oppure l’affollarsi nelle periferie urbane di masse di diseredati che comprano a rate i jeans e le magliette.

Sicché viene da chiedersi se non si possa, oggi, avere sull’America Latina uno sguardo ancora diverso, che scorga in fenomeni come il populismo non la stigmate di una storia eccentrica ma qualcosa da ripensare sulla base di certe tendenze dell’occidente contemporaneo, europeo e nord americano, in una varietà che va dalla retorica di soggetti come Donald Trump (o per restare in Italia come Berlusconi o Grillo) alle forme nuove, diverse e «trasversali» di aggregazione sociale e di mobilitazione politica.

Non lo si sarebbe potuto pretendere da Hobsbawm, storico a tutto tondo del Novecento, ma soprattutto storico novecentesco, stretto tra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della intelligenza: Bethell racconta nella introduzione di essere andato a trovarlo, nell’ottobre del 2002, nella sua casa londinese, a Hampstead, per festeggiare la vittoria elettorale di Lula. Dopo aver stappato lo champagne e brindato, Hobsbawm sussurrò: «e adesso suppongo che aspettiamo ancora una volta di restare delusi».

«Il nuovo saggio della filosofa femminista Judith Butler affronta l’irrompere dei movimenti sociali e del genere nel campo perimetrato dello stato nazionale. Ma ne rimuove l’irriducibilità alla teoria democratica del pluralismo e della rappresentanza».

Il manifesto, 31 agosto 2016

A ispirare l’ultimo lavoro della filosofa femminista Judith Butler – Notes toward a Performative Theory of Assembly (Harvard University Press, 2015) – sono i movimenti sociali che hanno attraversato le strade e le piazze del globo negli ultimi dieci anni. Le grandi manifestazioni dei migranti latinos negli Stati Uniti, Occupy Wall Street, gli Indignados, le «Primavere arabe» e Black Lives Matter pongono per lei domande fondamentali sulla democrazia. Questa non è semplicemente intesa come una forma di governo, ma è pensata nel campo di tensione tra la sovranità popolare e quella rappresentativa, tra le dinamiche del riconoscimento e una battaglia etica per estendere i confini della «riconoscibilità».

I protagonisti di questa battaglia sono soggetti «precari» che non godono della protezione del diritto né di sostegno economico e sociale da parte delle istituzioni e che, nonostante tutto, non sono ridotti alla paralisi politica della «nuda vita». Al contrario il loro assembramento nello spazio pubblico costituisce per Butler un momento capace di trasformare lo stato di cose esistente ponendo in questione le norme e le gerarchie che lo costituiscono. Butler stabilisce così un nesso tra la lotta contro la precarietà e la democrazia che sembra rispondere all’esigenza di pensare una politica di massa al di là dei confini dello Stato. Eppure, a ben guardare, la sua performance è ancora legata a una logica tutta moderna, che fa dello Stato l’autorità incaricata di sancire ogni trasformazione e dà per scontata la sua capacità di garantire una continua inclusione, persino all’interno delle coordinate globali che hanno drasticamente modificato il suo spazio d’azione.

Dentro e fuori la legge

La teoria approssimata in queste pagine attinge a quella della performatività di genere che attraversa la vasta produzione di Butler. Se il genere è l’effetto di una combinazione di poteri discorsivi e istituzionali che si impongono normativamente attraverso la ripetizione nel tempo da parte dei soggetti, l’iterazione di comportamenti difformi rispetto alle norme di genere è capace di alterarne la presa coercitiva. La performance è quel momento paradossale in cui l’atto di riproduzione di una norma è al contempo una deviazione dalla norma e una forma di resistenza. In quanto è sempre una negoziazione di potere, la riproduzione del genere esprime una tensione a estendere i confini dell’umano creando le condizioni affinché anche coloro che non sono conformi alla norma possano essere riconoscibili e apparire liberamente negli spazi pubblici e privati. Proprio perché investe le condizioni della «riconoscibilità» dei soggetti, la performatività di genere è legata alla precarietà.

Questa è la situazione di quanti sono esposti alla fame o alla morte violenta, alla violenza dello Stato o a quella che il diritto non può evitare o correggere. La precarietà non è semplicemente una condizione di lavoro, ma può riguardare anche il lavoro. Essa non coincide con la vulnerabilità – che indica la dipendenza costitutiva, per quanto storicamente definita, del soggetto dagli altri e dall’ambiente – ma è «indotta politicamente», è l’effetto di una distribuzione iniqua delle condizioni sociali, economiche e politiche necessarie a esistere e persistere. Come la performance di genere riformula o rompe le condizioni dell’«apparizione», così coloro che non sono riconosciuti perché non sono contemplati come soggetti all’interno di una specifica concezione normativa dell’umano diventano riconoscibili l’uno per l’altra incontrandosi nell’assemblea.

Le norme che regolano l’apparizione nella sfera pubblica e la loro rottura – come quella praticata dai migranti messicani che a milioni nel 2006 hanno manifestato negli Stati Uniti, sfidando l’invisibilità imposta loro dallo status di clandestini – diventano quindi il centro della riflessione di Butler: l’apparizione diviene performance nel momento in cui nessuna legge la tutela e la garantisce.

In questo quadro, lo spazio pubblico è per Butler il significante delle norme e gerarchie che organizzano la vita. Ciò che rileva in questo spazio non è tanto la parola, ovvero le rivendicazioni esplicitamente avanzate dalla collettività che scende in strada, ma il fatto che una pluralità di corpi si riunisca alla luce di una comune condizione di precarietà per contestarla.

L’organizzazione della «persistenza» dei corpi nello spazio pubblico – esemplificata dalla costruzione di dormitori e cucine da campo che hanno permesso ai manifestanti di rimanere in piazza Tarhir o a disoccupati e sfrattati di partecipare alle mobilitazioni degli Indignados – è una contestazione performativa del confine tra pubblico e privato, della divisione sessuale del lavoro, così come un’esposizione delle condizioni economiche e sociali che sono necessarie alla vita, che non sono riconosciute dalle istituzioni e che dovrebbero esserlo. Affermare che vi sia politica prima della parola significa criticare l’idea – che Butler discute attraverso Hannah Arendt – che la sfera della libertà cominci là dove termina quella della necessità.

Questa concezione non solo nasconde il lavoro riproduttivo, connotato sessualmente e razzialmente, necessario per consentire ad alcuni di liberarsi dal bisogno e prendere parola, ma anche disconosce la centralità del corpo come nucleo politico. Le rivendicazioni fatte in nome del corpo (protezione dalla violenza, servizi, nutrimento, mobilità, libertà di espressione) sono invece il presupposto e il segno di una prospettiva etica che pensa ogni soggetto nella sua relazione vitale e costitutiva con gli altri, con l’ambiente e con le tecnologie. La vulnerabilità, in questo senso, non è il nome di un’insuperabile debolezza, non è un principio di vittimizzazione, non coincide con l’inerzia della «nuda vita». Essa al contrario è il principio etico che consente un’azione collettiva che riconosce la dipendenza di ciascuno dagli altri e dal mondo e di contestare la precarietà rivendicando l’uguaglianza necessaria affinché ciascuno viva una vita buona.

La politica dei corpi prima della politica della parola permette a Butler di proporre un’idea dell’obbligazione etica fondata sulla precarietà. Questa è la condizione che ci lega oggettivamente a coloro con cui siamo riuniti in assemblea – che neppure conosciamo o con i quali potremmo anche essere in conflitto – o a tutti quelli che con noi abitano la terra, ma che non abbiamo scelto. L’obbligazione etica deriva dal riconoscimento dell’eterogeneità della popolazione terrestre con cui siamo in una relazione costitutiva, una relazione che ci impone di salvaguardare l’uguale diritto ad abitare la terra al di là delle differenze nazionali, razziali, religiose o di cittadinanza. Dalla coabitazione non scelta deriverebbe, in altri termini, una rivendicazione universalistica che prescrive istituzioni per le quali nessuna parte della popolazione possa essere «socialmente morta». Ciò impone inevitabilmente di criticare lo Stato-nazione, perché il nazionalismo si configura come ordine discorsivo fondato su «esclusioni costitutive», ma non conduce a una comprensione delle dinamiche transnazionali che oggi condizionano l’azione dello Stato o delle istituzioni che sarebbero chiamate a garantire il riconoscimento.

Così, mentre contesta la precarizzazione prodotta dalle «istituzioni governamentali ed economiche» e auspica istituzioni a venire che siano realmente capaci di inclusione, Butler tratta la precarizzazione come una sorta di «errore» contingente, che può sempre essere corretto attraverso la spinta performativa dei movimenti sociali. Proprio in quanto le condizioni della sua azione non sono sottoposte a scrutinio, lo Stato resta la controparte unica, necessaria e privilegiata dei movimenti sociali e la sua capacità di inclusione – quanto meno in crisi sotto la spinta del capitale globale – è semplicemente data per scontata.

La performance dei movimenti si risolve così per Butler in una funzione interna all’ordine sovrano. Questo può modificarsi e allargare i confini dell’inclusione, ma la logica del riconoscimento impone in ogni caso la necessità di un’autorità capace di metterlo in pratica. Per lei non sembra rilevante che il riconoscimento reciproco come uguali che ha, o dovrebbe avere luogo tra gli uomini e le donne che vivono la stessa condizione possa esprimersi in un rapporto con l’autorità caratterizzato anche dall’antagonismo anche radicale. Sebbene non pensi il «popolo» come figura identitaria ma come significante di una lotta costante per l’inclusione e come espressione della pluralità dei corpi che si assembrano pubblicamente, Butler propone un discorso tutto moderno sulla legittimazione democratica del potere costituito riducendo la performance a un momento, necessario benché problematico, della sua riproduzione.

