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"Parole in gioco" (Bompiani). la Repubblica, 27 aprile 2017 (c.m.c.)

Quando giochiamo “con” le parole, le parole “ci” giocano. Ecco fatto, basta saltabeccare fra transitivo e intransitivo e siamo già piombati a piè pari nel mondo parallelo di Stefano Bartezzaghi, linguista sorridente: un mondo alla Lewis Carroll dove, dietro lo specchio, le cose (le parole) sembrano ancora ma non sono più proprio così. Dove le parole, che crediamo di pescare inerti e servizievoli dal sacco del nostro lessico, ne fuggono via per vivere avventure fantastiche, a noi del tutto ignote e spesso inaccessibili: «Difficile capire quando le parole giocano e quando fanno sul serio...».

Bartezzaghi somiglia a un giocoliere che, dopo aver finito di far volteggiare in aria clavette e cerchi, li pesa, li misura e li dispone in ordine per scoprirne segrete virtù e poteri. Si potrebbe dire che questo suo Parole in gioco (Bompiani, pagg. 257, euro 17) sia un Trattato di Ludosemiologia Generale, ma sarebbe una parzialità, perché quando parli di parole lo fai con le parole e questo vortice ti travolge, le parole non stanno immobili in grassetto nelle pagine dei dizionari, le parole sono dispettose, appunto, ci giocano, ci mettono in gioco. Giocano a nostro dispetto, giocano senza di noi, «le parole hanno i loro giochi», che a volte possiamo solo osservare dall’esterno.

Quando Bartezzaghi ci informa che “attore” è l’anagramma di “teatro”, quell’affinità folgorante e misteriosa non l’ha inventata lui, l’ha solo scoperta, era già lì, predisposta da chissà quale intelligenza extraumana del linguaggio. Perfino un po’ inquietante, diciamolo. Che cosa fanno le parole quando noi non le parliamo?

C’è un’altra vita del linguaggio, ignota a noi pervicacemente convinti della trasparenza utilitaria del lessico, persuasi che le parole servano solo per dire quella cosa lì. Che è vero, e lo fanno benissimo, solo che, una volta messe al mondo, le parole si ritagliano un’altra esistenza, opaca al senso transitivo e referenziale a cui vorremmo inchiodarle, e intrecciano tra loro relazioni irragionevoli e meravigliose, per chi riesca ad abbandonarsi al loro gioco.

Come i bambini, grandi inventori di lingue esoteriche, iniziatiche, comprensibili solo al gruppo e addirittura solo all’amico del cuore: alcune son diventate celebri, il farfallino che mette una zeppa dopo ogni sillaba ( parola diventa pafarofolafa), il francese verlan che ribalta le parole come calzini ( l’envers), il javanais, il largonji, il loucherbem (e perché no lo schtroumpf, la lingua dei puffi che incuriosì Umberto Eco). Lingue irriverenti, insolenti e beffarde, tutto il contrario del pur benintenzionato esperanto che invece voleva infilare le parole nell’uniforme militare della regolarità assoluta.

Come i bambini fanno i poeti: che delle parole curano la manutenzione, ripassandole a volte nell’officina del nonsenso («Ma se son prive di qualunque nesso / perché le scrive / quel fesso?», Aldo Palazzeschi), come meccanici che fanno girare i motori a vuoto sul ponte mobile per capire come funzionano, e perché li trovano belli così.

I giochi di parole, come le barzellette, sembrano non essere stati inventati da nessuno, come se appartenessero a un fondo antropologico, addirittura preesistente alla comunicazione: il neonato gioca felice con la lallazione,
ma- ma, ba- ba, sono quei poveri illusi dei genitori che pensano stia chiamando loro (per non deluderli, il bimbo li accontenterà). Nella civiltà del logos invece i giochi verbali sopravvivono acquattati nella fessura saussuriana tra langue e parole, tra comunicazione sociale ed espressione personale. Semiologo per formazione, enigmista per tradizione familiare, Bartezzaghi li va a cercare lì dentro, come uno speleologo, e con molto rispetto li analizza e mette in ordine. Si ha gioco, spiega, «quando l’artificio tende a saturare il testo», quando il discorso de re diventa meno interessante del de dicto, il cosa dico meno appassionantedel come lo dico; allora è il trionfo dell’ambarabacicicocò.

Dopo averlo ben servito, il gioco quindi fa un passo oltre il linguaggio poetico, che pure delle parole eleva il significante allo stesso livello del significato, verso il detournamento assoluto, il divertimento selvaggio delle assonanze, delle combinazioni, dell’artificio. Questo accade, a un primo livello, nel play libero e senza scopo: ma gli uomini ci hanno preso gusto, a giocare o a farsi giocare dalle parole, e ne hanno estratto spesso un game, un gioco competitivo, una sfida formalizzata in regole e con una posta in gioco, non foss’altro che la soddisfazione di controllare la soluzione nell’ultima pagina della Setti-mana enigmistica e scoprire che ci hai preso, che “sale d’aspetto” è il crittogramma di zucchero, e “mezzo minuto di raccoglimento” quello di cucchiaino.

Il gioco di parole è dunque il meritato sonno del significato? La rivincita dell’ottuso sull’ovvio, per dirla come Barthes? «Il gioco di parole non ha nulla da affermare», sostiene Bartezzaghi e poi un po’ si ricrede. Perché, come accade ai lapsus freudiani, nelle acrobazie del lessico si nasconde a volte un cortocircuito di senso: quando Marcello Marchesi scrive est modulus in rebus ci regala la migliore sintesi del concetto di burocrazia. Ma qui rischiamo di cadere di nuovo nella ricerca dell’utilità delle parole: mentre dovremmo ammettere che la pura e semplice arguzia delle assonanze e dei r ha una funzione etica, e che in fondo, nel vocabolario, ogni rivelazione è già la rilevazione di una rivoluzione.

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. il manifesto, 16 aprile 2017 (c.m.c.)

La prima impressione che si ricava davanti ai libri d’artista di Alina Kalczynska Scheiwiller, raccolti alla Biblioteca Braidense di Milano, è che l’aver studiato grafica editoriale ripercorrendo con intransigenza schemi che appartengono alla tradizione, il mettere continuamente sul tavolo da lavoro l’abecedario dell’illustrazione e i punti fermi dei settori progettuali di ogni impaginazione con relativi codici più o meno segreti (griglie, gabbie, sottili strisce di carte piegate e numerate, temi ricorrenti ma non utilizzati delle tante sfaccettature del graphic design), costituisce un pregio in più, soprattutto quando scelte e soluzioni di ogni giorno portano permanentemente a muoversi nell’ambito di una ideazione tra creatività e tecnica, che affida a un mondo di forme limpide e interiormente razionali e a un segno perentorio, equilibrato, il costante soffio della poesia.

Anche per evidenziare il percorso evolutivo di questo «segno» nelle sue più sottili relazioni, nonostante l’impossibilità di enumerare lo straordinario lavoro che c’è dietro ogni libro fatto stile icastico, e il potere selettivo esercitato per raggiungere la quota esatta tra tessitura di emblemi e struttura spaziale, proviamo a partire dall’esempio efficace dei libri Scheiwiller, dalle copertine di alcune collane («Immagini e documenti», «Piccole Strenne», «Il Sigillo. Piccola Biblioteca Cinese», «Poesia», «Prosa») dove modernità, gusto ed eleganza trovano il loro perfetto spazio, ovvero quell’empatia immediata tra carta, caratteri e immagine che l’ispirazione sollecita, la geometria ordina, le relazioni edificano, spesso con lo stupore della scoperta inattesa.

Parlare di stile, per tutto il lavoro di Alina, vuol dire ridefinire il rapporto di comunicazione esistente tra l’elaborazione delle forme, la selezione delle carte, l’organizzazione cromatica, la manifestazione dei ritmi sensibili e i contenuti, siano essi di Czesław Miłosz, Ezra Pound, Zbigniew Herbert, André Frénaud, Clemente Rebora, Carlo Invernizzi, Bao Chang, Maria Corti, Ai Qing, Wisława Szymborska, Lu Xun, Eugenio Montale, Federico II di Svevia, Alda Merini, Silvana Lattmann, Medardo Rosso, Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Gustaw Herling-Grudzinski, Julia Hartwig, Luciano Erba, Mary de Rachewiltz, Ibn Kemal, Camillo Sbarbaro, Kengiro Azuma, nomi comparsi in più occasioni nel catalogo Scheiwiller, prediletti per risolvere ogni volta il problema dell’apparente antinomia tra ordinamento del libro e espressione.

Non dimenticando mai il modo di aprirsi al testo e all’immagine in costruzione, ora con il disegno e più spesso con l’acquarello, la xilografia, uno schizzo, il linoleum, il collage, un campionario di sigilli, una composizione musicale, l’intaglio, il rilievo, una piega, un fermaglio. Infatti, tecniche e materiali, accostati e fusi in maniera fluida e immediata, si infiltrano di continuo nel testo, lo sezionano facendone un racconto umano e professionale senza limiti, frutto di prolungate meditazioni, tese a non rarefare la giocosa leggerezza della linea che edifica l’oggetto «libro» reso architettura del reale, a tal punto da portarlo, in molte occasioni, ad essere copia unica, sottratta alle regole del mercato che ne imporrebbe una tiratura e una impaginazione adatta allo scopo.

Sessanta sigilli, del 1994, è esemplare, in tal senso. Ideato per i 60 anni di Vanni, dipinto, scritto con calligrafie e con sigilli cinesi stampati a mano dall’artista, la copertina in carta giapponese Koko, la rilegatura alla cinese, il sigillo-segnalibro curato da Nino Ricci, evidenzia una sorta di radiografia astratta degli oggetti utilizzati e la concretezza del simbolo, la sua funzione, il suo categorico isolamento nella pagina per ottenerne il massimo significato.

Intanto, appare come fondamentale elemento strutturale, nella definizione dell’equilibrio della pagina e dell’armonia con la parte calligrafica. Basta osservare, l’una dopo l’altra, la collocazione delle impronte dei sigilli, ogni successiva variante, per convincersi che, in fondo, Alina racconta la sua vita, per autenticare, come si faceva una volta, tante lettere non inviate, per fissare sul foglio più segni di riconoscimento, tanti quanti sono i materiali dei sigilli: terracotta, porcellana, giada, osso, corallo, avorio, o le forme: quadrati, rettangolari, tondi, ottagonali, o cosa rappresentano: un drago, una filosofia, una religione, una storia, una poesia, un motto, un nome, un’opera d’arte.

Lo schema e le sue varianti, nella pagina, vengono messi a nudo dal sigillo che proscioglie o condiziona tutti i temi alimentati da poche linee elementari e un accordo di colori a piani sovrapposti, presenti nel libro dello stesso anno, Giardino incantato (a Massafra) e nel Trittico della Szymborska (1997), dove all’universo chiuso e misterioso del primo, carico tuttavia di una sotterranea forza trasfiguratrice propria di una natura fantasmagorica bloccata dall’atmosfera torrida, corrisponde il miracolo inventivo del secondo che trova nella poesia il candore per ricomporre l’universo alle sue stesse radici.

È che Alina, costruendo il libro, si diverte, si stupisce, si commuove, non lo sente come oggetto ma come idea da cui non farsi sopraffare, tanto la visione creativa è diretta e immediata. Così tempestiva da risolvere senza tentennamenti i contrasti sempre attuali tra luminosità – trasparenza e opacità – zona d’ombra. Quasi lo stupore che si rinnova davanti al verso ripetuto come un mantra possa riscoprire il soggetto che le sta di fronte e realizzarlo carico di meraviglia.

Tutto ciò avviene a partire dal Canzoniere di Federico II di Svevia (1995) che accelera la spoliazione all’estremo dell’immagine, per raccogliere gli elementi essenziali di un’architettura svolta tutta nello spazio, e la decomposizione in colori prismatici della luce. Le tre poesie di Alda Merini in Un poeta rimanga sempre solo (1996), con quella scrittura allusiva ed ellittica, sembra vogliano far ristagnare le forme, solide nel loro equilibrio sfumato e sottile di toni. Al contrario, trovano il perfetto accordo tra creazione plastica e sensazioni visive, peculiare della poetessa milanese la cui economia di mezzi corrisponde alla discrezione di Alina, e si dispongono secondo sintesi impreviste, la fantasia a gareggiare con la memoria.

Quanto gli orizzonti pittorici e le esperienze grafiche siano coestesi, ormai, a tutti gli aspetti dell’esistenza, appare evidente in Tesori (2010) che ha i suoi antecedenti in Acquarelli (2001), Mediterraneo (2002), La luce, il colore (2003), Lettere dalla Puglia (2005), Il suo nome è Otranto (2009). Un testo di Camillo Sbarbaro incita a conservare in un incavo della copertina quattro «tesori» avuti in regalo dai bambini otrantini Caterina, Michele e Matilde, come a dire mettere in un libro oggetti invece che parole, per ritrovare intatti cieli, vento, luci, ore, sorrisi, emozioni e rivivere ogni volta la dolce ebbrezza delle stagioni passate.

Sulla scia della Szymborska, di un rapporto coltivato con la partecipazione di una lettrice attenta ai dettagli, ai minimi particolari di ciò che ci circonda, provenienza e comportamenti umani inclusi, la propria individualità assume un’importanza tale da spingere a dar valore anche a cose effimere, a momenti irripetibili che hanno fatto crescere le capacità percettive. Da ciò l’impulso, in fase di impaginazione, alla naturalezza (Zbigniew Herbert, Elegia per l’addio della penna dell’inchiostro della lampada, 1989), la decomposizione crescente della forma, sviluppata in tutte le sue facce (Bao Chang, Pensieri amichevoli, 1989), le frasi colorate che vivificano le superfici della carta secondo misure cadenzate (Wislawa Szymborska, La fiera dei miracoli, 1993), la magia spaziale delle linee di fuga che rompono il silenzio dell’attesa (Eugenio Montale, Domande, 1994), la considerazione di ogni improvvisa accensione fantastica (Alda Merini, Lettere, 1997), i motivi geometrici predisposti dalla combinazione di piani cromatici, gamme di toni, esaltati da variazioni ritmiche (Alina Kalczynska, Otranto, 1997-’99), l’assoluta libertà nell’uso di strumenti come il taglierino o la forbice i cui movimenti, associando la linea al colore e il contorno alla superficie, portano al segno puro (Prisma, 1999), la semplice meraviglia del verso accordata al gioco tra ragione e istinto delle linee rette (Czesław Miłosz, Tak mało, 2010), una originale sapienza grafica come contrappunto a un’incessante osservazione del mondo visibile (Mary de Rachewiltz, Gocce, 2010), la descrizione della quotidianità propria di un universo poetico singolare che tre acquarelli originali, ognuno incorniciato da un intaglio di diversa forma geometrica, tre manoscritti in facsimile e un elemento quadrato in rilievo disposto per trasmettere un riflesso di colore, enucleano quali elementi concreti delle relazioni esistenti tra arte e poesia (Wisława Szymborska, Dodici poesie, 2015).

L’evoluzione di questo rapporto, evidente nella ricerca di Alina fin dalla seconda metà degli anni ottanta (Clemente Rebora, Campana di Lombardia, 1988), prende le mosse da un ininterrotto e rinnovato bagaglio tecnico, da una disciplina artigianale incompatibile con la facilità e da un viaggio all’unisono con la poesia.

Non più complesse architetture, linee avviluppate, piccoli tocchi minuziosi, toni monocromatici, cadenze recise, ma superfici distese, larghi piani, toni chiari e spezzati, tratti d’inchiostro o di matita, pennellata di tempera, luminescenze d’acquarello, e qualche improvviso procedimento d’illusionismo ottico che accentui il valore plastico dell’immagine. Il libro acquisisce il suo vocabolario, una sintassi e uno stile inimitabili. La carta diventa un autentico mezzo d’espressione, materiale docile allo sforzo di dominare uno spazio ormai senza limiti.

Non ha scritto, Alina, che il libro d’artista è l’ultimo tesoro dei nostri tempi?

(Stradario di uno spaesato, Statale 18, La Calabria brucia,) la caviglia dolente del mondo che si chiama Calabria». doppiozero, 14 aprile 2017 (c.m.c.)

I suoi libri non sono saggi e non sono racconti. Sono l’elettrocardiogramma dei suoi viaggi. La sua è una terra anginosa, ferina. I suoi non sono luoghi per spiriti tiepidi. Il paesaggio è una furia di bellezza, ma in Calabria la bellezza ha fieri nemici più che altrove. Difficile trovare nei luoghi abitati un metro quadro che non risenta di un lieve oltraggio. Qui le betoniere arrivano ovunque. Allora è importante leggere Minervino perché ci fa vedere l’Italia nella sua parte terminale. La penisola finisce a Reggio Calabria, dopo comincia la Sicilia ed è come se cominciasse un’altra cosa.

I libri di Minervino sono scritti in macchina, il paesaggio entra direttamente nel finestrino. In questo ultimo libro si avverte come un senso di dolore più acuto, un senso di solitudine. E questo dà belle impennate a tante pagine del libro. In effetti ci sarebbe da dire: non può essere che un regione italiana sia messa in queste condizioni. E invece il lamento di Minervino non produce molta eco. Sembra inascoltato già dove avviene. Si sente che il viaggiatore ha pochi approdi, è come un animale braccato che non ha alcuna tana in cui proteggersi. E per questo io credo che il libro di Minervino sia bello.

È un libro spaesato e senza pellicola, senza quella patina a cui ci hanno abituato gli autori più celebrati. Leggi e sei nella ferita, non nella sua rappresentazione. Ed un continuo salire e scendere: il mare è subito profondo e la montagna vicina al mare è subito altissima. Minervino non ha la pazienza di sistemare, di elaborare un ragionamento sistematico. Procede a strappi. Il cuore della faccenda è nel vedere, un vedere che non è mai pacifico, gli occhi e il cuore stanno nello stesso luogo, è un vedere emozionato.

Minervino su questa strada potrà darci sicuramente altri libri belli, ma già mentre scrive ti fa sentire che le sue parole non saranno accolte. L’Italia non riesce a guardare la Calabria, tutto si risolve in una sentenza frettolosa e senza appello. Il compito dello scrittore è trovare le prove di un’innocenza non riconosciuta, di una colpa non riconosciuta. Lo scrittore è l’ultimo e più affidabile grado di giudizio. Basterebbe leggere la pagina in cui Minervino racconta l’incontro con Danilo Dolci per sentire in che miserabile bancarotta culturale siamo finiti. Ma Minervino non si arrende, continua a oltrepassare la letteratura e l’antropologia per cercare un punto di vista più alto, meno ovvio, meno sicuro. E scrive e guida, frena, accelera, la pagina è il suo abitacolo e noi sentiamo i fossi, i tornanti, sentiamo improvviso il profumo delle ginestre, la luce lontana in mezzo al mare.

«La Calabria che conosco io oggi è un groviglio di strade senza una via d’uscita. Un posto per me e contro di me.» In questo stradario di uno spaesato si coglie l’intimità e la distanza con la sua terra, la mancanza di compromessi già nello sguardo: è un continuo subbuglio di stupore e insofferenza. Manca una classe dirigente che possa fare una sintesi. Manca una classe intellettuale che ci possa offrire amicizia, che sappia costruire comunità. La bellezza di questo libro sta nel fatto che lo sguardo non è tutto sulla Calabria, c’è il corpo di chi scrive, c’è un continuo alternarsi del dentro e del fuori. È lo scrittore a muoversi, agitato in una terra agitata. Il lettore può sistemarsi tranquillamente sul sedile posteriore, come se questo libro fosse un taxi. Noi guardiamo il paesaggio e chi ci guida nel paesaggio. Il prezzo della corsa non la paga chi legge ma chi scrive.

«Le reti del valore», un libro collettivo su migrazioni e governo della crisi. Inchieste e ricerche sul campo. La divisione etnica del lavoro dentro e fuori i confini nazionali è una costante nell’economia mondiale

». il manifesto, 13 aprile 2017 (c.m.c.)

Cos’hanno in comune un dormitorio per lavoratori interinali a Pardubice, un camion usato come palco per comizi sindacali fuori da una fabbrica di Manaus, un magazzino stipato a Shenzen? Niente, se non il fatto di essere scorci nascosti di continenti lontani, tanto differenti da sembrare collocati su pianeti diversi, ma in realtà posizionati su di una stessa catena transnazionale del valore.

Foxconn, multinazionale di elettronica al centro di questa particolare catena, non è però che una delle imprese che hanno contribuito a ridisegnare le geografie globali della produzione analizzate in Le reti del valore. Migrazioni, produzione e governo della crisi, a cura di Sandro Chignola e Devi Sacchetto (DeriveApprodi, pp. 259, euro 18). Questa raccolta di quattordici testi sociologici, etnografici e teorico-politici, si pone, nelle parole introduttive dei curatori, il problema politico di «pensare una connessione tra gli spazi e i tempi (produttivi e politici, individuali e collettivi) che il capitale cerca costantemente, e con violenza, di separare e che la composizione complessiva del lavoro permette invece di unificare come nuova condizione comune». La raccolta dà allora voce alla condizione dei migranti nei luoghi più disparati, dal Sud Italia alla Russia, per mostrare la doppia natura del lavoro migrante come rapporto di dominio e dispositivo di soggettivazione, «soglia di ubbidienza» e «spazio di politicizzazione», secondo le formule di Maurizio Ricciardi.

Non si tratta dunque solamente di un’indagine volta a scandagliare il cuore nero dell’industria globale nei suoi effetti sulle classi subalterne, bensì di una ricerca collettiva tenuta insieme dal filo conduttore delle migrazioni e specificamente dei migranti come soggetto autonomo che incarna il «non più» della cittadinanza. Il lavoro migrante e i processi di soggettivazione che innesca permettono di gettare luce sulla trasformazione contemporanea delle relazioni produttive transnazionali, e, come suggerisce Gabriella Alberti nel suo saggio sul sindacalismo ibrido dei migranti, di «reinventare forme di mobilitazione e negoziazione perfino dentro i luoghi di lavoro frammentato».

All’interno di questo scenario, l’Europa rappresenta uno spazio cruciale in quanto «accomuna oggi attori istituzionali ed economici in ogni parte del globo» interessati a trarre profitto da una vera e propria «nuova logistica europea» (Giorgio Grappi) fondata tanto sull’abbattimento quanto sulla creazione ex novo di confini. In questo contesto, la mobilità del lavoro e del capitale si danno – nelle parole di Devi Sacchetto e Rutvica Andrjiasevic – come «forza costitutiva nella strutturazione del mercato del lavoro», disarticolando il rapporto tra forme istituzionali, organizzazione economica e territorio.

Fuori da ogni nostalgico lavorismo, il volume mette in luce la rilevanza dell’industria per comprendere i processi di soggettivazione attuali, un’industria, però, che non si può leggere se non attraverso categorie nuove: razionalità logistica, mobilità, Stato globale, ma anche informalizzazione, etnicizzazione, de-delocalizzazione in un contesto mondiale trasformato in profondità dal neoliberalismo e dai processi di finanziarizzazione. Queste sono le parole che risuonano in tutti i saggi, a riprova dell’insufficienza della categoria di cognitariato come ombrello onnicomprensivo capace di cogliere la complessità di reti del valore segnate da gerarchie marcate, da dislivelli di potere enormi. Piuttosto, come emerge nel saggio conclusivo di Vando Borghi, «la città del lavoro» e «la città della conoscenza» convivono creando un campo di tensione, di conflitto, che sfugge ai tentativi di appropriazione.

È un conflitto, questo, che difficilmente può esaurirsi nell’immaginario pacificato della società reticolare, orizzontale, che connette lavoro e conoscenza, ma deve scontare l’imporsi sulla scena di soggetti – precari, migranti, operai – che mettono continuamente a nudo la violenza che si cela dietro la valorizzazione della cooperazione sociale. Da un lato, la trasformazione della conoscenza in «basi informative» (algoritmi, programmi informatici, indicatori di performance, parametri di valutazione) e, dall’altro, le dinamiche di impoverimento e marginalizzazione del lavoro vivo contribuiscono a intensificare un processo di individualizzazione che, da originario progetto di emancipazione, diventa un prerequisito che costringe ciascuno e ciascuna a trovare «soluzioni biografiche» a problemi collettivi e strutturali.

Contro questo nuovo spirito del capitalismo che usa i processi di individualizzazione per esercitare un dominio assoluto sul tempo, i migranti, figura chiave dell’intero volume, si pongono come forza dirompente capace di politicizzare la differenza data dalla presenza di una massa di individui messi al lavoro. Se guardati dal punto di vista eccentrico dei migranti, perfino gli stereotipi razziali e razzisti acquistano una valenza inaspettata. Ad esempio, letta contestualmente allo sviluppo dell’industria della moda, l’auto-segregazione dei migranti cinesi risulta non già una caratteristica etnica, ma il mezzo di «compressione della diversità della forza lavoro nel contesto globale della crescente diversità del lavoro».

Come mostra Antonella Ceccagno, nella rete di laboratori terzisti cinesi della moda italiana, le dinamiche di etnicizzazione della forza lavoro e di delocalizzazione «in loco» della riproduzione sociale diventano assi di produzione di profitto, precondizione per un «fluido funzionamento» del regime mobile del fast fashion.

Allo stesso modo, il furto di materie prime e di merce finita nelle grandi fabbriche tessili in Romania che producono per le grandi firme, lungi dal confermare lo stigma del romeno ladro, simboleggia la contestazione materiale del furto che la forza lavoro subisce quotidianamente. Come spiega Veronica Redini, rubare un capo di alta moda cucito e assemblato in Romania ma comperato esclusivamente nelle boutique delle capitali dell’Europa occidentale, per rivenderlo o tenerlo per sé, non è solo un risarcimento del proprio sfruttamento, ma è espressione di una conflittualità operaia che non trova nessuna mediazione sindacale, la cifra, cioè, di una rivolta silenziosa contro un ordine in cui il lavoro materiale, strutturalmente sottopagato, deve essere reso invisibile.

Questa è l’altra metà del made in Italy, marchio di uno sfruttamento subìto soprattutto dalle donne migranti, che, mentre con i loro movimenti e la loro ricerca di libertà mettono in discussione le strutture patriarcali di potere, si ritrovano sempre più oppresse dal doppio carico di lavoro produttivo e riproduttivo. Tanto in Veneto quanto nei Paesi della Ex-Jugoslavia, nota Chiara Bonfiglioli, la crisi (ormai normalizzata) costringe infatti le migranti a tornare al lavoro domestico, andando ad alimentare «un welfare informale, tollerato e sussidiato dai poteri pubblici» (Francesca Alice Vianello).

La collezione dei saggi contenuti in Le reti del valore allude insomma non soltanto alla produzione reticolare del valore a livello mondiale, ma anche e specialmente alla cattura del valore da pare di reti intrecciate di sfruttamento, informalizzazione, segregazione funzionale, retoriche umanitarie e mobilità governata per mezzo della costante produzione di norme legislative ed amministrative. Eppure, l’immagine delle reti non evoca solamente l’«irretimento» quotidiano a cui è soggetto il lavoro vivo. Fotografa anche una situazione che si evolve con rapidità e lungo traiettorie impreviste, lasciando spazio ai movimenti reali che non si lasciano catturare da queste reti ma le sommergono con la potenza di una marea che non risparmia nessun angolo del globo.

«La sola utopia valida per i secoli a venire e le cui fondamenta andrebbero urgentemente costruite o rinforzate è l’utopia dell’istruzione per tutti». Un capitolo da

“Un altro mondo è possibile”, il nuovo saggio di Marc Augé . MicroMega online 10 aprile 2017 (c.m.c)

Le utopie del diciannovesimo secolo si sono infrante contro la dura realtà della storia del ventesimo. La globalizzazione oggi è sia economica sia tecnologica, e abitiamo in un mondo fatto di immagini e messaggi istantanei che ci dà la sensazione di vivere in un presente continuo. Anche l’ultima utopia, quella della “fine della Storia” e della società liberale, è messa alla prova. Per pensare alle possibilità di futuro c’è un modello, il pensiero scientifico, che promuove l’ipotesi come metodo, e si basa su due principi: pensare in rapporto agli scopi e comprendere che l’uomo, nella sua tripla dimensione, individuale, culturale e generale, è la sola priorità.