La gabbia dell’universalismo

In questo ordine del discorso non trovano spazio la complessità e le contraddizioni che i movimenti sociali portano con sé. Per Butler non è rilevante la loro critica al capitalismo, alla politica e alla sua rappresentazione statale, né la possibilità che l’oggettiva e occasionale convergenza dei corpi si traduca in un progetto politico condiviso. Dare spazio al discorso dei movimenti sociali, d’altra parte, significherebbe farsi carico di tensioni che non sono facilmente riducibili al combinato di universalismo e pluralismo cui rimanda l’etica della precarietà. Dopo tutto, mentre mettevano in discussione la divisione sessuale del lavoro nelle cucine da campo, alcuni degli uomini di piazza Tarhir hanno cercato di impedire alle donne, anche attraverso la violenza, di prendere parte alla sollevazione. A Zuccotti Park, a Plaza del Sol, a Place de la République, all’interno di ogni movimento che abbia lottato e continui a lottare per l’uguaglianza, può affermarsi una considerazione patriarcale della libertà e del corpo delle donne.

Dare voce a queste contraddizioni senza affogarle nel pluralismo democratico è la sfida che ha di fronte ogni discorso che abbia la pretesa di essere espansivo, ovvero praticabile da chi, assembrandosi in massa, rifiuta la propria precarietà.


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«Il manifesto,


Carlo Crosato, Dal laicismo alla laicità. La via dell’inclusione dialogica: possibilità e criticità, Armando editore, Roma 2016, 12,00€

Affrontare l’idea di un dialogo incentrato sul rispetto dell’uomo e del suo intimo logos, o la cura meticolosa verso le molteplici istanze sollevate da singoli e gruppi all’interno di un orizzonte democratico, sono temi disossati certo da diversa letteratura. Carlo Crosato ha tuttavia il merito scientifico di aver approfondito con chiarezza di stile e di contenuto il tema elusivo della laicità e di aver rispolverato un importante scambio epistolare avvenuto tra due filosofi di ascendenza gentiliana come Guido Calogero e Ugo Spirito.

Nel suo ultimo libro dal titolo Dal laicismo alla laicità. La via dell’inclusione dialogica: possibilità e criticità (Armando Ed., pp. 143, euro 12), Crosato prende subito di mira il laicismo di Paolo Flores d’Arcais, «colpevole» di aver estromesso «Dio» dal dibattito pubblico e di aver irrigidito i luoghi democratici a causa di una fede scambiata per ragionevolezza.

Il culto del metodo scientifico, l’evidenza dei fatti e il fazioso ateismo non divergono da una qualunque «dottrina comprensiva». Il laicismo consiglia di interiorizzare la trascendenza e custodisce i minimi principi repubblicani con una politica culturale dai toni asettici. La laicità, quale fondamento della democrazia, accetta l’ipotesi relativista ma boccia il nichilismo di chi non sente l’urgenza di capire l’altro.

Incoraggiato dalla lezione liberalsocialista di Calogero, l’autore propone di retrocedere, cioè di «sospendere» la nostra libertà affinché altri possano esplicitare la propria presenza. La combinazione tra il «bene pubblico» e il «bene comune», tra la struttura imparziale del modello costituzionale e la giustizia sostanziale a suo parere costituisce il vero traguardo degli eredi di Socrate.

La laicità si rivela l’unico metodo che consente di entrare in confidenza con le «differenze» e di denunciare il muro delle «diversità». La scuola pubblica ha il nobile compito di perfezionare questa distinzione e di normalizzare la funzione dialogica. L’«agire comunicativo» e il richiamo al «tu» promuovono l’incontro delle libere voci e rimproverano il falso cosmopolitismo manovrato dalla lex mercatoria.

La sospettosa ignoranza del laicista, che insegue la razionalità a tutti i costi, può essere sconfitta dalla pazienza e dal coraggio dell’inclusione. E la soluzione di Spirito, aggiunge Crosato, non è sufficiente in quanto richiede, ai fini di un’autentica relazione dialogica, un tasso elevato di competenza che produce l’ennesima azione dogmatica.

La democrazia, lievitata dal messaggio laico e dal ritmo dialettico, ignora l’ultima parola nelle decisioni singole o collettive e presta attenzione al paradosso dell’uomo. L’individuo oscilla infatti tra la dimensione universale e quella particolare: l’assenza dell’universale esalta lo scontro tra noiosi «monopolisti della fede» e innesca un meccanismo di autoreferenzialità; l’assenza del particolare anticipa il fenomeno della ghettizzazione e tradisce il sano pluralismo.

«r». Il manifesto, 19 luglio 2016 (c.m.c.)

Pierluigi Ciocca è conosciuto e apprezzato autore di testi di economia politica, ma questo suo recentissimo (Aragno Editore, pp.235, euro 20) è di straordinario interesse culturale. L’economia (una volta si diceva sempre: "economia politica"), con l’attuale processo di specializzazione e destoricizzazione adesso è solo scienza economica, accuratamente separata da tutto ciò che sta ai suoi confini: storia, filosofia, letteratura, etc.

Viene da dire che intorno ai suoi confini si sono costruiti muri, che l’attuale lavoro di Ciocca demolisce, mettendo in luce il fertile rapporto dell’economia con il resto del sapere umano. Un attento lavoro culturale che si svolge nei dieci capitoli del libro: capitoli che sono acuti saggi, dal primo sulla storia, che si intitola, appunto, «Clio nella teoria economica» a quello finale «Romanzo ed economia: il Novecento italiano». Ai confini dell’economia il terreno è assai fertile. E così il nostro Ciocca si occupa anche di letteratura, ma sempre come economista: non divaga in vacanze letterarie, anche negli approfonditi saggi su Machiavelli e sul romanzo italiano del Novecento.

Nella prefazione Ciocca sintetizza le ragioni di questa ricerca da economista oltre i classici confini dell’economia. Scrive: «Si diceva un tempo economia politica. L’aggettivo alludeva all’inscindibilità dell’analisi e della proposta in materia economica dal resto del sociale, della polis; condizionato dall’economia, condizionante l’economia». Questa interpretazione scrive Ciocca «non è mai stata interamente smarrita, ma dagli anni Settanta del Novecento abbiamo assistito a una evoluzione, se non a una involuzione. In particolare nel lavoro teorico, la maggior parte degli economisti ha scisso quel reciproco nesso. L’economia politica è divenuta sempre più economia senza aggettivi».

«La disciplina – conclude Ciocca – da economia politica è scaduta in prasseologia». Questa tendenza – specie con il marginalismo – ha prodotto inaridimento e sterilità della scienza economica. Di questo ci si è resi conto in tempi relativamente recenti, direi dopo la seconda guerra mondiale, e c’è stato un ritorno allo studio delle terre di confine, che – precisa Ciocca – «un economista può studiare da economista, senza rinunciare agli strumenti dell’economista». Vogliono, questi scritti, nei loro limiti, essere un elogio della interdisciplinarità, prudente e criticamente avvertita. Insomma evitare di passare da una sterile separazione a una pasticciata mescolanza.

La fertilità di questi studi «ai confini dell’economia» è documentata dai dieci saggi che seguono la breve ed essenziale prefazione. Ho già segnalato i saggi su Machiavelli e i romanzi del Novecento (sui quali a mio parere si potrebbe ancora sviluppare il discorso), ma aggiungo quelli sul brigantaggio nel Mezzogiorno e l’IRI. Insomma dobbiamo seriamente ringraziare Pierluigi Ciocca per questo ragionato invito ad andare oltre i confini dell’economia ed entrare nella politica.

Aggiungerei, ma solo a titolo personale, che oggi anche la politica, che si e’ ridotta a politica politicante, dovrebbe andare oltre i ristretti e limitanti confini attuali. Una politica che non ha obiettivi di lungo periodo, che non alimenta speranze nell’animo e nella mente dei cittadini è, tornando a citare Ciocca, disarmante prasseologia. Insomma anche i politici farebbero bene a leggersi questo libro.

«"». Il manifesto, 9 luglio 2016 (c.m.c.)

«Non ti preoccupare, mi riconoscerai, ho i capelli lunghi e sono vestito da rom». Santino Spinelli è un rom particolare, ha conseguito due lauree, insegna all’università – Trieste, ora Chieti, in futuro forse Milano – e contemporaneamente è un musicista, in arte Alexian, che ha suonato per tre papi diversi e due volte solo per «Francesco», come chiama papa Bergoglio. È figlio e nipote di rom abruzzesi deportati durante i rastrellamenti e gli internamenti fascisti, una sua poesia è inserita nel monumento che a Berlino onora la memoria dello sterminio nazista di sinti e rom.

Pantaloni neri, maglietta nera, giacca bianca, una catena pesante in oro da cui pende un pesce snodabile, Santino Spinelli sbarca nell’afa della stazione dei pullman della Tiburtina con una enorme valigia rossa piena di libri: il suo ultimo lavoro che va a presentare, Rom questi sconosciuti, storia, lingua, arte e cultura e tutto ciò che non sapete di un popolo millenario, 553 pagine bibliografia inclusa, Mimesis, euro 25).

«In effetti – quasi si giustifica Spinelli – è una mini enciclopedia, raccoglie le ricerche di una vita, ma soprattutto cerca di colmare un enorme vuoto di conoscenza, i rom sono il popolo più sconosciuto d’Europa, cosa si sa della sua cultura? del suo teatro, della poesia rom. Non c’è una sola parola presa in prestito dal romanès in italiano». Come se cinque secoli e più di convivenza sulla stessa terra, tra guerre e invasioni, fossero stati cancellati. Deliberatamente e puntigliosamente.

La rappresentazione del popolo romanò – guai usare l’eteronimo «zingaro» portatore dello stigma sociale, appunto – è stato ed è tuttora appiattito dentro uno stereotipo – di brutto, sporco e cattivo – che lo ha fatto diventare la minoranza etnico-linguistica più odiata e misconosciuta, in Italia in modo particolare, come documenta uno studio recente del Pew Research Center.
Tutta l’attività trentennale di Santino Spinelli, gli studi storici, linguistici, antropologici e di musicologia, sono volti a sfatare quello che chiama «uno sguardo strabico» prevalente.

Chi ricorda, per esempio, che Gilda la Rossa, alias Rita Hayworth, in realtà era mora e di una famiglia di calé spagnoli famosi ballerini di flamenco? O Elvis Presley, sangue-misto sinto tedesco e romanichal irlandese, e Charlie Chaplin, mezzo ebreo e mezzo rom?

Per arrivare ai giorni nostri basti pensare allo scrittore Mikey Walsh, i calciatori Eric Cantona e Zlatan Ibrahimovic, l’attrice Hellen Mirren, o Bob Hoskins: tutti con origini rom, come moltissimi altri personaggi meno noti nella carrellata contenuta nel libro, pugili, cantanti pop o rap, attori e sceneggiatori anche di serie tv e naturalmente jazzisti, a cominciare dal capostipite Django Reinhardt.

«Le cronache storiche hanno sempre privilegiato la narrazione della devianza rom – dice Spinelli – ma in ogni epoca, e l’ho anche documentato, ci sono state figure eccellenti, che hanno offerto al mondo un grande contributo nel campo dell’arte, creatività e in quello delle varie competenze. Esiste un rom pure alla Nasa. Ma nessuno ne parla e questo contribuisce alla perdita di senso di sé e di memoria da parte della popolazione romanì, anche dei più integrati».

È fondamentale sapere che dei circa centosettantamila rom e sinti presenti in Italia – la terza minoranza riconosciuta dopo sardi e friulani – l’ottanta per cento sono cittadini italiani e risiedono stabilmente in abitazioni mentre solo il tredici per cento è relegato nei «campi nomadi» più o meno istituzionalizzati e la restante parte vaga sotto cavalcavia autostradali, sul greto dei fiumi o lungo le ferrovie dismesse.

«I rom non sono nomadi e non lo sono mai stati come tratto dipendente da loro, culturale», va ripetendo in giro Spinelli, che sull’argomento porta a suffragio di questa tesi le ricerche storiche comparate dei più importanti romanologi, studiosi del popolo romanò che datano la prima diaspora dall’India in Persia attorno al X secolo, successiva a una disfatta militare e alla fuga da un assoggettamento schiavistico dei vincitori. «L’itineranza è sempre stata una strategia di difesa, una mobilità coatta, e tutte le volte che i rom hanno potuto si sono insediati, sedentarizzandosi», sintetizza infine Spinelli.

Partiamo dunque dall’inizio: con quale sguardo è corretto approcciarsi alla cultura e al popolo rom?
Il popolo rom è un infinito antropologico. Significa che ci sono tanti modi diversi di essere rom, tanto che ogni rom a un certo punto ti dirà «me chacho rom», cioè io sono il vero rom, rivendicando di essere l’unico soggetto a determinarsi contro qualsiasi pretesa esterna. La diversificazione dipende dall’appartenenza a una comunità che è determinata dagli usi, dalle tradizioni, dalle norme morali e dalla storia che porta con sé e che esclude gli altri, non solo i gagè ma tutti gli altri. Anche io, che faccio parte dei rom italiani di antico insediamento, arrivati in Italia durante il Rinascimento, se volessi entrare in una comunità di rom kalderasha, mi respingerebbero come estraneo. Ogni gruppo è autoreferenziale.

Mancando una lingua scritta, una religione comune, un territorio, cosa tiene allora insieme il popolo rom come popolo?
La romanipé, parola intraducibile che possiamo rendere come identità rom, sia individuale che collettiva. Ogni comunità ha la sua romanipè, che crea il romano them, il mondo di riferimento con riti di nozze, funerali, battesimo, corteggiamento, e la propria romani kris, l’amministrazione delle regole morali attraverso un comitato di anziani o di saggi.

L’architrave di fondo di queste diverse romanipé è un modo di porsi di fronte alla vita, che resta invariato nel tempo e nello spazio, e che si basa sui concetti di puro-impuro e di baxt-bibaxt, cioè fortuna-malasorte ma anche felicità-malessere, positività-negatività. Sono questi gli elementi basilari che, con gradi diversi e sfumature, si ritrovano in tutte le comunità. Il popolo è costituito da rom, sinti, calé, monouches e romanichals.

Poi ogni gruppo ha una diversificazione in comunità, essenzialmente caratterizzate dai mestieri tradizionali di ognuna, e dialetti diversi. Il nucleo basilare della comunità è però sempre la famiglia allargata o familje, sostanzialmente patriarcale. Fino a tutto il periodo bizantino, cioè fino all’all’arrivo nei Balcani, tutte le comunità hanno mantenuto una soggettività e una storia comune.

Esistono delle differenze nella funzione genitoriale e nell’approccio al lavoro?
I bambini, che sono il cemento della coppia e la ricchezza della famiglia, sono lasciati molto liberi e educati prevalentemente dalla madre, in una divisione dei ruoli maschili e femminili piuttosto rigida che si rispecchia anche nella gestione degli spazi dell’abitare, ma la crescita dei bambini è comunque vista in un’ottica comunitaria in cui l’autorità morale del padre, proiettata pure nelle relazioni verso il mondo esterno, è estesa anche allo zio paterno e al nonno. Il lavoro per i rom è una funzione, un mezzo, mai un fine in sé. Non deve togliere il tempo per la famiglia e per la comunità. Un rom non vive per lavorare.

Nel libro si parla molto anche di Mafia-capitale che. tra l’altro. proprio in questi giorni ha condotto a nuovi sviluppi giudiziari. Chi sono questi «falsi amici» contro cui il libro si scaglia?
Fin dagli anni Novanta ho denunciato ciò che ho definito «Ziganopoli». Ora le cronache giudiziarie mi stanno dando ragione. Ma non sono un magistrato né un giornalista e mi interessa l’impatto culturale di questo meccanismo. È fondamentale comprendere e separare ciò che è la cultura rom e cosa è invece il portato e l’effetto collaterale della cattività, cioè della segregazione razziale, che viene attuata con i campi nomadi in particolare dagli anni Ottanta, ed è un crimine contro l’umanità.

Dagli anni 60 sono iniziati a arrivare in Italia rom dalla Jugoslavia, a causa della crisi economica là, ed è nata l’Opera Nomadi. E con essa si è fatta strada l’idea dei campi nomadi, con il varo di cinque leggi regionali specifiche per finanziare i campi mentre altri rom, profughi della guerra nell’ex Jugoslavia, non venivano accolti come profughi, appunto, ma come nomadi. Negli anni un fiume di denaro pubblico è stato riversato in una politica discriminatoria, repressiva e segregante non solo a Roma ma in tutta Italia.

Solo che a Roma i numeri sono enormi: ventidue milioni di euro nel 2013 per il sistema-campi nella capitale, l’anno successivo trentaquattro sgomberi forzati a Roma e Milano, per l’Expo, che hanno coinvolto complessivamente 3.435 persone. Per insegnare la lingua e la cultura romanì, zero euro. Tanti soldi per la scolarizzazione, gli scuolabus, e neanche un laureato rom. Tutte queste strategie hanno fallito perché partono da una visione distorta, che ha fatto solo comodo a chi l’ha usata per un proprio tornaconto personale. I rom dovrebbero essere risarciti perché questa politica ha devastato quattro generazioni che hanno conosciuto solo la degradazione dei campi e sono ora difficilmente recuperabili.

Cosa si dovrebbe fare a questo punto?
Faccio io una domanda: come si può pensare di integrare un popolo senza una partecipazione attiva del popolo stesso? L’integrazione è interazione che, come l’amore, si fa in due. Si fa con la volontà di integrarsi, di proporsi al meglio, da una parte e dall’altra con la volontà di accogliere e rispettare. Non ci può essere integrazione senza una valorizzazione culturale. L’Italia è l’unico paese europeo dove non esiste neanche un festival di musica rom. Come può vivere la cultura rom se non esistono biblioteche, se la lingua e la cultura non sono insegnate? E non parlo di un folklore fasullo, propagandistico per Mafia-capitale.

Bisogna restituire dignità sociale a rom e sinti, sottrarli alla speculazione di Mafia-capitale che non è affatto finita per i rom. Ho l’impressione che dovranno cadere ancora molte teste. Perché non si riformi poi lo stesso meccanismo è necessario cambiare logica, uscire dallo stereotipo per cui i rom sarebbero solo un reperto antropologico, primitivo e capace solo di una sottocultura e di una economia informale tossica per la sopravvivenza, che invece è data dal contesto di segregazione in cui sono lasciati. E riconoscere invece che sono una ricchezza per la società.

« "Acrescita" dell’economista Mauro Gallegati per Einaudi. Contro l'idea di lavorare per consumare con il Prodotto interno lordo che stabilisce qual è la buona società. Liberarsi di un'ideologia produttivista che nega il buon vivere. Oltre alla teoria, ora si dovrebbe trovare anche il coraggio politico». Il manifesto, 7 luglio 2016 (c.m.c.)

Non possiamo piú vivere per lavorare e lavorare per consumare, credendo (o facendo finta di credere) al mito che consumando piú beni saremo piú felici. In una frase, Mauro Gallegati – economista tra i più interessanti che abbiamo in Italia – rimette in discussione il paradigma dominante: avere come unico obiettivo la crescita del Pil è miope e fuorviante.

Nel suo pamphlet Acrescita (Einaudi), Gallegati riprende un tema diventato noto negli anni della crisi: ci troviamo in una ripresa senza lavoro. Si chiama jobless. E tutti fanno finta di nulla. E’ un sistema economico ad avere fatto bancarotta. C’è poco da fare: il Pil cresce pochissimo con occupazione invariata. A-crescere, per l’economista, significa che il benessere non dipende (soddisfatti i bisogni primari) dalla quantità di merci a disposizione, ma dalla possibilità di godersi la vita senza compromettere una uguale opportunità alle generazioni future.

Gallegati va alla radice della «scienza triste» e sostiene che l’economia dovrebbe superare i modelli matematici che l’hanno separata dalla natura e dalle leggi della fisica. L’acrescita è un neologismo che porta a rivedere il suo rapporto con la società, insieme a un’interpretazione «multisistemica» del benessere. Di questa pluralità relazionale il Pil coglie soltanto uno degli elementi del vivere bene, l’eu zen che Gallegati invoca in nome di Aristotele. Alla base di questa posizione sul capitalismo c’è una doppia critica: la prima è alla «filosofia del dominio che rischia di cancellare la natura e con essa l’uomo»; la seconda è una filosofia etica basata sulla ricerca della felicità.