È il grande paradosso della nostra epoca: non osiamo più immaginare l’avvenire proprio nel momento in cui il progresso scientifico ci ha permesso di conoscere l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. La scienza avanza con una rapidità tale che oggi non saremmo in grado di descrivere quale sarà lo stato delle nostre conoscenze di qui a cinquant’anni, eppure su scala storica non si tratta che di un’infima particella di tempo.

Questo paradosso è tanto più sconvolgente se si considera che i progressi scientifici vanno di pari passo con invenzioni e innovazioni tecnologiche non prive di conseguenze sulla vita sociale delle persone. Le tecnologie nel campo della comunicazione in teoria permettono ad ogni individuo molteplici possibilità di relazione; i mezzi di trasporto consentono a ciascuno, sempre in teoria, di esplorare il mondo; infine, le reti di distribuzione dilatano a dismisura qualsiasi possibilità di consumo. Sotto un altro punto di vista, possiamo constatare che la collaborazione tra scienziati e ricercatori di tutto il mondo è sempre più necessaria per il progresso della scienza: condividono i propri risultati o lavorano direttamente insieme, come al CERN di Ginevra, che rappresenta un moderno modello di ciò che potrebbe essere l’utopia realizzata di una vita sociale internazionale votata alla conoscenza e alla ricerca di base.

Questo è il punto essenziale, a partire dal quale si possono sviluppare tutte le nostre aspettative ma anche tutti i nostri timori: lo stretto intreccio tra vita scientifica e vita sociale, tra storia della scienza e storia tout court, e tra progresso scientifico e sviluppo economico. Il ventesimo secolo ha segnato la morte delle utopie, delle «grandi narrazioni» del diciannovesimo, per riprendere l’espressione del filosofo Lyotard [1], che sono sfociate in mostruosità sociali e politiche. È stato anche il secolo delle sperimentazioni, talvolta omicide, della scienza, nel momento in cui le nuove invenzioni modificavano direttamente il corso della storia umana, come nel caso dei diversi armamenti derivati dalla ricerca sull’atomo.

Sappiamo che la scienza oggi richiede finanziamenti e che non può progredire se non in paesi ricchi, che la distinzione tra ricerca pura e ricerca applicata è relativa, dal momento che la prima necessita degli strumenti tecnologici elaborati dalla seconda: si può dire che mai come oggi storia delle scienze e storia politica siano state così interdipendenti. La crisi che stiamo attraversando sul piano economico e finanziario – evento relativamente recente del quale bisogna imparare a misurare le conseguenze – ha forse cause ancora più profonde che dipendono dalla correlazione tra le due storie.

L’utopia liberale a cui pensava Fukuyama, e a cui aveva dato il nome di «fine della Storia»[2], ha già lasciato il posto a un’oligarchia, che domina un pianeta le cui disuguaglianze interne non smettono di aumentare. La domanda posta da Derrida a Fukuyama – la fine della Storia, intesa come l’accordo intellettuale generalizzato sulla forma ottimale di governo degli uomini, è una realtà osservabile o una proiezione di tipo utopistico?[3] – ha trovato risposta. Siamo al centro di un’utopia che comincia a sgretolarsi nel momento stesso in cui prova a realizzarsi: quella dell’alleanza feconda e definitiva tra democrazia rappresentativa e mercato liberista su scala planetaria. Regimi che non hanno niente di democratico si adattano molto bene al libero mercato; la logica della speculazione finanziaria prevale su quella della produzione e della prosperità sociale. Nell’ambito delle conoscenze come in quello delle risorse economiche non smette di ampliarsi il divario tra i più fortunati e i più poveri, anche nei paesi emergenti. Ci stiamo dirigendo verso un pianeta a tre classi sociali: i potenti, i consumatori e gli esclusi.

I potenti di questo mondo e di quello che verrà non formano un corpo omogeneo: fanno parte della sfera economica, di quella politica o di quella scientifica, ma insieme costituiscono, obiettivamente, l’ambito all’interno del quale si delinea il futuro del sistema in atto. I consumatori sono il motore di questo sistema: il consumo è fondamentale per il suo funzionamento. L’intero apparato di pubblicità diretta o indiretta li invita a farlo in ogni maniera possibile: l’idea di innovazione teorizzata da Schumpeter sostituisce l’avvenire. L’innovazione tecnologica, oggi, rappresenta a grandi tratti l’idea di un pianeta interconnesso in cui le reti sociali si presentano come punti di contatto, di scambio, di cultura e di informazione. Le reti stesse sono l’ambiente e l’oggetto privilegiato del consumo, poiché la tecnologia che le rende ogni giorno più performanti si materializza sul mercato sotto forma di prodotti sempre più innovativi che non smettono di diffondere e riprodurre la propria immagine.

Trova spazio l’idea che tali prodotti siano un fattore di sviluppo delle conoscenze, e la virtuosità di alcuni nel loro utilizzo può in effetti venire a conforto di questa posizione pericolosamente illusoria, dal momento che confonde il fine con i mezzi, il messaggio con i media, la trasmissione con l’acquisizione, la conoscenza con l’identificazione.

Gli esclusi, infine, sono tali in termini sia di prosperità economica sia di accesso alla conoscenza. Le realtà della globalizzazione sono dunque assai lontane dagli ideali della planetarizzazione, di una società Terra i cui liberi cittadini, uguali per legge e di fatto, condividono lo spazio nel comune interesse. Il mercato si estende al globo intero, ma i lavoratori sottopagati si trovano da una parte e i consumatori, più o meno fortunati, dall’altra.

Indipendentemente dalle disuguaglianze – rafforzate dalla priorità data alla tecnologia e dai cambiamenti che essa comporta in termini di consumo –, il sistema diffonde l’immagine di un mondo in cui tutto è ubiquo e istantaneo, occultando le reali condizioni della nostra esistenza e sovvertendo i fondamenti simbolici su cui poggia l’intera vita sociale. L’illusione di sapere e la perdita di attrazione da parte dei simboli sono conseguenza dello stesso processo tecnologico che contribuisce alle nuove conquiste della ricerca di base. Qualunque tentativo di pensare il futuro deve innanzitutto eliminare questa difficoltà. La portata del fenomeno sarà osservabile contrapponendo il locale al globale e, per esempio, le disuguaglianze sociali che prevalgono nelle grandi metropoli urbane all’immagine di armoniosa fluidità con cui le dipingono i mezzi di comunicazione, o i tempi morti della vita sociale ed economica all’istantaneità della comunicazione. La vita sociale reale ha bisogno del tempo e dello spazio, che sono la materia prima delle relazioni stabilite, pensate e rappresentate tra l’uno e l’altro, tra l’uno e gli altri e tra gli uni e gli altri.

Le seguenti tre scale di osservazione non possono essere confuse se non a costo di una illusoria metaforizzazione del reale.

Per lungo tempo gli esseri umani hanno popolato l’universo con i loro sogni, i loro miti e i loro dei, dando nomi agli astri o alle costellazioni per poterli sentire più vicini. Oggi prendiamo atto del carattere ambizioso e al contempo marginale di questa impresa. A livello di universo conosciuto (miliardi di sistemi solari nella nostra galassia e miliardi di galassie nel nostro universo), in cui le dimensioni del tempo e dello spazio si confondono e ci sfuggono, la nostra immaginazione si esaurisce rapidamente, incapace di afferrare l’inconcepibile. Dobbiamo coltivare il nostro orto, diceva Voltaire[4], ossia restare nella misura della storia umana.

Su scala planetaria, ci troviamo in una posizione intermedia. Anche se cominciamo a intravedere la possibilità di annettere la “periferia” più vicina (la Luna, Marte), per il nostro modo di vedere la scienza avanza troppo lentamente verso le frontiere dell’ignoto e dell’infinito. Per questo motivo ci stiamo abituando progressivamente al passaggio alla scala planetaria, a cui corrisponde la globalizzazione tecnologica e mediatica. Il pantheon greco ha abbandonato il cielo, ma le “stelle” dei varietà o della politica invadono i nostri schermi. Non proiettiamo più gli dei nel cielo, ma i nuovi idoli internazionali si proiettano nella nostra intimità, e contribuiscono a persuaderci del fatto che, anche per ognuno di noi, le dimensioni spaziali e temporali si siano trasformate radicalmente – il che in parte è vero, e in parte illusorio.

L’illusione scompare su scala locale, anche se la moltiplicazione e la miniaturizzazione delle tecnologie tendono a farla insinuare fin nell’intimo dei nostri corpi. Viviamo ancora, ciascuno a suo modo, nella concretezza del tempo e dello spazio: lo dimostrano, per esempio, i dibattiti sull’età del pensionamento o sulla natura dei contratti di lavoro (a tempo determinato o indeterminato), così come sugli ingorghi del traffico.

Ciò che ci inquieta, in fondo, è che non sappiamo più dove stiamo andando. Le utopie del diciannovesimo secolo descrivevano il mondo a cui aspiravano. Le grandi religioni sono state, e in alcuni casi sono ancora, animate da un proselitismo che trova la propria origine in un mito fondatore. Da questo punto di vista, il passato fornisce di caso in caso un modello, un punto di riferimento e una modalità di azione.

Il mondo che oggi si richiude su ciascuno di noi è il mondo della tecnologia, che si è sviluppato più velocemente di quanto non abbiano fatto le società. Ci affanniamo per adottare i congegni che esso ci impone, e nel complesso abbiamo la sensazione di essere assorbiti da un avvenire a cui non avevamo pensato e che ci dà le vertigini, piuttosto che di essere determinati dal nostro passato. C’è qualcosa dell’apprendista stregone nelle attuali tecnologie della comunicazione. Questo aspetto, combinato alle crescenti disuguaglianze economiche e agli sconvolgimenti di massa che queste implicano, spiega perché, sotto alcuni aspetti, l’avvenire ci fa paura. Se non siamo più noi ad ambire al futuro, è perché è il futuro, piuttosto, che ambisce a noi.

Come reinserirci in quella che per certi aspetti sembra una fuga in avanti? Credo che potremmo tentare di trovare un principio di risposta solo partendo da concetti semplici e chiari. A rischio di dare sembianze dogmatiche a ciò che non pretende di essere altro che una dichiarazione di ambiziosa modestia, riassumerò tale risposta in tre punti: uno relativo al metodo, uno all’oggettoe uno al principio.

Il punto riguardante il metodo è, in realtà, qualcosa di più: si tratta di far assurgere il metodo scientifico a principio generale di azione sulla società. Si parla talvolta di “scientismo” per condannare le forme eccessive di garanzia e certezza. Tuttavia la scienza non ha niente a che vedere con lo scientismo. La ricerca scientifica passa attraverso l’ipotesi, che non può essere validata se non previa verifica: non parte da una verità preconcetta, ma si sforza di far arretrare progressivamente, seppur di poco, le frontiere dell’ignoto. Il fatto che nell’effettiva routine della pratica scientifica questa possa divenire oggetto di quelle critiche intestabili a qualunque pratica sociale che implichi rapporti di potere o di proprietà è tutta un’altra faccenda. Ciò che resta è che la scienza è l’unico settore dell’attività umana in cui si può parlare di progresso cumulativo senza timore di sbagliare. È esattamente la pratica dell’ipotesi che ha permesso l’avanzamento della conoscenza, nella misura in cui costituisce una scommessa sull’avvenire sempre rivedibile. Se l’esperimento non le verifica, si ritorna alle ipotesi.

Nei paesi comunisti, che pretendevano di essere guidati dal materialismo “scientifico”, l’accusa di revisionismo era considerata molto grave e poteva comportare conseguenze spiacevoli per quanti ne erano oggetto. Al contrario, l’idea che il modello scientifico debba ispirare la politica umana passa attraverso la promozione dell’ipotesi, della verifica e dell’eventuale revisione.

A questo proposito è legittimo chiedersi se la conoscenza non sia l’obiettivo ultimo dell’esistenza umana, se essa non ne sia l’oggetto stesso e, più in generale, se la questione degli obiettivi non debba essere dominante in tutti i dibattiti politici, economici e sociali. Se si è identificato il peccato originale nella conoscenza, nel desiderio di conoscere, questa convergenza con il mito pagano di Prometeo configura invece un ideale per l’umanità. L’ideale della conoscenza come fine ultimo della condizione umana si situa certamente al di là dei limiti spaziali e temporali di ogni vita individuale, ma suggerisce che la vera uguaglianza tra le persone passi attraverso l’accesso alla conoscenza, attraverso l’istruzione. Designando la conoscenza come obiettivo e fine ultimo dell’umanità, si fa riferimento semplicemente all’uguale dignità di tutti gli individui. Si tratta di rispondere alla domanda fondamentale: per cosa viviamo?, nel senso di “in vista di cosa?”.

D’altra parte, l’obiettivo della conoscenza non è in contraddizione con quello, espressamente formulato dall’Illuminismo, della felicità. Questa condizione non può essere definita per ognuno se non come la simultanea coscienza di sé e degli altri. L’amore individuale è una forma esacerbata e più o meno duratura di tale coscienza, di cui si trova un’espressione più collettiva nel termine fratellanza, che la Repubblica francese ha aggiunto alle due prime parole che costituiscono il suo motto: libertà e uguaglianza. Nessun individuo può pretendere di raggiungere una felicità totale, tanto meno una conoscenza totale. Tuttavia la nozione di sacro, secondo Durkheim, passa attraverso la presa di coscienza retrospettiva e in forma vivace dei momenti eccezionali in cui la coscienza degli altri si era fatta più vivida:

Verrà un giorno in cui le nostre società conosceranno ancora momenti di effervescenza creativa da cui sorgeranno nuovi ideali, da cui scaturiranno nuove formule che serviranno, per un certo tempo, da guida all’umanità; e una volta vissute queste ore, gli uomini proveranno spontaneamente il bisogno di riviverle ogni tanto nel pensiero, cioè di conservarne il ricordo per mezzo di feste che ne ravvivino regolarmente i frutti.[5]

La definizione durkheimiana di una sorta di sacralità laica ci tornerà utile dal momento che presuppone la tripla dimensione dell’uomo: individuale, culturale e generale. Ognuna di esse può trovare il proprio compimento solo nel rispetto delle altre due. L’avventura umana si svolge singolarmente in ogni coscienza individuale. Tuttavia il necessario riferimento al prossimo, senza il quale non si può costruire alcuna identità individuale, è in larga parte determinato dall’apparato simbolico delle società e delle culture particolari; queste possono essere talmente costrittive da togliere qualunque significato alla nozione di libertà individuale (ed è ad esse che bisogna imputare la storica disuguaglianza tra uomini e donne). La piena coscienza individuale non si realizza, invece, che attraverso quella dell’appartenenza al genere umano, indipendentemente dalle origini e dal sesso.

La tripla dimensione dell’essere umano costituisce dunque il principio da cui partire per poter formulare il suo stesso fine, l’effettiva universalità, e per definire l’incerto luogo della sua messa in atto: le società nella loro diversità.

Dunque l’obbligatoria constatazione di un indebolimento, se non della scomparsa, dei progetti politici del ventesimo secolo non ci porterà a trarre solo conseguenze negative poiché, in fin dei conti, questa assenza di rappresentazioni costruite dell’avvenire ci dà forse una reale possibilità di concepire dei cambiamenti, in forza dell’esperienza storica concreta e della pratica e della ricerca fondamentale.

Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a guardare verso l’avvenire senza proiettarvi le nostre illusioni. Elaborare delle ipotesi per testare la loro validità, spostare progressivamente e prudentemente le frontiere dell’ignoto: ecco ciò che ci insegna la scienza, ciò che dovrebbe promuovere ogni programma educativo e a cui dovrebbe ispirarsi qualunque riflessione politica. Si delinea così la sola utopia valida per i secoli a venire, le cui fondamenta andrebbero urgentemente costruite o rinforzate: l’utopia dell’istruzione per tutti, la cui realizzazione appare l’unica possibile via per frenare, se non invertire, il corso dell’utopia nera che oggi sembra in via di realizzazione: quella di una società mondiale ineguale, per la maggior parte ignorante, illetterata o analfabeta, condannata al consumo o all’esclusione, esposta ad ogni forma di proselitismo violento, di regressione ideologica e, alla fin fine, a rischio di suicidio planetario.

NOTE

1. JeanFrançois Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 2002 (ed. or. La Condition postmoderne. Rapport sur le savoir, 1979).
2. Francis Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992 (ed. or. The End of History and the Last Man, 1992).
3. Jacques Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994 (ed. or. Spectres de Marx, 1993).
4. Voltaire, Candido o l’Ottimismo, Feltrinelli, Milano 1991, p. 125 (ed. or. Candide ou l’optimisme, 1759).
5. Émile Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Meltemi, Roma 2005, p. 491 (ed. or. Les Formes élémentaires de la vie religieuse : le système totémique en Australie, 1912).

(10 aprile 2017)

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la Repubblica, 9 aprile 2017 (c.m.c.)

Parlare oggi della felicità, del futuro, non è facile perché per arrivare alla definizione della felicità bisogna prima individuare quali sono gli ostacoli che impediscono di realizzarla. La prima volta che ho cominciato a pensare a quest’idea della felicità, della possibilità di essere felice, non solamente come individuo ma come parte di una collettività, di una società felice, è stato nel mio paese, il Cile, nel 1971.

Quell’anno ho avuto il grandissimo onore di far parte della scorta del compagno presidente Salvador Allende, della sua guardia personale. E mi ricordo che era un giorno del mese di marzo del ’71 quello in cui si presentò al palazzo presidenziale un giornalista, un filosofo che era stato insieme al Che nella guerriglia in Bolivia e che proprio Allende aveva salvato dal carcere, un politologo francese di nome Régis Debray. Era venuto per realizzare un’intervista con il presidente Allende per Le Nouvel Observateur. E Allende decise che alcuni compagni della sua guardia personale potessero essere presenti, il suo era un modo per dirci «questo dialogo passerà alla storia, state attenti a quello che viene detto».

E quel colloquio andò male perché Debray era un uomo di notevole arroganza intellettuale, convinto delle sue idee di teorico del marxismo. Anche Allende era un intellettuale, alla sua maniera, ma di grande umiltà, e non ostentava mai la sua intelligenza. Nel corso dell’intervista Debray avanzò una serie di critiche al modello cileno. Le sue critiche si basavano sul fatto che il processo rivoluzionario del Cile non rientrava nello schema classico di come si fa una rivoluzione, non seguiva un presunto ordine A, B, C di come si realizza un processo di cambiamento sociale. Per esempio, rispettava la pluralità politica, rispettava rigorosamente la libertà di espressione, la libertà di stampa.

Allende lasciò che Debray esponesse tutte le sue critiche e rispose a tutte le sue domande e alla fine gli disse: « Adesso ti voglio fare io una domanda ». La domanda era: « Tu sai qual è l’aspettativa di vita di un tedesco, di un francese, e qual è l’aspettativa di vita di uno scandinavo, di uno svedese, di un danese? E sai qual è invece l’aspettativa di vita di un cileno?». Debray non lo sapeva. E Allende gli disse: «In quest’epoca, i francesi e i tedeschi hanno una speranza di vita di sessantotto anni; gli scandinavi hanno una speranza di vita che arriva quasi ai settant’anni. Noi cileni abbiamo una speranza di vita di cinquantadue anni. Noi stiamo facendo questa rivoluzione per poter vivere sessantotto, settant’anni, come i francesi, come i tedeschi, come gli scandinavi. L’obiettivo è vivere a lungo, ma anche vivere in una condizione che è lo stato naturale dell’uomo, e che si chiama felicità».

Quella sera, quando Debray era andato via, Allende chiese ai compagni della scorta, e io ero presente: «Che ne pensate ragazzi? Come è andata questa intervista?». Il nostro commento fu: «Be’, le sue risposte sono state tutte giuste, forse lui non ha capito, ma non importa: il suo è stato un ottimo discorso ». E Allende disse: «Forse è stato un errore parlare di questo diritto alla felicità, nominare la felicità come lo stato naturale dell’uomo, della specie umana».

E cominciò a raccontare la sua idea della felicità. Raccontò una parte della nostra storia che credo fosse sconosciuta per una buona metà dei compagni lì presenti che facevano parte della sua scorta personale.

Raccontò che nel 1932 il Cile era stato protagonista di una piccola rivoluzione di cui non si legge sui libri di storia, come se fosse stata cancellata: una piccola rivoluzione durata solo dodici giorni che prese il nome di República socialista de Chile, organizzata da un signore che era un ufficiale dell’Aeronautica, progressista, socialista per la precisione, che si chiamava Marmaduke Grove e che in quei dodici giorni formulò una teoria secondo la quale l’unico vero obiettivo del Cile, questo paese collocato alla fine del mondo, è diventare un paese felice. E in quella rivoluzione fu fatto uno sforzo pedagogico per individuare quali sono gli elementi che si frappongono tra noi e la felicità. Naturalmente dopo dodici giorni arrivarono le forze della destra, che abbatterono quel governo rivoluzionario; la Repubblica socialista del Cile finì. Oggi in qualche negozio di antiquariato è ancora possibile trovare le monete coniate allora, che riportavano la scritta «República socialista de Chile».

E Allende volle affrontare anche un altro argomento, disse che era necessario non solamente teorizzare il modello produttivo, ma impegnarsi nello sforzo di identificare tutti i fattori che si frappongono tra noi e la felicità. E fece anche un altro esempio. A quell’epoca in Cile la sinistra si era unita intorno alla figura di Allende, in un conglomerato di partiti politici che formavano la cosiddetta Unidad Popular. Allende si mise a raccontare che nel 1934 in una parte della Spagna che curiosamente è quella in cui io adesso abito, cioè nelle Asturie, per la prima volta diverse forme del pensiero di sinistra riuscirono a raggiungere un accordo per lavorare insieme: c’erano i comunisti, i socialisti, gli anarchici. E fecero la rivoluzione operaia del 1934, con protagonisti i minatori del carbone, i pescatori, gente che lavorava nei cantieri navali, contadini, insegnanti. E l’articolo 1 del documento su cui si basava l’esistenza di questa República socialista asturiana diceva: « Il fine naturale dell’uomo è la felicità ».

E contemporaneamente si mise in moto un processo per identificare gli ostacoli che si frapponevano tra l’idea della felicità e i protagonisti, cioè gli abitanti di quella regione della penisola iberica. E nell’impegno per l’identificazione di questi elementi antagonisti dell’idea di felicità arrivarono a conclusioni davvero rilevanti, tanto che il governo della Spagna — c’era un governo repubblicano — decise che quell’idea basata sulla felicità era pericolosissima. E colui che per quarant’anni sarebbe stato dittatore, Francisco Franco, fece in quell’occasione la sua prima esperienza come macellaio del proprio popolo, perché fu uno dei generali incaricati di reprimere nel sangue la rivoluzione socialista asturiana del 1934. Ma da quel momento è rimasto impresso nella gente, in forma quasi inconsapevole, clandestina, il principio che la felicità è un diritto, e che è un diritto promuoverla, e che è fondamentale individuare quali sono gli elementi che si frappongono tra noi e la sua realizzazione.

Quella chiacchierata con Allende proseguì, fino ad arrivare a parlare dei fatti del 1962: quando la Spagna franchista veniva accolta nella Comunità europea, Francisco Franco confidava al cugino e segretario militare Francisco Franco Salgado-Araujo che le miniere di carbone spagnole avevano i giorni contati perché l’Europa voleva favorire lo sfruttamento del bacino della Ruhr, in Germania, e dei giacimenti della Polonia, che assicuravano una fornitura a costi inferiori.

I minatori del carbone delle Asturie proclamarono uno sciopero. Si trattò del primo grande sciopero dopo l’instaurazione del regime franchista nazional-cattolico. Chiedevano migliori condizioni lavorative, sicurezza sul lavoro, soldi, un salario giusto, diritti, e naturalmente furono contrastati dalla polizia del regime. L’idea di Franco era sconfiggerli riducendoli alla fame. E un giorno a quella gente che stava portando avanti uno sciopero in condizioni terribili giunse la notizia che dall’altra parte del mondo, nel Sud del Cile, in un paese che si chiama Lota, i minatori del carbone stavano facendo uno sciopero in condizioni ancora più terribili. Anche loro assediati dalla polizia, dall’esercito. La risposta dei minatori delle Asturie fu di condividere quel poco che avevano per la sopravvivenza e mandare ai compagni minatori dell’altra parte del mondo, in Cile, una nave carica di cibo, medicinali, tutto quello che era fondamentale per sostenere lo sciopero. Quello sciopero che si basava sullo stesso desiderio per cui lottavano loro: una vita migliore per diventare minimamente felici.

Non dimenticherò mai quella conversazione con Allende perché credo che la felicità sia il fine naturale e ultimo della specie umana. Non so se vivrò abbastanza per poter verificare che l’umanità è riuscita ad arrivare alla pratica quotidiana, normale di questo diritto alla felicità, ma sono convinto che lo sforzo di tanti per individuare tutto quel che si frappone tra noi e il diritto supremo alla felicità, sia il lavoro politico più importante che si può fare. E penso che forse, per aiutarci a identificare ciò che si frappone tra noi e la felicità, sia utile pensare all’idea delle “quattro libertà” proclamate dal presidente Franklin Delano Roosevelt come obiettivi irrinunciabili dell’umanità: la libertà di espressione; la libertà di pensiero; la libertà dalla miseria; la libertà dalla paura. Credo che la felicità sia legata indissolubilmente alla libertà.

. Opere filosofiche, teologiche e matematiche di Niccolò Cusano ( Bompiani, a cura di E. Peroli). la Repubblica, 8 aprile 2017 (c.m.c.)

La grandezza di Niccolò Cusano (1401-1464) continua a essere stupefacente nonostante la si debba disseppellire di sotto una immensa montagna di letteratura accademica in tutto il mondo, che ne analizza singoli aspetti: la cosmologia che anticipa la rivoluzione copernicana, la “teologia negativa”, l’epistemologia, gli scritti matematici, il suo ruolo politico, nella storia della Chiesa, degli Imperi di Occidente e d’Oriente, nel tentativo di ricomporre gli scismi hussiti e ortodosso. Su Google-scholar, il motore che tiene il conto delle citazioni in bibliografia e dove compare come Nicholas of Cues, ma anche come Nikolaus von Kues, come Cusanus e in altri modi ancora, raggiunge circa centomila ricorrenze. Segno di una attenzione che si sta risvegliando e di cui la pubblicazione delle opere complete in italiano (a cura di Enrico Peroli con testo latino a fronte), per Bompiani, è una conferma. Impresa editoriale coraggiosa e utile.

Per noi vecchi amici del Cusano la caccia ai singoli scritti in italiano era faticosa, sparsi come sono tra vari cataloghi e a volte introvabili, tanto da dover ricorrere a traduzioni in altre lingue. Lui scriveva comunque in latino. E predicava in tedesco. Certo conosceva anche l’italiano avendo studiato legge a Padova, con grandissimo profitto, perché è anche per il suo acume di doctor decretorum che percorre una impressionante carriera fino ai vertici di un Papato diviso tra conciliaristi e lealisti. Fu legato personalmente a ben quattro pontefici. Di Pio II, Enea Silvio Piccolomini, fu amico intimo e con lui (e altri dell’élite cristiana del tempo) condivise audaci teorie sulla possibile unicità della religione nella pluralità dei riti e degli accidenti umani. Gli assegnarono la prestigiosa San Pietro in Vincoli a Roma, dove c’è tuttora la tomba che ne custodisce il corpo. Non il cuore, che è rimasto a Kues (oggi Bernkastel- Kues), su una sponda della Mosella, nel complesso della fondazione dove funzionano ancora oggi, da lui istituiti, un ospizio e una libreria con molti suoi manoscritti.

Come ha potuto conquistare un posto così grande nella storia delle idee? Per rispondere adeguatamente ci vorrebbe un intero corso di filosofia come quelli di Giovanni Santinello, scomparso nel 2003 (ha dedicato a Cusano una Introduzione per Laterza). Oppure il libro di Ernst Cassirer, che lo ha consacrato come il maggiore pensatore del Quattrocento nel suo classico Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, spiegando come questo singolare filosofo e teologo anticipasse la prospettiva trascendentale di Kant. L’insieme delle opere lascia ora cogliere bene l’unità del suo pensiero: Cusano sviluppa sempre un unico tema fondamentale a partire da un’unica intuizione che gli si presentò chiara nel 1438, durante una sosta in un’isola greca nel ritorno da Costantinopoli a Venezia: noi non possiederemo mai su questa terra la verità di tutte le cose, la nostra migliore conquista è una ignoranza ben coltivata.

Stava tornando da una missione nella capitale dell’Impero d’Oriente. L’obiettivo era duplice: ricucire lo scisma e portare l’imperatore e il patriarca a sostegno del pontefice nel concilio di Basilea, per scongiurare nuove fratture a occidente. Nella capitale cristiana sul Bosforo già minacciata dalle armate musulmane turche, Niccolò aveva trascorso mesi nel ricomporre con successo la disputa teologica sul filioque, ma ora l’intuizione fondamentale diceva di più: che ogni tentativo umano di possedere la verità ultima su Dio, su suo figlio o sullo Spirito Santo, appariva destinata a fallire, dunque vana e in certo senso ridicola, perché l’intelletto umano non può accedere a una conoscenza “precisa”, vale a dire completa, né di Dio né delle cose del mondo.

Su Dio non avremo più di una “dotta ignoranza” perché « finiti ad infinitum nulla est proportio », non c’è alcuna proporzione del finito con l’infinito. Ma il nucleo della intuizione che nasce dalla riflessione su Dio e sul mistero dell’universo si estende sull’intera conoscenza umana. Quel che l’intelletto umano può è solo una approssimazione congetturale. Noi siamo esseri « in conjecturas ambulantes ». L’autore del De docta ignorantia non lo dice da spirito rinunciatario, ma con tutta la forza della sua intelligenza scientifica, geometrica e matematica. Proprio come in Kant, l’arrestarsi prima del limite di una compiuta verità (e vale per “la cosa in sé” quel che vale per Dio) è premessa al dispiegarsi di una mentalità scientifica e di una esistenza morale. Il sapere di non sapere, la perenne fallibilità umana sono la cornice di un pensiero aperto alla smentita e alla falsificazione. Un atteggiamento che entusiasmava Karl Popper che vedeva in quella “intuizione” di Cusano la porta che si apriva sul cammino della moderna tolleranza, lungo una via su cui avremmo trovato Erasmo, Montaigne, Locke e Voltaire.

Cusano è consapevole della sua “audacia”. Il rigore con cui descrive attraverso immagini geometriche – il triangolo infinito o il celebre poligono che, per quanto si aumenti il numero di lati, non si identificherà mai con una circonferenza – lo sforzo umano di avvicinamento alla visione della verità massima è al limite dell’eresia perché è carico di conseguenze. Il messaggio cruciale delle opere teologiche, La visione di Dio, La ricerca di Dio, Il Dio
nascosto, La filiazione di Dio, è sempre lo stesso: se nessuno possiede una compiuta verità, le verità a disposizione si relativizzano e le differenze tra una dottrina religiosa perdono un po’ della loro importanza. Nessuna teologia può pretendere di prevalere legittimandosi come superiore. E ancora di più: «Né parla con maggior verità chi afferma che Dio è tutte le cose rispetto a chi, al contrario, sostiene che Dio è nulla o che Dio non è affatto».

Peccato che non compaia in questo primo volume La pace della fede. Si tratta dell’opera in cui, subito dopo la caduta e il massacro di Costantinopoli ad opera dei Turchi, Cusano descrive il sogno di un congresso celeste in cui Dio stesso legittima l’idea che vi sia una unica religione « in varietate rituum », non dunque una sola “vera” (come decretato da Agostino). Si affacciava qui in Cusano l’idea che nella loro molteplicità e varietà le religioni fossero “complementari” (eccola la parola tanto esecrata ancora nel 2000 dal cardinale Ratzinger) nel disegno divino. Un tema tornato, in forme meno radicali, con il Concilio Vaticano II (“i semi di verità” nelle altre religioni) e negli sviluppi del dialogo interreligioso. Aveva certo ragione Urs von Balthasar, il teologo conciliarista, quando scrisse che la mossa di Cusano fu così «avventurosa che ci si può soltanto sorprendere che non sia stato messo all’indice».

«Il saggio

Dopo le classi dirigenti di Giulio Azzolini fa il punto sulla metamorfosi di oligarchie e classi dirigenti, svalutate dalla globalizzazione e dal web». la Repubblica, 18 marzo 2017 (c.m.c.)

Tempi di dannazione per “élite” ed “elitismo” e boati di disgusto per chi pronuncia quelle parole senza scherno e senza rendere omaggio alle “masse”. Questi sono gli anni della “casta” e della diffusa repulsione che essa raccoglie nel mondo. Eppure la risposta a questa melmosa crisi delle “classi dirigenti” (altro concetto ora infetto, un tempo glorioso) potrebbe anche vedere una rivincita delle teorie di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, italiani famosi nel mondo per le rispettive teorie, della “classe politica” e delle “élite”: una minoranza di governanti al comando di una maggioranza di governati.

Il paradosso è stravagante solo per chi non abbia fatto attenzione alla rilevanza che quelle teorie non hanno mai smesso di avere negli studi politici, da quando uscirono Elementi di scienza politica nel 1896 e Systèmes socialistes nel 1904. Nel primo si affermava il principio che in ogni società è sempre soltanto una ristretta cerchia di persone che detiene il potere politico; nel secondo a questa classe politica si dà il nome di “classe superiore” o di “élite”.

Parole che non erano neutrali e connotavano positivamente questa minoranza, mentre esprimevano un sentimento negativo verso il socialismo allora emergente. Tuttavia la storia non finiva lì perché la teoria successivamente sviluppata dagli stessi iniziatori, e poi da Roberto Michels, con la sua “legge di ferro dell’oligarchia” ha mostrato di valere ben oltre gli usi politici conservatori, quando si è manifestato il potenziale emancipativo dei regimi democratici.

Non sorprende dunque che un giovane ricercatore riproponga oggi la teoria delle élite per la forza esplicativa che ancora manifesta in un brillante e analitico volume di storia delle idee, ispirandosi ai successi che essa ha avuto in epoca democratica: Giulio Azzolini con Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale (Laterza).

Il principio organizzativo della vita sociale e istituzionale è implacabile: occorre una gerarchia e qualcuno che coordini e comandi, anche nelle forme più aperte di cooperazione. Michels usava il termine oligarchia, in maniera avalutativa, nell’analisi del partito socialdemocratico tedesco, e Azzolini tenta l’ardita impresa di riscattare la parola dal discredito in cui l’ha gettata la retorica corrente. Eppure è chiaro a tutti i realisti democratici, da Joseph Schumpeter a Robert Dahl, da Norberto Bobbio a Giovanni Sartori, passando per Lasswell, Aron, e arrivando fino alle generazioni successive dei Gianfranco Pasquino e Eva Etzioni Halevy, che anche la democrazia prevede una minoranza ben organizzata che esercita il potere su una maggioranza, che è, al confronto, sparsa e meno organizzata. L’atto stesso di votare è un gesto elitista che delega il potere a una minoranza (Nadia Urbinati, Democrazia rappresentativa, Donzelli).

L’idea di un governo diretto del popolo, attraverso le assemblee o i referendum, o addirittura il “cervello sociale” della rete (Casaleggio), non sono più che miti. Il “direttismo” (conio di Sartori) è una illusione perché suppone una competenza e una informazione dei cittadini, possibili solo in situazioni ideal-tipiche. Difficile oggi ripetere la formula elementare di Walter Bagehot, il classico ottocentesco della Costituzione inglese (1873), secondo cui quella che è «per abitudine o per scelta la maggioranza numerica della popolazione è contenta di delegare il potere a una minoranza scelta, di abdicare in favore di una élite educata e senza opposizioni». Rispetto ad allora non si vedono più gioiose abdicazioni; abbiamo riserve su quella “educazione” delle élite (Bagehot) o sulla qualità in generale dei quartieri alti della società (Schumpeter).

Il passaggio che ha creato lo sconquasso nelle relazioni tra governanti e governati è quello rappresentato dalla esplosione di un fattore che era rimasto implicito nella teoria delle élite: il nazionalismo metodologico, l’area nazionale statale in cui era concepito l’esercizio del potere. Lo sfondo era delimitato perché il potere aveva confini, era “cartografico”, mentre la globalizzazione ha prodotto una deterritorializzazione, denazionalizzazione, una fluidificazione del potere che lascia alle classi dirigenti “cartografiche” e alle loro campagne elettorali l’arduo compito di reggere la marea in condizioni di impotenza. Hanno qui le radici vari processi degenerativi di un’epoca in cui «ristabilire la visibilità delle frontiere serve a placare l’ansia». Muri ben radicati per terra sono la risposta, a volte politica, a volte solo retorica, di fronte al libero fluttuare di forze che appaiono minacciose e incontrollate.

Di questi confini presidiati Manlio Graziano racconta la storia geopolitica, dalla pace di Westfalia al confine americano col Messico ( Frontiere, Il Mulino). L’implicito nazionalista – la lacuna – della teoria delle élite produce oggi una affannosa ricerca di barriere scaccia ansia e di protezionismo. Una terapia – spiega Graziano – il cui vizio consiste nel voler curare il «rallentamento dell’economia con un ulteriore rallentamento dell’economia».

Gli “psicopatici delle linee di confine” sono sempre più numerosi nonostante la disconnessione delle ossessioni ideologiche dai fatti. Le espulsioni massicce di immigrati in difesa della purezza della nazione hanno storicamente provocato recessioni, accadde a Luigi XIV quando revocò l’editto di Nantes e cacciò dalla Francia duecentomila protestanti: erano buona parte dell’élite economica.

Calendario civile, a cura di Alessandro Portelli per Donzelli, indaga alcune date significative per la storia italiana. Dalla Strage di Capaci alla Festa del lavoro, le tappe storico-politiche di un paese». il manifesto, 28 febbraio 2017 (c.m.c.)

Che la memoria pubblica costituisca terreno per eccellenza del conflitto politico è in Italia cosa forse più nota che in altri paesi. Abbiamo potuto osservare, non moltissimi anni fa, la rinascita di vere e proprie leggende, utilizzate per dare dignità e radici storiche a un movimento politico, la Lega di Umberto Bossi, che nasceva su rivendicazioni materiali molto delimitate e concrete.

Mentre abbiamo assistito- fenomeno che andrebbe ricostruito con organicità storiografica – alla demolizione della memoria della Resistenza e dei suoi valori, fondativi della Costituzione e della Repubblica, al fine di legittimare la nascita di un fronte politico di centro-destra.

Operazione favorita, spesso con aperta strumentalità, da esponenti politici della sinistra, impegnati ad annacquare la memoria della Repubblica Sociale Italiana e a occultarne le responsabilità militari e civili. Sarebbe peraltro interessante indagare come a tale damnatio memoriae che la sinistra tradizionale ha rivolto al suo passato resistenziale, denso di conflitti, abbia corrisposto, sul piano programmatico e culturale, lo spostamento di campo nelle praterie del neoliberismo.

È dunque comprensibile quanto sia preziosa oggi una operazione come quella coordinata da Alessandro Portelli (Calendario civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, Donzelli, pp. 311, euro 20) che ha impegnato un folta pattuglia di storici autorevoli, giornalisti e altre figure intellettuali per stendere questo nuovo almanacco della vita pubblica italiana. Esso mette insieme le date canoniche della nostra storia contemporanea, non solo l’8 settembre o il 2 giugno , ma anche momenti dell’Italia preunitaria (La proclamazione della Repubblica romana il 9 febbraio 1849) e dell’Italia liberale (XX settembre 1870). Ma soprattutto inserisce, oltre le celebrazioni ufficiali, gli eventi tragici più recenti e discussi.

Nel Calendario fanno data anche il 9 maggio, Giorno della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di matrice fascista a cura di Benedetta Tobagi, il 23 maggio, Strage di Capaci scritta da Salvatore Lupo; il 21 luglio, Fatti del G8 di Genova – affidata a Luigi Manconi e Federica Graziani. E ancora Vanessa Roghi sul 2 agosto, Strage di Bologna; e Alessandro Triulzi il 3 ottobre, Giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione.

«Questo libro – dichiara Portelli – venuto a compimento in un momento di aspra divisione della nostra vita democratica, è un luogo di unità nell’adesione convinta alle regole che ci permettono di vivere insieme, ma è anche un luogo di interrogazioni e differenze».

Dunque un libro plurale, ma certamente non relativistico. Lo sforzo di verità che viene compiuto nei singoli saggi non indebolisce, ma rafforza la memoria democratica e antifascista, del nostro passato. Ogni evento è rivisitato, spesso con rinnovato sforzo documentario da parte di un singolo studioso, accompagnato sempre da una testimonianza coeva e un commento poetico o una canzone. E ce ne sono di molto belle, come la struggente Per Sergio, di Lucilla Galeazzi, dedicato a una vittima della strage di Bologna.

I Testi di questo Calendario sono per lo più degli aggiornatissimi saggi storici, che forniscono momenti di approfondimenti utili anche per lo storico di mestiere. Pensiamo al lavoro di Cesare Birmani sulle origini americane della festa del Primo maggio, ma anche a vicende di casa nostra, per le quali serbiamo una memoria troppo incerta e superficiale rispetto alla drammatica rilevanza dei fatti . È questo il caso del bombardamento di Roma, illustrato da Umberto Gentiloni.

Una città che si credeva «sacra», al riparo dalle bombe, al punto da attrarre, caso unico in Europa fra le grandi città, popolazione dall’Italia centrale e che il 19 luglio del ‘43 subisce «diecimila tonnellate» di bombe, lasciando a terra 1496 vittime, quasi tutte civili. E ci sono saggi che svolgono una dirompente critica storiografica e civile, come quello di Gabriella Gribaudi sul 29 settembre, Quattro giornate di Napoli. Perché su di esse si erano incrostate vulgate che hanno di fatto reso insignificante quell’episodio straordinario di lotta popolare.

L’autrice mostra come soprattutto la retorica di destra abbia finito con il consegnare il merito della rivolta all’opera degli scugnizzi, svuotando così l’episodio di sostanza politica per ricacciare Napoli alla sua dimensione oleografica e plebea. E invece, con ricca documentazione, tratta anche da fonti militari tedesche, Gribuadi mostra come la rivolta sia nata nei quartieri popolari, guidata da operai e da militari, per opporsi ai rastrellamenti selvaggi e alle requisizioni dell’invasore. A questo frammento di Resistenza nel Sud viene dunque restituita la stessa dignità che essa ha nel resto d’Italia.

».

il manifesto, 22 febbraio 2017 (c.m.c.)

Quando, all’inizio dell’estate dello scorso anno, il giornale locale La nuova di Venezia pubblicò la notizia della condanna di Roberta Chiroli per i contenuti della sua tesi di laurea sul movimento No Tav discussa all’Università Ca’ Foscari, fu con qualche smarrimento che cominciammo a raccogliere informazioni su quanto era successo.

Nel tempo, abbiamo imparato a conoscere bene i trattamenti che il potere riserva ai dissidenti, a chi ha il coraggio di opporsi ai dogmi e non smette di «dire la verità», a chi non si accontenta di come va il mondo: perseguitati, oltraggiati, messi al margine in ragione di idee e di un agire troppo distante da ciò che viene ufficialmente disposto.

Scomodi, da far sparire oppure da punire per fornire insegnamenti a tutti. Ma, nonostante questa consapevolezza, i due mesi di reclusione comminanti dal tribunale di Torino per una ricerca in antropologia, a partire da una richiesta di sei mesi avanzata dal Pubblico ministero, appaiono un’enormità. Il lavoro universitario di Chiroli viene utilizzato dai Pm come prova autoaccusatoria per «aver fornito un apprezzabile contenuto quanto meno morale» ad alcune pratiche di lotta in Val Susa (presidi e occupazioni dei terreni espropriati e dei cantieri per il passaggio dell’alta velocità).

È la prima volta, dal Dopoguerra, che una tesi di laurea diventa oggetto di una condanna e molta inquietudine provoca l’idea di magistrati impegnati a esaminare i lavori di ricerca dei laureati del Paese per setacciare la presenza di elementi illeciti, presunti collegamenti delittuosi, la descrizione di comportamenti «fuori norma», da censurare e incarcerare.

Così, la rete e il sito di discussione politica Effimera (Effimera.org) decidono di diffondere un appello («Mai scrivere ‘noi’. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero») che in pochi giorni raccoglie migliaia di firme, viene ripreso da molti mezzi di informazione, riceve centinaia di commenti.

Roberta Chiroli pubblica la sua ricerca, Ora e sempre No Tav. Pratiche del movimento valsusino contro l’Alta Velocità (prefazione di Erri De Luca), da domani in libreria per Mimesis, con l’aggiunta di una introduzione nella quale ricostruisce il caso di cui è stata protagonista. Racconta: «Il mio essere là in mezzo agli attivisti No Tav per documentare le pratiche di lotta del movimento ha costituito, per la Procura torinese, un motivo sufficiente per condannarmi in quanto – dalla sentenza – “il fatto stesso che sia rimasta sul posto unitamente ad altri partecipanti ha integrato un contributo apprezzabile perché l’efficacia di azioni di questo tipo è strettamente dipendente dall’effettiva presenza fisica di un numero elevato di persone, numero che la Chiroli ha contribuito a formare”».

Nel consegnarci il suo lavoro, Roberta ricompone i frame work teorici della ricerca antropologica che raccomandano partecipazione e posizionamento, ma, al di là delle categorie pensate dalla cosiddetta produzione scientifica, non c’è bisogno di convincerci che una pratica cosciente e consapevole delle «storie personali» possa illuminare scelte teoriche o che dalle relazioni umane si produca conoscenza, o che il corpo sia un «agente» dotato di consapevolezza sociale e culturale.

Chiroli sottolinea la «grande reazione del mondo accademico» sulla vicenda di fronte alla pubblica opinione. E in effetti vale la pena di rimarcare come le gerarchie universitarie si siano trovate di fronte all’obbligo di dover prendere parola: la pesante ingerenza da parte dei magistrati ha reso indispensabile perimetrare e difendere il proprio campo di azione e il proprio operato. Da un lato, tale reazione è segno di come il mondo della formazione si senta maltrattato e umiliato da un sistema che, nel corso di questi anni, non ha fatto che tagliare risorse e impoverire: lo scopo è applicare alla scuola la ratio dell’inclusione differenziale che risponde alle politiche del mercato del lavoro perorate dall’Europa e con ciò favorire l’introduzione progressiva di sistemi valutativi per misurare le prestazioni di studenti e docenti e differenze salariali tra questi ultimi. Un accumulo di frustrazione e infelicità, tra aggravi di lavoro, perdite oggettive di autonomia, pochi denari.

A ciò si aggiunge il dilagare di una precarietà strutturale che non consente orizzonti né diritti ma impone comunque crescenti carichi di responsabilità e dispositivi di controllo che rafforzano l’organizzazione feudale tipica del mondo accademico.

Dall’altro, siamo consapevoli che il sapere trasmesso dalle istituzioni educative, non è mai un sapere neutrale, oggettivo. Esso è sempre attraversato da flussi di potere, piegato a interessi di parte. Così, il corpo accademico resta comunque un’istituzione, con le sue regole e le sue prescrizioni, i suoi filtri falsamente «meritocratici», i suoi criteri normanti, le sue modalità di «riconoscimento» o di espulsione che si danno all’interno di una griglia interpretativa che agisce tramite gli attori stessi che ne fanno parte. Firmare un appello non è significativo di un movimento, intendendo con questo termine un processo di differenziazione al fine di coordinare il giusto grado di tensione di interventi, segmentari o parziali, per rigettare l’intero impianto. Il caso di Roberta Chiroli, e i tanti altri simili che si sono aggiunti, meriterebbe questo tipo di riflessione e di tensione.

Al contrario, l’aziendalizzazione dell’università, così come della scuola, introduce oggi tra le sue mura elementi basilari del marketing che mettono in moto ulteriori comportamenti di tipo aziendalistico con l’obiettivo di generare la concorrenza tra istituti ed atenei e la divisione del corpo docente. Gli studenti e le loro famiglie, che pagano rette sempre più onerose, si sono trasformati in consumatori di beni e servizi, acquirenti di un prodotto (la formazione).

La recente vicenda dei tornelli della facoltà di Lettere a Bologna, in via Zamboni, ha mostrato bene quali capacità penetrative abbia tale logica, visto che una parte degli studenti ha difeso la regolamentazione degli ingressi e l’intervento violento delle forze dell’ordine, adducendo la necessità di garantirsi migliori condizioni di studio. In realtà, non si combatte per migliorare la propria situazione ma si accettano l’impianto selettivo e la passivizzazione nei confronti del potere «che deve provvedere a farci stare meglio», basata su valori poco definiti che ruotano e insistono intorno ai concetti dell’«efficienza» e dell’«efficacia», contro il «degrado» e contro la «desolazione».

Ecco allora che fa capolino l’altra traccia che la storia di Roberta Chiroli ci ha regalato e che si connette strettamente alla prima. Parlo di come la norma contemporanea, apparentemente libera e senza limite, sia viceversa fondata su di una pervasiva repressione. Seguendo Loic Wacquant, tale transizione è parte integrante della ristrutturazione dello stato, finalizzata a sostenerne la deregolamentazione economica e a sopperire le conseguenze dell’insicurezza sociale. L’effetto complessivo è quello di una straordinaria ambivalenza del dispositivo che produce soggettivazioni autonome e, contemporaneamente, assoggettate. Siamo paradossali co-produttori di forme di vite intrise di passioni concorrenziali. E il paradosso consiste nel fatto che tanto più libero è «il soggetto d’interesse» tanto più governabile risulta.

Tutto ciò ha prodotto, negli anni, un’autocensura del conflitto, già da tempo invisibilizzato, soffocato, marginalizzato, criminalizzato. Tuttavia, da qualche parte sembra esistere la consapevolezza che tale rinuncia alla conflittualità è una malattia. C’è un vuoto di cui sentiamo, con malinconia, la preoccupante ampiezza.

Un'assenza, che non produce altro se non le patologie del pensiero unico che genera l’individuo isolato contro il quale la magistratura pensa di scatenarsi agevolmente, con processi esemplari.

In questi anni, la procura di Torino ha setacciato la Valsusa, resistente agli ordini del potere, con retate casa per casa, paese per paese, tra le bancarelle dei mercati, tra i minorenni e gli anziani. Roberta Chiroli ha dedicato il libro «Alle persone grandi di un luogo speciale che mi hanno insegnato che si parte e si torna insieme». La comunità valsusina, ci affaccia tra le pagine dove prendono vita i volti e i nomi di chi è finito nella macchina della giustizia, mostrando sempre una dinamica coesiva di risposta: «si parte e si torna insieme».

Certamente, tra gli abitanti della valle ha fatto da collante la sensazione di essere tutti oggetto di un unico disegno repressivo che agisce su più fronti contemporaneamente, diventando incarnazione fisica di uno scontro comune contro le logiche del capitale finanziario. Al di là dello specifico dilemma locale, questo scontro continua a parlarci di molteplici aspetti delle nostre vite precarie, obbligate a piegarsi a una povertà materiale e soprattutto di senso

...» Franco Arminio. "La poesia al tempo della rete” è il capitolo finale di Cedi la strada agli alberi, che esce domani per Chiarelettere. doppiozero online, 1° febbraio 2017 (c.m.c.)


La poesia è un mucchietto di neve
In un mondo col sale in mano.

La poesia è amputazione.
Scrivere è annusare
la rosa che non c’è.

Il naufragio della letteratura

Una volta c’era la letteratura e poi c’erano gli scrittori.
Immaginate un mare con i pesci dentro. Adesso ci sono solo i pesci, tanti, di tutte le taglie, ma il mare è come se fosse sparito. È successo in poco tempo, e non ce l’ha comunicato un esperto. Ce ne siamo accorti incontrando un poeta da vicino, parlando con un narratore al telefono. Abbiamo sentito che qualcosa non c’era più. Ognuno ha i suoi libri, le sue parole, sono sparite le strade che mettevano in comunicazione uno scrittore con l’altro, tra chi muore e chi vive non c’è alcuna differenza, non c’è differenza tra chi lotta e chi è vile.

Oggi tra gli scrittori regna una pacata indifferenza e lo spazio vuoto che c’è tra quelli che scrivono accresce lo spazio tra chi scrive e chi legge. La letteratura è una barca che ha fatto naufragio e ognuno coi suoi libri lancia segnali di avvistamento che nessuno raccoglie perché ognuno è impegnato a farsi avvistare.

Le voci non si sommano e non spiccano. La letteratura fa pensare a un’arancia virtuale: a ciascuno il suo spicchio, ma dov’è il succo?

Poesia e guarigione

C’è un problema quando si hanno rapporti con i poeti. Il problema deriva dal fatto che il poeta è una creatura patologicamente bisognosa di amore. Una creatura in subbuglio con cui non si può mantenere un’amicizia generica e blanda. Col poeta non ci possono essere pratiche attendistiche e interlocutorie, bisogna gettargli in faccia il nostro amore o il nostro odio, bisogna tenerlo ben vivo nella nostra mente, bisogna pensarlo, parlargli delle sue parole, raccontargli le sue storie.

Uno allora può dire: ma a che serve tutto questo? Io penso che alla fine non serva al poeta, perché il poeta non ha mai bisogno di quello che gli viene dato. Penso che tutto questo serva a chi dà, a chi si protende a lenire le varie disperazioni del poeta. L’atto di guarire chiude le ferite, ma solo al guaritore.

L’embargo della poesia

Il poeta è quella creatura che non può stare in questo mondo ed è la persona che più ha bisogno delle cose del mondo. La sua è una bulimia spirituale e, proprio perché è spirituale, non conosce limiti e confini.

È molto grave che il mondo abbia dichiarato un vero e proprio embargo verso i poeti. Il mondo dei disperati che vogliono distrarsi odia i disperati che invece cantano la loro disperazione. Fra le tante guerre in corso, strisciante e non dichiarata, c’è quella che vede i poeti come vittime.

Ogni giorno una cenere sottile cade, attimo dopo attimo, sulle spalle degli spiriti più luccicanti. Lo scopo è opacizzare tutto, rendere tutto intercambiabile, omologabile, smerciabile.

Questa è una società totalitaria e come tale non può che essere ferocemente ostile al grido solitario del poeta, alla sua natura irrevocabilmente intangibile. Il poeta è fuori dall’umano e come tale è un pericolo. Gli uomini non possono tollerare che esistano creature che hanno gli occhi, il cuore e le parole, ma che nulla hanno da spartire con loro.

Bordello facebook

Qualche tempo fa mi era venuta l’immagine di facebook come di una strada a luci rosse. Ognuno sta in vetrina a esporre la sua merce. Chi mostra i glutei, chi spalanca le cosce. Tutto un susseguirsi di merci che cercano acquirenti nella scabrosa condizione in cui i produttori sono assai più dei possibili compratori. E questo i compratori lo sanno e da lì nasce la figura del compratore sadico, colui che entra nel box, gira intorno alla merce e magari se ne va lasciando semplicemente un commento sarcastico. Non c’è differenza tra chi esibisce la sua gamba monca, l’occhio in cui cigola il delirio, e quelli che fanno finta di stare qui perché vogliono cambiare il mondo, fanno finta di indignarsi, insomma fanno finta di essere scrittori.

Facebook è una creatura biforcuta perché porta la scrittura, ma la porta in un clima che sembra quello televisivo. Chi scrive, chi commenta, deve ogni volta decidere da che parte stare, sapendo che da quando abbiamo smesso di credere all’invisibile e al sacro tutto il visibile e il profano non ci basta più, e ci basterà sempre meno.

Nuove percezioni dell’umano

La letteratura non può ridursi a un ballo in maschera. Gli scrittori devono mettere la propria faccia in ogni riga che scrivono. Scrivere è un martirio oppure non è niente. Per divertirsi e per divertire ci sono altre cose, forse. La letteratura è un luogo in cui ci si affanna a costruire nuove percezioni dell’umano. Chi si sporge, chi si pone in bilico è meno elegante e per questo merita di essere consolato.

Abbiamo bisogno di compassione. Abbiamo bisogno di consolazione e di amore. Dare amore per me significa dare nuove visioni di noi stessi e degli altri. Darle non per cantarcela tra noi, ma per puntare a uno sfondamento, per sfondare la creazione e vedere cosa c’è dietro questa parata che chiamiamo vita.

Ci sarà sicuramente un giorno in cui neppure un filo d’erba parteciperà alla parata. La nostra mente può andare già adesso in quel punto, farsi fecondare da quel buio e con quel buio stare nella luce che abbiamo adesso, la luce degli angeli e del sole, la luce delle piante e degli occhi. Scrivere significa gettare scompiglio nella parata, non lasciarla fluire come fosse una volgare scampagnata.