La misura del benessere non è un problema matematico, ma è una ricerca culturale che dovrebbe riflettere sui valori, i comportamenti degli individui e le loro relazioni. Il problema è stato evidenziato in una delle raccomandazioni della Commissione Sarkozy, composta tra gli altri da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi: bisogna superare l’idea di un unico indicatore sintetico e andare nella direzione di più indicatori di «progresso sociale». Sembra semplice ma, considerato lo stato del dibattito epistemologico nelle scienze economiche, non lo è affatto.

Nella decostruzione del paradigma dell’«economia assiomatica» la verve polemica di Gallegati raggiunge risultati considerevoli. L’assiomaticità dell’economia standard è fondata sulla razionalità e sulla massimizzazione dell’utilità e si disinteressa della corrispondenza empirica tra assiomi e realtà. La matematica è il giudice unico della bontà delle teorie. Lo è al tal punto che la famosa domanda posta dalla Regina d’Inghilterra sul perché gli economisti non abbiano saputo prevedere la crisi finanziaria scatenata dai mutui subprime resta ancora senza risposta. Così impostata, l’economia può solo autogiustificare i propri assiomi sulla base della simulazione di teoremi, indipendentemente dai loro effetti reali.

Questa disciplina possiede tuttavia una base materiale che corrisponde a quella che Gallegati definisce «l’economia del criceto: il lavorare di più per consumare sempre di più, un modo di vivere che persegue l’accumulazione di merci. Si dovrebbe piuttosto provare a liberare il criceto, aprendo la gabbia per agevolare un cambio di paradigma».

L’economia è una disciplina sociale che unisce storia, matematica e sociologia e mette in relazione attori differenti che interagiscono dentro, ma soprattutto fuori dai mercati. I promotori dell’economia del criceto sostengono la religione della «mano invisibile»: è il mercato che rimedia a tutte le contraddizioni. Ogni vita ha il suo prezzo, tutto è valutato in base alle sue priorità.

Gallegati rovescia questo assunto e sostiene un’economia basata sulla redistribuzione delle ricchezze e delle risorse. Tale redistribuzione può essere ottenuta attraverso la «partecipazione alla vita sociale». L’economista esercita il suo mestiere in questo campo. Per farlo dovrebbe affrontare un radicale conflitto di potere, anche accademico. Oltre alla teoria, dovrebbe trovare anche il coraggio. Merce rara, di questi tempi.

Riferimenti
Sull'argomento ricordiamo la splendida invettiva pronunciata da Robert Kennedy poco prima di essere assassinato: Ciò che il Pil misura e ciò che non misura, e gli scritti sulla "Società opulenta" e sulla "Decrescita"

Un libro che è un grido d’allarme. Enrica Simonetti: "Morire come schiavi. La storia di Paola Clemente nell’inferno del caporalato" , edizioni Imprimatur».

Il Fatto Quotidiano online, 29 giugno 2016 (c.m.c.)

Bisogna dare voce a chi non ce l’ha. A chi non ha alcun diritto se non quello di morire di fatica, sotto un sole e una calura che, al Sud, spesso non perdona. La manifestazione e il corteo a Bari dei giorni scorsi ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica la piaga del caporalato che riguarda non solo gli immigrati ma anche moltissimi italiani.

Lo sfruttamento non ha colore. Non possiamo rimanere indifferenti, è necessario informarsi, capire cosa accade sotto i nostri occhi. Chi volesse farlo può leggere il documentato saggio di Enrica Simonetti: Morire come schiavi. La storia di Paola Clemente nell’inferno del caporalato, edizioni Imprimatur.

L’autrice è una giornalista e racconta “quasi” in prima persona la storia di Paola Clemente, morta a quarantanove anni nei campi di Andria, e delle sue braccia, sfruttate per troppe ore nei campi, con la ricompensa di due euro all’ora.Un libro che è un grido d’allarme, un saggio che possiamo definire “letterario”, perché Enrica Simonetti è capace di raccontare; la sua inchiesta indaga le radici di un Sud (non ci riferiamo solo al nostro, ma a tutti i Sud) dove le piaghe non si rimarginano mai.

Rimangono vive perché figlie dello stesso sistema economico che le ha create, del quale siamo tutti complici, non solo perché abbiamo perso la capacità di indignazione, ma perché continuiamo a comprare i prodotti delle aziende i cui prodotti sono figli dei “campi della vergogna” dove, appunto, si muore per due euro all’ora.

Ci vorrebbe un altro Di Vittorio? Sì, forse, ma Di Vittorio può e deve essere ciascuno di noi, basta non chiudere gli occhi, denunciare come ha fatto la brava giornalista del saggio.

Luciana Castellina, Manuale antiretorico dell'Unione europea - da dove viene (e dove va) quest’Europa (manifestolibri, Roma 2016, 172 pp., 18 €)

Luciana Castellina ha pubblicato la sua dettagliata ricostruzione storica delle origini dell' attuale Unione Europea, redatta quasi dieci anni fà per il Cinquantenario della Comunità Europea nel 2007. La prima parte del volume riguarda l’attualità, ovvero gli anni 2007-2015, quel «Tempo dell’emergenza», che ha ridotto l’arte del «governo alla governance» anche a livello nazionale, e la terza parte passa in rassegna le posizioni delle varie Sinistre in Europa, dai Federalisti ai comunisti, dai belgi ai portoghesi. Un volume utilissimo per orientarsi in questa fase di crescente disaffezione e perfino di disgregazione dell’idea europea, in cui non pochi si chiedono se «vale ancora la pena di puntare sull’Europa». Anche se l’autrice risponde infine in modo affermativo a questa domanda, direi faute de mieux, essa ci dà un quadro allarmante della situazione complessiva.

L’autrice comincia col constatare che questa Europa è stata narrata finora «con una tale agiografica esaltazione da coprire con un velo pietoso la sua vera storia» .Rivela poi che - in oltre mezzo secolo - non solo «non si è data realizzazione ai sogni europeisti di Ventotene», ma che questi sogni non hanno affatto influenzato la genesi del progetto europeo, perché il contesto storico del passaggio dalla fine della guerra nel 1945 allo spiegarsi della guerra fredda (dal 1947) serbava ben altri interessi miranti alla piena ripresa capitalista, il che ha «rapidamente sotterrato il sogno resistenziale di un’Europa sociale». La costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, 1951), inizialmente rinchiusa nelle mani di pochi tecnocrati di USA, Francia e Germania, fu la premessa per poter ricuperare il potenziale industriale e bellico (con riabilitazione dei Krupp e Thyssen) della nuova Repubblica Federale tedesca che ebbe una prima e preziosa rilegittimazione, pur senza aver firmato nessun Trattato di pace.

Dall'inizio dunque l'Europa divenne tale «al riparo dai sentimenti popolari, e persino dalle assemblee rappresentative democraticamente elette», altro che incoronazione delle speranze in un continente finalmente pacificato serbate dai suoi popoli esausti dopo ben due macelli mondiali con quasi 100 milioni di morti!

Per questo quasi tutte le sinistre europee, socialiste e comuniste, si opposero allora all’impostazione liberista già dei primi Trattati. I laburisti inglesi per esempio, temevano già allora di perdere con l’integrazione europea parte del loro welfare conquistato. Motivo decisivo anche della resistenza opposta all’integrazione, anni dopo, dalle socialdemocrazie nordiche.

«La vera levatrice dell’integrazione europea», il Piano Marshall (ERP), fu inizialmente ancora improntato al New Deal per osteggiare gli orientamenti socialisteggianti di parecchi paesi europei a guerra finita. E l’Europa federalista alla quale miravano John Foster Dulles (successivamente Segretario di Stato) e il fratello Allan Dulles (a capo dell’OSS, poi CIA) era pensata dagli USA fin dall’inizio come uno strumento per il roll back antisovietico e anticomunista e per un rapido riarmo in Europa.

(A questo punto si dovrebbe portare alla luce anche l’apporto decisivo degli esperti tedeschi alla riorganizzazione economica del continente con la Germania al centro, elaborato già tra le due guerre (Paneuropa) e poi, ancora durante la barbarie bellica del “Generalplan Ost”, come modello di una futura Europäische Wirtschaftsgemeinschaft (Comunita economica europea - CEE), progettata dai funzionari della Deutsche Bank già nel 1942. Apporto che ha avuto nuova linfa con l’unificazione tedesca del 1990 come premessa dell’auspicata “Kerneuropa" tedesca alla Schäuble).

La motivazione militare divenne esplicita con il - poi fallito - progetto della CED, Comunità europea di difesa, nel 1950, nel contesto della guerra di Corea, (progetto che ritrova oggi nuovo sostegno soprattutto in Germania). Anche il successivo progetto nucleare Euratom (del 1957) è fallito per le sue contraddizioni tra uso civile e militare e le diffidenze, i timori e le gelosie che hanno diviso l’Europa più che unirla.

Quando la CEE vide la luce a Roma, nel marzo del 1957, non se ne è accorto quasi nessuno, ricorda Castellina, e nemmeno la sinistra ha poi approfondito l’analisi di quel che venne in seguito percepito come «mero prolungamento del potere dei monopoli» che dal controllo dei mercati nazionali si sarebbero presto estesi al mercato europeo e mondiale. Mentre i singoli governi in Europa consolidavano a loro volta lo Stato e le economie nazionali senza politiche efficaci rivolte ad una vera integrazione fra loro. E l’Italia, il solo paese mediterraneo ammesso fra i primi sei, venne considerato un caso speciale non solo per il suo storico problema meridionale, «ma per via della sua recente Costituzione, considerata dai tedeschi e dagli olandesi pericolosamente non omogenea ai principi liberisti cui la costruenda Comunità Europea intende ispirarsi»: cosi l’autrice cita il ricordo di Leopoldo Elia in un convegno del 1986.