Per una comunità poetica
Ho due problemi. Il primo è che potrei morire da un momento all’altro. Il secondo è che prima o poi morirò. Da qui nasce la mia imperiosa urgenza, da qui il mio scalpitare senza reticenze e aloni. Sono tutti scoperti i miei passaggi, sono offerte intimamente politiche perché contengono sempre un richiamo alla costruzione di una nuova comunità in cui sogno e ragione vadano insieme, una comunità poetica.

Ormai siamo tutti alle prese con cose che riguardano solo noi. Non c’è un’assemblea, un foro in cui si dibatta il nostro caso. Al massimo riusciamo a incuriosire qualcuno per un attimo, poi dobbiamo farci da parte. Se invece insistiamo a proporre la nostra questione, come sto facendo adesso, dobbiamo aspettarci che gli altri diventino insofferenti.

C’è una sola notizia di noi che può un po’ sorprendere, un po’ emozionare gli altri: è la notizia del nostro decesso, ma è una carta che possiamo giocarci una sola volta e, una volta che ce la siamo giocata, non abbiamo modo di verificare la risposta.

Poesia è malattia

Poesia è malattia, diceva Kafka. Il poeta che manda in giro le sue poesie manda in giro i suoi virus, le sue fratture, i suoi tessuti infiammati. Il poeta anela alla cura, o almeno alla consolazione, ma dall’altra parte si pensa a difendersi dal contagio.

La poesia dice sempre del tentativo di riparare un lutto e, quando viene spedita, fa un po’ l’effetto di un afflitto che va in giro a chiedere le condoglianze. E questo movimento rende dubbio il lutto stesso, come se ci trovassimo davanti a qualcuno che volesse venderci le azioni del suo dolore, azioni destinate inevitabilmente al ribasso in una società in cui tutti piangono e dove i morti senza lutto si confondono con i lutti senza morto.

Il poeta è alla guida di un’impresa fallimentare perché ogni suo prodotto resta invenduto e la ragione dell’impresa consiste esattamente in questo. Anche se il prodotto risultasse smerciabile, al poeta non può venirgli nulla, non ci sono rendite, bisogna subito ricominciare da capo. La poesia è radicalmente anticapitalista, non prevede nessuna forma di accumulazione. Un dolore antico è sempre un dolore fresco di giornata.

Quando scrivi ti devi impaurire

Scrivo da tanti anni, mi pare di non aver fatto altro nella vita.

Scrivo a Ferragosto e a Capodanno, scrivo dal mio paese, scrivo dai miei nervi perennemente infiammati.

Senza l’assillo della morte mi sento una cosa inerte. Ho bisogno dello spavento. Lo spavento falcia la mia vita e la trasforma in scrittura, un po’ come fa la mietitrebbia col grano.

Parlo dei paesi perché a un certo punto mi sono reso conto che erano un po’ al mio stesso punto: creature in bilico, col buco in mezzo. Mi piace arrivare nei paesi per sentire questa cosa nuova che è la desolazione, questa cosa che ha preso il posto della miseria.

Il paese è diventato interessante perché è come se avesse finito i suoi umori, il suo ciclo vitale, persiste a essere abitato, ma sembra quasi incurante dei gingilli con cui si trastulla il mondo.

La faglia è la mia figura, il bordo, la fessura. Abito un orlo senza precipizio, un luogo ideale per poggiare l’orecchio sulla morte. Quando scrivi ti devi impaurire, altrimenti non stai facendo niente.

Il libro infinito

Il mondo simbolico è diventato reale e il mondo reale è diventato simbolico. In questa condizione il poeta trova un ulteriore motivo di disagio perché ogni volta che c’è un mondo per il poeta c’è un esilio. E se i mondi sono due, l’esilio è doppio.

Per anni abbiamo pensato alla poesia come a una realtà marginale, un lavoro per animi eletti, per animi disposti a lavorare ossessivamente sulla lingua. Adesso le poesie le fanno tutti. Il problema non è scrivere cose belle, ma far circolare quello che scriviamo.

È come una città nell’ora di punta. Tutti escono in strada con la macchina e non si cammina. Tutti escono in Rete con le loro parole e dunque non si legge. Per leggere abbiamo bisogno di avere davanti a noi un testo con un inizio e una fine. Può essere anche di mille pagine, ma i confini devono essere precisi.

In Rete non c’è un nostro testo, il nostro testo entra in un libro infinito a cui ognuno aggiunge la sua pagina. A volte sembra quasi che per avere la sensazione di essere letto devi strapparla, la tua pagina, devi sparire. L’unica pagina che viene letta è la pagina bianca.

«Il nuovo saggio di Angela Davis.è una attenta panoramica sul "complesso militare-penitenziario“ nato per contenere una popolazione carceraria in aumento e che ha come modello la gestione segregazionista contro i palestinesi

». il manifesto, 25 gennaio 2017 (c.m.c.)

Angela Davis non ha certo bisogno di presentazione. La sua figura è al centro del dibattito politico internazionale da quasi quattro decenni. Ex militante comunista e affiliata al Black Panther Party, autrice di Women, Race and Class (1981), un testo fondatore di discorsività per il Black Feminism, negli ultimi vent’anni Angela Davis ha focalizzato tanto il suo attivismo quanto la sua riflessione intellettuale sulla critica a ciò che chiama, prendendo in prestito l’espressione da Mike Davis, il “complesso industriale-penitenziario” americano.

Nonostante le sue numerose visite recenti in Italia, questa parte della sua opera resta sicuramente meno nota nel panorama locale. Non è un caso se le traduzioni italiane più note dei suoi scritti restano Autobiografia di una rivoluzionaria (1974) e Women, Race and Class, tradotto peraltro da Riuniti nel 1985 con un titolo non solo del tutto fuorviante, ma piuttosto eurocentrico, Bianche e nere (1985). Meno citato, invece, è il terzo dei testi di Davis tradotto: Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, le discriminazioni e la violenza del capitale (2009, Minimum Fax).

La sua ultima pubblicazione, Freedom is a Constant Struggle (2016, Haymarket Books), può rappresentare un’ottima opportunità per rientrare nel cuore della sua attuale riflessione. Il testo raccoglie una serie di Lectures tenute da Davis sia negli Stati Uniti che in Europa tra il 2013 e il 2015. Malgrado un andamento rapido e prettamente orale, le diverse lectures ripropongono in modo assai suggestivo una serie di questioni centrali all’attuale dibattito tra incarcerazione di massa, eredità della schiavitù e neoliberalismo negli Stati Uniti, così come sul rapporto tra il cosiddetto nuovo attivismo nero di movimenti come Black Lives Matter e quello che Cedric Robinson ha chiamato la Black Radical Tradition.

Il testo non ha però come background soltanto la realtà americana, poiché propone di affrontare la centralità crescente del cosiddetto “complesso industriale-penitenziario” come un fenomeno davvero globale e costitutivo della stessa governance neoliberale. Può apparire assai indicativo il sottotitolo del testo: Ferguson, Palestine and the Foundations of a Movement. Davis ricorda che sono le stesse dinamiche dei fatti Ferguson a porci davanti a uno scenario che va oltre gli Stati Uniti, a mostrarci la globalità delle tecniche di controllo, sorveglianza e repressione nel governo di determinate categorie di soggetti. Così Freedom as constant Struggle pone invece subito la Palestina nella filigrana di Ferguson, più precisamente ciò che Davis chiede di chiamare il “sistema di apartheid” Israeliano instaurato nei territori palestinesi.

La “connessione globale” tracciata tra Ferguson e Palestina non è qui semplicemente metaforica, ma è data da un elemento assai più concreto e transnazionale: la compresenza nelle due zone della multinazionale britannica Group 4 Security (G4S) nella gestione della sicurezza. Terzo datore di lavoro più grande del mondo, dopo Wal-Mart e Foxconn, G4S è anche la corporation multinazionale con più dipendenti all’attivo in Africa. G4S, suggerisce Davis, può essere assunta come l’emblema di ciò che significa (privatizzazione della) sicurezza e del warfare nell’epoca del neoliberalismo: si tratta di una corporation responsabile della realizzazione della recinzione al confine tra USA e Messico, e tra i maggiori costruttori al mondo di carceri private, di scuole-blindate e di centri di detenzione per migranti.

Tra i suoi affari vi è anche la gestione in diversi continenti del business del trasporto nella deportazione di migranti e profughi. Per dirla in termini foucaultiani, si tratta di uno dei significanti per eccellenza dell’imponente business neoliberale dell’industria della punizione, ovvero di una proficua “messa a valore” del razzismo, delle pratiche anti-immigrazione e delle politiche securitarie. G4S ha nei territori palestinesi occupati, ovviamente, uno dei suoi principali “fochi” operativi.

Davis ricorda che questo grande mostro della sicurezza privata globale è profondamente implicato nella gestione e costituzione materiale “dell’apartheid israeliano”: buona parte del suo “securitarian know-how”, per così dire, è venuto a fondarsi su un suo coinvolgimento attivo in processi di contenimento della popolazione palestinese come l’edificazione del muro di Gaza, la costruzione di numerosi checkpoint, l’addestramento e la militarizzazione della polizia, la progettazione di sempre nuove tecnologie di controllo e repressione dell’ordine pubblico e del dissenso politico. E’ così che Davis ci chiede di pensare la gestione “coloniale” israeliana dei territori palestinesi, attraverso la partecipazione attiva di G4S e altri big della global security, come un importante “laboratorio” per la continua messa a punto o sperimentazione delle tecniche di gestione, sorveglianza, incarcerazione e repressione al centro dell’attuale “complesso industriale-penitenziario” negli Stati Uniti.

L’alta produttività del “sito israeliano” in materia di sicurezza è data, come in altre realtà (post)coloniali, da uno storico esercizio di governo improntato alla negazione dell’altro-palestinese e quindi alla sua trasformazione in migrante-alieno (razzializzato) sul proprio territorio. Anche se Davis non scende qui nei particolari, il suo approccio può essere posto su una traccia già proficuamente all’interno degli studi postcoloniali: buona parte delle tecnologie giuridiche, disciplinari e militari alla base dell’attuale securitizzazione razziale dello stato neoliberale hanno da sempre un importante banco di prova in diversi territori “coloniali”. Nel caso particolare di Ferguson, precisa Davis, l’impronta del know-how israeliano si è vista non solo nell’atteggiamento sempre più militare della polizia nei confronti dei territori e soggetti sotto sorveglianza, o del tipo di attrezzature tecniche utilizzate dalle forze dell’ordine, ma anche nelle tattiche di contenimento e repressione degli attivisti durante le successive mobilitazioni.

Più in generale, Davis sottolinea poi gli apporti di G4S-Israel al “complesso industriale-penitenziario globale” in materia di sofisticazione delle tecniche di sorveglianza carceraria, testate soprattutto nelle prigioni militari di HaSharon e di Damun, ma soprattutto nell’espansione dell’incarcerazione sistematica come modalità fondamentale di governo e di controllo sociale anche a donne e bambini. A tale riguardo, il suo testo ricorda non solo che HaSharon e Damun “ospitano” bambini e donne rispettivamente, ma soprattutto che la reclusione carceraria femminile tra africano-americani, latinos e migranti è in notevole aumento negli Stati Uniti, mentre l’età media dei detenuti nelle prigioni americane si abbassa in continuazione.

L’analisi di Davis non va però fraintesa: sorveglianza e repressione capillare di alcune comunità e territori, militarizzazione della polizia e del conflitto sociale, violenza razzista di stato, privatizzazione della sicurezza, e incarcerazione di massa non obbediscono alla logica di dominio singoli stati, governi o multinazionali, ma sono la risposta di razza e di classe del capitalismo neoliberale globale ai meccanismi di esclusione sociale generati dalla sua stessa logica di accumulazione.

Dev’essere dunque chiaro che la logica neoliberale di “accumulazione per spossessamento” ha nell’industria della punizione una delle sue protesi più trainanti e influenti. Va ricordato che molte delle aziende americane controllate da G4S, così come altri big della global private security, prima di tutti Wal-Mart (principale rivenditore al dettaglio di armi del mondo) e CCA (Corrections Corporations of America), fanno parte di ALEC (American Legislative Exchange Council), una potentissima lobby bypartisan di cui sono membri, insieme alle corporazioni, decine di parlamentari passati dai diversi congressi degli Stati Uniti sin dalla fine degli anni settanta.

Come mostra l’eccellente documentario Il tredicesimo emendamento, 2016 di Ave Duvernay, e che ha proprio Angela Davis tra i suoi principali interlocutori, buona parte delle leggi finalizzate al continuo sviluppo del complesso industriale-penitenziario (legittima difesa a oltranza, indurimento progressivo delle pene, privatizzazione delle carceri, esternalizzazione dei servizi nelle prigioni, costruzione di centri privati di detenzione di migranti, militarizzazione delle polizia, autorizzazione al fermo di polizia di qualunque persona migrante, ecc.) sono state promosse in parlamento da membri di ALEC.

Tra le più famose, il trittico approvato dal primo governo di Bill Clinton: privatizzazione delle carceri e militarizzazione della polizia, obbligatorietà a compiere in carcere l’85% della pena, ergastolo al terzo reato commesso). Non a caso diverse manifestazioni di Occupy e di Black Lives Matter hanno preso di mira proprio il ruolo di ALEC nel parlamento americano. Come appare ovvio, si tratta di una macchina giuridica di guerra finalizzata sia all’aumento della popolazione carceraria che all’allungamento dei tempi di detenzione, ovvero a mercificare e trasformare in profitto anche quell’eccedente di umanità che non può trovare il proprio spazio all’interno dei confini razziali neoliberali della vita sociale. Siamo quindi di fronte a un elemento strutturale, per così dire, del modo neoliberale di accumulazione. E’ in questo contesto che occorre situare il susseguirsi di omicidi di giovani neri per mano della polizia.

La realtà descritta nel testo di Davis può apparire distante da quella dell’Europa. Davis chiede infatti di pensare la centralità della “prigione come metodo” anche come la risposta del capitalismo razziale americano e di una riconfigurazione della white supremacy alla nuova situazione della forza lavoro nera dopo la conquista di una condizione di libertà formale da parte del movimento per i diritti civili e l’annientamento politico del movimento del black power.

Ma se concentriamo lo sguardo sull’universo concentrazionario nascosto dietro il cosiddetto “business dell’accoglienza” (anche sotto il significante umanitario) che sta caratterizzando la gestione europea della “crisi dei rifugiati” le distanze cominciano sicuramente ad accorciarsi. La proliferazione di CIE, CARA, CAS, HUB e Hotspots, insieme al ruolo primario di Frontex, Europol e Eurojust, nel governo delle migrazioni può essere concepita come una variante razziale europea di quel “complesso industriale-penitenziario” attraverso cui il capitalismo neoliberale globale articola la propria economia politica del controllo.

Verso una civiltà della decrescita (a cura di Marco Deriu, Marotta&Cafiero) è primo volume di un ambizioso progetto editoriale che coinvolge ricercatori e attivisti di tutto il mondo».il manifesto, 19 gennaio 2017 (c.m.c.)

Indubbiamente, non c’è idea più radicalmente antagonista di quella di una società della decrescita, perché mette in discussione la stessa nozione di sviluppo inteso come grido di guerra lanciato dal «primo mondo» contro i popoli sbrigativamente definiti «sottosviluppati», cioè primitivi e inferiori.

La controprova è che i movimenti che sostengono l’allentamento della presa dell’economia sulla società vengono ferocemente disprezzati sia da destra che da sinistra. «I principi economicisti della crescita hanno invaso le teste e i cuori della gente», ha scritto Veronica Bennholdt-Thomsen nel libro Verso una civiltà della decrescita (a cura di Marco Deriu, Marotta&Cafiero, primo volume di un ambizioso progetto editoriale che coinvolge ricercatori e attivisti di tutto il mondo): tanto da far credere che non ci sia possibilità di benessere senza prosperità e prosperità senza una crescita permanente di beni e di servizi disponibili.

Progressisti e conservatori si dividono sulle modalità con cui conseguire la crescita economica e su come distribuirla, ma non sulla sua necessità. Siamo dominati da una mentalità produttivistica e lavorista che ha trasformato la crescita in un tabù e la «scienza economica» è la sua religione.

C’è ancora molto da fare per gli «obiettori della crescita», soprattutto se vogliono allargare il loro consenso oltre il ristretto perimetro delle persone già sensibili ai temi della salvaguardia del vivente (perdita di biodiversità, riscaldamento globale, inquinamento), della giustizia sociale a scala planetaria (accesso alla terra dei popoli indigeni, lavoro schiavo, sovranità alimentare), del contenimento di ogni forma di sopraffazione e violenza a partire da quella di genere.

L’associazione per la Decrescita (giovane casa editrice di Scampia) ha dato alle stampe questo libro in Creative Commons al prezzo easy di 10 euro per oltre 300 pagine. E poi l’ampiezza dei contributi presentati frutto, fra l’altro, del lavoro svolto nelle conferenze internazionali biennali che si sono svolte in diverse città europee, ultima Budapest, terzultima Venezia.

L’intento della pubblicazione è dimostrare come la decrescita possa costituire un quadro interpretativo e un «orizzonte di pensiero culturalmente ampio» (Deriu) capace di mettere in relazione i più importanti filoni del pensiero critico con le diverse componenti dei movimenti sociali, ecologisti, femministi, indigeni… impegnati nell’attuare «proposte di transizione che si richiamano a una trasformazione significativa di paradigma o di civiltà» (Escobar).

La decrescita infatti attinge a più fonti. Dall’ecologia politica (il più letto e apprezzato dai lettori de il manifesto è stato sicuramente Andre Gorz), dalla bioeconomia e dall’economia ecologica (Georgescu-Rogen), dalla critica allo sviluppo (Gilbert Rist), dall’antiutilitarismo (Alain Caillé e il Mauss), dalla critica dell’etnocentrismo e dell’antropocentrismo (Marshall Sahlins), dalla filosofia della convivialità (Ivan Illich), dalle teorie della complessità in campo scientifico contro il riduzionismo (Gregory Bateson), dall’ecofemminismo (Carolyn Merchant) e da altre teorie ancora.

La decrescita può, d’altra parte, essere declinata in vari modi. Da quello, più semplice e banale, della diminuzione dei flussi di materia e di energia impegnati nel «metabolismo sociale», ovvero della sostenibilità dei cicli produttivi in un ecosfera dalle capacità di rigenerazione limitate, a quello dell’«austerità morale», per usare l’espressione di papa Bergoglio al terzo, recente incontro con i rappresentanti movimenti popolari mondiali.

La decrescita si presta anche a molti fraintendimenti. Chi la intende come una risposta adattiva necessitata, un imperativo di sopravvivenza a causa del sovrasfruttamento del pianeta, chi, al contrario, come una libera scelta, una «passione gioiosa» che ci permetterebbe di vivere meglio (buen vivir) con noi stessi e con il nostro prossimo, comunque e a prescindere dall’esistenza dei picchi del petrolio e dalla rarefazione di tutte le altre risorse naturali.

Il volume contiene un capitolo dedicato all’ecofemminismo e alla teoria della sussistenza (cura delle condizioni della riproduzione della vita) che più di ogni altra ha la forza di rovesciare in radice la «guerra alla natura» intentata dalla cultura patriarcale.

Decrescita, quindi, come cambiamento dei modelli di pensiero e pratiche sociali concrete. Tutto il contrario di un’ideologia predeterminata a tavolino. «Solo» la sperimentazione di nuove forme di convivenza, di reciproche responsabilità fiduciarie, di applicazione del «principio materno» del nutrire e del curare e del guarire applicato non soltanto alle persone, ma all’intero essere vivente chiamato Terra.

«Sono autori di libri importanti. La loro critica di Dardot e Laval , sulla base di un’analisi realistica di quel che è diventato lo Stato nel tempo neoliberale, di ogni "statualismo" e "nazionalismo" di sinistra è oggi davvero preziosa in Europa,così come la loro insistenza sulla necessità di tenere aperta la "questione europea" pur criticando a fondo l’Unione europea «per come esiste oggi»

. connessioniprecarie,
3 gennaio 2017 (c.m.c.)

«La vittoria del fascismo», scrivono Pierre Dardot e Christian Laval nelle prime pagine del loro Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista (DeriveApprodi, trad. di Ilaria Bussoni, pp. 142, 15 euro), «è una possibilità con cui dobbiamo fare i conti. E nessuno potrà dire ‘noi non sapevamo’». È un’affermazione che personalmente condivido, pur non avendo qui lo spazio per qualificarla e precisarla, come sarebbe necessario.

Dà in ogni caso il senso dell’urgenza politica che pervade il testo dei due autori francesi, forse ancora più esplicita nel titolo originale: «per farla finita con questo incubo che non vuole finire». A differenza dei ponderosi volumi da loro scritti negli ultimi anni – La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista e Del Comune, o della Rivoluzione nel XXI secolo (entrambi editi da DeriveApprodi), a cui va aggiunto Marx, Prénom Karl (Gallimard, 2012) – questo nuovo libro è una sorta di manifesto, un lungo pamphlet pensato e scritto come un intervento direttamente politico. Vale la pena dunque di discuterlo in quanto tale, anche tenendo presente la notevole influenza che in particolare La nuova ragione del mondo ha esercitato nel dibattito italiano.

Lo sfondo di Guerra alla democrazia è definito dal processo di radicalizzazione e rafforzamento (aggiungerei, con più enfasi rispetto a Dardot e Laval: nonché di mutazione) del «neoliberalismo» negli anni successivi all’inizio della grande crisi economica e finanziaria nel 2007-2008. È un processo che andrebbe indagato sulla scala globale che il «neoliberalismo» ha assunto come riferimento fondamentale fin dalla sua origine. Qui tuttavia, coerentemente con i loro obiettivi, Dardot e Laval si soffermano in particolare sull’Europa.

Centrale è per loro, del tutto comprensibilmente, la «lezione greca», ovvero la sconfitta del tentativo di Syriza – nella prima metà del 2015 – di rompere politicamente con la continuità neoliberale dell’austerity. Il giudizio è molto netto: «vista da oggi, la partita sembrava truccata. La lezione greca dimostra che nessuna inflessione può venire davvero dall’interno del gioco istituzionale europeo, proprio per la forza del ricatto che viene esercitato sui recalcitranti nei confronti della linea dominante».

Questo «ricatto» ricapitola nella prospettiva di Dardot e Laval i capisaldi del neoliberalismo (in particolare nella sua variante «ordoliberale»), esasperandone le caratteristiche «anti-democratiche» e «oligarchiche». Sono qui ripresi i tratti fondamentali della ricostruzione «genealogica» del neoliberalismo proposta – innestando significative integrazioni e correzioni su una traccia foucaultiana – in La nuova ragione del mondo. È bene dire subito che si tratta di una ricostruzione importante e preziosa. Con quel libro Dardot e Laval hanno contribuito a «spiazzare» l’immagine dominante a «sinistra» del neoliberalismo, criticandone in particolare l’interpretazione puramente «negativa» (smantellamento delle regole, riduzione dei margini d’azione dello Stato, etc).

Il neoliberalismo è piuttosto a loro giudizio «una forma di potere positiva e originale», capace di plasmare le «forme di vita» e le «condotte» sincronizzandole alla «logica del capitale». Dardot e Laval non sono certo stati, per fortuna, gli unici a lavorare in questa direzione negli ultimi anni: basti ricordare, andando oltre i confini europei, i lavori di Wendy Brown sugli Stati Uniti, di Wang Hui sulla Cina, di Verónica Gago sull’Argentina e sull’America Latina e di Aihwa Ong sull’Asia orientale. Ma, indubbiamente, La nuova ragione del mondo si segnala con le sue cinquecento pagine per la serietà del lavoro di ricostruzione storica e, tra altre cose, per l’enfasi sull’originaria impronta «ordoliberale» del processo di integrazione europea.

Su quest’ultimo punto, di grande rilievo come già si è visto per le stesse conclusioni politiche di Guerra alla democrazia, alcune osservazioni mi sembrano necessarie. Certo, l’analisi proposta da Dardot e Laval del «condizionamento» ordoliberale della costruzione europea, fin dagli anni Cinquanta, è convincente.

La conclusione che solitamente se ne trae, e cioè che l’integrazione europea è puramente ed esclusivamente un «progetto neoliberale», senza ulteriori qualificazioni, mi pare tuttavia quantomeno affrettata. Per varie ragioni, tra cui mi limito a segnalare il fatto che – come dimostra un’ampia storiografia – la costruzione dello «Stato sociale democratico», nelle diverse varianti che conobbe in Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale, fu possibile soltanto nella cornice del processo di integrazione.

La stessa nascita dell’Unione Europea, con il Trattato di Maastricht, ebbe certamente una violenta determinazione neoliberale, in particolare per il modo in cui è stato definito lo statuto della Banca Centrale – e dunque della moneta unica. Ma agirono in quel processo anche altre logiche e altri attori, che sono stati semmai definitivamente marginalizzati proprio nel contesto del cosiddetto «management della crisi», in particolare a partire dal 2010 (il «Meccanismo europeo di stabilità» e il «Fiscal compact» sono evidentemente passaggi essenziali a questo riguardo).

E per concludere sul punto: trovo un po’ singolare l’enfasi di Dardot e Laval sul fatto che l’euro non sia «stato istituito come strumento monetario al servizio di obiettivi politici democraticamente determinati». Forse ho fatto le letture sbagliate sul tema, ma che questa sia la «normale» funzione della moneta in una società capitalistica, rispetto a cui l’euro rappresenterebbe una distorsione, mi risulta davvero sorprendente.

Il nuovo libro di Dardot e Laval, in ogni caso, è molto efficace nell’analizzare – e nel denunciare – il radicale svuotamento della democrazia rappresentativa che si è determinato negli ultimi anni in Europa, nel segno dell’affermarsi di quel «nuovo concetto di sovranità» di cui parlò nel dicembre 2011 (dopo la destituzione di Papandreu in Grecia) l’allora presidente della BCE Jean-Claude Trichet.

La stessa indicazione dei caratteri «oligarchici» del blocco neoliberale dominante – per quanto di tanto in tanto la descrizione di questo blocco, soprattutto in riferimento alla Francia, risulti un po’ troppo prossima a quell’«accezione corrente» del neoliberalismo che come si è detto i due autori criticano rigorosamente dal punto di vista teorico – è certo suggestiva nella sua «classicità». Una rilettura di Pluto, una commedia di Aristofane, fa infatti da cornice all’analisi svolta nel libro, riproponendo l’antico scontro tra oligarchia (del denaro, in particolare) e democrazia come tema di fondo e posta in palio nella crisi europea contemporanea.

Il fatto è, tuttavia, che la parte «propositiva» del manifesto di Dardot e Laval, interamente ritagliata attorno a un’intransigente «rivendicazione di democrazia», non mi pare davvero all’altezza delle stesse sfide indicate nella parte analitica – né dei toni apodittici, quando non liquidatori, adottati nei confronti di autori che dovrebbero essere considerati quantomeno «compagni di strada» in un tempo definito con molte ragioni «buio». Il problema, del resto, era già presente – sotto il profilo teorico – in La nuova ragione del mondo, dove gli stessi Dardot e Laval scrivevano che «che è più facile evadere da una prigione che uscire da una razionalità».

Ora, chiunque abbia visto ad esempio Papillon sa che per progettare un’evasione è fondamentale lo sguardo che si getta ai muri della propria prigione. E ho l’impressione che la particolare interpretazione della categoria foucualtiana di «governamentalità» proposta da Dardot e Laval finisca per fare velo alle crepe di quei muri ben più di quanto non contribuisca a individuarle e ad allargarle.

Tanto è vero che i riferimenti alla «promozione di forme di soggettivazione alternative» e alle «contro-condotte» come terreno di lotta e resistenza, nelle ultime pagine di quel libro, lasciava un po’ spiazzati. Né il successivo Del comune ha contribuito a risolvere il problema di comprendere – per dirla nel modo più semplice possibile – da dove e come possano emergere queste contro-condotte capaci di definire un’alternativa al neoliberalismo.

Abbiamo ora, in un testo più esplicitamente politico, una risposta a questo problema? «L’unica alternativa possibile al neoliberalismo», scrivono in Guerra alla democrazia Dardot e Laval, «parte dall’immaginario». Ok, suona bene «immaginario». Né mi sogno di contestare la potenza politica dell’immaginazione – al contrario. Ma questa potenza dovrà ben essere materialmente qualificata e impiantata in processi sociali e politici determinati – dovrà essere nutrita da e a sua volta nutrire lotte. Qui si parla di un «blocco democratico internazionale», di una «federazione europea e mondiale» di «coalizioni democratiche».

Se ne può dire qualcosa di più? I loro «contorni programmatici» non si possono definire, perché – ci informano i due autori in modo un po’ sorprendente – «averne la pretesa significherebbe contravvenire al principio stesso della democrazia». Si può dire allora qualcosa sulla loro composizione e organizzazione? Solo in negativo, sembrerebbe: occorre «rompere una volta per tutte con la logica del partito e degli spauracchi della rappresentanza» (tutto in corsivo, in un accorato appello alla «sinistra, soprattutto quando si tratta del rapporto con i suoi elettori»…). Alla fine, tuttavia, proprio nell’ultima pagina del libro un paio di regole «non negoziabili» vengono pur sempre formulate: la «rotazione delle cariche» e la «non rieleggibilità nelle funzioni pubbliche». Chissà che ne direbbe, in Italia, il movimento 5 stelle…

Vi sono molti passaggi interessanti e originali in Guerra alla democrazia. Ne ho già menzionati alcuni. Aggiungo qui la ripresa della definizione aristotelica di democrazia come potere dei poveri, e dunque di «una parte della polis». Ripeto tuttavia che lo svolgimento di una proposta politica che si vorrebbe radicalmente democratica, federativa e cooperativa è davvero molto debole, se non evanescente, in questo libro.

Completamente eluso, in particolare, rimane nella pars construens il problema del potere: come si affronta politicamente quello che è efficacemente definito dai due autori il «trasloco» del «luogo di produzione delle norme» e di formulazione delle logiche di governo? Come si costruisce un rapporto di forza che consenta di «immaginare» (e dunque di praticare) una riappropriazione di questa produzione di norme e di questa capacità di governo? Sui soggetti, sulle lotte, sui dispositivi istituzionali che possono materialmente fondare un tentativo di rispondere a queste domande dovrebbero concentrarsi, credo, la ricerca e la sperimentazione politica. Con uno spirito aperto al confronto e al dialogo, perfino con «modestia» aggiungerei, dato che evidentemente nessuno – tantomeno chi scrive – ha risposte definitive da offrire.

Dardot e Laval si ricollegano qui, ovviamente, a Del comune. Non mi sembra inutile ricordare che, nell’introduzione a quel libro, l’esemplificazione della relazione tra la «Comune» e «i commons» era proposta sulla base del movimento del giugno 2013 a Istanbul, attorno a Piazza Taksim e a Gezi Park. Leggendo quel volume, come al solito molto ricco nelle parti storiche di ricostruzione delle teorie federative e cooperative, delle «consuetudini della povertà» e del socialismo giuridico, si aveva anzi l’impressione che il movimento di Gezi Park fosse qualcosa di più che un esempio – che fosse una sorta di modello politico per Dardot e Laval. Ora, si è trattato di un movimento formidabile, su cui era certo legittimo fare un investimento di quel tipo: ma oggi, come si sa, la situazione in Turchia è un po’ cambiata. In Guerra alla democrazia il lettore cercherà invano un bilancio critico di quell’esperienza.

Dardot e Laval sono autori di libri importanti, sono schierati politicamente da quella che io considero essere la «parte giusta». La loro critica, sulla base di un’analisi realistica di quel che è diventato lo Stato nel tempo neoliberale, di ogni «statualismo» e «nazionalismo» di sinistra è oggi davvero preziosa in Europa – così come la loro insistenza sulla necessità di tenere aperta la «questione europea» pur criticando a fondo l’Unione europea «per come esiste oggi». E trovo condivisibile la loro insistenza sull’importanza, nella prospettiva di una reinvenzione dell’«internazionalismo», di un lavoro sulle norme e sulle istituzioni del «comune».

Se Dardot e Laval criticano tuttavia con qualche ragione gli approcci «economicistici» alla crisi contemporanea in Europa, a me pare che il loro approccio sconti un «riduzionismo» di segno opposto – finendo per nutrire una teoria della «pura politica», dove il riferimento alla democrazia appare svuotato di ogni determinazione materiale. È un problema che si potrebbe discutere a lungo anche in riferimento al libro (pur bello e importante) da loro dedicato a Marx. Non ve n’è qui lo spazio.

Basti dire, per concludere, che la teoria politica di cui abbiamo bisogno oggi – come esito di un lavoro collettivo in cui Dardot e Laval sono interlocutori fondamentali – deve a mio giudizio necessariamente essere articolata con una nuova critica dell’economia politica. Letta in una chiave politica, e rinnovata a fronte dell’attuale realtà del capitalismo, una categoria «antica» – quella di lotta di classe – potrebbe mettere al riparo da ogni rischio di «riduzionismo», tanto «economico» quanto «politico».

«Il rapporto tra eterogeneità delle singolarità e comune si radica nella cooperazione sociale che esse stesse producono. Solo a partire dall’eterogeneità che vive nella cooperazione sociale possono darsi istituzioni del comune non identitarie e chiuse. »

. Euronomade online, 1 gennaio 2017 (c.m.c.)

Il saggio che qui presentiamo, anche per il buon anno dal nostro collettivo, è contenuto in A. Quarta e M. Spanò (a cura di), Beni comuni 2.0. Contro-egemonia e nuove istituzioni, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 23-34. Il comune è libertà. Una libertà che viene obliterata ogni volta che l’istanza collettiva che si vuole contrapposta all’"individualismo possessivo" assume coloriture comunitarie e invoca l’avveramento del bene comune.

Che si tratti di una comunità ristretta – il borgo, i cittadini "attivi" di un quartiere metropolitano, ma anche il collettivo politico – o invece ampia – il popolo, la nazione – l’affermazione forte della propria identità e di valori comuni, vincolanti per i propri aderenti, da una parte consolida la comunità al suo interno, dall’altra marca il suo perimetro, ne fa un’entità pronta a rifiutare l’estraneo. Col risultato di declinare in forma collettiva quella coazione ad escludere propria dell’individualismo proprietario borghese che si intendeva contrastare. Ed è qui che la promessa del comunismo utopico, così bene narrata da Lorenzo Coccoli nel saggio che segue, si infrange, sostituendo pulsioni identitarie alle originarie istanze libertarie, e sovrapponendo alla possibile multiformità dei legami sociali l’univocità di un solo legittimo codice morale. E infine rivelandosi incapace di proiettare la propria virtù (e il proprio modello) al di là dei confini della sua dimensione comunitaria.

Perciò, come in passato l’ortodossia di pensiero e pratiche coltivata dentro comunità chiuse non è valsa a sconfiggere le relazioni di sfruttamento che strutturano le società capitaliste, così oggi non è invocando un ritorno al popolo sovrano che si risponde alla frammentazione della soggettività in mille identità diverse, destinate a popolare di nuove figure di consumo i mercati globali e di nuove forme di cittadinanza ‘debole’ le carte dei diritti neoliberali.

Per quanto ci riguarda, le soggettività del comune, nella concreta materialità dei loro corpi, non possono che avere fisionomie ‘mosse’, plasmate dalle molteplici relazioni in cui sono immerse, dall’aggregarsi in dimensioni collettive sempre fluide e dinamiche. Queste ‘singolarità comuni’ rispecchiano l’eterogeneità costitutiva del lavoro vivo nelle metropoli. Il rapporto tra eterogeneità delle singolarità e comune si radica nella cooperazione sociale che esse stesse producono. Solo a partire dall’eterogeneità che vive nella cooperazione sociale possono darsi istituzioni del comune non identitarie e chiuse. Luoghi di costruzione e di esercizio di libertà.

«Le utopie non saranno mai lodate abbastanza per aver denunciato i misfatti della proprietà, l’orrore che rappresenta, le calamità di cui è causa. […] Questo mondo di proprietari [è] il più atroce dei mondi possibili»

(E.M. Cioran, Storia e utopia)

1.«Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà»[1]. La nota profezia tocquevilliana, che precedeva di qualche mese la rivoluzione del febbraio ‘48 e la pubblicazione del Manifesto del partito comunista, può nuovamente essere eletta a divisa del nostro tempo.

Certo, le parti in conflitto non sono più le stesse di un secolo e mezzo fa. Ma che la proprietà – meglio, l’espansione continua dei processi di privatizzazione del mondo materiale e immateriale – sia ancora un enjeu fondamentale dello scontro politico, sociale ed economico che attraversa e divide il presente, questo ha per noi l’evidenza di un fatto. È quasi superfluo, in questa sede, nominare gli opposti schieramenti che – per quanto fluidi, per quanto mutevoli – si contendono la partita: da un lato, i nuovi regimi di accumulazione originaria[2] e il «secondo movimento di enclosures»[3], elementi chiave di un più ampio dispositivo neoliberale e della sua affermazione su scala planetaria; dall’altro, le mobilitazioni, le resistenze, gli antagonismi che, dai movimenti altermondialisti degli anni Novanta e dei primi anni Duemila fino ai più recenti cicli di lotte globali, hanno cercato di contrastare l’avanzata della «nuova ragione del mondo».

Superfluo è anche ricordare il ruolo che la pratica e la teoria dei beni comuni hanno giocato nell’articolazione di questo fronte oppositivo. In prima battuta, la bandiera dei commons ha funzionato da «significante vuoto» capace di catalizzare energie e forze sociali eterogenee, innescando dinamiche feconde di soggettivazione[4]. Non solo. Il «benicomunismo» non si è limitato a servire da polo aggregatore di iniziative resistenziali, ma si è spinto fino a elaborare e proporre un progetto di società radicalmente alternativo a quello capitalistico, sfidando la pretesa egemonica del discorso neoliberale. Muovendosi insieme sul piano della tattica e della strategia, del costituito e del costituente, il movimento dei beni comuni è riuscito a riavviare il motore ingolfato dell’immaginazione politica, ideando e dando vita a nuove forme istituzionali orizzontali, partecipate e inclusive, in esodo dall’isomorfismo moderno di pubblico e privato[5].

Ora, non di rado i benicomunisti hanno attinto dal passato il carburante immaginario e simbolico per questo slancio in direzione del possibile. E ciò perché, scrivono Dardot e Laval, «quel che appare come l’aspetto più innovativo delle lotte emerge in un contesto e si iscrive in una storia. È l’esplorazione di questa lunga storia che permette di uscire dalle banalità, dalle confusioni e dai controsensi»[6].

Lo scavo archeologico e l’indagine genealogica hanno così permesso al discorso dei beni comuni di costruire il proprio archivio, di riallacciare i fili dei sentieri interrotti dal trionfo solo apparentemente pacifico dell’individualismo possessivo. Dalla Charter of the Forest alla guerra dei contadini, dalle comunità monastiche al mutualismo operaio, da Spinoza a Proudhon a Marx, pezzi di teorie e di prassi sono stati volta a volta convocati allo scopo di decifrare il palinsesto di una «altermodernità»[7] forclusa dall’avvento del paradigma proprietario.

Ciò che mi propongo di fare, nello spazio di questo breve contributo, è aggiungere un ulteriore tassello a questa operazione contro-egemonica di memoria collettiva, recuperando una tradizione di pensiero che proprio sulla contestazione di quel paradigma ha costruito parte della sua plurisecolare fortuna. Mi riferisco a quelle scritture utopistiche che, da Platone in poi, hanno messo il comune al centro di un disegno di reinvenzione e (talvolta) di trasformazione delle strutture giuridico-politiche esistenti[8].

Per sgombrare subito il campo da dubbi: quel che mi interessa non è la démarche chimerica che in molti di questi testi separa nettamente l’essere dal dover essere, rendendo impossibile qualsiasi ricomposizione di reale e ideale. Piuttosto, si tratterà qui di analizzare il nodo concettuale che stringe assieme abolizione della proprietà privata, forme di vita comune e immaginazione istituzionale, distillandone le risorse di senso che, al di là e spesso anche contro le intenzioni dei singoli autori, possono essere messe a disposizione dell’oggi, segnalandone però al contempo le possibili derive regressive.

2. Nella sua monografia su Saint-Simon, risultato del ciclo di lezioni tenute a Bordeaux tra il 1895 e il 1896, Durkheim individua nell’insistenza esclusiva sulle conseguenze morali della proprietà lo specificum del comunismo utopistico: «La loro [dei comunisti] idea fondamentale, che ritorna sempre sotto forme leggermente differenti, è che la proprietà privata è la fonte dell’egoismo e che dall’egoismo deriva l’immoralità. […] In sostanza, nel suo insieme, il comunismo consiste in un luogo comune della morale astratta che non è propria di nessun tempo e di nessun paese»[9]. Difficile, anzi impossibile negare la predominanza dei toni moraleggianti nel discorso utopistico, in particolare per tutto ciò che riguarda la costellazione del proprium: avarizia, ambizione, invidia e ipocrisia sono i frutti avvelenati dell’«empia Proprietà, Madre di tutti i crimini che inondano il Mondo»[10].

Ed è anche vero, a contrario, che la forma di vita comunitaria – che d’altronde ha spesso a modello la Chiesa primitiva e il cenobitismo – è puntualmente descritta ricorrendo al lessico della virtù, della santità, della perfezione: «Per quanto riguarda il genere di vita, si è detto e provato con l’esperienza che essa è possibile, in quanto è più conforme a natura vivere secondo la ragione e la virtù che secondo la sensualità e il vizio, […] e questo lo provano i monaci e al giorno d’oggi gli Anabattisti, che vivono in comunità»[11]. Ciò detto, resta tuttavia da chiarire quale sia il passaggio logico che consente di riconoscere nella proprietà la fonte di ogni male e nel comune la precondizione di una possibile palingenesi individuale e collettiva. Che cosa permette di attribuire all’una e all’altro un potere performativo tale da indirizzare in due direzioni in tutto e per tutto opposte i destini dell’uomo e della società?

Il punto – che vorrei avanzare almeno in via di ipotesi – è che quei due principi figurano nelle scritture utopistiche non solo e non tanto come semplici dispositivi di regolazione del rapporto tra le persone e i beni, ma come scaturigine di due processi distinti di soggettivazione. Il soggetto non è qui qualcosa che interamente preesiste all’appropriazione (privata o comune) delle cose, ma è invece almeno in parte l’effetto dell’istituzionalizzazione di quell’appropriazione. È l’istituzione della proprietà privata, o viceversa la sua negazione, che letteralmente fa l’uomo buono o cattivo. Ecco l’intuizione implicita nel comunismo utopico: il comune è potenza produttiva di soggettività radicalmente altre rispetto a quelle esistenti, modellate sul paradigma dell’individuo possessivo. E ciò rimane valido indipendentemente dai differenti contenuti morali di cui ciascun autore decide poi di sostanziare questa alterità. Di qui, l’impossibilità stessa di misurare con i nostri parametri proprietari esseri così diversi da noi: «Essi non hanno né le nostre passioni, né le nostre inclinazioni, né i nostri desideri»[12].

Sarebbe perciò inesatto parlare, a proposito della letteratura utopistica, di un’antropologia ingenuamente positiva. Piuttosto, almeno in prima istanza, quel che pare emergere è una concezione plastica della natura umana, la quale può essere modellata in un senso o in un altro a seconda del contesto istituzionale in cui è inserita. «L’uomo» scrive Morelly «non ha né idee, né tendenze innate»[13].

Sono i legislatori, coloro cioè che hanno dato vita al diritto civile fondato sulla proprietà privata, che «hanno precisamente fatto tutto quanto occorreva per gettare e far schiudere nel cuore dell’uomo il seme di vizi che non vi erano mai stati e per soffocare quel poco di virtù che pensano di coltivarvi»[14]. Ciò spiega perché «la vita e i beni in comune» non siano solo un elemento tra i tanti dell’invenzione utopica, ma «ciò che forma più che mai il massimo fondamento di tutta la loro [degli Utopiani] organizzazione sociale»[15]. Il comune disancora i soggetti dall’esistente – a cui sono legati dal «peso dei loro possessi»[16] – li deterritorializza e fa di questa deterritorializzazione la condizione di un altro mondo possibile. Esso è dunque la leva di scambio che devia l’utopia dai binari del reale e ne aziona la prolifica e spesso dettagliatissima immaginazione istituzionale, la quale investe fin nei particolari ogni aspetto dell’organizzazione materiale e simbolica delle comunità umane.

3. È proprio questo primo momento di fluidificazione dei rapporti sociali, liberati dalle rigidità del «mio» e del «tuo», che appare come massimamente minaccioso agli avversari del comunismo utopico, consapevoli della sua dirompente carica sovversiva. Già More, anticipando forse in via cautelativa alcune possibili obiezioni al suo progetto, rilevava che «con questa sola cosa si rovescerebbe dalle basi ogni nobiltà, ogni magnificenza e splendore e maestà, che formano, secondo l’opinione pubblica, la bellezza e l’ornamento dello Stato»[17].

Una ventina d’anni più tardi, un altro umanista amico di More, Juan Luis Vives, in un opuscolo scritto per condannare la rivolta di Münster, darà voce a preoccupazioni analoghe. La communio rerum che gli anabattisti hanno proclamato nella loro «Nuova Gerusalemme» è «assurda, empia e perversa» perché sottrae il terreno su cui poggiano le gerarchie sociali, economiche e politiche che reggono l’ordine della società. Senza differenze nella distribuzione di ricchezze e onori, niente più ranghi, niente più ceti, niente più status, ma solo una «ingiustissima eguaglianza tra inferiori e superiori»[18].

Senza il pungolo della povertà, niente più ripartizione funzionale dei compiti e obbligo al lavoro: «Perché se ora, con tutta l’urgenza della necessità e l’ammonimento dell’indigenza, si trovano così tanti indolenti che preferirebbero morire piuttosto che lavorare, cosa pensiamo accadrà una volta imposta l’eguaglianza e la comunità di tutte le cose?»[19]. Ma soprattutto, l’utopia comunitaria dei ribelli anabattisti esclude alla radice qualsiasi distinzione politica dei ruoli, qualsiasi regime di governo, qualsiasi relazione di comando e obbedienza: «Vi sembra bene che nessuno sia padrone e nessuno servo? […] Pensate forse che tutti debbano essere magistrati o, al contrario, che tutti debbano essere privati cittadini? La legge di Cristo distingue tra padroni e servi, magistrati e privati. Non sovverte quell’ordine grazie alle cui prescrizioni ogni cosa sussiste […]. Come sarebbe possibile immaginare una Repubblica in cui nessuno governasse e comandasse nessun altro, quasi un corpo senza testa, una nave senza timone e senza timoniere, un uomo senza ragione?»[20].

È precisamente questa presunta impossibilità che il discorso utopistico prova a mettere in figura. Il soggetto del comune, sciolto dalla dimensione del proprio, diventa – o almeno tende a diventare –soggetto nomade indisponibile alle tradizionali strutture familiari, sociali, politiche. L’abolizione della proprietà (privata) e l’uso (comune) delle cose dissolvono la solidità delle forme trascendenti che organizzano l’ordine stabilito e aprono uno spazio di immanenza in cui i singoli possono muoversi liberamente senza fissarsi in identità predeterminate. Come vedremo, non è questa l’ultima parola degli utopisti sull’argomento: nella quasi totalità dei casi, infatti, un’altra trascendenza interviene a richiudere nuovamente quello spazio.

E tuttavia, resta il fatto che molta parte della vita comunitaria da loro descritta si colloca sotto il segno del dinamismo, della circolazione, della mobilità. Mobilità letterale: nelle città ideali si viaggia, alle città ideali si arriva viaggiando. Le loro architetture sono pensate per ottenere «spazio e libertà di movimento»[21], e lì non vige la legge della fissa dimora: «Nessuno possiede una casa in proprietà privata, ma tutte sono concesse e assegnate in uso, e, se lo Stato vuole, cambiano con facilità di abitazione»[22]. Ma soprattutto, è una mobilità soggettiva che attraversa e invalida i confini tracciati dalla verticalità gerarchica degli apparati che bloccano la fluidità dei rapporti e limitano gli incontri e gli scambi.

L’amore non è costretto nelle maglie della «eterna schiavitù» del matrimonio: «Sì, dicono gli amanti, fintanto che ci ameremo saremo inseparabili»[23]. L’ineguale distribuzione di ricchezza, dignità e sapere/potere non destina più una parte consistente della società alle fatiche di un’attività ingrata e sempre identica a sé, e la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale sembra venire meno: «Ma tra loro, partendosi l’offizi a tutti e le arti e fatiche, non tocca faticar quattro ore il giorno per uno; sì ben tutto il resto è imparare giocando, disputando, leggendo, insegnando, camminando, e sempre con gaudio»[24]. Il cacciatore-pescatore-allevatore-critico dell’Ideologia Tedesca non è poi così lontano.

Soprattutto, date queste premesse, è la stessa distinzione tra governanti e governati che tende, almeno potenzialmente, a dileguare. Tutto è comune, anche il potere: e il governo sfuma, sia pur con gradazioni diverse a seconda degli autori, nell’autogoverno. Persino lì dove si riconoscono ancora magistrati, funzionari e ufficiali, principi di eleggibilità, sorteggio, rotazione delle cariche sono intesi ad assicurare un’eguale distribuzione della facoltà decisionale su tutto il tessuto sociale. Ma il punto limite resta quello della cancellazione totale di qualsiasi separatezza nella gestione del potere. Non si tratta tanto, si badi bene, del passaggio saint-simoniano dal governo degli uomini all’amministrazione delle cose, quanto di una saldatura perfetta tra forma di vita e regole che disattiva ogni dispositivo di autorizzazione. Nell’Inghilterra futura di Morris, le «regole […] hanno sostituito il governo. […] Sono ormai centocinquanta anni che viviamo più o meno in questo modo e in noi si è andata sviluppando una tradizione o, per meglio dire, un sistema di vita, che ci spinge ad agire sempre per il meglio»[25]. Il mostruoso corpo senza testa paventato da Vives diventa qui una paradossale «realtà».

4. Questa però, come accennavo, è solo una parte della storia: una linea di tendenza, una virtualità quasi sempre destinata a rimanere tale. Il punto è che quel primo movimento deterritorializzante, i cui effetti concettuali abbiamo sopra tentato di delineare, risulta nella stragrande maggioranza dei casi propedeutico a un nuovo movimento di riterritorializzazione. Il soggetto è sottratto alla sfera del proprium solo per essere consegnato a un proprium più autentico, più originario. La metafisica proprietaria viene rimpiazzata da un’altra metafisica, altrettanto letale: la metafisica della comunità. Il comune non gioca più allora il ruolo di moltiplicatore di differenze e di incubatore di soggettività mobili, ma al contrario serve a garantire la fusione indifferenziata dei singoli in una comunione immediata, assoluta, totalizzante. A sua volta, questa comunità sostanzializzata si costituisce in potere separato che trascende il corpo sociale e assegna a ognuno compiti e ruoli in nome di una finalità collettiva. I beni comuni si riducono all’unum di un bene comune che, sia pur su basi diverse, ripristina la verticalità della classificazione gerarchico-funzionale[26].

Il testo platonico della Repubblica – che, com’è noto, rappresenta uno tra i più importanti punti di riferimento delle scritture utopistiche – esibisce questa dinamica con straordinaria evidenza. Non serve ricordare che la forma di vita comune della kallipolis non è affare di tutti i suoi membri ma solo della classe dei custodi[27]. Eppure, anche all’interno di questo ambito di applicazione ristretto, sono chiari gli scopi a cui essa è chiamata ad assolvere. Si tratta, innanzitutto, di istituire quella «comunanza di piacere e dolore» che lega la città fino ad assimilarla «alla condizione di un solo uomo»[28].

Il problema dell’attrito possibile tra gli interessi privati e della loro eventuale composizione è risolto azzerando del tutto la dimensione dell’idiosis (privatezza), nel tentativo di ottenere una comunità epurata da ogni striatura conflittuale, in cui tutti pronuncino all’unisono il «mio» e il «non mio»: «Questo li rende del tutto estranei a quei motivi di conflitto che vengono agli uomini dal possesso di ricchezze, figli, parenti»[29]. Per esserne espressione adeguata, anche il potere che una tale comunità esercita su sé stessa e sugli altri deve essere sottoposto a un analogo processo di es-propriazione. La sfida a cui rispondere è quella lanciata da Trasimaco: «È che tu pensi che i pastori e i bovari cerchino il bene del gregge o dei buoi, e li ingrassino e li curino avendo di mira qualche altro motivo che non sia il bene dei padroni e il loro proprio. E così anche coloro che detengono il potere nelle città […]»[30].

Il comune serve allora a riportare il governo «pastorale» dei custodi alla sua verità, trasformando questi ultimi da lupi famelici in cani fedeli al servizio della polis. Senza beni o affetti familiari in proprio, nessuna utilità personale interviene a distrarre i governanti dai loro doveri: «E così potranno salvarsi e salvare la città. Ma allorché essi possiedano privatamente terre e case e denaro, diventeranno amministratori di un patrimonio e agricoltori invece che difensori, padroni ostili anziché alleati degli altri cittadini»[31]. La rottura dell’equazione ricchezza/potere svuota il politico di ogni contenuto sociale o economico, elevandolo così a una trascendenza che disallinea il comune dalla sua traiettoria immanentista e lo cattura all’interno di un’altra linea genealogica, quella del «servizio pubblico»[32]. Solo eliminando proprietà e interesse personale si può sperare di rendere «magistrati, grandi di una Repubblica, monarchi […] semplici ministri designati a prender cura della felicità» dei loro popoli[33].

Infine, questa riconfigurazione degli assetti di potere consente a chi governa di svolgere al meglio il proprio officium: assegnare a ogni membro della macchina comunitaria una posizione e un compito, non più sulla base del censo o del ceto ma in considerazione esclusiva dell’inclinazione, del talento, del merito. Incarico principale del re-filosofo è quello di riconoscere le qualità naturali dei suoi concittadini – l’oro, l’argento, il bronzo – e di armonizzarle in un tableau vivant in cui a ciascuno è affidata una e una sola mansione, avendo sempre di mira il fine superiore del bene comune della città[34].

All’interno di questa operazione di ripartizione e classificazione funzionale, il comune gioca un duplice ruolo di veridizione: dal lato dei governanti, esso garantisce che il loro giudizio non venga fuorviato da simpatie o tornaconti personali, riducendo così al minimo le possibilità di errore; da quello dei governati, esso fa sì che ogni natura si mostri nella sua verità, senza potersi più nascondere sotto il velo fittizio delle differenze sociali. Com’è forse intuibile, la forza centripeta di questo dispositivo teorico non è ridotta ma amplificata dall’estensione della «comunità di vita» a tutto il corpo sociale. Prendiamo, all’altro capo della letteratura utopistica, l’Icaria di Cabet. Di nuovo, il comune è veicolo non di singolarità mobili ma di reductio ad unum comunitaria: «La Comunità non ha gli inconvenienti della Proprietà; perché essa fa sparire l’interesse particolare per fonderlo nell’interesse pubblico, […] l’individualismo e il particolarismo per far posto all’associazione o al socialismo, alla devozione e all’unità»[35].

Di nuovo, esso si costituisce in potere trascendente che si piega sulla società per governarla, organizzarla, potenziarla: «Padrona di tutto, [la Comunità] centralizza, concentra, riduce tutto all’unità; ragiona, combina, dirige ogni cosa; e così facendo, essa sola può ottenere al meglio il vantaggio incommensurabile di evitare i doppi incarichi e gli sprechi, di realizzare appieno l’economia, […] di sviluppare continuamente la perfettibilità dell’uomo»[36].

Di nuovo, infine, questa amministrazione centralizzata assegna a ciascuno la parte da svolgere nel suo piano di razionalizzazione economica: «Senza dubbio, la Comunità impone necessariamente vincoli e obblighi; perché la sua principale missione è di produrre la ricchezza e la felicità» e, affinché possa adempiervi, «occorre che sottometta tutte le volontà e tutte le attività alla sua regola, al suo ordine, alla sua disciplina»[37]. La lezione è perspicua: ogni volta che il comune imbocca la strada metafisica della comunità, la singolarità è sacrificata al totem/totum dell’interesse pubblico, il piano di immanenza sussunto sotto la verticalità dell’organizzazione. Il corpo ha di nuovo una testa.