E furono tedeschi democristiani sia Walter Hallstein, primo presidente della CEE, che il commissario alla concorrenza, Van der Groeber, che scrisse: «La Comunità non può intervenire (...) non può alterare il gioco delle forze di mercato». Eccezion fatta per la politica agricola, dal 1962 in poi, non ci fu nessuno spazio per comuni politiche sociali - il mercato del lavoro, i salari e i redditi pro capite restavano diversissimi con rilevante dumping sociale e polarizzazione crescente.
Con il Trattato di Maastricht dei primi anni 90, si capovolge di fatto il principio dell’obiettivo primario di quasi tutte le Costituzioni postbelliche: di realizzare i diritti sociali dei cittadini. Questi vengono invece sottomessi all’assolutismo del mercato. Si tratta dunque per Castellina nel mezzo secolo di passaggio dalla CEE all’UE odierna di «un susseguirsi di involuzioni, un progressivo e sempre più accelerato distacco dal ‘modello sociale’ pur proprio ad ambedue le tradizioni europee, quella scocialista e quella cristiana; e un avvicinamento al modello americano». Anziché costituire un baluardo nei confronti della globalizzazione, l’Europa unita l’ha persino accelerata o forse anticipata: L’economia «viene tagliata fuori dalla sfera delle decisioni politiche» - non era forse questo l’obiettivo della famosa Trilateral Commission, che raccomandò nel documento Crisis of Democracy (1973) di «ridurre la ormai troppa domanda di democrazia»?

Ma la retorica dominante impedisce anche di tracciare un realistico bilancio dell’esperienza europea, si rammarica Castellina. Oltre ad aver pacificato Francia e Germania e contenuto il comunismo, che figura tra i meriti, la sua performance economica appare assai mediocre. Da un analisi comparata su 16 paesi capitalistici avanzati risulta un’aumento medio pro capite annuo del 2,8% dei paesi membri (tra 1951 e 1989), del 20% inferiore rispetto a quello de paesi non-membri (+ 3,5%), mentre la disoccupazione sarebbe stata in media più alta del 4,4%, già dagli anni’70. Ed è dalla fine degli anni’90 che anche gli investimenti produttivi nell’UE sono caduti di più per via di un monetarismo e una deregulation più rigorosi che altrove, avallati da governi socialdemocratici e socialcristiani.

Che fare dunque? Rilanciare una nuova Costituzione senza Stato europeo? Inventare altre soluzioni normative? Per quale Europa? L’aggravarsi della crisi economica ha reso più gravi tutti i problemi preesistenti e postula con forza maggiore una modifica radicale della CEE, ovvero «un massiccio trasferimento di risorse e un intervento pubblico pianificatore che condizioni il gioco selvaggio del mercato». «Europa per fare che?» ci chiede Luciana Castellina.

«Federico Bertoni, docente di teoria della letteratura a Bologna, analizza la deriva di un sistema universitario in cui chi studia si è trasformato in un cliente. Un manuale di volo notturno per gufi, ma anche una lettura strategica per capire (e provare a cambiare) il futuro del Paese»

La Repubblica, 29 maggio 2016 (c.m.c.)

Perché l’università italiana, «un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità?». Sono queste le domande a cui risponde Universitaly.
La cultura in scatola (Laterza 2016), meravigliosamente scritto da Federico Bertoni, professore di Teoria della Letteratura a Bologna. Carlo Levi ha scritto che «se gli occhi guardano con amore (se amore guarda), essi vedono»: gli occhi di Bertoni sono pieni d’amore per l’università, ed è probabilmente per questo che la sua analisi è così lucida.

Il governo di Matteo Renzi ha annunciato la prossima uscita dell’università dal pubblico impiego, e dunque la sua privatizzazione. «Sarebbe solo la sanzione giuridica - osserva Bertoni - di qualcosa che di fatto è già successo»: «Le università non condividono il sapere con i cittadini ma propongono un’ offerta formativa ai clienti», gli studenti accumulano non conoscenze ma «competenze acquisite in una carriera», il loro apprendimento «si misura in crediti e debiti», le pubblicazioni scientifiche sono «prodotti della ricerca», e quando si annuncia che qualche ricercatore è finalmente uscito dallo schiavismo del precariato si dice che si è «investito sul capitale umano».

Insomma, «l’equazione subdola tra responsabilità (accountability) e contabilità (accounting) ha trasformato l’università in una customer oriented corporation» fondata su criteri e valori come «l’immagine, la qualità (nel senso di quality assurance), la competizione, la soddisfazione del cliente, gli indici di produttività ». L’analisi, documentatissima e implacabile, di Bertoni solleva una domanda di fondo: a cosa serve una università tanto schiacciata sulla monodimensione mercatistica dell’esistente da non riuscire a immaginare e a costruire niente di nuovo? Rinnegando la sua stessa ragione di essere - che è la produzione di senso critico - questa università sembra esistere solo per confermare il motto di Margaret Thatcher: «There Is No Alternative».

Come se ne esce? Riscoprendo, suggerisce Bertoni, i fondamentali della professione intellettuale. I professori non devono avere paura: possono prendere la parola, rifiutarsi di obbedire, non abituarsi alla degenerazione, rallentare il ritmo aziendalistico, smascherare le finzioni, giocare al rialzo nella qualità dell’insegnamento, insegnare il dissenso. Che è come dire che i professori devono fare il loro dovere: anche se non è il dovere a cui pensano i rettori e i ministri. Un manuale di volo notturno per gufi, ma anche una lettura strategica per capire (e provare a cambiare) il futuro del Paese.

«Per emanciparci, anzitutto dalla nostra servitù volontaria non servono rivoluzioni o critiche dell’ideologia, ma azioni esemplari: "Emergenza" di Maurizio Ferraris»

. Il manifesto, 29 maggio 2016 (c.m.c.)

Nonostante siano passati quasi vent’anni dalla prima pubblicazione di Estetica razionale, il libro in cui Maurizio Ferraris fece confluire quello che era stato il suo maggior sforzo teorico, il nucleo filosofico allora esplorato fa emergere nuovi aspetti ancora sommersi in quelle magmatiche condizioni iniziali: non a caso si intitola (Einaudi, pp. 127, euro 12,00) il suo ultimo libro, da intendersi non tanto nel senso di «pericolo» o «eccezione», ma anzitutto come quel che emerge dalla realtà al di fuori del nostro controllo intenzionale e consapevole.

Tra le due accezioni di «emergenza», però – nota Ferraris – «c’è una continuità di fondo: che cos’è un’emergenza se non un evento che accade rivelando la possibilità dell’impossibile? E che cosa è più emergente del reale, che rompe i giochi del possibile e si presenta con una nettezza imprevista, con minacce o con risorse immaginarie?». Solitamente, le proprietà emergenti vengono intese, grosso modo, come proprietà di certi sistemi (naturali o sociali) che emergono dall’interazione complessa di un numero enorme di elementi di base, ma che non sono riconducibili al loro comportamento.

Se è così, un cambiamento negli elementi di base sarà correlato a un cambiamento nella proprietà emergente considerata (se altero significativamente i neuroni del cervello di una persona, ne altero verosimilmente anche la coscienza o la mente), senza che però si riesca a fornire una vera e propria spiegazione, secondo leggi note, di questa correlazione.
Ferraris ne è ben consapevole, e dichiara dunque fin da subito che questo libro è «speculativo», procede per barlumi, e se avessimo una mente infinitamente superiore a quella umana, allora succederebbe che, come nella poesia di Raboni, «Lentamente come/risucchiati all’indietro da un’immensa/moviola ogni cosa riavrà il suo nome,/ogni cibo apparirà sulla mensa».

Ferraris professa uno stretto nominalismo (gli universali – i concetti, i generi in cui raggruppiamo le cose – non hanno una loro realtà, sono semplici nomi: reali sono solo gli individui), e considera tutto il mondo (la totalità degli individui) come «il risultato di un’emergenza che non dipende dal pensiero né dagli schemi concettuali, sebbene questi possano ovviamente conoscerlo». È come se la teoria dell’evoluzione fosse estendibile a ogni produzione: dati un numero immenso di individui, certe forze, e un tempo sconfinato a disposizione, non c’è bisogno di postulare piani, disegni, intenzioni, decisioni perché l’iterazione di certe interazioni tra individui può far emergere di tutto.

Il libro è diviso in tre parti, secondo tre regioni di emergenza fondamentali, in cui la dimensione subordinata è condizione di possibilità di quella successiva: 1. l’ontologia (quello che c’è, e che è costituito dall’interazione degli individui); 2. l’epistemologia (quello che sappiamo, e che emerge, se emerge, dall’ontologia); 3. La politica (quello che facciamo «come agenti liberi o presunti tali»). Forse le novità più rilevanti, rispetto agli altri libri di Ferraris, si evidenziano nel terzo campo di emergenza, la politica. Sulle prime due, molte sarebbero le cose da discutere proficuamente. Faccio un solo esempio, riguardo all’ontologia: Ferraris ha sempre insistito sulla «inemendabilità del reale»: «il fatto che (…) il pensiero non sia in grado di emendare le illusioni percettive significa che il sapere non riesce a intervenire sul piano dell’essere, e che dunque quest’ultimo è indipendente dal primo».

Mentre condivido l’idea che si possa parlare legittimamente di contenuti percettivi non concettuali e che ci siano molti sensi in cui l’essere non dipende dal pensiero, confesso che non ho mai capito bene la forza di questa argomentazione in favore della inemendabilità del reale. Prendiamo l’illusione della cascata: sappiamo che se guardiamo a lungo una cascata e poi spostiamo lo sguardo sulle pareti di roccia tra cui l’acqua precipita, queste pareti sembrano salire verso l’alto.

A me sembra che ciò dimostri certamente «l’inemendabilità» di certi nostri meccanismi neuronali, ma non quella della realtà: semmai, per essere colta come tale (una roccia reale, su questa terra, non ascende autonomamente al cielo), ha bisogno di una «correzione» concettuale. Continuerò a vederla salire, ma riconoscendola come roccia non la userò come un ascensore. In questo caso, non è forse necessario l’intervento di un concetto («l’epistemologia») per dirmi che sono davanti a una roccia e non a un ascensore naturale?

Veniamo alla politica, intesa comunemente come l’arena delle intenzioni comuni o conflittuali, dei piani e delle decisioni, del tentativo di controllare e dirigere la nostra convivenza. È vero che oggi ne vediamo tutta la debolezza, e sono sempre più convinto che il controllo e l’autocontrollo ossessivi (sorveglianze, tracciabilità, automonitoraggi) siano solo l’altra faccia di una perdita di controllo percepito come irrimediabile (automatismi, dipendenze, attacchi di panico): in mezzo, niente, o quasi.

Se ciò è vero, forse la proposta teorica di Ferraris può essere letta come un tentativo di incunearsi tra quei due estremi: se i concetti e le norme sembrano emergere da una «dialettica dell’esempio» (una parte molto interessante dell’epistemologia, che andrebbe discussa a lungo, secondo cui esiste una tensione e una circolazione che lega l’esempio come caso ordinario a quel che è esemplare in quanto straordinario), anche dal punto di vista politico «l’esempio viene prima della norma e la costituisce».

Se vogliamo emanciparci – innanzitutto dalla nostra «servitù volontaria» – non servono rivoluzioni o critiche dell’ideologia, sostiene Ferraris, ma azioni esemplari, come quella del politico bulgaro Pesev, che, nel 1943, con una semplice lettera evitò la deportazione di decine di migliaia di ebrei. La conclusione che Ferraris trae da questo e altri esempi è che «le reazioni esemplari sono reazioni, non potrebbero esercitarsi se non di fronte a una certa resistenza», sono «generalmente agite prima che capite, e il loro significato si presenta post factum».

Credo che qui Ferraris tocchi un punto nevralgico dell’azione eti
ca e politica, che riguarda il meccanismo in cui si produce qualcosa che avrà, a lungo termine, conseguenze che non possono derivare dalle intenzioni dell’agente, e che tuttavia potrebbero essere altamente desiderabili. Come se si trattasse, paradossalmente, di voler produrre intenzionalmente una «eterogenesi dei fini», vale a dire ciò che sfugge per definizione a ogni intenzione, senza chiamare in cause «mani invisibili» o «provvidenze» di qualche genere.
Resta il dubbio che la facoltà di giudicare, di riflettere, giochi una sua parte essenziale nel momento della decisione – e proprio l’esempio di Pesev sembra richiederla – pur nell’incertezza delle conseguenze.

Una «dialettica dell’esempio» sembra richiedere allora di essere inserita in una «dialettica del controllo»: tra i due estremi complementari degli automatismi ciechi e incontrollati, e l’illusione di pianificare e padroneggiare autonomamente ogni azione, le «emergenze» esemplari occuperebbero così un posto imprescindibile, ma non esclusivo.

Emergenza". La Repubblica, 10 maggio 2016 (c.m.c.)

Dimitar Josifov Pešev, uomo senza qualità e senza eroismi, politico di seconda fila in una piccola nazione (era vicepresidente del Parlamento bulgaro), aveva accettato senza obiezioni le leggi antisemite introdotte nel suo Paese, non aveva firmato proteste o manifesti. Ma quando, il 7 marzo 1943, apprese che stava per essere avviata la deportazione di 48 000 ebrei, che lui non aveva mai creduto possibile, scrisse al primo ministro denunciando il fatto, riuscì a ottenere la firma di altri 43 parlamentari, e suscitò uno scandalo che costringerà lolo zar di Bulgaria a resistere alle richieste dei nazisti.

Scriveva Pešev: «Non possiamo credere che ci siano dei piani per deportare questa popolazione dalla Bulgaria, come suggeriscono alcune voci a danno del governo. Tali misure sono inammissibili, non solo perché queste persone - cittadini bulgari - non possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche perché ciò avrebbe serie conseguenze per il Paese. Sarebbe un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che costituirebbe un grave peso morale, ma anche politico, privandola in futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali».

Nessun ebreo sarà deportato dalla Bulgaria. La disubbidienza non basta, e la resistenza si deve trasformare in esemplarità: non esiste una natura umana perfetta e poi, chissà come, alienata da entità numinose e vaghe (il Capitale, la Tecnica, la Storia). Ciò che esiste sono singoli esemplari di umanità per il bene e per il male - Caracalla che estende la cittadinanza romana agli uomini liberi dell’Impero, Eichmann che organizza il traffico ferroviario verso i Lager, Kohl che decide che la Germania si faccia carico dei costi dell’unificazione. E tanti esempi che non sono consegnati alla storia, e che fanno parte del modo in cui ognuno agisce e pensa, spesso generando difficoltà agli psicoanalisti.

Tra i primi e i secondi ci sono storie intermedie, quelle degli uomini comuni come Pešev, un eroe alla Spielberg, come Schindler o il Donovan del Ponte delle spie. Il suo caso è l’esemplificazione del principio secondo cui lo statuto morale di una persona è determinato dal suo rapporto con norme che non sono morali ma pragmatiche e storiche, ed è in relazione a queste che bisogna impegnarsi moralmente. Ecco perché quelli come Pešev sono stati chiamati “Giusti”: non eroi ma persone normali che hanno scelto; è questo credo a introdurre la giustizia come responsabilità di fronte al mostrarsi del reale. Cercare invece la perfezione morale nella purezza delle proprie intenzioni, che hanno la disastrosa tendenza a trasformarsi in ideali, è confermare il detto secondo cui la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. E se ci fosse stato un Pešev in Italia, in Francia, in Polonia, in Olanda? E se Pešev fosse stato persuaso che la vera azione e la vera pietà sono quelle del pensiero? Se invece che una lettera al primo ministro avesse scritto un romanzo o annotato un pensiero in un moleskine, o su un quaderno nero à la Heidegger?

“Realismo” non significa semplicemente sostenere che esistono tavoli e sedie: questo lo sanno anche gli antirealisti, sebbene poi si ostinino a sostenere che non sono tavoli né sedie in sé ma tavoli e sedie per noi. Meno che mai vuol dire che accertare la realtà significhi accettarla, rinunciando alla trasformazione. È vero il contrario. La trasformazione, o la rivoluzione, è possibile e doverosa, ma richiede azioni reali, e non semplici pensieri. Il realismo è denuncia delle rivoluzioni fatte solo nel pensiero, delle rivoluzioni in poltrona e in panciolle. Pešev non era un ribelle di professione. Con la sua azione teoricamente semplice ma praticamente coraggiosa, ha provato il discontinuo: che la libertà esiste, e ha mostrato la possibilità dell’impossibile, la fattibilità reale di qualcosa che non ha ancora avuto luogo. Qualcosa che è “fuori dagli schemi”.

È importante che l’azione esemplare sia individuale. Non c’è bisogno di sviluppare un culto degli eroi alla Carlyle, imboccando la strada che porta al superuomo e alle fanfaronate di Zarathustra. Basta che l’azione sia espressione di un individuo prima che di un’idea e di un imperativo categorico — presentandosi come una infrazione delle regole, come una sorpresa affine al motto di spirito piuttosto che come l’attuazione di un programma: al limite (e può bastare e avanzare) come l’«avrei preferenza di no» di Bartleby lo scrivano.

È necessario emanciparsi? È giusto ribellarsi? Dipende. Guidare la moto senza casco è un atteggiamento ribellistico, e chi ha posteggiato l’auto in terza fila è anche lui a suo modo un ribelle, senza gli attributi di nobiltà feudale che Jünger attribuisce a questa parola. Quanto poi all’emancipazione, è anzitutto emancipazione dalla stupidità, ma ovviamente non basta.

Dopo aver pensato e ragionato, si prende comunque una decisione, che si rivela indipendente da tutti i calcoli che l’hanno preceduta, perché, d’accordo con Kierkegaard, «l’istante della decisione è una follia»: è per l’appunto la sospensione del continuum dei ragionamenti, l’introduzione di un discontinuo. «Il mondo è fuori dai gangheri ( out of joint) », dice Amleto — e proprio perché è il mondo lì fuori a essere fuor di sesto che ho lo stimolo (che certo può essere sbagliato o catastrofico) a rimetterlo in sesto.

«Un mondo che ha fatto fuori muri e frontiere e adesso corre a costruirne di nuovi per sfuggire alla paura e all’insicurezza, i due grandi elettori del partito dell’antipolitica» "Password" il nuovo libro di Ilvo Diamanti

». La Repubblica, 10 maggio 2016 (c.m.c.)

S’intitola “Password” il nuovo libro di Ilvo Diamanti una sintesi delle passioni e delle divisioni che attraversano l’Italia di oggi, dove si salva solo il Papa.

Cercasi password per entrare nella testa di un’Italia sconnessa. Anche da se stessa. È quel che fa Ilvo Diamanti con il suo nuovo libro intitolato giustappunto Password. Renzi, la Juve e altre questioni italiane(Feltrinelli, pagg. 112, euro 10). È un compendio della crisi del paese in quaranta lemmi, da Anti-politica a Voto passando per Astensione, Destra, Etica, Giovani, Ripresa, Renzismo, Salute, Sinistra, Sud.

Una sintesi delle passioni, ossessioni, repulsioni, tentazioni, emozioni, elezioni che agitano le acque del nostro presente. E che il professor Diamanti sonda da anni, per questo giornale, nonché per trasmissioni televisive come Ballarò, restituendoci dimensioni, misure e numeri del nostro scontento.

Le password del libro sono le parole che affiorano dalle cifre, dalle statistiche, dai sondaggi formando una rete interpretativa che cattura l’immagine di un Belpaese in cerca di coordinate. Perché ha perso quelle tradizionali, ma non ne ha ancora inventate di nuove. Tanto è vero che continua a usare le parole di sempre, anche se il loro significato è cambiato sotto i nostri occhi di spettatori spaesati. Termini esausti che hanno sempre meno presa sulla realtà. Ecco perché tentiamo di rianimarli con prefissi e suffissi. Ante, post, anti, neo. Post-democrazia, antipolitica, non-partiti, post- comunisti, post-democristiani. E adesso post-berlusconiani.

Insomma le parole non riescono più ad agganciare quel pattinamento generale che trascina partiti e istituzioni, individui e collettività, fuori dai loro confini. Politici, territoriali, etici, ideologici. Anche opposizioni consolidate come destra/sinistra, o come Nord/Sud significano sempre meno in un mondo che ha fatto fuori muri e frontiere. E adesso corre a costruirne di nuovi per sfuggire alla paura e all’insicurezza, i due grandi elettori del partito dell’antipolitica. Che, secondo Diamanti, è il vero sentimento del tempo. Ecco perché l’astensione è diventata «il voto di chi non vota ».