5. Per tirare le fila. Quel che le scritture utopistiche pensano e consentono di pensare è il comune inteso come principio di soggettivazione alternativo a quello proprietario. È questa l’«ipotesi comunista» che, credo, può mettere conto recuperare, collocandola al cuore di un progetto di reinvenzione e trasformazione dell’esistente. Il comune deve produrre i suoi soggetti. Solo che questa produzione si attiva sempre sull’orlo di un paradosso: una volta liberati dalla gabbia d’acciaio della proprietà, i singoli rischiano ancora di essere restituiti all’immobilità di un proprium che ritorna sotto forma di appartenenza comunitaria, (ri)diventando «i proprietari del loro comune»[38].

È il fantasma della comunità che trasforma le città ideali in incubi totalitari. Di qui la tensione tra presupposto egalitario ed esito gerarchico del comunismo storico[39], di qui la «cattura burocratica del comune» all’interno del socialismo reale[40]. Se allora il benicomunismo vuole restare fedele alla sua vocazione «strategica» e autenticamente rivoluzionaria, è tra la Scilla della proprietà e la Cariddi della comunità che deve continuamente navigare. La concettualità del comune si distingue da quelle rivali del privato e del pubblico come l’immanenza dalla trascendenza, come la condivisione diffusa di sapere/potere dalla separatezza degli apparati tecnocratici, come la mobilità nomade dalla fissazione in ruoli stabili e stabiliti.

Compito dei benicomunisti deve essere quello di difendere il primo momento contro le pretese del secondo, preservandone sempre l’apertura e facendone la falsariga per una riscrittura radicale della società e delle sue istituzioni. In questo senso, qualche proposta concreta può già essere avanzata: diritto al movimento e alla circolazione, reddito di base sganciato dall’obbligo al lavoro, creazione di spazi di autogoverno a livello locale, ripensamento in chiave federalistica delle strutture politiche nazionali e sovra-nazionali. Non sono che titoli di un programma necessariamente più vasto, e che proprio nel comune potrebbe avere il suo punto di capitone. Un programma che, per concludere senza concludere, vorrei porre sotto il segno del giovane e «indisciplinato» Béasse di Sorvegliare e punire:

Il presidente: – Si deve dormire a casa –. Béasse: – Ma io ho una casa? – Voi vivete in un perpetuo vagabondaggio. – Io lavoro per guadagnarmi la vita. – Qual è il vostro stato? – Il mio stato: prima di tutto ne ho almeno trentasei; poi non lavoro da nessuno. È già da un po’ che vivo coi miei soldi. Ho degli stati di giorno e degli altri di notte. Così per esempio, di giorno distribuisco foglietti stampati gratis a tutti i passanti; corro all’arrivo delle diligenze per portare i pacchi; mi dò arie nel viale di Neully; la notte ho gli spettacoli; vado ad aprire gli sportelli, vendo le contromarche; ho molto da fare. – Sarebbe meglio per voi essere sistemato in una buona casa, e farvi un apprendistato. – Già…una buona casa, un apprendistato, che barba. E poi dopo il padrone, quello rogna sempre, e poi, niente libertà. – Vostro padre non vi reclama a casa? – Niente padre. – E vostra madre? – Niente madre, né parenti, né amici, libero e indipendente[41].

[1] A. de Tocqueville, Una rivoluzione fallita. Ricordi del 1848-1849, Laterza, Bari 1939, p. 9.

[2] Accuratamente cartografati in S. Mezzadra e B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, il Mulino, Bologna 2014. Ma cfr. anche D. Sacchetto e M. Tomba (a cura di), La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, ombre corte, Verona 2008.

[3] Cfr. J. Boyle, The Second Enclosure Movement and the Construction of the Public Domain, «Law and Contemporary Problems», n. 66, 2003, pp. 33-74.

[4] Cfr. M. Spanò, Who’s the Subject of the Commons? An Essay in Genealogy, in S. Bailey, G. Farrell e U. Mattei (a cura di), Future Generations and the Commons, Publications of the Council of Europe, Strasbourg 2013, pp. 44-59.

[5] Cfr. U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari 2011; e Id., Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino 2015.

[6] P. Dardot e C. Laval, Del Comune, o della Rivoluzione nel XXI secolo, DeriveApprodi, Roma 2015, p. 21.

[7] Sul concetto di altermodernità cfr. M. Hardt e A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, trad. it. Rizzoli, Milano 2010, pp. 75-124.

[8] Per ragioni di concisione, non potrò qui addentrarmi nella spinosa questione della definizione del genere «utopia», dibattuta in lungo e in largo nell’ambito dei cosiddetti Utopian Studies, né potrò soffermarmi, se non di passaggio, sulle pur rilevanti differenze di contesto storico-politico che separano le opere che prenderò in esame. Su entrambi i punti mi limito a rimandare a R. Levitas, The Concept of Utopia, Philip Allan, New York-London 1990; e a G. Claeys (a cura di), The Cambridge Companion to Utopian Literature, Cambridge University Press, Cambridge 2010.

[9] É. Durkheim, Il socialismo. Definizioni, origini, la dottrina saintsimoniana, Franco Angeli, Milano 1973, p. 211. Nella loro ricostruzione del comunismo pre-marxiano, Dardot e Laval (Del comune, cit., pp. 52-60) fanno sostanzialmente loro la lettura durkheimiana, pur aggiustandone qua e là il tiro.

[10] É.-G. Morelly, Naufrage des isles flottantes, ou Basiliade du célèbre Pilpai, Messina 1753, vol. I, p. 5.

[11] T. Campanella, Questione quarta sull’ottima Repubblica, in Id., La città del Sole, Rizzoli, Milano 20073, p. 119.

[12] B. de Fontenelle, La République des philosophes, ou Histoire des Ajaoiens, Genève 1768, p. 51.

[13] É.-G. Morelly, Codice della Natura, Einaudi, Torino 1952, p. 54.

[14] Ivi, p. 53.

[15] T. Moro, L’Utopia, Laterza, Roma-Bari 201017, p. 134.

[16] J.V. Andreae, Descrizione della repubblica di Cristianopoli e altri scritti, Guida, Napoli 1983, p. 170.

[17] Moro, L’Utopia, cit., p. 134.

[18] J.L. Vives, De communione rerum ad Germanos inferiores, Köln 1535, fol. A 2v.

[19] Ivi, fol. B 7r.

[20] Ivi, foll. B 3r e v.

[21] W. Morris, Notizie da nessun luogo ovvero un’epoca di riposo, Guida, Napoli 1978, p. 168.

[22] Andreae, Descrizione della repubblica di Cristianopoli, cit., p. 115.

[23] Morelly, Naufrage des isles flottantes, cit., p. 28. Tocchiamo qui, necessariamente di sfuggita, uno degli aspetti più problematici del comunismo utopico: la comunità delle donne, tratto ricorrente in quasi tutti gli autori e presente nelle due principali fonti della letteratura utopistica (la Repubblica di Platone e il Decretum di Graziano). Sarebbe interessante studiare la persistenza dell’ordine simbolico patriarcale anche in quelle scritture che tentano di immaginare un’alternativa radicale rispetto all’organizzazione sociale dominante: ma il discorso meriterebbe una trattazione a sé che qui, per ragioni di spazio, devo purtroppo sacrificare. Cfr. però C.S. Ferns, Narrating Utopia. Ideology, Gender, Form in Utopian Literature, Liverpool University Press, Liverpool 1999.

[24] Campanella, La città del Sole, cit., p. 65.

[25] Morris, Notizie da nessun luogo, cit., p. 179. Di indistinzione tra regola e forma di vita parla G. Agamben in Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011. Non a caso, come si è già avuto modo di notare, il cenobitismo monastico costituisce uno dei modelli ricorrenti del comunismo utopico.

[26] Sulla distinzione beni comuni/bene comune cfr. M.R. Marella, Bene comune. E beni comuni: le ragioni di una contrapposizione, in F. Zappino, L. Coccoli e M. Tabacchini (a cura di), Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 25-39.

[27] Sul «comunismo» nella Repubblica platonica, e in generale in tutto il pensiero greco antico, cfr. D. Dawson, Cities of the Gods. Communist Utopia in Greek Thought, Oxford University Press, New York-Oxford 1992.

[28] Platone, La Repubblica, V, 462b4 e c9, Rizzoli, Milano 2007, p. 677.

[29] Ivi, V, 464e1-2, p. 687.

[30] Ivi, I, 343b1-5, p. 305.

[31] Ivi, III, 417a6-b1, p. 535.

[32] Cfr. sul punto P. Napoli, Indisponibilità, servizio pubblico, uso. Concetti orientativi su comune e beni comuni, «Politica & Società», n. 3, 2013, pp. 403-426.

[33] Morelly, Codice della Natura, cit., p. 103.

[34] È questa, secondo Rancière, l’ingiunzione che regge la Repubblica e che dà senso al comunismo platonico: che ciascuno faccia la sua parte e si attenga rigidamente al suo ruolo. Siamo qui agli antipodi di quel comune «nomade» di cui si è detto sopra. Cfr. J. Rancière, Les philosophe et ses pauvres, Flammarion, Paris 2007, in particolare pp. 15-85.

[35] É. Cabet, Voyage en Icarie, Paris 18452, p. 397.

[36] Ivi, p. 398.

[37] Ivi, p. 403.

[38] R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006, p. IX.

[39] Cfr. J. Rancière, Comunisti senza comunismo?, in C. Douzinas e S. Žižek (a cura di), L’idea di comunismo, DeriveApprodi, Roma 2011, pp. 191-201.

[40] Cfr. Dardot e Laval, Del Comune, cit., pp. 50-75.

[41] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 19932, pp. 321-322.

il manifesto, 29 dicembre 2016 (c.m.c.)

La piana di Gioia Tauro – Rosarno è conosciuta a livello internazionale per essere una delle basi di una criminalità organizzata tra le più potenti del mondo: la ‘ndrangheta. Negli ultimi tempi, ed esattamente dal 10 Gennaio 2010, i mass media hanno riacceso le luci con la rivolta dei braccianti africani stanchi di minacce e attentati nei loro confronti, oltre che di una condizione di vita e lavoro insopportabili.

La popolazione locale, che è stata accusata di razzismo, è composta in gran parte dai figli e nipoti di quei braccianti e contadini che nel 1950 dettero vita ad una durissima lotta contro la polizia scelbiana, occupando le terre del Bosco Grande o Selvaggio (850 ettari del Demanio incolti) che divisero equamente tra tutti i 3.200 occupanti. Le quote migliori furono in seguito assegnate ai 17 braccianti arrestati nel corso degli scontri con la polizia.

Da questo episodio parte la storia sociale e politica di Rosarno raccontata come in un docufilm da uno dei suoi protagonisti, Giuseppe Lavorato, già sindaco di Rosarno e deputato del Pci : Rosarno: conflitti sociali e lotte politiche (Città del sole ed. 2016). Non è una autobiografia ma una ricostruzione storica che parte da Rosarno guardando al mondo attraverso un intreccio straordinario tra locale e globale.

Dalle lotte contadine alla lotta alla ‘ndrangheta, alla nuova borghesia mafiosa che si forma negli anni ’70 quando iniziano i lavori per il grande porto di Gioia Tauro. Le storie di vita e di morte dei compagni di Rosarno che hanno combattuto in Spagna nel ’36 s’intrecciano con quelle dei compagni rosarnesi emigrati al Nord e entrati nella lotta partigiana, con i figli che negli anni ’60 e ’70 scesero in piazza per il Vietnam, per Cuba, contro il neofascismo che rinasceva strumentalizzando la rivolta di Reggio Calabria.

Ed ancora le lotte contro il caporalato mafioso, contro le quattro centrali a carbone progettate dall’Enel negli anni ’80 del secolo scorso. I sindaci della piana di Gioia-Rosarno, a partire da Momo Tripodi sindaco di Polistena si impegnarono in una forte e convinta opposizione che salvò da una colata di carbone questa terra fertile dove le arance crescono all’ombra di giganteschi ulivi, dove dalle vene dell’Aspromonte scorrono acque limpide tutto l’anno.

A Rosarno passarono tutti i grandi personaggi della politica italiana: Fanfani inseguito dalle famose vacche “pendolari”, Ingrao durante i primi duri anni ’70, Andreotti che il 25 aprile del 1975 pose la prima pietra per la costruzione del V Centro siderurgico, durante una pantagruelica cerimonia ricca di dolci e caffè offerti dal clan Piromalli, il più potente della piana di Gioia- Rosarno ancora oggi. Era già in atto l’alleanza tra ‘ndrangheta, politica, servizi segreti ed estrema destra che, come documenta anche il giudice Salvini, si è andata saldando proprio agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso.

In questa storia ricca di personaggi ed eventi, colpisce la partecipazione corale ai grandi eventi della Storia di un piccolo Comune di un’area povera e marginale rispetto alla geopolitica ed economia-mondo. Provate ad immaginare questa massa di contadini poveri, braccianti, operai edili che camminano per le strade di Rosarno inneggiando al Vietnam libero, contro l’imperialismo americano, o in difesa di Cuba e della rivoluzione castrista o a sostegno dell’Intifada del popolo palestinese.

Pensate se oggi è immaginabile che in uno dei nostri piccoli Comuni si organizzino manifestazioni popolari, partecipate, vissute con passione, per denunciare il dramma del popolo curdo o la tragedia del popolo siriano o la condizione invivibile dei palestinesi nella Striscia di Gaza, o la resistenza dei docenti, giornalisti, giudici turchi alla repressione di Erdogan.

È forse la cosa più importante che abbiamo perso: l’idea che tutti possono dare il proprio contributo al riscatto degli oppressi, l’idea che la storia non si fa solo nella stanza dei bottoni, che scendere in piazza ha senso, anche se non ci sono le Tv che contano a riprenderti, anche se non sei fotografato da nessuno. Da quando siamo diventati “Schiavi della visibilità” non riusciamo più a dare un valore in sé e per sé a quello che facciamo, ci siamo allontanati anni luce da quello spirito internazionalista che animava anche le piccole comunità del nostro paese.

Questa testimonianza di Giuseppe Lavorato insegna e mostra come le Grandi Opere abbiano costituito l’humus per il salto di qualità dell’accumulazione mafiosa del capitale, come in questa estrema periferia dell’economia-mondo si sia radicata una nuova forza sociale – la borghesia mafiosa – leader mondiale nel traffico della droga, dei rifiuti tossici e delle armi; come sia stata corrotta e manipolata la classe bracciantile e dei piccoli contadini attraverso le false pensioni di invalidità, le false iscrizioni alle 51 giornate per godere dell’assegno di disoccupazione per i braccianti, le fatture false e certificazioni inventate che i contadini dovevano produrre per prendersi il contributo della Ue all’agricoltura (ulivi e arance).

Ed ancora: Rosarno è stato un paese di braccianti e poveri contadini che votavano in massa il Pci, in massa erano iscritti alla Cgil, che ha avuto un sindaco comunista come Giuseppe Lavorato che ha realizzato cose importanti nel campo della edilizia popolare, servizi sociali, cultura, recupero delle aree più degradate, il primo Comune italiano a costituirsi parte civile in un processo antimafia, ed uno dei primi ad utilizzare per la collettività i beni confiscati alla ‘ndrangheta.

Oggi c’è la Rosarno che abbiamo visto in Tv, quella delle marce contro gli immigrati nordafricani, degli omicidi mafiosi, la Rosarno che vota per le forze politiche del centrodestra. Il libro/testimonianza di Giuseppe Lavorato aiuta a capire il traumatico passaggio storico che abbiamo vissuto e ancora stiamo attraversando.

«, Fuori dal tunnel. doppiozero online, 26 dicembre 2016 (c.m.c.)

Ormai fanno parte del paesaggio. Che si imbocchi la SS 24 sul lato settentrionale della valle o che si percorra la SS 25 lungo i pendii a sud della Dora Riparia, le bandiere, le scritte, i cartelli con sopra il logo no-tav sono onnipresenti in val di Susa. Li vedi appesi ai balconi delle case, sventolare nei giardini, penzolare dai tralicci a volte grigi di smog e lacerati dal tempo. I muri della valle sono pieni di slogan e persino sull’erba del versante sud del Musiné spiccano due grandi scritte bianche, visibili anche dal fondovalle. Sono i segni e i simboli della ormai ultra ventennale lotta contro il treno ad alta velocità.

Fino ad alcuni anni fa parlare di val di Susa significava evocare montagne ricche di storia, celebri monasteri come l’abbazia di Novalesa o la Sacra di San Michele, rifugi molto frequentati cari agli escursionisti come il Val Gravio, il Mariannina-Levi, il Cà d’Asti e ascensioni alpine come quelle al Rocciamelone, al Niblé, al Sommeiller. E sport invernali: con il suo grande comprensorio della Via Lattea e le note stazioni invernali di Sauze d’Oulx, Cesana, Clavière, Bardonecchia, Sestrière la val di Susa è stata uno dei primi templi dello sci alpino italiano.

Da una ventina di anni a questa parte, invece, “val di Susa” è diventata sinonimo di una lotta, intrapresa dagli abitanti della valle, in particolare della bassa valle, che ha acquisito una risonanza non solo nazionale, ma che ha travalicato i confini del Paese.

Qualche tempo fa, viaggiando su un treno verso Parma, mi è capitato di ascoltare una divertente conversazione tra due signore dall’inconfondibile accento emiliano, che sedevano nei sedili accanto al mio. Una diceva: «Se prendi il no-tav da Milano a Bologna ci metti un’ora e mezza» e l’altra rispondeva, «Lo so che con il no-tav si fa in fretta, però costa caro» e via così.

Da un lato mi veniva da sorridere per la confusione tra la sigla che indica il treno ad alta velocità e quella del movimento della popolazione della valle di Susa che al passaggio di quel treno nella valle si oppone; dall’altro, invece, mi colpiva come l’espressione “no-tav” fosse così penetrata nell’immaginario non solo locale, ma anche nazionale, tanto da entrare a far parte del linguaggio comune, anche se, talvolta, usato a sproposito.

Neppure un mese dopo un mio studente discuteva una tesi di laurea, basata su numerose interviste, sul neo-ruralismo nell’Imperiese in cui emergeva una nuova visione dell’economia, dell’ambiente e delle relazioni sociali da parte di questi giovani ritornati alla terra. Dal tono della discussione e della tesi traspariva in modo evidente il coinvolgimento personale del candidato, che in quei valori credeva assolutamente. Al termine della discussione la commissione ha espresso pareri favorevolissimi e il giovane si è laureato con il massimo dei voti. Appena uscito, un collega mi si avvicina e mi dice sorridendo, con tono compiaciuto: «Sembra proprio un tipico valsusino!».

Fino a una ventina di anni fa essere valsusini significava essere montanari come tanti altri o forse non significava nulla di particolare, se non il fatto di abitare in quella valle che da Torino corre a ovest dritta dritta verso la Francia; oggi questo aggettivo ha assunto significati più ampi, che vanno al di là dei confini territoriali, rinchiusi tra le montagne che si affacciano sulla Dora Riparia: valsusino oggi significa no-tav e no-tav significa resistenza, come illustrano le parole di un intervistato: «Quando vai in giro e qualcuno ti chiede da dove vieni? Se dici “vicino a Torino” tutto ok, la conversazione sta sul vago, ma se dici valle di Susa, scatta l’identificazione: è un marchio e “devi” parlare! È impossibile che non ti venga chiesto un parere sul tav ».

Diventata un vero e proprio logo, la sigla no-tav, con quel treno cancellato da una croce rossa, peraltro non risponde nemmeno al vero obiettivo della lotta. Il movimento, infatti, non si oppone al treno ad alta velocità tout court, ma alla realizzazione del tunnel, voluto dalle istituzioni nazionali e respinto dagli abitanti del luogo, che chiedono di vedere tutelato il loro territorio alla luce di dati che dimostrano la presenza di amianto e uranio nelle aree di scavo. L’immagine sensazionalistica e talvolta strumentale fornita dai media, che spesso hanno indugiato sugli scontri tralasciando la parte relativa ai contenuti della resistenza, ha distorto la percezione, che generalmente si viene ad avere dal di fuori, di ciò che accade nella valle.

In realtà la parte “violenta” del movimento è quanto mai minoritaria e spesso esterna alla popolazione della valle, dove invece si seguono altri percorsi, improntati a uno spirito assolutamente pacifista, anche se alquanto combattivo. È vero però che a volte è proprio la sordità o peggio la malafede dei media, che raramente parlano delle manifestazioni e delle iniziative pacifiche, ma calcano la mano solo sui gesti violenti, a innescare un circolo vizioso che spinge talvolta i manifestanti a usare forme di violenza per ottenere visibilità.

Secondo la logica che fa più rumore un albero che cade, di una foresta che cresce, ciò che è venuto a mancare, sul piano dell’informazione è una più corretta analisi dei profondi cambiamenti che stanno avvenendo in val di Susa, o almeno nella bassa valle, quella più coinvolta nella lotta contro il tav. Cambiamenti che, se osservati attentamente, sposterebbero l’immagine del movimento no-tav da un piano puramente antagonista (quando non addirittura terrorista) a quello di un laboratorio, dove si stanno sperimentando nuove forme di democrazia e di presa in carico di responsabilità, da parte dei cittadini, della cosa pubblica.

Voci e suoni

Il pomeriggio del 12 dicembre del 1992, nel cinema di Condove di fronte a un’assiepata assemblea di cittadini, grazie a una elaborazione effettuata al Politecnico di Torino, viene fatto ascoltare il rumore di un Tgv che passa in una valle alpina a 300 chilometri all’ora. Uno choc per i presenti: sentire un urlo che rimbomba, amplificato dai pendii montani che racchiudono la valle. Questo è uno dei tanti momenti, che hanno innescato il processo di riflessione, di presa di coscienza da parte di moltissimi abitanti della valle, che si è tradotto in un movimento, protagonista di una battaglia di opposizione contro la realizzazione della linea ad alta velocità (poi diventata ad alta capacità). A quell’urlo lanciato da un treno che corre follemente in una valle, si sono opposte da allora tante voci, sempre di più, voci diverse.

Nel corso della mia ricerca sul terreno, per indagare le trasformazioni indotte nella valle in seguito al movimento no-tav, ho raccolto molte di queste voci, ognuna delle quali raccontava una storia, che andava ben al di là della questione del treno, così come ogni storia era la storia di una vita e di memorie vissute prima del tav e che forse sopravvivranno al tav. Potrà forse colpire il numero di racconti riportati, a volta anche discordanti tra di loro, ma è stato necessario proprio per restituire l’idea del pluralismo che caratterizza il movimento no-tav, una delle sue caratteristiche principali e forse una delle chiavi principali della sua durata.

In compenso nel libro non si troveranno molti dati tecnici. Non era, infatti, mia intenzione discutere la questione del tunnel per l’alta velocità dal punto di vista tecnico – il problema è già stato ampiamente affrontato da persone competenti – ho voluto invece indagare sulle ricadute socio-culturali che oltre vent’anni di lotta hanno provocato in valle di Susa. Per esempio, il formarsi in bassa valle di una comunità di intenti e di saperi, che prima non esisteva o almeno non era animata da legami e relazioni forti né da una conoscenza condivisa come ora.

La minaccia del tunnel ha spinto la gente a unirsi in una lotta comune, ma ciò che forse rende diverso il no-tav da altri movimenti analoghi è la progressiva costruzione di un sapere condiviso, che poco a poco si è esteso a temi e ad argomenti che non riguardano solo il treno e le questioni a esso inerenti. Tale sapere ha portato la comunità o almeno molti dei suoi membri, ad avviare una profonda riflessione su temi ampi e attuali come il modello di sviluppo, le forme di rappresentanza democratica e i beni comuni. Nonostante il movimento no-tav non abbia perso la sua spinta né la sua vocazione antagonistica, è diventato anche e soprattutto un movimento “per” e non solo un movimento “contro”.

Non è semplice fare ricerca in un contesto conflittuale come quello della val di Susa, senza simpatizzare per una delle parti in causa. Questo potrebbe compromettere una certa oggettività, virtù peraltro messa in discussione dagli antropologi post-moderni. Ogni resoconto etnografico in fondo è più simile a una narrazione che a un trattato scientifico, come ebbe già a dire Edmund Leach e ogni narrazione presuppone un narratore identificabile, che porta con sé il suo bagaglio di esperienze e di convinzioni. A una visione presuntamente oggettiva ho cercato perciò di contrapporre una lettura “emica” degli eventi e delle reazioni a essi collegati.

Di fare emergere il più possibile le storie dei protagonisti del movimento. La mia idea iniziale di scrivere un saggio nel senso classico del termine, si è subito scontrata con la necessità di preservare e di restituire quelle voci, con tutta l’umanità che si portano dentro e che esprimono. Una scrittura troppo “tecnica”, una struttura troppo enunciativa avrebbero penalizzato la narrazione dell’esperienza di ricerca e la profondità dell’incontro.

Racchiudere quel flusso incessante di racconti, aneddoti, emozioni in categorie e in una forma di narrazione troppo schematiche sarebbe risultato penalizzante. Ogni forma di scrittura è una traduzione e ogni traduzione comporta un piccolo, necessario tradimento. Non solo perché il passaggio dalla narrazione, dall’immagine, dall’episodio vissuto alla parola scritta comporta un cambiamento di linguaggio, ma anche e soprattutto perché di mezzo c’è l’inevitabile opera di interpretazione che l’autore compie rispetto ai fatti. Fatti che in taluni casi sono già stati interpretati da chi all’autore li ha raccontati. Dopo che Clifford Geertz ci ha dimostrato come la personalità dell’autore emerga dal testo, indipendentemente dalla sua volontà, tanto vale evitare di nascondere la propria soggettività ed esplicitarla chiaramente.

Essere comprensibili è un dovere irrinunciabile e un linguaggio narrativo facilita l’operazione, in quanto sistema primario. Infatti noi impariamo a gestire un sistema narrativo prima ancora di imparare a parlare. Un tono eccessivamente tecnico e una scansione dei temi trattati troppo rigida contribuiscono a rendere elitario, per non dire settario il sapere antropologico (che troppo spesso appare come l’espressione di una comunità che dialoga solo con se stessa, al proprio interno, con i propri membri), ma soprattutto disumanizza al massimo l’esperienza sul campo che viene condivisa invece con gente normale che poco o nulla sa dell’accademia e dell’antropologia.

Il genere letterario-etnografico si adatta alla rappresentazione della vicenda antropologica, grazie alla sua capacità di connettere eventi, tempi e spazi diversi attraverso una trama costante e continua. La narrazione, quasi paradossalmente, diventa così meno metaforica e più realistica. L’assenza, o almeno l’ampiezza, di confini della narrativa permettono quindi di mostrare una realtà nelle sue molteplici sfaccettature, inclusa quella di chi scrive.

«La narrativa personale» come scrive Marie Louise Pratt, «media la contraddizione tra l’impegno richiesto dal lavoro sul campo e l’autoannullamento richiesto da una descrizione etnografica informale o almeno attenua alcune di queste angosce inserendo nel testo etnografico l’autorialità dell’esperienza personale».

Forse nessuna forma di scrittura riuscirà mai a restituire interamente il vissuto dei racconti, ma forse almeno un po’ dell’anima delle persone che ho incontrato, spero sia rimasta impigliata tra le righe.

«Il multiculturalismo e i suoi critici, ». il manifesto, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)

Ne Il multiculturalismo e i suoi critici (Nessun Dogma, pp. 94 p., 8,50 euro) lo scrittore e conduttore radiofonico britannico di origini indiane Kenan Malik affronta a viso aperto probabilmente «il tema» della sociologia contemporanea: come far fronte alle sfide di una società multietnica e multiculturale che, tra reflussi identitari neonazisti e criticità estremiste, si sta facendo largo nello spazio pubblico del Vecchio continente.

La buona notizia è che il saggio di Malik non contiene la ricetta per la panacea dei mali della modernità, preferendo alla presunzione dell’«ora ve lo spiego io» l’umiltà della messa in discussione di ogni preconcetto sul tema, anche quelli apparentemente insospettabili.

L’oggetto dell'analisi è il concetto stesso di multiculturalismo, affrontato nei primi capitoli col rigore millimetrico dell’accademico che, in un preambolo fondamentale per seguire il resto del saggio, cerca di fissare un significato neutrale e condiviso del termine stesso rifacendosi alle tenzoni filosofiche degli ultimi tre secoli. Lo fa spaziando dall’illuminismo ateo fino al romanticismo più «orientalista», facendo emergere le incrinature del pensiero che hanno dato vita alle due correnti antitetiche dei giorni nostri: quelli dello «scontro di civiltà» e quelli dell’«accoglienza e difesa delle peculiarità culturali».