E la maggioranza si affida al suo leader in una specie di face to face mediatico ed estatico. Da una parte una folla solitaria, che è quel che resta del popolo sovrano. Dall’altra un uomo solo al comando, il front- man che le dà “senso, rappresentazione e identità”. È il trionfo del pop, in politica come altrove. Perché se oggi tutto è pop — «i Festival, la cultura, la cronaca e perfino la criminalità » — è perché sono venuti meno i confini tra realtà e reality. Politica, spettacolo, tifo calcistico, tutto si fonde e confonde. In altre parole, siamo entrati nell’era del “politainment”, la politica-intrattenimento. Non a caso, nota l’autore, la passione identitaria che una volta si riversava sui partiti di massa, oggi si riversa sul calcio. Imitato a sua volta dalla politica che ne mutua linguaggi, slogan e atteggiamenti con un continuo feedback che produce un’escalation di aggressività e di volgarità.

Le ideologie sono finite, ma le divisioni si sono moltiplicate. In fondo, osserva giustamente Diamanti, la fede calcistica è più solida di quella politica. Si cambia partito ma non squadra. «L’elettore è mobile, il tifoso no». Forse anche per questo ci si accapiglia sul sistema elettorale come su un fuorigioco non visto o un rigore non concesso. L’autore fa notare che l’Italia è l’unico paese dove si discute più di regole elettorali che di risultati. Tra mattarellum, porcellum e italicum, conta più come farlo che con chi. Come scrivere un kamasutra senza partner.

A salvarsi dal naufragio generale è il Papa. Molto più amato della Chiesa stessa. Otto italiani su dieci hanno fiducia in lui. Francesco sì che è connesso. Forse perché, come ha detto nella “parabola del cellulare”, il suo telefonino ha sempre campo. Sfido io, l’operatore è Dio.

«». Il Sole 24 ore, 8 maggio 2016 (c.m.c.)

Niente anemoni né garofani, niente orchidee né violette. La mimosa, piuttosto. A portata di mano – all’inizio di marzo – nei campi di tante contrade d’Italia, e a portata di portafoglio per i «compagni» anche meno danarosi... Nella tradizione orale del Partito comunista italiano, la scelta della mimosa quale simbolo dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, è stata intestata a Teresa Mattei: già coraggiosa combattente partigiana nella Toscana dell’occupazione tedesca e presto, dopo le elezioni del 2 giugno 1946, il più giovane in assoluto fra i deputati dell’Assemblea costituente. Sarebbe stata lei, durante il primo inverno dopo la Liberazione, a guidare i dirigenti del Pci e le responsabili della neonata Udi (Unione Donne in Italia) verso un 8 marzo profumato di giallo.

L’aneddoto viene dato per buono da Chiara Valentini, nel felice ritratto di Mattei da lei abbozzato per un volume a più mani, Donne della Repubblica, appena uscito dal Mulino: libro di storia – quattordici profili biografici – attraverso cui il collettivo femminile Controparola ha voluto celebrare il settantesimo anniversario del voto alle donne. Libro talvolta un po’ incantato, per la tendenza di alcune autrici a sposare toto corde il punto di vista dei loro personaggi. Ma libro meritorio, se è vero che anche le maggiori «donne della Repubblica» restano oggi poco conosciute, mentre dovrebbero troneggiare nel Panteon novecentesco della storia d’Italia. Un’Italia che – guarda caso – ha saputo riconoscere i suoi founding fathers, non le sue founding mothers.

Lina Merlin (nata nel 1887), Camilla Ravera (1889), Teresa Noce (1900) ), Renata Viganò (1900), Ada Prospero Gobetti (1902), Nilde Iotti (1920), Teresa Mattei (1921), Marisa Ombra (1925), Tina Anselmi (1927): appartenevano a generazioni profondamente diverse, le più storicamente significative fra queste donne della Repubblica. Eppure, a guardarle l’una accanto all’altra, si notano in loro vari tratti comuni. Tutte o quasi tutte venivano dal Nord: per lo più dal Piemonte, altrimenti dal Veneto o dall’Emilia. Molte, in una prima fase della loro vita, erano state maestre o comunque insegnanti. Le più anziane avevano militato già nel Partito socialista di Filippo Turati, altre diventeranno comuniste soltanto negli anni Cinquanta, ma tutte si erano date un appuntamento – virtuale o reale – nell’Italia della Resistenza.

Seguire quattro di loro nell’aula di Montecitorio, deputate alla Costituente (e tre su quattro, Merlin, Iotti e Mattei, incluse nella Commissione dei 75 delegata a elaborare il progetto di Costituzione), equivale a toccare con mano una qualità propria della «Repubblica dei partiti»: la capacità di selezionare al meglio una classe dirigente. D’altra parte, le carriere politiche di donne come Merlin, Ravera e Mattei – carriere accidentate almeno quanto gloriose – illustrano la difficoltà di quei partiti, anche se di sinistra, nell’accettare pienamente il contributo di tali donne alla Costituzione e alla legislazione repubblicane. Attestano la ritrosia dei padri della patria a costruire un’Italia che davvero fosse nuova, oltreché nelle sue fondamenta istituzionali e valoriali, nella parità di statuto e di condizione fra i suoi uomini e le sue donne.

Si deve alla deputata socialista Merlin – passata poi alla storia per la legge contro le «case chiuse» – una formulazione decisiva della nostra Carta fondamentale: quella che, all’articolo 3, «senza distinzione di sesso» riconosce a tutti i cittadini l’eguaglianza di fronte alla legge e una pari dignità sociale. Si devono a deputate come la comunista Noce e a intellettuali militanti come l’azionista-comunista Gobetti i lenti ma sicuri progressi di una legislazione moderna sulla maternità. Si deve all’impegno ostinato di donne come Tina Anselmi l’evoluzione storica di una riottosa Democrazia cristiana, da partito-baluardo della «famiglia» a partito relativamente aperto verso la «questione femminile».

Quando pure il loro corpo fosse minato nella salute (così per Camilla Ravera, lungamente in carcere sotto il fascismo), queste donne della Repubblica sapevano tenere la schiena straordinariamente dritta. Ne fece esperienza il «compagno Ercoli», Palmiro Togliatti: cui Ravera non esitò a contrapporsi fin dagli anni Trenta, cioè nei tempi più grami (e più insidiosi) dell’ortodossia stalinista, e cui Mattei osò scrivere nel 1956, alla vigilia dell’VIII congresso del Pci: «Non possiamo accettare un processo allo stalinismo fatto dagli staliniani». A sua volta, il Psi avrebbe finito per vivere con disagio l’indipendenza politica e l’autonomia culturale di Merlin. Né si sarebbe svolta diversamente – in anni a noi più vicini – la vicenda dei rapporti fra Anselmi e quanto restava della Dc.

Al patriarcato della Repubblica, alcune di queste donne pagarono un prezzo altissimo anche in termini strettamente personali: nell’incontro-scontro fra la loro vita pubblica e la loro privata. Teresa Mattei e Marisa Ombra furono sospinte ai margini del Pci dalle loro relazioni con uomini già sposati, mentre Nilde Iotti – la compagna di Togliatti – dovette accettare l’«amara felicità» di un amore impossibile da vivere apertamente, il segretario del Pci restando ufficialmente coniugato con Rita Montagnana. Quanto a Teresa Noce, ripetutamente tradita dal marito Luigi Longo («Gallo» non solo in battaglia), apprese del suo proprio divorzio da un articolo del «Corriere della Sera». Falsificando carte e firme, Longo si era organizzato per divorziare da lei nell’aula compiacente di un tribunale di San Marino.

Non tutte le donne della Repubblica ebbero a fianco un marito come quello di Ada Prospero, il cui profilo è stato delicatamente tracciato – nel volume del Mulino – da Eliana Di Caro. Il 23 agosto 1919, Piero Gobetti aveva scritto in una pagina di diario: «Se fossi costretto a pensare per un momento la differenza di sesso come differenza di capacità spirituale non so qual senso pauroso di desolazione proverei, forse il mio cuore sarebbe infranto».

Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2016 (p.d.)

Enrico Piovesana, giornalista di grande esperienza (oltre ad aver lavorato per anni in Afghanistan come inviato di PeaceReporter è stato in Pakistan, Cecenia, Nord Ossezia, Bosnia, Georgia, Sri Lanka, Birmania e Filippine) ha scritto un libro Afghanistan 2001-2016. La nuova guerra dell’oppio pubblicato dalla Casa Editrice Arianna, coraggiosa ma sufficientemente piccola perché questo libro possa passare quasi inosservato. Contiene infatti informazioni, puntualmente documentate, che dovrebbero far arrossire di vergogna i Paesi che hanno invaso l’Afghanistan e ancora lo occupano dopo oltre 14 anni di guerra.

Nel luglio del 2001 il Mullah Omar proibì la coltivazione del papavero, da cui si ricava l’oppio e poi, raffinato, l’eroina, un provvedimento che è noto a tutti gli addetti ai lavori ma che sui giornali occidentali e in particolare su quelli italiani è sempre stato ignorato o trattato di sfuggita (per quello che riguarda l’Italia mi ricordo solo un timido e anche un po’contorto accenno di Sergio Romano sul Corriere).

Da quando aveva preso il potere nel 1996 il Mullah Omar, interprete rigoroso del Corano, aveva dato una speciale licenza temporanea non per l’uso dell’oppio in Afghanistan, ma per la sua esportazione all’estero. Il ricavato serviva infatti al governo talebano per comprare generi di prima necessità dal Pakistan in un Paese che era stato impoverito da dieci anni di occupazione sovietica e dai quattro anni di conflitto civile cui gli stessi talebani avevano posto fine nel 1996 cacciando oltre confine i “signori della guerra” cioè i vari Massud, Dostum, Ismail Khan e compagnia cantante. Ma riassestato un po’ il Paese Omar aveva deciso di farla finita col traffico dell’oppio di cui il Corano proibisce sia l’uso che lo smercio. Per Omar questa decisione era difficilissima perché colpiva soprattutto la base del suo regime cioè i contadini, cui andava peraltro solo l’1 per cento del ricavo del traffico e gli autotrasportatori. Però il grande prestigio di cui godeva in Afghanistan gli permise di prendere questa misura e di convincere i contadini, a volte con azioni assai spicce, a convertire la coltivazione del papavero con altre coltivazioni.

Fatto sta che nel 2002 (anno in cui rileva la decisione del 2001) la produzione di oppio in Afghanistan crollò a 185 tonnellate. Oggi ci sono punte di 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno e l’Afghanistan produce il 93% dell’oppio mondiale. Come mai visto che fra gli obiettivi della coalizione Isaf, oltre a portare la democrazia, “liberare” le donne, eccetera, c’era quello di sradicare il traffico di stupefacenti, cosa a cui peraltro, come abbiamo detto, aveva già provveduto il Mullah Omar?

Le ragioni sono principalmente due. La prima è che per combattere i talebani i contingenti Nato (soprattutto americani, inglesi, canadesi) non bastandogli l’enorme superiorità militare (aerei, droni, bombe all’uranio impoverito e sofisticatissimi strumenti tecnologici) si sono alleati con i “signori della droga” che il governo di Omar aveva cacciato dal Paese o innocuizzato, così come aveva fatto con le bande di predoni che durante la guerra civile avevano infestato l’Afghanistan (come mi ha raccontato Gino Strada nell’Afghanistan talebano si poteva girare tranquillamente anche di notte, bastava rispettare, com’è, o come dovrebbe essere, in ogni Paese, la legge).

La seconda, anche più grave, è che sono gli stessi militari Nato i protagonisti di buona parte di questo traffico di droga. I militari, insieme ai soldati del cosiddetto esercito “regolare”e la corrottissima polizia (del resto tutto l’apparato istituzionale afghano oggi è corrotto, dal governo, ai ministri, ai governatori, ai magistrati giù giù fino all’ultimo funzionario) entrano nelle case e nei terreni dei contadini poveri, gli portano via l’oppio (unica risorsa rimasta a questi disgraziati) con la violenza, ma con la scusa che stanno facendo la lotta al traffico di stupefacenti, e poi vanno a raffinarlo in eroina nelle raffinerie che un tempo erano oltre confine e oggi sono a decine nello stesso Afghanistan. L’agenzia Fars News Agency ha dichiarato: “Nella sola provincia di Helmand è pieno di laboratori per la produzione di eroina, che prima dell’intervento americano non esistevano e che ora lavorano alla luce del sole”.

Naturalmente nella vulgata l’esponenziale aumento del traffico di droga è addebitato ai guerriglieri talebani. Certo, anche i talebani, oggi partecipano al traffico della droga per procurarsi armi e mezzi di sostentamento, ma la loro partecipazione al traffico globale di stupefacenti in Afghanistan è del 2%. C’è poi la famigerata Kandahar Strike Force, la milizia paramilitare addestrata e armata dalle forze speciali Usa che ha sede nell’ex palazzo del Mullah Omar alla periferia di Kandahar e che dà la caccia ai talebani seminando il terrore tra la popolazione con rapimenti, torture, omicidi e stupri. Naturalmente anche questi “rapimenti, torture, omicidi e stupri”vengono addebitati dai media occidentali ai talebani.

Enrico Piovesana ha focalizzato il suo libro su quanto è successo in Afghanistan dopo il 2001 solo sul traffico di droga. Questo era il suo obiettivo. Ma naturalmente in un reportage più ampio ci sarebbero da documentare le centinaia di migliaia di civili uccisi sotto i bombardamenti Nato, le migliaia di afghani che si sono ammalati di cancro a causa dell’uranio impoverito e le altre migliaia di bambini nati focomelici.

Nel suo reportage Piovesana, forse per carità di patria, non ci dice se anche il contingente italiano partecipa a questo turpe commercio. Però cita un episodio che fa pensare che noi italiani non si sia affatto estranei. Nel 2011 le accuse dell’ex caporalmaggiore Alessandra Gabrieli “non solo rivelano l’uso di droghe tra i militari italiani di ritorno dal fronte, ma adombrano addirittura il loro coinvolgimento nel traffico di eroina dall’Afghanistan, l’imbarazzo della Difesa è forte, e l’allora ministro Ignazio La Russa, preferisce non rilasciare commenti, in attesa dello sviluppo delle indagini”. Di cui non si saprà più nulla.

Questa è la situazione dell’Afghanistan dopo 14 anni di guerra di “liberazione”. Noi l’abbiamo denunciata tante volte, in un libro (Il Mullah Omar, del 2011), in articoli sul Fatto e su altri giornali, ma preferiamo lasciare le conclusioni al giornalista americano Eric Margolis dell’Huffington Post: “Quando verrà scritta la storia di questa guerra in Afghanistan, il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina e la sua alleanza con i signori della droga sarà uno dei capitoli più vergognosi”.

Recensione (un po' ipertrofica) di un bel film di Roberto Andò. Dai greci a Shakespeare nel film scorre un vizio secolare, ciò però non lo giustifica, né tanto meno lo sdogana, In filigrana il suicidio del capitalismo

. La Repubblica, 7 maggio 2016

Domenica scorsa tra i vari temi che ho esaminato e che gravi, anzi gravissimi, affliggono il nostro Paese ma anche l’Europa, ho indicato la corruzione. Oggi ritorno su questo argomento da un altro punto di vista, quello dell’arte e della cultura: non da millenni i romanzi, il teatro, la filosofia, il cinema da quando esiste, hanno creato personaggi dominati dalla corruzione e questo dimostra che non si tratta di cose occasionali, dovute soltanto a istituzioni difettose, mancanza di controlli, strutture politiche e giudiziarie mal fatte che la rendono più diffusa o addirittura ne stimolano l’esistenza.

La carenza di controlli certamente rende più facile quel malanno sociale, ma esso è intrinseco all’anima degli individui di tutte le epoche e di tutti i luoghi. Se così non fosse gli autori delle più varie opere non ci racconterebbero le gesta di corrotti e di corruttori che hanno storicamente pervaso la società in tutto il mondo.

Dai tragici greci a Manzoni, da Dante a Shakespeare. Fino a Le confessioni di Roberto Andò con Toni Servillo. Ecco perché siamo destinati alla “caduta”.La tragedia greca ritrae la corruzione come uno degli elementi portanti dei protagonisti — Euripide, Sofocle e Aristofane in particolare. E altrettanto è accaduto nell’antica Roma e basta leggere Cicerone e Ovidio e Virgilio per cogliere questo fenomeno in tutta la sua dimensione. E se vogliamo osservare altre epoche ed altri autori vediamo la corruzione perfino alla corte di re Artù e poi nell’Eneide di Virgilio, nelle opere di Agostino, nella patristica cristiana.

Montaigne dedica ad essa molte pagine degli Essais, La Fontaine ne parla in parecchie delle sue poesie, La Rochefoucauld nelle sue Massime. Nell’ Inferno dantesco i corrotti affollano le Bolge. Ma l’autore centrale che descrive e stigmatizza corrotti e corruttori è Shakespeare.In Italia dopo Dante, Boccaccio, Savonarola, Ariosto, ecco Manzoni quanto e forse più di Shakespeare. Leopardi nelle Operette morali e nello Zibaldone.

Quindi Voltaire, Rousseau, Diderot, Victor Hugo, Stendhal, Pareto, Mazzini. Carlo Marx ne ha fatto addirittura elemento principale del capitalismo.L’elenco insomma è interminabile, i nomi che ho qui disordinatamente menzionato sono soltanto alcuni.

Ma se veniamo ai tempi nostri direi che la corruzione è sempre di più l’elemento centrale di moltissimi autori nel romanzo, nella saggistica, nello spettacolo teatrale e cinematografico. I nomi si rincorrono e si moltiplicano. Verga, I Viceré, Pirandello, Sciascia, Carducci, D’Annunzio, Pasolini, Ettore Scola, Umberto Eco, Saviano e la sua Gomorra.

Quanto al cinema americano, basterebbe il nome di alcuni attori che hanno impersonato di volta in volta i corrotti, i corruttori e quelli che rappresentano la lotta contro la corruzione — compito essenziale della loro vita: da Charlie Chaplin a Clark Gable a Michael Douglas a Robert Redford e soprattutto Burt Lancaster e Humphrey Bogart, protagonisti di film nei quali la corruzione e se necessario la violenza sono dominanti. Perfino Il Gattopardo ne è un esempio.

Il più recente dei film italiani che ne è una sorta di breviario dove la corruzione diventa addirittura omicidio è Le confessioni di Roberto Andò, con protagonista Toni Servillo travestito da monaco certosino. Si svolge in un elegante albergo in Svizzera dove si radunano i capi delle multinazionali che dominano il capitalismo, riuniti a congresso dal loro presidente. Alla riunione partecipa anche il monaco certosino che ha studiato a fondo il tema della corruzione, alla quale gli uomini d’affari lì riuniti si dichiarano non solo estranei ma addirittura mobilitati in nome d’un capitalismo robusto e sano, dedito a produrre profitti attraverso il lavoro socialmente utile e opere socialmente benefiche.

Il presidente di quel congresso tuttavia sente dentro di sé una sorta di rimorso che lo induce a confessarsi, spinto anche dalle esortazioni del monaco. Alla fine viene ucciso. L’ultimo che l’ha incontrato è il monaco ed è quindi su di lui che cadono i sospetti e un processo promosso da giudici anch’essi corrotti. Nel frattempo altri omicidi vengono commessi dai convenuti che si eliminano tra loro, i più forti contro i deboli per accentrare le risorse in poche mani. In conclusione sono tutti arrestati ed anche il monaco che però riesce a fuggire.

Il significato del film, reso benissimo da Toni Servillo, dimostra che la corruzione è un elemento che caratterizza la natura della nostra specie in ogni tempo, connesso con la ricerca altrettanto indefessa del potere e della guerra per ottenerlo. Merita d’esser visto quel film, con la speranza che riesca a curarci e guarirci (?) da una natura così perversa e ampiamente diffusa.

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