La critica dei primi, che in Italia trovarono nell’ultima Oriana Fallaci il proprio portavoce più scellerato, si aggiunge agli sforzi di tutti quegli intellettuali progressisti contemporanei impegnati nel contrastare il ripiegamento identitario di una società stretta tra la «paura dell’altro» e una crisi socioeconomica dalla quale si fatica a intravedere una via d’uscita. Nulla di rivoluzionario, ma apprezzato promemoria.

Ma è la critica dei secondi che fa di questo saggio una lettura imprescindibile per chi ha a cuore il futuro dell’Europa, spingendosi in un’analisi impietosa di tutti gli errori madornali commessi in un passato recentissimo da chi, in ottima fede, ha provato a tutelare e difendere chi ha deciso di migrare in Europa. Un eccesso di zelo mal calibrato che, rileva Malik, ha dato vita a delle difese d’ufficio francamente imbarazzanti, come nel caso delle vignette blasfeme in Danimarca qualche anno fa.

Malik, dopo aver ripercorso la cronologia degli eventi ed evidenziato come «il caso» sia stato fatto esplodere dai media e non, come vorrebbe la vulgata comune, da folle di musulmani indignati, racconta: «il parlamentare danese Naser Khader, che è musulmano sebbene non osservante, racconta di una conversazione avuta con Toger Seidenfaden, direttore di Politiken, un giornale di sinistra molto critico verso le vignette. “Mi disse che le vignette offendevano tutti i musulmani”, ricorda Khader, “gli dissi che non ero offeso. Lui rispose: ‘Ma lei non è un vero musulmano’”. Agli occhi dei progressisti, in altre parole, essere un vero musulmano significa trovare le vignette offensive».

Gli incasellamenti automatici di comunità eterogenee secondo convenzioni unilaterali – pakistani=musulmani osservanti, ad esempio – hanno contribuito a fare il gioco delle destre, combattendo su un terreno scivoloso come quello della «civiltà» tra chi vuole difendere la propria e chi vuole tutelare quella altrui. Senza notare che «civiltà» e «cultura» sono concetti liquidi, che si modellano in base alle esperienze di vita vissuta, e che variano di generazione in generazione. Nei casi di Regno Unito e in Germania, infatti, «negli anni Sessanta e Settanta gli immigrati musulmani non smaniavano per manifestare le loro differenze ma, piuttosto, esigevano di non essere trattati in maniera differente.

Solo successivamente i musulmani, a partire da una generazione che ironicamente era molto più integrata di quella dei genitori, hanno iniziato ad affermare la propria peculiarità culturale. Questo è il paradosso dell’immigrazione e dell’integrazione con cui pochi intellettuali o politici sono disposti a confrontarsi o anche solo ad ammettere».

Un paradosso figlio, anche, di politiche per l’integrazione raffazzonate, stilate su preconcetti culturali in cui le comunità in arrivo vengono appiattite su caratteristiche fenotipiche appiccicate in fretta e furia dai legislatori su gruppi di persone che, spesso, hanno in comune solo la nazionalità sul passaporto. Al posto di una strategia per l’integrazione omnicomprensiva, i legislatori hanno preferito muoversi su linee di demarcazione etniche, creando di conseguenza conflitti tra le diverse comunità per le risorse da allocare, poiché «le persone si mobilitano in base a come gli sembra di poter ottenere risorse per affrontare questioni che ritengono importanti».

Secondo Malik, quindi, la sfida del multiculturalismo può essere vinta solo respingendo la paura in entrambe le sue manifestazioni uguali e contrarie: quella dell’«altro» e quella che impone di «monitorare la diversità per minimizzare gli scontri, i conflitti e le frizioni che porta subito dopo, che tutto debba essere graziosamente incasellato in nicchie di culture, etnie e fedi, che il disordine sia ripulito e ordinato».

Considerando il disordine come «materia prima dell’attivismo» e «base concreta per il rinnovamento sociale», Malik ci esorta a spogliarci dei preconcetti multiculturalistici all’apparenza più virtuosi e ad affrontare i cambiamenti inevitabili in corso nella nostra società – nostra di «tutti» – mettendo in discussione in primis la nostra presunzione, mal riposta, di essere dalla parte giusta della barricata.

«La crisi del capitalismo nel saggio di Sergio Cesaratto "Sei lezioni di economia" per Imprimatur editore. Dopo anni di egemonia del neoliberismo, sono molti gli economisti che chiedono un’inversione di rotta. Sfuggire alla nostalgia e alla demonizzazione. Il primo degli appuntamenti sul

’17 è a Roma». il manifesto, 22 dicembre 2016 (c.m.c.)

Le vie nazionali di rottura con il liberismo sono l’unica via credibile per mettere in discussione il sistema di disoccupazione di massa e ingiustizia sociale affermatosi con la globalizzazione finanziaria. E questo vale soprattutto in Europa, dove la costruzione reale della Unione ha fatto delle politiche di austerità un fondamento costituente della unione stessa.

Questa è la tesi di uno splendido piccolo manuale di economia e storia del pensiero economico che Sergio Cesaratto ha voluto condensare nelle sue (Imprimatur editore, euro 17). Un saggio che affronta le principali teorie sul capitalismo, partendo da Ricardo e Marx per giungere a Keynes a Sraffa e alla teoria oggi dominante, il marginalismo neoclassico. Un libro che in questo percorso ci fa incontrare tutti i temi e le politiche economiche che caratterizzano la crisi attuale.

Sergio Cesaratto, con Alberto Bagnai e pochi altri, fa parte di quella pattuglia di economisti eterodossi che da tempo mettono in discussione alla loro radice le politiche di austerità. E che per questo giungono a ritenere necessaria la messa in discussione dell’euro e al limite della stessa Unione Europea.

Economisti eterodossi, come lo stesso Cesaratto si autodefinisce, il che non vuol dire economisti della sinistra. Essendo molti di questi oramai parte, come le forze di centrosinistra a cui fanno riferimento, dello schieramento liberista. Economisti eterodossi sono tutti coloro che non accettano il dominio del pensiero degli economisti neoclassici e quello della politica liberista che ne è derivata. Senza dimenticare mai che il dominio di questa scuola, nata nella seconda metà dell’Ottocento per ripudiare Ricardo e tutti quegli economisti che davano troppe armi a Marx, non nasce dalla superiorità teorica, ma dalla forza del potere capitalistico che l’ha fatta propria.

Cesaratto mette in giusto ridicolo le teorie dell’equilibrio e del profitto e salario «naturali», cui tenderebbe ogni economia se non ci fossero interferenze dello stato nel libero mercato. Il mondo attuale, governato dai principi della economia ortodossa neoclassica, ne rappresenta la totale falsificazione. La realtà non è così, non è vero che tagliando lo stato sociale e i salari alla fine si raggiunga l’equilibrio, facendo ripartire produzione ed occupazione. E tuttavia le politiche liberiste, nonostante falliscano i loro stessi obiettivi, vengono continuamente riproposte, grazie anche ad un sistema di potere culturale e mediatico in cui dilaga la memoria del pesce rosso. Che si sa dura un minuto e quindi permette di ripetere come nuovo e all’infinito sempre lo stesso atto.

Ma la società dei pesci rossi non si è formata in un minuto. Il primo esperimento mondiale di politiche liberiste nel dopoguerra si è avuto nel Cile di Pinochet. In quel paese, dopo il golpe del 1973 che assassinò Allende e decine di migliaia di militanti della sinistra, si precipitarono i Chicago boys di Milton Friedman; con i loro esperimenti alla dottor Mengele, per usare le parole di Cesaratto su ciò che può accadere in alcuni paesi d’Europa. Il Cile allora come la Grecia oggi sono state le cavie di terribili esperimenti sociali.

La sperimentazione del massacro sociale in paesi cavia chiarisce che il liberismo attuale è prima di tutto ordoliberismo. Cioé è il frutto dell’incontro tra il potere economico e il potere politico, che diventa anch’esso fattore ed agente del mercato. Tutta la globalizzazione attuale non esisterebbe senza accordi, leggi, trattati, tra gli stati e negli stati. È un liberismo costituente quello che abbiamo di fronte È il potere conservatore ed elitario di Von Hayek quello che emana le leggi che distruggono le conquiste sociali e di democrazia dei popoli, quelli europei in particolare. E lo stato del capitalismo liberista è proprio l’Unione Europea.

Per Cesaratto, l’«unione politico-monetaria svuota del tutto lo Stato nazionale dei poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici del loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale. La democrazia si riduce così alle lotte per le libertà civili, coerentemente ritenute centrali dai radicali (il resto la fa il mercato). L’incompatibilità fra euro ed Europa sovranazionale da un lato, e democrazia dall’altro, è totale».

Euro e Unione Europea non sono dunque terreni neutri, bensì sono lo strumento individuato dalle classi dominanti europee per imporre un roll back continentale a tutto il mondo del lavoro. Sconfitto e crollato il socialismo reale, la socialdemocrazia europea è stata assorbita nella ideologia e nel potere liberista, mentre le sinistre radicali non sono state in grado di produrre altro che buoni sentimenti.

Profetiche appaiono le parole di decenni fa di Bob Rowthorn, economista eterodosso e comunista britannico, riprese da Cesaratto : «La crisi che colpisce milioni di cittadini britannici è ora su di noi. Se la sinistra intende sfruttare questa situazione, essa deve adottare un programma che offra alla gente qualche speranza, e deve dunque ragionare in termini di qualcosa di più pratico della rivoluzione europea o mondiale. Coloro che attaccano una strategia nazionale per il socialismo in Gran Bretagna come destinata al fallimento e si appellano a una rivoluzione europea o mondiale possono sembrare molto rivoluzionari. Ma nei fatti la loro è la dottrina della disperazione, e per quanto molte delle loro opinioni possano ispirare una piccola avanguardia di simpatizzanti, essi non possono che ispirare demoralizzazione fra le masse di lavoratori a cui non offrono niente».

Dopo la crisi di tutte le sinistre radicali europee, vecchie e nuove, la irriformabilità e l’alterità dell’euro e della Unione Europea dovrebbero essere il punto di partenza di ogni progetto e schieramento democratico anti austerità. Euro ed Unione Europea sono oggi lo strumento della regressione sociale e democratica in Europa, sono la Santa Alleanza del ventunesimo secolo.

Si possono solo combattere e rompere, non riformare. Il libro di Sergio Cesaratto ci aiuta meticolosamente a capirlo e ci impone una risposta concreta, non di galateo, alla sua conclusione politica: «senza utopismi, dobbiamo declinare il tema dell’autonomia nazionale in senso solidaristico verso gli altri popoli, per un nuovo ordine economico e politico internazionale; dobbiamo, soprattutto, porre i temi della piena occupazione e della giustizia sociale come la ragion d’essere della sinistra, dimostrando che sono obiettivi possibili».

«Grateful dead economy». il manifesto, 21 dicembre 2016 (c.m.c.)

Dal titolo e dall’accattivante copertina potrebbe sembrare un libro eccentrico, una trovata di subvertising, invece Grateful dead economy. La psichedelia finanziaria di Andrea Fumagalli (AgenziaX; pp. 190, euro 15) analizza in maniera innovativa, critica e creativa tre concetti-chiave al centro del dibattito politico contemporaneo: comune, open source e monete alternative.

Andrea Fumagalli è docente di Economia Politica all’Università di Pavia. Le sue ricerche vertono sulla precarietà del lavoro, il reddito di base, le trasformazioni del capitalismo contemporaneo. Una attività di ricerca inscindibile dall’impegno nei movimenti sociali. Oltre a , tra i suoi libri vanno ricordati: L’Antieuropa delle monete, con Lapo Berti (manifestolibri); La moneta nell’impero, con Christian Marazzi e Adelino Zanini (ombre corte); Lavoro male comune (Bruno Mondadori); inoltre ha curato Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, con Sergio Bologna (Feltrinelli); La moneta del comune, con Emanuele Braga (DeriveApprodi).

Fumagalli sostiene che un tempo la psichedelia era sinonimo di creatività e sovversione, ma ora regnano l’impotenza e la depressione sociale. Forse è perché la finanza e la mercificazione economica si sono appropriate non solo del corpo ma anche dei cervelli, dei sensi e dell’eros, costringendoli a vivere una vita di elemosina e precarietà? Lo abbiamo chiesto all’autore.

Cos’è la psichedelia finanziaria e qual è la relazione tra i Grateful Dead e la proposta della moneta alternativa «commoncoin»?

I Grateful Dead sono stati non solo uno dei gruppi musicali che più hanno inciso sulla controcultura, ma anche un tentativo di cooperazione sociale. Oggi, l’esperienza della costruzione di un esodo costituente fa tesoro dello spirito innovativo della controcultura.

Il progetto della «commoncoin» è la continuazione dell’esodo della nave spaziale di «Blows against the Empire», celebre disco dei Jefferson Staship con Jerry Garcia tra gli ospiti, o della riflessione di Marx sull’importanza delle comuni agrarie della Russia pre-sovietica?

Recupero la riflessione di Marx sulla Comune e sull’accumulazione originaria. Ma faccio riferimento anche al fatto che negli Usa le forme di conflitto nel mondo del lavoro assumono una forma diversa di quelle in Europa. Là c’è sempre stata la possibilità della via di fuga rappresentata dalla frontiera e dal suo mito, una forma di esodo che trova continuazione nelle comuni degli anni Sessanta e nel cyberspazio delle controculture di fine Novecento. Queste esperienze dimostrano però che le forme di alternatività al capitalismo sono destinate a diventare canali di innovazione del capitale se non si dotano di un’autonomia economica.

Nel tuo libro manca l’ipotesi di un pensiero sulla strategia rivoluzionaria. Un concetto chiave nel pensiero di Marx…

Nella cultura marxista, la rivoluzione è realizzabile solo se viene individuato un soggetto di riferimento. Senza soggetto rivoluzionario non c’è possibilità di rivoluzione. Questo tema rimanda alla definizione di classe. Al momento non si può più parlare di classe sociale ma di condizione sociale. Infatti non uso la definizione «classe precaria» ma scrivo di condizione precaria. Le condizioni sociali, di lavoro e di vita si sovrappongono: questo rende più complesso il processo di omogeneizzazione. La presa di coscienza diventa processo di soggettivazione.

Nel recente passato parlavamo di operaio-massa, che esiste ancora ma non è più il centro unico della valorizzazione che oggi deriva dallo sfruttamento delle economie di rete, delle economie di apprendimento e dalla riproduzione sociale. I lavoratori di questi segmenti non sono in grado di definire un soggetto rivoluzionario se non si completa il processo di soggettivazione.

E tale processo è oggi tanto più difficile quanto questi segmenti sono facile preda dell’immaginario capitalista. Forse è possibile procedere attraverso forme di esodo in grado di assediare il capitale, che è cosa diversa da trasformarlo dall’interno, strategia forse oggi più improponibile che la rivoluzione stessa. È necessario acquisire competenze migliori per affrontare la frontiera tecnologica. Bisogna saper creare algoritmi altrettanto potenti di quelli utilizzati dal capitale.

In questo mesi sto seguendo, da osservatore, le lotte dei riders di Foodora: nel loro caso le comunicazioni digitali tramite algoritmi diventano le forme che definiscono anche giuridicamente le forme di comunicazione dei rapporti di lavoro. È possibile sviluppare un contro-algoritmo che decida la distribuzione delle commesse in maniera più consona alle esigenze dei riders? O è meglio creare un algoritmo che fa opera di sabotaggio? Le competenze tecnologiche forse è meglio utilizzarle per creare alternatività qui e ora, anche se non è da escludere l’intervento sui rapporti di forza.

Come si combinano elementi di teoria marxista e sapere hacker? Come si costruisce un circuito finanziario alternativo?

I movimenti controculturali e quelli cyber hanno cercato di creare le premesse per un mondo liberato. Ma non hanno definito una cassetta degli attrezzi in grado di garantire questa autonomia, che sviluppi una consapevole autodeterminazione culturale e politica del singolo e la possibilità di dotarsi di sostenibilità economica e finanziaria, condizione necessaria, anche se non sufficiente, affinché le iniziative alternative siano in grado di autosostenersi senza correre il rischio di essere riassorbite.

I primi elementi di questa cassetta degli attrezzi sono costituiti dallo sviluppo di una moneta alternativa in grado di definire un circuito monetario e finanziario alternativo, non assimilabile a quello capitalistico, non condizionato dalle oligarchie finanziarie, ma capace di creare le basi per una psichedelia finanziaria dal basso; e dall’introduzione di un reddito di base incondizionato, inteso come remunerazione della vita messa a valore, finanziato dalla stessa moneta alternativa. Una sperimentazione che val la pena di tentare.

«Le mobilitazioni dal basso possono trasformare le campagne per i referendum e i loro esiti. Un’analisi tratta dall’introduzione al libro di Donatella della Porta, Francis O’Connor, Martin Portos, Anna Subirats “Referendums from Below” di prossima uscita».

Sbilanciamoci.info, 13 dicembre 2016 (c.m.c.)

I risultati del referendum costituzionale italiano del 4 dicembre 2016 confermano la capacità della società civile e dei movimenti di appropriarsi degli istituti di democrazia diretta per portare avanti obiettivi di progresso. La straordinaria vittoria del ‘no’ (quasi 20 punti percentuali di vantaggio rispetto al ‘sì’), e l’inattesa elevata partecipazione al voto non sarebbero state possibili senza la mobilitazione dal basso di migliaia di persone e di organizzazioni sociali. Questo è solo un esempio delle opportunità aperte dai referendum visti come strumento di una ‘politica dal basso’ che si sono tenuti durante questi anni di crisi.

La grande recessione che ha colpito l’Europa nel 2008 può essere vista come un punto di svolta, che ha innescato non solo trasformazioni socio-economiche, ma anche cambiamenti politici. Nei paesi più colpiti dalla crisi finanziaria, in particolare la ‘periferia’ dell’Europa, ondate di proteste hanno messo in discussione le politiche di austerità adottate dai governi nazionali sotto la pressione delle istituzioni europee e della finanza – l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo monetario internazionale in particolare.

Queste ondate di protesta – spesso definite come il movimento ‘Occupy’ o degli ‘indignados’ – hanno reso visibile la crisi di legittimità provocata dalla palese mancanza di responsabilità da parte delle istituzioni politiche verso le sofferenze dei cittadini. Le proteste hanno preso forme diverse nei diversi paesi, influenzate dagli sviluppi specifici e dalle caratteristiche della crisi finanziaria, oltre che dalle opportunità politiche nazionali e dalle sfide concrete per i movimenti sociali.

Queste proteste hanno avuto effetti immediati e a volte molto profondi sul sistema dei partiti, portando non solo al crollo di alcuni partiti tradizionalmente dominanti, ma anche al rapido (e inaspettato) sviluppo di ‘partiti di movimento’. Questo sconvolgimento politico ha influenzato non solo le elezioni locali, ma anche quelle nazionali ed europee. I movimenti sociali hanno approfittato delle opportunità offerte dagli istituti di democrazia diretta, in particolare attraverso i referendum che sono stati caratterizzati da iniziative politiche ‘dal basso’.

Molti di questi ‘referendum dal basso’ ha avuto luogo in Europa durante la Grande Recessione. Il nazionalismo è diventato un focus particolare di dibattito, con i referendum sull’indipendenza scozzese e con lo pseudo-referendum per l’indipendenza della Catalogna. Nonostante i diversi assetti istituzionali, questi processi hanno avuto diverse caratteristiche in comune.

Entrambi i casi hanno mostrato che il tardo-neoliberismo ha fatto saltare la fedeltà dei cittadini alle istituzioni rappresentative a livello statale, ma anche che l’insoddisfazione ha portato all’attivismo politico piuttosto che all’apatia. In particolare, in entrambi i casi, si osserva un’interazione specifica tra le élite politiche e i movimenti sociali che hanno cercato di sfruttare le campagne referendarie per far avanzare le loro aspirazioni.

L’élite politica scozzese ha convocato il referendum e i movimenti si sono appropriati alla campagna, promuovendo la loro visione di una società più giusta e democratica. In Catalogna, i movimenti sociali hanno lanciato una campagna per l’autodeterminazione e l’indipendenza che ha coinvolto attori istituzionali e élite politiche. La partecipazione dei movimenti nelle campagne referendarie ha ampliato i repertori di azione politica e ha introdotto nuove forme di organizzazione.

Negli stessi anni in Europa altri referendum sono stati lanciati da movimenti sociali che si erano mobilitati contro l’austerità o sono stati caratterizzati da una forte mobilitazione dal basso con l’obiettivo di contrastare le politiche neoliberiste, nel caso dei salvataggi bancari (in Islanda), dei trattati internazionali che imponevano l’austerità (come in Grecia ), o della privatizzazione della fornitura di acqua (in Italia). In questi casi le campagne referendarie hanno assunto particolari dinamiche, con una forte partecipazione ‘dal basso’, con un importante protagonismo dei movimenti sociali e della società civile.

Alla luce delle conseguenze politiche e sociali della Grande recessione in Europa, i ‘referendum dal basso’ assumono un interesse particolare in quanto iniziative politiche che sono promosse o che comunque vedono una grande mobilitazione da parte di attori della società civile, soggetti diversi dalle tradizionali istituzioni intermedie di rappresentanza (ad esempio i sindacati, i partiti, la chiesa e così via) o dai governi. Su questo terreno è importante riflettere sulle connessioni tra le dinamiche dei movimenti sociali e le pratiche di democrazia diretta, due questioni che sono spesso state considerate separatamente anche all’interno delle analisi sulla conflittualità politica.

I referendum abrogativi e le iniziative referendarie dal basso sono le forme più comuni di ‘referendum dal basso’, ma la nostra definizione si estende anche alle campagne referendarie iniziate da soggetti istituzionali che sono state poi caratterizzate da una forte mobilitazione dei movimenti, con un forte impegno per l’inclusione dei cittadini, per processi di deliberazione e per una partecipazione di massa.

Gli studi sui referendum sopra citati indicano che all’interno della campagna referendaria e della mobilitazione sociale c’è un evidente uso strategico dei ‘quadri di riferimento’ concettuali che definiscono lo scontro politico, in modo da aumentare il sostegno per i movimenti. Data la frequente presenza di coalizioni di attori con diverse ideologie e diverse priorità, una scelta adeguata dei ‘quadri di riferimento’ è molto importante per consentire ai diversi soggetti di lavorare insieme. Tre questioni principali emergono dal punto di vista teorico. In primo luogo, le teorie normative della democrazia hanno sottolineato il principio di uguaglianza nella capacità di influenzare i decisori, e l’autonomia nella capacità di formazione delle opinioni tra i cittadini.

Come strumenti di partecipazione e, potenzialmente, di deliberazione, i referendum possono essere considerati coerenti con le concezioni e le pratiche dei movimenti sociali progressisti. I movimenti sociali devono sfidare le istituzioni esistenti, producendo crepe (o per lo meno punti di svolta) nel sistema. Gli studi su una serie di referendum hanno mostrato che il loro esito tende ad essere, in realtà, più aperto rispetto alle elezioni normali, e quindi più influenzato dagli sviluppi nelle campagne referendarie. Tuttavia, le loro qualità partecipativa e deliberativa, così come la loro capacità di aprire nuove opportunità politiche, dipendono da fattori istituzionali e da processi politici specifici, come quelli promossi dai movimenti sociali.

Le opportunità politiche formali e informali influenzano la qualità democratica dei referendum e le possibilità che essi siano caratterizzati da iniziative ‘dal basso’, come arene di politica conflittuale. L’assetto istituzionale formale del referendum influenza le possibilità di usarlo per sfidare il governo e le élite, ma ogni referendum presenta specifiche opportunità politiche e vincoli per gli attori ‘dal basso’. La percezione delle opportunità politiche esistenti ha anche un impatto sulle strategie dei movimenti e sull’impegno che sviluppano per allargare la partecipazione e il pluralismo.

In secondo luogo, la ricerca sui referendum ha sottolineato che i modi in cui l’argomento viene definito hanno un effetto importante nel determinare gli esiti del referendum. Anche se apparentemente fondati su una singola questione, i referendum spesso sollevano molteplici domande, e temi paralleli possono essere decisivi per determinarne i risultati.

Chi è che definisce le questioni da affrontare è una domanda che nelle campagne referendarie rimane più aperta che nelle elezioni normali. In particolare, la nostra ricerca dimostra l’importanza della capacità di collegare le questioni al centro dei referendum con gli argomenti più generali affrontati dai movimenti. Questi collegamenti avvengono sia sui contenuti sostanziali (come la dignità e l’uguaglianza), ma anche a livello procedurale (come la democrazia partecipativa e deliberativa). Inoltre, quando riguardano questioni tipiche dei movimenti sociali, i referendum possono avere l’effetto di rafforzare il quadro di riferimento delle mobilitazioni, identificando le norme in discussione e gli obiettivi non negoziabili dei movimenti.

In terzo luogo, le pratiche di democrazia diretta hanno mostrato che le campagne referendarie spesso non sono lineari, in quanto sono influenzate da eventi contingenti che possono avere un forte impatto sull’opinione pubblica. I movimenti sociali possono svolgere un ruolo rilevante nelle campagne referendarie in quanto possono introdurre punti di svolta verso una politica conflittuale all’interno della politica convenzionale. La nostra ricerca ha mostrato come l’utilizzo di repertori di azione dei movimenti influenza la dinamica delle campagne referendarie, introducendo, in particolare, una logica processuale che allarga le possibilità di partecipazione dei cittadini prima ancora di ottenere effetti legislativi concreti.

«Intervista con Marco Aime. L’antropologo, autore di

Fuori dal tunnel edito da Meltemi. "Il movimento No-Tav può essere letto sotto profili diversi. Io ho scelto di indagare in che modo la comunità valsusina si è trasformata in seguito alla lotta"». Ilmanifesto, 7 dicembre 2016 (c.m.c.)

«L’idea è maturata poco a poco, mentre seguivo le vicende e l’evolversi del movimento e della resistenza all’opera». Marco Aime descrive così il momento in cui ha deciso di dedicare un volume al No-Tav.

Si intitola Fuori dal tunnel (pp. 297, euro 22) ed è stato appena pubblicato per Meltemi (di cui il catalogo è stato recentemente acquisito da Mimesis). «Circa tre anni fa – prosegue l’antropologo – ho iniziato la vera e propria ricerca sul campo, recandomi frequentemente in valle, intervistando molte persone, partecipando alle riunioni e alle manifestazioni, per comprendere la natura del movimento».

Ospite oggi a Roma nell’ambito di «Più libri più liberi» lo abbiamo incontrato per alcune domande.

In che modo il No-Tav interroga un antropologo? Quanti livelli della questione ha potuto indagare e quale ha prediletto?
Personalmente ho seguito un filone che ha segnato il mio lavoro fin dall’inizio: quello dell’antropologia alpina, ma mentre prima mi ero prevalentemente occupato di tradizioni della montagna, questa volta ho voluto cimentarmi con la realtà attuale di una valle. Il movimento No-Tav può essere letto sotto profili diversi: politico, economico, ecologico, molti autori prima di me hanno affrontato la questione del tunnel e delle grandi opere in genere, in chiave economica, tecnologica, ambientale. Io ho scelto di indagare in che modo la comunità valsusina si è trasformata in seguito alla lotta e forse si può dire, che si è costruita proprio grazie alla minaccia esterna.

Lei parla di «laboratorio di democrazia» e di «un’alternativa necessaria per impedire l’assolutismo politico e culturale». In che senso?
La domanda di fondo che ci pone la valle di Susa è: una comunità ha o meno il diritto di decidere sulla propria salute e su quella delle generazioni future? Oppure deve soccombere al volere della cosiddetta maggioranza? «Cosiddetta» perché sappiamo benissimo che chi governa non ha sempre il maggior numero di voti, inoltre ci si deve chiedere se «democrazia» significhi dittatura della maggioranza o rispetto delle minoranze. Domanda ancora più urgente se posta alla luce di un’opera la cui validità è stata messa in dubbio da molti esperti non di parte. La riflessione in valle, a partire dalla questione Tav si è poi estesa ad altri temi come i beni comuni, l’acqua pubblica, una economia etica, che mettono in discussione il modello di sviluppo dominante.

Le interviste che ha condotto l’hanno spinta verso un lavoro cucito tra le narrazioni. Un libro plurale come lo è il movimento della Val di Susa?
Esatto. In primis ho cercato di restituire il più possibile le voci dei protagonisti. Da un lato perché quello era lo sfondo della mia ricerca, dall’altro perché il movimento No-Tav è spesso stato vittima di una stampa che se si eccettua il manifesto e il Fatto Quotidiano, si è sempre dimostrata ostile. Poi perché si tratta di un movimento anomalo rispetto a quelli tradizionali, quelli che ho vissuto nella mia gioventù negli anni Settanta.

Un movimento che ha saputo far convivere anime quanto mai lontane tra di loro dal punto di vista ideologico, politico e di storie personali, riuscendo a unirle in una lotta il cui scopo fondamentale è la difesa dell’ambiente, tema su cui si è trovato un accordo generale. Forse è proprio questa la specificità del movimento: il non essersi connotato su un piano ideologico, ma su un tema sostanziale e di aver saputo fare convivere forme ed espressioni di lotta quanto mai diverse tra di loro.

La «comunità» non è un concetto astratto bensì, soprattutto nella vicenda in divenire del No-Tav e come lei stesso scrive – un contrappeso al modello dominante…
Come ha scritto Victor Turner, le relazioni sociali umane sono caratterizzate da due modelli principali, che si affiancano e si alternano. Il primo è quello della società come sistema strutturato, differenziato e spesso gerarchico di posizioni politico-giuridico-economiche, per esempio lo Stato; il secondo è quello della comunità non strutturata di individui uguali, che agiscono da contraltare rispetto alle decisioni. In democrazia la Communitas come la chiama Turner, dovrebbe avere un peso maggiore, cosa che non sempre accade.

Achille Mbembe.

Necropolitica«Fenomeni come il securitarismo, il razzismo la militarizzazione dei territori e dei confini, la deportazione forzata non sono qualcosa di esterno o un mero limite sovrano della "governamentalità neoliberale", ma dispositivi al centro stesso di tale tecnologia di governo». ilmanifesto, 6 dicembre 2016 (c.m.c.)

Tra le «geografie della crisi» che l’Europa ci sta riconsegnando da due anni ve n’è una di particolare interesse. Questa geografia della crisi è andata materializzandosi a partire dal suo addensamento in alcuni specifici «punti nodali»: identificare la sua costituzione materiale – gli snodi e i rapporti che ne disegnano un suo particolare contorno – può essere un buon primo passo per aggiornare un discorso postcoloniale sull’Europa di oggi. I contorni di questa geografia ce li danno, come sempre, alcuni nomi: Atene, Lesvos, Calais, Ventimiglia, Lampedusa, Idomeni, Parigi, Bruxelles, Molenbeek, Como, Brennero, ma anche Brexit, Siria, Turchia e Libia.

Questa singolare geografia pone l’Europa di fronte alla sua crisi, ma anche di fronte alle sue guerre. Guerra ai migranti e ai richiedenti asilo; ma anche guerra dichiarata ai «post-migranti» o europei «bi-nazionali» (postcoloniali), ai figli di decenni di una gestione razzista delle proprie popolazioni. Questa geografia della crisi, costruita dal regime di significazione politico-mediatico come «crisi dei rifugiati», ci parla di un’Europa in preda a un «delirio securitario» sempre più «manicheo», per riprendere qui la nota espressione di Fanon.

La furia di alcune immagini e discorsi possono aiutarci ad afferrare l’entità e la qualità mortifera di questo delirio: treni fermi alle frontiere; repressione, caccia violenta e deportazioni di migranti e rifugiati accampati in diverse «giungle» (prima Ventimiglia, più di recente Calais e ora anche Parigi); proliferazione dell’approccio hotspot alle migrazioni; innalzamento di muri lungo i confini; missione militare Eunavfor nel Mediterraneo; accordo con la Turchia per la deportazione di profughi; prolungamento dello stato d’emergenza e richiesta di revoca della nazionalità ai «condannati» per terrorismo (la deriva Hollande); confisca dei beni ai rifugiati (approvata dal parlamento danese); sfruttamento come forza lavoro a basso costo di rifugiati (misura in vigore in Germania e anche in Italia).

È in questo contesto di evidente «decomposizione dell’Europa» che può essere di grande utilità un testo come Necropolitica di Achille Mbembe. Pubblicato di recente da ombre corte (pp. 107, euro 10), e corredato da un suggestivo saggio di Roberto Beneduce, Necropolitica è uno dei più noti scritti di Mbembe. Il testo, interrogandosi sul ritorno delle «politiche di morte» al centro dello scenario politico contemporaneo, ha come punto di partenza una domanda ben precisa: che ruolo hanno avuto razza e razzismo nello sviluppo delle diverse forme di sovranità moderna?

Attraverso il concetto di necropolitica Mbembe cerca di rielaborare alcuni aspetti abbozzati dal lavoro di Foucault sul rapporto tra razzismo, modernità, colonialismo e sovranità, ma lasciati in secondo piano sia dalla sua opera complessiva, sia da una buona parte della letteratura foucaultiana. E tuttavia, ci sembrano aspetti fondamentali per comprendere più efficacemente i processi attuali di gerarchizzazione della cittadinanza, ma anche ciò che possiamo chiamare la «condizione postcoloniale europea».

L’assuto di partenza di Mbembe è che la modernità è all’origine di diversi tipi di «sovranità», ma soprattutto che la necropolitica – come specifica «tecnologia di governo» – è uno dei prodotti dell’incontro della sovranità moderna occidentale con le popolazioni coloniali; la necropolitica, come dispositivo di produzione della popolazione, è dunque il risultato dell’intreccio tra «sovranità» e «razza». Si può già evincere qui un’importante differenza tra l’approccio di Mbembe e quello, per esempio, di autori come Wendy Brown o Agamben, le cui prospettive non concepiscono alcuna colonialità interna alla sovranità.

Mbembe, invece, insiste sul fatto che «vi sono alcune figure della sovranità moderna» il cui fine ultimo non era la creazione di una comunità politica, bensì la strumentalizzazione dell’esistenza umana e la distruzione materiale di certi corpi e di certe popolazioni; e queste figure della sovranità non erano mosse dalla sragione, dalla follia o dal mero istinto, ma dalla stessa logica civilizzatrice occidentale. Le colonie, infatti, non erano soltanto il luogo per antonomasia in cui la sovranità consisteva nell’esercizio del potere al di là della legge, ovvero in cui lo stato d’eccezione è chiaramente la regola, ma erano spazi in cui la violenza dello stato d’eccezione operava al servizio della civiltà.

Per Mbmbe, dunque, il necropotere sta a significare l’esercizio della sovranità negli spazi coloniali, dove una parte della popolazione viene a possedere sempre di più lo status di morti-viventi (gli zombies di Fanon). È così che la necropolitica andrà sempre di più materializzandosi in questi contesti come un sistema di governo incentrato, non tanto sulla produzione di vita, ma sulla produzione di terrore, violenza e morte (fisica, ma anche sociale) presso una parte della popolazione ma in quanto condizione minima dell’intera produttività (biopolitica) sociale.

In breve: Mbembe ci chiede di pensare qui la necropolitica come una sorta di «rovescio costitutivo» delle tecnologie liberali (biopolitiche) occidentali di governo. È importante ricordare che per Mbembe la necropolitica, proiettando il discorso della razza sulla società, non produce semplicemente segmentazione, ma finisce per separare l’umanità, ovvero per produrre mondi di «reciproca esclusività». Necropolitica e biopolitica sono quindi alla base della costituzione di società o territori striati e anche duali.

Infine,la dimensione necropolitica del potere tende a iscrivere costantemente i corpi nell’ordinamento di un’economia imperniata sul massacro (guerra, violenza, repressione, incarcerazione sono i suoi principali strumenti). Per questo, conclude Mbembe, a partire dal Gilroy di The Black Atlantic, nei contesti dominati dal «necropotere» – e qui Mbembe ha in mente la piantagione, il ghetto della città coloniale, i campi profughi in molti paesi dell’Africa, il Sudafrica dell’Apartheid, la Palestina di oggi – la morte può essere vista come una liberazione dal terrore, dalla schiavitù e dal razzismo. In breve: il desiderio di morte appare in questi contesti un prodotto diretto delle condizioni di materiali di vita, di sofferenza e di sfruttamento dei soggetti. Fanon ha descritto in modo esauriente gli effetti di cosificazione e di de-soggettivazione (di morte sociale) prodotti dal razzismo.

A noi pare che il ragionamento di Mbembe, con le dovute cautele, possa essere esteso a quanto sta succedendo in alcune zone d’Europa. Inoltre, come si sostiene nel saggio di Roberto Beneduce, è difficile non pensare le necropolitiche contemporanee – da una parte e dall’altra – coma una sorta di nemesi della necropolitiche coloniali europee.

Il richiamo di Mbembe alla dimensione «necropolitica» come rovescio storico della «biopolitica» può essere di fondamentale importanza per correggere (o decolonizzare) un certo tipo di studi «foucaultiani» sulla «governamentalità neoliberale», che tendono a concepire la razionalità alla base di questa tecnologia di governo come esclusivamente incentrata sulla messa al lavoro della vita, ovvero sulla produzione di libertà, di laissez-faire, di sicurezza e di tutte le altre condizioni ottimali al «libero» concatenarsi della concorrenza e dell’auto-imprenditorialità presso ogni popolazione. Il discorso di Mbembe, infatti, non pone l’accento sulla necropolitica come «limite sovrano» della tecnologia di governo biopolitica, bensì sull’intrinseca interdipendenza dei processi (governamentali) «biopolitici» da quelli «necropolitici».

È così che il lavoro di Mbembe ci consente di guardare diversamente anche all’attuale crisi dell’Europa. Da questa prospettiva, i processi di gerarchizzazione della cittadinanza alla base dell’attuale logica neoliberale/ordoliberale di accumulazione appaiono come il prodotto di un duplice dispositivo di governo (biopolitico-necropolitico), in cui la messa al lavoro della vita, la produzione di libertà, di concorrenza, di auto-imprenditorialità e la gestione umanitaria di una parte della popolazione non solo sono intrinsecamente connessi, bensì appaiono del tutto dipendenti dalla segregazione, dal disciplinamento, dallo sfruttamento servile, dall’incarcerazione e dalla morte (fisica e sociale) di un’altra.

Fenomeni come il securitarismo, il razzismo (istituzionale e poliziesco) la militarizzazione dei territori e dei confini, la deportazione forzata non sono qualcosa di esterno o un mero «limite sovrano» della «governamentalità neoliberale», ma dispositivi al centro stesso di tale tecnologia di governo. Seguendo il ragionamento di Mbembe, dunque, il lato necropolitico dell’Europa non è qualcosa di estraneo alla logica di comando della UE. Più che di crisi dell’Europa sarebbe forse più opportuno parlare di Europa nella crisi. È nella morsa della crisi economica che l’Europa, questa Europa, ci mostra il suo lato (costitutivo) più oscuro.

«Commento al libro di Johan Rockström e Mattias Klum

Grande mondo, piccolo pianeta. La prosperità entro i confini planetari». Casa della cultura, Milano, online, 18 novembre 2016 (c.m.c.)

Il libro di Johan Rockström e Mattias Klum, Grande mondo, piccolo pianeta (sottotitolo: La prosperità entro i confini planetari, Edizioni Ambiente, 2015), nelle sue 219 pagine porta un contributo alla tesi che il progresso tecnico e la crescita economica comportano, sì, problemi ambientali locali e planetari ma che loro stessi sono in grado di attenuare e risolvere.

Già nella metà dell'Ottocento l'americano George Marsh aveva parlato dell'uomo come "modificatore" della natura ma, senza tornare troppo indietro nel tempo, si può dire che l'attenzione per gli effetti negativi delle attività umane sulla natura e l'ambiente cominci negli anni Sessanta del secolo scorso: un periodo di grande e rapido sviluppo economico e tecnologico dei paesi industrializzati - Unione Sovietica compresa - mentre nei paesi poveri stavano crescendo i movimenti di liberazione dai domini coloniali e la volontà di trarre beneficio, per i rispettivi popoli, dalle risorse naturali (minerali, fonti di energia, prodotti agricoli e forestali) che fino allora erano stati sfruttati da paesi e società stranieri.

Violenza e sfruttamento si manifestavano anche nei confronti della Natura (con la enne maiuscola): le esplosioni sperimentali delle bombe nucleari stavano diffondendo polveri radioattive su tutto il pianeta; il crescente uso di pesticidi per aumentare la produzione agricola spargeva sostanze tossiche fra i viventi, vegetali, animali, compreso l'"animale uomo"; la crescente produzione di merci della società dei consumi si traduceva in una altrettanto crescente produzione di agenti inquinanti da parte delle fabbriche e delle stesse, sempre più estese, città; nuove sostanze chimiche e armi erano usate, nella guerra del Vietnam e nelle tante guerre e guerriglie, contro la popolazione civile.

Negli stessi anni le fotografie della Terra scattate dai satelliti artificiali mostravano che questa grande e bella sfera era ricca di acqua e foreste, ma era limitata, l'unica nostra casa nello spazio da cui trarre materie utili alla vita e in cui mettere le scorie delle attività umane. Prima negli Stati Uniti, poi in Europa, si diffusero così due parole sovversive: limite e ecologia; proprio quel Kenneth Boulding - che il libro di critica fin dalle prime pagine - aveva contribuito a diffondere, nella metà degli anni sessanta, l'idea che dobbiamo vivere sul nostro pianeta come gli astronauti in una capsula spaziale, "Spaceship Earth", perché solo da questa Terra possiamo trarre i beni per la vita e solo in essa possiamo rigettare i nostri rifiuti.

Nel corso di pochi anni fra il 1965 e il 1972 si sono moltiplicati libri e articoli che mettevano in guardia circa la strada imboccata dall'umanità, fino al libro più sovversivo di tutti, apparso nel 1972 - The Limits to Growth di Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows; Jørgen Randers e William W. Behrens - che in poche pagine invitava l'umanità a porre "limiti alla crescita" della popolazione e della produzione industriale di merci, se si volevano evitare prevedibili crisi economiche, ecologiche e sociali come guerre e malattie.

Ben presto il potere economico capì che questo modo di ragionare avrebbe disturbato il mondo degli affari fondato proprio sulla crescita delle merci e del denaro e passò al contrattacco. Alcuni importanti economisti accademici, come l'inglese Wilfred Beckerman, spiegarono che mai la crescita economica avrebbe potuto comportare nuovi danni ambientali, anzi che solo la crescita avrebbe potuto risolverli. Altri sostennero che una limitazione della crescita economica avrebbe danneggiato i paesi più poveri che, al contrario, avrebbero potuto uscire dalla loro condizione di miseria soltanto se avessero potuto disporre di più merci e beni materiali. Altri ancora, invece, come Colin Clark, si sforzarono di riportare il mondo alla ragionevolezza dimostrando, dati alla mano, che le risorse della Terra sarebbero state sufficienti a sfamare fino a 40 miliardi di persone (allora la popolazione mondiale era di meno di 4 miliardi).

Una svolta importante si ebbe nel 1987 quando fu pubblicato il rapporto intitolato Il futuro di tutti noi elaborato da una commissione di studiosi, economisti e politici - la World Commission on Environment and Development, WCED - coordinati dalla ministra svedese Gro Harlem Brundtland. Nel rapporto si sosteneva che è vero che esistono problemi ambientali associati alla crescita dell'economia e della produzione agricola e industriale ma che, con opportuni accorgimenti finanziari e scientifici, sarebbe stato possibile raggiungere un futuro "sostenibile". "Sostenibile" - il contrario di insostenibile, insopportabile, che non può durare a lungo - divenne così la bandiera di un vasto movimento destinato ad arginare le proposte di decrescita, tanto che la Conferenza delle Nazioni Unite che si tenne a Rio de Janeiro nel 1992, a venti anni da quella precedente sull'Ambiente umano, scelse proprio come tema quello dell'Ambiente sostenibile.

Ormai il concetto di sostenibilità è stato adottato anche da molti movimenti ambientalisti, dai governi, dalle imprese, per cui l'aggettivo sostenibile è oggi tranquillizzante garanzia di un futuro di progresso, sviluppo, crescita e benessere. Esso accompagna anche prodotti, comportamenti e merci come garanzia del loro carattere ecologico.

Esiste un gran numero di libri, riviste, conferenze, programmi politici e cattedre universitarie che spiegano la sostenibilità degli affari umani, anche in anni di crisi questi primi due decenni del XXI secolo. A questo punto non resta che vedere se e come è possibile risolvere in maniera sostenibile le principali contraddizioni ambientali e sociali con cui stiamo facendo i conti. Un aiuto viene dal libro che citavo all'inizio. Come spiega la "Prefazione", esso è diviso in tre parti. La prima elenca le sfide ambientali; la seconda spiega che si può avere insieme prosperità e maggiore giustizia fra gli abitanti della Terra e fra le generazioni nel rispetto delle dimensioni, "piccole", come dice il titolo, del pianeta; e la terza elenca varie soluzioni tecniche già sperimentate e che funzionano, all'insegna della "resilienza", cioè della capacità di adattamento e di correzione in funzione dei mutamenti ambientali. Sono queste soluzioni che meritano una analisi più dettagliata.

La possibilità di muovere a grandi distanze e velocemente persone e cose è stata una delle grandi conquiste del XX secolo. L'invenzione del motore a scoppio, i perfezionamenti della raffinazione del petrolio, i progressi nei trasporti terrestri con autoveicoli e camion hanno modificato le città e tutta l'economia mondiale. Oggi gli autoveicoli che percorrono le strade del mondo sono oltre un miliardo. Col passare del tempo si è però visto che i comodi rapidi e continui cambiamenti di velocità, consentiti dal motore a scoppio, sono accompagnati da una combustione parziale della benzina e del gasolio con conseguenti emissioni di gas inquinanti, alcuni nocivi, che fanno sentire i loro effetti soprattutto negli spazi urbani.

Inoltre, si è osservato che i trasporti assorbono una rilevante frazione, circa il trenta percento, dei consumi totali di derivati del petrolio. Per passare a trasporti sostenibili, le case automobilistiche si sono impegnate nella produzione di motori che usano meno carburante e inquinano di meno per ogni chilometro percorso, anche per adeguarsi a limiti sempre più severi imposti da molti stati europei. Un contributo importante alla diminuzione dell'inquinamento dovuto al traffico automobilistico è stato dato dall'introduzione delle marmitte catalitiche capaci di trasformare i composti del carbonio in anidride carbonica e gli ossidi di azoto in azoto gassoso.

Se proprio occorre spostarsi in automobile, è possibile diminuire i consumi di carburante e l'inquinamento facendo in modo che più persone che fanno lo stesso percorso utilizzino un solo autoveicolo: si tratta del cosiddetto car-sharing già incoraggiato da molte aziende ed uffici o autonomamente organizzato fra colleghi o conoscenti che quotidianamente percorrono lo stesso tratto di strada. Tuttavia, le maggiori speranze sono riposte nella transizione verso automobili elettriche. I successi sono rapidissimi: alcune case automobilistiche hanno già messo in commercio veicoli dotati di batterie che possono essere ricaricate in stazioni poste lungo le strade o addirittura dalla rete elettrica domestica.

Nell'attesa che questo sistema si consolidi e diffonda, gli autoveicoli con motori a scoppio potrebbero essere alimentati con carburanti diversi da quelli petroliferi, per esempio derivati dalla biomassa come l'alcol etilico, il cosiddetto bioetanolo, ottenibile da sottoprodotti agricoli o da piante non alimentari, o gli esteri degli acidi grassi chiamati biodiesel, anche questi ottenibili da grassi non alimentari o di scarto.

Il problema della mobilità è strettamente legato a quello delle città che saranno in futuro sempre più grandi e sempre più affollate ma che possono essere riprogettate con spazi verdi e ricreativi e strade adeguate alla mobilità dei mezzi di trasporto sia privati sia pubblici. Dove possibile, come sta avvenendo in diversi contesti, andrebbero previsti anche percorsi riservati alla mobilità in bicicletta: questo sarebbe un modo semplice e al tempo stesso importante per diminuire i consumi di energia e l'inquinamento. Oltre a ciò è necessario considerare che la città ha un suo metabolismo: tutti i materiali - cibo, acqua, merci - che entrano nella città ne escono, dopo un tempo più o meno breve, sotto forma di rifiuti gassosi, liquidi e solidi.

Per lo smaltimento di questi ultimi - in molte metropoli si arriva a mezza tonnellata di rifiuti solidi urbani all'anno per abitante - diventa sempre più difficile trovare spazi e tecnologie che non provochino inquinamenti. Per rendere le città sostenibili sarebbe necessario adottare tecniche per il riciclo di tutto quanto è possibile: carta, vetro, metalli, separarti dai rifiuti, sono già materie "seconde" per molti cicli produttivi e se ne possono ricavare nuove merci con minore consumo di energia e riducendo l'estrazione di materie prime dalla natura.

Maggiori difficoltà, se non si mettono in campo politiche per il riciclo, si hanno con i rifiuti di plastica, difficilmente decomponibili da parte dei microrganismi, i grandi riciclatori naturali di quasi tutta la materia. Molti sforzi sono fatti per arrivare a oggetti di plastica che siano biodegradabili partendo da materie vegetali attraverso il contributo di una chimica "verde", ma il problema rimane aperto e interessa in particolare gli shoppers, i sacchetti per il trasporto delle merci dal negozio a casa: solo in Italia vengono usati 20 miliardi di sacchetti all'anno, spesso dispersi nell'ambiente.

Cibo e acqua sono beni essenziali per la popolazione umana in continua crescita. Per evitare l'estensione delle terre coltivabili - che comporta perdita di biodiversità e sottrazione di spazi indispensabili per le popolazioni locali - è possibile aumentare la resa produttiva per ettaro con un uso più razionale dei concimi, evitando cioè che il loro uso eccessivo provochi alterazioni degli ecosistemi.

Anche le tecniche di aratura possono essere perfezionate in modo da evitare la distruzione degli strati superficiali di fertile humus. L'irrigazione, che assorbe circa il 70% di tutta l'acqua utilizzata nel mondo, può essere effettuata con molta meno acqua. La riflessione sulla sostenibilità va poi estesa ai tipi di alimentazione. Spesso le carenze alimentari sono dovute a mancanza di proteine di elevata qualità, come quelle degli alimenti di origine animale, mentre molte proteine vegetali, soprattutto dei cereali, sono povere di amminoacidi essenziali. L'allevamento del bestiame da carne e latte comporta però un elevato consumo di prodotti agricoli sottratti all'alimentazione umana.

Proteine con buona composizione di amminoacidi sono contenute nelle leguminose, le piante capaci anche di fissare l'azoto atmosferico e di crescere senza bisogno di concimi azotati artificiali. Una migliore conoscenza e una maggiore diffusione dei legumi - una volta chiamati "la carne dei poveri" - aiuterebbe a migliorare l'alimentazione di molta parte della popolazione umana. Grandi progressi nella disponibilità di alimenti per i paesi poveri e le classi più disagiate dei paesi industrializzati potrebbero essere realizzati attraverso la lotta agli sprechi nella lunga catena che va dai campi, alle industrie di trasformazione, alla distribuzione nei negozi, alle famiglie. Si calcola che ogni anno vada perduto oltre un miliardo di tonnellate di prodotti che potrebbe essere destinato all'alimentazione umana.

Forse il più delicato dei problemi ambientali che abbiamo di fronte riguarda i mutamenti climatici provocati da un lento inarrestabile riscaldamento dell'intero pianeta Terra. Tutte le attività umane, il metabolismo delle persone, degli animali e delle fabbriche, libera nell'atmosfera gas che vanno dall'anidride carbonica, prodotta dalla combustione dei combustibili fossili in ragione di oltre 30 miliardi di tonnellate all'anno, al metano liberato dagli animali da allevamento e dalla decomposizione dei rifiuti organici, ad altri gas di origine industriale, complessivamente indicati come "gas climalteranti" o "gas serra": la loro crescente presenza trasforma l'atmosfera in una specie di barriera che trattiene il calore solare come fa il vetro di una serra.

L'aumento della loro concentrazione nell'atmosfera influenza il bilancio fra la radiazione solare visibile che arriva sulla superficie della Terra e la radiazione infrarossa che la Terra riemette verso il cielo, un equilibrio che finora ha consentito di conservare la temperatura "media" del pianeta intorno a circa 15 gradi Celsius. Da mezzo secolo un aumento di tale temperatura, per ora valutabile in circa un grado Celsius, sta provocando in alcune zone del pianeta piogge intense e improvvise intercalate da periodi di siccità; in altre l'avanzata dei deserti e siccità; in altre ancora la fusione di una parte dei ghiacci polari e di alta montagna e un conseguente lento aumento del livello degli oceani per ora stimabile di alcuni millimetri all'anno. All'effetto serra contribuisce anche la progressiva distruzione delle foreste per estrarre minerali e per espandere coltivazioni commerciali.

Al problema del riscaldamento planetario e a un minore uso dei combustibili fossili si potrebbe far fronte con strumenti fiscali - come una tassa applicata a chi usa tali combustibili - o tecnologici - come la diffusione di impianti fotovoltaici che producono elettricità dal sole, con centrali termoelettriche azionate dal vapore prodotto concentrando la radiazione solare mediante specchi su adatte caldaie, con pale tenute in moto dall'energia del vento, con centrali idroelettriche che utilizzano la forza delle acque in movimento: tutte fonti "pulite" e continuamente rinnovabili -. E magari - perché no? - con centrali nucleari. Si è già accennato che anche la parte dei prodotti petroliferi richiesti dai trasporti terrestri può essere sostituita da carburanti liquidi ricavati dalla biomassa.

Il libro di Rockström e Klum contiene molti altri esempi di soluzioni tecniche e di proposte innovative sostenibili, qua e là realizzate concretamente e con successo: porta dunque un messaggio di speranza e di ottimismo sul futuro dell'umanità con "illimitate opportunità di abbondanza", in marcia verso l'obiettivo del "triplo zero: zero emissioni, zero perdita di biodiversità, zero espansione dei terreni agricoli". Alla fine della lettura del libro restano però alcuni dubbi. Purtroppo la natura non fa sconti a nessuno. Ogni attività umana, sia pure virtuosa e apparentemente sostenibile, non fa altro che prelevare materie dalle riserve, grandi ma non illimitate della natura, trasformarle in cose utili, la cui massa è inferiore a quella delle materie prelevate. Inoltre, tanto gli scarti della trasformazione, tanto le cose utili, dopo l'uso, ritornano nell'ambiente naturale in forma di scorie e rifiuti.

Questi possono in parte essere trasformati in altre cose utili, ma in quantità inferiore e di qualità peggiore rispetto a quella delle materie originali. Insomma non esiste nessun "zero rifiuti" e si ha una continua perdita di risorse naturali e un continuo peggioramento della qualità delle risorse disponibili, compresa la perdita di fertilità dei terreni agricoli. Questo terribile vincolo è imposto dalle leggi della termodinamica e della conservazione della massa. Le "opportunità di abbondanza", promesse dal libro in realtà non sono "illimitate" e col limite ci si scontrerà tanto più presto quanto maggiore e rapida sarà la corsa verso tale abbondanza.

Quindi se ci sta a cuore assicurare i beni essenziali - cibo, acqua, salute, istruzione, dignità - a tutti, comprese le persone delle classi più disagiate dei paesi ricchi e quelle dei paesi poveri, in un pianeta i cui abitanti aumentano ancora oggi di sessanta milioni all'anno, bisognerà giocoforza passare dal mito dell'abbondanza a quello dell'abbastanza. Anche così le attività umane continueranno a impoverire le risorse della natura e a contaminare tali risorse con le loro scorie ma, almeno, ciò avverà più lentamente.

Ogni accelerazione del cammino sulla via dell'abbondanza comporta l'impoverimento, oltre che della natura, di "qualcuno", il che provoca inevitabilmente conflitti, malattie, rivendicazioni, migrazioni. È lo scenario che abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni, sotto i lustrini del lusso, le luci sfolgoranti, le promesse della pubblicità: con buona pace dei libri come quello di cui si è parlato. So che, di questi tempi, citare il pensiero espresso da Papa Francesco nell'enciclica Laudato si' è considerato da taluni politicamente poco corretto. Tuttavia il modesto autore di queste note - per quel poco che ha studiato in molti decenni sui rapporti fra attività umane e modificazioni ambientali - ritiene che il Papa, quando mette in guardia nei confronti dei nostri modi di produzione e di consumo, abbia proprio ragione.

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